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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di DICEMBRE 2016

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aggiornamento al 14.12.2016

aggiornamento al 09.12.2016

aggiornamento al 06.12.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 14.12.2016

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, Scia contestabile ma solo entro 30 giorni. Il Tar Marche: per interesse pubblico autotutela entro 18 mesi.
Nuovi limiti per l'impugnazione della Scia in edilizia. Alla luce dei nuovi dettami normativi la documentazione della Scia può essere contestata entro 30 giorni. Per motivi di interesse pubblico il termine per agire in autotutela è di 18 mesi.

Questo è quanto si legge nella sentenza 07.10.2016 n. 546 del TAR Marche in merito alle tempistiche per l'impugnativa della segnalazione certificata di inizio attività.
IL FATTO: venivano realizzati su un appezzamento terriero degli immobili abusivi, realizzati con Scia. Il confinante del soggetto che aveva fatto i lavori sosteneva che il comune dovesse procedere all'accertamento degli abusi ed esercitare i suoi poteri repressivi.
I giudici, dopo aver accertato che il comune aveva agito secondo le regole e che gli interventi erano legittimi , ha spiegato che, in base alle regole vigenti, erano scaduti i termini per eventuali azioni. I giudici del Consiglio di stato hanno ricordato che, in base all'articolo 19, comma 3, della legge n. 241/1990, il comune ha 30 giorni per fermare l'attività intrapresa dopo il deposito della Scia se gli interventi non rispettano quanto dichiarato nei documenti.
La Scia, sottolinea palazzo Spada, è un atto privato perché riguarda attività liberalizzate, quindi non è possibile l'impugnativa diretta. A fronte di una Scia ritenuta illegittima, quindi, i controinteressati possono solamente sollecitare l'esercizio dei poteri di controllo da parte dell'amministrazione competente, la quale è tenuta a compiere le verifiche necessarie al fine di accertare la legittimità dell'attività o dell'intervento oggetto di denuncia o segnalazione (art. 19, comma 6-ter, legge n. 241/1990).
In altri termini, in base alla normativa vigente, tre le ipotesi possibili, a fronte di una segnalazione certificata di inizio attività rispetto alla quale è decorso il termine per l'esercizio, da parte dell'amministrazione, dei poteri inibitori «ordinari»: esercizio di poteri di autotutela, esercizio di poteri sanzionatori per dichiarazioni mendaci ed esercizio dei poteri di vigilanza e inibitori in materia urbanistica.
Il potere di autotutela deve intendersi come potere sui generis, in quanto si differenzia dalla consueta autotutela decisoria, non implicando un'attività di secondo grado insistente su un precedente provvedimento amministrativo, e pur condividendo, con l'autotutela classica, i presupposti e il procedimento. In particolare, il ricorso all'autotutela (mediante annullamento d'ufficio), sia classica sia sui generis, può avvenire solamente in presenza delle condizioni di cui all'articolo 21-nonies della legge n. 241/1990 , ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce delle modifiche introdotte dal decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, sussiste uno sbarramento temporale all'esercizio del potere di autotutela, fissato in «18 mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici» (articolo ItaliaOggi del 14.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
III.1. Ciò posto, reputa il Collegio che non sussiste alcun silenzio inadempimento dell’Amministrazione rispetto alla diffida del 27.11.2015, sia perché il Comune ha ragionevolmente argomentato i motivi del proprio diniego nella citata nota prot. 36505 del 21.12.2015, sia perché quest’ultima non costituisce violazione o elusione dell’obbligo di provvedere nel senso prospettato dal ricorrente e ciò per le seguenti ragioni.
- Occorre in primo luogo precisare che con tale ultima diffida il ricorrente ha richiesto all’Amministrazione, per le opere indicate nelle segnalazioni/denunce n. 258/2013 e n. 167/2014, l’esercizio dei poteri inibitori ex art. 19, commi 3, 4, 6-bis della legge n. 241/1990, nonché di autotutela ex art. 21-nonies della medesima legge, previe le opportune e necessarie verifiche e imponendo, altresì, l’attuazione dell’ordinanza dirigenziale n. 43442 del 10.12.2008; entro tali limiti, pertanto, va accertata la sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo al Comune di Osimo.
- Come è noto,
la nuova formulazione dell’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990, pur prevedendo un regime dei poteri di intervento dell’autorità pubblica modificato rispetto al passato, conferma il potere dell’Amministrazione di inibire motivatamente l’attività intrapresa con SCIA e rimuovere gli effetti dannosi in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1 del medesimo articolo, il tutto entro sessanta giorni (trenta in materia edilizia).
Ciò che cambia è la natura di atto privato della segnalazione certificata di inizio di attività, trattandosi di attività ormai liberalizzata, dal che consegue l’affermazione circa la “non impugnabilità” diretta della SCIA (art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/1990). A fronte di una SCIA ritenuta illegittima, quindi, i controinteressati possono solamente sollecitare l’esercizio dei poteri di controllo da parte dell’Amministrazione competente, la quale è tenuta a compiere le verifiche necessarie al fine di accertare la legittimità dell’attività o dell’intervento oggetto di denuncia o segnalazione (art. 19, comma 6-ter, cit.).
Inoltre, “decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies” (art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990).

In altri termini,
in base alla normativa vigente, sono tre le ipotesi possibili, a fronte di una segnalazione certificata di inizio di attività rispetto alla quale è decorso il termine per l’esercizio, da parte dell’Amministrazione, dei poteri inibitori “ordinari”: esercizio di poteri di autotutela (art. 21-nonies della legge n. 241/1990); esercizio di poteri sanzionatori per dichiarazioni mendaci (art. 19, comma 3, seconda parte e art. 21, comma 1, della legge n. 241/1990); esercizio dei poteri di vigilanza e inibitori in materia urbanistica (art. 19, comma 6-bis, e art. 21, comma 2, della legge n. 241/1990).
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Il potere di autotutela previsto dall’art. 19, comma 4 cit. deve intendersi come potere sui generis, in quanto si differenzia dalla consueta autotutela decisoria, non implicando un’attività di secondo grado insistente su un precedente provvedimento amministrativo, e pur condividendo, con l’autotutela classica, i presupposti e il procedimento (TAR Bolzano-Trentino-Alto Adige, sez. I, 18.07.2016, n. 233; TAR Firenze–Toscana, sez. III, 08.06.2016, n. 960).
In particolare,
il ricorso all’autotutela (mediante annullamento d’ufficio) -sia classica che sui generis- può avvenire solamente in presenza delle condizioni di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce delle modifiche introdotte dal decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164,
sussiste uno sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, fissato in “diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”. Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire che, pur se tale norma non sia applicabile ratione temporis, in ogni caso, essa rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti (Consiglio di Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625 e 31.08.2016, n. 3762).
-
Oltre ai limiti legislativamente fissati, il ricorso all’autotutela incontra l’ulteriore limite della discrezionalità amministrativa.
Anche a seguito della riforma dell’art. 19 della legge n. 241/1990, le regole cui è assoggettato il potere amministrativo di controllo e di inibizione-conformazione, decorsi sessanta (o trenta) giorni dalla presentazione della SCIA, sono sempre e comunque quelle di cui al primo comma dell’art. 21-nonies; ciò in quanto il potere inibitorio originario è comunque esaurito per decorso del termine di legge, sicché detto potere -sia che riviva per effetto dell’autonoma iniziativa dell’Amministrazione, sia che riviva per effetto dell’azione sollecitatoria del terzo e, quindi, del giudice amministrativo- resta nella sfera di disponibilità dell’Amministrazione solo a particolari condizioni (TAR Napoli-Campania, sez. IV, 05.04.2016, n. 1658).
- Facendo applicazione, al caso in esame, dei suesposti principi, se ne ricava l’infondatezza delle censure con cui il ricorrente lamenta l’elusione dell’obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 con riferimento alla nota prot. 36505 del 21.12.2015, dal momento che tale obbligo, per i motivi innanzi detti, non sussiste in capo all’Amministrazione e può essere esercitato solo in presenza di determinate condizioni.
- Non può dirsi neppure che il Comune di Osimo abbia violato o eluso l’obbligo di provvedere rispetto all’esercizio dei poteri inibitori sine die previsti per il caso di dichiarazioni false o mendaci oppure rispetto all’esercizio dei poteri sanzionatori conseguenti alla vigilanza sull’attività edilizia, di cui all’art. 21, comma 2, della legge n. 241/1990.
Si osserva, infatti, che le incompletezze e le incongruità segnalate dal ricorrente nella diffida del 27.11.2015 rispetto alle segnalazioni n. 258/2013 e n. 167/2014 non sono tali da determinare una falsa rappresentazione della realtà o da trarre in inganno l’Amministrazione; quest’ultima, invece, da un semplice raffronto tra la documentazione già in suo possesso e la documentazione allegata alle segnalazioni certificate di inizio attività di cui si discute, avrebbe potuto agevolmente cogliere sin nei primi trenta giorni dalla loro presentazione, le lamentate difformità e omissioni, tanto più che esse attengono, per lo più, a profili di tipo formale o documentale.
In particolare, le asserite incompletezze relative alla SCIA n. 258/2013 potevano essere riscontrate dal raffronto tra la tavola n. 3 allegata alla domanda di permesso di costruire n. 42/2007 e la tavola unica allegata alla stessa SCIA n. 258/2013, entrambe in possesso dell’Amministrazione.
Analogamente, le incompletezze rilevate dal ricorrente riguardo alla SCIA n. 167/2014 sono relative all’omessa menzione di atti anch’essi già in possesso dell’Amministrazione o addirittura adottati dallo stesso Comune di Osimo, nonché di prescrizioni edilizie e regolamentari la cui eventuale violazione poteva essere comunque verificata dall’Ente sulla base della documentazione prodotta; del pari, l’omessa indicazione, nella tavola unica allegata alla suddetta SCIA n. 167/2014, della distanza del fabbricato dalla strada privata, era verificabile dal Comune, in quanto già indicata nella tavola unica allegata alla SCIA n. 258/2013.
Né il ricorrente, nella propria diffida, ha allegato atti, fatti o circostanze ulteriori su cui l’Amministrazione avrebbe potuto aprire una nuova istruttoria, essendosi limitato a riproporre le medesime questioni su cui già più volte il Comune di Osimo aveva provveduto a dare risposta e fatte oggetto di precedenti contenziosi.
III.2. In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto.

UTILITA'

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATARiscaldamento nei condomini. Le nuove regole di termoregolazione e contabilizzazione (articolo ItaliaOggi Sette del 17.10.2016).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCARICHI PROFESSIONALI: U. Fantigrossi, Pa e mandati difensivi, il “vicolo cieco” del ricorso alla gara (Guida al Diritto n. 48 - 26.11.2016 - tratto da www.unioneamministrativisti.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: D. de Paolis, La realizzazione delle opere di urbanizzazione nel D Leg.vo 50/2016 (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 7-8/2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E. Robaldo, La realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo nel nuovo codice (Urbanistica e appalti n. 7/2016).
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L’articolo analizza il tema delle modifiche introdotte dal nuovo codice alle modalità di affidamento dei lavori aventi ad oggetto le opere di urbanizzazione a scomputo, nonché esamina l’introduzione della specifica disciplina per la realizzazione di un’opera pubblica a cura e spese di un soggetto privato, soffermandosi, in particolare, sul caso delle opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia che dovranno essere affidate mediante la procedure ordinarie (procedura aperta o procedura ristretta) a differenza di quanto avveniva in precedenza (procedura negoziata con invito a cinque operatori) e sulla nuova figura dell’opera pubblica realizzata a spese del privato.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: A. Mancini, Gli obblighi del committente nei cantieri edili: nomina coordinatore, notifica preliminare e verifiche varie (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 5/2016).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHELa Sezione ritiene che l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 si applichi a tutte e tre le tipologie di contratti pubblici di appalti: lavori, servizi e forniture.
Le considerazioni sulla quali si fonda la soluzione positiva del quesito in esame risiedono essenzialmente nella circostanza che
se la ratio della disposizione legislativa di cui all’art. 113 d.lgs. 50/2016 e del criterio direttivo di delega deve essere individuata nella previsione di un compenso incentivante per stimolare una più attenta gestione delle fasi della programmazione e dell’esecuzione dei contratti pubblici di appalto, il predetto emolumento può essere riconosciuto sia per gli appalti di lavori, sia per quelli di servizi e forniture, in quanto per tutte e tre le predette tipologie di contratti pubblici è prevista e disciplinata dal codice degli appalti sia la fase della programmazione (cfr. art 21 d.lgs. 50/2016) sia quella dell’esecuzione (cfr., in particolare, l’art. 101 d.lgs. 50/2016).
A tali considerazioni si aggiunga, inoltre, che
sia l’inserimento delle “verifiche di conformità”, che rappresentano le modalità di controllo dell’esecuzione dei contratti di appalto di servizi e forniture (cfr. art. 102, comma 2, d.lgs. 50/2016) nel secondo comma dell’articolo 113 tra le attività “incentivabili”, sia la menzione espressa nel comma 3 dei servizi e delle forniture, costituiscono ulteriori elementi dai quali far discendere che la voluntas legis sia stata quella di remunerare anche specifiche attività di natura tecnica (i.e. quelli elencate nell’articolo 133, comma 2, d.lgs. 50/2016) dei contratti di appalto di servizi e forniture.
In relazione all’ulteriore profilo della richiesta di parere relativo alle tipologie di servizi per i quali può essere previsto il compenso incentivante, la Sezione ritiene che debba trattarsi di servizi ricompresi nell’ambito di applicazione del codice degli appalti di cui al d.lgs. 50/2016.
A titolo esemplificativo, per i servizi relativi alla cura del patrimonio dell’ente locale deve essere richiamato l’articolo 17, comma 1, lett. a), che prevede l’esclusione delle disposizioni del codice stesso per i “servizi aventi ad oggetto l’acquisto o locazione (omissis) di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, anche i servizi finanziari “relativi all’emissione, all’acquisto, alla vendita e al trasferimento di titoli o di altri strumenti finanziari ai sensi del decreto legislativo 24.02.1998, n. 58” sono espressamente esclusi dall’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici dall’articolo 17, comma lett. e), del codice stesso.

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La Sezione ritiene che il predetto emolumento non può essere utilizzato per la remunerazione delle attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
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In ordine al richiesta di di sapere se per il compenso ex art. art. 113 d.lgs. 50/2016 possa essere confermata la deroga al tetto del salario accessorio, già riconosciuta, in via pretoria, con riferimento alla disposizione di cui all’articolo 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 (non più applicabile al 2015), da considerare in rapporto al nuovo limite introdotto dall’articolo 236 l. n. 208/2015 la Sezione ritiene che l’esclusione dell’incentivo per l’attività di progettazione ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 dal tetto di spesa per il salario accessorio di cui all’articolo 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010, riconosciuto in via pretoria nella citata deliberazione delle Sezioni riunite, non possa estendersi in via automatica a tutte le tipologie di attività elencate nel comma 2 dell’art. 113. Ciò in quanto è necessario verificare la sussistenza dei presupposti indicati dalle Sezioni riunite per poter escludere dal tetto di spesa del salario accessorio anche l’incentivo per funzioni tecniche ex art. 113 d.lgs. cit..

In particolare,
il criterio individuato dalle Sezioni riunite per stabilire se un determinato emolumento possa essere escluso dal tetto di spesa per il salario accessorio è quello di verificare se remuneri “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili” e se “le prestazioni potrebbero essere acquisite anche attraverso il ricorso a personale estraneo all’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi”.
Tutto ciò premesso,
la Sezione, rilevata la portata generale della questione di cui al punto 4.3. anche in relazione alla deliberazione delle Sezioni riunite n. 51/2011, ritiene che sarebbe utile l’adozione di una pronuncia di orientamento al fine di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 possano essere esclusi dal tetto del salario accessorio di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge stabilità 2016).
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Emilia-Romagna:
-
sospende la pronuncia e rimette gli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza in ordine al quesito sub 3) delle premesse in fatto.
In particolare,
affinché valuti la possibilità di deferire le questioni alla Sezione della autonomie, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, secondo il quale per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza in materia di attività consultiva, la citata Sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali si conformano; questo sempre che il Presidente della Corte dei conti non ritenga, invece, opportuna l’adozione, da parte delle Sezioni Riunite, di una pronuncia di orientamento generale, ai sensi dell’articolo 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102, qualora riconosca la sussistenza di un caso di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica.
---------------

Il Sindaco del Comune di Medicina (BO) ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto l’interpretazione della disposizione di cui all’articolo 113 d.lgs. 18.04.2016, n. 50 recante la nuova disciplina in materia di incentivi per funzioni tecniche.
In particolare, l’Ente chiede di conoscere se i predetti emolumenti possano essere:
   a) riconosciuti sia per gli appalti di lavori sia per quelli di servizi e forniture anche qualora questi ultimi non siano ricompresi negli stanziamenti e nei quadri economici previsti per la realizzazione dei singoli lavori e, nel caso affermativo, per i servizi di qualsiasi natura (cura patrimonio dell’Ente, servizi alla persona, finanziari e assicurativi);
   b) corrisposti nelle ipotesi di manutenzione ordinaria e/o straordinaria, fattispecie che non risultano espressamente escluse nella nuova disposizione;
   c) esclusi dal “tetto” del salario accessorio ai fini dell’applicabilità dell’articolo 1, comma 236, l n. 208/2015.
...
4. Passando al merito del quesito la Sezione osserva quanto segue.
A seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50 la disciplina in tema di compensi incentivanti è stata profondamente modificata rispetto a quella contenuta nell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 (oggi non più in vigore).
L’articolo 1, comma 1, lett. rr), della legge 28.01.2016, n. 11, contenente la delega al Governo per l’attuazione della disciplina in tema di appalti pubblici e concessioni, dettava il seguente criterio: ”al fine di incentivare l’efficienza e l’efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell’esecuzione a regola d’arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d’opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell’importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
L’articolo 113 del d.lgs. n. 50/2016, intitolato “Incentivi per funzioni tecniche”, nel dare attuazione al predetto criterio di delega, ha previsto che ”1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2
.".
Richiamate le disposizioni legislative che regolano la materia in esame (incentivi per funzioni tecniche), la Sezione rileva che il criterio direttivo di delega soprarichiamato (art. 1, comma 1, lett. rr), l. n. 11/2016) richiedeva che il compenso incentivante da poter riconoscere a particolari categorie di dipendenti pubblici dovesse riguardare determinate e specifiche attività di natura “tecnica”, non più legate alla fase propedeutica alla realizzazione di opere pubbliche, quali ad esempio la progettazione, quanto piuttosto a quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto.
Sulla base del predetto criterio di delega è stato adottato l’articolo 113 d.lgs. 50/2016 che, come già indicato, contiene la nuova disciplina in materia di cd. compensi incentivanti.
Il primo comma di tale disposizione fissa il principio secondo il quale tutti gli oneri finanziari relativi a spese inerenti la realizzazione di lavori pubblici (progettazione, direzione dei lavori o dell’esecuzione, vigilanza, collaudi tecnici e amministrativi, verifiche di conformità, collaudo statico, studi e ricerche connessi, progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento, coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del d.lgs. 81/2008) devono essere ricompresi negli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori e negli stati di previsione della spesa dei bilanci delle stazioni appaltanti.
Il secondo comma prevede che, a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione di singoli lavori, le amministrazioni pubbliche possono costituire un apposito fondo (calcolato sul 2% dell’importo dei lavori posti a base di gara) da utilizzare, sulla base della disciplina da adottare con un atto di natura regolamentare, per la remunerazione di attività di natura tecnica ivi indicate.
Il terzo ed il quarto comma prevedono la ripartizione del fondo costituito ai sensi del comma 2 nella misura dell’ottanta per cento per “ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura”, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e sulla base di un apposito regolamento adottato da ciascuna pubblica amministrazione secondo il proprio ordinamento, da riconoscere in favore del responsabile unico del procedimento, dei soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate nel comma 2 e dei loro collaboratori.
La restante misura del venti per cento, ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata, è destinata all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali ai progetti di innovazione e anche per tirocini formativi e di orientamento ai sensi dell’articolo 18 l. n. 196/1997, o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione professionale nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
4.1. Con il primo quesito il Comune chiede di conoscere se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 possa essere riconosciuto solo per appalti di lavori -in tal senso, secondo le sue prospettazioni, deporrebbe l’interpretazione dei commi 1 e 2 esplicitamente riferiti a lavori- o anche agli appalti di servizi e forniture, richiamati espressamente nei commi 3 e 4 della medesima disposizione normativa.
La Sezione ritiene che la disposizione in esame si applichi a tutte e tre le tipologie di contratti pubblici di appalti: lavori, servizi e forniture.
Le considerazioni sulla quali si fonda la soluzione positiva del quesito in esame risiedono essenzialmente nella circostanza che
se la ratio della disposizione legislativa di cui all’art. 113 d.lgs. 50/2016 e del criterio direttivo di delega deve essere individuata nella previsione di un compenso incentivante per stimolare una più attenta gestione delle fasi della programmazione e dell’esecuzione dei contratti pubblici di appalto, il predetto emolumento può essere riconosciuto sia per gli appalti di lavori, sia per quelli di servizi e forniture, in quanto per tutte e tre le predette tipologie di contratti pubblici è prevista e disciplinata dal codice degli appalti sia la fase della programmazione (cfr. art 21 d.lgs. 50/2016) sia quella dell’esecuzione (cfr., in particolare, l’art. 101 d.lgs. 50/2016).
A tali considerazioni si aggiunga, inoltre, che
sia l’inserimento delle “verifiche di conformità”, che rappresentano le modalità di controllo dell’esecuzione dei contratti di appalto di servizi e forniture (cfr. art. 102, comma 2, d.lgs. 50/2016) nel secondo comma dell’articolo 113 tra le attività “incentivabili”, sia la menzione espressa nel comma 3 dei servizi e delle forniture, costituiscono ulteriori elementi dai quali far discendere che la voluntas legis sia stata quella di remunerare anche specifiche attività di natura tecnica (i.e. quelli elencate nell’articolo 133, comma 2, d.lgs. 50/2016) dei contratti di appalto di servizi e forniture.
La Sezione evidenzia, altresì, che la soluzione ora proposta è conforme, pur se fondata su diverse argomentazioni giuridiche, al recente orientamento espresso nella materia de qua dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con il parere 16.11.2016 n. 333.
In relazione all’ulteriore profilo della richiesta di parere relativo alle tipologie di servizi per i quali può essere previsto il compenso incentivante, la Sezione ritiene che debba trattarsi di servizi ricompresi nell’ambito di applicazione del codice degli appalti di cui al d.lgs. 50/2016.
A titolo esemplificativo, per i servizi relativi alla cura del patrimonio dell’ente locale deve essere richiamato l’articolo 17, comma 1, lett. a), che prevede l’esclusione delle disposizioni del codice stesso per i “servizi aventi ad oggetto l’acquisto o locazione (omissis) di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni”. Inoltre, anche i servizi finanziari “relativi all’emissione, all’acquisto, alla vendita e al trasferimento di titoli o di altri strumenti finanziari ai sensi del decreto legislativo 24.02.1998, n. 58” sono espressamente esclusi dall’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici dall’articolo 17, comma lett. e), del codice stesso.

4.2. Con il secondo quesito il Comune chiede di conoscere se il compenso incentivante previsto dall’articolo 113 d.lgs. 50/2016 possa essere riconosciuto per le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, in quanto le stesse non sono espressamente escluse dalla nuova disposizione.
Sulla base delle seguenti considerazioni
la Sezione ritiene che il predetto emolumento non può essere utilizzato per la remunerazione delle predette attività.
In primo luogo si evidenzia che l’avverbio “esclusivamente” utilizzato dal legislatore nel comma 2 dell’articolo in esame per individuare le attività per lo svolgimento delle quali può essere previsto un compenso specifico e aggiuntivo deve essere interpretato nel senso della tassatività delle attività incentivabili. Pertanto, non essendo stata espressamente ricompresa l’attività di manutenzione, ne discende che non può essere prevista per la stessa nessuna remunerazione ai sensi dell’articolo 113 d.lgs. 50/2016.
In secondo luogo, si rileva che, ai fini dell’applicazione del codice di contratti pubblici di cui al d.lgs. 50/2016, nell’allegato I (cui fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1), che contiene l’elenco delle attività che costituiscono “appalti pubblici di lavori”, non sono in alcun modo indicate le attività di manutenzione, né ordinarie, né straordinarie.

4.3. Infine, con il terzo quesito l’Ente chiede di sapere se per il compenso ex art. art. 113 d.lgs. 50/2016 possa essere confermata la deroga al tetto del salario accessorio, già riconosciuta, in via pretoria, con riferimento alla disposizione di cui all’articolo 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 (non più applicabile al 2015), da considerare in rapporto al nuovo limite introdotto dall’articolo 236 l. n. 208/2015.
L’esclusione dal tetto del salario accessorio previsto dall’articolo 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 per determinate categorie di emolumenti -tra i quali l’incentivo per la progettazione ex art. 93, comma 7-ter d.lgs. 163/2006- è stato affermato nella
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite laddove è stato ritenuto che “le sole risorse di alimentazione dei fondi da ritenere non ricomprese nell’ambito applicativo dell’articolo 9, comma 2-bis, sono solo quelle destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che peraltro potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso esterno dell’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti”. Inoltre, è stato aggiunto che si tratta di “risorse che alimentano il fondo in senso solo figurativo dato che esse non sono poi destinate a finanziarie gli incentivi spettanti alla generalità del personale dell’amministrazione pubblica”.
In particolare,
le risorse finalizzate ad incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche possono essere escluse dal computo del tetto in quanto “si tratta di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato. Le Sezioni riunite hanno, inoltre, osservato che tale tipologia di prestazione professionale afferisce “ad attività sostanzialmente finalizzata ad investimenti”.
L’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge stabilità 2016) prevede espressamente che ”
nelle more dell’adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124 (omissis), a decorrere dal 01.01.2016 l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente a trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.05.2001, n. 165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo determinato per il l’anno 2015 ed è comunque automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente”.
La Sezione ritiene che l’esclusione dell’incentivo per l’attività di progettazione ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 dal tetto di spesa per il salario accessorio di cui all’articolo 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010, riconosciuto in via pretoria nella citata deliberazione delle Sezioni riunite, non possa estendersi in via automatica a tutte le tipologie di attività elencate nel comma 2 dell’art. 113. Ciò in quanto è necessario verificare la sussistenza dei presupposti indicati dalle Sezioni riunite per poter escludere dal tetto di spesa del salario accessorio anche l’incentivo per funzioni tecniche ex art. 113 d.lgs. cit..
In particolare,
il criterio individuato dalle Sezioni riunite per stabilire se un determinato emolumento possa essere escluso dal tetto di spesa per il salario accessorio è quello di verificare se remuneri “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili” e se “le prestazioni potrebbero essere acquisite anche attraverso il ricorso a personale estraneo all’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi”.
*****
Tutto ciò premesso,
la Sezione, rilevata la portata generale della questione di cui al punto 4.3. anche in relazione alla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite, ritiene che sarebbe utile l’adozione di una pronuncia di orientamento al fine di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 possano essere esclusi dal tetto del salario accessorio di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge stabilità 2016).
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Emilia-Romagna:
- si pronuncia nei termini di cui in motivazione sui quesiti indicati sub 1) e 2) delle premesse in fatto;
-
sospende la pronuncia e rimette gli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza in ordine al quesito sub 3) delle premesse in fatto.
In particolare,
affinché valuti la possibilità di deferire le questioni alla Sezione della autonomie, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, secondo il quale per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza in materia di attività consultiva, la citata Sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali si conformano; questo sempre che il Presidente della Corte dei conti non ritenga, invece, opportuna l’adozione, da parte delle Sezioni Riunite, di una pronuncia di orientamento generale, ai sensi dell’articolo 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102, qualora riconosca la sussistenza di un caso di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 07.12.2016 n. 118).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIPrecontenzioso, istanze da rifare. In gazzetta ufficiale regolamento dell'anticorruzione.
Da riformulare le istanze di precontenzioso sulle gare di appalto già presentate ad Anac prima del 19 ottobre; precontenzioso vincolante se presentato da entrambe le parti, ma sempre impugnabile al giudice amministrativo; non ammesse le istanze su questioni puramente interpretative.

Sono questi alcuni dei punti rilevanti contenuti nel nuovo regolamento 05.10.2016 dell'Autorità nazionale anticorruzione sul precontenzioso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19.10.2016 che attua l'art. 211, comma 1, del nuovo codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) e sul sito dell'Autorità.
Il regolamento, reso anche a seguito del parere del Consiglio di stato del 15.09.2016, n. 1920/2016 definisce innanzitutto l'ambito di applicazione oggettivo precisando che la formulazione del parere di precontenzioso è cosa diversa dalle raccomandazioni e che deve riguardare «questioni controverse insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara»; da ciò emerge con chiarezza che il precontenzioso si fonda non su «semplici» questioni interpretative, ma su «questioni controverse», sulle quali cioè le parti manifestano posizioni contrapposte.
Dal punto di vista dell'ambito di applicazione soggettivo, invece, l'Autorità precisa che possono rivolgere richiesta di parere di precontenzioso all'Autorità, ovvero la stazione appaltante, o una o più parti interessate o i soggetti portatori di interessi collettivi costituiti in associazioni o comitati.
Se l'istanza è presentata singolarmente, dalla stazione appaltante o da una parte interessata, il parere reso non è vincolante; in ogni caso l'istante è tenuto a comunicare la presentazione della richiesta di parere a tutti i soggetti interessati alla soluzione della questione controversa oggetto della medesima. Inoltre il regolamento precisa che, nel caso in cui l'istante singolo abbia manifestato la volontà di attenersi a quanto stabilito nel parere, le altre parti possono aderirvi entro il termine di dieci giorni dalla ricezione della comunicazione; in tal caso il parere reso ha efficacia vincolante per le parti che vi hanno aderito.
Se invece la richiesta di parere è presentata (per pec e secondo uno dei moduli allegati al regolamento) da entrambe le parti coinvolte, il parere vincola entrambe le parti.
Il regolamento stabilisce che non verranno prese in considerazione le istanze volte a un controllo generalizzato dei procedimenti di gara delle amministrazioni aggiudicatrici, quelle presentate in assenza di una questione controversa insorta tra le parti interessate o presentate da soggetti diversi da quelli indicati all'articolo 2 o, ancora, manifestamente mancanti di interesse concreto al conseguimento del parere e interferenti con esposti di vigilanza e procedimenti sanzionatori in corso di istruttoria presso l'Autorità.
Inoltre l'Anac non darà corso alle richieste di contenuto generico o contenenti un mero rinvio alla documentazione allegata dall'istante, così come se vi sia un ricorso giurisdizionale avente contenuto analogo (le parti hanno l'obbligo di comunicarlo all'Autorità).
Infine va tenuto presente che il comunicato Anac che accompagna il varo del regolamento afferma che se un soggetto ha presentato una istanza di precontenzioso prima dell'entrata in vigore del Regolamento, «qualora permanga da parte dei soggetti istanti un interesse attuale e concreto al rilascio del parere, le istanze andranno riformulate e riproposte a firma di soggetti legittimati a esprimere verso l'esterno la volontà dell'ente, nel rispetto delle nuove disposizioni procedimentali, mediante utilizzo del relativo modulo informatico» (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).

APPALTIOfferte anomale, chiarezza sulle modalità di calcolo.
Sciolti i dubbi sul calcolo dell'anomalia delle offerte negli appalti pubblici, a seguito dell'abrogazione del vecchio regolamento del codice del 2006 e dell'entrata in vigore del decreto 50/2016; obbligo di indicare nella documentazione di gara le modalità di calcolo; fornite indicazioni puntuali sui cinque metodi di calcolo.

È questo l'effetto del comunicato del Presidente 05.10.2016 dell'Anac che fornisce alcune indicazioni operative in merito alle modalità di calcolo della soglia di anomalia nel caso di aggiudicazione di contratti pubblici con il criterio del prezzo più basso.
Il comunicato fa seguito a numerose richieste di chiarimenti pervenute all'Authority in merito alle modalità di calcolo delle soglie di anomalia di cui all'art. 97, comma 2 del Codice. Viene chiarito che si sta parlando di procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture, di importo inferiore alle soglie Ue, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso. In questi casi, dice l'Anac, nella documentazione di gara è opportuno indicare che non si procede all'esclusione automatica, ancorché sia previsto nel bando, qualora il numero delle offerte ammesse, e quindi ritenute valide, sia inferiore a dieci.
Nel merito, poi, l'art. 97, comma 2, del nuovo codice stabilisce che «la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di anomalia determinata» e che «al fine di non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento per il calcolo della soglia» si procede «al sorteggio, in sede di gara, di uno» tra i cinque criteri definiti nelle lettere da a) a e) dello stesso comma.
Rispetto al primo metodo (lettera a: «media aritmetica dei ribassi di tutte le offerte ammesse con esclusione del 10% arrotondato alla cifra superiore rispettivamente per le offerte di maggiore ribasso e di minore ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media») il comunicato precisa che l'abrogazione dell'articolo 121 del dpr 207/2010 non consente più di procedere al cosiddetto «accantonamento delle ali» (non considerazione delle offerte di eguale valore).
Sul secondo metodo l'Anac chiarisce che «se la prima cifra dopo la virgola è dispari, la media dei ribassi deve essere ridotta percentualmente di un valore pari a tale cifra, mentre non è corretto ridurre tale media di un valore assoluto pari a detta cifra»; inoltre, utilizzando l'interpretazione analogica rispetto alle lettere a) ed e), il comunicato precisa che la norma dovrebbe essere letta nel senso che la media cui fare riferimento è la «media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, arrotondata all'unità superiore, con esclusione del 10%, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso» (articolo ItaliaOggi del 19.10.2016).

APPALTIGare, errori e illeciti sono causa di esclusione. Nella delibera Anac le indicazioni per le stazioni appaltanti.
Rilevanti gli errori professionali e i comportamenti carenti nell'esecuzione del contratto, anche se compiute nei confronti di altre stazioni appaltanti; necessario che siano inseriti nel casellario Anac.
Sono questi alcuni dei punti rilevanti della delibera dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) trasmessa nei giorni scorsi al Consiglio di stato che dà attuazione all'articolo 80, comma 13, del nuovo codice dei contratti pubblici (decreto 50/2016) che affida all'Autorità presieduta da Raffaele Cantone il compito di precisare i mezzi di prova adeguati inerenti le cause di esclusione e in particolare di individuare quali carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto possano considerarsi significative per la stazione appaltante.
Innanzitutto la delibera precisa che la norma si applica anche ai settori «speciali» (acqua, energia e trasporti) e che riguarda gli illeciti professionali gravi sotto il profilo della moralità professionale del concorrente o della sua affidabilità, intesa come reale capacità tecnico professionale, nello svolgimento dell'attività.
Da questo punto di vista l'Anac suggerisce alle stazioni appaltanti di dare rilievo a «comportamenti gravi e significativi riscontrati nell'esecuzione di precedenti contratti, anche stipulati con altre amministrazioni»; si deve trattare non di fatti episodici ma di comportamenti «sintomatici di persistenti carenze professionali nell'esecuzione di prestazioni contrattuali». A titolo di esempio: la risoluzione del contratto, l'inadempimento di una obbligazione contrattuale, le carenze del prodotto o servizio fornito, i comportamenti scorretti, il ritardo nell'adempimento, l'errore professionale nell'esecuzione della prestazione.
Altrettanto significativi i comportamenti con dolo o colpa grave, volti ad influenzare le decisioni delle stazioni appaltanti in sede di gara e, in generale, i comportamenti posti in essere dal concorrente tesi a generare nella stazione appaltante un convincimento erroneo su una circostanza rilevante ai fini della partecipazione o dell'attribuzione del punteggio. In questi casi occorre verificare se i gravi illeciti professionali siano riferibili direttamente al concorrente o al subappaltatore nei casi previsti dall'articolo 105, comma 6, del codice.
Le stazioni appaltanti dovranno comunicare all'Anac, ai fini dell'iscrizione nel casellario informatico di cui all'articolo 213, comma 10, del codice i provvedimenti adottati, nonché i provvedimenti di condanna emessi in sede giudiziale con riferimento ai contratti affidati che siano idonei a incidere sull'integrità e l'affidabilità dei concorrenti. L'inadempimento dell'obbligo di comunicazione all'Anac comporterà l'applicazione delle sanzioni previste dall'articolo 213, comma 13, del codice.
Gli operatori economici devono dichiarare nel Dgue (documento di gara unico europeo) tutte le notizie inserite nel casellario informatico gestito dall'Autorità astrattamente idonee a porre in dubbio la loro integrità o affidabilità. La commissione di gravi illeciti professionali non potrà comportare l'esclusione dalle gare per un periodo superiore a tre anni a decorrere dalla data di annotazione della notizia nel casellario informatico (articolo ItaliaOggi del 14.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIIl bando può puntare sulla parte tecnica. Punteggi. Le regole per la riparametrazione.
Le stazioni appaltanti possono prevedere nei bandi delle gare con l’offerta economicamente più vantaggiosa la riparametrazione dei punteggi assegnati ai criteri della parte tecnico-qualitativa delle offerte.
Le linee-guida 2/2016
(determinazione 21.09.2016 n. 1005) elaborate dall’Anac per guidare le amministrazioni nella gestione delle procedure selettive aggiudicate sulla base di un sistema multicriteriale evidenziano che l’utilizzo della riparametrazione risponde a una scelta della stazione appaltante, che deve essere prevista nei documenti di gara ed è finalizzata a preservare l’equilibrio tra le diverse componenti dell’offerta.
L’Autorità muta il proprio orientamento in materia e fa rilevare anche che questo procedimento comporta il rischio dare un peso eccessivo a elementi carenti delle offerte dei concorrenti.
Il presupposto per l’applicazione della riparametrazione si determina quando i punteggi relativi a un determinato criterio sono attribuiti sulla base di subcriteri e nessun concorrente raggiunga il punteggio massimo previsto. Questa situazione rischia di alterare la proporzione stabilita dalla stazione appaltante tra i diversi elementi di ponderazione, specie quando la valutazione è basata sul metodo aggregativo compensatore.
L’amministrazione, prevedendolo nel bando, può quindi riparametrare i punteggi attribuiti a ciascun criterio, riallineandoli rispetto ai punteggi massimi previsti, sia per l’offerta migliore sia per le altre.
L’Anac fa rilevare come la procedura di riparametrazione sia riferibile principalmente ai criteri di natura qualitativa (quelli rispetto ai quali la commissione giudicatrice esprime le proprie valutazioni su metodologie, aspetti funzionali o organizzativi) e come possa essere effettuata una seconda volta, sul punteggio complessivamente assegnato alla parte tecnico-qualitativa dell’offerta.
L’Autorità precisa che ai fini della verifica di anomalia la stazione appaltante deve fare riferimento ai punteggi ottenuti dai concorrenti all’esito delle relative riparametrazioni.
In relazione ai criteri di natura quantitativa le linee-guida forniscono un articolato quadro di formule applicabili alle gare, evidenziando come le modalità di calcolo adottate dovrebbero comunque rispettare il principio per cui il punteggio minimo, pari a zero, è attribuito all’offerta che non presenta sconti rispetto al prezzo a base di gara, mentre il punteggio massimo è assegnato all’offerta che presenta lo sconto maggiore.
Tuttavia l’Anac fa rilevare che la scelta sull’utilizzo della formula deve tener conto del peso attribuito alla componente prezzo: pertanto, se a questa componente è attribuito un valore molto contenuto, non dovranno essere utilizzate le formule che disincentivano la competizione sul prezzo e viceversa
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, i criteri vanno definiti fin dal progetto. Anac. L’esame dell’offerta più vantaggiosa.
Le stazioni appaltanti devono definire i criteri di valutazione delle offerte fin dalla fase della progettazione, collegandoli alle caratteristiche fondamentali dell’appalto.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha approvato e pubblicato le linee-guida 2/2016
(determinazione 21.09.2016 n. 1005) relative all’applicazione delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici sull’offerta economicamente più vantaggiosa, fornendo anche alcune importanti precisazioni sui presupposti e sulle modalità di utilizzo del criterio del prezzo più basso.
Proprio la prevalenza dell’offerta più vantaggiosa e la limitata casistica nella quale si può prevedere la selezione con il minor prezzo costituiscono, secondo l’Anac, presupposti che richiedono già nella fase di progettazione dell’appalto la compiuta definizione del sistema criteriale, rapportato al quadro prestazionale descrittivo del lavoro, della fornitura o dei servizi da affidare.
Le linee-guida focalizzano l’attenzione sulla necessaria connessione dei criteri all’oggetto dell’appalto e sulla possibilità di fare ricorso agli elementi premiali definiti dai decreti esplicativi dei criteri ambientali minimi, ma evidenziano anche la novità relativa al possibile utilizzo di alcuni elementi soggettivi, i quali devono comunque riguardare aspetti (ad esempio riferiti alla qualificazione del personale impiegato) che incidono in maniera diretta sulla qualità della prestazione. L’Anac precisa che anche in questo caso, la valutazione dell’offerta riguarda, di regola, solo la parte eccedente la soglia richiesta per la partecipazione alla gara, purché ciò non si traduca in un escamotage per introdurre criteri dimensionali.
Le linee-guida sollecitano le stazioni appaltanti a ricorrere al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa con costo fisso con una certa prudenza, soprattutto al di fuori della casistica definita da leggi e regolamenti: in tal caso, se le amministrazioni vogliono limitare o annullare la concorrenza sul prezzo devono adeguatamente motivare sulle ragioni alla base di tale scelta e sulla metodologia seguita per il calcolo del prezzo o costo fisso (ed un’accurata indagine di mercato), in base al quale verrà remunerato l’oggetto dell’acquisizione.
Nella pesatura dei criteri, le stazioni appaltanti non possono attribuire a ciascuna componente, criterio o subcriterio un punteggio sproporzionato o irragionevole rispetto a quello attribuito agli altri elementi da tenere in considerazione nella scelta dell’offerta migliore, preservandone l’equilibrio relativo ed evitando situazioni di esaltazione o svilimento di determinati profili a scapito di altri. In tale prospettiva l’Anac indica due soluzioni: ripartire proporzionalmente i punteggi tra i criteri afferenti all’oggetto principale e agli oggetti secondari dell’affidamento, nonché attribuire un punteggio limitato o non attribuire alcun punteggio ai criteri relativi a profili ritenuti non essenziali in relazione alle esigenze della stazione appaltante.
Nella distribuzione dei pesi ponderali, l’Anac evidenzia come le stazioni appaltanti debbano attribuire un punteggio limitato alla componente prezzo quando intendono valorizzare gli elementi qualitativi dell’offerta o quando vogliono scoraggiare ribassi eccessivi. Viceversa, esse devono attribuire un peso maggiore alla componente prezzo quando le condizioni di mercato sono tali che la qualità dei prodotti offerti dalle imprese è sostanzialmente analoga.
Inoltre devono limitare il peso attribuito ai criteri di natura soggettiva o agli elementi premianti relativi alle varianti progettuali
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ostruzionismi al bando. Anche se provengono dalla maggioranza. Il regolamento non può svilire le prerogative dei consiglieri comunali.
Quale quorum si rende necessario per la validità delle sedute consiliari di seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Nella fattispecie in esame, il consiglio del comune ha deliberato la modifica del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale recante «seduta di seconda convocazione» prevedendo, al fine della validità della seduta, la presenza di «almeno quattro consiglieri».
Poiché il consiglio comunale in questione è composto da soli tre consiglieri di minoranza, è emersa la difficoltà, per questi ultimi, di poter esercitare il proprio mandato elettivo a causa del ripetersi delle assenze della maggioranza e alla conseguente mancanza del numero legale previsto per la validità delle sedute del consiglio.
Al riguardo il Tar Sicilia, Catania, sez. I, con sentenza del 18/07/2006, n. 1181, in tema di c.d. «ostruzionismo di maggioranza», ha evidenziato che il comportamento preordinato al conseguimento della mancanza del numero legale delle assemblee rappresentative costituisce una inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti delle minoranze, alle quali viene impedito di svolgere il proprio ruolo di opposizione e quindi di esercitare un diritto politico costituzionalmente garantito.
Secondo il Tar l'art. 49 della Costituzione preclude ai partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque opera non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle istituzioni democratiche».
Pertanto, la modifica regolamentare deliberata, unitamente alla sistematica assenza dei componenti di maggioranza potrebbero configurare un inammissibile svilimento dei diritti e delle prerogative dei consiglieri di minoranza.
Benché il vigente ordinamento non preveda poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo al ministero dell'interno, si ritiene che l'ente locale in oggetto debba valutare l'opportunità di rivedere la normativa regolamentare in questione (articolo ItaliaOggi del 09.12.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Referendum senza ombre. Nel regolamento le fasi della consultazione. Eventuali norme transitorie devono essere coerenti con lo statuto.
Perché una richiesta di consultazione referendaria comunale possa essere dichiarata ammissibile, la disciplina regolamentare di dettaglio deve considerarsi presupposto imprescindibile per l'attivazione della consultazione stessa, se specificamente prevista dallo statuto comunale?
L'eventuale approvazione del regolamento da parte del consiglio comunale, con la previsione di norme transitorie per lo svolgimento del referendum, potrebbe sanare l'eventuale mancanza, ferma restando la verifica dell'ammissibilità del quesito da demandare all'esame di un organismo che sostituisca l'abrogato difensore civico?

Il nostro ordinamento presta una particolare attenzione alla partecipazione diretta del cittadino nella vita delle istituzioni locali.
Giova ricordare, in proposito, che l'Italia ha fatto propri i principi della Carta europea dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la relativa convenzione, poi ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439.
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi del cittadino trovano una loro concretizzazione nel Tuel n. 267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non meramente facoltativo dello statuto.
Un rinvio allo statuto è previsto dal comma 3 dell'art. 8 del citato decreto legislativo n. 267/2000 circa la previsione di forme di consultazione della popolazione, nonché delle procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi con la determinazione delle garanzie per il loro tempestivo esame.
La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini, che (comma 4) devono comunque riguardare materie di esclusiva competenza locale.
Fermo restando l'obbligo di previsione degli istituti di partecipazione, il referendum, si configura, dunque, quale elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale che una volta previsto deve, però, essere compiutamente disciplinato dal regolamento.
Nel caso di specie, lo statuto comunale rimanda ad apposito regolamento comunale la disciplina delle modalità operative del referendum, fornendo peraltro una serie di indicazioni di dettaglio che dovrebbero essere recepite dal medesimo regolamento.
Il regolamento, conformemente al parere del Consiglio di stato, sez. I, 08.07.1998, n. 464 -reso, su richiesta dell'amministrazione dell'interno, in relazione ad una fattispecie analoga e il cui orientamento è stato successivamente confermato dallo stesso Consiglio di stato -sez. IV- con la sentenza n. 3769/2008- si prospetta, infatti, in funzione complementare e integrativa rispetto alle previsioni statutarie, tanto da rendere inapplicabile l'istituto del referendum consultivo in mancanza dello stesso.
La giurisprudenza amministrativa formatasi in materia ritiene, infatti, che debba essere la fonte regolamentare a «prevedere le varie fasi nelle quali si articola la consultazione, dall'iniziativa sino alla proclamazione dei risultati» inclusi i sistemi con cui sindacare l'ammissibilità della consultazione.
In tal senso, i cittadini interessati all'approvazione del regolamento potranno sensibilizzare l'ente affinché proceda al riguardo, poiché le previsioni dello statuto, non consentono alcun margine discrezionale da parte dell'amministrazione.
Pur considerando ammissibile l'adozione di un regolamento attuativo per consentire, con specifiche norme transitorie, anche il regolare espletamento della procedura già avviata, deve essere comunque garantito ai promotori l'effettivo esercizio entro i termini previsti dallo statuto. Peraltro, le eventuali soluzioni tecniche da adottare con le norme transitorie, in assenza delle modifiche statutarie, devono comunque essere coerenti con le disposizioni di tale ultimo strumento.
In particolare, l'art. 2, comma 186, lett. a), della legge 23/12/2009, n. 191, pur avendo soppresso la figura del difensore civico comunale, ha stabilito che le relative funzioni possono essere attribuite, mediante convenzione, al difensore civico della provincia (articolo ItaliaOggi del 02.12.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Parità di genere per tutti. Principio applicabile anche se lo statuto tace. I piccoli comuni non sfuggono all'applicazione delle quote rosa.
In tema di parità di genere, quale disciplina deve essere applicata nella composizione della giunta comunale di un ente locale che conta una popolazione inferiore a 3 mila abitanti?

La legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha previsto il quorum del 40%, affinché sia rispettato il principio dell'equilibrio di genere, per i soli comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica resta vigente l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
L'articolo citato prevede che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Tale disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma 1, della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi». Ai sensi dell'art. 1, comma 2, della citata legge n. 215 del 2012 è, inoltre, previsto che gli enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, adeguino i propri statuti e regolamenti alle disposizioni recate dell'art. 6, comma 3, del richiamato Testo unico sugli enti locali.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, disponendo che il sindaco ed il presidente nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
Tale normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Peraltro, le citate disposizioni sulla parità di genere risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione nello statuto comunale, ferma restando la necessità dell'adeguamento dello stesso da parte dell'ente interessato (articolo ItaliaOggi del 25.11.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quote rosa nei mini-enti. La parità di genere non conosce eccezioni. Il principio è immediatamente applicabile anche se lo statuto tace.
Un ente locale che conta una popolazione inferiore a 3 mila abitanti deve conformarsi alla vigente normativa in tema di parità di genere nella composizione della giunta comunale? È ammissibile la delega a un consigliere comunale?

La legge n. 56 del 7 aprile 2014, all'art. 1, comma 137, ha disciplinato la materia per i soli comuni con popolazione superiore ai 3 mila abitanti, stabilendo un preciso quorum del 40% affinché sia rispettato il principio della parità di genere; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica occorre richiamare l'art. 6, comma 3, del dlgs n. 267/2000.
Tale articolo prevede che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
La citata disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma 1, della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi». Ai sensi del comma 2 dell'art. 1 della citata legge n. 215 del 2012 è previsto che gli enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, adeguino i propri statuti e regolamenti alle disposizioni del comma 3 dell'art. 6 del richiamato Tuel
L'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, disponendo che il sindaco ed il presidente nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La normativa in parola va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003 che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali. Ferma restando la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'Ente, le richiamate disposizioni normative sulla parità di genere risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione statutaria.
Risulterebbe, infine, ammissibile la delega (interorganica) ad un consigliere comunale a condizione che il suo contenuto sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce e purché sia sancita all'interno dello statuto nell'ambito dell'autonomia esercitabile ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 18.11.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. In caso di contrasto con il regolamento. Cosa succede quando le due fonti normative dicono cose diverse.
Qual è il quorum strutturale per la validità delle sedute del consiglio comunale?

Nella fattispecie in esame, il regolamento di organizzazione e funzionamento del consiglio comunale prevede che le sedute consiliari, convocate in seconda convocazione, siano valide con la presenza di almeno 14 consiglieri. Ai sensi dello statuto comunale è previsto, invece, che le medesime sedute siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra le norme suindicate si è verificata a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 148/2011 che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica dell'ente locale in esame.
Ai fini dell'individuazione della disposizione normativa che debba essere applicata, onde computare il numero di consiglieri necessario per la validità delle sedute del consiglio riunito in seconda convocazione, l'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso prospettato, seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011) la citata disposizione regolamentare deve essere disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno, al fine di comporre la discrasia evidenziata, un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle richiamate fonti di autonomia locale (articolo ItaliaOggi del 07.10.2016).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGATOPersonale, incentivi bloccati senza «decentrato» entro l’anno. Contratti. A rischio l’utilizzabilità delle risorse.
Le amministrazioni locali devono costituire rapidamente il fondo per la contrattazione decentrata e stipulare il contratto collettivo decentrato integrativo entro l’anno.
Sono questi due passaggi obbligati, alla luce dei principi dettati dall’armonizzazione del sistema contabile, per evitare che una parte delle risorse destinate alla incentivazione del personale non siano utilizzabili nell’anno successivo. Va quindi evitata la scelta (praticata spesso) di contrattare nell’anno anche le risorse di quello precedente.
La costituzione del fondo deve essere effettuata con determinazione del dirigente individuato come competente da parte dell’amministrazione, che deve avere acquisito le scelte dell’organo di governo sull’inclusione nella parte variabile delle risorse aggiuntive previste dai contratti. Di recente la sezione di controllo della Corte dei Conti della Lombardia (delibera 226/2016) è tornata a ribadire il divieto di inserire tali risorse, anche come semplice conferma, nelle amministrazioni che non hanno rispettato il patto di stabilità, comprese Province e Città metropolitane, e/o hanno superato il tetto di spesa del personale. Sulla costituzione del fondo occorre dar corso, come relazione sindacale, unicamente alla informazione preventiva all’avvio della contrattazione.
Il fondo del 2016 non può, nel suo insieme, superare quello del 2015: analogo tetto va applicato alle risorse destinate negli enti privi di dirigenti al salario accessorio delle posizioni organizzative. L’avvertenza è necessaria perché in queste amministrazioni il salario accessorio delle posizioni organizzative non è finanziato dal fondo.
Nel tetto del fondo non vanno inclusi: incentivi per le funzioni tecniche, compensi per gli avvocati dipendenti in caso di successi con condanna dell’altra parte al pagamento delle spese legali, risparmi dei fondo per il salario accessorio e per lo straordinario del 2015, risorse trasferite dall’Istat e proventi dei piani di contenimento della spesa destinati alla incentivazione del personale.
Il fondo 2016 deve essere ridotto rispetto al 2015 in misura proporzionale in caso di diminuzione del personale in servizio, tenendo conto delle capacità assunzionali. Si suggerisce di applicare il metodo della media aritmetica del personale in servizio suggerito dalla Ragioneria Generale dello Stato. Nella quantificazione delle capacità assunzionali si deve tener conto sia di quelle dell’anno sia del triennio precedente non utilizzate.
La circolare della Ragioneria 12/2016 precisa che le amministrazioni devono effettuare una verifica alla fine dell’anno. Le formula non può essere intesa nel senso che le capacità assunzionali non utilizzate devono determinare una riduzione del fondo, perché questo era l’esito determinato dall’utilizzazione del metodo della media aritmetica. Va invece interpretata nel senso che le amministrazioni che avessero programmato le assunzioni del personale in sovrannumero degli enti di area vasta, potendo contare in tal caso su una capacità assunzionale più elevata e che non le hanno realizzate, possono ora contare su una capacità ridotta e devono tener conto del taglio del fondo nel determinare la misura.
Nel contratto decentrato appare necessario ricordare che la destinazione di risorse all’incentivazione della performance in assenza di un adeguamento delle norme contrattuali e regolamentari alle previsioni del decreto legislativo 150/2009 è da ritenere illegittima. E inoltre che le progressioni orizzontali possono essere effettuate, determinando immediatamente i benefici economici, ma a condizione che siano finanziate permanentemente dalla parte stabile del fondo, che i destinatari siano un numero limitato di dipendenti e che la decorrenza non vada più indietro del 1° gennaio dell’anno in cui le relative graduatorie sono state approvate.
Per cui la contrattazione decentrata del 2016 può sì decidere progressioni economiche con decorrenza dal 1° gennaio di quest’anno; ma se le graduatorie non saranno approvate entro il 31 dicembre la decorrenza deve essere spostata almeno al 01.01.2017
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.10.2016).

APPALTIGare, l'eco-certificazione aiuta. Titoli ambientali in corsia preferenziale negli appalti. Lo prevedono il dlgs 50/2016 e le novità europee riguardanti Emas ed Ecolabel.
Imprese eco-certificate più competitive nelle gare a evidenza pubblica.

È quanto emerge dalla sinergia tra regole dettate dal neo Codice appalti, relative linee guida applicative dell'Autorità e l'upgrade Ue delle norme su Emas ed Ecolabel, i marchi comunitari verdi che certificano processi e prodotti a basso impatto ambientale.
Eco-certificati nel nuovo Codice appalti. Dal 19/04/2016, salvo mirate eccezioni, in base al dlgs 50/2016 l'aggiudicazione degli appalti deve avvenire mediante il criterio dell'«offerta economicamente più vantaggiosa» (c.d. «Oepv»), individuata sulla base del «miglior rapporto qualità/prezzo» oppure dell'elemento «prezzo o costo», secondo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il «costo del ciclo di vita».
Il metodo del «miglior rapporto qualità/prezzo» deve essere fondato su criteri oggettivi, tra i quali anche la valutazione del possesso di certificazioni ambientali. Della centralità del criterio «Oepv», e dunque (logicamente) delle eco-certificazioni, danno atto le ultime linee guida in materia dettate dall'Autorità nazionale anticorruzione in attuazione del dlgs 50/2016. Dalla delibera Anac 1005/2016 (G.U. 11/10/2016 n. 238) emerge infatti come nella logica della nuova disciplina appalti il confronto concorrenziale basato sul «miglior rapporto qualità e prezzo» sia evitabile solo ove i relativi benefici siano nulli o ridotti.
E le stazioni appaltanti che intendono, ricorrendone le condizioni, derogare al criterio «Oepv» per utilizzare quello (residuale) del «minor prezzo» devono di conseguenza sempre: darne adeguata motivazione; esplicitare comunque il criterio utilizzato per assicurare la selezione della migliore offerta; dimostrare che attraverso la deroga non sia avvantaggiato un particolare fornitore. Ma sono anche sul piano fiscale i vantaggi offerti dal dlgs 50/2016 alle imprese eco-certificate. L'articolo 93 del dlgs 50/2016 prevede infatti per le imprese eco-griffate una riduzione degli importi dovuti a titolo di garanzia fideiussoria all'atto delle offerte, con un occhio di riguardo per i titolari di certificati ambientali Ue.
E ciò in primo luogo riconoscendo alle imprese Emas una riduzione del 30%, laddove alle eco-certificate Iso viene garantito solo il 20%. E in secondo luogo prevedendo per gli operatori economici che offrono almeno il 50% dei beni e servizi sotto marchio Ecolabel uno sconto del 20% sulle garanzie.
Emas, le novità in arrivo. Saranno le imprese edili a essere destinatarie delle prossime e sostanziose novità previste dall'«Eco-Management and Audit Scheme», il sistema ex regolamento 1221/2009/Ce cui possono aderire aziende e organizzazioni, pubbliche o private, che rispettano determinati standard di qualità ambientale.
Approvato dal Consiglio Ue lo scorso settembre 2016, un documento sulle «migliori pratiche di gestione ambientale» in via di formalizzazione orienterà gli operatori di settore (progettisti, cantieri edili, società di amministrazione di immobili) verso l'upgrade delle eco-prestazioni nelle attività che interessano l'intero ciclo di vita degli edifici. E ciò al fine di ottenere o mantenere la registrazione Emas, basata (infatti) sulla dimostrazione del continuo miglioramento delle prestazioni ambientali d'impresa.
Trovano così collocazione nel documento Ue in itinere: per la fase di progettazione degli edifici, indicazioni e standard per contenimento dei consumi di acqua ed energia, prevenzione della produzione e recupero dei rifiuti, scelta di materiali a basso impatto ambientale; per la fase di costruzione o ristrutturazione, istruzioni di contenimento delle emissioni (dalle atmosferiche alle acustiche), utilizzo di materiali recuperati; per la fase di manutenzione, regole per ottimizzazione energetica e limitazione di sostanze pericolose nelle pratiche di pulizia; per la fase di fine vita, regole per demolizione selettiva degli edifici e recupero dei materiali.
Ecolabel, gli upgrade. Dall'inizio del 2016 a oggi l'Ue ha già aggiornato alle ultime conoscenze utili gli standard ambientali relativi a circa un quarto delle oltre 35 categorie di prodotti certificabili Ecolabel, il marchio comunitario verde dedicato a beni e servizi e disciplinato dal regolamento 66/2010/Ce.
Tra le rilevanti novità (anche sul piano degli appalti pubblici) spicca la rivisitazione delle regole relative al gruppo di prodotti «mobili», che grazie alla decisione 2016/1332/Ue comprende ora anche beni costituiti da materiali diversi dal legno, ma a condizione che siano osservati stretti limiti sulle sostanze chimiche utilizzate.
Le altre certificazioni. Salve le citate disposizioni su Emas ed Ecolabel, il nuovo Codice appalti impone alle amministrazioni procedenti di riconoscere, sebbene con iter diversi, tutti i validi sistemi di gestione ambientale. L'articolo 87 del dlgs 50/2016 prevede infatti tre strumenti per provare il possesso dei requisiti verdi di gara: certificati di organismi indipendenti accreditati; equivalenti attestati rilasciati da organismi di altri Stati; altre prove documentali di analoghe misure di garanzia di qualità ambientali.
E ciò pedissequamente a quanto già stabilito dagli articoli 43 e 44 del pregresso dlgs 163/2006, articoli sui quali si è recentemente espresso il Consiglio di stato tracciando la differente valenza probatoria (tutt'ora valida) dell'eco-documentazione in parola.
Nel caso di certificati rilasciati da organismi indipendenti accreditati, si evince dalla sentenza 13.10.2016 n. 4238, l'amministrazione appaltante deve dare per provato il possesso dei requisiti, non potendo disconoscerlo; negli altri casi la stessa stazione appaltante deve invece procedere a una concreta valutazione dei titoli ambientali presentati, la cui validità deve essere provata dal soggetto proponente con un soddisfacente grado di certezza.
Le criticità del sistema Ue. Oltre a luci, sul sistema di certificazioni ambientali Ue si proiettano però anche ombre. Come si evince dall'«Indagine sulle organizzazioni che abbandonano Emas» diramata dall'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) lo scorso 5/7/2016, nel periodo 2013-2015 le registrazioni hanno subito una ulteriore flessione (-7,5%) rispetto a quella già rilevata nel biennio 2009-2010.
Oltre alla crisi economica, emerge dall'Indagine, hanno concorso alla contrazione l'insoddisfazione delle imprese per mancanza di ritorni in termini di visibilità, insufficienza di semplificazioni burocratiche e di benefici fiscali.
Un quadro, si sottolinea però nell'Indagine, sul quale possono positivamente incidere le misure ex legge 221/2015 (c.d. «Green economy
», in vigore dal 02/02/2016) che prevede come nella definizione di graduatorie per assegnazione di contributi, agevolazioni e finanziamenti in materia ambientale costituisca elemento di preferenza il possesso di certificazioni verdi, tra cui espressamente appaiono Emas ed Ecolabel (articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi, graduatorie prorogate. Slittamento entro fine anno. Anci: ora sbloccare il turnover.
MANOVRA 2017/ Il ministro Madia ha risposto a Decaro. Decreto dirigenza verso l'intesa.
Le graduatorie dei concorsi pubblici in scadenza al 31.12.2016 saranno prorogate. Lo slittamento dovrebbe essere di un anno, quindi fino a tutto il 2017, e lascerà in vita le speranze dei 4.471 vincitori di concorso e dei 151.378 idonei.

A tanto ammonta, secondo l'ultima rilevazione della Funzione pubblica (disponibile sul sito www.monitoraggiograduatorie.gov.it) l'esercito di aspiranti dipendenti pubblici che bussa da anni alle porte della p.a.
Chi, come nel caso dei vincitori, forte di un vero e proprio diritto soggettivo all'assunzione, chi, come per gli idonei, potendo vantare solo un'aspettativa legittima a entrare nei ranghi della pubblica amministrazione. L'annuncio dello slittamento è arrivato dal ministro Marianna Madia che in risposta alla richiesta dell'Anci ha assicurato che le graduatorie dei concorsi pubblici verranno prorogate. Quasi sicuramente con il tradizionale decreto Milleproroghe di fine anno.
«Ritengo che, prima della fine dell'anno, sia possibile perfezionare l'adozione di un provvedimento normativo che disponga la proroga di tutte le graduatorie dei concorsi pubblici in scadenza al prossimo 31 dicembre», ha assicurato il ministro all'Anci. Una formale assunzione di impegno che il neopresidente Antonio Decaro ha accolto con soddisfazione.
«Si tratta di un segnale di attenzione verso molti cittadini, in particolare giovani, ed evidenzia l'impegno a migliorare la gestione del personale degli enti locali che deve trovare traduzione, come chiediamo, in un innalzamento della percentuale del turnover», ha commentato il sindaco di Bari che nei giorni scorsi aveva scritto una lettera al ministro per la semplificazione e la p.a. motivando la richiesta con la necessità di favorire, «nella prospettiva di riavvio delle procedure assunzionali nei comuni, economia procedimentale e speditezza amministrativa, tenendo anche conto delle legittime aspettative dei soggetti risultati idonei nelle procedure concorsuali».
La proroga delle graduatorie e l'innalzamento delle soglie di turnover sono due temi legati a doppio filo e l'Anci lo sa bene visto che ha espressamente richiesto al governo un incremento dell'attuale limite fissato al 25% delle cessazioni.
La proposta dei sindaci prevede un turnover differenziato in base a fasce demografiche. La percentuale di dipendenti assumibili rispetto alle cessazioni, secondo l'Anci, dovrebbe salire al 50% nel 2017 e al 75% nel 2018 per tutti i comuni sopra i 5.000 abitanti che abbiano i conti in ordine, fino ad arrivare al 100% per i piccoli comuni (si veda ItaliaOggi del 15/10/2016).
Va da sé che, qualora la stretta sul turnover non dovesse allentarsi, per gli enti sarebbe impossibile smaltire anche solo le graduatorie dei vincitori di concorsi. Figuriamoci i 150 mila idonei che da anni attendono certezze sul proprio futuro. Anche perché, com'è noto, gli aspiranti dipendenti pubblici potrebbero essere molti di più di quanto certificato dai dati della Funzione pubblica. Il ministero, infatti, censisce solo gli enti da cui abbia ricevuto comunicazioni sui concorsi espletati e sulle graduatorie in essere.
Non tutti però trasmettono i dati a Palazzo Vidoni e infatti il data base ministeriale conta solo 4.093 enti sugli oltre 15/20 mila (tra comuni, regioni, province, asl, policlinici, ministeri, agenzie, enti di previdenza, istituti di ricerca, aziende autonome, università, camere di commercio, ecc.) che costituiscono la galassia della p.a.
Decreto dirigenza. Dopo la frenata in Conferenza unificata, la bocciatura del Consiglio di stato e i rilievi delle commissioni parlamentari, il decreto legislativo sulla riforma della dirigenza potrebbe imboccare la strada giusta. Ieri si è riunito il tavolo tecnico governo-autonomie che dovrà elaborare la proposta di modifica del testo in vista della prossima Conferenza unificata straordinaria convocata per il 27 ottobre.
«Se l'Anci avrà le risposte che si attende, in particolare sul fondo per il pagamento dei dirigenti che finiscono in disponibilità e sulla maggiore rappresentanza di enti locali e regioni nella commissione per la tenuta dell'albo unico, l'intesa sul decreto attuativo della riforma Madia potrà arrivare già giovedì», ha auspicato il delegato Anci al personale (e sindaco di Chieti) Umberto Di Primio (articolo ItaliaOggi del 26.10.2016).

ATTI AMMINISTRATIVILa conferenza di servizi accelera. La forma semplificata «a distanza» punta ad abbreviare i tempi ed evitare impasse.
Procedure autorizzative. Le modifiche previste dal Dlgs 127/2016 si applicano ai procedimenti avviati dopo il 28.07.2016.

Le nuove regole sulla conferenza di servizi previste dal Dlgs 127/2016 -applicabili ai procedimenti avviati dopo il 28 luglio scorso- puntano a ridurre i tempi, snellirne l’iter ed evitare impasse decisionali di questo strumento, introdotto nel nostro ordinamento nel 1990 dalla legge 241/1990.
La conferenza semplificata. Tra le principali novità figura la cosiddetta conferenza semplificata, ossia un modulo operativo che si aggiunge a quelli già esistenti e che non richiede la presenza contemporanea dei rappresentanti di ciascuna amministrazione coinvolta, non svolgendosi tramite riunioni.
Questa tipologia di conferenza si innesta nell’ambito delle conferenze di servizi “decisorie”, tese a maturare una decisione unica, e spesso pluri-strutturata, a seguito di una valutazione comparata di più interessi espressi nel contesto di uno o più procedimento.
Il procedimento. Oggi, quindi, la conferenza decisoria si articola in due categorie: la semplificata e la simultanea. Di regola, la conferenza decisoria si avvia con la formula semplificata (fatta eccezione per casi specifici) e si svolge in modalità asincrona, quindi senza la partecipazione contestuale dei rappresentanti della Pa. Il procedimento, quindi, si articola in più fasi:
La comunicazione. Dopo l’avvio del procedimento, l’amministrazione procedente invia alle altre una comunicazione indicando l’oggetto della determinazione, il termine per le integrazioni (15 giorni) e quello entro cui pronunciarsi (45 giorni, che diventano 90 in caso di interessi rafforzati come ambiente, beni culturali, paesaggio, salute), nonché la data dell’eventuale riunione per la convocazione in modalità simultanea.
L’invio delle determinazioni delle Pa coinvolte. Entro il termine assegnato, le Pa dovranno esprimersi formulando il proprio “assenso” o il proprio “dissenso”, potranno suggerire modifiche al progetto e indicare prescrizioni o condizioni che devono essere chiare e analitiche nonché, se riferite ad un vincolo, dovranno specificare a quale vincolo fanno riferimento e la fonte normativa o regolamentare da cui esso derivi.
Se una amministrazione coinvolta nel procedimento non trasmette il proprio parere entro 45 giorni (90 per le materie sensibili) o se la relativa determinazione non rispetta i requisiti di chiarezza e completezza richiesti dalla normativa, si forma, sul progetto esaminato, il silenzio-assenso senza condizioni. Circostanza, questa, che può determinare la responsabilità dell’amministrazione (per il mancato esercizio del potere conferitole) o del dipendente nei confronti della Pa.
La determinazione di conclusione del procedimento. Scaduto il termine assegnato alle Pa, l’amministrazione procedente, entro i successivi cinque giorni, adotta la determinazione di conclusione del procedimento che potrà essere “positiva”, in caso di acquisizione di atti di assenso, anche implicito, e le cui eventuali condizioni e prescrizioni non modificano radicalmente il progetto analizzato; o “negativa” in caso pervengano uno o più atti di dissenso che l’amministrazione procedente non ritenga superabili.
La conferenza simultanea. Si ricorre alla conferenza simultanea (ossia la formula della conferenza conosciuta finora- che vede la partecipazione contestuale delle varie amministrazioni allo stesso tavolo) nei seguenti casi:
- se in sede di conferenza semplificata le Pa esprimono posizioni differenziate e con condizioni complesse;
- in caso di procedimenti di particolare complessità;
- qualora lo richieda il proponente.
Con la conferenza semplificata si riporta in auge, in altri termini, il modello di formazione del provvedimento amministrativo che non necessita del coinvolgimento contestuale delle amministrazioni ma che vede l’amministrazione procedente acquisire man mano dalle altre Pa i vari pareri e poi emana il provvedimento finale.
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Spetta a chi dissente l’appello al Governo. L’opposizione. Ribaltata l’impostazione precedente.
Le nuove norme sulla conferenza dei servizi definiscono anche il procedimento di opposizione in caso di dissenso di una o più Pa. Fino al Dlgs 127/2016, il meccanismo per risolvere dissensi lasciava spesso dei dubbi interpretativi sulla formazione compiuta delle volontà (di segno negativo) della Pa preposta alla tutela di un interesse sensibile espresso nell’ambito della conferenza di servizi.
Per considerarlo qualificato, il dissenso doveva essere, anzitutto, “motivato”, circostanza questa, spesso, non di immediata percezione: poteva bastare il semplice richiamo all’esistenza di un vincolo culturale per motivare un diniego ad un progetto edilizio? O l’amministrazione doveva spiegare l’incompatibilità del progetto con il vincolo?
Ma le incertezze non terminavano qui: la disciplina della legge 241/1990 imponeva all’amministrazione procedente di rimettere la questione al Consiglio dei ministri. Quindi, la decisione sull’esistenza di un dissenso validamente espresso (ossia motivato), spettava ad una amministrazione terza, chiamata a fare da arbitro del procedimento in corso. Anche questa circostanza era foriera di molti conflitti: se ad esempio la Pa procedente non riteneva “motivato” un dato diniego, poteva decidere anche di concludere il procedimento approvando il progetto.
In tal caso, l’amministrazione dissenziente poteva adire il Tar competente per chiedere o l’annullamento per violazione di legge (ossia delle norme che governavano la disciplina del dissenso in conferenza) o la dichiarazione di nullità per incompetenza assoluta (in quanto il provvedimento era stato emanato dall’amministrazione appartenente a un plesso completamente diverso da quello cui la legge attribuiva la competenza, ossia il Cdm). Restava quindi un’alea di incertezza.
Il Dlgs 127/2016 inverte l’onere della responsabilità di sollevare l’opposizione e lo pone in capo all’amministrazione dissenziente. Una modifica che elimina le incertezze sulla legittimità del provvedimento finale per la mancata devoluzione al Consiglio dei ministri: spetta alla Pa dissenziente (preposta alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, dei beni culturali, salute e pubblica incolumità) proporre opposizione al presidente del Consiglio dei ministri entro dieci giorni dalla comunicazione della determinazione di conclusione del procedimento.
Le Pa possono inoltre opporsi solo se hanno espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso, prima della conclusione dei lavori della conferenza.
Nel caso in cui in conferenza siano acquisiti dissensi qualificati (che possono portare alla proposizione dell’opposizione), l’efficacia della determinazione motivata di conclusione della conferenza è sospesa per dieci giorni. Se l’opposizione non viene presentata, il provvedimento riacquista efficacia una volta decorso detto termine.
Parimenti, se viene esperito il procedimento di opposizione, la determinazione di conclusione della conferenza resta sospesa in attesa della decisione finale su di esso
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Per revoca e annullamento iter e organismo identici. Gli altri rimedi. Le nuove norme hanno confermato l’orientamento giurisprudenziale.
L’efficacia della determinazione motivata di conclusione della conferenza non è sempre uguale, ma dipende dal tipo di approvazione ottenuta. In caso di approvazione unanime, la determinazione è immediatamente efficace, mentre nel caso di approvazione sulla base delle posizioni prevalenti, l’efficacia della determinazione è sospesa ove siano stati espressi dissensi qualificati, per il periodo utile all’esperimento del rimedio dell’opposizione.
La determinazione motivata di conclusione della conferenza sostituisce a ogni effetto tutti gli atti di assenso, comunque denominati, di competenza delle varie Pa coinvolte nel procedimento. Esse, tuttavia, possono:
sollecitare con congrua motivazione l’amministrazione procedente ad assumere provvedimenti di annullamento in autotutela (articolo 21-nonies della legge 241/1990), previa indizione di una nuova conferenza;
sollecitare l’amministrazione procedente a provvedere con la revoca (articolo 21-quinquies della legge 241/1990) solo se esse abbiano partecipato alla conferenza di servizi o si siano espresse nei termini.
Finora il potere di autotutela restava confinato nell’elaborazione giurisprudenziale, che non solo lo ammetteva ma aveva anche indicato -nel principio del contrarius actus  la formula operativa attraverso cui esso poteva estrinsecarsi: i giudici amministrativi avevano ribadito che occorreva la convocazione di una nuova conferenza di servizi per annullare in autotutela o revocare una precedente determinazione assunta in conferenza.
Oggi, il secondo comma dell’articolo 14-quater espressamente riconosce che l’autotutela si esercita mediante nuova conferenza (quindi, semplificata o simultanea, a seconda della tipologia del primo consesso).
L’autotutela può estrinsecarsi nell’annullamento o nella revoca, ma non tutte le amministrazioni possono richiedere alla Pa procedente di esercitare entrambi i poteri:
- la formula dell’annullamento (ricorrendone, però, i presupposti di violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza) può essere richiesta da tutte le Pa coinvolte;
- al contrario, solo le amministrazioni che abbiano partecipato attivamente ai lavori della conferenza possono richiedere la revoca di un provvedimento (ricordando, però, che in edilizia i permessi di costruire, secondo il disposto dell’articolo 12 del Dpr 380/2001, non sono revocabili).

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Raccolta dei pareri più facile per Scia e permesso di costruire. L’ambito di utilizzo. Lo sportello unico per le attività produttive potrà ricorrere alla formula «asincrona».
Lo strumento della conferenza di servizi è tradizionalmente collegato alla necessità della semplificazione di procedimenti articolati e complessi in cui confluiscono le decisioni di più amministrazioni portatrici di interessi diversi.
Sono molti i casi in cui un procedimento amministrativo si articola in più direzioni e necessita di acquisire un centro in cui le varie opinioni vengono convogliate e valutate.
Conferenza istruttoria
Si pensi, ad esempio, a un’amministrazione che per concludere il proprio procedimento –quindi, fondando la propria decisione sulla valutazione del solo interesse giuridico che è chiamata a tutelare– decida che per il miglior risultato della sua azione amministrativa sia opportuno un confronto con altre amministrazioni. Esse, infatti, possono portare all’attenzione della Pa procedente alcuni elementi in fatto o diritto che la possono aiutare a meglio ponderare la valutazione che si concretizza nel provvedimento finale.
È questo il caso della conferenza istruttoria, che esamina più interessi coinvolti in un solo procedimento e che danno vita ad una decisione monostrutturata. Si pensi all’ipotesi di un permesso di costruire in area non vincolata o non in fascia di rispetto, ma per il cui rilascio la Pa decida di acquisire anche i pareri degli enti preposti alla tutela di una determinata strada che potrebbe avere un impatto in termini di traffico e circolazione con il progetto da approvare.
Conferenza preliminare
Altra ipotesi è la conferenza preliminare, ossia quella che viene convocata per svolgere un esame preventivo su un dato progetto e così permettere all’istante e alla Pa di comprendere le condizioni per ottenere in futuro i necessari atti di consenso.
Conferenza decisoria
Molto frequenti, in edilizia, sono i casi di conferenza decisoria, ossia la conferenza nel cui consesso sono chiamati ad esprimersi i rappresentanti di più amministrazioni direttamente coinvolte da un dato progetto e che, per ragioni di celerità e speditezza, vengono chiamati a partecipare attraverso il modulo della conferenza per il rilascio del titolo edilizio finale.
Va anzitutto ricordato che è il Suap (Sportello unico per le attività produttive) l’organo cui compete l’acquisizione dei vari pareri eventualmente necessari in procedimenti così complessi, e l’articolo 5 del Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) ricorda che tale raccolta può ben avvenire attraverso proprio lo strumento della conferenza di servizi.
Si pensi, poi, all’articolo 20 del Dpr 380, che descrive il procedimento per la formazione del permesso di costruire e che attribuisce al responsabile del procedimento il compito di curare l’istruttoria e, se necessario, acquisire gli ulteriori atti di assenso, per il tramite della conferenza di servizi.
Parimenti, per il procedimento tramite Scia: il legislatore ricorre alla conferenza di servizi per il caso in cui occorre acquisire più pareri.
Tali forme decisorie dovranno, oggi, essere impostate secondo la riforma del Dlgs 127/2016, e quindi, non richiederanno la presenza congiunta dei rappresentanti in una sola riunione ma dovranno, di regola, seguire la formula della conferenza semplificata, con richiesta di pareri da parte della Pa procedente, seguita dall’invio delle determinazioni degli altri enti coinvolti dal rilascio del titolo edilizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmianto, scattano le bonifiche. Click day dal 16/11. A disposizione 17 mln in tre anni. Definite le modalità per usufruire del bonus del 50% per interventi sui capannoni.
Per il bonus del 50% sulla bonifica da amianto dei capannoni click day dal 16 novembre. Le imprese potranno comunque iniziare a registrarsi attraverso l'apposita piattaforma elettronica accessibile dal sito del ministero dell'ambiente www.minambiente.it già dal 27 ottobre. Il finanziamento complessivo è pari a 17 milioni di euro e l'agevolazione non spetta per investimenti di importo unitario inferiore a 20 mila euro. Entro 90 giorni dalla presentazione dell'istanza, il Ministero dell'ambiente comunicherà alle imprese il riconoscimento o il diniego dell'agevolazione.

Questo è quanto previsto dal decreto del 15.06.2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17.10.2016 n. 243) con il quale il ministero dell'ambiente ha definito le modalità di presentazione delle domande per usufruire del credito d'imposta per interventi di bonifica dei beni e delle aree contenenti amianto.
Per garantire la massima trasparenza e la maggiore comprensione possibile del modulo di presentazione delle istanze, sono inoltre state redatte dal dicastero dell'ambiente, le linee guida alla predisposizione delle domande e le Faq. Le agevolazioni sono concesse nei limiti e nelle condizioni del regolamento europeo che prevede che il finanziamento pubblico alle imprese uniche non possa superare, nel triennio, 100 mila euro per le imprese di trasporto merci per conto terzi, e 200 mila euro per le altre.
Sono invece escluse le imprese di produzione primaria di prodotti agricoli, pesca e acquacoltura, e quelle che operano nei servizi di interesse economico generale, le cui agevolazioni sono disciplinate da altri regolamenti comunitari. Il credito d'imposta verrà concesso solo per interventi di rimozione e smaltimento dell'amianto, non per il semplice incapsulamento o confinamento. Saranno finanziati solo gli interventi conclusi, quelli di cui l'impresa può comprovare i pagamenti effettuati e l'avvenuto smaltimento in discarica dell'amianto entro il 31.12.2016.
Spese ammissibili. Sono ammissibili al credito d'imposta gli interventi di rimozione e smaltimento, anche previo trattamento in impianti autorizzati, dell'amianto presente in coperture e manufatti di beni e strutture produttive ubicati nel territorio nazionale effettuati nel rispetto della normativa ambientale e di sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono ammesse, inoltre, le spese di consulenze professionali e perizie tecniche nei limiti del 10% delle spese complessive sostenute e comunque non oltre l'ammontare di 10.000,00 euro per ciascun progetto di bonifica unitariamente considerato.
Sono considerate eleggibili le spese per la rimozione e lo smaltimento, anche previo trattamento in impianti autorizzati, di lastre di amianto piane o ondulate, coperture in eternit, tubi, canalizzazioni e contenitori per il trasporto e lo stoccaggio di fluidi, a uso civile e industriale in amianto e sistemi di coibentazione industriale in amianto.
Soggetti interessati. Possono accedere ai contributi i soggetti titolari di reddito d'impresa, ai sensi dell'articolo 2195 del codice civile, purché si tratti di imprese le cui attività siano riconducibili alle attività ammissibili a contributo «de minimis» di cui al regolamento (Ue) n. 1407/2013 del 18.12.2013.
Di fatto, dunque, risultano escluse le imprese che operano nei settori riconducibili ai regolamenti (Ue) n. 360/2012 (servizi di interesse economico generale), n. 1408/2013 del 18.12.2013 (settore agricolo) e n. 717/2014 del 27.06.2014 (settore della pesca e dell'acquacoltura).
Ciascuna impresa, considerata come «Impresa unica» ai sensi del regolamento (Ue) n. 1407/2013 del 18.12.2013 (considerando n. 4 e articolo 2.2), può presentare tante domande di contributo quanti sono gli interventi di rimozione o smaltimento amianto effettuati nell'annualità 2016 sul territorio nazionale. Si ricorda che a ogni intervento deve essere associato un diverso piano di lavoro. All'agevolazione concessa deve essere applicato il limite di importo cui al regolamento 1407/2013.
In caso di più domande presentate singolarmente da imprese che risultino fra di loro collegate o associate secondo le definizioni del citato regolamento, si ricorda che queste devono essere considerate come «impresa unica» e il finanziamento totale non può eccedere i limiti imposti dal regolamento 1407/2013.
Ciascuna impresa unica può presentare domanda di contributo anche se ha già beneficiato a qualsiasi titolo aiuti di Stato concessi in regime «de minimis»; l'importo del contributo al quale avrà diritto, qualsiasi sia l'ammontare delle spese sostenute, sarà comunque commisurato al limite stabilito dal regolamento 1407/2013 nell'arco di tre anni, dunque:
- la differenza tra quanto già fruito nel triennio e 100.000 euro per le imprese esercenti il trasporto di merci su strada per conto terzi;
- la differenza tra quanto già fruito nel triennio e 200.000 euro per tutte le altre imprese.
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Come presentare domanda telematica.
La procedura per la presentazione della domanda di contributo è esclusivamente online, ossia avviene attraverso la compilazione di un modulo e il caricamento di informazioni e documenti mediante una piattaforma informatica, accessibile all'indirizzo web: www.minambienteamianto.ancitel.it
Per presentare la domanda l'azienda richiedente deve eseguire i seguenti step procedurali:
- dalla pagina web www.minambienteamianto.ancitel.it, l'impresa accede alla sezione «clicca qui per registrarti» all'interno della quale è necessario compilare i campi relativi alla sezione «dati anagrafici del richiedente», allegare documento di identità del dichiarante e (eventualmente) il titolo di rappresentanza posseduto per compilare la domanda per conto dell'impresa, dichiarare (con flag da apporre nel campo apposito) che i documenti allegati sono copia conforme all'originale, compilare i campi relativi alla sezione «dati dell'impresa», esprimere il consenso in merito al trattamento dei dati personali, (con due flag da apporre nei campi appositi) e terminare la registrazione attraverso il pulsante «registrati».
- con lo username e la password rilasciati dal sistema al termine della fase di registrazione, è possibile accedere all'area riservata, suddivisa in cinque sezioni da compilare in sequenza:
   - «domanda all'interno della quale» vengono riepilogati i dati identificativi dell'impresa, bisogna descrivere brevemente l'intervento e deve essere resa una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in merito alla tipologia dell'azienda richiedente, alle spese sostenute per l'intervento di bonifica e alla posizione dell'azienda riguardo agli aiuti di stato concessi a titolo di de minimis;
   - «dichiarazioni» - nella quale vengono rese dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà sullo stato dell'impresa;
   - «fatture» al cui interno vanno inseriti alcuni dati identificativi dei documenti comprovanti le spese sostenute a supporto della domanda di contributo, e allegate le relative fatture commerciali quietanzate;
   - «allegati» – nella quale è possibile scaricare i format da utilizzare per le dichiarazioni da compilare, sottoscrivere e caricare in piattaforma (obbligatori - allegati 1 e 2) unitamente al piano di lavoro (obbligatorio) del progetto di bonifica, alla comunicazione alla Asl (obbligatoria) di avvenuta ultimazione dei lavori, alla certificazione (eventuale) relativa all'amianto friabile e alla certificazione Cccia (obbligatoria);
   - «certifica e invio» che consente la verifica di completezza dei contenuti della domanda prima della conclusione della procedura, con l'invio formale.
Nella domanda, sottoscritta dal legale rappresentante dell'impresa, dovrà essere specificato il costo complessivo degli interventi, l'ammontare delle singole spese eleggibili, l'ammontare del credito d'imposta richiesto e il non usufruire di altre agevolazioni per le medesime voci di spesa.
Il credito d'imposta è riconosciuto previa verifica, da parte del Ministero dell'ambiente dell'ammissibilità in ordine al rispetto dei requisiti previsti, secondo l'ordine di presentazione delle domande e sino all'esaurimento del limite di spesa complessivo pari a 17 milioni di euro (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO: Distacchi ai morosi. Non a tutti. Servizio idrico garantito per chi è in stato di disagio. Le principali novità del Dpcm, pubblicato in G.U., con le linee guida per l'Authority.
Vietato privare dell'acqua i soggetti che si trovano in situazioni di difficoltà economico-sociale. Sono 50 i litri giornalieri ai quali si ha comunque diritto anche se non si è in regola con i pagamenti. In tutti gli altri casi di morosità il distacco del servizio idrico sarà comunque possibile soltanto superata una certa soglia di debito.

Sono queste le principali novità contenute nel decreto del presidente del consiglio dei ministri del 29.08.2016, pubblicato sulla G.U. n. 241 dello scorso 14.10.2016, che tuttavia non sembrano essere direttamente applicabili agli edifici condominali.
Il contenimento della morosità nel servizio idrico integrato. Negli ultimi anni, anche a causa della grave crisi economica, si è fatta sempre più pressante l'esigenza di individuare una soluzione in grado di contemperare le opposte esigenze delle imprese fornitrici del servizio idrico, chiamate a fare i conti con continue e diffuse situazioni di morosità, e degli utenti, spesso richiesti di pagare in tempi stretti elevati importi a conguaglio o non più in grado di rientrare da debiti pregressi.
Il più delle volte la reazione dell'impresa fornitrice al mancato e reiterato pagamento delle fatture è quella di interrompere l'erogazione dell'acqua al soggetto moroso. Tuttavia questo tipo di decisioni, per quanto legittime a livello del singolo inadempimento contrattuale, vanno necessariamente ripensate a livello collettivo e di sistema, perché possono comportare una serie di importanti ripercussioni in tema di tutela della salute e delle esigenze alimentari e igienico-sanitarie, da un lato, di salvaguardia della risorsa idrica e della necessità di copertura dei costi del servizio a garanzia dell'equilibrio economico-finanziario della gestione, dall'altro.
La questione è attualmente anche in discussione al Senato, presso il quale pende l'esame di uno specifico disegno di legge, e una prima soluzione è stata anticipata con il Dpcm in esame, adottato su proposta del ministro dell'ambiente, di concerto con il ministro dello sviluppo economico.
Si è quindi in primo luogo deciso di diversificare il trattamento delle situazioni di morosità a seconda delle tipologie di utenza (domestiche residenziali, seconde case, commerciali) e di salvaguardare in ogni caso i soggetti che si trovino in condizioni socio-economiche disagiate. Per questi ultimi, tenuto conto di quanto indicato dall'Organizzazione mondiale della sanità, si è quindi stabilito un minimo vitale di fabbisogno di acqua intangibile e pari a 50 litri al giorno per persona.
Il ruolo dell'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico. Il Dpcm del 29.08.2016 demanda all'Autorità di settore il compito di provvedere a disciplinare nel dettaglio la materia. In primo luogo dovranno essere individuate le «condizioni di documentato stato di disagio economico-sociale» in base alle quali le utenze domestiche residenti, anche se morose, dovranno vedersi garantito il fabbisogno minimo giornaliero di acqua del quale si diceva (in un recente intervento pubblico il ministro dell'ambiente, Gianluca Galletti, ha fatto espresso riferimento all'indicatore Isee), nonché le attività di servizio pubblico le cui utenze non potranno in nessun caso essere disalimentate.
Al di fuori dei casi di disagio economico-sociale, per le utenze domestiche residenziali morose si potrà però procedere al distacco solo successivamente al mancato pagamento di fatture che siano complessivamente superiori a un importo pari al corrispettivo annuo dovuto in relazione al volume della fascia agevolata, che sarà presto determinato dall'Authority. Per tutte le utenze morose, inoltre, la disalimentazione potrà essere avviata solo in seguito alla regolare messa in mora del debitore e all'escussione del deposito cauzionale, ove versato, nei casi nei quali lo stesso non consenta la copertura integrale del debito.
L'Autorità di settore, al fine di contenere il fenomeno della morosità, dovrà quindi individuare apposite condizioni che le imprese del settore dovranno recepire nella propria contrattualistica volte, in generale, ad aumentare la trasparenza e la correttezza nei rapporti con l'utenza e, in particolare, a stabilire modalità e tempistiche di lettura dei contatori, periodicità di fatturazione, procedure di pagamento con possibile definizione di piani di rateizzazione, modalità di gestione dei reclami e delle controversie, individuazione delle procedure di messa in mora dell'utente, di recupero del credito, di disalimentazione delle utenze e riattivazione delle stesse in caso di successivo pagamento.
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Ma in condominio la strada è in salita.
Parallelamente a quanto avviene nei rapporti tra fornitore e utente, anche in condominio è possibile procedere al distacco del servizio idrico nei confronti dei condomini in mora nel pagamento delle spese comuni. Infatti uno dei deterrenti individuati dal novellato art. 63 disp. att. c.c. per combattere la morosità condominiale è proprio la possibilità di escludere il comproprietario non in regola con i pagamenti per oltre un semestre dall'utilizzazione dei beni e dei servizi comuni suscettibili di godimento separato.
A conti fatti, il distacco del condomino moroso dai servizi comuni, in particolar modo per acqua e riscaldamento, risulta però essere una strada poco praticabile. E questo sia per motivi tecnici (per procedere in tal senso occorre, infatti, poter agire sulle parti comuni, poiché altrimenti occorre acquisire una previa autorizzazione giudiziale a entrare con la forza nella proprietà esclusiva del condomino e provvedere a sigillare la derivazione dell'impianto comune) che giuridici (poiché si rischia di intaccare un diritto di rilevanza costituzionale come quello alla salute per tutelare un diritto di contenuto meramente patrimoniale, in molti casi capita che il giudice investito della questione blocchi l'iniziativa del condominio o indichi delle particolari modalità di esecuzione in grado di contemperare gli opposti interessi).
La novità dell'individuazione di una soglia intangibile di consumo di acqua per gli utenti morosi contenuta nel Dpcm del 29.08.2016 non sembra però direttamente applicabile al condominio, nel quale esiste un impianto comune dal quale si diramano le tubazioni che raggiungono le singole proprietà private, con le conseguenti difficoltà sia di intervenire sulla singola diramazione per interrompere e/o contingentare il flusso di acqua sia di ottenere dal fornitore del servizio idrico l'applicazione dell'esimente della situazione di disagio economico-sociale, per sua natura relativa soltanto ad alcuni dei comproprietari che compongono la compagine condominiale. Per converso, le ricadute pratiche del suddetto principio potrebbero rendere ancora più difficile il contrasto alla morosità condominiale.
Se, infatti, per l'amministratore sarà comunque difficile, in caso di difficoltà di pagamento delle fatture per il consumo dell'acqua, ottenere dall'impresa fornitrice l'erogazione di un quantitativo minimo, risulterà invece probabilmente più facile per i condomini morosi ottenere tutela in giudizio per evitare il distacco della propria utenza dal servizio idrico condominiale ai sensi del citato art. 63 disp. att. c.c.
Il nuovo riferimento normativo del diritto ai 50 litri giornalieri sembra infatti suonare come conferma indiretta di quella giurisprudenza che garantisce la prevalenza al diritto alla salute del condomino moroso sui diritti patrimoniali dei condomini in regola con i pagamenti e potrebbe essere utilizzato in giudizio come parametro di riferimento analogico per vietare i distacchi oppure per autorizzarli, ove tecnicamente possibile, garantendo l'erogazione alla singola utenza morosa del predetto quantitativo minimo di acqua (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016).

PUBBLICO IMPIEGOProvince, non c'è posto per tutti. Sono 476 i dipendenti sovrannumerari da ricollocare. Comuni e regioni possono riaprire le procedure di mobilità ma va completato l'ultimo tassello.
Sono ancora 476 i dipendenti sovrannumerari delle province da ricollocare, poco meno del 10% del personale complessivamente piazzato presso altre amministrazioni, a conclusione del laboriosissimo processo avviato dalla legge 190/2014. Per questo motivo, in quasi tutte le regioni, ai sensi dell'articolo 16 del dl 113/2016, convertito in legge 160/2016, è possibile per comuni ed enti territoriali ripartire con le procedure di mobilità, nei territori ove sia stato ricollocato almeno il 90% dei sovrannumerari.
Tuttavia, la questione della ricollocazione dei dipendenti provinciali, così come anche lo sblocco definitivo delle assunzioni, è ancora lontana dalla sua soluzione definitiva. Infatti, occorre adesso avviare una seconda fase del sistema di ricollocazione del portale mobilita.gov.it, per fare sì che le amministrazioni refrattarie assorbano i dipendenti.
Il numero di 476 ancora in attesa di ricollocazione può apparire basso rispetto al volume molto più grande (quasi 20 mila) di potenziali in esubero. Occorre tuttavia precisare che a questi occorre aggiungere i poco meno di 6 mila dipendenti addetti ai servizi per il lavoro, ancora in attesa di una ricollocazione definitiva.
Come è noto, questi ultimi dipendenti non sono stati inclusi negli elenchi del personale da destinare in mobilità forzata col portale mobilita.gov.it, nelle more di un loro futuro lavorativo presso l'Anpal, agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Tuttavia, l'assorbimento dei circa 6 mila dipendenti presso l'Anpal appare ancora lontanissimo dal verificarsi e il 31/12/2016 scadono le convenzioni tra Ministero del lavoro e regioni, che hanno consentito di alleviare le province dal costo di questo personale, ripartito per 2/3 sullo Stato e il restante terzo alle regioni. Dunque, dall'1/1/2017 non si sa chi finanzierà gli stipendi degli addetti ai servizi per il lavoro, né chi sia il loro datore, posto che per il trasferimento all'Anpal occorreranno mesi, se non anni.
Infatti, molti dei 6 mila stanno partecipando alle procedure di mobilità volontaria attivate dai comuni delle regioni nelle quali sono già state sbloccate: ma, non è chiaro se le province possano consentire dette mobilità, posto che questi dipendenti paiono essere comunque soggetti ad un vincolo: la destinazione comunque a servizi per il lavoro. Le procedure di mobilità volontaria attivate dagli enti locali quindi si intasano e complicano.
Peraltro, se i 476 dipendenti provinciali non ricollocati non vengano urgentemente piazzati in altre amministrazioni, anche lo sblocco delle mobilità volontarie subirà uno stop. Infatti, i 476 andranno in disponibilità a marzo 2017 e da quel momento avranno diritto ad essere ricollocati con priorità su qualsiasi procedura di mobilità volontaria o di concorso (articolo ItaliaOggi del 22.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOA rischio i resti assunzionali del 2012.
I resti assunzionali dell'anno 2012 vanno persi, se non si giunge all'assunzione dei dipendenti entro il 2016.
L'articolo 3, coma 5-bis, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, come modificato lo scorso anno dal dl 78/2015, consente di utilizzare i residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente.
Nel 2016, poiché è possibile utilizzare pienamente le facoltà assunzionali del 2015, l'ultimo triennio da considerare è quello che va dal 2012 al 2014. C'è, però, da tenere ben presenti le regole finanziarie derivanti da due fattori. Il primo è la natura scorrevole del triennio, che di anno in anno perde l'annualità più antica (pertanto, nel 2017 il triennio sarà il 2013-2015). Il secondo è costituito dalle nuove regole contabili, dalle quali deriva l'eliminazione dei residui passivi. La combinazione di questi fattori determina l'impossibilità di utilizzare la quota residua delle facoltà assunzionali del 2012, se entro l'anno 2016 non si sia in grado di impegnare la spesa.
Non basta approvare il bando di gara per poter consolidare le facoltà assunzionali residue del 2012. Applicando i principi contabili, si deve necessariamente giungere all'impegno definitivo della spesa, possibile solo laddove si formi il titolo giuridico.
Nel caso di specie, trattandosi di procedure di reclutamento, il titolo giuridico non può che essere la stipulazione del contratto di lavoro: solo se si giunga a detta stipulazione entro il 31/12/2016 le risorse del 2012 possono essere portate a giustificazione dell'assunzione. Per meglio chiarire, occorre un esempio.
Ponendo che un'assunzione a tempo pieno costi 30 mila euro l'anno, immaginiamo che un ente abbia facoltà assunzionali di 5 mila euro nel 2012, altri 5 mila nel 2013, 10 mila nel 2014 e 10 mila nel 2015, senza previsione di alcuna cessazione per il 2016. Cumulando queste facoltà, potrebbe giungere ad assumere un'unità di personale intera, del costo appunto di 30 mila euro. Ma, se non si stipula il contratto di lavoro entro il 31/12/2016, e dunque l'obbligazione non si perfeziona, la prenotazione di impegno (che non si trasforma in residuo) perde la copertura (solo virtuale) giuridica della possibilità di utilizzare i 5 mila euro di facoltà assunzionali del 2012.
Nell'esempio fatto, allora, se la stipulazione del contratto interviene nel 2017, non sarebbe possibile l'assunzione dell'unità di personale a tempo pieno, ma solo a tempo parziale. Sta di fatto che l'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014 non costituisce per gli enti una fonte di entrata, ma autorizza ad effettuare la spesa per assunzioni entro determinati limiti; le regole della contabilità armonizzata non contengono alcuna specifica indicazione su come gestire queste autorizzazioni basate sul triennio scorrevole. Dovendo, quindi, applicare le previsioni del principio contabile 4/2, punto 5.1, le conseguenze sono la perdita della possibilità di utilizzare l'autorizzazione alla spesa della quota di risorse assunzionali dell'anno più tardo del triennio.
Ciò ha conseguenze non da poco proprio sul 2016, anno nel quale gli enti locali di Lombardia e Toscana hanno avuto lo sblocco delle assunzioni a seguito della ricollocazione dei soprannumerari delle province solo a partire da ottobre. Dovendo, per le assunzioni da concorso, prima esaurire le procedure della mobilità obbligatoria prevista dall'articolo 34-bis de dlgs 165/2001, e poi quella della mobilità volontaria regolata dall'articolo 30 sempre del dlgs 165/2001, nonché attivare l'iter concorsuale, è estremamente difficile che possano riuscire ad assumere e dunque stipulare il contratto di lavoro col vincitore del concorso, avvalendosi della facoltà assunzionale riferita al 2012 (articolo ItaliaOggi del 22.10.2016).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIDurc, estesi i controlli delle casse edili.
Regolarità contributiva estesa alle casse edili anche per le imprese non edili se applicano il Ccnl dell'edilizia.

A stabilirlo è il decreto 23.02.2016 pubblicato sulla G.U. n. 245/2016 che, inoltre, semplifica la regolarità contributiva nei casi di fallimento, di liquidazione coatta amministrativa con esercizio provvisorio e di amministrazione straordinaria.
Imprese non edili. Il provvedimento, a firma del ministero del lavoro e di quello dell'economia, modifica il decreto 30.01.2015 che disciplina il documento unico di regolarità contributiva, Durc, con due novità. Con il Durc, si ricorda, viene attestato che un'impresa è regolare ai fini Inps (contributi) e Inail (premi assicurativi), nonché esclusivamente nel caso di imprese edili anche ai fini delle contribuzioni dovute alle casse edili.
In primo luogo, come accennato, la verifica della regolarità contributiva, finora svolta solo ai fini Inps e Inail nel caso di imprese non appartenenti al settore dell'edilizia, viene estesa anche alle casse edili nell'ipotesi in cui le predette imprese (non appartenenti all'edilizia) applicano il contratto collettivo nazionale edile.
In particolare, la norma stabilisce che l'estensione della verifica vale «ai soli fini Durc, per le imprese che applicano il relativo contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle organizzazioni, per ciascuna parte, comparativamente più rappresentative».
Imprese in crisi. La seconda novità stabilisce che, in caso di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa con esercizio provvisorio (artt. 104 e 206 del regio decreto n. 267/1942), l'impresa si considera regolare con riferimento agli obblighi contributivi nei confronti dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili che siano scaduti anteriormente alla data di autorizzazione all'esercizio provvisorio.
Parimenti in caso di amministrazione straordinaria (di cui al dlgs n. 270/1999 e alla legge n. 39/2004) e sempre con riferimento ai debiti contributivi dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili scaduti anteriormente alla data del decreto che fissa l'apertura della procedura (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTurnover, limiti a maglie larghe. Extra budget il riassorbimento degli esuberi provinciali. La tesi di palazzo Vidoni nella nota che ripristina le assunzioni in Lombardia e Toscana.
Limiti al turnover a maglie più larghe per comuni e regioni. Secondo la Funzione pubblica, infatti, il riassorbimento dei lavoratori in esubero delle province può essere conteggiato «extra budget».
L'apertura si legge fra le righe della nota 10.10.2016 n. 51991 di prot. che ha ripristinato le ordinarie facoltà assunzionali nelle regioni Lombardia e Toscana. Al riguardo, essa contiene l'importante novità di non considerare più indisponibili tutti i posti inseriti nel portale. L'indisponibilità viene giustamente circoscritta al caso in cui all'ente sia stato assegnato personale in mobilità.
La previsione consente effettivamente di riavviare la politica assunzionale che, anche dopo lo liberatoria, di fatto restava impedita dall'impossibilità di coprire i posti indisponibili. Il blocco coinvolgeva anche le mobilità tra enti soggetti a limitazioni delle assunzioni che, finanziariamente neutre, non «consumano» il budget e sono ammesse anche in assenza di capacità assunzionale (ovviamente nei limiti delle vacanze di organico).
La nota sembra contenere, però, anche un'ulteriore importante apertura che, se confermata, potrebbe costituire un aiuto decisivo per i tanti enti che non dispongono di capacità assunzionale sufficiente rispetto al fabbisogno reale. Secondo la Funzione pubblica infatti, in caso di assegnazioni «le risorse disponibili devono essere calcolate anche tenendo conto dalla normativa prevista per finanziare le assunzioni di detto personale».
Il riferimento è all'art. 1, comma 424, della legge di stabilità 2014 (legge 190/2013) che permette di assumere il personale in esubero degli enti di area vasta, oltre l'ordinaria capacità assunzionale, fino al 100% del risparmio prodotto dalle cessazioni intervenute nell'anno precedente. La formulazione utilizzata sembra consentire agli enti di computare le mobilità del personale in esubero sulla quota di budget «aggiuntivo» del comma 424, dunque oltre il budget assunzionale ordinario che rimarrebbe interamente disponibile per ulteriori assunzioni. Questa facoltà dovrebbe essere riconosciuta quantomeno nel caso in cui l'ente utilizzi per intero il proprio budget destinandolo nella programmazione annuale/triennale ad assunzioni ordinarie.
Così, per esempio, nel 2016 l'ente potrebbe destinare il budget del 25% (75% per gli enti con meno di 10.000 abitanti con rapporto basso dipendenti/popolazione) interamente a nuove assunzioni, computando le assegnazioni di personale in esubero nel rimanente 75% (o 25%).
L'apertura dunque avrebbe grande importanza, specialmente alla luce delle percentuali di turnover attualmente previste, tanto più che secondo il citato comma 424 le mobilità obbligatorie non si computano ai fini del rispetto del tetto massimo alla spesa di personale (art. 1, commi 557 e 562, legge di stabilità 2007) (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).

APPALTINuovo codice, attuazione lumaca. In sei mesi varati solo 5 provvedimenti sui 53 previsti. Le stazioni appaltanti procedono con norme transitorie. In arrivo il correttivo della riforma.
A sei mesi dall'entrata in vigore del codice dei contratti pubblici sono stati varati tre decreti e due linee guida Anac sul totale di 53 provvedimenti previsti nel nuovo codice tra decreti ministeriali, interministeriali, della presidenza del consiglio dei ministri e linee guida dell'Anticorruzione (Anac).

È questo il bilancio, un po' scarno, della complessa opera di attuazione del codice dei contratti pubblici, di cui peraltro si dovrà predisporre il primo correttivo entro aprile 2017 o prima (fine dicembre), come da alcuni auspicato.
Per quel che riguarda le linee guida Anac, di cui l'Autorità avviò subito dopo il 19 aprile sette consultazioni pubbliche, ad oggi possiamo contare su due documenti già definitivi e pubblicati in Gazzetta Ufficiale: quello sui servizi di ingegneria e architettura (n. 1/2016) e quello sull'applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (2/2016).
Sono in dirittura di arrivo, nei prossimi giorni, due altre importantissime linee guida sulle quali Consiglio di Stato e commissioni parlamentari già si sono espressi: quella sui Rup (in cui si affronta la delicata questione della qualifica di project manager) e quella sull'albo del commissari di gara e sulla scelta degli stessi, attuativa dell'articolo 77 che fa obbligo di ricorso a commissari esterni per gli appalti sopra soglia Ue (mentre esiste la facoltà di istituire una commissione esterna per gli appalti sotto soglia e per tutti quelli che non presentano particolare complessità).
A breve, quindi, sarebbero quattro su sette le linee guida adottate dopo la consultazione di aprile (forse anche cinque se uscirà la linea guida sul sotto soglia); mancherebbero ancora all'appello quella sul partenariato pubblico-privato, quella sulle procedure negoziate per beni infingibili. Per quella sul rating di impresa si sta reimpostando un lavoro delicato e complesso a causa delle interrelazioni con la disciplina del rating di legalità.
C'è poi il fronte ministeriale: ad oggi sono usciti in Gazzetta i decreti sui parametri di riferimento per il calcolo dei corrispettivi di progettazione (dm 17.06.2016), il dpcm istitutivo della cabina di regia e i decreti sui criteri minimi ambientali.
Mancano ancora all'appello (fra quelli che dovevano teoricamente uscire entro il 19 ottobre o entro metà luglio) nove decreti ministeriali sui dieci previsti (fra cui quelli sulla programmazione, sui requisiti dei progettisti, sul Bim (Building information modelling), sulla opere del ministero della difesa, sul direttore dei lavori e sul direttore dell'esecuzione, sulla pubblicità dei bandi di gara.
Sono tre quelli non usciti che fanno capo alla presidenza del consiglio, che ha fatto uscire in Gazzetta il decreto sulla cabina di regia, e uno quello di competenza dell'Agenzia Italia digitale.
Va precisato che molti provvedimenti sono stati però avviati al Consiglio di stato da parte del ministero delle infrastrutture e in alcuni casi è stata data riposta anche a richieste di supplementi di istruttoria (ad esempio il decreto sui lavori prevalenti (attuativo dell'articolo 89, comma 11).
Per adesso, quindi, il percorso di attuazione che poggia su tanti provvedimenti, va avanti piano e in sede operativa le stazioni appaltanti e i soggetti privati vanno avanti con la disciplina transitoria, che fa salve diverse norme del dpr 207/2010 in attesa del varo dei provvedimenti attuativi.
Tutto ciò sullo sfondo dell'imminente primo correttivo del codice (fine dicembre, come qualcuno vorrebbe, o aprile 2017) sul quale le commissioni parlamentari hanno sentito operatori economici e amministrazioni, arrivando ad una prima lista di possibili interventi richiesti che si dovrà vedere se sarà possibile inserire in strumenti di urgenza come i decreti-legge (visto che il codice si basa su una delega attuativa anche delle direttive europee) (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).

APPALTIAppalti, l'Anac fa da paciere. L'Authority ha ruolo precontenzioso. Decisioni impugnabili. La concentrazione di troppi poteri in un solo soggetto può creare problemi di coordinamento.
Il nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs 18.04.2016 n. 50) ha ridefinito la funzione «precontenziosa» dell'Anac, volta alla composizione e alla prevenzione delle controversie in materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici.
L'art. 211 disciplina due distinti procedimenti, genericamente qualificati come «precontenziosi», rimessi alla competenza dell'Autorità.
La stessa disposizione stabilisce la proponibilità del ricorso giurisdizionale avverso le determinazioni conclusive del precontenzioso (i pareri e le «raccomandazioni» vincolanti dell'Autorità), con ciò riconoscendo la loro natura provvedimentale.
Il riconoscimento esplicito dell'impugnabilità delle decisioni dell'Anac smentisce la tesi sulla alternatività alla tutela giurisdizionale dei rimedi previsti dall'art. 211.
La disciplina di cui all'art. 211 fonda la propria ratio nell'impostazione di fondo dell'intero impianto del nuovo codice, che attribuisce all'Anac ampi poteri di intervento e di controllo nel sistema dei contratti pubblici. I poteri paragiurisdizionali dell'Anac, però, non risultano privi di controindicazioni e inducono a una riflessione sulla complessiva «tenuta» del sistema:
   I) la concentrazione di poteri normativi, sanzionatori, amministrativi, contenziosi in un unico soggetto potrebbe risultare inopportuna;
   II) l'Autorità potrebbe essere caricata di un'ulteriore funzione, che potrebbe spostare l'attenzione dal compito precipuo della regolazione generale del settore.
In sintesi le principali novità possono così riassumersi:
   a) è fissato il termine di 30 giorni dalla richiesta per la pronuncia del parere precontenzioso;
   b) è ridefinito il perimetro soggettivo dell'efficacia vincolante del parere che «obbliga le parti che vi abbiano preventivamente acconsentito»;
   c) è prevista l'impugnabilità del parere dinanzi al giudice amministrativo.
Il contenuto della norma può schematizzarsi in due ipotesi distinte, considerate da altrettanti commi ed entrambe le fattispecie prevedono uno specifico e puntale potere di intervento dell'Anac, in riferimento a singole procedure «di gara», allo scopo di verificarne la legittimità e di porre rimedio ai vizi eventualmente rilevati ed accertati. In entrambe le fattispecie è specificato che l'atto dell'Autorità è comunque sottoposto al sindacato del giudice amministrativo.
A) Nella prima fattispecie, la determinazione dell'Anac consegue ad una richiesta di parte ed è finalizzata a definire una possibile controversia (o anche una lite già in atto).
La possibile funzione di «filtro» è indiscutibile ed è presumibile l'effetto deflativo del contenzioso che il legislatore si era prefisso.
B) Nella seconda fattispecie, invece, la determinazione dell'Anac non interviene necessariamente su richiesta di parte, né è collegata ad una «controversia» o alla esistenza di una «questione»; ma, in assenza di una puntuale riserva di impulso di ufficio, è prevedibile che l'intervento dell'Autorità, in riferimento a particolari procedure, sarà originato dalle segnalazioni de soggetti direttamente coinvolti nella vicenda.
La fattispecie del comma 2, pertanto, concerne il potere officioso dell'Anac di rilevare le illegittimità compiute dalle stazioni appaltanti nel corso delle attività di affidamento dei contratti, attivando un inedito procedimento di «autotutela doverosa», presidiato da una pesante sanzione pecuniaria ricadente, direttamente, sul competente dirigente responsabile della stazione appaltante.
Potrebbe configurarsi in tal caso una peculiare forma di «controllo collaborativo» dell'Autorità, incentrato sul potere, anche officioso, di adottare atti di «raccomandazione vincolante», finalizzati al ripristino della legalità violata, attraverso l'imposizione dell'esercizio doveroso di una particolare forma di autotutela obbligatoria delle stazioni appaltanti.
Il rapporto tra le due diverse ipotesi regolate dall'art. 211 non è stato ben delineato dalla disposizione: tale carenza potrebbe originare un problema di coordinamento sistematico, poiché il procedimento precontenzioso di cui al comma 1, originato dalla iniziativa di una parte interessata alla risoluzione o prevenzione di una controversia, potrebbe trasformarsi, di fatto, in un'attività di controllo officioso dell'Anac sulla correttezza e legittimità della procedura (ai sensi del comma 2) (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICodice appalti verso il tagliando. Allo studio il decreto correttivo: l'ipotesi di approvarlo entro fine anno.
Contratti pubblici. A sei mesi dall’entrata in vigore del Dlgs 50 varati 6 provvedimenti attuativi su 56.

Anticipare il primo tagliando al codice appalti. È l’ipotesi che sta prendendo forma inquesti giorni per rispondere da subito alle criticità evidenziate nella prima fase di attuazione del Dlgs 50/2016, che proprio oggi chiude i primi sei mesi di operatività.
Le audizioni avviate dal Parlamento per testare l’impatto delle nuove regole sul mercato hanno messo in luce alcune emergenze che potrebbero spingere il Governo a intervenire con le prime correzioni entro la fine dell’anno, senza aspettare la scadenza (massima) del 19 aprile per esercitare la delega (prevista dalla legge 11/2016) a correggere in corsa il codice.
Ancora da sciogliere la forma che prenderanno queste correzioni. Una prima idea sarebbe quella di lavorare da subito al decreto correttivo, anticipandone il varo entro fine anno. L’altra ipotesi -più concreta per una questione di tempi, ma anche meno coerente con il percorso immaginato finora- è quella di procedere con una serie di modifiche spot (magari da inserire in uno dei decreti in conversione oppure nella legge di Bilancio), lasciando al provvedimento da varare entro aprile il compito di un ripensamento più organico. Sulla decisione finale peserà anche il parere del Parlamento che dovrebbe completare nel giro di un paio di settimane la sua consultazione.
Qualche certezza in più c’è, invece, sul merito degli interventi da anticipare alla prima occasione. In prima fila c’è la marcia indietro sul periodo di riferimento utile per la dimostrazione dei requisiti di qualificazione delle imprese. Il nuovo codice dimezza da 10 a 5 anni la forbice entro la quale pescare i lavori eseguiti di maggior valore. Il rischio è quello di mandare fuori mercato migliaia di imprese.
Di qui la scelta di ripristinare il bonus decennale. Un altro intervento potrebbe arrivare sui criteri di aggiudicazione delle gara, ritoccando al rialzo il tetto massimo per l’assegnazione degli appalti al massimo ribasso (ora fissato a un milione di euro), venendo incontro alle reiterate richieste di enti locali e imprese. Si porta dietro più dubbi (insieme alla contrarietà dell’Anac) la possibilità di intervenire sulla disciplina del subappalto, rivedendo le norme che lasciano alle stazioni appaltanti la facoltà di decidere di volta in volta se ammettere o meno i subaffidamenti e che obbligano i costruttori a indicare con l’offerta una terna di imprese da chiamare per i subappalti.
A sei mesi dall’entrata in vigore, il nuovo codice è peraltro ancora lontano dall’essere attuato per intero. Solo sei sui 56 provvedimenti attuativi nascosti tra le pieghe del 220 articoli del Dlgs 50 sono arrivati al traguardo finale. Mentre sono già stati abbondantemente superati i termini di approvazione di altri 17 provvedimenti (si sale a 21 se si considerano anche i 4 in scadenza oggi) che avrebbero dovuto essere varati entro l’estate, in modo da abbreviare al minimo indispensabile la fase di transizione tra il vecchio e il nuovo sistema.
Tra i provvedimenti arrivati al traguardo, due sono linee guida varate dall’Anac (offerta più vantaggiosa e incarichi di progettazione). L’Authority è pronta a licenziare a breve anche i “manuali” sul Rup e sui commissari di gara.
Al ministero delle Infrastrutture hanno cominciato a lavorare prima dell’estate ai 23 provvedimenti attuativi che il nuovo codice intesta a Porta Pia. Per ora il lavoro dei tecnici ha fruttato la messa a punto di una decina di provvedimenti. Tra questi, il decreto che disegna il nuovo sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, appena inviato a Palazzo Chigi.
A fine percorso anche il provvedimento con i nuovi livelli di progettazione delle opere pubbliche, strategico per i professionisti, oltre che per le Pa.Allo stesso modo, entro fine anno dovrebbe arrivare anche il decreto sull’utilizzo del Bim: darà un primo calendario alla sperimentazione delle nuove tecnologie digitali nei cantieri del nostro paese
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATABonifica amianto, agevolazioni a novembre.
Dal 16 novembre le imprese possono presentare al ministero dell'ambiente attraverso l'apposita piattaforma elettronica accessibile sul sito www.minambiente.it la domanda per il riconoscimento del credito d'imposta per interventi di bonifica dei beni e delle aree contenenti amianto. Le risorse a disposizione ammontano a 17 milioni di euro.
Possono beneficiare del credito d'imposta i soggetti titolari di reddito d'impresa, indipendentemente dalla natura giuridica assunta, dalle dimensioni aziendali e dal regime contabile adottato, che effettuano interventi di bonifica dall'amianto, su beni e strutture produttive ubicate nel territorio dello stato, dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2016.

È con il decreto del 15.06.2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17.10.2016 n. 243) con il quale il ministero dell'ambiente ha definito le modalità di presentazione delle domande per usufruire del credito d'imposta per interventi di bonifica dei beni e delle aree contenenti amianto.
Sono ammissibili al credito d'imposta gli interventi di rimozione e smaltimento, anche previo trattamento in impianti autorizzati, dell'amianto presente in coperture e manufatti di beni e strutture produttive ubicati nel territorio nazionale effettuati nel rispetto della normativa ambientale e di sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono ammesse, inoltre, le spese di consulenze professionali e perizie tecniche nei limiti del 10% delle spese complessive sostenute e comunque non oltre l'ammontare di 10.000 euro per ciascun progetto di bonifica unitariamente considerato.
Sono considerate eleggibili le spese per la rimozione e lo smaltimento, anche previo trattamento in impianti autorizzati, di lastre di amianto piane o ondulate, coperture in eternit, tubi, canalizzazioni e contenitori per il trasporto e lo stoccaggio di fluidi, a uso civile e industriale in amianto e sistemi di coibentazione industriale in amianto.
Nella domanda, sottoscritta dal legale rappresentante dell'impresa, dovrà essere specificato il costo complessivo degli interventi, l'ammontare delle singole spese eleggibili, l'ammontare del credito d'imposta richiesto e il non usufruire di altre agevolazioni per le medesime voci di spesa. Il credito d'imposta è riconosciuto previa verifica del rispetto dei requisiti da parte del ministero dell'ambiente, secondo l'ordine di presentazione delle domande (articolo ItaliaOggi del 19.10.2016).

APPALTIAppalti, anomalie da valutare in base a cinque offerte. Anac. Le istruzioni sul criterio del prezzo minore.
La rilevazione delle offerte anormalmente basse in caso di utilizzo del criterio del minor prezzo deve essere sviluppata per alcune formule con applicazione analogica di alcuni parametri e l’esclusione automatica deve essere effettuata solo per gli affidamenti di valore inferiore alla soglia comunitaria.
Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione ha chiarito con un nuovo comunicato le modalità applicative delle formule per la rilevazione delle offerte anomale nelle gare aggiudicate al prezzo più basso, stabilite dall’articolo 97 del Codice degli appalti, fornendo importanti precisazioni che consentono alle stazioni appaltanti di superare alcuni problemi emersi per carenze normative.
Le amministrazioni aggiudicatrici, quando scelgono il prezzo più basso, devono valutare la congruità delle offerte che presentano un ribasso pari o superiore a una soglia di anomalia determinata, per non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento per il calcolo della soglia, procedendo al sorteggio, in sede di gara, di uno tra i cinque criteri indicati nelle lettere da a) a e) del comma 2 dell’articolo 97. In relazione al metodo descritto nella lettera a), l’Anac evidenzia che il mancato accantonamento di un’offerta identica a quella presentata da altro concorrente e accantonata per il calcolo della soglia di anomalia non produce discriminazione tra gli operatori economici ammessi alla gara.
L’applicazione della metodologia specificata nella lettera b) è problematica in quanto la norma è priva dell’indicazione della grandezza rispetto alla quale va calcolato il valore del 10% da rapportare al metodo di calcolo. L’Anac precisa che tenendo conto della formulazione degli altri metodi di calcolo e, in particolare, di quelli descritti alle lettere a) ed e), entrambi recanti la dizione «con esclusione del 10%, arrotondato all’unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso» la lacuna può essere colmata mediante procedimento analogico, facendo riferimento a questa formulazione.
Con riferimento al calcolo dei criteri delle lettere c) e d) l’Autorità rileva che la soglia di anomalia calcolata sulla base dei ribassi assoluti o dei ribassi percentuali conduce ai medesimi risultati, per cui possono essere utilizzati indifferentemente i due metodi.
Per tutte le metodologie (particolarmente per la prima e la quinta) le indicazioni dell’Anac fanno rilevare come siano necessarie almeno cinque offerte da confrontare per poter calcolare la media e lo scarto medio delle offerte, per cui, mancando una norma che lo preveda, è necessario che le stazioni appaltanti indichino nella documentazione di gara che si procederà alla determinazione della soglia di anomalia mediante ricorso ai metodi dell’articolo 97, comma 2, del Codice solo in presenza di almeno 5 offerte ammesse.
L’Autorità chiarisce infine che la facoltà di avvalersi dell’esclusione automatica delle offerte anomale (prevista dal comma 8 dell’articolo 97) è prevista solo per gli affidamenti di lavori, servizi e forniture, di importo inferiore alle soglie comunitarie, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e si abbiano almeno dieci offerte: le stazioni appaltanti devono precisare nel bando che non si procederà all’esclusione automatica se il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi legge 104, niente stop durante l'iter di revisione. Le istruzioni dell'Inps sulla novità sui congedi ai dipendenti in caso di disabilità grave.
I lavoratori che hanno diritto ai permessi 104 (lavoratori loro stessi disabili e/o lavoratori che prestano assistenza a familiari in disabilità) possono fruirne anche durante il periodo di attesa della visita medica di revisione dello stato invalidante (stato che dà diritto ai permessi).

Anche se l'autorizzazione Inps scade, pertanto, i datori di lavoro possono continuare a consentire la fruizione dei permessi fino a conclusione dell'iter sanitario di revisione, il cui esito decreterà la possibilità o meno di continuare a fruire dei permessi. Durante il periodo dell'attesa della revisione, inoltre, possono continuare a portare a conguaglio le somme anticipate ai lavoratori (le retribuzioni delle giornate di assenza).
La novità, introdotta dalla legge n. 114/2014 con efficacia dal 19.08.2014, di fatto non era mai divenuta operativa: lo è divenuta adesso con le istruzioni dell'Inps (circolare n. 127/2016).
Come funzionava nel passato. Prima della legge n. 114/2014, il lavoratore, autorizzato dall'Inps alla fruizione dei benefici correlati alla disabilità grave accertata con un verbale soggetto a revisione, non poteva continuare a fruirne nel periodo compreso tra la data di scadenza del verbale e il completamento dell'iter sanitario di revisione. Solo all'esito del nuovo accertamento sanitario (sulla base del nuovo verbale) poteva presentare una nuova domanda, eventualmente l'esito fosse stato di conferma dello stato di disabile grave.
La legge n. 114/2014, di conversione del dl n. 90/2014 (art. 25, comma 6-bis), ha inserito una semplificazione disponendo che: «Nelle more dell'effettuazione delle eventuali visite di revisione e del relativo iter di verifica, i minorati civili e le persone con handicap in possesso di verbali in cui sia prevista rivedibilità conservano tutti i diritti acquisiti in materia di benefici, prestazioni e agevolazioni di qualsiasi natura. La convocazione a visita, nei casi di verbali per i quali sia prevista la rivedibilità, è di competenza dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps)».
Per effetto di questa norma, i lavoratori titolari dei permessi correlati alla disabilità grave in base a verbali con revisione prevista a partire dal 19.08.2014, giorno di entrata in vigore della norma, possono continuare a fruire dei permessi anche durante l'iter sanitario di revisione.
In tal caso, ha precisato l'Inps, non è necessario presentare una nuova domanda di autorizzazione per poter continuare a fruire dei permessi retribuiti mensili dal lavoro nel periodo compreso tra la data di scadenza del verbale rivedibile e il completamento dell'iter sanitario di revisione. Invece, la presentazione di una nuova domanda di autorizzazione è necessaria al fine di poter fruire, nel predetto periodo compreso tra la data di scadenza del verbale rivedibile e il completamento dell'iter sanitario di revisione, degli altri benefici, ossia:
a) prolungamento del congedo parentale o dei riposi orari in alternativa al prolungamento del congedo parentale;
b) del congedo straordinario per assistenza a familiari.
Ne deriva, pertanto, che anche il datore di lavoro è autorizzato ad anticipare le retribuzioni ai lavoratori recuperando gli importi mediante conguaglio con i contributi dovuti all'Inps. All'esito della convocazione a visita di revisione del disabile, si potranno verificare le seguenti circostanze che produrranno effetti diversi sui permessi in godimento:
   • conferma stato di disabilità in situazione di gravità del lavoratore che fruisce dei benefici per se stesso;
   • conferma stato di disabilità in situazione di gravità della persona assistita dal familiare lavoratore;
   • mancata conferma dello stato di disabilità in situazione di gravità del lavoratore che fruisce dei benefici per se stesso o della persona assistita dal familiare lavoratore.
Vediamo le singole fattispecie.
Verbale conferma stato di disabilità del lavoratore che fruisce dei benefici.
Il lavoratore titolare dei permessi e il datore di lavoro riceveranno dall'Inps una lettera di comunicazione in cui vengono confermati gli effetti del provvedimento di autorizzazione a suo tempo rilasciato sulla base del verbale rivedibile. Ciò basta a garantire il proseguimento della fruizione dei permessi, senza necessità da parte del lavoratore disabile di fare una nuova domanda.
Nell'ipotesi in cui anche l'esito del nuovo accertamento sia soggetto a revisione, il provvedimento dell'Inps con la conferma dei permessi avrà efficacia fino alla conclusione dell'iter sanitario della prevista, ulteriore revisione. In ogni caso resta fermo, per il lavoratore disabile, l'obbligo di:
   a) comunicare tempestivamente all'Inps e al datore di lavoro ogni variazione delle situazioni di fatto e di diritto dichiarate nella domanda a suo tempo presentata;
   b) presentare una nuova domanda di autorizzazione qualora presti attività lavorativa alle dipendenze di un datore di lavoro diverso da quello indicato nella domanda originaria, oppure qualora sia variata la modalità di articolazione della prestazione lavorativa (da full-time a part-time o viceversa).
Verbale di conferma stato di disabilità della persona assistita dal lavoratore.
Valgono le considerazioni del caso precedente: il lavoratore titolare dei permessi, il familiare disabile assistito e il datore di lavoro riceveranno dall'Inps una lettera di comunicazione in cui vengono confermati gli effetti del provvedimento di autorizzazione a suo tempo rilasciato sulla base del verbale rivedibile. Nell'ipotesi in cui anche l'esito del nuovo accertamento sia soggetto a revisione, il provvedimento dell'Inps con la conferma dei permessi ha efficacia fino alla conclusione dell'iter sanitario della prevista, ulteriore revisione.
In ogni caso resta fermo, per il lavoratore, l'obbligo di: comunicare tempestivamente all'Inps e al datore di lavoro ogni variazione delle situazioni di fatto e di diritto dichiarate nella domanda a suo tempo presentata; di presentare una nuova domanda di autorizzazione qualora presti attività lavorativa alle dipendenze di un datore di lavoro diverso da quello indicato nella domanda originaria, oppure qualora sia variata la modalità di articolazione della prestazione lavorativa (da full-time a part-time o viceversa) oppure qualora intenda modificare il tipo di fruizione dei permessi (esempio: prolungamento del congedo parentale invece di giorni di permesso).
Verbale di mancata conferma stato di disabilità.
Nel caso in cui la visita di revisione si concluda con un verbale di mancata conferma dello stato di disabilità grave, il lavoratore, il disabile e il datore di lavoro riceveranno dall'Inps una lettera in cui è comunicata la cessazione degli effetti del provvedimento di autorizzazione, a suo tempo rilasciato in base al verbale rivedibile, con decorrenza dal giorno successivo alla data di definizione del nuovo verbale. Da tale data in avanti, pertanto, il lavoratore non ha più diritto a fruire dei permessi.
Congedo parentale e congedo straordinario.
In questi casi, è necessario presentare una nuova domanda di autorizzazione per continuare a fruire dei benefici, dopo la scadenza del verbale rivedibile e fino al completamento dell'iter sanitario di revisione. Pertanto, allo scadere della prima autorizzazione, il lavoratore formula una nuova domanda all'Inps, chiedendo il riconoscimento (appunto) dei benefici nell'attesa del completamento dell'iter di revisione sanitaria.
L'Inps verifica la sussistenza dei requisiti e invia al lavoratore e al suo datore di lavoro la nuova lettera di autorizzazione che avrà efficacia fino alla revisione. Nella lettera è precisato al lavoratore che, nell'eventualità che la revisione non dovesse riconoscergli la disabilità e/o la situazione di gravità (quindi il disconoscimento del diritto ai benefici), egli sarà tenuto alla restituzione delle prestazioni eventualmente erogate dal giorno successivo alla data del nuovo verbale, come peraltro verrà comunicato dallo stesso Inps con l'invio di lettere di cessazione del diritto ai benefici al disabile, al lavoratore e al suo datore di lavoro.
Nel frattempo, resta fermo l'obbligo a carico del lavoratore di comunicare tempestivamente a Inps e datore di lavoro le variazioni delle situazioni di fatto e di diritto dichiarate nella domanda presentata.
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Assistenza anche ai conviventi.
I lavoratori che prestano cura a disabili, fruendo dei permessi 104, hanno diritto ai permessi anche quando l'assistenza è rivolta a un convivente disabile grave e non più solo, come è stato finora, al coniuge e/o a parenti e affini entro il secondo grado.
Lo stabilisce la sentenza della Corte costituzionale n. 231/2016, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 33, comma 3, della legge 104/1992 nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire dei permessi mensili per l'assistenza a persone con handicap in situazione di gravità.
Le tutele della «104». Con questo nome (la «104»), generalmente, viene indicato un insieme di tutele previste da una specifica legge, la n. 104 del 1992 (da cui il nome), legati allo stato di disabilità grave (si veda tabella per le definizioni). Tra l'altro, queste tutele sono destinate:
   a) ai lavoratori dipendenti portatori di disabilità grave;
   b) e ai lavoratori dipendenti che prestano assistenza ai familiari portatori di disabilità grave.
I benefici di cui i predetti lavoratori possono fruire sono questi:
   • permessi retribuiti mensili dal lavoro (art. 33 della legge n. 104/1992);
   • prolungamento del congedo parentale (art. 33 del dlgs n. 151/2001) o, in alternativa, riposi orari o giornalieri mensili (art. 33 della legge n. 104/1992);
   • congedo straordinario per assistenza a familiari (art. 42 del dlgs n. 151/2001).
I permessi mensili retribuiti spettano ai lavoratori dipendenti che siano portatori di handicap in situazione di disabilità grave (in tabella le definizioni) ovvero a coniugi, parenti o affini e (adesso) anche a conviventi more uxorio, che prestano assistenza a soggetti disabili gravi.
Il congedo parentale, si ricorda, consiste nel diritto all'astensione dal lavoro di ciascun genitore, per ogni bambino nei primi dodici anni di vita, per una durata non superiore a sei mesi se fruiti dalla madre, sette mesi se fruiti dal padre, con il limite massimo di undici mesi complessivamente per entrambi i genitori. In caso di figlio disabile grave i genitori, lavoratori dipendenti, hanno diritto, alternativamente tra loro (o il padre o la madre), al prolungamento dell'astensione fino a che il bimbo non copie i tre anni d'età a condizione che il bambino non risulti ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati. In alternativa, possono fruire di due ore di permesso retribuito al giorno fino al compimento dei tre anni di vita del bambino oppure a tre giorni di permesso mensili anche frazionabili in ore.
Infine, il congedo straordinario per assistenza spetta alla lavoratrice madre o, in alternativa, al lavoratore padre o, dopo la loro scomparsa, a uno dei fratelli o sorelle conviventi del soggetto con handicap grave, al fine di prestare assistenza al figlio (ovvero al fratello). Il periodo del congedo, continuativo o frazionato, non può superare i due anni, durante i quali il richiedente ha diritto a percepire un'indennità pari all'ultima retribuzione. La durata massima di due anni va conteggiata per ogni persona assistita, sommando i congedi fruiti da entrambi i genitori in tutto l'intero arco della vita lavorativa.
Serve un'autorizzazione Inps. Il diritto a fruire di tutti i predetti permessi e congedi è subordinato a un'autorizzazione da parte dell'Inps, la cui domanda può essere presentata in presenza di determinati requisiti tra cui il riconoscimento della disabilità dello stesso lavoratore, ovvero della persona da assistere per la quale si chiede il permesso, e la situazione di gravità della disabilità.
Il riconoscimento (di disabilità e situazione di gravità) è dato da una commissione ad hoc, previa sottoposizione del soggetto disabile (il lavoratore stesso o il familiare del lavoratore) a visita medica. Il riconoscimento avviene mediante un c.d. «verbale di accertamento della disabilità» che può avere durata indefinita (cioè permanente) o definita, nel qual caso si dice che la disabilità è «soggetta a revisione» mediante successiva visita presso la commissione allo scadere della validità del primo verbale.
La novità della Corte costituzionale. La norma di riferimento è l'art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992 la quale stabilisce che i permessi mensili retribuiti spettano ai lavoratori dipendenti che siano portatori di handicap in situazione di gravità (in tabella le definizioni) ovvero a coniugi, parenti o affini entro il 1° grado che prestano assistenza a un soggetto affetto da disabilità grave e fino al 2° grado nei casi in cui i genitori o il coniuge (della persona con handicap grave) abbiano più di 65 anni d'età oppure siano deceduti o invalidi.
I permessi spettano per 2 ore al giorno ovvero per 3 giorni al mese (frazionabili in ore). Come si vede, la norma non include il convivente more uxorio (il convivente dopo la morte del coniuge, quindi dopo lo scioglimento del matrimonio) tra i soggetti beneficiari dei permessi e qui c'è stato l'intervento della Corte costituzionale.
La vicenda trattava, in modo specifico, di una lavoratrice dipendente di un'azienda sanitaria che aveva chiesto il riconoscimento di questi permessi al fine di poter assistere il proprio compagno affetto dal morbo di Parkinson. In un primo momento la lavoratrice aveva avuto l'autorizzazione a fruire delle ore di permesso, ma successivamente l'autorizzazione gli era stata revocata con richiesta anche della restituzione delle ore di permesso fruite. La vicenda prende la piega giudiziaria (tribunale di Livorno) e finisce sul tavolo della Corte costituzionale che, come detto, ha riconosciuto il diritto di fruire dei permessi anche tra conviventi con la sentenza n. 23 del 23 settembre.
Il ragionamento seguito è questo: la legge n. 104/1992 intende favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap in situazione di gravità in ambito familiare e, quindi, l'interesse primario è quello di assicurare la continuità di cure e assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare. Il permesso mensile retribuito è, dunque, in rapporto di stretta e diretta correlazione con le finalità perseguite dalla legge n. 104/1992, in particolare con quelle di tutela della salute psicofisica della persona portatrice di handicap.
Peraltro, la salute psicofisica del disabile è un diritto fondamentale dell'individuo tutelato dall'art. 32 della Costituzione; e il diritto alla salute psicofisica, comprensivo della assistenza e della socializzazione, è garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una «formazione sociale» e, tra le possibili «formazioni sociali», c'è anche la «convivenza more uxorio».
Riunite queste considerazioni, la suprema Corte costituzionale conclude per ritenere del tutto irragionevole che nell'elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità. Anche perché, spiega la sentenza, è ormai principio consolidato quello per cui la diversa considerazione che fa la Costituzione della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la loro equiparazione rispetto a istituti specifici in presenza di situazioni analoghe.
Nel caso dei permessi mensili, l'elemento unificante tra le due situazioni è dato dall'esigenza di tutelare il diritto alla salute psicofisica del disabile grave, collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo. Altrimenti ci si verrebbe a trovare di fronte a un'assurdità: la minore tutela del disabile deriverebbe non dal fatto che non ci sono persone a lui legate affettivamente, ma dal fatto che il rapporto affettivo sia qualificato dal rapporto di parentela o di coniugio (articolo ItaliaOggi Sette del 17.10.2016).

PUBBLICO IMPIEGOIl Consiglio di Stato: da cambiare la riforma della dirigenza pubblica. Legge Madia. Il parere sul decreto attuativo prefigura rischi di costituzionalità.
Costituzionalità, fattibilità e spesa. Sono i tre carichi che il Consiglio di Stato mette nel suo parere sulla riforma della dirigenza pubblica.
Il parere (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 14.10.2016 n. 2113), va chiarito, è «positivo», ma è accompagnato da una lunga serie di «condizioni indefettibili» che vanno appunto al cuore delle tre questioni elencate all’inizio.
Sulla costituzionalità, lo snodo è rappresentato dal rapporto fra dirigenti pubblici e politica, e dall’esigenza di assicurare ai primi un’autonomia che ai giudici amministrativi sembra messa a rischio dall’impianto della riforma. In gioco ci sono i principi di «imparzialità» e «buon andamento» dell’amministrazione (articolo 97 Costituzione).
Per garantirli, argomentano i giudici amministrativi nelle 99 pagine del parere, il nuovo sistema del ruolo unico e degli incarichi a tempo deve essere modificato in più di un elemento strutturale. Prima di tutto, i criteri con cui le amministrazioni sono chiamate a scegliere i loro dirigenti devono essere «oggettivi e trasparenti», e per realizzare questa condizione serve un «sistema efficace di valutazione».
La sua è in effetti l’assenza più evidente nel decreto (Atto del Governo n. 328 - Schema di decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della Repubblica): il governo ha lavorato a un ricco insieme di indicatori, ma nelle vorticose giornate agostane che hanno portato al primo via libera al decreto si è deciso in extremis di rimandare la questione al nuovo Testo unico del pubblico impiego. Quest’altro capitolo cruciale della riforma Madia è atteso al primo passaggio e non arriverà in Gazzetta Ufficiale prima di luglio, per cui i giudici amministrativi chiedono di regolare puntualmente la fase transitoria, accompagnandola con un crono-programma esplicito e una fase di sperimentazione.
A scaldare l’agosto del decreto, si ricorderà, è stata in particolare la forte opposizione degli attuali dirigenti di prima fascia, sfociata nella riserva di almeno il 30% delle posizioni dirigenziali generali che saranno banditi dalle loro amministrazioni. Sul punto, il parere suggerisce di prevedere una riserva fissa, e di alzarla al 50% con una scelta che in ogni caso impedirebbe alle amministrazioni di dedicare agli uscenti una quota più alta (ipotesi possibile nel testo attuale). L’altra soglia al centro delle polemiche è quella che alza la parte accessoria almeno al 50% della retribuzione complessiva, e che secondo il Consiglio di Stato rischia di essere viziata da eccesso di delega.
Tornando alle garanzie, i giudici insistono sull’esigenza di assicurare «una durata ragionevole dell’incarico», che altrimenti finisce per dipendere dalla discrezionalità della politica. Tradotto in pratica, il parere suggerisce che, se non c’è una valutazione negativa del dirigente, il mancato rinnovo del suo incarico possa essere deciso solo con un provvedimento motivato, da adottare al termine «di un procedimento amministrativo che assicuri il rispetto delle regole del contraddittorio».
Anche perché, in alternativa, è facile prevedere che il meccanismo sia travolto da una valanga di ricorsi. Per la chiusura anticipata dell’incarico, invece, dovrebbe servire «il rigoroso accertamento della responsabilità dirigenziale». Su questo delicato equilibrio di interessi dovrebbe vigilare un «organismo di garanzia» che non può essere individuato solo nella commissione nazionale chiamata a gestire i ruoli unici.
La commissione nazionale, composta dai presidenti di Anac e Crui oltre che dai segretari generali di Interno ed Esteri, Ragioniere generale e due esperti indipendenti, è solo uno degli aspetti che impattano sulla «fattibilità» della riforma, a rischio secondo i giudici. Tra gli aspetti più critici c’è l’obbligo di attuarla senza aumentare la spesa, obiettivo che sembra irraggiungibile vista la complessità dei meccanismi da mettere in moto
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, ci vorrà un anno per il Testo unico. Il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, fa il punto sulle modifiche.
Massimo ribasso, maggiore trasparenza delle procedure sotto soglia, revisione dei requisiti al fine di ottenere l'attestazione Soa.

Sono questi gli ambiti in cui verranno apportate correzioni al Codice appalti. Quelle correzioni chieste a gran voce dai comuni che hanno più volte lamentato come il nuovo Codice stia ingessando le gare anziché rilanciarle.
L'attuazione del Dlgs 50/2016, che come richiesto anche dal Consiglio di stato avverrà con un Testo unico, richiederà tuttavia molto tempo. «Più di un anno», ha detto il presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, intervenuto all'assemblea Anci di Bari, «anche perché i termini previsti dal codice non sono perentori, quindi non c'è un problema di eventuali proroghe. Il sistema consente di tenere in vita le norme del vecchio regolamento fino a quando non ci saranno le linee guida, in modo che nulla sia bloccato».
Secondo Cantone le correzioni al Codice riguarderanno «aspetti tutto sommato marginali in un provvedimento che è stato solo per minima parte attuato perché non sono ancora partite le commissioni di gara estratte a sorte, non sono partite le stazioni appaltanti qualificate, non è ancora partito il rating di impresa». I tempi per l'attuazione saranno lunghi perché, ha spiegato Cantone, le linee guida hanno bisogno di tempo se si vuole che siano realmente concertate.
«Su questo punto c'è un equivoco di fondo, prima ci si dice che è fondamentale che le linee guida nascano dal confronto, poi ci si accusa di perdere tempo, ma il confronto che stiamo portando avanti con gli operatori è un confronto reale. Ne abbiamo licenziate due, altre le stiamo licenziando, su alcune abbiamo manifestato perplessità evidenti. Per esempio sul rating di impresa abbiamo registrato una quantità enorme di problemi che non ci consentono di licenziare in tempi rapidi le linee guida».
Sulle semplificazioni procedurali, soprattutto in materia di centrali uniche di committenza, richieste in particolare dai piccoli comuni, il presidente dell'Anac ha aperto a possibili modifiche a patto però che «non venga messa in discussione la filosofia di fondo del codice».
«Così come noi chiediamo ai privati di essere qualificati per poter partecipare ai lavori dobbiamo chiedere anche alle stazioni appaltanti di esserlo. L'idea del vecchio codice in cui tutti facevano tutto è un'idea che non può andare avanti», ha detto Cantone. «Ciononostante c'è sicuramente una parte di attività che deve essere gestita dai territori viciniori e in questo sì che vi può essere uno spazio per introdurre semplificazioni» (articolo ItaliaOggi del 14.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti, associazionismo libero. Bacini omogenei per gestire insieme le funzioni. ASSEMBLEA ANCI/ Matteo Ricci (sindaco di Pesaro) fa il punto sulla riforma in cantiere.
L’associazionismo comunale cambia pelle. Verranno creati bacini omogenei che aggregheranno i piccoli comuni in unioni sulla base di criteri socioeconomici e geomorfologici, ma non più sulla base della popolazione. Saranno i sindaci a decidere con chi associarsi sulla base delle scelte che verranno espresse nelle assemblee provinciali.
I bacini omogenei non coincideranno necessariamente con gli enti di area vasta, ma avranno una dimensione più ridotta. In montagna invece coincideranno con gli ambiti territoriali delle comunità montane.

Nelle nuove aggregazioni i piccoli comuni dovranno mettere insieme almeno tre funzioni fondamentali, ma se decideranno di associarne un numero maggiore saranno premiati con incentivi. La scelta su quali competenze gestire in forma associata dovrebbe spettare agli enti, ma il condizionale è d'obbligo perché sul punto il governo, con il sottosegretario Gianclaudio Bressa, la pensa diversamente.
Gli affari regionali vorrebbero infatti che non venisse lasciata ai municipi la decisione sulle tre funzioni da mettere insieme. L'assemblea Anci di Bari ha rappresentato l'occasione per fare il punto sulla nuova legge di riforma a cui Anci e governo stanno lavorando da tempo.
Il dossier è stato seguito dal sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, neoresponsabile enti locali del Pd. L'obiettivo è fare presto anche se sarà difficile perché il referendum costituzionale del 4 dicembre e la sessione di bilancio sono destinati a monopolizzare l'agenda politica dei prossimi mesi.
«La nostra proposta, che per ora è l'unica proposta in campo sull'associazionismo comunale, ha ricevuto il consenso unanime del ministero dell'interno, degli affari regionali, del ministro per le riforme Maria Elena Boschi, delle commissioni parlamentari, ma poi ha subìto una frenata, un po' per il referendum è un po' anche per le nostre vicende interne che ci hanno portato a eleggere oggi il nostro nuovo presidente (la mancata rielezione di Piero Fassino a sindaco di Torino è stata un fulmine a ciel sereno per l'Associazione ndr)», ha ammesso Ricci.
«Ora bisogna riprendere rapidamente la marcia anche perché la proroga dell'associazionismo forzoso delle funzioni scade il 31 dicembre e se per quella data la materia non sarà stata oggetto di riordino con una legge servirà un'altra proroga».
Ricci rispedisce al mittente le critiche di chi osserva che con i nuovi bacini omogenei si correrà il rischio di realizzare un nuovo centralismo provinciale, proprio in un momento in cui le province sono avviate verso il viale del tramonto.
«Non si corre questo rischio, semmai il pericolo è che si venga a creare un nuovo centralismo regionale. E l'unica ricetta per scongiurarlo, nel momento in cui le province vengono svuotate di poteri, è proprio quello di rafforzare i comuni, cosa che la proposta dell'Anci realizza appieno».
Certo, nelle assemblee provinciali che decideranno le sorti dei territori i comuni avranno peso diverso per effetto del voto ponderato, ma anche su questo punto secondo Ricci si possono trovare delle modifiche. «Non abbiamo deciso una volta per tutte i meccanismi elettorali, li affineremo in corso d'opera».
Sulle fusioni, nell'occhio del ciclone dopo la proposta di legge Lodolini sull'accorpamento forzoso dei comuni sotto i 5 mila abitanti (subito però sconfessata dai vertici del Pd), Ricci è stato chiaro: le fusioni devono essere volontarie, non imposte, perché non ha senso mettere insieme enti che non vogliono coesistere.
Sulla stessa lunghezza d'onda, Dimitri Tasso, coordinatore nazionale Anci unioni di comuni che mette in guardia dai facili entusiasmi in materia di fusioni. «Fondendo i comuni non si risolvono i loro problemi, perché la somma di due debolezze è anch'essa una debolezza. È impossibile associare chi non vuole stare insieme».
Per Tasso la strada di una legge unica nazionale per disciplinare l'associazionismo è quella giusta perché altrimenti si lascerebbe il campo alle regioni che già stanno andando in ordine sparso, «alcune con regole molto avanzate, altre con norme abbastanza discutibili» (articolo ItaliaOggi del 14.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALIRicostruzione, l'elenco di Errani. Incarichi solo a professionisti qualificati in regola col Durc. Norme per gli affidamenti pubblici e privati contenute nel decreto legge sul sisma del 24 agosto.
Prevista la qualificazione dei professionisti che interverranno nell'area del sisma di agosto con un elenco ad hoc istituito da Vasco Errani, accessibile soltanto a chi avrà il Durc regolare; servirà per l'affidamento di incarichi pubblici e privati. Previsto un tetto all'acquisizione degli incarichi e l'incompatibilità per i direttori dei lavori che abbiano rapporti con le imprese esecutrici; white list per le imprese esecutrici sia per appalti privati che per appalti pubblici.
Sono questi alcuni dei punti più rilevanti del decreto legge approvato dal consiglio dei ministri martedì scorso che contiene misure urgenti a sostegno delle popolazioni del centro Italia colpite dal terremoto del 24 agosto scorso.
Un punto centrale su cui punta il decreto è quello della qualificazione dei professionisti: per assicurare la massima trasparenza nel conferimento degli incarichi di progettazione e direzione dei lavori, si procede all'istituzione di un elenco speciale dei professionisti abilitati che sarà attivato dal commissario straordinario con un avviso pubblico finalizzato a raccogliere le manifestazioni di interesse nel quale saranno precisati anche i criteri generali ed i requisiti minimi per l'iscrizione nell'elenco.
Saranno ammessi negli elenchi soltanto i professionisti che presentano il Durc regolare. L'elenco sarà disponibile presso le prefetture, uffici territoriali del governo di Rieti, Ascoli Piceno, Macerata, Perugia, L'Aquila e Teramo, nonché presso tutti i comuni interessati dalla ricostruzione e gli uffici speciali per la ricostruzione.
Soltanto ai professionisti iscritti nell'elenco potranno fare ricorso i soggetti privati che intenderanno conferire gli incarichi per la ricostruzione o riparazione e ripristino degli immobili danneggiati dagli eventi sismici. Fino all'istituzione dell'elenco i privati potranno affidare incarichi a professionisti iscritti agli ordini e collegi professionali che siano in possesso di adeguati livelli di affidabilità e professionalità (peraltro non precisati) e che non abbiano commesso violazioni in materia contributiva e previdenziale ostative al rilascio del Durc.
Per le opere pubbliche (beni culturali compresi) sarà determinata una soglia massima di assunzione degli incarichi, tenendo conto dell'organizzazione dimostrata dai professionisti nella qualificazione, mentre per gli interventi di ricostruzione privata saranno indicati criteri finalizzati ad evitare concentrazioni di incarichi che non trovano giustificazione in ragioni di organizzazione tecnico-professionale.
Prevista l'incompatibilità per chi svolgerà il ruolo di direttore dei lavori: non dovrà avere in corso né avere avuto (dovrà rilasciare al riguardo apposita autocertificazione) negli ultimi tre anni rapporti diretti di natura professionale, commerciale o di collaborazione, comunque denominati, con l'impresa affidataria dei lavori, né rapporti di parentela con il titolare o con chi riveste cariche societarie nella stessa.
Viene stabilito un contributo massimo, a carico del commissario straordinario, per tutte le attività tecniche poste in essere per la ricostruzione pubblica e privata, nella misura del 10%, con un possibile contributo aggiuntivo, per le sole indagini o prestazioni specialistiche, nella misura massima del 2%.
Poi c'è il capitolo delle cosiddette white list per cui tutti gli operatori economici dovranno essere iscritti (validità un anno, rinnovabile) in un apposito elenco, tenuto dalla struttura denominato Anagrafe antimafia degli esecutori, cui si potrà accedere soltanto se le verifiche fatte in precedenza agli stessi fini si siano concluse con esito liberatorio (articolo ItaliaOggi del 14.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati con polizza-infortuni. La copertura andrà dalla responsabilità professionale agli incidenti. Professioni e tutele. Tempo fino all’11.10.2017 per stipulare la nuova assicurazione obbligatoria.
È fissata all’11.10.2017 la dead-line a disposizione degli avvocati per stipulare l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità professionale e contro gli infortuni.
È stato, infatti, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di martedì scorso (la n. 238) il decreto del ministero della Giustizia che, in linea con il nuovo ordinamento forense, detta le condizioni essenziali e i massimali minimi per l’assicurazione. Oggi meno della metà degli avvocati è dotato di un’assicurazione Rc professionale e pochissimi sono coperti contro gli infortuni.
Sul fronte della responsabilità derivante dallo svolgimento della professione, la polizza deve avere una copertura a tutto campo. Rientrano nell’assicurazione obbligatoria i danni -patrimoniali e non, indiretti, permanenti, temporanei e futuri- che il legale può causare, oltre che ai clienti e alle controparti processuali, anche a terzi, in maniera colposa o con colpa grave, nello svolgere tutte le attività alle quali è abilitato, giudiziali e stragiudiziali. La norma specifica inoltre che tra i terzi non rientrano collaboratori e familiari. L’ombrello assicurativo deve estendersi anche ai collaboratori, praticanti, dipendenti e sostituti processuali per fatti colposi o dolosi.
Prevista anche la responsabilità per i danni derivanti dalla custodia di documenti, denaro, titoli e valori ricevuti in deposito dai clienti o dalle controparti.
Tutelati i familiari del professionista: gli eredi possono contare su una retroattività illimitata e un’ultrattività almeno decennale per gli avvocati che smettono di esercitare quando la polizza è ancora attiva. Fasce di rischio e massimali sono tarati sul reddito dei professionisti, anche associati, con una forbice che va dai 350mila euro ai 10 milioni.
Per tutti gli avvocati scatta anche l’obbligo dell’assicurazione contro gli infortuni. La polizza è prevista per il legali e i collaboratori e i praticanti, per i quali non sia già attiva la copertura Inail. Le garanzie riguardano tutti gli infortuni che possono capitare nello svolgere l’attività «o a causa o in occasione di essa» e possono comportare la morte o un’invalidità sia temporanea che permanente. Tra i rischi assicurati, anche quelli connessi agli spostamenti di lavoro.
La norma precisa inoltre che l’assicurazione deve contenere clausole che escludano espressamente il diritto di recesso dell’assicuratore, il quale non può fare marcia indietro in seguito alla denuncia di un sinistro o del suo risarcimento, nel corso della durata del contratto o nel periodo di ultrattività. Anche in caso di franchigie e scoperti l’assicuratore deve comunque risarcire il terzo per l’intero importo, ferma restando la possibilità di recuperare le relative somme «dall’assicurato tenuto indenne dalla pretesa risarcitoria del terzo».
Della copertura va informato il cliente e la polizza è disponibile presso il Consiglio nazionale forense o sui siti Internet. Non essere in regola coi requisiti dettati dal Dm costa la cancellazione dall’albo. La Cassa forense è pronta a dare il suo contributo. «Meno della metà degli avvocati ha una Rc professionale -dice il presidente Nunzio Luciano- e pochissimi hanno una polizza infortuni. Per la prima abbiamo già convenzioni e le adegueremo alle norme, cercando di abbattere i costi per i colleghi, mentre per gli infortuni valuteremo di intervenire, dove è possibile, con le risorse disponibili grazie al Regolamento assistenza»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2016).

INCARICHI PROGETTUALIPolizza allargata. Responsabilità solidale assicurata. Le indicazioni del Consiglio nazionale ingegneri.
Ingegneri chiamati ad allargare la copertura assicurativa alla responsabilità solidale con altri soggetti. Perché le compagnie di assicurazione spesso coprono solo la quota di danno direttamente e personalmente imputabile all'assicurato, lasciando scoperta la parte di responsabilità che può derivare dal vincolo di solidarietà con committenti, progettisti, impresa, fornitori e così via.

E' l'indicazione fornita agli iscritti dal Consiglio nazionale degli ingegneri, tramite la circolare 10.10.2016 n. 804.
Il gruppo di lavoro «Ingegneria forense» ha infatti esaminato le problematiche riguardanti le responsabilità dell'ingegnere, rilevando che in molte vertenze il professionista può essere gravemente penalizzato dalle norme che, nella realizzazione di opere pubbliche o private, regolano la responsabilità solidale tra l'impresa, il professionista e gli altri soggetti coinvolti.
In pratica, dalla lettura degli articoli 2055 e 1292 del codice civile, emerge che in caso di danno il danneggiato ha la facoltà di rivolgere le sue pretese risarcitorie anche a un solo soggetto, il quale avrà poi diritto di regresso sugli altri coobbligati in proporzione alle rispettive quote di responsabilità.
Per quanto riguarda l'ingegnere, chiarisce la circolare, quando svolge atti professionali risponde per eventuali danni personalmente e illimitatamente con il proprio patrimonio personale, presente e futuro. A questo proposito, sottolinea il Cni, alcune polizze di assicurazione per responsabilità civile professionale prevedono che, nel caso in cui si verifichi una situazione di responsabilità solidale, la copertura assicurativa collegata al vincolo di solidarietà valga esclusivamente per la sola quota di danno direttamente e personalmente imputabile all'assicurato, con esclusione di quella parte di responsabilità che possa derivare dal vincolo di solidarietà con altri soggetti.
Quindi, secondo il Cni, gli iscritti devono essere sensibilizzati affinché pretendano dalla propria compagnia di assicurazione la copertura di queste specifiche situazioni, con una clausola che preveda la copertura assicurativa anche per la quota di responsabilità solidale dell'assicurato con altri soggetti, fermo il diritto di regresso nei confronti di altri terzi responsabili.
Tale clausola dovrebbe essere già prevista nel disciplinare di incarico e, specifica la circolare, gli iscritti dovrebbero chiedere anche l'inserimento di una clausola di «maggior termine per la notifica delle richieste di risarcimento». Prevedendo un periodo di tempo di almeno dieci anni successivo alla scadenza del periodo di assicurazione, entro il quale l'assicurato può notificare richieste di risarcimento manifestatesi dopo la scadenza e riferite a un atto commesso durante il periodo di assicurazione o nel periodo di retroattività (articolo ItaliaOggi del 13.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, supervisione Anac. Le misure per la ricostruzione.
Ricostruzione con la supervisione dell'Anac; Invitalia centrale unica di committenza, albo delle imprese e dei professionisti, costante monitoraggio sugli interventi con una struttura di missione ad hoc.
E quanto prevede, per la parte relativa agli appalti, il decreto legge approvato ieri dal consiglio dei ministri che contiene misure urgenti a sostegno delle popolazioni del centro Italia colpite dal terremoto del 24 agosto.
Il provvedimento d'urgenza, per quel che riguarda le opere pubbliche e i beni culturali, prevede una specifica pianificazione degli interventi oltre ad un piano di interventi sui dissesti idrogeologici, articolato per le quattro regioni interessate. A valle della pianificazione, sulla base delle priorità stabilite dal commissario straordinario d'intesa con i vice commissari nel cabina di coordinamento e in coerenza con il piano delle opere pubbliche e il piano dei beni culturali i soggetti attuatori (le regioni, con gli uffici speciali perla ricostruzione, il ministero delle infrastrutture e quello dei beni culturali) provvederanno a predisporre ed inviare i progetti degli interventi al commissario straordinario che approverà i progetti esecutivi e adotterà il decreto di concessione del finanziamento.
I progetti finanziati saranno trasmessi alla centrale di committenza (l'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti Spa-Invitalia, che stipulerà apposita convenzione con il commissario straordinario ) che gestirà le gare. Viene istituita, nell'ambito del ministero dell'interno, una apposita struttura di missione che provvederà alla prevenzione e al contrasto delle infiltrazioni della criminalità organizzata nell'affidamento e nell'esecuzione dei contratti pubblici e di quelli privati che fruiscono di contribuzione pubblica. A supporto della struttura opererà l'istituendo Gruppo interforze centrale per l'emergenza e la ricostruzione nell'Italia centrale (Giceric).
Tutti gli operatori economici interessati a partecipare, a qualunque titolo e per qualsiasi attività, agli interventi di ricostruzione, pubblica e privata dovranno essere iscritti, a domanda, in un apposito elenco, tenuto dalla struttura e denominato Anagrafe antimafia degli esecutori (entrano di diritto se già in white list ex legge Severino); l'iscrizione varrà un anno e sarà rinnovabile.
Ai contratti, subappalti e subcontratti relativi agli interventi di ricostruzione, pubblica e privata, si applicano le norme sulla tracciabilità dei flussi finanziari. L'Anac effettuerà il controllo sulle procedure del commissario straordinario, con una unità operativa speciale, sul modello Expo 2015.
Anche la Corte dei conti eserciterà il controllo preventivo sugli atti di natura regolatoria e organizzativa del commissario straordinario. Previsto un elenco cui dovranno essere iscritti tutti i professionisti incaricati di attività relative ad interventi pubblici e privati (dovranno essere in possesso del Dure regolare). Previste incompatibilità fra direttore dei lavori e imprese esecutrici del contratto e un tetto massimo per il contributo assegnabile per le attività tecniche (10% del valore degli interventi) (articolo ItaliaOggi del 12.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati assicurati. Polizza obbligatoria in un anno. In G.U. n. 238 il decreto del ministero della giustizia.
Scatta tra un anno l'obbligo di assicurazione anche per gli avvocati.
È stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 238 di ieri il decreto del ministero della giustizia, firmato il 22.09.2016, recante le condizioni essenziali e i massimali minimi delle polizze relative
alle assicurazioni per la responsabilità civile e contro gli infortuni, che entrerà in vigore decorsi 12 mesi dalla pubblicazione in G.U. Il decreto individua cinque fasce di rischio: la A per l'attività svolta in forma individuale con fatturato riferito all'ultimo esercizio chiuso non superiore a 30 mila giuro per la quale è previsto un massimale minimo di 350 mila euro per sinistro e per anno assicurativo.
La fascia B, invece, riguarda l'attività svolta in forma individuale con fatturato riferito all'ultimo esercizio chiuso tra i 30 e i 70 mila euro, per la quale è necessari io un massimale minimo di 500 mila euro per sinistro e per anno assicurativo. La fascia C riguarda, poi, l'attività svolta in forma individuale con fatturato superiore a 70 mila euro, per la quale è necessario un massimale minimo pari a un milione di euro. Nella fascia D rientra l'attività svolta in forma collettiva con un massimo di dieci professionisti e un fatturato non superiore a 500 mila giuro, per la quale il massimale minimo previsto dal decreto è pari a un milione di giuro per sinistro con il limite di 2 milioni di giuro per anno assicurativo.
La fascia E è relativa, poi, all'attività svolta in forma collettiva con un massimo di dieci professionisti e un fatturato superiore a 500 mila giuro: in questo caso, il massimale minimo previsto è di due milioni di euro per sinistro col limite di quattro milioni di euro per anno assicurativo. Infine, la fascia F riguarda l'attività svolta da avvocati sempre in forma collettiva con oltre dieci professionisti e un massimale minimo di 5 milioni di euro per sinistro col limite di 10 milioni di euro per anno assicurativo.
L'assicurazione deve prevedere la copertura della responsabilità civile dell'avvocato per tutti i danni che dovesse causare colposamente a terzi nello svolgimento dell'attività professionale, per danni di carattere patrimoniale, non patrimoniale, indiretto, permanente, temporaneo e futuro. Per quanto riguarda l'efficacia nel tempo della copertura, l'assicurazione deve prevedere, anche a favore degli eredi, una retroattività illimitata e una ultrattività almeno decennale per gli avvocati che cessano l'attività nel periodo di vigenza della polizza.
Inoltre, l'assicurazione deve contenere clausole che escludano espressamente il diritto di recesso dell'assicuratore dal contratto a seguito della denuncia di un sinistro o del suo risarcimento. Per quanto riguarda l'assicurazione contro gli infortuni, le somme assicurate minime sono: cento mila euro per il caso morte, 100 mila per il caso invalidità permanente e 50 euro per la diaria giornaliera
(articolo ItaliaOggi del 12.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAContabilizzatori, rischio ritardi e sanzioni.
Riscaldamento. In molti casi sarà impossibile adempiere entro il giorno di accensione degli impianti e si finirà per slittare a primavera.

Molti amministratori, condòmini, proprietari di edifici si stanno rendendo conto del fatto che nel condominio o nell'edificio polifunzionale (in cui almeno due soggetti devono ripartire tra loro la fattura dell'energia acquistata; definizione non chiara del decreto legislativo 102/2014) non si riuscirà a far eseguire per tempo e/o totalmente gli adempimenti richiesti dalla normativa in tema di contabilizzazione e termoregolazione. Installando cioè entro il 31.12.2016 sotto-contatori per ciascuna unità immobiliare (negli impianti a diramazione orizzontale, più recenti) o contabilizzatori e termovalvole in corrispondenza di ciascun radiatore all'interno delle unità immobiliari, negli impianti a diramazione verticale (sono la stragrande maggioranza).
Molti condomìni hanno inizialmente affrontato blandamente la contabilizzazione, anche in attesa di chiarimenti su diversi punti della normativa, chiarimenti giunti in parte con il decreto legislativo 141/2016, pubblicato in Gazzetta ufficiale solo il 25.07.2016 e integrativo (con rilevanti modifiche) del decreto 102/2014.
Passato il periodo feriale, amministratori e condòmini di edifici non (o non completamente) a norma si chiedono cosa fare, considerando che molte ditte incaricate all'ultimo dei lavori non garantiscono di poter iniziare o comunque terminare i lavori prima dell'accensione degli impianti, per difficoltà a reperire termovalvole, sotto-contatori, contabilizzatori ed altro materiale, dovendo comunque dare la precedenza agli edifici che commissionarono i lavori per primi.
Dopo l'accensione degli impianti, che avverrà il 15 ottobre, il 1° e il 15 novembre e il 1° dicembre (a seconda delle fasce climatiche del Dpr 412/1993), tecnicamente, i lavori (o parte di essi) non siano più eseguibili, per cui si dovrà procedere dopo lo spegnimento degli impianti alla fine dell'inverno. E ci si chiede che succederà in caso di controlli dopo il 31.12.2016. Al momento non sono previste proroghe e gli amministratori si pongono il problema dei controlli che dovessero venire fatti a partire da inizio 2017, anche considerate le sanzioni previste da 500 a 2.500 euro per il proprietario dell'unità immobiliare (e per ciascuna unità immobiliare) che non ha installato entro il termine previsto i sotto-contatori (articolo 16, comma 6, del decreto 102/2014) o altro idoneo sistema negli impianti a diramazione verticale (articolo 16, comma 7).
E poi ci si pone il problema delle eventuali responsabilità addebitabili all'amministratore dal condominio o da una parte dei condòmini per non aver adeguatamente condotto l'assemblea ad adottare la delibera di adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato; delibera che, peraltro, richiede un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
È consigliabile far comunque adottare le delibere dall'assemblea, dando atto di quanto già realizzato, manifestando la decisione di porre in essere ogni rimanente adempimento imposto dalle norme per lavori in caldaia, termovalvole, contabilizzatori , eccetera, conferendo gli incarichi del caso.
Se poi le ditte non ce la fanno nei tempi, si avrà cura di tenere lo scambio di corrispondenza a dimostrazione e giustificazione di ciò, da esibire in caso di controlli.
Le preoccupazioni non riguardano i casi in cui la contabilizzazione non sia tecnicamente possibile o non sia efficiente in termini di costi o non sia proporzionata rispetto ai risparmi energetici potenziali (impianti a diramazione orizzontale) o quando l'installazione dei sistemi di contabilizzazione non risulti efficiente in termini di costi (impianti a diramazione verticale), sempre che ciò risulti da relazione tecnica di un progettista o tecnico abilitato, anche perché -in tali casi- si è esenti da sanzioni
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2016).

EDILIZIA PRIVATAPoche deroghe regionali su inizio e fine dei lavori. Trento concede sette anni, durata variabile in Val D’Aosta.
Titoli abilitativi. Nella maggior parte delle autonomie norme in linea con il Tu edilizia.

Sono poche le Regioni che hanno legiferato sui tempi di efficacia dei titoli abilitativi relativamente alla realizzazione delle costruzioni edili. Quelle che l’hanno fatto spesso si sono accodate alla normativa statale.
L’ultima è stata la Sicilia che con una legge dello scorso agosto (legge regionale 16/2016) ha stabilito che i lavori per la costruzione di una casa o di un’officina devono iniziare entro un anno dal giorno in cui il permesso è rilasciato, e terminare entro tre anni dalla posa della prima pietra. Proprio come prevede l’articolo 15 del Dpr 380/2001, il Testo unico sull’edilizia.
Le proroghe
La possibilità, attribuita ai sindaci, di concedere in maniera discrezionale e condizionata delle proroghe, ha prodotto anche un certo contenzioso, davanti al Tar e al Consiglio di Stato, e si è rivelata poco adeguata per la gestione della situazione di crisi profonda e prolungata del settore dell’edilizia nel nostro Paese.
Per rendere più agevole protrarre nel tempo l’efficacia dei titoli abilitativi, l’articolo 30 del Dl 69 del 21.06.2013 (convertito con la legge 14.09.2011, n. 148), contenente provvedimenti urgenti per il rilancio dell’economia, tra le altre misure di semplificazione per il settore dell’edilizia, introdusse anche una proroga straordinaria dei termini per l’inizio e la fine dei lavori.
Le proroghe hanno diverse scadenze, secondo le tipologie di opere alle quali si riferiscono. Nel caso dei lavori da realizzare per l’attuazione di convenzioni urbanistiche stipulate fino al 31.12.2012, i termini per avviarli e per terminarli sono spostati in avanti di tre anni, per legge, senza necessità che gli interessati ne facciano richiesta.
Per le altre opere, i cui titoli abilitativi furono rilasciati o presentati prima dell’entrata in vigore del Dl 69/2013 (e cioè del 22.06.2013) la proroga è di due anni.
Anche in questo caso non è soggetta a valutazione da parte del Comune; deve però essere richiesta prima che scadano i termini iniziali e l’opera non deve essere diventata incompatibile con le eventuali modifiche introdotte al Prg. In quest’ultimo caso è stata fatta salva la possibilità delle Regioni legiferare diversamente.
Le norme regionali
Sono poche però le Regioni che hanno approvato norme sui termini e sulle proroghe che si sono allontanate dalla normativa statale ordinaria prevista dal testo unico sull’edilizia e da quella speciale del Dl 69/2013.
Nelle loro leggi sul governo del territorio e sulla disciplina urbanistica le Regioni spesso riportano, anche in termini pressoché letterali, le disposizioni contenute negli articoli delle leggi statali. Vi si discostano nella disciplina di casi di dettaglio o situazioni specifiche.
I casi particolari
I punti di maggiore innovazione sono contenuti nelle leggi degli enti con maggiore autonomia. In provincia di Trento per realizzare un’opera si dispone di sette anni di tempo dalla data di rilascio del titolo abilitativo alla costruzione: devono iniziare entro due anni e concludersi nei cinque successivi dal momento della loro partenza.
Per evitare date esistenti solo nelle carte, la provincia trentina e il Piemonte hanno stabilito che non si può ritenere che i lavori siano iniziati con la sola apertura del cantiere o con l’esecuzione di qualche scavo e la sistemazione del terreno, ma devono essere realizzate opere più consistenti; dopodiché, per la comunicazione di ultimazione dei lavori, il progetto deve essere stato eseguito in ogni sua parte.
La durata dei lavori in Valle d’Aosta è variabile. Quanto più si sale in montagna, tanto più tempo viene concesso per completare l’intervento: si può arrivare a cinque anni per le costruzioni da realizzare oltre i 1.500 metri. Anche altre Regioni si sono discostate dalle previsioni statali soprattutto sui termini di fine lavoro.
Nei Comuni umbri, invece, dopo aver messo la prima pietra di case e capannoni, vi sono quattro anni per mettere l’ultima, ma è possibile avere una proroga di altri due. Infine, in Liguria la proroga dei termini può essere indicata già nel permesso di costruire
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONel Dup anche il fabbisogno di personale. Da considerare il blocco delle assunzioni per chi sfora il pareggio o non approva il preventivo in tempo.
La programmazione strategico-operativa del prossimo triennio non può prescindere dalla politica assunzionale e retributiva dell’ente, soggetta a un ampio sistema di regole, da coordinare con l’armonizzazione contabile. Nel Documento unico di programmazione devono infatti essere declinati i fabbisogni di personale e indicate le eventuali risorse variabili da destinare alla contrattazione di secondo livello.
La sezione strategica definisce le linee di indirizzo politico-amministrativo di mandato, che trovano attuazione nella sezione operativa attraverso la programmazione annuale e triennale del fabbisogno di personale. In base a quanto prevede l’articolo 91 del Tuel e l’articolo 6 del Dlgs 165/2001, il programma triennale dei fabbisogni del personale deve essere elaborato, in coerenza con la dotazione organica dell’ente, su proposta dei competenti dirigenti che individuano i profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti istituzionali delle strutture cui sono preposti.
Su questo documento deve essere espresso il parere dell’organo di revisione contabile per verificarne la coerenza con i principi di riduzione complessiva della spesa (articolo 19, comma 8, della legge 448/2001). La verifica circa il rispetto dei limiti di spesa viene espressamente prevista dall’articolo 3, comma 10-bis, del Dl 90/2014, in base al quale i revisori dei conti sono tenuti ad allegare una certificazione ad hoc alla relazione di accompagnamento alla delibera di approvazione del bilancio annuale dell’ente.
In caso di mancato adempimento, il prefetto presenta una relazione al ministero dell’Interno. Con la medesima relazione viene inoltre verificato il rispetto delle prescrizioni portate dai commi 557 e 562 dell’articolo 1 della legge 296/2006, relative all’obbligo di riduzione della spesa di personale, il cui importo deve essere mantenuto annualmente entro la spesa media sostenuta nel triennio 2011/2013 e, negli enti che non erano assoggettati al patto, entro l’importo impegnato nel 2008.
La programmazione del personale comprende anche l’adozione del piano triennale delle azioni positive e pari opportunità (deliberazione 82/2016 Corte dei conti Liguria in tema di rilevanza della mancata adozione) e la verifica dell’assenza di posizioni professionali in sovrannumero. Per procedere a nuove assunzioni occorre inoltre che l’ente abbia adottato il Piano della performance e abbia rideterminato la dotazione organica
La politica assunzionale deve fare i conti anche con i vincoli di finanza pubblica, per i quali a partire dal 2016, il patto di stabilità è sostituito dal pareggio di bilancio. Solo gli enti che hanno rispettato i saldi obiettivo loro assegnati e che hanno trasmesso entro il 31.03.2016 la certificazione del rispetto del patto di stabilità interno per l’anno 2015 possono infatti procedere ad assumere personale. Limitatamente all’anno 2016, la mancata trasmissione della certificazione entro il 31 marzo non viene sanzionata, a condizione però che l’invio sia avvenuto entro il 30 aprile (articolo 7, comma 5, del Dl 113/2016. Resta comunque inteso il divieto di assunzione negli enti per i quali, anche in corso di anno, è prefigurabile lo sforamento dei limiti di finanza pubblica.
L’ articolo 9 del Dl 185/2008 stabilisce poi la sanzione del blocco del ricorso all’indebitamento e delle assunzioni per gli enti non in regola con gli obblighi di gestione e certificazione dei crediti attraverso la piattaforma informatica.
A decorrere dal 2017, la mancata approvazione nei termini del bilancio di previsione, del rendiconto e del bilancio consolidato sarà inoltre sanzionata, in base al Dl 113/2016 (articolo 9, comma 1-quinquies), con la nuova penalità del blocco delle assunzioni, che scatterà anche nell’ipotesi di ritardo nella trasmissione dei documenti alla Banca dati pubbliche amministrazioni (Bdap) rispetto al termine di trenta giorni dalla loro approvazione. La sanzione cesserà all’atto di approvazione e invio dei documenti.
Pur rappresentando indicatori rilevanti ai fini della verifica della sana gestione finanziaria dell’ente, non costituiscono condizione per l’attuazione della politica assunzionale il rispetto dell’indicatore di tempestività dei pagamenti e dell’indice della spesa di personale sulla spesa corrente (abrogato dall’articolo 16, comma 1, del Dl 113/2016)
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Lavori pubblici, piano entro sabato. In settimana va approvato in giunta il documento sulle opere pubbliche.
L’assenza del decreto attuativo del nuovo Codice appalti mantiene in vigore il vecchio obbligo.

Per la prima volta quest’anno tutti gli enti locali sono obbligati a verificare la coerenza fra il documento unico di programmazione presentato al consiglio entro lo scorso 31 luglio e lo schema del programma triennale dei lavori pubblici che deve essere adottato dalla giunta entro il 15 ottobre.
A pesare, sul già complicato quadro normativo, è l’assenza del decreto del ministero delle Infrastrutture a cui era stato demandato il compito di dare attuazione alle novità sulla programmazione introdotte dall’articolo 21 del nuovo codice di contratti.
La disciplina prevede l’obbligo, per le amministrazioni aggiudicatrici, di adottare il piano biennale degli acquisti di beni e servizi (di importo unitario pari o superiore a 40mila euro) e la programmazione triennale dei lavori pubblici e i loro aggiornamenti annuali, nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio. Le opere pubbliche incompiute vanno inserite nella programmazione triennale, per il loro completamento o per l’individuazione di soluzioni alternative quali il riutilizzo, anche ridimensionato, la cessione a titolo di corrispettivo per la realizzazione di altra opera pubblica, la vendita o la demolizione.
Nell’ambito del programma, le amministrazioni individuano i bisogni che possono essere soddisfatti con capitali privati. Inoltre gli enti devono comunicare, entro ottobre, l’elenco delle acquisizioni di forniture e servizi d’importo superiore a un milione di euro che prevedono di inserire nella programmazione biennale al Tavolo tecnico previsto dall’articolo 9, comma 2, del Dl 66/2014.
In attesa del decreto attuativo (il termine, del 18 luglio, è ampiamente scaduto), le amministrazioni applicano le vecchie regole sia per la gestione dell’anno in corso sia per la nuova programmazione. Questo significa che entro il 15 ottobre gli enti dovranno adottare in giunta il programma dei lavori pubblici per il 2017-2019, facendo riferimento agli schemi e modelli approvati con decreto del ministero delle Infrastrutture del 24.10.2014.
All’interno dei nuovi programmi, le amministrazioni individuano un ordine di priorità degli interventi, tenendo comunque conto dei lavori necessari alla realizzazione delle opere non completate e già avviate sulla base della programmazione triennale precedente, dei progetti esecutivi già approvati e dei lavori di manutenzione e recupero del patrimonio esistente, oltre che degli interventi suscettibili di essere realizzati attraverso contratti di concessione o di partenariato.
Occorrerà inoltre che il programma triennale delle opere pubblichi rechi anche la previsione degli stati di avanzamento lavori in base ai quali si determina l’imputazione alle singole annualità del bilancio di previsione e, ove l’opera è finanziata con risorse già accertate, il fondo pluriennale vincolato (da elaborare sulla base dei cronoprogrammi) in attuazione al principio della competenza finanziaria potenziata.
Una volta che gli schemi sono stati adottati in giunta, occorrerà renderli pubblici con affissione nella sede delle amministrazioni per almeno 60 giorni consecutivi ed eventualmente mediante pubblicazione sul profilo di committente della stazione appaltante. È prudente infatti continuare a rispettare quest’obbligo che, sebbene previsto dalla vecchia disciplina abrogata (articolo 128, comma 2, del Dlgs 163/2006), resta transitoriamente ancora in vita per la programmazione del prossimo triennio.
Entro il 15 novembre, infine, con lo schema di delibera del bilancio di previsione finanziario 2017-2019, la giunta presenterà al consiglio la nota di aggiornamento del Dup
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIPec, obbligo esteso ai revisori. Indirizzi o aggiornamenti da comunicare entro il 30/11. I chiarimenti del Mef: in caso di inosservanza sanzioni amministrative fino a 2.500 euro.
Tutti i revisori legali dovranno dotarsi di strumenti di comunicazione elettronica per dialogare con la pubblica amministrazione e le imprese. Con l'entrata in vigore del dlgs 17.072016, n. 135 è stato esteso alla categoria di tali professionisti l'obbligo di un indirizzo di posta elettronica certificata, da comunicare al ministero dell'economia e delle finanze o al soggetto incaricato alla tenuta del registro dei revisori legali.
A tale proposito è intervenuta la circolare Mef del 29.09.2016, n. 21 che illustra le modalità e i termini di comunicazione delle caselle di Posta elettronica certificata degli iscritti nel registro dei revisori legali, in attuazione dell'art. 27, comma 2, del citato decreto legislativo.
Le comunicazioni degli indirizzi di posta elettronica certificata o il loro eventuale aggiornamento dovrà avvenire entro la data del 30.11.2016. In caso di inosservanza degli obblighi di comunicazione, scatta una sanzione amministrativa che va da un minimo di 50 a un massimo di 2.500 euro. Nessuna comunicazione, invece, per i «vecchi» revisori. Tra le novità introdotte dalla recente normativa spicca la modifica apportata all'art. 8 del dlgs n. 39/2010 che prevede la suddivisione del registro nella sezione A e B.
Cosa prevede il dlgs 135/2016. Le recenti innovazioni introdotte dal decreto si inseriscono in un contesto di progressiva diffusione di strumenti di comunicazione elettronica tra tutti gli operatori economici, e tra questi ultimi e lo Stato, favorendo la semplificazione degli adempimenti connessi allo scambio di informazioni e documenti e la riduzione degli oneri amministrativi.
In proposito, va ricordato che il legislatore aveva già intrapreso un percorso di graduale adeguamento affinché tutte le pubbliche amministrazioni, i professionisti e le imprese si dotassero di strumenti di comunicazione elettronica tramite i quali dialogare con pieno valore legale.
L'entrata in vigore del dlgs 135/2016, ha esteso alla categoria dei revisori legali l'obbligo di un indirizzo Pec da comunicare al ministero dell'economia e delle finanze o al soggetto incaricato alla tenuta del registro dei revisori legali.
La circolare 21/2016. La circolare ha fornito alcune prime indicazioni operative volte a favorire comportamenti omogenei nell'adempimento degli obblighi di comunicazione. In primo luogo, è utile osservare che la comunicazione di un valido indirizzo Pec costituisce un preciso obbligo a carico di tutti gli iscritti, persone fisiche e giuridiche (anche di quelli fino a oggi sprovvisti di tale strumento), che dovranno dunque farsi carico di attivare una casella Pec presso un fornitore certificato.
L'elenco pubblico dei gestori, cui si invita a far riferimento, è accessibile sul sito internet istituzionale dell'Agenzia per l'Italia digitale (Agid) a questo indirizzo. La successiva comunicazione dell'indirizzo al Registro dei revisori dovrà avvenire esclusivamente con le ordinarie modalità telematiche previste per l'aggiornamento del contenuto informativo del Registro, e in particolare mediante accesso all'Area riservata del portale della revisione legale disponibile all'indirizzo www.revisionelegale.mef.gov.it.
In merito alla procedura necessaria per acquisire le credenziali personali di accesso (username e password), è utile consultare l'apposita guida operativa già predisposta e accessibile nella sezione «Accreditamento».
I «vecchi» revisori. Per quanto concerne i soggetti che già in passato avevano comunicato al registro dei revisori legali un valido indirizzo di Pec, a essi non è richiesta alcuna ulteriore comunicazione. Ogni casella Pec comunicata dovrà, inoltre, essere associata univocamente a un singolo iscritto.
Se, infatti, la ratio legis è quella di consentire agli operatori economici e ai professionisti di dotarsi di strumenti certificati per dialogare con la p.a. e a quest'ultima di estendere e potenziare l'offerta dei propri servizi telematici anche in favore degli stessi iscritti, motivi di coerenza e di sistematicità inducono a escludere la possibilità di utilizzare caselle «condivise» o «comuni», per esempio più professionisti che utilizzano in modo promiscuo una stessa casella Pec nell'ambito di uno studio associato, nonché quelle intestate ad altri revisori o a soggetti terzi.
Aggiornamento indirizzi. In riferimento all'aggiornamento degli indirizzi elettronici già esistenti, deve evidenziarsi che risultano comunicate al Registro un certo numero di caselle cec-pac (@postacertificata.gov.it), attualmente risultanti non più attive, essendo il servizio stato dismesso. In questi casi occorre sostituire la casella di posta certificata non più operativa con una nuova casella Pec standard rilasciata da un fornitore certificato.
Per quanto concerne i professionisti iscritti presso altri albi, ordini o collegi professionali, nel segnalare che per tali categorie era già in vigore una normativa che imponeva l'obbligo di dotarsi di strumenti di comunicazione elettronica, si ritiene che ai fini della comunicazione al registro ciascun singolo iscritto possa indicare la casella Pec già utilizzata per l'ordine professionale o collegio di appartenenza o ricorrere, alternativamente, a una casella Pec specifica diversa dalla precedente.
Resta ferma, infine, la necessità di procedere all'aggiornamento del proprio indirizzo Pec entro il termine di 30 giorni da qualsiasi variazione.
Quando effettuare la comunicazione. Tutti gli iscritti (revisori legali e società di revisione legale) dovranno provvedere per tempo al descritto adempimento, assicurando che gli indirizzi di Posta elettronica certificata siano comunicati al Registro, o eventualmente aggiornati, entro la data del 30.11.2016.
Le sanzioni. La mancata comunicazione di informazioni obbligatorie che costituiscono parte essenziale del contenuto informativo del registro dei revisori legali, ovvero il mancato aggiornamento dei predetti dati nei tempi previsti alla normativa, espone l'iscritto all'applicazione delle sanzioni amministrative di cui all'art. 24 del dlgs n. 39/2010. Si tratta di una specifica sanzione amministrativa pecuniaria in caso di inosservanza degli obblighi di comunicazione delle informazioni, applicabile nella misura da 50 a 2.500 euro.
Le sezioni A e B del registro. I revisori legali iscritti al registro che svolgono attività di revisione legale o che collaborano a un'attività di revisione legale in una società di revisione legale, o che hanno svolto le predette attività nei tre anni precedenti, sono collocati in un'apposita sezione denominata «Sezione A».
Gli iscritti che non hanno assunto incarichi di revisione legale o non hanno collaborato a un'attività di revisione legale in una società di revisione legale per tre anni consecutivi, sono collocati, d'ufficio, in un'apposita sezione del registro denominata «Sezione B», e non sono soggetti ai controlli di qualità. Sia i soggetti iscritti nella «Sezione A» che quanti sono iscritti nella «Sezione B» del Registro, sono tenuti:
- agli obblighi di comunicazione e di aggiornamento del contenuto informativo ai sensi dell'articolo 7 del dlgs n. 39/2010;
- a osservare gli obblighi in materia di formazione continua;
- al pagamento del contributo annuale di iscrizione (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016).

EDILIZIA PRIVATA: L'edilizia parla una sola lingua. Via al regolamento tipo: interventi e definizioni standard. Lo prevede uno schema di accordo della conferenza unificata governo, regioni e comuni.
Regolamento tipo per l'edilizia. L'armonizzazione degli strumenti urbanistici riguarda sia le modalità di stesura del regolamento comunale sia la definizione degli istituti urbanistici (per esempio superficie, volume, distanze, verande ecc.).
È l'obiettivo dell'articolo 4 del Testo Unico per l'edilizia che sta facendo passi avanti con lo schema di decreto di accordo della conferenza unificata stato-regioni-enti locali (si veda ItaliaOggi del 30.09.2016).
In generale va detto che i comuni devono avere un loro regolamento edilizio sulle modalità costruttive e di gestione del territorio. Il regolamento edilizio è citato anche nel codice civile in materia per esempio di distanze e fa parte degli strumenti urbanistici, che definiscono la regolarità dell'attività edificatoria.
Ora dalla babele dei linguaggi e dei regolamenti (l'autonomia regolamentare produce frammentazione) si vuole passare al modello uniforme in tutta Italia. Dappertutto si parlerà la stessa lingua edilizia e non si potrà avere significati diversi per medesimi lemmi.
L'armonizzazione dovrà servire anche a raggiungere obiettivi sostanziali, quali la semplificazione dei procedimenti, igiene pubblica, estetica, incremento della sostenibilità ambientale, superamento delle barriere architettoniche e riqualificazione urbana e recupero aree abbandonate.
Lo schema di accordo della conferenza unificata governo, regioni e comuni sul regolamento edilizio tipo si propone di dare seguito a quanto disposto dall'articolo 4, comma 1-sexies, del Testo unico per l'edilizia (Dpr 380/2001).
Questa norma è stata inserita dal decreto legge n. 133/2014 e ha aperto la strada all'adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti.
L'accordo in sede di conferenza unificata avrà valenza in tutta Italia, in quanto è stato dichiarato livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Il regolamento edilizio-tipo, che indica anche i requisiti prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico, dovrà essere adottato dai singoli comuni. La finalità del regolamento-tipo è l'armonizzazione delle definizioni dei tipi di intervento, come dei parametri edificatori.
L'uniformità del linguaggio e delle definizioni è importantissima per scongiurare una confusione semantica, che diventa incertezza delle posizioni giuridiche. Per verificare se un certo intervento edilizio sia ammesso o meno molto spesso, se non sempre, occorre, infatti, verificare il vocabolario interno dei piani regolatori e delle norme di attuazione dei singoli enti e magari le definizioni cambiano da comune a comune, anche se ubicati in contesti territoriali omogenei. Dalla definizione di pertinenza o di volume tecnico o di superficie o di altezza, per esempio, può dipendere il rilascio o meno di un titolo edilizio.
Il testo uniforme rende più semplice prevedere se un intervento sia realizzabile oppure no e a trarne beneficio saranno, in prima battuta, i professionisti chiamati ad asseverare Scia o a valutare la fattibilità di un permesso di costruire. Peraltro l'esigenza di uniformità riguarda anche l'interpretazione e l'attuazione della normativa edilizia, per le quali lo schema di accordo rinvia a linee guida di futura adozione.
Il testo unico. Nel testo unico per l'edilizia (Dpr 380/2001, articolo 4) si prevede che il regolamento deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi.
Un contenuto obbligatorio è quello fissato dal comma 1-ter dell'articolo 4 citato: i comuni devono adeguare il regolamento prevedendo, che ai fini del conseguimento del titolo abilitativo edilizio sia obbligatoriamente prevista, per gli edifici di nuova costruzione a uso diverso da quello residenziale con superficie utile superiore a 500 metri quadrati e per i relativi interventi di ristrutturazione edilizia, l'installazione di infrastrutture elettriche per la ricarica dei veicoli idonee a permettere la connessione di una vettura da ciascuno spazio a parcheggio coperto o scoperto e da ciascun box per auto, siano essi pertinenziali o no, in conformità alle disposizioni edilizie di dettaglio fissate nel regolamento stesso.
Sempre nell'articolo 4, al comma 1-sexies, si trova la base del regolamento edilizio tipo: il governo, le regioni e le autonomie locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, devono concludere in sede di conferenza unificata accordi per l'adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti. Gli accordi costituiscono livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Le tappe. Il regolamento tipo dovrà essere approvato dalla conferenza unificata stato-regioni, poi entro 180 giorni le regioni devono recepirlo nell'ordinamento regionale e le regioni dovranno individuare le modalità di attuazione da parte degli enti locali.
Se la regione non dovesse intervenire, i comuni devono comunque adeguare i propri regolamenti edilizi al modello nazionale entro 180 giorni. In sostanza entro un anno ci dovrebbero essere regolamenti edilizi in tutta Italia con la medesima struttura e con il medesimo vocabolario.
Il regolamento tipo. Nello schema reso noto il regolamento edilizio tipo prevede due parti: i princìpi generali e le disposizioni regolamentati comunali. Nei principi generali il comune non si dovrà dilungare sulla definizione dei parametri urbanistici ed edilizi, definizione degli interventi edilizi e delle destinazioni d'uso, procedimenti sui titoli abilitativi, la modulistica unificata completa di elaborati da allegare, i requisiti generali delle opere edilizie.
Su questi aspetti come sulla disciplina dei vincoli paesaggistici, ambientali, culturali e territoriali basterà un rinvio alle discipline statali e regionali, che non richiedono un atto di recepimento nei regolamenti edilizi. Nella seconda parte i regolamenti dovranno disciplinare le procedure interne, le norme su qualità, sostenibilità delle opere, dei cantieri e dell'ambiente urbano e requisiti tecnici integrativi complementari.
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Invariate le previsioni dimensionali.
L'applicazione del regolamento edilizio uniforme non deve spostare la cubatura edificabile. L'effetto di invarianza, per i profili dimensionali, è una scelta obbligata, anche per rispetto alle autonomie locali nella determinazione delle scelte di pianificazione urbanistica del territorio.
Nella bozza del provvedimento, l'articolo 2, comma 4, prevede che il recepimento delle definizioni uniformi inderogabili nel regolamento edilizio comunale non comporta la modifica delle previsioni dimensionali degli strumenti urbanistici vigenti, che continuano a essere regolate dal piano vigente oppure dal piano adottato alla data di entrata di sottoscrizione dell'accordo in sede di conferenza unificata.
La clausola neutralizza eventuali possibili effetti sostanziali derivanti dalla semplice adozione del vocabolario unico nazionale. Il solo recepimento delle definizioni edilizie non può portare effetto di incremento o decremento delle dimensioni edificabili. Peraltro le scelte sul se, quanto e cosa edificare non possono essere stabilite con un provvedimento sull'armonizzazione dei regolamenti, ma sono appannaggio della strumentazione urbanistica locale e non della normativa statale che stabilisce regole standard sulla produzione delle fonti regolamentari edilizie.
Altro discorso è quello degli obiettivi delle disposizioni regolamentari, una volta approvate. Lo schema indica ai comuni una serie di obiettivi, tra i quali spicca quello della semplificazione dei procedimenti, per il profilo burocratico, e quello della sostenibilità ambientale ed energetica, per i profili di tutela del territorio. Particolare enfasi è attribuita, poi, alla sicurezza pubblica e al recupero urbano delle aree dismesse e degli edifici abbandonati (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016).

TRIBUTISugli orti esenzione Imu limitata. A coltivatori diretti e imprenditori professionali (iap).
L'esenzione da imposta municipale (Imu) per i terreni incolti e per gli orti resta limitata ai coltivatori diretti (Cd) e agli imprenditori professionali (Iap).
Ne consegue che i soggetti diversi possono beneficiare di un'eventuale esenzione dall'applicazione del tributo soltanto se i terreni posseduti risultino inseriti nei comuni esentati e individuati dalla datata circolare 9/1993.

Così, in risposta al quesito proposto dall'on. Fragomeli (Interrogazione a risposta immediata in commissione 5-09691 del 05.10.2016), il viceministro dell'economia e delle finanze, on. Casero, è intervenuto sul tema dell'esenzione da imposta municipale (Imu) per i terreni agricoli, dopo la recente risposta al question-time dello scorso 4 maggio e dopo le novità introdotte dalla legge 208/2015.
Il problema si era posto giacché, dopo l'intervento della legge di Stabilità 2016 (comma 13, art. 1, legge 208/2015), è stata introdotta l'esenzione dal pagamento del detto tributo, ai sensi della lett. h), comma 1, art. 7, dlgs 504/1992, tenendo conto dei criteri indicati dalla circolare 14/06/1993 n. 9 e a decorrere dal 1° gennaio scorso, a favore di coltivatori diretti (Cd) e imprenditori agricoli professionali (Iap), iscritti nella previdenza agricola, per i terreni collocati nelle isole minori e per quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
Tale situazione, per gli interroganti, ha creato una discriminazione tra i contribuenti, in quanto prescinde dalla relativa coltivazione ma non risulta applicabile a chi coltiva il fondo per solo diletto e non può acquisire le dette qualifiche (Cd o Iap), anche se la giurisprudenza di legittimità ha parlato soltanto di esercizio delle attività agricole, di cui all'art. 2135 c.c. (Cassazione, sentenza 7369/2012).
Purtroppo, salvo le eventuali esenzioni indicate dalla circolare richiamata, non risulta legalmente possibile estendere l'esenzione per la coltivazione degli orticelli alla generalità dei proprietari, dovendo l'applicazione restare limitata a determinati destinatari e a particolari situazioni, anche perché la Suprema Corte ha affermato che, in linea di principio, qualsiasi terreno è potenzialmente suscettibile di sfruttamento agricolo (articolo ItaliaOggi del 07.10.2016).

PUBBLICO IMPIEGOResponsabilità erariale solo sui dirigenti.
La riforma della dirigenza cancella la responsabilità erariale degli organi politici.

Lo schema di decreto legislativo attuativo della legge 124/2015  (Atto del Governo n. 328 - Schema di decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della Repubblica) esaspera la cosiddetta «esimente politica», addossando in via esclusiva la responsabilità erariale sulla dirigenza pubblica, aggiungendo alla sua precarizzazione estrema e conseguente soggezione alla politica, anche quella di «scudo» contro scelte dannose per le finanze pubbliche.
Andando oltre le indicazioni della legge delega, lo schema di decreto non si limita a precisare la responsabilità esclusiva dei dirigenti per gli atti di loro competenza, situazione del resto esistente anche nell'attuale regime normativo. Al contrario, mira ad escludere del tutto il coinvolgimento degli organi politici. Il decreto opera modificando gli articoli 16 e 17 del dlgs 165/2001.
Il primo regola le funzioni dei dirigenti di massimo vertice: in questo caso, ci si limita a precisare l'esclusività della responsabilità erariale. L'articolo 17 è, invece, dedicato ai dirigenti chiamati alla gestione operativa, dove più evidente e diretta è proprio l'utilizzazione delle risorse pubbliche. In questo caso, si aggiunge una nuova lettera e-ter) che stabilisce che i dirigenti «sono titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l'attività gestionale, ancorché derivante da atti di indirizzo dell'organo di vertice politico».
La norma frappone una barriera insormontabile alla responsabilità erariale degli organi di governo: infatti, interrompe la sequenza causa-effetto del danno, sicché anche se questo discenda da un provvedimento attuativo di indirizzi amministrativi evidentemente mal congegnati, comunque ne risponderà contabilmente solo il dirigente. La norma, insomma, sembra intendere che i dirigenti debbano mettere necessariamente nel conto l'attuazione del rischio di sobbarcarsi la responsabilità erariale per aver attivato gli indirizzi previsti dalla politica.
Si può osservare, in proposito, che compito della dirigenza è comunque attuare gli indirizzi nel rispetto delle norme e, dunque, anche di quelle contabili. Ma, nella prassi, gli indirizzi o direttive della politica invadono il campo della gestione, sottraendole la scelta del modo con cui tradurre in atti gli indirizzi stessi. Laddove un dirigente, dunque, intendesse attuare l'indirizzo politico in modo difforme da quello indicato, il contrasto sarebbe inevitabile e certamente come minimo il rapporto dirigente- politica diverrebbe molto teso.
Con l'attualizzarsi del pericolo per il dirigente di non poter aspirare al rinnovo biennale dell'incarico o, comunque, a riottenere l'incarico anche a seguito di interpello. Non basta. L'articolo 21, comma 1, del dlgs 165/2001, per questa parte non modificato, prevede espressamente la responsabilità dei dirigenti per «inosservanza delle direttive», dalla quale possono derivare sanzioni di gravità crescente: dall'impossibilità del rinnovo dell'incarico, alla revoca anticipata, al licenziamento.
È evidente che in questo modo i dirigenti, stretti nella morsa da un lato della responsabilità erariale che fa da «scudo» alla politica e, dall'altro, dalle pesanti conseguenze derivanti dalla violazione delle direttive, potranno essere portati ad accettare il rischio della condanna da parte della magistratura contabile, pur di non perdere chance di rinnovo dell'incarico e, soprattutto, di non essere «segnati» come dirigenti non disposti a «coprire» le responsabilità politiche (articolo ItaliaOggi del 07.10.2016).

ENTI LOCALIPartecipate, ricognizione al via. Il consiglio ha sei mesi di tempo per approvare la delibera. L'Anci ha predisposto un manuale operativo per gli enti alle prese con le scadenze del T.u..
Con l'entrata in vigore il 23 settembre scorso del Testo unico in materia di partecipate (dlgs 175/2016) attuativo della riforma Madia, è iniziata a decorrere la tabella di marcia delle scadenze che gli enti locali e le società dovranno rispettare per adeguarsi al decreto.
Entro il 23.03.2017 (sei mesi dall'entrata in vigore) dovrà essere approvata la delibera consiliare di revisione straordinaria delle partecipazioni detenute dagli enti locali. Adempimento, questo, obbligatorio anche in assenza di partecipazioni. A ricordarlo è l'Anci che proprio in vista dell'entrata in vigore del T.u. ha predisposto un manuale operativo, integralmente scaricabile sul sito internet www.anci.it, al fine di offrire ai comuni un primo quadro di analisi e orientamento.
Nel testo del manuale, oltre alle note di lettura delle singole disposizioni del provvedimento, tutti i soggetti interessati possono trovare un pratico scadenzario dei vari adempimenti a carico dei comuni e degli amministratori delle società partecipate nonché un facsimile di deliberazione del consiglio comunale (che ItaliaOggi pubblica integralmente in queste pagine a beneficio dei comuni) per il piano di razionalizzazione previsto dall'articolo 24 del dlgs.
L'alienazione delle partecipazioni non in regola con il T.u. dovrà essere completata entro il 23.03.2018 (un anno dall'approvazione della delibera di revisione straordinaria), mentre a decorrere dal 2018 scatterà la razionalizzazione periodica che gli enti dovranno compiere con cadenza annuale.
Molti gli adempimenti anche a carico delle società. Entro il 23.03.2017 le società dovranno adeguarsi alle disposizioni del Testo unico e in particolare a quelle concernenti: il divieto dei dipendenti dell'ente controllante di essere amministratori e la onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti delle società controllanti che siano anche amministratori delle controllate.
Sempre entro il 23.03.2017 dovrà essere completata la ricognizione del personale in servizio per individuare eventuali eccedenze. L'elenco del personale in eccesso dovrà essere trasmesso alle regioni a cui spetterà gestire le procedure di mobilità (articolo ItaliaOggi del 07.10.2016).

PATRIMONIOOpere mini-enti, piano nazionale. Il Cipe finanzierà i progetti per la banda ultralarga. Gli interventi devono essere programmati ogni tre anni e selezionati con bandi pubblici.
Piano per i piccoli comuni finanziato con 100 milioni di euro dal 2017 al 2023, con una dotazione di 10 milioni il primo anno e di 15 milioni negli anni successivi; obiettivo: la manutenzione del territorio, la messa in sicurezza e la riqualificazione delle infrastrutture e degli edifici pubblici, l'efficienza energetica delle fonti rinnovabili, il recupero dei centri storici e dei beni culturali, storici, e artistici.

È quanto prevede il disegno di legge per il sostegno e la valorizzazione dei comuni fino a cinquemila abitanti e per il recupero e la riqualificazione dei centri urbani approvato il 28 settembre, all'unanimità (438 voti favorevoli), dall'aula della camera e adesso passato al Senato (Atto Senato n. 2541 - Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni).
Il disegno di legge in primo luogo si pone l'obiettivo di promuovere nei piccoli comuni l'efficienza e la qualità dei servizi essenziali, con particolare riferimento all'ambiente, alla protezione civile, all'istruzione, alla sanità, ai servizi socio-assistenziali, ai trasporti, alla viabilità, ai servizi postali nonché al ripopolamento dei comuni anche attraverso progetti sperimentali di incentivazione della residenzialità.
Per realizzare queste finalità si prevede l'istituzione di un fondo presso il ministero dell'interno con una dotazione di 10 milioni di euro per l'anno 2017 e di 15 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2018 al 2023; un totale di 100 milioni.
Queste risorse dovranno servire a realizzare gli interventi programmati in un piano nazionale, da aggiornare ogni tre anni, per la riqualificazione dei piccoli comuni, destinato, fra le altre cose, alla manutenzione del territorio, alla messa in sicurezza e riqualificazione delle infrastrutture stradali e degli edifici pubblici, all'acquisizione e riqualificazione di terreni e di edifici in stato di abbandono o di degrado.
I progetti presentati dai comuni saranno selezionati con bandi pubblici che dovranno anche indicare i tempi di realizzazione, le modalità di coinvolgimento dei finanziamenti pubblici e privati, i livelli di miglioramento della dotazione infrastrutturale secondo criteri di sostenibilità ambientali.
I piccoli comuni potranno inoltre individuare, all'interno del perimetro dei centri storici, zone di particolare pregio, dal punto di vista della tutela dei beni architettonici e culturali, nelle quali realizzare interventi integrati pubblici e privati finalizzati alla riqualificazione urbana, nel rispetto delle tipologie costruttive e delle strutture originari. Una particolare attenzione viene anche riservata ai borghi antichi o ai centri storici abbandonati o parzialmente spopolati: in questi casi i comuni potranno promuovere la realizzazione di alberghi diffusi, come definiti ai sensi delle disposizioni emanate dalle regioni e dalle province autonome.
Sono inoltre previste misure per il contrasto dell'abbandono di immobili nei piccoli comuni, «anche allo scopo di prevenire crolli o situazioni di pericolo» e di terreni, al fine di evitare fenomeni di dissesti idrogeologici.
Altro capitolo è quello del recupero delle stazioni ferroviarie disabilitate o case cantoniere della società Anas spa, al valore economico definito dai competenti uffici dell'Agenzia del territorio, ovvero stipulare intese finalizzate al loro recupero, per destinarle, anche attraverso la concessione in comodato a favore di organizzazioni di volontariato, a presìdi di protezione civile e salvaguardia del territorio ovvero a sedi di promozione dei prodotti tipici locali.
Previsti anche progetti informatici per la banda ultralarga nei comuni nei quali gli operatori non hanno interesse a intervenire: in questo caso vi saranno apposite risorse Cipe (articolo ItaliaOggi del 07.10.2016).

APPALTIP.a., trattativa diretta per gli acquisti online. La piattaforma Mepa ora ammette anche questa procedura.
Al via la piattaforma Mepa (Mercato elettronico della P.a.) per gli affidamenti diretti rivolti a un unico operatore economico.

Nell'ambito del Mepa è stata ammessa la possibilità di utilizzare una nuova procedura per l'affidamento di contratti pubblici denominata «trattativa diretta». Il mercato digitale della P.a. è per acquisti sotto la soglia comunitaria, di tipo selettivo, in cui i fornitori che hanno ottenuto l'abilitazione offrono i propri beni e servizi direttamente online; i compratori registrati (le pubbliche amministrazioni) possono consultare il catalogo delle offerte ed emettere direttamente ordini d'acquisto o richieste d'offerta.
In sostanza, tramite il Mepa si possono effettuare acquisti di beni e servizi sotto soglia in applicazione delle procedure di acquisto in economia o di cottimo fiduciario e, adesso, anche affidamenti diretti realizzabili mediante «ordine diretto» oppure «richiesta di offerta» (Rdo) con un unico fornitore. Il Mepa consente anche di procedere all'affidamento sotto soglia attraverso un confronto concorrenziale delle offerte, realizzabili mediante Rdo rivolta ai fornitori abilitati.
Fino a qualche giorno fa era possibile procedere con le modalità «ordine diretto» e «richiesta di offerta», ma dal 4 ottobre gli utenti delle pubbliche amministrazioni potranno selezionare nel carrello degli acquisti la modalità «trattativa diretta».
Sul portale degli acquisti della pubblica amministrazione www.acquistinretepa.it si precisa che «la trattativa diretta si configura come una modalità di negoziazione, semplificata rispetto alla tradizionale Rdo, rivolta a un unico operatore economico».
La trattativa diretta può essere avviata da un'offerta a catalogo o da un oggetto generico di fornitura (metaprodotto) presente nella vetrina della specifica iniziativa merceologica. Non dovendo garantire una pluralità di partecipazione, la trattativa diretta non ne presenta le tipiche richieste informative (criterio di aggiudicazione, parametri di peso-punteggio, invito dei fornitori, gestione dei chiarimenti, gestione delle buste di offerta, fasi di aggiudicazione).
Viene indirizzata a un unico fornitore, e risponde a due precise fattispecie normative, cioè l'articolo 36, comma 2, lett. a, per l'affidamento diretto, con procedura negoziata e l'articolo 63 per la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando, con un solo operatore economico con riguardo ai contratti di importo fino al limite della soglia comunitaria nel caso di beni e servizi, per importi fino a un milione di euro nel caso di lavori di manutenzione.
Gli oggetti di fornitura richiesti possono appartenere anche a bandi diversi, ma in questo caso il fornitore dovrà essere abilitato a tutti i bandi oggetto della trattativa per poter sottomettere la propria offerta. Come per la richiesta di offerta, anche nella trattativa diretta le operazioni di trasmissione della richiesta, di risposta del fornitore e dell'eventuale formalizzazione del contratto, andranno effettuate a sistema, secondo le consuete modalità di formalizzazione (caricamento a sistema dei documenti firmati digitalmente).
Il portale mette inoltre a disposizione un manuale d'uso del sistema di e-procurement per le amministrazioni, aggiornato al 23.09.2016, intitolato Guida alla predisposizione della trattativa diretta (articolo ItaliaOggi del 07.10.2016).

APPALTI SERVIZIMotivazione rafforzata per gli affidamenti in house.
Con l'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti (dlgs 50/2016), l'Italia si è adeguata alle direttive europee 23, 24 e 25 del 2014 in materia di affidamenti in house providing. In particolare, l'articolo 5 del dlgs 50/2016 disciplina i requisiti che dovrebbero avere i soggetti affidatari diretti di servizi e fornisce la definizione di controllo analogo.
Le caratteristiche degli affidamenti in house sono invece trattate dall'art. 192 del nuovo codice che, riguardo agli affidamenti diretti di servizi in regime di concorrenza a propri organismi controllati, prevede espressamente l'obbligo di effettuare una valutazione preventiva in ordine alla congruità dell'offerta economica dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione.
In pratica, l'ente pubblico è tenuto a definire preventivamente il livello qualitativo e quantitativo del servizio da affidare e ad effettuare una comparazione tra le varie forme di gestione: con gara, in house o con società mista e gara a doppio oggetto. L'art. 192, inoltre, prosegue imponendo una motivazione rafforzata nell'atto di affidamento diretto in house. Devono essere infatti esplicitate le ragioni del mancato ricorso al mercato e indicati i benefici per la collettività, anche con riferimento agli obiettivi di universalità, socialità, efficienza, economicità, qualità del servizio e ottimale impiego delle risorse pubbliche.
Le conseguenze immediate di tali disposizioni sono che le p.a. dovranno valutare non solo la correttezza degli affidamenti in house dal punto di vista giuridico, ma anche dal punto di vista sostanziale, indicando puntualmente, attraverso una specifica attività istruttoria, come la propria società possa fornire il servizio oggetto di affidamento diretto a condizioni economiche e qualitative migliori rispetto al mercato.
Recentemente anche il Consiglio di stato, con la sentenza 1900 del 12.05.2016, si è espresso in maniera piuttosto netta a proposito dell'obbligo di motivare in maniera adeguata le ragioni di fatto e di diritto che giustifichino la convenienza di affidare un servizio ad un società in house.
Con la citata sentenza, infatti la sezione V richiama l'art. 34, comma 20, del dl 179/2012 che, ribadendo il principio di trasparenza e democraticità delle decisioni pubbliche, impone un dettagliato e aggravato onere motivazionale, subordinando la legittimità della scelta della concreta modalità di gestione di un servizio pubblico locale alla redazione di un'apposita relazione, contenente valutazioni di tipo concreto, riscontrabile, controllabile, intellegibile e pregnante sui profili di convenienza, non solo economica, della gestione prescelta.
In definitiva, in assenza di un'istruttoria completa ed approfondita e in mancanza di una effettiva valutazione di tutte le possibili forme gestionali, secondo il Consiglio di stato gli affidamenti diretti in house providing sono illegittimi (articolo ItaliaOggi del 07.10.2016).

EDILIZIA PRIVATAFascicolo incostituzionale. Impone ai privati oneri sproporzionati. Norma sul registro di fabbricato in Puglia impugnata dal governo.
«Gli obblighi di stesura e aggiornamento del fascicolo del fabbricato comportano il ricorso a una pluralità di professionisti (geometri, architetti, ingegneri, geologi) abilitati. Tale onere viene imposto indistintamente a tutti i proprietari, con violazione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.
Le norme regionali impongono ai privati oneri superflui e comunque sproporzionati ed eccessivamente gravosi, ponendosi dunque in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, e con l'art. 42, co. 2, Cost. in quanto comporta limiti alla proprietà privata che non appaiono necessari ad assicurarne la funzione sociale.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 315/2003, giudicando su analoghe norme della regione Campania, ha osservato che «la previsione di siffatto obbligo e dei conseguenti oneri economici deve essere compatibile con il principio di ragionevolezza e proporzionalità e che le relative modalità di attuazione debbono essere adeguate allo scopo perseguito dal legislatore».
Queste circostanze hanno condotto a giudicare le norme censurate lesive dell'art. 3 Cost., sotto il profilo del generale canone di ragionevolezza, e dell'art. 97 Cost., in relazione al principio di efficienza e buon andamento della Pubblica Amministrazione.
Inoltre, la Corte Costituzionale ha ricordato, con la sentenza n. 312 del 2010, che la normativa sul «registro del fabbricato» è stata giudicata incostituzionale quando si è ritenuto che «le specifiche modalità di predisposizione e tenuta del registro fossero contrarie al generale canone di ragionevolezza, a cagione della eccessiva gravosità degli obblighi imposti ai proprietari e dei conseguenti oneri economici, nonché al principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione, data la ritenuta intima contraddittorietà della imposta necessità di richiedere ad una pluralità di tecnici privati informazioni già in possesso delle competenti amministrazioni».
«La complessità e vastità delle attestazioni richieste rispondono a finalità di vigilanza e controllo che non solo appartengono alla tipica responsabilità pubblica, ma sono connesse ad interessi della collettività non immediatamente riferibili alla responsabilità dei proprietari. Le disposizioni censurate si pongono in contrasto con gli articoli 3 e 97 Cost., imponendo la duplicazione di accertamenti e la conservazione di informazioni e documenti già ricadenti nei compiti affidati alla Pubblica Amministrazione, oltre a violare i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui agli stessi articoli 3, 97 Cost., l'art. 42 Cost., in quanto comportano limiti alla proprietà privata che non appaiono necessari ad assicurarne la funzione sociale».
Corte costituzionale. «Se nessun dubbio può sussistere riguardo alla doverosità della tutela della pubblica e privata incolumità, che rappresenta lo scopo dichiarato della legge, e al conseguente obbligo di collaborazione che per la realizzazione di tale finalità può essere imposto ai proprietari degli edifici, non è, neppure, contestabile che la previsione di siffatto obbligo e dei conseguenti oneri economici deve essere compatibile con il principio di ragionevolezza e proporzionalità e che le relative modalità di attuazione debbono essere adeguate allo scopo perseguito dal legislatore».
«Una parte considerevole delle informazioni richieste al tecnico sono già in possesso delle amministrazioni comunali nel cui territorio ciascun fabbricato è ubicato (si pensi ai dati relativi alla situazione progettuale, urbanistica, edilizia, catastale, strutturale di immobili costruiti o ristrutturati nel rispetto delle norme urbanistiche pro tempore vigenti, previo rilascio dei necessari provvedimenti autorizzatori o concessori), ed alcune di esse (quelle, ad esempio, riguardanti la esistenza di vincoli o relative alla storicità del fabbricato dalla realizzazione all'attualità) non possono ritenersi strettamente connesse allo scopo perseguito dal legislatore e sono tali da risultare (specie per gli edifici di epoca risalente) di difficile acquisizione».
Tar Lazio. «La legge non ammette interventi ed opere generalizzate sugli edifici di qualunque genere, età e condizione, sicché gli accertamenti, al fine d'evitare oneri eccessivi e senza riguardo al loro peso sulle condizioni economiche dei proprietari, devono esser suggeriti solo in caso d'evidente, indifferibile ed inevitabile necessità, se del caso con graduazione dei rimedi da realizzare».
«Non si tratta di pervenire, anche attraverso la collaborazione dei cittadini, a completare quei soli aspetti di peculiare o particolare conoscenza, relativa a singole unità abitative, che la fitta trama pianificatoria talvolta non può acquisire». Vi è, piuttosto, «l'illegittimo tentativo di scaricare gli oneri di tal conoscenza sui privati». E non serve a evitare i crolli: nei casi di specie, mancò non il fascicolo di fabbricato, ma il controllo pubblico (articolo ItaliaOggi del 05.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: P.a., giusto abolire la vicedirigenza. La consulta salva la legge monti.
La Consulta sancisce la legittimità costituzionale dell'abolizione della vice dirigenza nell'ambito del lavoro pubblico.
Mentre fervono i lavori per la sofferta riforma della dirigenza avviata dalla legge 124/2015 e dallo schema di decreto attuativo attualmente all'esame del Parlamento (Atto del Governo n. 328 - Schema di decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della Repubblica), riaffiorano strascichi della spending review di Monti, che aveva detto stop, appunto, alla vicedirigenza, trovando, ora, nella sentenza della Corte costituzionale 03.10.2016, n. 214 il conforto della legittimità della scelta a suo tempo operata.
I ricorrenti avevano contestato la legittimità costituzionale dell'articolo 5, comma 13, del d.l. 95/2012, convertito in legge 135/2012, che ha abrogato l'articolo 17-bis del dlgs 165/2001. Tale norma prevedeva che la contrattazione collettiva del comparto ministeri istituisse una specifica separata area della vicedirigenza nella quale sarebbe stato ricompreso il personale laureato appartenente alle posizioni di funzionario di vertice, con cinque anni di anzianità in tali posizioni.
In effetti, tale norma non ha mai visto la luce, perché la contrattazione collettiva di fatto non è mai partita per l'assenza degli atti di indirizzo all'Aran da parte del ministro della funzione pubblica, necessari anche per determinare l'importo massimo delle risorse finanziarie da destinare. Proprio l'assenza degli atti di indirizzo ha scatenato nel 2006 l'iniziativa di 372 funzionari, dipendenti dell'amministrazione della giustizia, che hanno diffidato presidenza del consiglio dei ministri, ministero dell'economia e delle finanze e dipartimento della funzione pubblica ad attivare la contrattazione.
A fronte della perdurante inerzia è partita una complessa sequenza di iniziative giurisdizionali contro il silenzio delle amministrazioni competenti, passata per una serie di ricorsi al Tar Lazio che ordinò la nomina di un commissario ad acta per provvedere all'atto di indirizzo al posto del governo. Ma, pochi mesi dopo, proprio nel 2012 la spending review di Monti bloccò tutto, con l'eliminazione della vice dirigenza.
I funzionari hanno proseguito nella loro contestazione che, attraverso il Tar Lazio, è arrivata sul tavolo della Consulta. La Corte non è rimasta convinta della violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che a dire del giudice remittente si sarebbe potuta determinare.
In realtà, le ragioni superiori di contenimento della spesa pubblica alla base del d.l. 95/2012 escludono che il legislatore abbia inteso abolire la vice dirigenza come norma mirata a depauperare i funzionari di un diritto acquisito, soprattutto considerando che l'abolizione dell'articolo 17-bis del dlgs 165/2001 non si era limitata ad incidere la sfera giuridica dei 372 iniziali ricorrenti, ma ha coinvolto l'intera sfera della pubblica amministrazione.
Le superiori ragioni di razionalizzazione della spesa pubblica costituiscono, secondo la Corte, la base per la tenuta costituzionale della legge-Monti (articolo ItaliaOggi del 04.10.2016).

EDILIZIA PRIVATAEdifici pubblici, vincolati gli immobili «over 70». Il ministero: no alla norma che riporta la soglia a 50 anni.
Interesse storico-artistico. Passo indietro dopo il parere relativo al Codice appalti.

Tra le novità del Codice degli appalti è compresa una misura che riporta a 50 anni la soglia per considerare vincolato un bene immobile pubblico (anche in assenza di puntuale provvedimento di vincolo).
Entrato in vigore il 16 aprile scorso, il Dlgs 50/2016 ha infatti abrogato l’articolo 4 del decreto Sviluppo (Dl 70/2011), incluso il comma 16: quello cioè che aveva innalzato a 70 anni tale soglia.
La disciplina pre e post-2011
Prima dell’arrivo del decreto Sviluppo, il Codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004) prevedeva per gli immobili di proprietà di soggetti pubblici (o di privati senza scopo di lucro) una presunzione di vincolo culturale –con la conseguente applicazione della tutela propria del demanio culturale– per il solo fatto di essere stato ultimato da più di 50 anni (ed essere opera di autore non più vivente).
Il decreto legge 70/2011 ha dunque poi elevato questo limite, prevedendo che gli immobili pubblici debbano considerarsi vincolati solo se ultrasettantennali, e restringendo così di fatto il novero dei beni immobili da considerarsi culturali. Questa indicazione è stata ora “cancellata” dal nuovo Codice appalti.
Le conseguenze del vincolo
Per comprendere l’impatto della modifica, occorre evidenziare le principali conseguenze della presunzione di culturalità:
- la prima è l’impossibilità di alienazione dell’immobile prima della procedura di verifica della sussistenza o meno di un interesse culturale. Procedura che, a sua volta, può avere due possibili esiti: il riconoscimento di un valore culturale e dunque l’apposizione di un vincolo espresso sull’immobile, o la dichiarazione che tale interesse culturale non sussiste;
- la seconda conseguenza è la necessità di ottenere il preventivo parere positivo del ministero dei Beni culturali, prima di avviare qualsiasi intervento edilizio sull’edificio.
Le regole 2016 e i dubbi
Dopo l’abrogazione del limite di 70 anni da parte dell’articolo 217, comma 1, lettera v), del nuovo Codice degli appalti, si è aperto però un problema interpretativo. Cosa accade in pratica? Si ritornano a considerare vincolati gli immobili con oltre 50 anni, quindi –per il 2016– tutti quelli realizzati prima del 1966? Oppure solo gli immobili realizzati prima del 1946?
L’ufficio legislativo del ministero dei Beni culturali (parere del 3 agosto 2016) ritiene che non ci sia alcun effetto abrogativo, e soprattutto alcuna reviviscenza della normativa precedente. Quindi, secondo il ministero, nessuna presunzione per gli immobili costruiti nell’arco temporale 1946-1966: la presunzione di culturalità si ha solo per gli immobili pubblici ultrasettantennali.
La ricostruzione contenuta nel parere ministeriale ha il pregevole intento di “confinare” le modifiche introdotte dal nuovo Codice degli appalti allo stretto ambito di applicazione. Tuttavia, come ogni tesi “esegetica”, potrebbe essere smentita da una tesi opposta che dovesse emergere anche tra qualche anno non solo in dottrina, ma al termine di eventuali contenziosi.
Cessioni e interventi
In tal senso, una differente interpretazione avrebbe rilevanti effetti pratici. Perché l’alienazione di beni che si presumono culturali, effettuata senza seguire le procedure previste dalla legge, comporta la nullità dell’atto di trasferimento.
L’esecuzione di lavori su questi immobili, avviata senza la preventiva autorizzazione, implica invece delle sanzioni, anche penali. Nell’ipotesi di interventi privi di autorizzazione (ovvero in caso di interventi diversi da quelli autorizzati), l’articolo 160 del Codice dei beni culturali stabilisce l’obbligo, a carico del trasgressore, di eseguire le opere necessarie a reintegrare il danno arrecato al bene culturale.
Se la reintegrazione non è possibile, «il responsabile è tenuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa».
Quanto alle sanzioni penali, viene punito con l’arresto da sei mesi a un anno, e con l’ammenda da 775 a 38.734,50 euro, chiunque senza autorizzazione demolisce, rimuove, modifica, restaura ovvero esegue opere di qualunque genere sui beni culturali.
Il chiarimento necessario
In questo quadro è facile comprendere come l’adesione all’una o all’altra tesi interpretativa, circa gli effetti delle abrogazioni introdotte dal nuovo Codice degli appalti, abbia dunque rilevanti ricadute pratiche.
In ragione di tali effetti, e dell’esigenza di avere delle certezze in un ambito così delicato, potrebbe essere utile un ulteriore intervento chiarificatore da parte del legislatore.
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Per gli stabili privati procedura avviata dal soprintendente. L’altro fronte. Limiti all’uso e alla circolazione.
Gli immobili di proprietà privata sono considerati beni culturali quando interviene un espresso provvedimento di vincolo. Mentre fanno eccezione quelli di proprietà di soggetti pubblici privatizzati, opera di autore non più vivente e realizzati da oltre 70, ovvero 50 anni (si veda l’altro articolo), per i quali vale la presunzione di culturalità.
Il procedimento di vincolo è avviato dal soprintendente, ma la dichiarazione di interesse culturale è adottata dal ministero. Questa viene notificata al proprietario (al possessore o al detentore) ed è trascritta, su richiesta del soprintendente, nei relativi registri, con conseguente efficacia nei confronti di terzi. A riguardo, la giurisprudenza ha ritenuto che un errore di trascrizione del provvedimento non determini il venir meno dell’opponibilità del vincolo, in presenza di elementi idonei a evidenziare la sussistenza della dichiarazione di un interesse particolarmente importante del bene (Consiglio di Stato, sentenza 4569 del 22.09.2008).
Il provvedimento che dichiara l’interesse culturale introduce alcuni importanti limiti all’uso e alla circolazione dell’immobile. In primo luogo, il bene vincolato è soggetto –in caso di alienazione o conferimento in società– al diritto di prelazione (riferita al contratto definitivo che va denunciato). Il ministero ha 60 giorni di tempo per esercitare la prelazione (ovvero 180 giorni dalla ricezione di denuncia tardiva o dall’acquisizione di tutti gli elementi costitutivi della stessa, in caso di omessa o incompleta denuncia): durante questo periodo il contratto è sottoposto alla condizione sospensiva del mancato esercizio del diritto di prelazione.
In pendenza del termine per l’esercizio della prelazione, all’alienante è vietato effettuare la consegna della cosa (prescrizione sanzionata anche a livello penale dall’articolo 173 del Codice dei beni culturali, Dlgs 42/2004). Inoltre, le clausole del contratto di alienazione (con l’eccezione del prezzo) non impegnano lo Stato.
Altri limiti riguardano l’utilizzo e, in particolare, l’esecuzione di opere sull’edificio. A tal fine è obbligatoria –per interventi di qualsiasi natura– la preventiva autorizzazione che deve (dovrebbe) intervenire nel termine (ordinatorio) di 120 giorni dalla richiesta. Per realizzare i lavori è quindi necessario sia il titolo abilitativo comunale sia l’autorizzazione della soprintendenza.
In linea di principio, non è esclusa la possibilità di un’autorizzazione tardiva della Soprintendenza. Tale circostanza, tuttavia, se può sanare l’intervento a livello edilizio, non fa venir meno il reato previsto dall’articolo 169 del Codice dei beni culturali. Infatti, come affermato dalla Cassazione (sentenza 46082/2008), «in tema di tutela penale del patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, né l’accertamento postumo di compatibilità con il vincolo culturale rilasciato dalla Soprintendenza né l’autorizzazione in sanatoria rilasciata dall’Autorità preposta esplicano effetto estintivo ovvero escludono la punibilità del reato d’abusivo intervento su beni culturali»
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALISocietà, dal sindaco i tagli dei costi. Con la riforma i Comuni devono fissare gli obblighi sul contenimento di spese e personale.
Partecipate. Le aziende che non pubblicano gli atti di indirizzo rischiano di vedersi bloccati i pagamenti non legati ai contratti di servizio.

Gli enti locali devono definire gli indirizzi per il contenimento delle spese di funzionamento delle società a controllo pubblico, che sono chiamate a loro volta a rimodulare regole e dinamiche per la gestione delle risorse umane.
Il Testo unico sulle partecipate disciplina numerosi interventi obbligatori che comportano l’attivazione in tempi rapidi di processi organizzativi.
L’approccio strategico è definito dall’articolo 19, comma 5, del decreto legislativo 175/2016, nel quale si stabilisce che le amministrazioni socie fissano, con propri provvedimenti, obiettivi specifici, con proiezioni annuali e pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento delle società. Questi provvedimenti devono a loro volta essere pubblicati sul sito delle società, che altrimenti rischiano di incorrere in pesanti sanzioni a partire dal blocco dei pagamenti da parte dell’ente (con l’eccezione di quelli dovuti per i contratti di servizio), mentre i dirigenti responsabili possono vedersi tagliare le voci accessorie del personale e comminare una sanzione amministrativa fino a 10mila euro.
In questi atti di indirizzo gli enti devono focalizzare l’attenzione in particolare sulle spese per il personale, potendo prevedere il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni, dovendo tenere in considerazione sia i limiti stabiliti dalla normativa vigente per il reclutamento del personale nelle amministrazioni pubbliche sia i vincoli definiti dall’articolo 25 dello stesso decreto: in particolare, occorre focalizzarsi sull’utilizzo obbligatorio della mobilità per i lavoratori individuati in esubero e sul correlato blocco delle assunzioni a tempo indeterminato fino al 30.06.2018.
I provvedimenti degli enti partecipanti si configurano come il quadro di riferimento necessario per le società. Le aziende controllate devono infatti garantire il concreto perseguimento degli obiettivi fissati dai soci, recependo le indicazioni per le dinamiche organizzative in propri atti di natura regolamentare e quelle per il contenimento delle spese di personale all’interno della contrattazione di secondo livello.
L’elaborazione degli obiettivi relativi alle spese di funzionamento deve essere realizzata dalle amministrazioni sulla base di un’analisi accurata delle prospettive industriali di ogni società e dei servizi a essa affidati; la valutazione deve tenere conto della complessità delle attività svolte dalla società e del contesto in cui l’azienda opera.
Ad esempio, nel caso di una società affidataria del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti in un’area a forte vocazione turistica stagionale, gli indirizzi relativi al reclutamento di personale dovranno essere articolati tenendo conto dei picchi di presenze e delle conseguenti necessità di assunzioni di personale con contratti a tempo determinato.
I provvedimenti regolativi adottati dalle amministrazioni possono essere configurati anche come strumenti di sollecitazione per la verifica dei processi di riorganizzazione in corso, soprattutto quando prevedano procedure di mobilità, realizzabili solo se avviate prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 175/2016.
Gli obiettivi possono riguardare anche soluzioni di ottimizzazione de processi di procurement, con la previsione dell’obbligo di acquisizione di beni e servizi mediante il mercato elettronico o analoghe piattaforme telematiche entro la soglia comunitaria.
Gli enti soci possono definire anche limitazioni specifiche, come quelle adottate da alcune amministrazioni nei confronti delle proprie società partecipate in ordine all’acquisto e alla gestione di autoveicoli, e prevedere l’adozione di regolamenti o di sistemi criteriali dettagliati per l’effettuazione di spese di rappresentanza: va ricordato che queste ultime sono considerate dalla Corte dei conti recessive rispetto alle spese necessarie ad assicurare il regolare funzionamento delle società
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2016).

EDILIZIA PRIVATATerre, l'analisi apre alla deroga. Riutilizzo in loco dopo verifica di non contaminazione. Nel nuovo dpr sui materiali da scavo, l'iter per gestirli fuori dal regime dei rifiuti.
Anche se effettuate nella realizzazione della recinzione di un giardino, le attività di escavazione e riutilizzo in loco delle terre estratte potranno essere condotte fuori dal regime dei rifiuti solo previa e peculiare analisi chimica del suolo che ne provi l'assenza di contaminazione.

Questa una delle novità legate all'imminente debutto del nuovo regolamento sulla gestione delle terre e rocce da scavo (Atto del Governo n. 279 - Schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo), licenziato in via definitiva dal governo (nella forma di dpr) il 14.07.2016, in corso di pubblicazione sulla G.U.
Oltre a incidere sulla disciplina per la gestione dei riporti che costituiscono «rifiuti» o «sottoprodotti», il decreto in itinere interessa infatti anche quelli inquadrabili a monte come «non rifiuti». E questo dettando le procedure per poter invocare il regime di deroga alle rigide regole sui rifiuti a monte previsto dal Codice ambientale per il suolo non contaminato escavato e destinato a rimanere in sito.
Le terre da scavo escluse dal regime dei rifiuti. A sensi dell'articolo 185, comma 1), lettera c) del dlgs 152/2006 non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui rifiuti: «Il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato».
Attuando tale disposizione generale, il regolamento in arrivo detta le regole che gli operatori dovranno osservare per dimostrare l'effettiva sussistenza della condizione principe della «non contaminazione» al fine di poter legittimamente godere della sottesa deroga. E ciò imponendo un accertamento analitico che andrà condotto in tutti i cantieri, a prescindere dalle loro dimensioni.
La verifica di «non contaminazione». A tutto tondo la disciplina del dpr sulla preliminare verifica, laddove l'articolo 24 e il connesso allegato tecnico n. 4 del provvedimento dettano sia le regole da seguire per identificare il terreno interessato sia i parametri chimici da soddisfare per poter essere considerato come non contaminato.
Sotto il primo profilo, sono previste le precise caratteristiche che i campioni da sottoporre ad analisi dovranno avere nonché le specifiche sostanze su cui le suddette analisi (condotte in laboratorio o in campo) dovranno vertere. Sotto il secondo profilo, il decreto impone invece il confronto dei risultati delle analisi con i valori di «concentrazioni soglia di contaminazione» (Csc) previste dalle colonne A e B, tabella 1, allegato 5 alla Parte quarta del dlgs 152/2006 con riferimento alla specifica destinazione d'uso urbanistica o ai valori di fondo naturali. Sarà il rispetto di detti valori a garantire, in base al nuovo decreto, il soddisfacimento della condizione di non contaminazione.
Tutto ciò con due peculiarità: se il sito è stato interessato da pregressa attività antropica, occorrerà cercare e analizzare anche le ulteriori sostanze potenzialmente presenti; se le operazioni di scavo comporteranno invece l'utilizzo di sostanze non contemplate dal dpr sarà altresì necessario l'esaurimento di una preventiva procedura di verifica di non pericolosità da attivarsi presso l'Istituto superiore di sanità.
Tra le condizioni per il riutilizzo «in deroga» dei riporti in parola non vi sarà dunque quella del rispetto del limite del 20% di presenza di materiale antropico, condizione circoscritta dall'articolo 4 dello stesso dpr alle terre da scavo destinate a essere riutilizzate fuori sito come sottoprodotti.
Tempistica e formalizzazione della verifica. La verifica di non contaminazione andrà condotta prima di avviare le attività di escavo e formalizzata tramite apposita documentazione, a pena di veder inquadrate tutte le operazioni svolte sotto il regime proprio dei rifiuti ex dlgs 152/2006 (con le relative sanzioni in caso di assenza di autorizzazione).
Dispone infatti l'articolo 24, comma 4 del neo dpr che «comunque prima dell'inizio dei lavori» proponente o esecutore devono: effettuare campionamento e relativa caratterizzazione per accertare l'idoneità delle terre al reimpiego; di conseguenza, redigere un apposito progetto in cui sono definite volumetrie di scavo, quantità di terre e rocce da riutilizzare, coordinate del loro deposito e collocazione definitiva.
In termini generali è utile ricordare che ai sensi dell'articolo 266, comma 7 del dlgs 152/2006 un'ulteriore «semplificazione amministrativa delle procedure relative ai materiali, ivi incluse le terre e le rocce da scavo, provenienti da cantieri di piccole dimensioni» potrà essere comunque adottata dal Minambiente con proprio decreto.
Regole particolari: l'amianto naturale. Riutilizzo in deroga al regime sui rifiuti possibile, ma ulteriormente condizionato, anche per le terre in parola che contengono «amianto naturale» oltre i valori di soglia. Il regime di favore (non parimenti previsto per le terre, invece, destinate a essere reimpiegate fuori sito come sottoprodotti) è dal dpr accordato ai materiali da scavo che provengono da affioramenti geologici naturali contenenti amianto in misura superiore al relativo parametro di riferimento recato dalla più sopra citata tabella 1 del dlgs 152/2006 e fissato in 1000 mg/kg.
Il reimpiego delle terre e rocce da scavo interessate oltremisura dal cosiddetto «amianto naturale» sarà possibile: previa determinazione dei valori di fondo naturale da assumere per il terreno interessato; nel solo preciso sito di produzione e sotto controllo delle Autorità competenti; previa presentazione di un apposito piano di riutilizzo ad Arpa e Asl.
E le attività nei siti sub «Via». Condizioni ad hoc anche per condurre escavi e riutilizzi delle terre in questione nell'ambito di opere o attività soggette a valutazione di impatto ambientale. La sussistenza delle condizioni per gestire i materiali escavati fuori dal regime dei rifiuti ex articolo 185 del dlgs 152/2006 dovrà in questo caso essere: effettuata in fase di Studio di impatto ambientale (Sia); attraverso la presentazione di un «piano preliminare di utilizzo in sito» con descrizione dettagliata di sito, attività di escavo e riutilizzo da effettuare, modalità di caratterizzazione delle terre; previa trasmissione degli atti alle Autorità competenti (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAScia 2, scontro governo-regioni. Gli enti rivendicano la loro autonomia sulle autorizzazioni. Stravolto in Conferenza unificata il dlgs che punta a uniformare i procedimenti per le imprese.
È scontro tra stato e regioni sulla Scia 2. Lo schema di decreto è quello varato in prima lettura dal consiglio dei ministri il 15 giugno scorso, su cui il Consiglio di stato si è espresso il 4 agosto successivo, con un parere recante diverse proposte di modifica.
Il provvedimento punta a uniformare su tutto il territorio nazionale i procedimenti autorizzatori per l'edilizia e le attività d'impresa come il commercio, l'artigianato e la somministrazione di alimenti e bevande; ma il testo due giorni fa è stato stravolto in Conferenza unificata, dove le regioni hanno pesantemente messo mano al testo, rivendicando la propria autonomia.
Secondo gli enti territoriali, infatti, devono essere fatti salvi i regimi amministrativi più favorevoli in termini di semplificazione già previsti localmente. Anche in considerazione dell'esplicito richiamo nella legge delega (n. 124/2015) a principi e criteri direttivi di derivazione Ue, a cui le regioni si sono tenute, nel legiferare. Al contrario dello stato centrale, che, invece, nella tabella A contenuta nello schema di dlgs (quella che individua i procedimenti autorizzatori da utilizzare) ha operato una mera ricognizione della normativa esistente.
Il ritorno all'autonomia regionale in fatto di Scia è una delle condizioni che le regioni hanno posto per il raggiungimento dell'intesa in Conferenza unificata. Stando a quanto riportato da una nota, emanata dalla Conferenza delle regioni (e non dalla Unificata) l'intesa sarebbe stata raggiunta con l'accoglimento delle richieste regionali. Ma il governo tace.
Lo schema di decreto legislativo in oggetto, va ricordato, è quello per l'individuazione dei procedimenti oggetto di autorizzazione e segnalazione certificata di inizio attività, in applicazione della riforma Madia sulla pubblica amministrazione (art. 5 della legge suddetta).
Questioni generali di forma e sostanza. Le comunicazioni che legittimano, in via semplificata, l'esercizio di una attività, non sono delle «mere» informative ma possono essere corredate nei casi previsti dalla legge da asseverazioni o certificazioni, così come già avviene per le Scia. A proposito, invece, del glossario unico che, in materia edilizia, dovrebbe garantire omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio nazionale e approvato con specifico decreto ministeriale, secondo le regioni va fin da subito precisato che esso deve contenere l'elenco delle principali opere edilizie, con l'individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi della Tabella A che forma parte integrante del decreto legislativo e che viene ormai considerata una codificazione soft; ciò in quanto ridisciplina i sistemi autorizzatori oggi previsti.
Secondo le regioni, inoltre, la consulenza preistruttoria prevista in modalità gratuita per il settore dell'edilizia, dovrebbe andare estesa a tutte le fattispecie disciplinate dal decreto legislativo in corso di approvazione e, pertanto, anche con riferimento alle attività nel settore del commercio e dell'artigianato. Una consulenza, tuttavia, che nulla ha a che vedere con il tutor d'impresa previsto dal disegno di legge S958 e proposto dal governo Letta, fortemente sostenuto da Confindustria ma contrastato da Rete imprese Italia.
Norme in materia di ambiente. Secondo le regioni sussistono forti dubbi sul fatto che le novità contenute all'art. 4 dello schema di decreto legislativo possano portare ad una effettiva semplificazione della disciplina. Chiedono, pertanto, uno stralcio dell'intero articolo e l'impegno, da parte del governo, di avviare un confronto con le regioni stesse per la complessiva riscrittura del titolo V del dlgs 152/2006 che regolamenta la bonifica di siti contaminati. Ciò in quanto, a giudizio delle regioni, l'utilizzo di obiettivi di bonifica diversi riferito al soggetto della bonifica introdurrebbe una disparità di trattamento tra i diversi titolari della bonifica.
Autonomia regionale e modifiche normative. Al fine di salvaguardare le disposizioni regionali che prevedono semplificazioni ulteriori rispetto a quanto proposto dal governo nella tabella A, viene espressamente richiesto di stabilire, con apposita disposizione, che le regioni e gli enti locali possano prevedere livelli ulteriori di semplificazione e di fissare al 30.06.2017 il termine di adeguamento alle nuove disposizioni. Le regioni, infine, hanno avanzato diverse proposte di miglioramento del testo, pur non ritenendole condizionati ai fini dell'intesa, ma comunque come interventi opportuni (articolo ItaliaOggi dell'01.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla ostensibilità -o meno- di atti rispetto ai quali sono state svolte indagini di natura penale.
La tipologia degli atti richiesti al Comune dall’odierno ricorrente rientra a pieno titolo nell’ambito degli atti e documenti esclusi dall’accesso ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. a), della legge 07.08.1990, n. 241 atteso che trattasi di atti rispetto ai quali sono state svolte indagini di natura penale che proseguono nell’ambito dell’attività di polizia amministrativa per i riflessi repressivo-sanzionatori in materia edilizia.
Con particolare riferimento agli atti prodotti nel corso di indagini penali, seppure è vero che, secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale, non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratto all'accesso, in quanto laddove la denuncia sia riconducibile all'esercizio delle istituzionali funzioni amministrative, l’atto non ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 329 c.p.p. e non può ritenersi coperto dal segreto istruttorio, nondimeno deve considerarsi che se la pubblica amministrazione trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p..
Nello specifico, con riferimento al contenuto dei documenti richiesti e tenuto conto del tenore delle espressioni recate dall’istanza ostensiva allegata al fascicolo di parte ricorrente, pare evidente la natura di dati giudiziari relativi a terzi soggetti (ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.lgs. 30.06.2003, n. 196), rispetto ai quali il ricorrente non ha limitato la richiesta ai soli dati a lui riferibili, se esistenti.
Di talché, pur tenuto conto che, in disparte la innegabile inadempienza da parte del Comune intimato che avrebbe dovuto comunque completare il procedimento ostensivo con l’adozione di un provvedimento espresso, gli atti richiesti dal ricorrente rientrano nella categoria di quelli esclusi dall’accesso documentale ai sensi dell’art. 24, commi 1, lett. a) e 7, della legge n. 241/1990 e che quindi il ricorso va respinto.

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... per l'annullamento del provvedimento di diniego di accesso ai documenti amministrativi richiesti con istanza prot. n. 713/2016 del 27.02.2016.
...
- Premesso che il Signor An.As., essendo venuto a conoscenza, per circostanze dallo stesso non precisate, della circostanza che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Velletri aveva inviato al Comune di Rocca di Papa, in data 13.11. 2015, una lista di immobili ritenuti non conformi alla normativa edilizia, oggetto di procedimento già definito, chiedendo che venisse riferito circa lo stato di detti immobili e la situazione relativa agli occupanti degli stessi;
- Considerato che l’odierno ricorrente, sostenendo che la natura di tale lista sarebbe riconducibile nell’alveo dei meri atti amministrativi relativi a procedimenti penali già conclusi, ha chiesto al Comune di Rocca di Papa, con istanza del 28.02.2016, protocollata con il n. 713/2016, l’accesso documentale alla surrichiamata lista inviata dalla Procura della Repubblica al Comune nonché, inoltre, alla lista degli immobili effettivamente sottoposti ad accertamenti tecnici da parte della Polizia locale ovvero da parte di altre Forze di polizia oppure ancora da parte dell’Ufficio tecnico comunale, senza ottenere alcun riscontro;
- Rilevato che per tale ragione il Signor An.As. ha proposto ricorso dinanzi a questo Tribunale nei confronti del silenzio diniego formatosi sull’istanza ostensiva sopra citata chiedendo che, in seguito all’accertamento dell’obbligo di provvedere al richiesto accesso documentale, il Comune venga condannato a rendere possibile l’ostensione dei suddetti documenti;
- Verificato che il Comune di Rocca di Papa non si è costituito in giudizio;
- Valutato che la tipologia degli atti richiesti al Comune dall’odierno ricorrente rientra a pieno titolo nell’ambito degli atti e documenti esclusi dall’accesso ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. a), della legge 07.08.1990, n. 241 atteso che trattasi di atti rispetto ai quali sono state svolte indagini di natura penale che proseguono nell’ambito dell’attività di polizia amministrativa per i riflessi repressivo-sanzionatori in materia edilizia;
- Specificato che, con particolare riferimento agli atti prodotti nel corso di indagini penali, seppure è vero che, secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale, non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratto all'accesso, in quanto laddove la denuncia sia riconducibile all'esercizio delle istituzionali funzioni amministrative, l’atto non ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 329 c.p.p. e non può ritenersi coperto dal segreto istruttorio, nondimeno deve considerarsi che se la pubblica amministrazione trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 29.01.2013) n. 547);
- Puntualizzato inoltre che, con riferimento al contenuto dei documenti richiesti e tenuto conto del tenore delle espressioni recate dall’istanza ostensiva allegata al fascicolo di parte ricorrente, pare evidente la natura di dati giudiziari relativi a terzi soggetti (ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.lgs. 30.06.2003, n. 196), rispetto ai quali il ricorrente non ha limitato la richiesta ai soli dati a lui riferibili, se esistenti;
- Tenuto conto quindi che, in disparte la innegabile inadempienza da parte del Comune intimato che avrebbe dovuto comunque completare il procedimento ostensivo con l’adozione di un provvedimento espresso, gli atti richiesti dal ricorrente rientrano nella categoria di quelli esclusi dall’accesso documentale ai sensi dell’art. 24, commi 1, lett. a) e 7, della legge n. 241/1990 e che quindi il ricorso va respinto;
- Stimato che, nonostante la soccombenza della parte ricorrente nel presente giudizio, il comportamento colpevolmente inerte tenuto dal Comune di Rocca di Papa, nel corso della procedura fatta oggetto di contenzioso, costituisce il necessario presupposto per disporre la compensazione delle spese giudiziali (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 12.12.2016 n. 12318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'interesse all'accesso ai documenti deve essere considerato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale, che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, o sulla ammissibilità e la rilevanza dei documenti richiesti rispetto ad un giudizio pendente.
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- Rilevato che non si presentano elementi utili a negare l’ostensione del contenuto del fascicolo presente presso il X Municipio di Roma Capitale intestato alla Società ricorrente (per come espressamente richiesto nella istanza ostensiva), sia attraverso la visione dei documenti contenuti nel fascicolo medesimo sia attraverso la estrazione di copia degli atti, in ossequio al duplice principio generale secondo il quale, ai sensi dell’art. 24, comma 7, della legge 07.08.1990, n. 241 per un verso deve comunque essere garantito l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici nonché, sotto altro profilo, il problema del bilanciamento delle contrapposte esigenze delle parti interessate, diritto di accesso e di difesa e cura dei propri interessi, da parte del richiedente, da un lato, e diritto di riservatezza dei terzi, dall'altro, va risolto dando prevalenza al diritto di accesso (sempre ai sensi del citato art. 24, comma 7), qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei propri interessi giuridici.
D’altronde, per costante giurisprudenza, l'interesse all'accesso ai documenti deve essere considerato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale, che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, o sulla ammissibilità e la rilevanza dei documenti richiesti rispetto ad un giudizio pendente (su tutti i principi di cui sopra di rinvia alla decisione del Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.03.2014 n. 1134); (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 12.12.2016 n. 12317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La suddivisione in lotti secondo nel nuovo Codice dei contratti.
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Gara – Lotti – Suddivisione – Obbligo – Art. 51, d.lgs. n. 50 del 2016 – Limiti.
Il principio della “suddivisione in lotti”, previsto dall'art. 51, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 al fine di favorire l’accesso alle gare pubbliche delle micro, piccole e medie imprese, non è posto in termini assoluti, ma può essere derogato, seppure con una decisione adeguatamente motivata.
Lo stesso art. 51, al comma 1, secondo periodo, afferma, infatti, che “le stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione dell’appalto in lotti nel bando di gara o nella lettera d’invito e nella relazione unica di cui agli artt. 99 e 139” (1).

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   (1) Il Tar ha evidenziato la necessità di comprendere le indicazioni che l’ordinamento fornisce in ordine ai valori o interessi nel perseguimento dei quali la deroga può avvenire, giacché la regolamentazione procedimentale (obbligo di motivazione), pur significativa e importante, non copre lo spazio ancor più rilevante della legalità sostanziale e cioè della scelta del contemperamento degli interessi pubblici contrapposti. Risposta al quesito pare rinvenibile dall’esame della disciplina europea, di cui quella nazionale costituisce recepimento.
Il n. 78 della direttiva 2014/24/UE, occupandosi della questione, dopo aver posto in evidenza la necessità di garantire la partecipazione delle piccole e medie imprese alle gare pubbliche e il correlato strumento della suddivisione in lotti, si occupa anche della possibile scelta della stazione appaltante di non procedere all’articolazione in lotti e, oltre a prevedere la necessità di motivazione, si spinge anche a considerare le possibili ragioni giustificative di una tale scelta: evidenzia quindi che “tali motivi potrebbero, per esempio, consistere nel fatto che l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che tale suddivisione possa rischiare di limitare la concorrenza o di rendere l’esecuzione dell’appalto eccessivamente difficile dal punto di vista tecnico o troppo costosa, ovvero che l’esigenza di coordinare i diversi operatori economici per i lotti possa rischiare seriamente di pregiudicare la corretta esecuzione dell’appalto”.
Tra gli interessi che possono essere valorizzati dalle stazioni appaltanti per non procedere alla suddivisione in lotti vi è dunque anche quello dei costi cui la suddivisone in lotti può condurre. Ecco che già a livello europeo compare la tensione tra i due contrapposti obiettivi costituiti, da un lato, dalla finalità di garantire la partecipazione delle piccole e medie imprese alle gare d’appalto, con conseguente loro suddivisione in lotti di importo limitato, e, dall’altro, della finalità di garantire razionalizzazione e contenimento della spesa attraverso la centralizzazione e aggregazione delle gare medesime.
Ha ancora chiarito il Tar che ai fini della composizione dei suddetti contrapposti interessi assume rilievo, come dato di legislazione interna che consuma parte della scelta valutativa della stazione appaltante, la legislazione di c.d. spending review; viene in particolare in considerazione la disciplina di cui all’art. 9, d.l. 24.04.2014, n. 66, norma che, in relazione alla acquisizione di servizi specificamente individuati da parte di soggetti nominativamente indicati e al superarsi di soglie anch’esse specificamente fissate, impone l’aggregazione, centralizzando gli acquisti medesimi in all’uopo creati.
Il d.P.C.M. 24.12.2015 (in G.U. 09.02.2016, n. 32), cui la norma primaria ha rimesso la disciplina applicativa, sottopone alle gare centralizzate, in chiara funzione di risparmio di spesa, l’affidamento dei “servizi di smaltimento rifiuti sanitari” di importo superiore a € 40.000,00. Si tratta di regolamentazione che, pur non escludendo in radice la suddivisione in lotti, effettua una selezione delle tipologie di gare per le quali l’obiettivo di aggregazione in funzione del contenimento dei costi e dell’ottenimento di economie di scala appare oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.12.2016 n. 1755 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
6 – Con il primo motivo di ricorso l’Impresa individuale Do.Gi. censura il bando di gara impugnato, per aver lo stesso indetto una gara di consistenti dimensioni senza divisione in lotti, come imposto dall’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016, in tal modo restringendo la concorrenza, in palese violazione dei principi comunitari volti a favorire gare pubbliche nelle quali sia garantito un confronto concorrenziale aperto anche alle imprese di piccole e medie dimensioni.
La Sezione si è già pronunciata su tematica simile nella sentenza n. 1129 del 2016, ancorché resa su gara alla quale si applicava la disciplina di cui al d.lgs. n. 163 del 2006; la questione deve quindi essere ripresa e analizzata nel nuovo contesto disciplinare di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 e della normativa europea di cui esso costituisce recepimento.
Anche nel nuovo quadro disciplinare la censura è infondata alla luce delle considerazioni di seguito esplicitate.
6.1 –
L’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016 ha mantenuto e in parte rafforzato il principio della “suddivisione in lotti”, posto in essere “al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie imprese” alle gare pubbliche, già previsto dall’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Deve tuttavia evidenziarsi che, anche nel nuovo regime, il principio non risulta posto in termini assoluti e inderogabili, giacché il medesimo art. 51, al comma 1, secondo periodo, afferma che “le stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione dell’appalto in lotti nel bando di gara o nella lettera d’invito e nella relazione unica di cui agli articoli 99 e 139”.
Il principio della “suddivisione in lotti” può dunque essere derogato, seppur attraverso una decisione che deve essere adeguatamente motivata; residua tuttavia la necessità di comprendere le indicazioni che l’ordinamento fornisca in ordine ai valori o interessi nel perseguimento dei quali la deroga può avvenire, giacché la regolamentazione procedimentale (obbligo di motivazione), pur significativa e importante, non copre lo spazio ancor più rilevante della legalità sostanziale e cioè della scelta del contemperamento degli interessi pubblici contrapposti. Risposta al quesito pare rinvenibile dall’esame della disciplina europea, di cui quella nazionale costituisce recepimento.
Il <considerando> n. 78 della direttiva 2014/24/UE, occupandosi della questione, dopo aver posto in evidenza la necessità di garantire la partecipazione delle PMI alle gare pubbliche e il correlato strumento della suddivisione in lotti, si occupa anche della possibile scelta della stazione appaltante di non procedere all’articolazione in lotti e, oltre a prevedere la necessità di motivazione, si spinge anche a considerare le possibili ragioni giustificative di una tale scelta: evidenzia quindi che “tali motivi potrebbero, per esempio, consistere nel fatto che l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che tale suddivisione possa rischiare di limitare la concorrenza o di rendere l’esecuzione dell’appalto eccessivamente difficile dal punto di vista tecnico o troppo costosa, ovvero che l’esigenza di coordinare i diversi operatori economici per i lotti possa rischiare seriamente di pregiudicare la corretta esecuzione dell’appalto”.
Tra gli interessi che possono essere valorizzati dalle stazioni appaltanti per non procedere alla suddivisione in lotti vi è dunque anche quello dei costi cui la suddivisone in lotti può condurre. Ecco che già a livello europeo compare la tensione tra i due contrapposti obiettivi costituiti, da un lato, dalla finalità di garantire la partecipazione delle PMI alle gare d’appalto, con conseguente loro suddivisione in lotti di importo limitato, e, dall’altro, della finalità di garantire razionalizzazione e contenimento della spesa attraverso la centralizzazione e aggregazione delle gare medesime.

6.2 – Ai fini della composizione dei suddetti contrapposti interessi assume rilievo, come dato di legislazione interna che consuma parte della scelta valutativa della stazione appaltante, la legislazione di c.d. spending review; viene in particolare in considerazione la disciplina di cui all’art. 9 del decreto-legge n. 66 del 2014, norma che, in relazione alla acquisizione di servizi specificamente individuati da parte di soggetti nominativamente indicati e al superarsi di soglie anch’esse specificamente fissate, impone l’aggregazione, centralizzando gli acquisti medesimi in <soggetti aggregatori> all’uopo creati.
Il DPCM 24.12.2015 (in G.U. 09.02.2016, n. 32), cui la norma primaria ha rimesso la disciplina applicativa, sottopone alle gare centralizzate, in chiara funzione di risparmio di spesa, l’affidamento dei “servizi di smaltimento rifiuti sanitari” di importo superiore a € 40.000,00.
Si tratta di regolamentazione che, pur non escludendo in radice la suddivisione in lotti, effettua una selezione delle tipologie di gare per le quali l’obiettivo di aggregazione in funzione del contenimento dei costi e dell’ottenimento di economie di scala appare oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore.
6.3 – Nel caso in esame il soggetto aggregatore, che ha indetto la gara ai sensi della richiamata disciplina di cui al decreto-legge n. 66 del 2014 e del DPCM del 24.12.2015, ha correttamente motivato la scelta di non procedere alla suddivisione in lotti, statuendo che “la gara è impostata in unico lotto per ottenere economie di mercato, a fronte di tipologie di prestazioni uguali per tutta la Regione, come richiesto dalla mission di Estar dalla tipologia di gara ricompresa nell’elenco del DPCM 24/12/2015, riservate ai soggetti aggregatori, considerando che l’attuale assetto di mercato, come evidenziato dal dialogo tecnico effettuato, non pregiudica la partecipazione alla gara”.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte e della normativa europea e interna richiamata si tratta di motivazione adeguata e idonea a rispondere all’obbligo di giustificazione di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016.

APPALTI: Raggruppamenti di tipo verticale e orizzontale nel nuovo Codice appalti.
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Gara – Raggruppamenti di tipo verticale e orizzontale – Art. 48, d.lgs. n. 50 del 2016 – Indicazione prestazione principale e secondaria – Mancanza nel bando – Conseguenza.
La distinzione tra -e la stessa configurazione di- raggruppamenti di tipo orizzontale e verticale, ex art. 48, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, con riferimento allo specifico procedimento di gara, presuppone che la lex specialis abbia indicato la prestazione principale e quella/e secondaria/e.
Pertanto, ove, invece, la lex speicialis di gara non rechi la suddetta distinzione, indicando quale oggetto dell’affidamento un servizio unitario, pur articolato in diversi segmenti attuativi, la qualificazione -come orizzontale– di un raggruppamento concorrente discende ed è coerente con la disciplina di gara, in assenza dei presupposti (correlati alla menzionata necessaria distinzione ad opera del bando delle prestazioni oggetto di affidamento) per la configurazione di un raggruppamento di tipo verticale (1).

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   (1) Ha chiarito il Tar Salerno che l’indicazione nell’offerta delle imprese ricorrenti delle singole parti dell’unitario servizio, la cui esecuzione è demandata alle imprese raggruppate, lungi dal contraddire la suddetta auto-qualificazione del raggruppamento ricorrente come orizzontale (che, ai sensi del comma 2 dell’art. 48, d.lgs. n. 50 del 2016, presuppone che gli operatori economici eseguono il medesimo tipo di prestazione), risponde alla prescrizione di cui all’art. 48, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, ai sensi del quale “nel caso di forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.12.2016 n. 2631 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
- Rilevato preliminarmente che l’impugnato provvedimento di esclusione scaturisce dal fatto che la capogruppo MPS s.p.a. ha dichiarato di partecipare alla gara quale capogruppo di un costituendo R.T.I. di tipo orizzontale, indicando le attività che sarebbero state svolte da ciascuna delle imprese raggruppate, in asserito contrasto con l’art. 48, comma 2, d.lvo n. 50/2016, ai sensi del quale nel caso di servizi “per raggruppamento orizzontale si intende quello in cui gli operatori economici eseguono il medesimo tipo di prestazione”, evidenziando altresì la stazione appaltante che “nel caso di RTI orizzontale le aziende raggruppate avrebbero dovuto fornire dimostrazione di possedere i medesimi requisiti, nel caso di specie mancanti”;
- Richiamato il disposto dell’art. 48, comma 2, d.lvo n. 50/2016, ai sensi del quale “nel caso di forniture o servizi, per raggruppamento di tipo verticale si intende un raggruppamento di operatori economici in cui il mandatario esegue le prestazioni di servizi o di forniture indicati come principali anche in termini economici, i mandanti quelle indicate come secondarie; per raggruppamento orizzontale quello in cui gli operatori economici eseguono il medesimo tipo di prestazione; le stazioni appaltanti indicano nel bando di gara la prestazione principale e quelle secondarie”;
- Rilevato quindi che
la distinzione tra -e la stessa configurazione di- raggruppamenti di tipo orizzontale e verticale, con riferimento allo specifico procedimento di gara, presuppone che la lex specialis abbia indicato la prestazione principale e quella/e secondaria/e;
- Rilevato che
la disciplina di gara, nella fattispecie in esame, non reca la suddetta distinzione, indicando quale oggetto dell’affidamento un unitario servizio “Bollettino”, pur articolato in diversi segmenti attuativi;
- Considerato quindi che,
in siffatto contesto, la qualificazione -come orizzontale- del raggruppamento ricorrente discende ed è coerente con la disciplina di gara, in assenza dei presupposti (correlati alla menzionata necessaria distinzione ad opera del bando delle prestazioni oggetto di affidamento) per la configurazione di un raggruppamento di tipo verticale;
- Rilevato altresì che l’indicazione nell’offerta delle imprese ricorrenti delle singole parti dell’unitario servizio “Bollettino”, la cui esecuzione è demandata alle imprese raggruppate, lungi dal contraddire la suddetta auto-qualificazione del raggruppamento ricorrente come orizzontale, risponde alla prescrizione di cui all’art. 48, comma 4, d.lvo n. 50/2016, ai sensi del quale “nel caso di forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati”;
- Rilevata infine la genericità dell’assunto secondo cui le imprese raggruppate sarebbero carenti dei requisiti prescritti dal bando e la sua conseguente inidoneità, così formulato, a sorreggere l’impugnato provvedimento di esclusione;
- Ritenuto quindi che la domanda di annullamento di quest’ultimo debba essere accolta, siccome fondata, potendo disporsi l’assorbimento delle censure non esaminate;

APPALTI SERVIZI: La Corte di Giustizia fornisce alcuni chiarimenti circa il requisito della c.d. attività prevalente necessario per individuare un legittimo affidamento in house.
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Appalti pubblici – Affidamenti in house – Attività prevalente per l’amministrazione aggiudicatrice – Attività svolta in favore di enti territoriali terzi – Esclusione.
Appalti pubblici – Affidamenti in house – Attività prevalente per l’amministrazione aggiudicatrice – Controllo analogo – Criteri di individuazione.
In materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici, detti «in house», al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per l’amministrazione aggiudicatrice e segnatamente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che lo controllino, non si deve ricomprendere in tale attività quella imposta a detto ente da un’amministrazione pubblica, non sua socia, a favore di enti territoriali a loro volta non soci di detto ente e che non esercitino su di esso alcun controllo; tale ultima attività deve essere considerata come un’attività svolta a favore di terzi. (1)
In materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici, detti «in house», al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che esercitino su di esso, congiuntamente, un controllo analogo a quello esercitato sui loro stessi servizi, occorre tener conto di tutte le circostanze del caso di specie, tra le quali, all’occorrenza, l’attività che il medesimo ente affidatario abbia svolto per detti enti territoriali prima che divenisse effettivo tale controllo congiunto (2).

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(1-2)
   I. - Con la sentenza in epigrafe la Corte, decidendo una questione rimessa dal Consiglio di Stato (ordinanza sez. V, 20.10.2015, n. 4793), fornisce ulteriori chiarimenti nella delicata materia degli affidamenti in house.
Ciò appare particolarmente rilevante per l’ordinamento nazionale, a fronte della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità, per vizi del procedimento di approvazione (cfr. Corte cost. n. 251 del 2016) della l. n. 124 del 2015 (c.d. legge delega Madia), attuata, nella parte di interesse (disciplina della società pubbliche e, in particolare, dell’in house), dagli artt. 2, comma 1, lett. o), e 16, d.lgs. 19.08.2016, n. 175 (sul quale il Consiglio di Stato ha espresso il parere 21.04.2016, n. 968).
In particolare, la fattispecie concreta rimessa alla Corte UE nasceva dall’impugnativa, da parte di un’impresa di settore, di una delibera comunale che, ritenendo sussistenti i presupposti per l'affidamento in house ad una società a partecipazione pubblica, assegnava alla stessa un appalto del servizio di gestione del ciclo integrato dei rifiuti urbani.
L’ordinanza di rimessione dopo aver svolto un esame ricostruttivo del panorama normativo italiano e della giurisprudenza europea in tema di in house, al fine di risolvere la controversia sottoponeva alla Cge i due seguenti quesiti: “se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento all’attività imposta da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci”; “se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento agli affidamenti nei confronti degli enti pubblici soci prima che divenisse effettivo il requisito del cd. controllo analogo”.
   II. – La Corte europea, nel formulare i principi formulati riassunti nelle due massime in epigrafe, ha preso e le mosse dall’individuazione dell’obiettivo della disciplina in tema di in house.
In proposito ha ribadito che il requisito soggettivo –ovvero che il soggetto cui attribuire l’affidamento diretto svolga l’attività prevalente con l’ente o con gli enti locali che lo controllano- è finalizzato a garantire che la direttiva 2004/18 trovi applicazione anche nel caso in cui un’impresa controllata da uno o più enti sia attiva sul mercato e possa pertanto entrare in concorrenza con altre imprese.
Da ciò ne consegue, secondo la Corte, che:
     a) un’impresa non sia necessariamente privata della libertà di azione per il mero fatto che le decisioni che la riguardano siano prese dall’ente o dagli enti locali che la controllano, se essa può svolgere ancora una parte importante della sua attività economica presso altri operatori; per contro, qualora le prestazioni di detta impresa siano sostanzialmente destinate in via esclusiva all’ente o agli enti locali in questione, appare giustificato che l’impresa di cui trattasi sia sottratta agli obblighi della direttiva 2004/18, i quali sono dettati dall’intento di tutelare una concorrenza che, in tal caso, non ha più ragion d’essere;
     b) qualsiasi attività dell’ente affidatario che sia rivolta a persone diverse da quelle che lo controllano (anche se pp.aa.), deve essere considerata come svolta a favore di terzi;
     c) al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che lo controllino, non si deve ricomprendere in tale attività quella imposta a detto ente da un’amministrazione pubblica, non sua socia, a favore di enti territoriali a loro volta non soci di detto ente e che non esercitino su di esso alcun controllo; tale ultima attività deve essere considerata come un’attività svolta a favore di terzi;
     d) per valutare il requisito dello svolgimento dell’attività prevalente, il giudice nazionale deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative.
   III. – Nell’ambito di una vasta casistica, nazionale e comunitario, sull’in house si segnalano le seguenti recenti pronunce della Corte del Lussemburgo:
     a) sez. V, 19.06.2014, C-574/12, Centro Hospitalar, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2014, 1373, con nota di FERRARI, secondo cui: <<Qualora l’aggiudicatario di un appalto pubblico sia un’associazione di pubblica utilità senza scopo di lucro che, al momento dell’affidamento di tale appalto, comprende tra i suoi membri non solo enti che fanno parte del settore pubblico, ma anche istituzioni caritative private che svolgono attività senza scopo di lucro, la condizione relativa al «controllo analogo», dettata dalla giurisprudenza della corte affinché l’affidamento di un appalto pubblico possa essere considerato come un’operazione in house non è soddisfatta e pertanto la direttiva 2004/18/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, è applicabile>>;
     b) sez. V, 08.05.C-15713, Technische, in Foro it., 2015, IV, 40, con nota M. CASORIA, ivi ogni ulteriore riferimento di dottrina e giurisprudenza anche relativo alla nuove direttive del 2014, che si è soffermata sulla disciplina del c.d. in house orizzontale, stabilendo che: <<L’art. 1, par. 2, lett. a), direttiva 2004/18/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, deve essere interpretato nel senso che un contratto avente ad oggetto la fornitura di prodotti, concluso tra, da un lato, un’università che è un’amministrazione aggiudicatrice ed è controllata nel settore delle sue acquisizioni di prodotti e servizi da uno stato federale tedesco e, dall’altro, un’impresa di diritto privato detenuta dallo stato federale e dagli sati federali tedeschi, compreso detto stato federale, costituisce un appalto pubblico ai sensi della medesima disposizione e, pertanto, deve essere assoggettato alle norme di aggiudicazione di appalti pubblici previste da detta direttiva>>;
     c) sez. III, 29.11.2012, C-182/ e C-183/11, Soc. Econord, in Urbanistica e appalti, 2013, 307, con nota di F. LEGGIADRO, che ha delineato in modo puntuale le caratteristiche del controllo analogo, chiarendo che tale condizione sussiste quando l’affidatario è assoggettato al controllo effettivo, strutturale e funzionale, dell’amministrazione aggiudicatrice, la quale deve essere in grado di influenzarne in maniera determinante sia gli obiettivi strategici, sia le decisioni maggiormente rilevanti; si è anche puntualizzato che, nell’eventualità in cui l’aggiudicatario sia un ente posseduto in comune da più autorità pubbliche, il controllo analogo può essere esercitato anche congiuntamente (Corte giust. comm. ue, Sez. IV, sentenza 08.12.2016 C-553/15 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ambito di applicazione del nuovo rito appalti e rito applicabile in caso di cumulo di domande di annullamento ex commi 6 e 6-bis dell’art. 120 c.p.a..
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Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del 2016 – Sospensione feriale – Applicabilità.
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione congiunta ammissione concorrente e aggiudicazione – Possibilità - Condizione.
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione soggette ai diversi riti ex commi 6 e 6-bis dell’art. 120 c.p.a. – Rito applicabile – Individuazione.
In mancanza di espressa previsione contraria anche il nuovo rito superaccelerato appalti, previsto dai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a., soggiace alla sospensione feriale dei termini processuali, secondo la regola generale esplicitata dall’art. 54 c.p.a., pacificamente applicabile anche ai giudizi di cui al titolo V, libro IV c.p.a..
Ove la successione temporale degli atti della procedura di gara pubblica lo consenta è ammissibile l'impugnativa congiunta ovvero con motivi aggiunti dei provvedimenti di ammissione e di aggiudicazione definitiva (1).
In presenza di domande di annullamento di provvedimenti afferenti la medesima materia “appalti”, assoggettate a riti caratterizzati da un diverso grado di specialità (commi 6 e 6 bis dell’art. 120 c.p.a.) si applica all’intera controversia il rito disciplinato dal comma 6 e non quello “superaccelerato” introdotto dal successivo comma 6-bis (2).

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   (1) Il Tar ha motivato tale conclusione richiamando sia l’art. 32, comma 1 c.p.a. (a mente del quale “È sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale. Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dal Titolo V del Libro IV”) che l’art. 43 c.p.a. (che stabilisce, tra l’altro, che “1. I ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte. (……). 3. Se la domanda nuova di cui al comma 1 è stata proposta con ricorso separato davanti allo stesso tribunale, il giudice provvede alla riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 70”).
Ha aggiunto che in senso contrario non è invocabile la modifica da ultimo disposta al comma 7 dell’art. 120 c.p.a. ad opera dell’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, che, nel chiarire che i nuovi atti attinenti la stessa procedura di gara devono essere gravati nella via dei motivi aggiunti, ha, con la novella del 2016, fatto espressa esclusione per i casi “previsti dal comma 2-bis”, dovendo tale disposizione essere interpretata nel senso di riconoscere alla parte ricorrente la facoltà (e non l’obbligo) di proporre autonoma impugnativa avverso il provvedimento di aggiudicazione della gara, ove questo sia sopraggiunto successivamente all’introduzione del giudizio ex art. 120, comma 6-bis, senza escludere né la possibilità di un’impugnativa congiunta, né la proposizione successiva di motivi aggiunti.
Le conclusioni cui il Tar è pervenuto risultano suffragate:
1) dalla espressa facoltà riconosciuta al controinteressato (art. 120, comma 2-bis, u.p.), nell’ambito del giudizio promosso ex art. 120, comma 6-bis, di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento (tra cui l’aggiudicazione), anche con ricorso incidentale, sia pure solamente ove abbia tempestivamente impugnato il provvedimento che determina le esclusioni e le ammissioni: di qui, dunque, l’insussistenza di preclusioni in astratto all’introduzione nell’ambito del giudizio “superaccelerato” appalti di domande nuove, diversamente amministrate con le regole procedurali proprie del rito “ordinario” appalti (salvo quanto si dirà in ordine al rito unitariamente applicabile);
2) dal richiamo al principio di parità delle parti che suggerisce di ritenere estesa anche al ricorrente, la facoltà –riconosciuta al controinteressato- di ampliare il thema decidendum attraverso l’impugnativa di ulteriori e successivi provvedimenti (in primis il provvedimento di aggiudicazione, in uno alla presupposta graduatoria) benché ciò comporti il cumulo di domande assoggettate a diversa disciplina e termini processuali. Ne consegue che, ove siano rispettati i termini processuali, parte ricorrente non è privata della possibilità di presentare un unico ricorso, avverso entrambi i provvedimenti (aggiudicazione definitiva e ammissione dell’aggiudicatario – oltre che di eventuali altri concorrenti che lo precedono in graduatoria) essendo chiaramente evincibili indubbi profili di connessione oggettiva e soggettiva che ne giustificano la trattazione congiunta.
   (2) Il Tar ha ritenuto desumibile dall’art. 32 c.p.a. un principio di prevalenza del rito che si presti a fornire maggiori garanzie per tutte le parti coinvolte nell’unica vicenda processuale, in ragione della necessità di individuare tra più discipline confliggenti quella che fissi regole e termini processuali in grado di offrire una maggiore salvaguardia del diritto di difesa. Deve dunque farsi applicazione del rito appalti disciplinato dal comma 6 dell’art. 120 c.p.a., che ormai in maniera consolidata e “ordinariamente” si applica all’impugnativa di provvedimenti concernenti le procedure di affidamento relative a pubblici lavori, servizi o forniture, tanto da prevalere anche sul rito ordinario (come ad es. in caso di proposizione congiunta di domanda di annullamento di atti della procedura e domanda risarcitoria).
Diversamente, ci sarebbe un’eccessiva compromissione del diritto delle parti di difendersi e contraddire, in ragione dalla iper brevità dei termini processuali di cui al più volte richiamato comma 6-bis, di per sé (discutibilmente) giustificati nell’ottica di una straordinaria anticipazione della tutela giurisdizionale, funzionale all’esigenza di pervenire all’aggiudicazione avendo già chiaro chi sono i soggetti che legittimamente hanno titolo a partecipare alla selezione, e, dunque, più in vista dell’esigenza di garantire una stabilità a gradi progressivi della procedura di gara che non a tutela di un interesse attuale del ricorrente: solo potenzialmente pregiudicato dall’ammissione di altro concorrente (solo probabile aggiudicatario della gara), non essendo noto né se il primo (in ragione della definitiva collocazione in graduatoria) avrà interesse a proporre impugnazione avverso il conclusivo provvedimento di aggiudicazione, né se il controinteressato conseguirà il bene della vita agognato con la definitiva aggiudicazione dell’appalto.
L’applicazione del nuovo rito introdotto dal comma 6 bis dell’art. 120 c.p.a. va pertanto necessariamente e tassativamente limitata, avendo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 03.06.2011, n. 10 chiarito che le norme che introducono riti speciali costituiscono eccezioni tassative, sono di stretta interpretazione e insuscettibili di interpretazione analogica (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 07.12.2016 n. 1367 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria pronuncia sull’applicabilità delle sanzioni pecuniarie per tardivo pagamento dei contributi di costruzione anche in caso di tardiva escussione della garanzia fideiussoria.
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Edilizia – Permesso di costruire – Contributo di concessione – Tardivo pagamento – Conseguenza – Sanzione – Tardiva escussione della garanzia fideiussoria – Irrilevanza.
L’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale (1).
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   (1) La questione sulla quale ha pronunciato l’Adunanza plenaria era stata rimessa dalla sez. IV del Consiglio di Stato con ordinanza 22.06.2016, n. 2766, che aveva dato atto di diversi orientamenti giurisprudenziali formatisi in ordine all’applicabilità della sanzione pecuniaria per tardivo pagamento dei contributi di costruzione anche in caso di tardiva escussione della garanzia fideiussoria.
Secondo un primo, risalente orientamento (Cons. St., sez. V, n. 1001 del 1995; id. n. 32 del 2003; id. n. 571 del 2003) allorché il credito vantato dal comune per il contributo di costruzione nei confronti del titolare di una concessione edilizia sia assistito da garanzia fideiussoria, una siffatta obbligazione di garanzia, priva di beneficium excussionis ed al di là della solidarietà tra debitore principale e fideiussore, esclude che il comune stesso possa far legittimamente ricorso alle sanzioni ai sensi dell’art. 42, d.P.R 06.06.2001, n. 380 (e, prima, dell’art. 3, l. 28.02.1985 n. 47), salvo che l’amministrazione creditrice abbia previamente escusso infruttuosamente il fideiussore.
Solo in tal modo il comune conseguirebbe il pronto soddisfacimento del proprio credito salvaguardando, ad un tempo, l’interesse del debitore al contenimento delle somme da corrispondere a quel titolo (in sostanza, escludendo le maggiorazioni a titolo di sanzione).
Un secondo indirizzo, seguito dalla giurisprudenza maggioritaria (Cons. St., sez. IV, n. 5818 del 2012; id. n. 4320 del 2012; id., sez. VI, n. 5884 del 2014; id., sez. V, n. 777 del 2016), inquadra la fattispecie in esame in una prospettiva asseritamente pubblicistica, significativamente caratterizzata dalla presenza di strumenti –le sanzioni e la riscossione coattiva– tipici di un procedimento autoritativo e non paritetico.
Secondo tale orientamento, la fideiussione –che il comune può richieder in caso di rateizzazione del versamento- non avrebbe affatto la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituirebbe una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non graverebbe pertanto alcun obbligo giuridico di preventiva escussione del fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria servirebbe a scongiurare che il comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non varrebbe ad alleggerire la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenuerebbe le conseguenze previste nel caso di un eventuale suo inadempimento, conseguenze appunto riconducibili all’applicazione delle sanzioni e alla riscossione coattiva dell’intera somma dovuta.
Un terzo, più recente indirizzo giurisprudenziale (sez. V, n. 5734 del 2014; id. n. 5287 del 2015), intermedio rispetto ai precedenti due, ha affermato che sussiste un preciso onere collaborativo a carico dell’ente locale, desumibile dal principio di leale collaborazione tra cittadino e comune, avente valenza pubblicistica e rientrante nell'ambito dei principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.; secondo tale indirizzo, il ritardo con cui il comune agisce per riscuotere le somme a titolo di contributi dovuti, se non può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il carattere automatico delle sanzioni, scaturenti direttamente dalla legge, impedisce tuttavia l'applicazione delle sanzioni massime.
E’ dunque compatibile con l'interesse pubblico azionato, con il tenore delle disposizioni applicabili e con i principi costituzionali che ispirano i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione che l’ente locale provveda alla riscossione della sanzione ma soltanto nella misura minima, conseguente all’accertamento del ritardo protrattosi per i primi 120 giorni (ai sensi dell’ art. 42, comma 2, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001).
Per converso, sarebbero inapplicabili le maggiori sanzioni previste per ritardi superiori nella misura in cui l’amministrazione, con un comportamento improntato a diligenza e buona fede avrebbe potuto evitare, a mezzo della tempestiva escussione della garanzia fideiussoria, di aggravare la posizione debitoria dell’intestatario del titolo edilizio.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto condivisibile il secondo, maggioritario orientamento giurisprudenziale.
Ha affermato che non sussiste alcuna base normativa che correli il potere sanzionatorio del comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore. Ed invero, il sistema di pagamento del contributo di costruzione è caratterizzato dalla presenza solo eventuale di una garanzia prestata per l’adempimento del debito principale e di un parallelo strumento a sanzioni crescenti, con chiara funzione di deterrenza dell’inadempimento, che trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligato principale.
In tale sistema, l’amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata ha solo la facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non accada, l’amministrazione avrà comunque il dovere/potere di sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all’aumentare del ritardo. Peraltro, solo alla scadenza di tutti termini fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver applicato le massime maggiorazioni di legge), l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore principale (art. 43, d.P.R. n. 380 del 2001).
La portata di tale ultima disposizione è peraltro tale da ritenere che l’amministrazione, se pure non è impedita dallo svolgere attività sollecitatoria dei pagamenti (senza attingere al rimedio straordinario della riscossione coattiva) in occasione delle scadenze dei termini intermedi cui sono correlati gli aumenti percentuali del contributo secondo il già indicato modello, è certo facultata ad attendere il volontario pagamento da parte del debitore (e eventualmente del suo fideiussore), salvo in ogni caso restando il suo potere-dovere di applicare le sanzioni di legge per il ritardato pagamento.
La legge è dunque chiara nell’assegnare all’amministrazione il potere/dovere di applicare le sanzioni al verificarsi di un unico presupposto fattuale, e cioè il ritardo nel pagamento da parte dell’intestatario del titolo edilizio (o di chi gli sia subentrato secundum legem).
La stretta osservanza del principio di legalità, imposta dalla rigorosa applicazione del canone interpretativo-letterale delle disposizioni richiamate, comporta pertanto che va ritenuta legittima l’applicazione delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di pagamento che siano potute venire all’interessato o al suo fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo edilizio (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 07.12.2016 n. 24 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Offerta al minor prezzo e offerta economicamente più vantaggiosa negli appalti servizi di natura intellettuale sotto soglia comunitaria.
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Gara – Appalto sotto soglia comunitaria – Servizi di natura intellettuale – Criterio di aggiudicazione – Sistema del minor prezzo – Art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 – Illegittimità.
Ai sensi dell’art. 95, commi 3 e 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è illegittima la scelta dell’Amministrazione di aggiudicare con il sistema del minor prezzo, anziché con quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, una procedura aperta ex art. 60 dello stesso d.lgs. n. 50, sotto soglia di rilevanza comunitaria, per l’appalto del servizio di sorveglianza sanitaria, avente natura intellettuale (1).

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   (1) Ha chiarito il Tar Reggio Calabria che il comma 4 dell’art. 95 prevede le ipotesi tassative nelle quali è ancora consentito, secondo la discrezionale e motivata scelta della stazione appaltante, l’utilizzo del massimo ribasso; dall’altro, deve considerarsi che il comma 3 dell’art. 95 stabilisce, in termini imperativi ed in via di specialità, che “sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglio rapporto qualità/prezzo: … b) i contratti relativi all’affidamento … degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo superiore a 40.000 euro”.
Il servizio di sorveglianza sanitaria è riconducibile alla categoria dei servizi di natura intellettuale. La specialità ed inderogabilità del divieto sancito dal comma 3 dell’art. 95, per i servizi intellettuali di importo superiore a 40.000 euro, rende irrilevante stabilire se l’appalto per la sorveglianza sanitaria sia standardizzato o ripetitivo. Il Codice, infatti, non consente in alcun modo l’utilizzo del criterio del prezzo più basso per l’affidamento dei servizi di natura intellettuale, quand’anche questi presentino uno dei caratteri alternativamente indicati dal comma 4 (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 30.11.2016 n. 1186 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2.1. E’ fondata l’impugnativa dell’esclusione del ricorrente, dal che deriva la sua legittimazione ad impugnare l’ammissione della Gi.Se..
Egli è stato escluso per la sola ragione di aver fatto ricorso all’avvalimento, in relazione al requisito relativo al fatturato globale, così incorrendo nel divieto della lex specialis di gara.
Dalla dichiarazione versata agli atti di gara, risulta inequivocabilmente che il fatturato specifico dichiarato dal ricorrente per l’esecuzione di servizi analoghi presso la medesima ATAM era pari, alla data di pubblicazione del bando, ad euro 60.705,90 per l’anno 2015 e ad euro 59.417,27 per il successivo anno. Risulta altresì comprovato il possesso del requisito relativo al fatturato globale medio, richiesto dalla lex specialis nella misura di euro 58.522,10.
Tale circostanza, peraltro, è lealmente confermata dalla stessa parte resistente (cfr. memoria dell’ATAM del 19.07.2016) che, dunque, avrebbe dovuto ammettere in gara il dott. Gentile, non ricorrendo, nel caso di specie, una integrazione aliunde del requisito di qualificazione.
Il possesso del fatturato globale e specifico in capo al dott. Ge. è incontestato.
La Difesa del ricorrente richiama il condivisibile orientamento della giurisprudenza, su fattispecie analoga:
La ratio generale che connota l’istituto dell’avvalimento (anche di garanzia) è quella per cui, ai fini della partecipazione alle procedure di gara, il concorrente può dimostrare le capacità tecniche, finanziarie ed economiche (nonché il possesso dei mezzi necessari all'esecuzione dell’appalto) esibendo la capacità e gli strumenti di uno o più soggetti diversi, vincolati da uno specifico contratto (Consiglio di Stato, sez. V, 22.01.2015 n. 257 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Dunque lo scopo dell’istituto è quello di permettere agli operatori, che aspirano all’affidamento di una commessa pubblica, di raggiungere il livello di qualificazione preteso dall’Ente aggiudicatore, grazie al sostegno di imprese terze.
Tale descrizione evidenzia i caratteri di un istituto per nulla assimilabile ad altre forme di aggregazione tipiche ammesse dal legislatore (ATI, Consorzio), per cui è del tutto ragionevole ritenere che, ove per qualsiasi motivo l’offerente riesca (nel corso della procedura o al termine della medesima) ad integrare in proprio il requisito di partecipazione, possa giovarsene senza ledere i principi cardine dell’evidenza pubblica, ossia la par condicio e l’imparzialità.
Un requisito soggettivo introdotto dalla lex specialis può essere certamente dimostrato mediante l’avvalimento di una Società terza, ma ben può essere raggiunto dall’aspirante aggiudicatario in proprio, senza che sia configurabile un mutamento della domanda di partecipazione né un’inammissibile contraddizione con quanto dichiarato nell’istanza, dal momento che l’impresa ausiliaria era chiamata a supplire la carenza di un requisito che si è poi oggettivamente accertato presso l’ausiliata.
In conclusione, l’avvalimento si configura come un quid pluris rispetto alla capacità tecnica dell’impresa che ritiene di farvi ricorso, che perde rilevanza qualora la stessa dimostri autonomamente di vantare il bagaglio tecnico-professionale prescritto dalla lex specialis, senza che siano alterate le modalità di partecipazione alla gara non determinandosi la creazione di una nuova compagine, come avverrebbe con la modificazione di un’ATI o di un Consorzio
” (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 22.03.2016, n. 434).
Il possesso del requisito in capo al ricorrente, effettivo e pacifico (in quanto esplicitamente ammesso dalla Difesa dell’ATAM in corso di giudizio), determina l’illegittimità del provvedimento di esclusione, per violazione dei principi del favor partecipationis e del buon andamento, considerato che, come correttamente osservato dalla Difesa del ricorrente, l’ampliamento della platea degli offerenti è funzionale all’elevazione dei livelli qualitativi e/o a possibili risparmi di spesa.
Le dichiarazioni versate agli atti di gara, viepiù nel caso di specie (caratterizzato dalla piena consapevolezza della stazione appaltante circa la sussistenza del requisito di capacità economica, in ragione dei pregressi rapporti contrattuali), vanno dunque interpretate alla luce dei predetti principi, i quali impongono di considerare tamquam non esset una “inutile” dichiarazione di avvalimento, altrimenti idonea a comportare l’esclusione tout court.
L’esclusione, pertanto, è illegittima.
2.2. Ne deriva la carenza d’interesse all’esame delle censure proposte, con il ricorso principale, avverso il bando di gara, sia nella parte in cui vieta il ricorso all’avvalimento, sia nella parte in cui non indica le ragioni per cui è stato richiesto ai concorrenti un fatturato minimo annuo, ai sensi dell’art. 83, V comma, del nuovo Codice.
2.3. L’impugnativa dell’ammissione della controinteressata, invece, non è suscettibile di favorevole apprezzamento.
Il ricorrente deduce la violazione del paragrafo 3.5.b. del bando, in quanto la Gi.Se. sarebbe priva del requisito di capacità tecnica –almeno un servizio “nel settore oggetto di gara” per un importo complessivo non inferiore ad euro 29.261,05 nell’ultimo triennio– avendo allegato, a tal fine, l’attività di sorveglianza sanitaria resa in favore dei dipendenti dell’Agenzia delle Entrate: nel caso di specie, invece, l’appalto ha ad oggetto la sorveglianza sanitaria nei confronti dei conducenti di autobus, vale a dire un settore oggettivamente diverso, in quanto caratterizzato dai peculiari bisogni e rischi professionali dei dipendenti operanti nel comparto dei trasporti.
La censura è infondata.
E’ sufficiente richiamare i principi che, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, devono governare le valutazioni relative al possesso del requisito di partecipazione attinente allo svolgimento di servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto.
E’ stato innanzitutto chiarito che,
nel caso in cui con il bando venga richiesto ai partecipanti di documentare il pregresso svolgimento di servizi analoghi, la stazione appaltante non è legittimata ad escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le attività oggetto dell’appalto, né ad assimilare impropriamente il concetto di servizi analoghi con quello di servizi identici, atteso che la ratio del requisito va individuata nel contemperamento tra l’esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche (in tal senso, Consiglio di Stato, Sez. V, 25.06.2014, n. 3220).
Si è, inoltre, precisato che “
la richiesta di documentare il pregresso svolgimento di servizi non identici, ma solo analoghi a quelli oggetto dell'appalto, deve intendersi giustificata dall'esigenza di acquisire conoscenza della precedente attività dell'impresa e, quindi, di accertare la sua specifica attitudine a realizzare le prestazioni oggetto della gara, con la duplice conseguenza che quest’ultima va riconosciuta nell’attestazione di esperienze sufficientemente simili, almeno negli aspetti essenziali e caratterizzanti, e che dev’essere, viceversa, negata solo a fronte della dichiarazione di attività neanche assimilabili a quella oggetto dell'appalto” (Consiglio di Stato, Sez. III, 25.06.2013, n. 3437; Id., Sez. III, 05.12.2014, n. 6035).
Ad avviso del Collegio, la Gi.Se. ha senz’altro dimostrato di aver svolto un servizio analogo “nel settore oggetto di gara”, tale dovendo considerarsi l’attività di sorveglianza sanitaria nei confronti dei dipendenti di altra amministrazione pubblica, ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008.
Ne discende l’infondatezza della censura.
3. Dall’infondatezza della suddetta domanda principale deriva la scrutinabilità della domanda di annullamento dell’intera procedura di gara, proposta in via subordinata.
3.1. Quanto all’asserita illegittimità del criterio di aggiudicazione del prezzo più basso (rispetto alla quale vi è senz’altro interesse a ricorrere, atteso che il ribasso offerto dal ricorrente è inferiore rispetto a quello, giudicato congruo, dalla controinteressata, unica ammessa), si osserva quanto segue.
La gara controversa, indetta dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, riguarda un appalto:
- di importo complessivo pari euro 58.522,10 oltre I.V.A., inferiore alla soglia comunitaria, ai sensi dell’art. 35 del Codice vigente;
- attratto all’ambito dei settori speciali, in quanto strumentale al servizio di trasporto di cui all’art. 118 del Codice, secondo i principi elaborati dalla più recente giurisprudenza con riferimento all’abrogato D.Lgs. n. 163/2006; si è infatti condivisibilmente affermato, su fattispecie pressoché identica a quella qui in esame, che “… l’attività svolta da ATAC Spa rientra nell’ambito dei cc.dd. settori speciali e, specificamente, in quello dei servizi di trasporto di cui all’art. 210 del d.lgs. n. 163 del 2006…
L’assoggettabilità dell’affidamento di un servizio alla disciplina dettata per i settori speciali, quindi, non può essere desunta sulla base di un criterio solo soggettivo, relativo al fatto che ad affidare l’appalto sia un ente operante nei settori speciali, ma deve tener conto anche di un parametro di tipo oggettivo, relativo alla riferibilità del servizio all’attività speciale.
L’oggetto dell’appalto di cui al lotto 1 è costituito dalle prestazioni sanitarie previste dal D.M. n. 88 del 1999 e dalle altre normative vigenti in materia di rapporto di lavoro. In particolare, le società concorrenti sono state invitate a presentare un’offerta relativamente alle prestazioni sanitarie inerenti le visite mediche di revisione del personale di movimento previste dal protocollo sanitario punto 9 del D.M. n. 88 del 1999 …
Il Collegio ritiene che l’aggiudicazione dell’appalto sia strumentale, ponendosi in rapporto di mezzo a fine, all’esercizio dell’attività istituzionale di trasporto svolto dell’Azienda, per cui rientra, sia pure indirettamente, tra gli scopi propri (core business) dello stesso.
L’aggiudicazione dell’appalto, quindi, è avvenuta per uno scopo omogeneo, e non diverso, rispetto all’esercizio dell’attività istituzionale, con conseguente inapplicabilità dell’art. 217 d.lgs. n. 163 del 2006 ed applicabilità della parte III del codice dei contratti pubblici
" (TAR Lazio, Sez. II-ter, 18.02.2013, n. 1778);
- rientrante nell’Allegato IX al Codice, trattandosi di servizio sanitario (CPV 85147000 – 1);
- soggetto all’applicazione dei principi e dei divieti posti dall’art. 95 del Codice, in tema di scelta del criterio di selezione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in virtù dell’esplicito rinvio operato, per tutti gli appalti dei settori speciali, dall’art. 133, I comma, dello stesso Codice (applicabile anche ai servizi specifici di cui all’Allegato IX, per effetto della previsione dell’art. 114, I comma, il quale estende in via generale l’applicabilità della disciplina del Titolo VI – Capo I del Codice, ivi compreso l’art. 133 e le norme da quest’ultimo richiamate, anche ai servizi elencati nell’Allegato IX e menzionati nell’art. 140, I comma).
Ne consegue che la stazione appaltante ha illegittimamente optato per l’aggiudicazione al prezzo più basso, in violazione della regola desumibile dal combinato disposto dei commi III e IV dell’art. 95 del Codice.
Da un lato, il comma IV dell’art. 95 prevede le ipotesi tassative nelle quali è ancora consentito, secondo la discrezionale e motivata scelta della stazione appaltante, l’utilizzo del massimo ribasso: e tra queste verrebbe in rilievo, secondo la difesa di ATAM, la lett. b) per i servizi “con caratteristiche standardizzate”, ovvero la lett. c) per i servizi “caratterizzati da elevata ripetitività”.
Dall’altro, deve considerarsi che il comma III dell’art. 95 stabilisce, in termini imperativi ed in via di specialità, che “
sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglio rapporto qualità/prezzo:
… b) i contratti relativi all’affidamento … degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo superiore a 40.000 euro
”.
Il servizio di sorveglianza sanitaria è riconducibile alla categoria dei servizi di natura intellettuale.
La specialità ed inderogabilità del divieto sancito dal comma III dell’art. 95, per i servizi intellettuali di importo superiore a 40.000 euro, rende irrilevante stabilire se l’appalto per la sorveglianza sanitaria sia, nelle concrete modalità prefigurate dall’ATAM, standardizzato o ripetitivo.
Il Codice, infatti, non consente in alcun modo l’utilizzo del criterio del prezzo più basso per l’affidamento dei servizi di natura intellettuale, quand’anche questi presentino uno dei caratteri alternativamente indicati dal comma IV.
Per quanto detto, il bando di gara è illegittimo, nella parte in cui ha previsto l’aggiudicazione al massimo ribasso sull’importo a base d’asta, e va annullato.

3.2. E’ conseguentemente improcedibile, per difetto d’interesse, il motivo attinente all’asserita violazione dell’obbligo di comunicare la data della seduta pubblica di gara.

EDILIZIA PRIVATA - VARICaldaia non disattivata? Omicidio colposo. Il manutentore che rileva un rischio deve mettere fuori servizio l’impianto.
Rischia l’omicidio colposo il tecnico che controlla la caldaia e non chiude l’impianto, anche se verifica che non è idoneo.
La Corte di Cassazione (Sez. feriale penale, sentenza 26.10.2016 n. 44968) sottolinea la posizione di garanzia rivestita dal tecnico che lavorava per una ditta con la quale il proprietario aveva sottoscritto un contratto di manutenzione.
Il ricorrente aveva effettuato un paio di controlli a distanza di tempo, dichiarando in un caso la conformità dell’impianto e in un altro segnalando le disfunzioni, a iniziare dalla collocazione in un ambiente non adatto al tipo di caldaia. Per lui, dopo la morte del proprietario della casa dovuta a intossicazione da monossido di carbonio, era scattata la condanna.
Il ricorrente aveva fatto presente che altri dopo di lui avevano verificato l’impianto, sottolineando anche l’inerzia di comune e concessionaria del gas. La Cassazione precisa però che quando l’obbligo di impedire un evento ricade su più soggetti che devono intervenire in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento non viene meno per effetto del mancato intervento da parte di un altro soggetto anche lui destinatario dell’obbligo di impedire il fatto.
La presenza di coimputati in procedimenti connessi, non impedisce dunque ai giudici di affermare la responsabilità di chi per primo aveva visto la caldaia. Secondo il tecnico poi non esisteva una fonte giuridica che gli attribuisse l’autorità di interdire l’uso dell’impianto a un privato: poteri che dovevano, a suo avviso, essere individuati in capo a un soggetto pubblico.
Per la cassazione non è così. La fonte normativa è nel Dpr 412/1993 (allegato h) secondo il quale il tecnico deve, nello spazio del rapporto indicato come “prescrizioni”, chiarire che, non avendo eliminato i problemi che compromettono la sicurezza, ha messo fuori uso l’apparecchio e diffidato l’occupante dal suo utilizzo. Fatto questo deve anche indicare le operazioni necessarie per ripristinare le condizioni di sicurezza. Per i giudici la dizione “messa fuori servizio” indica chiaramente che questa dove essere effettuata dal tecnico che fa la verifica
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2016).

EDILIZIA PRIVATAAste con aggiudicazione «rafforzata». Cassazione. Resta l’obbligo di pagare anche se l’ordinanza di vendita non dà notizia di un ordine di demolizione parziale.
Chi si aggiudica un immobile all’asta non può rifiutarsi di pagarlo solo perché né l’ordinanza di vendita né la pubblicità davano notizia dell’ordine di demolizione parziale del bene acquistato, se la notizia si «scopre» nella relazione di stima.

La Corte di Cassazione (Sez. III civile - sentenza 25.10.2016 n. 21480) respinge il ricorso dell’acquirente che non avendo versato il prezzo nel termine fissato, era stato dichiarato decaduto dall’aggiudicazione. Il giudice dell’esecuzione aveva inoltre disposto l’incameramento di 140 mila euro di cauzione.
Una condanna ingiustificata per il compratore, il quale sosteneva che le era stato venduto un bene diverso (aliud pro alio) rispetto a quello pubblicizzato su carta e web e difforme anche da quanto scritto nell’ordinanza di vendita nella quale non si faceva cenno alla sentenza che condannava il debitore a demolire parte della casa. Informazione evidenziata nella relazione di stima, richiamata dall’ordinanza di vendita, inoltre una copia della sentenza era stata depositata agli atti del procedimento esecutivo.
Per la Cassazione la vendita era regolarmente pubblicizzata. I giudici precisano, infatti, che non tutte le circostanze rilevanti per individuare le caratteristiche del bene offerto, compresa l’esistenza di eventuali oneri o diritti di terzi o le informazioni per determinare il valore, devono essere esposte nell’ordinanza di vendita o nella pubblicità. L’importante per la Suprema corte è che le indicazioni utili siano comunque ricavabili dall’esame della relazione di stima e del fascicolo processuale, che l’interessato all’acquisto ha il dovere e il diritto di consultare prima di fare la sua offerta.
Ma a prescindere dalla conoscibilità della sentenza la Cassazione precisa che non sarebbe comunque stato possibile, nel caso esaminato, rifiutare il pagamento eccependo «l’aliud pro alio». Un’ipotesi configurabile solo se il bene aggiudicato appartiene a un genere del tutto diverso da quello indicato nell’ordinanza di vendita, se non possiede le qualità necessarie «per assolvere la sua naturale funzione economico-sociale» o se è compromessa la destinazione del bene ad un uso considerato determinante per l’offerta di acquisto. Per la Cassazione non si poteva ritenere che l’immobile non fosse idoneo alla destinazione.
La sentenza emessa contro il debitore comportava solo la necessità di fare dei lavori, procedere a una parziale demolizione e richiedere la concessione in sanatoria. Anche se il ricorrente non fosse stato informato della situazione, si sarebbe potuta al massimo ipotizzare una differenza quantitativa ma non qualitativa tra il bene da trasferire e quello descritto nell’ordinanza di vendita.
Né, per finire, il ricorrente ha dimostrato che non avrebbe comprato l’immobile senza la parte da demolire o che aveva chiesto una riduzione di prezzo, ma si era limitato a chiedere indietro la cauzione, omettendo del tutto il pagamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2016).

LAVORI PUBBLICIOk a opere superspecialistiche. Previsti nuovi limiti inerenti i lavori subappaltabili. Il Consiglio di stato sullo schema di decreto del ministero delle infrastrutture.
Via libera del Consiglio di stato al decreto ministeriale sulla disciplina delle opere superspecialistiche; aggiunte due tipologie di opere non subappaltabili se superano il dieci per cento del totale dei lavori.

È questo l'effetto del parere 21.10.2016 n. 2189 sullo schema di decreto (del ministero delle infrastrutture) attuativo dell'art. 89, comma 11, del nuovo codice dei contratti pubblici (decreto 50/2016) sulla disciplina delle opere cosiddette superspecialistiche (
"Schema di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti recante individuazione delle opere per le quali sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica e dei requisiti di specializzazione richiesti per la loro esecuzione, ai sensi dell’articolo 89, comma 11, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
Il Codice prevede che per le opere individuate dal dm non sia ammesso l'avvalimento, qualora il loro valore superi il 10% dell'importo totale dei lavori e per le quali l'eventuale subappalto non possa superare il 30% di tali lavorazioni.
Il provvedimento ha una sua rilevanza, dal momento che serve anche a superare, in attesa della definizione da parte dell'Anac, del sistema unico di qualificazione degli operatori economici previsto dall'art. 84 del Codice degli appalti, il regime transitorio previsto dall'art. 216, comma 15, del Codice, il quale, comunque, fa salvo l'articolo 12 del decreto 47/2014 in base al quale fino a quando non sarà pubblicato in G.U. il decreto oggetto del parere, continuerà ad applicarsi la disciplina del 2014.
Proprio con riferimento a questa ultima disciplina il decreto ministeriale ne ha sostanzialmente conferma la disciplina con le sole aggiunte delle categorie OS12-B (barriere paramassi, fermaneve e simili) e OS32 (strutture in legno).
Su questa linea il Consiglio di stato si è pronunciato favorevolmente: «La scelta dell'amministrazione di ribadire l'elenco delle opere superspecialistiche già recato dalle previgenti disposizioni non può che essere condivisa, e ciò in considerazione del fatto che in attesa della predisposizione da parte dell'Anac del sistema unico di qualificazione di cui all'art. 84 del Codice non sarebbe utile provocare disallineamenti e disfunzioni rispetto al vigente sistema di qualificazione».
La sezione consultiva ha avvertito, però, che il bilanciamento degli interessi fra imprese generali e specialistiche, incolumità pubblica e concorrenza, così come gli effetti della presente disciplina sulle imprese, «potranno essere valutati, a seguito della concreta applicazione del decreto in esame, tramite l'analisi di alcuni specifici indicatori quali il numero dei contratti stipulati concernenti le opere superspecialistiche, ricavabile dalla banca dati nazionale dei contratti pubblici, ed il numero degli eventuali contenziosi che scaturiranno dall'applicazione della normativa».
Tutto da verificare, quindi, entro i prossimi mesi (articolo ItaliaOggi del 25.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATALa pizzeria è in appartamento. Ammessa l'apertura se non è espressamente vietato. La Cassazione: stop alle interpretazioni estensive dei regolamenti condominiali.
Sì all'apertura di una pizzeria al primo piano di un condominio, qualora il regolamento non lo vieti espressamente. Quindi, stop a interpretazioni estensive dei divieti regolamentari. Nell'applicare le limitazioni poste dal regolamento condominiale al libero utilizzo delle proprietà private occorre, infatti, procedere a un'applicazione rigorosa del significato letterale delle singole clausole, confrontandole con le tutte le altre disposizioni.
I predetti divieti vanno infatti configurati come eccezioni al principio della libera estrinsecazione delle facoltà di godimento contenute nel diritto di proprietà e, come tali, possono essere applicati soltanto ove espressamente e chiaramente risultanti dal regolamento contrattuale.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione -Sez. II civile- nella recente
sentenza 20.10.2016 n. 21307.
Il caso. Nella specie il condomino proprietario di un appartamento aveva citato in giudizio il condomino confinante, a sua volta proprietario di un locale a piano terra e del soprastante appartamento. Detto locale era stato da tempo adibito a pizzeria e in un secondo momento, mediante l'apertura di un collegamento interno tra di esso e l'appartamento soprastante, anche quest'ultimo era stato utilizzato per lo svolgimento dell'attività commerciale.
Il primo condomino aveva quindi denunciato a più riprese i rumori derivanti da tale unità immobiliare e si era risolto a rivolgersi al tribunale. Occorre però evidenziare come il regolamento in questione ponesse dei vincoli di destinazione per le sole unità immobiliari poste al piano terreno e per le cantine. Il tribunale aveva per tale motivo respinto integralmente le domande svolte dal condomino, mentre la Corte di appello, successivamente interessata della questione, le aveva viceversa accolte sulla base di una lettura più ampia del predetto divieto regolamentare.
Secondo i giudici del gravame il fatto che le predette limitazioni riguardassero soltanto i piani terranei e cantinati non doveva portare alla conclusione che invece qualsiasi utilizzo fosse possibile per le unità immobiliari dei piani superiori. Infatti, poiché il regolamento era stato redatto sul principio dell'espressa elencazione delle destinazioni consentite, in mancanza di indicazioni per i piani superiori, doveva ritenersi che gli stessi potessero essere adibiti soltanto a uso abitativo.
La decisione della Suprema corte. La Suprema corte ha ritenuto che, nel caso di specie i giudici di merito avessero errato nell'applicazione dei criteri di interpretazione del contratto individuati dagli artt. 1362 ss. c.c. In base alla consolidata giurisprudenza di legittimità il regolamento contrattuale può imporre limitazioni alle facoltà di godimento dei condomini sulle proprietà esclusive sia mediante elencazione di attività vietate (tecnica di redazione indicata come preferibile dalla Suprema corte) sia con riferimento ai pregiudizi che si intendono evitare.
In questo secondo caso, tuttavia, proprio per meglio circoscrivere l'ambito applicativo di tali limitazioni, i divieti devono risultare da disposizioni chiare e specifiche, che facciano riferimento alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende evitare, in modo da consentire una verifica a posteriori sulla meritevolezza dell'interesse al quale si intende sacrificare la compressione del diritto di proprietà. Di conseguenza, nell'interpretazione di tali divieti, deve in primo luogo farsi riferimento al tenore letterale delle singole disposizioni regolamentari, evitando interpretazioni estensive, e verificare la chiarezza e specificità, dunque l'effettiva applicabilità, delle singole clausole.
Nella specie la disposizione regolamentare invocata faceva inequivoco riferimento ai soli piani terranei e cantinati, consentendone tra l'altro un ampio utilizzo in relazione a diverse attività commerciali. Già da questo punto di vista risultava quindi contrario ai canoni ermeneutici sopra ricordati ritenere che il mancato riferimento ai piani superiori potesse ritenersi sintomo di una volontà implicita della collettività condominiale di vietarne qualsiasi altro utilizzo. Inoltre, da una lettura complessiva del predetto regolamento, emergevano anche degli specifici divieti per le unità immobiliari dei predetti piani superiori, prova evidente del fatto che la collettività condominiale, nei casi in cui lo aveva ritenuto necessario, aveva espressamente provveduto.
Di conseguenza i Supremi giudici hanno censurato l'attività interpretativa svolta nella specie dalla Corte di appello in relazione al contenuto del regolamento e volta a ricostruire una presunta volontà implicita della collettività condominiale poiché, al contrario, come detto, occorre invece attenersi alla volontà esplicitata dalle norme contenenti le limitazioni al diritto di proprietà esclusiva (articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPizzeria al primo piano? Sì, se il regolamento tace.
Condominio. Per la Cassazione va dato peso soprattutto alle espressioni letterali della «legge» interna dello stabile

Una pizzeria al primo piano? E perché no? La Corte di Cassazione - Sez. II civile (sentenza 20.10.2016 n. 21307) ha riconosciuto il diritto del condòmino di svolgere serenamente la sua attività di ristorazione, con buona pace del vicino esasperato dal trambusto. Tutto perché il regolamento condominiale non è sufficientemente preciso al riguardo.
La sorprendente vicenda prende le mosse nel 2008, quando inizia il contenzioso promosso dagli sfortunati vicini per impedire lo svolgimento dell’attività commerciale della porta accanto, che era collegata al piano terra da una scala interna dalla quale salivano e scendevano i clienti (senza quindi usare beni o aree comuni) ma che produceva immissioni moleste. Il tutto in presenza di un regolamento condominiale contrattuale (predisposto dal costruttore) che tra l’altro disponeva che «i locali cantinati e i terranei potranno essere destinati a (...) esercizio di qualunque attività commerciale, industriale, artistica e professionale (...) senza alcuna limitazione». Proprio basandosi su questa clausola, i vicini disturbati sostenevano che, con la sola esclusione del piano terra, tutte quelle attività non potessero svolgersi. E avevano ottenuto ragione dalla Corte d’appello.
I condòmini pizzaioli, però, che evidentemente non volevano rinunciare ai tavoli in più disponibili per la loro attività, avevano fatto ricorso in Cassazione. Che ha dato loro ragione a prescindere da qualsiasi considerazione circa le immissioni moleste (sulle quali peraltro la Corte d’appello aveva anch’essa dato torto ai vicini, dato che non ne era stata adeguatamente provata l’intollerabillità).
La Cassazione, infatti, ribaltando il ragionamento della Corte d’appello, ha affermato che il tenore letterale del regolamento condominiale contrattuale è determinante in situazioni come questa. E quindi, non avendo il regolamento espressamente disciplinato l’esercizio di queste attività in piani diversi da quello terreno, la ristorazione (in quanto esercizio commerciale) ben poteva essere svolta anche al primo piano.
Per la Corte, «il senso letterale delle parole», anche se «le singole clausole vanno lette in correlazione tra loro», è il «principale strumento» per capire le intenzioni di ha sottoscritto il regolamento. E, dato che in questo caso il supposto divieto per il primo piano è il risultato di «un’esegesi ancorata alla ricostruzione di una volontà implicita» e non esplicita, la Cassazione ha cassato la sentenza reinviandola alla Corte d’appello per un nuovo esame
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016).
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MASSIMA
4. Passando alla disamina del primo motivo di ricorso, deve premettersi che
costituisce orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui (cfr. da ultimo Cassazione civile, sez. II, 08/01/2016, n. 138) non è censurabile in Cassazione l'interpretazione del regolamento di condominio compiuta dai giudici di merito salvo che per violazione dei canoni ermeneutici o per vizi di motivazione (conf. Cassazione civile, sez. 11, 23/05/2012, n. 8174; Cassazione civile, sez. Il, 04/04/2011, n. 7633).
Inoltre, e proprio in relazione all'interpretazione del regolamento condominiale di origine contrattuale, si è ribadito che (cfr. Cassazione civile, sez. II, 19/10/2012, n. 18052 )
ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell'art. 1363 c.c. e dovendosi intendere per "senso letterale delle parole" tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato.
Una volta ribadita la necessità di fare applicazione delle regole legali di interpretazione in materia di contratti anche al caso in esame, va altresì ricordato che
costituisce principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte di legittimità, quello secondo il quale, con riguardo all'interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l'invocato sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in se, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli arti. 1362 e ss, cod. civ., e sulla (in) coerenza e (il)logicità della motivazione addotta (cosi, tra le tante, Cass., Sez. 3, 10.02.2015, n. 2465): l'indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo.
Orbene, pur a fronte di tali doverose premesse, reputa il Collegio che l'interpretazione che della clausola regolamentare di cui sopra è stata offerta dalla Corte distrettuale, non possa essere condivisa, ponendosi la stessa in contrasto con i principi che debbono presiedere l'interpretazione, tenuto conto in particolare dei consolidati principi espressi da questa Corte in tema di limitazioni convenzionali al diritto di proprietà, scaturenti per l'appunto da un regolamento condominiale di natura contrattuale.
Ed, infatti, anche di recente si è ribadito che (cfr. Cass. n. 19229/2014)
il regolamento condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare.
In quest'ultimo caso, peraltro,
per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, così consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela. Si è infatti ribadito che la compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze (cfr. Cass. un. 20237/2009 non massimata, Cass. n. 16832/2009 non massimata, Cass. n. 9564/1997, Cass. n. 1560/1995; Cass. n. 11126/1994; Cass. n. 23/2004 e Cass, n. 10523/2003).
Ciò implica che nella ricerca della comune intenzione, o come nella fattispecie, nell'individuazione della regola dettata dal regolamento contrattuale, non possa prescindersi dall'univocità delle espressioni letterali utilizzate, dovendosi in linea di principio rifuggire da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto attiene all'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, ma ancor più per quanto concerne la corretta individuazione dei beni effettivamente assoggettati alla limitazione circa le facoltà di destinazione di norma spettanti al proprietario.

INCARICHI PROFESSIONALIParametri, confine al primo grado. L’impugnazione è un’eventualità: attività professionale chiusa con la sentenza.
Avvocati. Lo spartiacque per l’applicazione delle nuove «tariffe» è la data in cui è compiuta la prestazione.

L’attività professionale dell’avvocato, ai fini dell’individuazione della tariffa applicabile, può dirsi conclusa quando c’è la sentenza di primo grado. L’impugnazione della pronuncia è, infatti, solo un’eventualità.
La Corte di Cassazione - Sez. III civile, con la sentenza 20.10.2016 n. 21256, torna sui criteri di applicazione di nuovi parametri professionali, dettati dal decreto ministeriale 140/2012, in base ai quali vanno commisurati anche i compensi forensi.
L’occasione arriva da un ricorso nel quale, fra le altre eccezioni, si puntava il dito contro la decisione del giudice d’appello che aveva fatto lievitare il compenso del legale applicando i nuovi parametri mentre il tribunale aveva fatto ricorso nel liquidare le spese di lite al precedente decreto ministeriale del 2004 (n. 127). Lo scostamento era il risultato di un diverso punto di vista sul momento in cui si considerava conclusa la prestazione del legale.
Ferma restando l’irretroattività dei parametri del 2012, per la liquidazione resta il criterio della data in cui è completata la prestazione professionale. Per il Tribunale questa poteva dirsi conclusa con la sentenza di primo grado, emessa quando erano ancora vigenti i vecchi criteri. Una scelta dalla quale aveva preso le distanze la Corte d’Appello che, investita del ricorso, riteneva l’attività ancora in essere, con la conseguente applicabilità delle nuove tariffe perché «entrate in vigore medio tempore».
La conseguenza della lettura era stata quella di porre rimedio alla drastica riduzione degli onorari fatta dal giudice di primo grado, rivedendoli verso l’alto. Una scelta contestata, con successo, in Cassazione.
I giudici della terza sezione ricordano che i nuovi parametri, sui quali vanno tarati i compensi forensi al posto delle abrogate tariffe professionali, si applicano in tutti i casi in cui la liquidazione giudiziale intervenga dopo l’entrata in vigore del decreto. La condizione è che a tale data la prestazione professionale non sia ancora stata completata. Per questo è necessario escludere che si possa far ricorso al Dm 140 nel caso di una prestazione svolta in un grado di giudizio terminato prima dell’entrata in vigore «atteso che in tal caso la prestazione professionale deve ritenersi completata sia pure limitatamente a quella fase processuale».
La Suprema corte ribadisce dunque che se il giudizio di primo grado si è chiuso sotto la vigenza del Dm 127/2004 è questo che governa la liquidazione. Per la Cassazione la lettura è in linea con i principi generali della successione delle leggi nel tempo.
A sbagliare è stato il giudice d’appello che, applicando il Dm 140/2012, ha ritenuto l’attività ancora in essere. Per la Cassazione, invece, «il giudizio di primo grado sfocia in una sentenza idonea a concludere ogni accertamento processuale passando in giudicato, essendo sotto il profilo del rito una mera eventualità l’impugnazione della pronuncia»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016).

EDILIZIA PRIVATADoppio reato edilizio senza tenuità. Solo contravvenzione se il soppalco abusivo è di dimensioni contenute.
Cassazione. La violazione di due norme penali della stessa specie esclude la non punibilità.
Esclusa la particolare tenuità del fatto per chi costruisce un soppalco, alzando il tetto, e apre due punti luce sulla facciata esterna di un palazzo situato in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico. Il tutto senza la Dia e senza il permesso di costruire. La violazione contemporanea di due disposizioni di legge relative a reati della stessa specie sbarra la strada alla non punibilità, prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale, nei casi in cui l’offesa al bene tutelato sia lieve.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 19.10.2016 n. 44319 respinge tutte le giustificazioni dell’autore degli abusi, che aveva di fatto creato all’interno del suo palazzo un vero e proprio piano ammezzato, con una scala interna che portava al soppalco “intermedio” alto 2 metri e 30, dotato di due bagni e di un paio finestre “lucifere” prive di affaccio ma visibili dall’esterno dell’immobile.
Per fare il soppalco i solai di copertura erano stati alzati di almeno mezzo metro, una circostanza che aveva indotto il vicino a costituirsi parte civile per i danni. Malgrado il ricorrente abbia avuto torto su tutti i punti, la Cassazione annulla la sentenza impugnata per quanto riguarda la sanzione. Un “benefico” effetto della sentenza della Corte costituzionale (56/2016) in virtù della quale il delitto paesaggistico, se con l’abuso non si verifica un aumento volumetrico superiore a quanto indicato dalla norma (articolo 181, comma 1-bis, del Dlgs 42/2004) é “derubricato” a semplice contravvenzione.
Ma, anche se la pena è abbattuta, la condotta non può restare impunita, come sarebbe accaduto se i giudici avessero accolto la richiesta di applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale.
Per la Cassazione, correttamente, la Corte di merito aveva escluso che nel caso di creazione di un nuovo piano abitabile, si possa parlare di offesa di particolare tenuità. Sul punto i giudici di merito avevano respinto la tesi della difesa secondo la quale l’altezza di 2,30 metri avrebbe escluso l’abitabilità, a fronte di una previsione di legge che fissa la soglia minima a 2 metri e 70. Secondo la Cassazione, infatti, i 40 centimetri in meno sono certamente di ostacolo all’agibilità, ma non impediscono al proprietario dell’immobile di vivere comodamente nel suo ammezzato con doppi servizi.
La tenuità del fatto, abitabilità a parte, non avrebbe comunque potuto essere riconosciuta, perché erano state violate in contemporanea più disposizioni della legge penale: il Codice sui beni paesaggistici (articolo 181, Dlgs 42/2004) e il Testo unico sull’edilizia (articolo 44, lettera c, Dpr 380/2001). L’articolo 131-bis del Codice penale non può essere applicato, quando l’imputato commette più reati della stessa indole, o infrange più volte «la stessa o diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima “ratio punendi”». Per la Suprema corte è la stessa norma a considerare il fatto nella sua dimensione “plurima”: una valutazione d’insieme che rende irrilevante l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui questo si articola.
Non passa neppure la questione sollevata dalla difesa sulla legittimazione del vicino, che non aveva provato alcun danno, a costituirsi parte civile. La Suprema corte spiega, infatti, che non è necessario fornire la dimostrazione del pregiudizio subìto. Nel caso di abusi edilizi il proprietario confinante può costituirsi parte civile non solo se vengono violate le norme civili che regolano le distanze tra le costruzioni, ma anche nel caso di inosservanza di queste indipendentemente dalle distanze.
Trasferendo il principio al caso esaminato, l’innalzamento del solaio con conseguente aumento della volumetria abitabile e del carico urbanistico, fatto violando le norme sulle costruzioni, era potenzialmente idoneo a produrre un danno al vicino. Tanto basta per affermare il diritto al risarcimento
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAAspiratori alternativi alle canne fumarie. Locali pubblici. Tar Lazio.
Le canne fumarie dei pubblici esercizi con cucina e somministrazione di alimenti possono essere sostituite da altri sistemi di abbattimento dei fumi.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la sentenza 17.10.2016 n. 10337 che riconosce le innovazioni tecniche.
Il problema delle canne fumarie è molto sentito nei centri storici. Esse sono ritenute obbligatorie per i locali che somministrano alimenti e bevande e poco gradite dai condòmini. I Comuni seguono regole diverse tra loro. Più norme statali e locali hanno preso genericamente atto che, in centri storici e aree di particolare pregio architettonico, si possono consentire anche apparati moderni ed ecologicamente idonei.
Il Tar ne prende atto, “sdoganando” alternative come strumenti aspiranti filtranti, se c’è un’idoneità accertata secondo la normativa vigente. I giudici richiamano princìpi di matrice comunitaria, quali quelli di precauzione e prevenzione, svincolando in parte le previsioni del commercio da quelle urbanistico-edilizie e dei regolamenti igienico sanitari comunali, a favore di carboni magri e apparecchi fumivori. Specie se ne è certificata l’eguaglianza alle canne fumarie sulla neutralizzazione di fumi e vapori.
Grazie alla spinta del decreto Bersani (223/2006) sulla concorrenza, del Dl 138/2011 che abolisce restrizioni su attività economiche e ai Dl 201/2011, 1/2012 e 90/2013 su esercizi commerciali e impianti termici, si introducono elementi di elasticità, almeno nei centri storici: se ci sono test favorevoli, le canne fumarie nei centri storici si possono superare, facendo leva su concorrenza, trasparenza, pari opportunità e non discriminazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Canne fumarie dei pubblici esercizi: ok del Tar a vie di fumo alternative.
La normativa consente anche il ricorso a vie di fumo alternative che dovranno essere valutate caso per caso.
In tutti i casi di scarico non collocabili nella categoria EHA 1 è obbligatorio dotare gli impianti dei locali di cottura all’interno dei locali di ristorazione di sistemi di scarico dei fumi posti sulla cima del tetto ovvero sulla sezione più alta dell’edificio.

Lo precisa il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la sentenza 17.10.2016 n. 10337.
OK AI SISTEMI ALTERNATIVI. I giudici amministrativi di Roma chiariscono che, fermo restando l’impiego ordinario delle vie di fumo tradizionali, la normativa consente anche il ricorso a vie di fumo alternative che dovranno essere valutate caso per caso.
Tale disciplina è da considerarsi tuttora vigente in quanto non in contrasto con l’art. 12 del Reg. reg. 1 del 2009 che prescrive l’accertamento dell’idoneità della via di fumo alternativa “secondo la normativa vigente in materia” (e dunque non pregiudica l’operatività di detta norma regolamentare).
LE NORME TECNICHE. Il Tar Lazio richiama più normative tecniche a livello comunitario: UNI EN 15251:2008, recante “Criteri per la progettazione dell’ambiente interno e per la valutazione della prestazione energetica degli edifici, in relazione alla qualità dell’aria interna, all’ambiente termico, all’illuminazione e all’acustica” e applicabile ad abitazioni individuali, condomini, uffici, scuole, ospedali, alberghi e ristoranti, impianti sportivi, edifici ad uso commerciale all’ingrosso e al dettaglio; UNI EN 15239:2008 e UNI EN 15240:2008 entrambe descriventi una metodologia per l’ispezione degli impianti.
In particolare, la normativa UNI EN 13779:2008 (Requisiti prestazionali dei sistemi per l’edilizia non residenziale) prevede dettagliate classificazioni di aria nell’ambiente, in particolare l’aria esterna (ODA) e l’aria interna (IDA) e classifica quest’ultima in quattro categorie collocando all’interno di quella più dannosa per la salute umana (“aria estratta con altissimo livello di inquinamento”), l’aria proveniente, fra l’altro, da “cappe aspiranti per uso professionale, piani cottura e scarichi locali di cucine” in quanto contenente odori ed impurità dannosi per la salute in concentrazioni sensibilmente più elevate di quelle permesse per l’aria interna nelle zone occupate.
Le norme UNI EN, elaborate dal CEN (Comité Européen de Normalisation), sono preordinate ad uniformare la normativa tecnica in tutta Europa e devono ritenersi non solo regole di buona tecnica ma, altresì norme vincolanti in presenza di leggi o di regolamenti di recepimento.
Il Tar Lazio osserva che la normativa tecnica “UNI EN 13779 Ventilazione degli edifici non residenziali - Requisiti di prestazione per i sistemi di ventilazione e di climatizzazione” è espressamente richiamata nell’All. B al d.m. 26.06.2009 (vedasi altresì, in precedenza, art. 7 dell’abrogata legge n. 46 del 1990 nonché, per quanto riguarda le attività di installazione degli impianti all'interno degli edifici, il d.m. n. 38 del 2007, all’art. 5, comma 3 e all’art. 6, comma 1) e quindi trova applicazione nel vigente Ordinamento.
La norma tecnica che essa indica in tutti i casi di scarico dell’aria esausta diversa da quella della cat. EHA 1 (che è nella catalogazione sopra richiamata quella considerata la meno dannosa per la salute ed è qualificata come “aria estratta con basso livello di inquinamento” da ambienti come uffici, classi scolastiche, scalinate, corridoi ecc.) è data dalla seguente prescrizione: “In tutti gli altri casi lo scarico dovrebbe essere posto sulla cima del tetto. Come regola, l’aria esausta è condotta sopra la sezione più alta dell’edificio e scaricata verso l’alto” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensiva, della determinazione dirigenziale prot. CA/122467/2015 del 30.07.2015 avente ad oggetto: ordine di cessazione dell’attività di cucina nell’esercizio di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande svolta nel locale sito in via Sistina n. 9 dalla società ricorrente.
...
 2. La questione sottoposta all’esame del Collegio, riguardante la cessazione dell’attività di cottura esercitata nell’esercizio che concerne -come dichiarato nel ricorso introduttivo dall’originaria ricorrente e confermato nell’atto proposto dalla società “La Ta. del Pe. srl”, che ha reintestato l’autorizzazione dell’esercizio- la preparazione di cibi caldi, per attività di ristorante, vede investita questa Sezione, competente alla trattazione, di una crescita esponenziale dei relativi contenziosi che in parte sono stati definiti e alle decisioni già assunte si rinvia (n. 7973/2016, n. 8289/2016, n. 9164/2016).
2.1. Preliminarmente, ai fini dell’inquadramento della normativa applicabile nella specie, si rileva che
la vigente normativa in materia di criteri di realizzazione e di utilizzo delle canne fumarie attiene alla tutela della salute e pubblica igiene (cfr. sul principio Cons. Stato, sez. VI, n. 1 del 2015) e quindi è ripartita tra la competenza non esclusiva dello Stato e quella concorrente delle Regioni. E’ tuttora vigente il D.M. 05.09.1994 che fissa l’elenco delle industrie insalubri di prima e seconda classe, includendo nell’elenco di seconda classe le “friggitorie”.
In particolare la l.r. Lazio n. 21 del 2006, concernente la “disciplina dello svolgimento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande” demanda, per la sua attuazione, ad un regolamento regionale (art. 7) “le previsioni di salvaguardia per gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, con riferimento alle norme in materia di destinazione d'uso e ai regolamenti urbanistici ed edilizi, nell'ambito di contesti urbani di particolare pregio artistico ed architettonico”; mentre rimette alla regolamentazione comunale “l'utilizzo, da parte dei locali in cui si svolge attività di somministrazione di alimenti e bevande, di più moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi, di preferenza senza immissione in atmosfera, e per la diminuzione dell'inquinamento acustico, con particolare riferimento ai centri storici”.
L’art. 12 del Reg. Reg. n. 1 del 2009 dispone che i Comuni, nell'ambito degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi garantiscono l'equilibrio tra le esigenze di tutela dei contesti urbani di particolare pregio artistico-architettonico e quelle di tutela della libera iniziativa economica e dei diritti acquisiti dagli esercizi già operanti all'interno dei contesti stessi; ulteriormente prevedendo che gli esercizi di cui al comma 1 (e cioè quelli che operano all’interno dei contesti urbani di particolare pregio artistico-architettonico) “possono utilizzare, in alternativa alle canne fumarie, altri strumenti o apparati tecnologici aspiranti e/o filtranti per lo smaltimento dei fumi, la cui idoneità è accertata secondo la normativa vigente in materia” implicitamente, dunque, riconoscendo la possibilità del ricorso all’impiego di sistemi alternativi (e cioè di “di più moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi”) alla via di fumo tradizionale (id est: canna fumaria), ma subordinandolo alla circostanza (da accertarsi, dunque, in concreto) che esso assicuri un’efficienza di rendimento pari o superiore all’impiego della canna fumaria: esegesi questa che del resto si impone anche alla luce dei principi di derivazione comunitaria di precauzione e prevenzione (sulla conferma di una tale interpretazione in fattispecie del tutto simile a quella in trattazione, vedi Cons. Stato, sez. V, n. 4428 del 2008); e tanto fermo restando che:
   1-
gli esercizi autorizzati, in linea di principio, ad avvalersi di vie di fumo diverse da quelle tradizionali sono solamente quelli siti in determinati contesti urbani di particolare pregio (e si rammenta a tal riguardo che, per le zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale sottoposte a tutela, l'apertura o il trasferimento di sede degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, di cui alla l. n. 287 del 1991, sono soggetti ad autorizzazione e non a Scia: vedi art. 64, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 59 del 2010, come sostituito dall’art. 2 del d.lgs. n.147 del 2012); ne consegue che gli esercizi esterni a tali contesti non beneficiano di analoga alternativa e sono tenuti, inevitabilmente, a dotarsi di canne fumarie (e tanto anche a mente del comma 6 dell’art. 64 citato che subordina l'avvio e l'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande “al rispetto delle norme urbanistiche, edilizie, igienico-sanitarie e di sicurezza nei luoghi di lavoro”);
   2 -
l’idoneità degli impianti alternativi va accertata in concreto e secondo la normativa vigente in materia, che include tanto la normativa comunitaria quanto quella regolamentare (posto che la prescrizione in esame si limita a richiamare la normativa vigente, senza altre specificazioni); d’altro canto un’interpretazione costituzionalmente orientata delle predette norme regionali secondo ragionevolezza non può prescindere nella sua applicazione dal considerare le locali norme regolamentari, che, secondo i consueti principi di sussidiarietà e prossimità dei livelli di governo, assicurano l’effettività di tutela delle concrete esigenze dello specifico contesto territoriale, così evitando le conseguenze abnormi di un’applicazione del dato legislativo uguale per tutte le realtà urbane (come sarebbe, si immagini, la situazione in cui ci si troverebbe laddove, applicando acriticamente ed in maniera generalizzata il principio secondo il quale la canna fumaria deve sovrastare di una certa distanza il colmo del palazzo vicino, si dovesse pretendere un’altezza superiore a quella anche del più alto grattacielo confinante: cfr., sul principio, Cons. Stato, sez. V n. 1 del 2015 cit.; idem, sez. V, 17.06.2014, n. 3081 ove si afferma che <<ai sensi dell'art. 272, comma 1, del D.L.vo 03.04.2006 n. 152 e successive modifiche, la canna fumaria in questione è considerata scarsamente inquinante, con conseguente suo assoggettamento ai "piani e programmi di qualità dell'aria previsti dalla vigente normativa" di fonte locale, ovvero ad una disciplina di fonte regionale à sensi dell'art. 271, comma 3, dello stesso T.U. e successive modifiche>>: disciplina che nella Regione Lazio tuttavia non risulta a tutt'oggi emanata se non nei termini sopra indicati);
Va aggiunto inoltre che a livello regolamentare locale l’art. 59 del Reg. Ed. dispone quanto ai “Condotti di fumo” che “Ferme restando le disposizioni contenute nel Regolamento di igiene, è vietato di far esalare il fumo inferiormente al tetto o stabilire condotti di fumo con tubi esterni ai muri prospettanti sul suolo pubblico" (per quanto attiene alla correlazione tra la disciplina del commercio e quella urbanistico-edilizia, e tra queste ed il regolamento igienico-sanitario comunale, cfr. Tar Lazio, sez. II-ter, n. 11129 del 2015; Cons. Stato, sez. V, n. 3262 del 2009; Tar Campania, Napoli, n. 10058 del 2008 e n. 556 del 2010); mentre, sempre al medesimo livello normativo, l’art. 64 del Reg. Igiene non impone necessariamente l’utilizzo della canna fumaria; esso difatti, all’ultimo periodo dispone che “L'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per caso, quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei carboni magri o di apparecchi fumivori”.
Pertanto, e fermo restando l’impiego ordinario delle vie di fumo tradizionali, la normativa consente anche il ricorso a vie di fumo alternative che dovranno essere valutate caso per caso. Tale disciplina è da considerarsi tuttora vigente in quanto non in contrasto con l’art. 12 del Reg.reg. 1 del 2009 che prescrive l’accertamento dell’idoneità della via di fumo alternativa “secondo la normativa vigente in materia” (e dunque non pregiudica l’operatività di detta norma regolamentare).
Né l’implicita abrogazione dell’art. 64 può derivare dall’art. 15 del Reg. reg. citato: e ciò in quanto tale previsione nulla dispone con riguardo alle conseguenze della mancata adozione, entro il termine di 90 giorni prescritto, della normativa regolamentare locale di adeguamento (che può essere sollecitata da chi vi abbia interesse con il ricorso ai normali strumenti processuali); va solo meglio chiarito che un adeguamento si impone allorché la norma locale pre-esistente sia incompatibile con la superiore previsione regionale, ma ciò è da escludersi nel caso di specie, non vietando il locale Regolamento d’Igiene il ricorso a “più moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi”, ma limitandosi ad imporne, a tutela di un interesse primario quale, come dianzi ricordato, quello della salute, il preventivo accertamento); al che accede la chiara infondatezza delle censure che poggiano sulla violazione della citata normativa regionale nonché sull’interpretazione di tali disposizioni così come dedotto in gravame.
2.2. Inoltre va rilevato che
a livello comunitario vengono in considerazione più normative tecniche (vedi UNI EN 15251:2008, recante “Criteri per la progettazione dell’ambiente interno e per la valutazione della prestazione energetica degli edifici, in relazione alla qualità dell’aria interna, all’ambiente termico, all’illuminazione e all’acustica” e applicabile ad abitazioni individuali, condomini, uffici, scuole, ospedali, alberghi e ristoranti, impianti sportivi, edifici ad uso commerciale all’ingrosso e al dettaglio; UNI EN 15239:2008 e UNI EN 15240:2008 entrambe descriventi una metodologia per l’ispezione degli impianti); e fra queste in particolare la normativa UNI EN 13779:2008 (Requisiti prestazionali dei sistemi per l’edilizia non residenziale) che prevede dettagliate classificazioni di aria nell’ambiente, in particolare l’aria esterna (ODA) e l’aria interna (IDA) e che classifica quest’ultima in quattro categorie collocando all’interno di quella più dannosa per la salute umana (“aria estratta con altissimo livello di inquinamento”), l’aria proveniente, fra l’altro, da “cappe aspiranti per uso professionale, piani cottura e scarichi locali di cucine” in quanto contenente odori ed impurità dannosi per la salute in concentrazioni sensibilmente più elevate di quelle permesse per l’aria interna nelle zone occupate.
Le norme UNI EN, elaborate dal CEN (Comité Européen de Normalisation), sono preordinate ad uniformare la normativa tecnica in tutta Europa e devono ritenersi (non solo regole di buona tecnica ma, altresì) norme vincolanti in presenza di leggi o di regolamenti di recepimento (cfr. sul principio, Corte Cost., 18.06.2015, n. 113 nonché Corte Cass., seconda sezione civile, 15.12.2008, n. 29333; vedi anche Cons. Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3081 cit. laddove con riguardo alle modalità di intubamento della canna fumaria asservita ad una pizzeria con forno a legna sottolinea la necessità di renderla sicuramente conforme alla tuttora vigente norma UNI 10683 Ed. marzo 1998 "Generatori di calore a legna. Requisiti di installazione", nonché l'ulteriore disciplina tecnica successivamente intervenuta).
La normativa tecnica “UNI EN 13779 Ventilazione degli edifici non residenziali - Requisiti di prestazione per i sistemi di ventilazione e di climatizzazione” è espressamente richiamata nell’All. B al d.m. 26.06.2009 (vedi altresì, in precedenza, art. 7 dell’abrogata legge n. 46 del 1990 nonché, per quanto riguarda le attività di installazione degli impianti all'interno degli edifici, il d.m. n. 38 del 2007, all’art. 5, comma 3 e all’art. 6, comma 1) e quindi trova applicazione nel vigente Ordinamento; e preso atto che la norma tecnica che essa indica in tutti i casi di scarico dell’aria esausta diversa da quella della cat. EHA 1 (che è nella catalogazione sopra richiamata quella considerata la meno dannosa per la salute ed è qualificata come “aria estratta con basso livello di inquinamento” da ambienti come uffici, classi scolastiche, scalinate, corridoi ecc.) è data dalla seguente prescrizione: “In tutti gli altri casi lo scarico dovrebbe essere posto sulla cima del tetto. Come regola, l’aria esausta è condotta sopra la sezione più alta dell’edificio e scaricata verso l’alto”.
2.3.
Sulla base di quanto sin qui esposto, deriva (in tutti i casi di scarico non collocabili nella predetta cat. EHA 1) l’obbligo di dotare gli impianti dei locali di cottura all’interno dei locali di ristorazione di sistemi di scarico posti sulla cima del tetto ovvero sulla sezione più alta dell’edificio: vincolo questo che rende inapplicabile alla fattispecie il disposto dell’art. 19, comma 1, della legge n. 241 del 1990, a norma del quale sono esclusi dall’ambito dell’applicazione della segnalazione ivi meglio disciplinata i casi in cui sussistano (i) “vincoli” ivi individuati tra i quali quelli imposti dalla normativa comunitaria.
Conseguentemente, al fine di superare tale vincolo, il Collegio, rimeditando precedenti orientamenti, ritiene che non può considerarsi sufficiente la produzione in giudizio di una consulenza tecnica di parte (asseverazione di conformità, come allegata, con cui si dichiara che la tipologia del sistema di filtrazione attualmente in uso, unitamente al suo regolare stato di manutenzione, fanno si che il sistema riesca ad abbattere la maggior parte delle sostanze prodotte dalla normale attività di cucina [odori di cucinato, fritture, ecc.] circa l’idoneità dell’impianto alternativo a sostituire le vie di fumo tradizionali (nella specie, tra l’altro, dovendosi esigere che l’accertamento –da parte di professionisti che possiedono le conoscenze tecnico scientifiche idonee per effettuare, con i necessari strumenti, le misurazioni dei fumi e vapori evacuati dalla via di fumo alternativa utilizzata– che il sistema di scarico sia, concretamente, di efficienza e funzionalità tale da garantire (nel tempo e/o anche tramite gli interventi manutentivi da debitamente documentare e comprovare) una resa di livello pari o maggiore di quello assicurato da una via di fumo tradizionale e che tale accertamento, in sintonia con quanto previsto dall’art. 64 citato (“L'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per caso, quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei carboni magri o di apparecchi fumivori”) sia condotto nel procedimento amministrativo con le competenti autorità e concluso prima dell’avvio dell’attività imprenditoriale; considerazione cui accede l’infondatezza della doglianza imperniata sul convincimento che la ricorrente possa considerarsi autorizzata, in forza di Scia sanitaria, all’utilizzo di via di fumo alternativa (in fattispecie del tutto assimilabile a quella in trattazione, il Cons. Stato, sez. V, sent. cit. n. 4428 del 2008, ha testualmente affermato: “In altri termini, il tecnico ha dichiarato che le emissioni non sono nocive o lesive e non limitano i diritti dei terzi, ma non che l’impianto sia idoneo sotto il peculiare aspetto della uguaglianza dei suoi effetti di neutralizzazione di fumi, vapori ed odori di cucina a quelli del sistema tradizionale. Né tanto è attestato nelle altre relazioni, che anzi non si basano neppure su prove effettuate in concreto, bensì su un “plausibile” valore complessivo di abbattimento delle emissioni”).
Nel caso in esame, non risulta effettuato detto accertamento preventivo da parte dell’autorità amministrativa né rilasciato alcun provvedimento espresso di autorizzazione ex art. 64 citato all’uso di impianti alternativi alla canna fumaria, per cui deve escludersi che possa essersi formato il titolo abilitativo a seguito di presentazione della Scia c.d. “sanitaria”.
La praticabilità della Scia (sanitaria) in subiecta materia neppure potrebbe essere predicata in forza del regime di liberalizzazione delle attività economiche, tenuto conto delle espresse deroghe contemplate nella relativa legislazione a tutela del bene “salute” e della “sicurezza dei lavoratori”; e difatti se si esamina attentamente la normazione vigente al riguardo si può notare che:
   a) il d.l. n. 223 del 2006 (c.d. decreto c.d. Bersani) laddove, all’art. 3 (Regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale), consente (in applicazione delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione) che le attività commerciali, come individuate dal d.lgs. n. 114 del 1998, e di somministrazione di alimenti e bevande, siano svolte senza i limiti e prescrizioni ivi individuati, eccettua da tali limiti e prescrizioni le ipotesi che riguardano, fra l’altro, sia l'iscrizione a registri abilitanti ovvero il possesso di requisiti professionali soggettivi per l'esercizio di attività commerciali (ove sono fatti salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande), che (lett. “f-bis) l'ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie;
   b) il d.l. n. 138 del 2011 all’art. 3 (Abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche) pur impegnando Comuni, Province, Regioni e Stato ad adeguare i rispettivi ordinamenti agli introdotti principi, ammette dei limiti alla liberalizzazione delle attività economiche nei soli casi ivi individuati fra i quali annovera la presenza di vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e le disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; ulteriormente consentendo la sopravvivenza di quelle disposizioni normative statali che, in quanto dettate a tutela e protezione della salute umana (e degli ulteriori valori sopra richiamati), prevedono regimi autorizzatori differenti dalla Scia;
   c) il d.l. 06/12/2011, n. 201, all’art. 31 (relativo agli esercizi commerciali), ribadisce il noto principio di liberalizzazione, ma consente a Regioni ed enti locali la possibilità di prevedere senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali;
   d) il d.l. 24/2/2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), all’art. 1 (Liberalizzazione delle attività economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese) comma 2, dopo aver richiamato il principio della libertà dell’iniziativa economico privata e l’esigenza che le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche si interpretino in senso tassativo, ha ribadito che il principio costituzionale di libertà predetto ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica (cfr. sul punto anche sent. Corte Cost. 23.01.2013, n. 8);
   e) in tal senso, la Corte Costituzionale, investita della verifica di legittimità in ordine alla disposizione di cui all’art. 3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2011, conv. con mod. dalla legge n. 148 del 2011, ha rilevato (sentenza 20.07.2012, n. 200) che <<il Legislatore ha inteso stabilire alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all'interno della cornice delineata dai principi costituzionali. Così, dopo l'affermazione di principio secondo cui in ambito economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», segue l'indicazione che il legislatore statale o regionale può mantenere forme di regolazione dell'attività economica volte a garantire, tra l'altro –oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell'ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica– in particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della dignità umana, a presidio dell'utilità sociale di ogni attività economica, ai sensi l'art. 41 Cost.. La disposizione impugnata afferma il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore statale ha elencato all'art. 3, comma 1>>; ulteriormente osservando, con considerazione che si dimostra pienamente espandibile anche alle previsioni di cui ai decreti legge n. 201 del 2011 e n. 1 del 2012, che “il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall'altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale” (cfr. anche Corte Cost. n. 8 del 2013 citata);
   f) quale logico corollario, va esclusa la presenza di profili di inconciliabilità della regolamentazione comunale all’esame rispetto al quadro normativo di rango primario sopra declinato; e va –ancora una volta– ribadita la piena esercitabilità di un potere di regolamentazione, in ragione della tutela degli interessi precedentemente illustrati, delle caratteristiche e/o modalità da osservare nell’esercizio delle attività di cottura funzionale alla somministrazione di alimenti e bevande “nell’ambito di contesti urbani di particolare pregio artistico ed architettonico”.
Va altresì rilevato che
anche in un settore (pur parallelo, ma) diverso da quello degli impianti di scarico utilizzati dagli esercizi di ristorazione, la normativa più recente (Legge n. 90 del 2013, entrata in vigore il 04.08.2013) ha stabilito nuove disposizioni riguardanti l'evacuazione dei prodotti della combustione degli impianti termici.
In particolare,
l'art. 17-bis "Requisiti degli impianti termici", al comma 9 e ss., privilegia espressamente il ricorso alle canne fumarie ammettendo lo scarico a parete solo in tre casi specifici (sostituzione dell'impianto con uno già esistente prima del 01.09.2013 che scaricava a parete o era allacciato a canna collettiva ramificata; se lo scarico a tetto risulta incompatibile con norme di tutela degli edifici; se si dimostra, con un'asseverazione del progettista, che è impossibile tecnicamente realizzare uno sbocco a tetto) ed a condizione che gli impianti siano di classe 4 e 5 stelle nel rispetto delle norme UNI EN 297, UNI EN 483 e UNI EN 15502 e delle prescrizioni della UNI 7129:2008.
Pertanto,
il potere di controllo esercitato nella circostanza dall’intimata Amministrazione trova titolo nello svolgimento di una attività economica (somministrazione alimenti: cottura cibi) in assenza di requisiti oggettivi, ovvero di canna fumaria, ed in carenza di autorizzazione all’uso di impianto alternativo che asseveri l’idoneità dell’impianto medesimo sotto il profilo della sua “equipollenza” alla via di fumo tradizionale.
2.4. Considerato ancora che la più accreditata giurisprudenza, allorquando ha affrontato la tematica in argomento, non ha mai dubitato della legittimità delle norme e dei conseguenti provvedimenti amministrativi che imponevano l’impiego di canne fumarie:
   - cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3081 che
ha ritenuto legittima l’ordinanza, adottata ai sensi degli artt. 50 e 54 del D.L.vo 18.08.2000, n. 267, che prescriveva "di sospendere l'utilizzo del forno a legna fino a quando non sia provveduto all'esecuzione delle opere necessarie alla risoluzione dell'inconveniente, quali una accurata pulizia della canna fumaria e l'eventuale installazione di dispositivi atti a trattenere le particelle di fuliggine, nonché una periodica manutenzione della stessa”;
   - Cons. Stato, sez. III, n. 304 del 2013: che
ha ritenuto legittima la prescrizione del regolamento locale di Igiene impositiva dell’utilizzo di canna fumaria anche nel caso di impiego di forni elettrici;
   - Cons. St., sez. III, 05.10.2011, n. 5474 che
ha ritenuto legittima, in applicazione dell’art. 64 del Reg. Igiene del Comune di Roma, la prescrizione che le canne fumarie debbono innalzarsi oltre l'ultimo piano al fine di evitare immissioni nocive a terzi;
   - Cons. Stato, sez. V, n. 4428 del 2008, che riguarda fattispecie ampiamente assimilabile a quella qui in trattazione, in cui l’esercente si era avvalso di un (contestato) sistema di scarico alternativo alla canna fumaria,
ha dato risalto alle carenze della relazione peritale evidenziando che il tecnico si è limitato ad attestare ad attestare che <<dalle rilevazioni effettuate emerge il ridottissimo impatto delle emissioni sull’ambiente esterno che non solo non mostrano caratteristiche di nocività, ma anche non possono essere ritenute lesive della qualità ambientale e/o limitative dei diritti dei terzi. In altri termini, il tecnico ha dichiarato che le emissioni non sono nocive o lesive e non limitano i diritti dei terzi, ma non che l’impianto sia “idoneo sotto il peculiare aspetto della uguaglianza dei suoi effetti di neutralizzazione di fumi, vapori ed odori di cucina a quelli del sistema tradizionale. Né tanto è attestato nelle altre relazioni, che anzi non si basano neppure su prove effettuate in concreto, bensì su un “plausibile” valore complessivo di abbattimento delle emissioni>>.
   - Ancora il Supremo Consesso ha avuta cura di precisare che
è “evidente che la norma regolamentare imponga al privato una siffatta dimostrazione, e non all’Amministrazione di comprovare il contrario”.
3. Sulla base di quanto premesso le censure in premessa sintetizzate non sono meritevoli di accoglimento, anche se va dato atto alla parte ricorrente che appare opportuno sollecitare un intervento regolamentare della resistente Amministrazione al fine di fornire agli operatori del settore (già appartenenti allo stesso ovvero che intendono accedervi) indicazioni normative specifiche e puntuali e, nel contempo, rispettose dei principi di piena concorrenza, trasparenza, pari opportunità e non discriminazione.
Conclusivamente il ricorso è infondato con riguardo a tutti i mezzi di gravame azionati e va respinto e che le spese di lite, attesa la significativa peculiarità della questione trattata, possono essere compensate tra le parti in lite (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 17.10.2016 n. 10337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: L'occupazione d'urgenza neutra ai fini dell'Imu.
Ai fini della soggezione ad Ici (e poi Imu), l'occupazione d'urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso dell'immobile, in quanto il bene, finché non interviene il decreto di esproprio, continua ad appartenere a lui (che percepisce infatti un'indennità per l'occupazione), mentre l'occupante è un mero detentore.
Solo nel caso in cui il proprietario del terreno abbia perso la disponibilità dell'area, con l'irreversibile trasformazione del fondo a seguito della realizzazione dell'opera pubblica, si verifica lo spossessamento del bene.

Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 14.10.2016 n. 20796.
La questione concerneva l'obbligo del pagamento dell'Ici a seguito di occupazione d'urgenza, con perdita di possesso per effetto del decreto di occupazione, antecedente alla stipula del rogito di cessione volontaria del terreno.
La Commissione tributaria regionale rigettava l'appello del contribuente, evidenziando che la cessione dei terreni era avvenuta nel 2006, non rilevando che la società espropriante ne avesse la disponibilità fin dal 2002. La contribuente impugnava la sentenza, deducendo che la Commissione tributaria regionale aveva erroneamente ritenuto che l'obbligo relativo all'Ici fosse connesso alla titolarità del diritto di proprietà e prescindesse dal possesso dell'immobile.
La Corte, respingendo il ricorso, conclude dunque che in tali casi il proprietario resta soggetto passivo Ici, con obbligo di presentare la relativa dichiarazione, anche se l'immobile è detenuto da terzi (articolo ItaliaOggi del 22.10.2016).

INCARICHI PROFESSIONALISomme anticipate da restituire. Anche all'avvocato che non sia difensore della parte. Lo ha chiarito la Cassazione in un caso di mancato conferimento effettivo dell'incarico.
Restituzione delle somme anticipate anche per il legale che non sia difensore della parte: lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza 13.10.2016 n. 20649.
Nel caso di specie era accaduto che l'avvocato aveva avanzato la propria pretesa di recupero delle spese da lui anticipate sulla premessa di essere stato il difensore della parte, mentre la collega di studio figurava come semplice prestanome; tuttavia dagli atti risultava che il conferimento dell'incarico di difensore era stato dato ad altro professionista, per cui l'appellante avrebbe dovuto almeno dimostrare la simulazione, cosa che non aveva fatto essendosi limitato ad una «generica domanda di restituzione».
Intervenuta sul ricorso mosso avverso la sentenza di merito, che aveva visto l'appellante soccombente in entrambi i gradi di giudizio, la III sezione civile ha confutato le conclusioni cui si era pervenuti in secondo grado, contestando sia il fatto che, rispetto al valore della causa, si sarebbe dovuta correttamente dichiarare l'inammissibilità dell'appello, come proposto e definendo per tale ragione il suddetto modo di fare «curioso»; sia il fatto che l'organo giudicante non aveva ritenuto opportuno ammettere le prove orali richieste «in quanto prive di connotazione decisoria» dal momento che avrebbero solo potuto dimostrare che il professionista aveva materialmente anticipato le somme in questione, cosa che non era mai stata messa in discussione.
L'ulteriore circostanza, continuano gli ermellini, che non era stata dimostrata l'effettiva sussistenza di un rapporto professionale tra le parti non aveva assunto rilievo decisivo ai fini della risoluzione della causa visto che lo stesso tribunale aveva finito con il dichiarare «non essere in contestazione che la somma oggetto di causa era stata anticipata dal professionista».
Hanno quindi dichiarato fondato il ricorso e rimesso la causa al giudice del rinvio il quale dovrà chiarire «in modo coerente» quali siano stati i rapporti intercorsi tra le parti e stabilire se il difensore avesse diritto alla restituzione delle somme richieste «anche se versate a titolo di mera anticipazione e quindi a prescindere dall'esistenza di un rapporto professionale» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016).

VARICopia privata cedibile solo se originale. Corte Ue. L’acquirente di un programma per pc può disporne ma con limiti.
 La copia di un programma informatico con la relativa licenza d’uso può essere rivenduta dall’acquirente iniziale - anche se il titolare del diritto d’autore non lo consente - ma solo se è ancora sul suo supporto originale. Divieto assoluto, invece, di commercializzazione della copia di riserva (la copia “salvata” dall’acquirente sul suo pc) in assenza dell’autorizzazione del titolare.
La Corte di giustizia dell’Unione europea - sentenza 12.10.2016 C-166/15 - fissa i limiti di circolazione delle copie dei programmi di back-up e delle applicazioni più diffuse, intervenendo su una questione rimessale dalla Corte regionale penale di Riga, in Lettonia.
Lì una coppia di coniugi risultava indagata per un artigianale quanto florido commercio di programmi informatici della Microsoft -in particolare Windows e Microsoft Office- rivenduti in oltre tremila copie per un guadagno (e corrispettivo danno alla casa di software) di oltre 265mila euro.
Secondo la difesa della coppia, un’applicazione estensiva dell’esaurimento del diritto di distribuzione -direttiva 91/250/Cee- renderebbe del tutto lecita l’attività di duplicazione del programma per elaboratore informatico, esercitata in ogni caso da chi (l’acquirente iniziale) aveva acquistato con il programma anche la licenza d’uso illimitato.
Nell’analizzare la questione, la Corte ha focalizzato il raggio del ragionamento non tanto sulla duplicazione seriale dell’opera protetta da copyright -evidentemente non consentita- quanto sul diritto dell’acquirente in relazione alla copia originale del programma acquistato.
Secondo la Corte Ue, il potere di veto posto dal titolare del diritto (nel caso specifico Microsoft) non è dirimente, cioè è inefficace anche se contrattualmente posto, quindi il titolare del copyright non può opporsi alle vendite successive della copia originale da parte dell’acquirente iniziale. Il potere del primo acquirente però è strettamente legato proprio al supporto «originale». Fermo il diritto di chi compra dal legittimo titolare di duplicare il programma, per ragioni di prudenza, sicurezza eccetera, questa copia “non originale” e per uso personale non può essere più commercializzata, se non con il consenso di chi detiene il copyright.
La realizzazione di una copia di riserva di un programma per computer è quindi subordinata, secondo la Corte di giustizia Ue, a due condizioni: tale copia deve, da un lato, essere realizzata da una persona avente il diritto di usare il programma e, dall’altro, deve essere finalizzata all’uso del medesimo.
A giudizio della Corte, la norma che stabilisce un’eccezione al diritto esclusivo di riproduzione del titolare del diritto d’autore su un programma informatico, deve quindi essere oggetto d’interpretazione restrittiva (articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
Gli articoli 4, lettere a) e c), e 5, paragrafi 1 e 2, della direttiva 91/250/CEE, del Consiglio, del 14.05.1991, relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore, devono essere interpretati nel senso che, sebbene l’acquirente iniziale della copia di un programma per elaboratore accompagnata da una licenza d’uso illimitata abbia il diritto di vendere d’occasione tale copia e la sua licenza a un subacquirente, egli non può, per contro, allorché il supporto fisico originale della copia che gli è stata inizialmente consegnata è deteriorato, distrutto o smarrito, fornire a tale subacquirente la sua copia di riserva senza l’autorizzazione del titolare del diritto.

APPALTIImpresa fuori gara solo se si prova che l’offerta è concordata. Appalti. Non basta il collegamento.
Il collegamento tra due società che partecipano a una gara per aggiudicarsi un appalto pubblico non basta per configurare il reato di turbata libertà degli incanti. Perché scatti tale illecito occorre la prova che, dietro la costituzione di imprese apparentemente distinte, si nasconda un unico centro decisionale di offerte coordinate o che le imprese, utilizzando il collegamento abbiano presentato offerte concordate.
Del principio, affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 11.10.2016 n. 42965, beneficiano gli amministratori di due società che avevano partecipato ad una gara, indetta dall’Anas, per vincere l’appalto di lavori stradali.
I due manager erano stati condannati sia in primo grado sia in appello, con un risarcimento ridotto rispetto al primo grado, per turbata libertà degli incanti. Secondo i ricorrenti, la Corte d’appello, preso atto del provvedimento di esclusione, si era allineata al giudizio espresso dall’organo amministrativo, senza fare valutazioni autonome.
Gli amministratori contestavano la decisione raggiunta dalla Corte territoriale, che aveva presunto la collusione e la turbativa della gara d’appalto basandosi sul semplice collegamento tra le due società e sul rapporto di amicizia tra i loro responsabili. Il tutto in assenza di condotte relative ad accordi fraudolenti o in contrasto con le indicazioni fornite in materia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza C-538/07).
Per la Cassazione, i ricorrenti hanno ragione. Se è vero che il collegamento tra due società, rappresenta per gli amministratori una condizione propizia per stringere rapporti e consumare il reato previsto dall’articolo 353 del Codice penale, è altrettanto vero che non si può prescindere dalla verifiche nel concreto. E, visto che un abisso separa la supposizione di un fatto dalla prova della questo sia avvenuto, la Cassazione taglia la strada a qualunque possibilità di presunzione, affermando che per la turbativa d’asta è necessaria l’esistenza di collusioni o di altri mezzi fraudolenti.
I giudici precisano inoltre che la turbata libertà degli incanti è un reato di pericolo che si configura a prescindere dal risultato raggiunto, essendo sufficiente la sola idoneità degli atti. Se c’è collusione, il reato si consuma nel momento in cui viene presentata l’ultima delle offerte illecitamente concordate. Dunque, il collegamento in sé, anche quando non consentito, è solo un indice di irregolarità che assume rilievo penale quando c’è la prova di un accordo sulle offerte.
La conclusione raggiunta è in linea con la Corte Ue, secondo la quale la disciplina nazionale che imponga un divieto assoluto di partecipazione simultanea ad imprese collegate è contraria al diritto comunitario se manca la dimostrazione che il “legame” ha influito sui comportamenti nella gara.
Sbaglia dunque la Corte d’appello a valorizzare quanto evidenziato dalla commissione esaminatrice che ha escluso i ricorrenti dalla gara, presumendo, dalla veste esteriore dei plichi che contenevano le offerte e dai precedenti rapporti personali e commerciali, che le offerte facessero capo a un unico centro di interessi e fossero il frutto di manovre clandestine intraprese violando i princìpi di libera concorrenza
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2016).
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MASSIMA
2. La fattispecie presa in esame dai Giudici di merito è stata già considerata nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, che ha stabilito il principio secondo cui
il collegamento, formale o sostanziale, tra società partecipanti alla gara per l'aggiudicazione di un appalto pubblico non è di per sé sufficiente a configurare il delitto di turbata libertà degli incanti, occorrendo la prova che, dietro la costituzione di imprese apparentemente distinte, si celi un unico centro decisionale di offerte coordinate o che le imprese, utilizzando il rapporto di collegamento, abbiano presentato offerte concordate (Sez. 6, n. 28517 del 01/04/2014, Vessa, Rv. 259824).
In tal senso, in particolare, nella motivazione della pronunzia or ora citata questa Corte ha precisato che
il rapporto di controllo o collegamento tra società rappresenta senza dubbio, per i rispettivi amministratori, una condizione propizia per stringere accordi clandestini diretti a battere la concorrenza e, quindi, può ben alimentare il sospetto che le società concorrenti, profittando di tale condizione favorevole, possano concordare le rispettive offerte, consumando il reato previsto dall'art. 353 cod. pen., mediante la forma tipica della frode o della collusione.
Ma, come testualmente affermato, "un abisso separa la supposizione di un fatto dalla prova della sua effettiva verificazione".
Deve pertanto ritenersi inammissibile qualsiasi presunzione assoluta di turbativa del corretto svolgimento della gara, fondata sulla scoperta dell'esistenza di rapporti di collegamento o controllo, formale o sostanziale, tra società che vi prendano parte, richiedendo la norma incriminatrice in esame che la turbativa d'asta sia commessa "con collusioni o altri mezzi fraudolenti".

Questa Corte ha inoltre stabilito il principio secondo cui
il reato di turbata libertà degli incanti è un reato di pericolo che si configura non solo nel caso di danno effettivo, ma anche nel caso di danno mediato e potenziale, non occorrendo l'effettivo conseguimento del risultato perseguito dagli autori dell'illecito, ma la semplice idoneità degli atti ad influenzare l'andamento della gara (Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami, Rv. 254906).
Se realizzato con la condotta di collusione, il reato si consuma nel momento in cui è stata presentata l'ultima delle offerte illecitamente concordate (Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, cit., Rv. 254904) e può avere ad oggetto tutti gli accordi preventivi intervenuti tra i partecipanti sui contenuti specifici delle rispettive offerte, diretti ad alterare il principio della libera concorrenza tra i singoli soggetti giuridici che partecipano in via autonoma alla gara (Sez. 6, n. 16333 del 23/03/2011, Cardinale, Rv. 250042).
Ciò che rileva, dunque, non è il mero dato del collegamento, sia esso formale o sostanziale, ma il fatto che esso in concreto abbia portato le imprese a presentare offerte coordinate, nei loro specifici ed effettivi contenuti, in modo da assicurare la vittoria della gara, o, quanto meno, aumentarne le relative probabilità (v., in motivazione, Sez. 6, n. 16333 del 23/03/2011, cit.).
Il collegamento, in sé considerato, ed anche quando non sia consentito, va apprezzato solo come un indice di irregolarità suscettibile di acquisire rilevanza penale quando si provi, avvalendosi ovviamente di tutti i possibili criteri di valutazione indicati dall'art. 192 cod. proc. pen., che in concreto vi è poi stato un accordo sugli specifici contenuti delle singole e formalmente autonome offerte. Accordo preventivo, per sé idoneo ad influire sull'esito della gara rispetto ai beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice, che sono quelli della libertà di partecipazione e della libertà dei singoli partecipanti di influenzarne l'esito secondo le regole di una libera ed effettiva concorrenza, funzionale all'ottenimento del "giusto prezzo" rispetto ai vari parametri stabiliti dal singolo bando (arg. ex Sez. 6, n. 16333 del 23/03/2011, cit.).
Nella medesima prospettiva ermeneutica, inoltre, deve richiamarsi la linea interpretativa seguita dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea (Sez. IV, 19.05.2009, C-538/07), che, pur soffermandosi sulla corretta esegesi del disposto di cui all'art. 29 della direttiva del Consiglio 18.06.1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, ha affermato il principio secondo cui,
in base all'ordinamento comunitario, due imprese, anche se collegate, possono partecipare alla medesima procedura qualora dimostrino che il loro rapporto non ha influito sul loro rispettivo comportamento nell'ambito di tale gara.
Secondo la Corte lussemburghese, dunque,
il diritto comunitario osta ad una disposizione nazionale che, pur perseguendo gli obiettivi legittimi di parità di trattamento degli offerenti e di trasparenza nell'ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, stabilisca un divieto assoluto (a carico delle imprese tra le quali sussista un rapporto di controllo o che siano tra loro collegate) di partecipare in modo simultaneo, senza poter dimostrare che il rapporto suddetto non ha influito sul loro rispettivo comportamento nell'ambito di tale gara. Non è sufficiente, in altri termini, la constatazione di un rapporto di collegamento fra imprese, ma occorre verificare se tale rapporto abbia avuto un impatto concreto nell'ambito della relativa procedura.

ATTI AMMINISTRATIVISocietà pubbliche, segreti pareri ma non i contratti.
Nelle società a partecipazione pubblica devono essere coperti da segreto professionale, al fine di salvaguardare la strategia processuale dell'ente, i pareri resi dagli avvocati, ma non anche gli atti e i contratti che l'amministrazione ha eventualmente adottato sulla scorta degli stessi pareri.

Così il TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 11.10.2016 n. 1193.
I giudici hanno, così, riconosciuto il diritto di alcuni lavoratori dipendenti di una società pubblica di accedere agli atti di transazione stipulati dalla medesima società con altri lavoratori dipendenti in analoga posizione lavorativa, relativi a procedimenti contenziosi, dal momento che tali documenti potevano contenere informazioni utili alla tutela delle proprie pretese nell'ambito dei giudizi ancora pendenti con la società.
Per quanto concerne, invece, il diritto di accesso ai pareri legali resi al fine di stipulare gli atti transattivi sopra citati, occorre distinguere tra attività legale, anche esterna, che si inserisce in un procedimento e quella che invece viene svolta nell'ambito del contenzioso.
E mentre nel primo caso il documento in cui si concreta l'attività legale si inserisce nell'ambito di una istruttoria endoprocedimentale e, fermi restando i rapporti di riservatezza tra l'autore del parere e l'amministrazione che se ne serve, è soggetto all'accesso, nel secondo caso no: la p.a. deve poter esercitare il proprio diritto di difesa protetto costituzionalmente e deve poter usufruire di una tutela non inferiore a quella di un qualsiasi altro soggetto dell'ordinamento, con la conseguente esclusione dall'accesso (articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016).

APPALTIPa senza responsabilità solidale. Semaforo rosso per i periodi precedenti l’entrata in vigore del Dl 76/2013.
Appalti. La Cassazione ribadisce l’esonero dalla solidarietà per i debiti retributivi e contributivi degli appaltatori.

Verso le pubbliche amministrazioni non si applica il regime di responsabilità solidale per i crediti retributivi e contributivi che regola i rapporti tra committenti e appaltatori nell’ambito degli appalti di servizio.
La Corte di Cassazione (Sez. lavoro, sentenza 10.10.2016 n. 20327), confermando una precedente pronuncia sullo stesso tema, esonera le amministrazioni pubbliche dai rischi connessi agli appalti di servizi anche per i periodi antecedenti all’entrata in vigore del decreto legge 76/2013 (che ha reso esplicito tale principio).
La legge (articolo 29 del decreto legislativo 276/2003, la riforma Biagi), stabilisce che i committenti di tali contratti rispondono, in solido con gli appaltatori, per i debiti retributivi e contributivi eventualmente maturati nei confronti del personale impiegato nell’esecuzione del servizio, per un periodo massimo di due anni dalla cessazione del contratto.
La responsabilità del committente ha natura oggettiva, nel senso che prescinde da una colpa o responsabilità, ma deriva dal semplice fatto di aver stipulato il contratto.
Questo regime, chiaramente finalizzato a stimolare atteggiamenti virtuosi dei committenti, si applica con certezza alle imprese private, mentre è discussa la sua vigenza verso le pubbliche amministrazioni, quanto meno fino alla riforma del 2013.
Secondo una corrente di pensiero -cui ha aderito anche il Tribunale di Torino, chiamato a giudicare il primo grado la vicenda poi decisa dalla Cassazione con la sentenza 20327/16- la responsabilità solidale si applica nei periodi antecedenti al 2013 anche verso il committente pubblica amministrazione, in quanto il Dlgs 276/2003 sarebbe disapplicabile solo nei confronti del rapporto di pubblico impiego.
Questa lettura non è condivisa dalla Cassazione, che -con orientamento costante- esclude la possibilità di applicare le norme dell’articolo 29 ai contratti di appalto stipulati dalle amministrazioni pubbliche.
Questa esclusione, secondo la Corte, è ricavabile dall’articolo 1 del Dlgs 276/2003, nella parte in cui prevede che il decreto «non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale». Tale frase esclude l’applicabilità di tutto il decreto verso le amministrazioni pubbliche.
La Corte di legittimità, per rafforzare questa lettura, evidenzia che l’articolo 29 riguarda soltanto gli appalti suscettibili di essere disciplinati dai contratti collettivi di lavoro di natura privatistica; questa circostanza confermerebbe l’inapplicabilità delle regole sulla responsabilità solidale ai soggetti pubblici.
La sentenza, infine, chiarisce la portata dell’articolo 9 del Dl 76/2013, la norma che ha affermato in maniera chiara l’inapplicabilità della responsabilità solidale verso i contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
Questa norma, secondo la Cassazione, non ha carattere interpretativo o retroattivo e quindi non può essere utilizzata per ricostruire il significato delle regole preesistenti; ma non ha neanche carattere innovativo rispetto alle regole preesistenti, in quanto si limita a formulare in maniera più chiara e appropriata una regola che già esisteva
 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2016).
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MASSIMA
2- il ricorso è fondato.
Questa Corte ha già affermato, con la sentenza richiamata dal ricorrente, la inapplicabilità dell'art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 ai contratti di appalto stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni ed il principio di diritto è stato poi ribadito, in motivazione, dalle recenti sentenze 23.05.2016 n. 10664 e 24.05.2016 n. 10731, con le quali, peraltro, si è escluso che detto principio potesse essere esteso anche alle società di diritto privato tenute al rispetto della procedura di evidenza pubblica e si è precisato che la inapplicabilità agli enti pubblici della responsabilità solidale discende direttamente dalla espressa previsione contenuta nell'art. 1, comma 2, del richiamato decreto e non dalla assoggettabilità dell'appalto alla disciplina dettata dal d.lgs. 163/2006 e dal d.p.r. 207/2010 (oggi sostituiti dal d.lgs. 18.04.2016 n. 50), di per sé non incompatibile con quanto disposto dall'art. 29 del d.lgs. 276/2003.
Il Collegio intende dare continuità a detto orientamento, poiché gli argomenti utilizzati dalla Corte territoriale a sostegno della diversa opzione esegetica non sono condivisibili.
2.1 - L'art. 1 del d.lgs. n. 276 del 2003, nel prevedere che "il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale" è chiaro nell'individuare il destinatario della esclusione, riferita all'intero decreto, innanzitutto nell'ente pubblico.
Non si può sostenere, come si legge nella sentenza impugnata, che i due termini distinti inseriti nel comma 2 dell'art. 1 costituirebbero "un'endiadi" in quanto il legislatore delegato, conformandosi a quanto previsto dall'art. 6 della legge n. 30 del 2003, avrebbe solo voluto impedire "al personale delle pubbliche amministrazioni" l'utilizzo delle nuove tipologie contrattuali.
La esegesi prospettata contrasta con il chiaro tenore letterale della norma che, nell'affermare la inapplicabilità della normativa dettata dal decreto, sia alle pubbliche amministrazioni che al loro personale, non fa altro che recepire e rendere più esplicita la indicazione data dal legislatore delegante, il quale aveva previsto con il richiamato art. 6 che "le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate'.
Se si scorrono i principi dettati dagli articoli richiamati nella disposizione ci sì avvede che solo alcuni di essi possono essere propriamente riferiti al "personale", perché attinenti a rapporti di lavoro già instaurati, mentre per quelli relativi alle tipologie di lavoro flessibile, alla loro disciplina, agli obblighi posti a carico del datore di lavoro (effettivo o apparente) la esclusione deve necessariamente essere riferita al soggetto non legittimato alla conclusione del contratto, che precede la instaurazione del rapporto di dipendenza o di collaborazione, o al contraente a carico del quale l'obbligo viene posto ed è, quindi, improprio esprimere la stessa facendo riferimento al "personale".
Non sussiste, pertanto, alcun contrasto fra l'art. 1, comma 2, del decreto legislativo e la legge delega, perché il primo, in realtà, si limita ad esplicitare ciò che era già contenuto nell'art. 6 della legge n. 30 del 2003.
2.2 - Osserva, inoltre, il Collegio che il richiamo alla legge delega può orientare l'interprete nella esegesi di una norma che sia formulata in termini non chiari, ma non consente di attribuire alla stessa un significato che si ponga in aperto contrasto con il tenore letterale della disposizione da interpretare.
In tal caso, infatti, la non coincidenza fra la legge delega ed il decreto legislativo delegato deve essere denunciata dinanzi alla Corte Costituzionale per violazione dell'art. 76 Cost., violazione che, peraltro, il Collegio ritiene non ravvisabile nella fattispecie, sia per le ragioni esposte al punto che precede, sia sulla base degli argomenti già indicati da questa Corte nella sentenza n. 15432 del 2014.
Con la richiamata pronuncia si è osservato che il vizio di eccesso di delega riguarda esclusivamente i rapporti fra legge delegante e decreto legislativo delegato, sicché viene meno nei casi in cui il legislatore, intervenendo nuovamente sul testo normativo, trasformi la natura della norma da legge in senso materiale a legge in senso formale, affrancandola dal vizio di eccesso di delega.
Si è, quindi, precisato, attraverso il richiamo alla ordinanza della Corte Costituzionale n. 5 del 2013, che la disciplina della responsabilità solidale del committente, dettata dall'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, è stata oggetto di plurimi interventi del legislatore, successivi ed estranei al rapporto di delegazione, che hanno fatto venire meno, in relazione alla disciplina applicabile ratione temporls alla fattispecie, ogni rilevanza dell'eventuale vizio originario.
La sentenza impugnata non è condivisibile nella parte in cui, dissentendo dal principio, afferma che, in realtà, detti interventi non hanno mai riguardato la norma che qui viene in rilievo, ossia il comma 2 dell'art. 1, bensì l'art. 29 ed altre disposizioni del decreto legislativo.
In merito osserva il Collegio che l'art. 1, in quanto norma generale di esclusione della applicabilità alla pubblica amministrazione dell'intera disciplina contenuta nel decreto, salve le espresse eccezioni, è parte integrante della normativa di ogni singolo istituto, sicché l'intervento legislativo che riguardi una determinata tipologia contrattuale, lasciando inalterata la predetta esclusione, determina anche rispetto a quest'ultima gli effetti sopra indicati in relazione al rapporto di delegazione.
2.3 - Una volta escluso che il comma 2 dell'art. 1 del decreto legislativo possa essere interpretato nei termini indicati dalla Corte territoriale, è sufficiente il richiamo alla norma generale per affermare la inapplicabilità alle pubbliche amministrazioni della responsabilità solidale del committente prevista dal comma 2 dell'art. 29.
Alle medesime conclusioni, comunque, si giunge esaminando la disciplina dettata dalla norma in commento, non essendo condivisibile la sentenza impugnata nella parte in cui, per affermare la applicabilità alla fattispecie del comma 2 dell'art. 29, valorizza l'assenza nel comma in parola di qualsivoglia richiamo alla natura privata dell'appalto, dalla quale fa discendere la riferibilità della dizione "committente imprenditore o datare di lavoro" anche alla pubblica amministrazione.
L'argomento è privo di decisività poiché la stessa Corte territoriale riconosce che il comma 1 richiama con chiarezza il contratto di appalto, come disciplinato dal codice civile, e che il comma 3-bis, relativo alla costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del committente, non è applicabile agli enti pubblici.
Orbene anche la disposizione da ultimo richiamata, di sicuro non invocabile nei confronti della pubblica amministrazione, si riferisce genericamente al "contratto di appalto" e ciò priva di spessore la valorizzazione dell'elemento letterale nella interpretazione del comma 2, posto che nella esegesi di una disciplina normativa unitaria non è corretto estrapolare dall'intero contesto una parte della disposizione, valutandola senza tener conto del tenore degli altri commi che compongono la norma oggetto di interpretazione.
2.4 - La Corte territoriale, inoltre, non ha considerato che nella formulazione applicabile ratione temporis alla fattispecie, risultante all'esito delle modifiche apportate dall'art. 4, comma 31, della legge 28.06.2012 n. 92, il comma 2 si apre facendo salva la "diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore....", il che rende evidente l'intenzione del legislatore di riferirsi ai soli appalti posti in essere da soggetti che, tramite le loro associazioni, sottoscrivono i contratti collettivi nazionali di lavoro.
All'intervento normativa sopra richiamato ha, poi, fatto seguito l'art. 9 del di. 28.06.2013 n. 76, convertito dalla legge 09.08.2013 n. 99, con il quale si è previsto che "Le disposizioni di cui all'articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive modificazioni, trovano applicazione anche in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo. Le medesime disposizioni non trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165. Le disposizioni dei contratti collettivi di cui all'articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive modificazioni, hanno effetto esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell'appalto con esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi.".
La Corte territoriale ha escluso la natura interpretativa e la retroattività della norma in commento e per ciò solo ha ritenuto il carattere innovativo della stessa, dal quale ha tratto conferma della esattezza della esegesi data al testo normativa vigente in epoca antecedente alla entrata in vigore della nuova disposizione.
Anche dette conclusioni non sono, ad avviso del Collegio, condivisibili.
E' noto che la legge può essere qualificata di interpretazione autentica, a prescindere dai lavori preparatori e dal titolo del testo normativo, quando la legge medesima sia rivolta ad imporre con efficacia retroattiva una data interpretazione di una precedente norma, sicché la stessa non può essere suscettibile di applicazione autonoma, dovendosi necessariamente integrare con la norma interpretata, nel senso che la disciplina da applicarsi ai singoli casi concreti deve essere desunta da quest'ultima e dalla norma interpretativa.
Il carattere interpretativo autentico può essere riconosciuto solo qualora, analizzando il contenuto della norma, si individuino: da un lato l'indicazione di una data esegesi di una disposizione antecedente cui la norma si ricollega; dall'altro un precetto con il quale il legislatore impone la interpretazione, escludendone ogni altra, non solo per il futuro ma anche per il passato, e privando, in tal modo, l'interprete della possibilità di pervenire ad una diversa conclusione quanto al significato da attribuire alla norma interpretata.
Non vi è dubbio che nella fattispecie non ricorrano detti indispensabili requisiti, poiché il tenore della nuova disposizione, con la quale il legislatore ha espressamente previsto la inapplicabilità dell'art. 29 agli appalti stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 165/2001, non consente di affermare che l'intervento sia stato finalizzato anche ad imporre una interpretazione della normativa previgente, con efficacia retroattiva.
Tuttavia non può per ciò solo affermarsi il carattere innovativo della disposizione giacché il legislatore può anche formulare in modo più chiaro ed appropriato una norma preesistente, dettando una nuova disciplina che provveda a regolare per il futuro la materia attraverso precetti non dissimili da quelli previgenti. Parimenti non è impedita al legislatore la produzione di una norma che, sia pure senza vincolare per il passato l'interprete e senza fare esplicito riferimento alla esegesi di una data disposizione, "produca fra le sue conseguenze, in virtù dell'unità ed organicità dell'ordinamento giuridico, anche quella di chiarire il significato di detta disposizione" Cass. 29.07.1974 n. 2289).
In altri termini il legislatore, a fronte di incertezze interpretative, può emanare una nuova normativa che abbia la finalità di rendere esplicito il precetto già desumibile dalla disciplina previgente, senza, però, imporre la interpretazione per il passato e, quindi, senza conferire retroattività alla norma.
Una disposizione siffatta, in quanto destinata ad essere vincolante solo per il futuro, non esclude la possibilità per l'interprete di dare alla norma previgente una diversa interpretazione e, quindi, risulta senz'altro rispettosa del precetto dettato dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, perché "non interferisce nella amministrazione della giustizia con il proposito di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia" e, quindi, fa salvi il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo.
Peraltro la disposizione medesima, proprio per le finalità che l'hanno ispirata, desumibili nella specie anche dai lavori preparatori, ben può essere valutata dall'interprete, che dalla stessa può trarre la conferma della correttezza della esegesi data alla normativa, a condizione che detta esegesi riposi innanzitutto sul dato normativa previgente.
In sintesi, ferma restando la irretroattività della normativa, non è impedito all'interprete, all'esito di una comparazione fra il quadro normativa previgente e quello modificato, escludere il carattere innovativo della disposizione e ritenere che il precetto, reso esplicito, fosse già desumibile dalla norma preesistente.
2.6 - Infine
la estensione anche agli appalti stipulati dalla pubblica amministrazione della responsabilità solidale del committente non può essere affermata facendo leva sulla necessità di assicurare al lavoratore impegnato nella esecuzione di un appalto pubblico la medesima tutela riconosciuta per gli appalti privati.
La Corte territoriale così argomentando non ha considerato le peculiarità proprie delle due situazioni a confronto che giustificano senz'altro la diversità delle discipline, dettate al fine di contemperare, in ciascun ambito, i diversi interessi che vengono in rilievo.
Invero,
mentre nell'appalto privato il committente non incontra alcun limite nella scelta del contraente e, quindi, potrebbe essere indotto ad affidare i lavori all'impresa che richieda il corrispettivo più basso e che perciò non offra alcuna garanzia dell'esatto adempimento delle obbligazioni assunte con le maestranze impegnate nell'appalto, nelle procedure di evidenza pubblica la tutela dei lavoratori è assicurata sin dal momento della scelta del contraente, poiché nella valutazione delle offerte "gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro ed al costo relativo alla sicurezza..." (art. 86 del d.lgs. 163/2006) e ad effettuare controlli preventivi volti ad accertare non solo la solidità del concorrente ma anche il rispetto da parte dello stesso della normativa in materia di sicurezza, degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, degli adempimenti previdenziali ed assistenziali (art. 38 del d.lgs. 163/2006).
Inoltre, come già evidenziato da questa Corte nella sentenza n. 15432/2014, alla cui motivazione si fa rinvio per la trattazione analitica di detti aspetti,
anche nel corso della esecuzione dell'appalto la stazione appaltante è tenuta a verificare l'esattezza dell'adempimento degli obblighi assunti dall'appaltatore nei confronti dei prestatori e, in caso di esito negativo della verifica, può attivare l'intervento sostitutivo, detraendo il relativo importo dalle somme dovute all'esecutore del contratto.
Si tratta, quindi, di un complesso articolato di tutele volte tutte ad assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori, tutele che difettano nell'appalto privato, e che compensano la mancata previsione per gli appalti pubblici della responsabilità solidale prevista dall'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, non applicabile alla pubblica amministrazione perché in contrasto con il principio generale (oggi rafforzato dal nuovo testo dell'art. 81 Cost. che affida alla legge ordinaria il compito di fissare "i criteri volti ad assicurare l'equilibrio fra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni") in forza del quale gli enti pubblici sono tenuti a predeterminare la spesa e, quindi, non possono sottoscrivere contratti che li espongano ad esborsi non previamente preventivati e deliberati.
Mentre l'intervento sostitutivo di cui al d.lgs. 163/2006, al pari della responsabilità prevista dall'art. 1676 c.c., applicabile anche alle pubbliche amministrazioni, opera nei limiti di quanto è dovuto dal committente all'appaltatore, l'art. 29, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, consente solo al committente di avvalersi del beneficio della preventiva escussione ma, ove questa si riveli infruttuosa, comporta la responsabilità dell'appaltante anche nella ipotesi in cui lo stesso abbia già adempiuto per intero la sua obbligazione nei confronti dell'appaltatore.
E' evidente che detta responsabilità non possa essere estesa alle pubbliche amministrazioni in relazione alle quali vengono in rilievo interessi di carattere generale che sarebbero frustrati ove si consentisse la lievitazione del costo dell'opera pubblica quale conseguenza dell'inadempimento dell'appaltatore.
La diversità delle situazioni a confronto e degli interessi che in ciascuna vengono in rilievo giustifica, quindi, la diversa disciplina e rende manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 29 del d.lgs. 276 del 2003, prospettata dalla difesa del controricorrente in relazione all'art. 3 Cost..

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATALegittima l’antenna sulla facciata. Supercondominio. Anche se il regolamento contrattuale afferma che occorre il sì dell’assemblea per ogni modifica.
Un’interpretazione “elastica” del regolamento del condominio può escludere che l’installazione della parabola sulle facciate pregiudichi il decoro architettonico del condominio.

Un condominio citava in giudizio il proprietario di una villetta bifamiliare a schiera, per farlo condannare a rimuovere una pensilina e una antenna satellitare installate sulla facciata del complesso condominiale. Sostenendo che i muri perimetrali erano annoverabili tra i beni comuni e l’installazione contravveniva al regolamento di condominio che assoggettava ad autorizzazione dell’assemblea ogni modifica e innovazione delle facciate e pregiudicava il decoro architettonico del complesso.
Il tribunale aveva dato ragione al condominio che aveva fatto causa ma il giudizio veniva ribaltato dalla Corte d’appello, che aveva invece affermato che , nella fattispecie in esame (villette bifamiliari a schiera), non trovava applicazione l’articolo 1117 del Codice civile (riguardante soltanto gli edifici divisi orizzontalmente per piani), i muri perimetrali non erano assimilabili ai muri maestri avendo soltanto la funzione di delimitare le unità immobiliari e di sorreggere la copertura, anche privata o in comune con le abitazioni affiancate e, come tali, non rientranti nelle parti comuni (muri maestri) indicate nel regolamento di condominio.
Inoltre, la stessa Corte d’appello, adottando un’interpretazione elastica del regolamento di condominio, escludeva che qualsiasi intervento, anche minino, eseguito, da ciascun condòmino, sulle pareti esterne della propria villetta, potesse considerarsi illecito solo perché non autorizzato dall’assemblea. L’intervento, sulla scorta della documentazione fotografia in atti -una tettoia, di piccole dimensioni, con colorazione neutra- si inseriva infatti armonicamente nel complesso senza alterare le linee e la fisionomia estetica. Ugualmente, l’antenna era di dimensioni contenute, collocata sulla facciata posteriore, non dissimile da quella scelta dagli occupanti di altre villette a schiera. Per questo la Corte d’appello aveva escluso che i manufatti potessero pregiudicare il decoro architettonico del complesso immobiliare.
Il condominio ricorreva in Cassazione, sostenendo la falsa applicazione dell’articolo 1117 e che la descrizione delle opere eseguite,nulla diceva circa l’incidenza sul decoro architettonico dell’edificio.
Ma la Suprema corte (Sez. II civile - sentenza 07.10.2016 n. 20248) precisava che, pur riconoscendo che la nozione di condominio va applicata anche alle villette a schiera, era da respingere l’altro motivo del ricorso, sia perché le valutazioni della Corte d’appello costituivano apprezzamenti adeguatamente motivati non sindacabili in sede di legittimità sia perché il condominio avrebbe dovuto impugnare l’interpretazione data al contenuto dell’articolo 5 del regolamento di condominio «con uno specifico motivo di ricorso sotto il profilo della violazione delle norme di ermeneutica contrattuale (articolo 1362 e seguenti del Codice civile) oppure di illogicità della motivazione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANiente «tenuità» per il locale della movida. Cassazione. L’applicazione di una pena vicina al masssimo per il disturbo della quiete pubblica esclude la non punibilità.
Niente particolare tenuità del fatto per il legale rappresentante di un locale nel quale la musica viene “sparata” a tutto volume, in modo da impedire il sonno di chi abita nelle vicinanze.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 06.10.2016 n. 42063, respinge un ricorso contro la condanna per il reato previsto dall’articolo 659 del Codice penale, che tutela le occupazioni o il riposo delle persone.
Al ricorrente (un locale della movida dell’hinterland milanese) era contestata la violazione del comma che punisce indistintamente chi con gli schiamazzi o con la musica, nell’ambito di uno spettacolo o di un luogo di ritrovo o nel corso di un intrattenimento pubblico, turba la “quiete” del vicinato.
Secondo il ricorrente, al più la sua condotta poteva essere inquadrata come illecito amministrativo che scatta quando i limiti di emissione sonori vengono superati esercitando un’attività o un mestiere rumoroso (articolo 10, comma 2, legge 447/1995).
Per la Cassazione però non è così. I giudici pur consapevoli di indirizzi contrastanti sul tema, affermano che è configurabile la violazione sanzionata dal comma 1 dell’articolo 659 del Codice penale, quando l’attività viene svolta andando oltre le normali modalità di esercizio, tanto da turbare la pubblica quiete. E che questo sia avvenuto nel caso esaminato emerge da una fitta serie di testimonianze e di esposti alle autorità. Atti dai quali risulta addirittura che alcuni abitanti esasperati avevano venduto la casa pur di trovare un po’ di pace.
Inutile per il ricorrente affermare il diritto alla non punibilità, previsto dall’articolo 131-bis. Per la Cassazione correttamente il giudice di merito ha escluso l’accesso alla norma “di favore”, in virtù dell’intensità del dolo e della gravità dell’offesa. La Suprema corte precisa che il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione «complessiva e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto della modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e del danno o del pericolo».
Nel caso esaminato a “deporre” contro il ricorrente c’erano la negazione delle circostanze attenuanti e l’applicazione di una pena molto vicina al massimo edittale, proprio in considerazione della gravità del reato (articolo 133, comma 1, del Codice penale).
Per i giudici della Terza sezione penale, l’articolo 131-bis può essere applicato solo quando, in virtù del principio di proporzionalità, «la pena in concreto applicabile risulterebbe inferiore al minimo edittale, determinato tenendo conto delle eventuali circostanze attenuanti»
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2016).
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MASSIMA
5.2. Palesemente inconferenti sono poi le deduzioni difensive articolate nel secondo motivo di ricorso, così come integrato dalla memoria del 10/06/2016.
Giova, preliminarmente, porre in luce come l'art. 659, inserito nel codice penale tra le contravvenzioni concernenti l'ordine pubblico e la tranquillità pubblica, preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al primo comma, la quale punisce il comportamento di colui il quale "mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici"; nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il fatto di "chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità".
Dunque,
mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità espressamente e tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell'autorità (Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez, Rv. 259194).
Controverso è il rapporto tra le due ipotesi di reato, così come quello tra le stesse e la disciplina dettata dall'art. 10, comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447 (cd. legge quadro sull'inquinamento acustico), la quale prevede un'ipotesi di illecito amministrativo nel caso in cui "nell'esercizio o nell'impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore" si superino "i valori limite di emissione o di immissione" fissati in conformità al disposto dell'art. 3, comma 1, lettera a) della stessa legge.
5.2.1. Secondo un primo indirizzo, "
il mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore stabiliti dal D.P.C.M. 01.03.1991 può integrare la fattispecie di reato prevista dall'art. 659, comma secondo, cod. pen., allorquando l'inquinamento acustico è concretamente idoneo a recare disturbo al riposo e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di persone, non essendo in tal caso applicabile il principio di specialità di cui all'art. 9 della legge n. 689 del 1981 in relazione all'illecito amministrativo previsto dall'art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995" (Sez. 3, n. 15919 in data 08/04/2015, CO.NA.VAR. S.r.l., Rv. 266627; Sez. 3 n. 37184 del 03/07/2014, Torricella, non massimata; Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013, Giovanelli e altro, Rv. 259156; Sez. 1, n. 33413 del 07/06/2012, Girolimetti, Rv. 253483; Sez. 1, n. 1561 del 05/12/2006, Rey ed altro, Rv. 235883; Sez. 1, n. 25103 del 16/04/2004, Amato, Rv. 228244, relativa ad un caso di superamento dei valori-limite di rumorosità prodotta nell'attività di esercizio di una discoteca).
Ciò in quanto le due disposizioni sarebbero poste a protezione di beni giuridici diversi: mentre le fattispecie previste dall'art. 659 cod. pen. tutelerebbero la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il riposo delle persone possano venire disturbate con schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad interferire nel normale svolgimento della vita privata di un numero indeterminato di persone, con conseguente messa in pericolo del bene della pubblica tranquillità, viceversa, la fattispecie contemplata dall'art. 10, comma 2, della legge n. 447 del 1995, tutelerebbe genericamente la salubrità ambientale e la salute umana, limitandosi a stabilire i limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali debba ritenersi sussistente l'inquinamento acustico, sanzionato in via amministrativa in considerazione dei danni che il rumore può produrre sia sul fisico che sulla psiche delle persone.
Secondo un opposto orientamento,
il superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall'esercizio di mestieri rumorosi configurerebbe l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, legge n. 447 del 1995 (cfr. Sez. 1, n. 530 del 03/12/2004, P.M. in proc. Termini e altro, Rv. 230890; Sez. 3, n. 2875 del 21/12/2006, Roma, Rv. 236091; Sez. 1, n. 48309 del 13/01/2012, Carrozzo e altro, Rv. 254088; Sez. 3, n. 13015 del 31/01/2014, Vazzana, Rv. 258702), atteso che a seguito dell'entrata in vigore della cd. legge quadro sull'inquinamento acustico il comma 2 dell'art. 659 cod. pen. sarebbe stato sostanzialmente abrogato, in applicazione del principio di specialità contenuto nell'art. 9 della legge 24.11.1981, n. 689, data la perfetta identità dell'ambito delineato dalla norma codicistica e di quello, di contenuto più ampio, sanzionato, solo in via amministrativa, in forza dell'altra disposizione.
Secondo un indirizzo intermedio, infine,
è configurabile l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, della legge n. 447/1995 ove si verifichi soltanto il superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia; la contravvenzione di cui al comma 1 dell'art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell'illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato; quella di cui al comma 2 dell'art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all'esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustiche (Sez. 3, n. 25424 del 05/06/2015, Pastore, non massimata; Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885; Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658; Sez. 1, n. 25601 del 19/04/2013, Casella, non massimata; Sez. 1, n. 39852 del 12/06/2012, Minetti, Rv. 253475; Sez. 1, n. 48309 del 13/11/2012, Carrozzo, Rv. 254088; Sez. 1, n. 44167 del 27/10/2009, Fiumara, Rv. 245563; Sez. 1, n. 23866 del 09/06/2009, Valvassore, Rv. 243807).
A favore di questo indirizzo si è rilevato, infatti, come l'affermazione secondo cui l'illecito amministrativo tuteli genericamente la salubrità ambientale sia smentito dal tenore letterale delle disposizioni contenute nella legge n. 447/1995, le quali, secondo l'art. 1, sono dettate per la "tutela dell'ambiente esterno e dell'ambiente abitativo dall'inquinamento acustico".
Tali disposizioni, all'art. 2, comma 1, lett. a), identificano l'inquinamento acustico nella "introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell'ambiente abitativo o dell'ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi"; e ancora, alla lettera b) del medesimo comma, identificano l'ambiente abitativo con "ogni ambiente interno ad un edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione per gli ambienti destinati ad attività produttive per i quali resta ferma la disciplina di cui al D.Lgs. 15.08.1991, n. 277, salvo per quanto concerne l'immissione di rumore da sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le attività produttive".
In questa prospettiva,
il bene giuridico tutelato dalla "legge-quadro [deve considerarsi] ben più ampio, in quanto il legislatore non si è limitato a prendere in esame esclusivamente la tutela dei singoli individui, perché la sua attenzione risulta focalizzata verso un ben più ampio contesto, valutando ogni possibile effetto negativo del rumore, inteso, appunto, come fenomeno "inquinante", tale cioè, da avere effetti negativi sull'ambiente, alterandone l'equilibrio ed incidendo non soltanto sulle persone, sulla loro salute e sulle loro condizioni di vita, facendo la norma riferimento, come si è detto, anche agli ecosistemi, ai beni materiali ed ai monumenti".
Pertanto, secondo questo indirizzo,
una piena sovrapponibilità tra le due fattispecie dell'art. 659, comma 2, e dell'art. 10 citato, deve aversi soltanto nel caso in cui l'attività rumorosa si sia concretata nel mero superamento dei valori limite di emissione specificamente stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro, causato mediante l'esercizio o l'impiego delle sorgenti individuate dalla legge medesima.
Ed in tali casi
, sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n. 1963/2011 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722, il concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve essere risolto a favore della disposizione speciale, costituita dalla fattispecie amministrativa.
Viceversa,
restano esclusi dall'ambito comune delle due ipotesi di illecito sia il superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti, sia l'insieme delle condotte che si estrinsecano nell'esercizio di attività rumorose svolte in violazione di altre disposizioni di legge o delle prescrizioni dell'autorità, trovando pacifica applicazione, in tali casi, l'art. 659, comma 2, cod. pen..
Quando poi le attività di cui sopra vengano svolte eccedendo dalle normali modalità di esercizio, rivelandosi idonee a turbare la pubblica quiete, sarà invece configurabile la violazione sanzionata dall'art. 659, comma 1, cod. pen. (per questo indirizzo si vedano: Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non massimata; e, soprattutto, Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885).

PUBBLICO IMPIEGOPa, niente risarcimento alternativo alla reintegra. Cassazione. Prevale la tutela dell’interesse collettivo per il buon funzionamento dell’amministrazione.
Ad avviso della Corte di Cassazione (Sez. lavoro - sentenza 06.10.2016 n. 20056) ai licenziamenti di cui sia stata dichiarata l’illegittimità nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico si applica il regime di tutela reale previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970 nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 92/2012.
È di pochi giorni fa una sentenza di segno opposto della stessa Corte (si veda «Il Sole 24 Ore» del 5 ottobre), nella quale è stato affermato che anche ai dipendenti della pubblica amministrazione si applica il regime di tutela introdotto dall’articolo 1 della legge 92/2012 di riforma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in forza del quale la tutela reintegratoria, a seconda che il giudice abbia accertato la sussistenza o la insussistenza del fatto alla base del licenziamento, può risultare alternativa alla tutela risarcitoria in ipotesi di recesso datoriale illegittimo.
Prosegue, dunque, il contrasto della giurisprudenza di legittimità sulla applicabilità al pubblico impiego contrattualizzato delle modifiche introdotte dalla legge Fornero con riferimento agli effetti sanzionatori del licenziamento invalido.
Con la sentenza di ieri, la Cassazione ritorna sulle argomentazioni sviluppate in un proprio recente indirizzo, secondo il quale le modifiche apportate dalla legge 92/2012 non potranno automaticamente essere estese ai dipendenti della pubblica amministrazione sino a un intervento di armonizzazione del ministero per le Semplificazione e la Pubblica amministrazione, così come previsto dall’articolo 1, commi 7 e 8, della medesima legge Fornero.
I fautori dell’indirizzo contrario hanno fondato l’estensione dell’articolo 18 post Fornero, tra gli altri rilievi, sul presupposto che l’articolo 51, comma 2, del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego) prevede espressamente l’applicazione della legge 300/1970, e successive modificazioni e integrazioni, ragion per cui esisterebbe un preciso riferimento nella legislazione primaria circa l’immediata precettività dell’articolo 18 nella versione dopo le modifiche della legge 92/2012.
Con la sentenza depositata ieri, la Cassazione dichiara di non condividere questa lettura, ritenendo che il riferimento dell’articolo 51, comma 2, del Testo unico alla legge 300/1970 sia da interpretare non come rinvio mobile, ovvero alla disciplina statutaria tempo per tempo vigente, bensì come rinvio fisso a una fonte di legge cristallizzata alla data in cui è stata introdotta.
La Corte riconosce che tale interpretazione comporta il permanere di una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura, privata o pubblica, dei rapporti di lavoro coinvolti, ma respinge con nettezza ogni sospetto di incostituzionalità. Rileva la Corte, a questo proposito, che il lavoro privato e il lavoro pubblico, sebbene contrattualizzato, sono caratterizzati da una obiettiva diversità, in quanto nel comparto pubblico è presente, diversamente dal privato, la necessità di far prevalere la tutela dell’interesse collettivo al buon funzionamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.
Rispetto a questa esigenza, ad avviso della Cassazione, la sanzione reintegratoria è l’unico strumento di rimedio a fronte di un licenziamento illegittimo, laddove la sola tutela risarcitoria mediante riconoscimento di un indennizzo economico non è idonea a rimuovere il pregiudizio arrecato all’interesse collettivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATASottotetto parte comune fino a prova contraria. Presunzioni. Contano le caratteristiche funzionali.
Il sottotetto è parte comune fino a prova contraria.
Con la sentenza 06.10.2016 n. 20038 la Corte di Cassazione, Sez. II civile, ha sottolineato un importante principio giuridico in tema di diritto condominiale.
La questione verteva sull’appropriazione del sottotetto condominiale da parte dell’originario proprietario del palazzo e del tentativo di un condomino di ottenere dal giudice l’attestazione di condominialità della parte in oggetto.
La Corte ha, infine, sancito definitivamente la natura condominiale del sottotetto in oggetto operando il seguente ragionamento giuridico: non è possibile affermare a priori la natura comune o privata di un sottotetto in quanto, per definizione, la parte può essere entrambe, a seconda delle caratteristiche strutturali o funzionali.
L’articolo 1117 del Codice civile dispone, infatti, una presunzione di condominialità del sottotetto ma questa può essere superata da chi si afferma esclusivo proprietario mediante la presentazione di un titolo o per l’assenza di concreta funzione di utilità o servizio per lo stabile.
Secondo la Suprema Corte inoltre tale presunzione «è in ogni caso applicabile nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti oggettivamente destinato all’uso comune oppure all’esercizio di un servizio di interesse condominiale, quando tale presunzione non sia superata dalla proprietà esclusiva».
In conclusione, quindi, il sottotetto è sempre parte comune fino a prova contraria, data da un titolo certo di proprietà o dall’assenza di funzione per il condominio
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2016).
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MASSIMA
3) Il primo motivo è infondato.
Secondo i principi affermati dalla giurisprudenza,
l'appartenenza del sottotetto di un edificio va determinata in base al titolo, in mancanza o nel silenzio del quale, non essendo esso compreso nel novero delle parti comuni dell'edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie all'uso comune, la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c. è, in ogni caso, applicabile nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionati, risulti oggettivamente destinato all'uso comune oppure all'esercizio di un servizio di interesse condominiale, quando tale presunzione non sia superata dalla prova della proprietà esclusiva (Cass. 11.01.2016 n. 233; Cass. 19.02.2013 n. 4083; Cass. 29.12.2004 n. 24147; Cass. 19.12.2002 n. 18091).
Più in particolare, è stato precisato che,
in tema di condominio, per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali, sicché, quando il sottotetto sia oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all'uso comune o all'esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117, comma 1, c.c.; viceversa, allorché il sottotetto assolva all'esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall'umidità l'appartamento dell'ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento (Cass. 30.03.2016 n. 6143; (Cass. 12.08.2011 n. 17249).

INCARICHI PROFESSIONALIParcella senza valore di prova. Il legale deve dimostrare puntualmente il lavoro fatto. AVVOCATI/ Sentenza della Corte di cassazione sulla valenza probatoria della fattura.
Nel giudizio di opposizione la parcella dell'avvocato non assume valore di prova.

Il professionista che intende riscuotere la propria parcella deve riuscire a provare specificamente l'attività svolta. Difatti, secondo il parere della Corte di Cassazione - Sez. II civile, contenuto nella sentenza 04.10.2016 n. 19800, la fattura del legale non assume valore probatorio nel giudizio di opposizione poiché costituisce una semplice dichiarazione unilaterale del medesimo professionista.
Questo anche se in materia di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di prestazioni professionali, la parcella corredata di relativo parere da parte del competente Consiglio dell'Ordine, abbia valore di prova privilegiata e carattere vincolante ai fini della pronuncia dell'ingiunzione.
La Suprema corte ha, così, respinto il ricorso di un avvocato, che aveva prima ottenuto il decreto ingiuntivo per il pagamento del compenso per prestazioni professionali, come indicato nella parcella corredata di parere del relativo Ordine forense.
Tuttavia, il cliente debitore aveva impugnato il suddetto decreto ingiuntivo, con opposizione accolta in appello. Dunque, l'opponente aveva eccepito non solo l'avvenuto pagamento di parte del compenso di spettanza del proprio difensore, ma aveva anche contestato l'effettivo svolgimento delle attività richiamate in parcella, negando qualunque valore probatorio a quest'ultimo documento.
In particolare, sulla base del proprio consolidato orientamento, il giudice di legittimità afferma che in tema di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di prestazioni professionali, la parcella corredata dal parere del competente Consiglio dell'Ordine forense, «mentre ha valore di prova privilegiata e carattere vincolante per il giudice ai fini della pronuncia dell'ingiunzione, non ha -costituendo semplice dichiarazione unilaterale del professionista- valore probatorio nel successivo giudizio di opposizione».
Per determinare detto onere probatorio a carico del professionista, è sufficiente anche una contestazione di carattere generico. Per cui il ricorso dell'Avvocato è stato rigettato e ha pure dovuto pagare le relative spese legali (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016).

PUBBLICO IMPIEGO«Pa», inabilità con licenziamento. Applicabile il regime sanzionatorio dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Cassazione. Anche nel pubblico con l’impossibilità assoluta al lavoro non si configura un’ipotesi di risoluzione automatica.

Il recesso datoriale intervenuto nell'ambito di un rapporto di pubblico impiego a seguito di accertamento medico di inabilità assoluta e permanente alle mansioni non costituisce ipotesi di risoluzione automatica del contratto di lavoro, ma integra gli estremi di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a cui si applica il regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970.
La Corte di Cassazione -Sez. lavoro- ha reso questo principio con la sentenza 04.10.2016 n. 19774, affermando che anche nel lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione la forma tipica di recesso del datore di lavoro, in difetto di norme speciali, è costituita unicamente dall’atto di licenziamento, senza che, in contrario avviso, possa avere alcuno spazio una fattispecie di recesso assimilabile alla risoluzione automatica del rapporto di lavoro.
Il caso su cui è intervenuta la Cassazione era relativo al provvedimento di dispensa dal servizio adottato con effetto immediato dalla Regione Lombardia nei confronti di un proprio dipendente, il quale, a seguito di accertamento medico, era stato ritenuto inabile in modo assoluto e permanente a qualsiasi attività lavorativa. La Corte di appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale di primo grado, aveva dichiarato la illegittimità del provvedimento datoriale di risoluzione del rapporto di lavoro, disattendendo la tesi per cui le ragioni sullo stato di salute alla base del recesso potessero integrare un’ipotesi di risoluzione automatica del rapporto ed esulare, quindi, dallo specifico regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi.
La Cassazione condivide la tesi coltivata dalla Corte territoriale e conferma che la risoluzione del rapporto di lavoro per sopravvenuta inidoneità psicofisica del dipendente alle mansioni, anche se adottata all’esito del giudizio espresso dalla Commissione medica nel contesto di specifiche disposizioni previste per il pubblico impiego, costituisce licenziamento per giustificato motivo oggettivo e ricade nel regime sanzionatorio di cui all’articolo dello 18 Statuto dei lavoratori, nella versione successiva alla riforma introdotta dalla Legge 92/2012 (Legge Fornero).
Il comma 7 dell’articolo 18, a cui espressamente si riferisce la Corte di cassazione, recita che si applica la reintegrazione in servizio, con ulteriore indennità fino ad un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in ipotesi di difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
A questa specifica disposizione la corte di legittimità riconduce, nel contesto del pubblico impiego privatizzato, il licenziamento intimato ai sensi dell’articolo 55 del Decreto legislativo 165/2001 in un caso di «permanente inidoneità psicofisica del lavoratore», evidenziando che anche in questa ipotesi il recesso datoriale non costituisce un effetto automatico, bensì una tra le opzioni cui la pubblica amministrazione è legittimata a ricorrere.
Merita rilevare come con questa pronuncia la Cassazione ritorni sulla vexata quaestio della applicabilità al pubblico impiego dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella sua versione precedente o successiva alla riforma introdotta dalla Legge Fornero, sposando quella tesi più avanzata che è stata, invece, rigettata da un diverso orientamento maturato in seno alla Suprema corte
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.10.2016).
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MASSIMA
Il secondo motivo è infondato.
Al riguardo, si osserva, in primo luogo, che il decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nel determinare all'art. 2 le fonti del rapporto di pubblico impiego privatizzato, indica le "disposizioni del capo I, titolo H, del libro V del codice civile" (artt. 2082-2134 c.c.) ed inoltre le "leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa", fatte salve le diverse disposizioni contenute nello stesso decreto n. 165/2001 "che costituiscono disposizioni a carattere imperativo".
Ne consegue che,
in linea generale, la forma tipica del recesso del datore di lavoro è, anche per l'impiego privatizzato, quella del licenziamento, senza che, in difetto di norme speciali, possano trovare ingresso cause di risoluzione automatica del rapporto.
In coerenza con tale premessa, di ordine generale e sistematico,
l'art. 55-octies d.lgs. n. 165/2001, prevede, per il caso di "permanente inidoneità psicofisica" del dipendente, che l'amministrazione di appartenenza "può risolvere il rapporto di lavoro", in tal modo confermando lo schema della sussistenza di un diritto potestativo di recesso in capo alla medesima, cui si contrappone, peraltro con le previste garanzie sostanziali e processuali, la posizione di soggezione del lavoratore.
Né può consentirsi una diversa lettura della norma primaria sul rilievo che il regolamento di attuazione, di cui al D.P.R. 27.07.2011, n. 171, adotti una diversa formulazione normativa, nel senso che,
in caso di accertata permanente inidoneità psicofisica assoluta ai servizio del dipendente, l'amministrazione "risolve il rapporto di lavoro", posto che, al di là di ogni pur assorbente considerazione sul rapporto gerarchico tra le fonti del caso concreto, resta che, anche di fronte ad una inidoneità "assoluta" (ovvero, più esattamente, presentata o emergente come tale), l'amministrazione conserva il diritto di esercitare o meno, senza vincoli di automatismo, il potere che le è attribuito, vagliando, a tutela del proprio interesse, se il procedimento, attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, corrisponda alle previsioni che presiedono al suo regolare svolgimento, se le sue conclusioni siano adeguatamente motivate o se, invece, non pongano dubbi sulla loro effettiva plausibilità, se non debba ritenersi opportuno un qualche momento di integrazione e di ulteriore approfondimento.
D'altra parte, è consolidato l'orientamento, secondo il quale "ai fini dell'accertamento dell'idoneità al servizio dei dipendenti di aziende locali di trasporto pubblico, il parere della Commissione medica di cui all'art. 1 del decreto del 23.02.1999, n. 88, concernente il controllo dell'idoneità fisica e psicoattitudinale del personale addetto ai servizi pubblici di trasporto, non è vincolante per il giudice di merito adito per l'accertamento della illegittimità del licenziamento disposto a seguito di detto accertamento, avendo egli -anche in riferimento ai principi costituzionali di tutela processuale- il potere di controllare l'attendibilità degli esami sanitari effettuati dalla predetta Commissione, sicché il datore di lavoro, nel momento in cui opera il licenziamento, agisce, come già argomentato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 420 del 1998, accollandosi il rischio di impresa avente ad oggetto la possibilità che l'Organo giudicante possa giudicare in modo contrario l'idoneità del dipendente" (Cass. 08.02.2008 n. 3095; conforme Cass. n. 16195/2011).

APPALTISoccorso istruttorio, deciderà la Corte Ue. Compatibilità in materia di concorrenza.
La disciplina del soccorso istruttorio, con presenza di una sanzione pecuniaria, potrebbe essere in violazione delle direttive europee sugli appalti e del principio di concorrenza.

È quanto ha affermato il TAR Lazio-Roma con l'ordinanza 03.10.2016 n. 10012 della Sez. III che rimette alla Corte di giustizia della Ue la questione interpretativa pregiudiziale attinente l'articolo 38, comma 2-bis del vecchio codice dei contratti pubblici. Si tratta di vicenda che mantiene un suo interesse anche con riferimento al nuovo codice dei contratti (dlgs 50/2016) che disciplina il soccorso istruttorio all'articolo 83, pur con la differenza che la sanzione pecuniaria è dovuta solo in caso di regolarizzazione.
In particolare ï giudici romani hanno chiesto alla Corte europea di verificare, in rapporto alla disciplina prevista dagli artt. 45 e 51 della Direttiva 2004/18/Ce e ai principi di massima concorrenza, proporzionalità, parità di trattamento e non discriminazione in materia di procedure per l'affidamento li appalti pubblici, se uno Stato, pur potendo imporre il carattere oneroso del soccorso istruttorio con efficacia sanante, finisca comunque a violare il diritto comunitario.
La tesi del Tar del Lazio è che il pagamento di una sanzione pecuniaria, nella misura che deve essere fissata dalla stazione appaltante («non inferiore all'uno per mille e non superiore all'1% del valore della gara e comunque non superiore a 50 mila euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria», limiti che anche oggi sono presenti nel nuovo codice dei contratti pubblici), potrebbe essere illegittimo il profilo dell'importo eccessivamente elevato e del carattere predeterminato della sanzione stessa; inoltre la sanzione sarebbe illegittima in quanto non graduabile in rapporto alla situazione concreta da disciplinare o alla gravità dell'irregolarità sanabile.
In secondo luogo i giudici hanno chiesto alla Corte europea di verificare se la stessa norma sia contrastante con il diritto comunitario, in quanto la stessa onerosità del soccorso istruttorio può ritenersi in contrasto con i principi di massima apertura dei mercato alla concorrenza (articolo ItaliaOggi del 14.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, nelle gare telematiche niente deroghe alle procedure. Consiglio di Stato. Firma elettronica da fissare prima dei termini per la partecipazione.
La firma digitale rappresenta l’elemento di certezza del firmatario dell’offerta nelle gare interamente gestite telematicamente, che prevedono una serie di attività in sequenza volte a garantire la sicurezza delle fasi di invio e di ricezione dei documenti.
Con la sentenza 03.10.2016 n. 4050 il Consiglio di Stato, Sez. III, evidenzia l’importanza delle operazioni che devono essere sviluppare dagli operatori economici nelle procedure nei mercati elettronici e su altre piattaforme informatiche.
La pronuncia evidenzia come ciò che caratterizza le gare telematiche rispetto a una tradizionale gara d’appalto sia l’utilizzo di una piattaforma on-line di e-procurement e di strumenti di comunicazione digitali (firma digitale e Pec), che di fatto rendono l’iter più efficiente, veloce e sicuro rispetto a quello tradizionale, basato sull’invio cartaceo della documentazione e delle offerte.
Le fasi di gara seguono una successione temporale che offre garanzia di corretta partecipazione, inviolabilità e segretezza delle offerte: la firma digitale garantisce infatti la certezza del firmatario dell’offerta e la marcatura temporale (prevista in varie piattaforme telematiche) ne garantisce la data certa di firma e l’univocità della stessa.
Il Consiglio di Stato rileva che attraverso l’apposizione della firma, da effettuare inderogabilmente prima del termine fissato per la partecipazione, e la trasmissione delle offerte esclusivamente durante la successiva fase di finestra temporale, si garantisce la corretta partecipazione e inviolabilità delle offerte.
I sistemi provvedono, infatti, alla verifica della validità dei certificati e della data e ora di marcatura: l’affidabilità degli algoritmi di firma digitale garantiscono la sicurezza delle fasi di invio e di ricezione delle offerte in busta chiusa.
Nella sentenza si pone in rilievo un aspetto peculiare: nella gara telematica la conservazione dell’offerta è affidata allo stesso concorrente, garantendo che questa non venga, nelle more, modificata proprio attraverso l’imposizione dell’obbligo di firma nel termine fissato per la presentazione delle offerte.
La firma digitale (e l’eventuale marcatura temporale) corrispondono quindi alla chiusura della busta nella procedura tradizionale, mentre
Alla chiusura del periodo di upload, le offerte sono disponibili nel sistema in forma “chiusa”: al momento della loro apertura mediante le funzionalità del sistema, lo stesso redige in automatico la graduatoria, tenendo conto anche dei punteggi tecnici attribuiti dalla commissione giudicatrice.
Proprio l’intervento dell’organo valutatore nelle procedure con l’offerta economicamente più vantaggiosa è uno dei profili di maggiore complessità, in quanto si sviluppa offline e si traduce nel riversamento dei punteggi attribuiti nella procedura telematica. Molte piattaforme si stanno evolvendo, con la definizione di funzioni che consentono di registrare le attività della commissione, come quelle di recente introdotte nel Mepa.
L’importanza dell’utilizzo delle procedure telematiche è sancita non solo dall’obbligo di utilizzo per l’acquisizione di beni e servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria stabilito dall’articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, ma anche dal rafforzamento determinato dal comma 2 dell’articolo 37 del nuovo Codice dei contratti, che lo individua come strumento necessario per le stazioni appaltanti per operare entro la fascia di valore tra 40mila euro e le soglie comunitarie (e un milione di euro per i lavori di manutenzione ordinaria).
Qualora, infatti, l’amministrazione non avesse modo di utilizzare il mercato elettronico o la piattaforma telematica, dovrebbe rivolgersi a una centrale di committenza (obbligo per i Comuni capoluogo) o sviluppare una procedura ordinaria, a evidenza pubblica
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2016).
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MASSIMA
3.1. - Non può condividersi la doglianza dell’appellante.
La tesi sostenuta si incentra sostanzialmente su una interpretazione letterale distorta, da cui si intende desumere la diversità dei files concernenti, l’uno, l’offerta economica telematica, e, l’altro, il dettaglio dell’offerta economica, da presentare in due fasi diverse, con distinti termini di scadenza.
Ma la tesi trascura che i files, pur distinti, sono complementari e rappresentano entrambi la predisposizione dell’offerta economica in busta chiusa.
3.2. -Va precisato che
ciò che caratterizza le gare telematiche rispetto ad una tradizionale gara d'appalto è l'utilizzo di una piattaforma on-line di e-procurement e di strumenti di comunicazione digitali (firma digitale e PEC), che di fatto rendono l’iter più efficiente, veloce e sicuro rispetto a quello tradizionale, basato sull'invio cartaceo della documentazione e delle offerte.
Le fasi di gara seguono una successione temporale che offre garanzia di corretta partecipazione, inviolabilità e segretezza delle offerte: la firma digitale garantisce infatti la certezza del firmatario dell’offerta e la marcatura temporale ne garantisce la data certa di firma e l'univocità della stessa.
Attraverso l’apposizione della firma e marcatura temporale, da effettuare inderogabilmente prima del termine perentorio fissato per la partecipazione, e la trasmissione delle offerte esclusivamente durante la successiva fase di finestra temporale, si garantisce la corretta partecipazione e inviolabilità delle offerte.
I sistemi provvedono, infatti, alla verifica della validità dei certificati e della data e ora di marcatura: l’affidabilità degli algoritmi di firma digitale e marca temporale garantiscono la sicurezza della fase di invio/ricezione delle offerte in busta chiusa.
Nella gara telematica la conservazione dell’offerta è affidata allo stesso concorrente, garantendo che questa non venga, nelle more, modificata proprio attraverso l’imposizione dell’obbligo di firma e marcatura nel termine fissato per la presentazione delle offerte.
Firma e marcatura corrispondono alla “chiusura della busta”.
Il Timing di gara indica all’impresa non solo il termine ultimo perentorio di “chiusura della busta”, ma anche il periodo e relativo termine ultimo di upload (trasferimento dei dati sul server dell’Azienda appaltante).
Alla chiusura del periodo di upload, le offerte in busta chiusa sono disponibili nel sistema; al momento dell’apertura delle offerte il sistema redige in automatico la graduatoria, tenendo conto anche dei punteggi tecnici attribuiti dalla Commissione, graduatoria che viene pubblicata con l’indicazione delle offerte pervenute, del punteggio tecnico ed economico complessivo attribuito e del miglior prezzo.
Inoltre, nessuno degli addetti alla gestione della gara potrà accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla data ed all'ora di seduta della gara, specificata in fase di creazione della procedura.

APPALTIAppalti, il nuovo rito al futuro. Applicazione sui bandi pubblicati dopo il 19.04.2016. Il Tar Toscana si è espresso sul contenzioso alla luce del decreto legislativo 50/2016.
Nel contenzioso sugli appalti il nuovo rito «anticipato e in prevenzione» non è immediatamente applicabile ai giudizi pendenti, ma solo ai bandi pubblicati successivamente all'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti (dlgs 50/2016), cioè il 19.04.2016.

Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. I, con la sentenza 03.10.2016 n. 1415.
La vicenda ha preso le mosse dall'impugnazione del provvedimento di ammissione di una cooperativa a una gara d'appalto di servizi. L'azione era stata proposta da un'altra cooperativa che aveva utilizzato il congegno dell'art. 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo, in base al quale le esclusioni e le ammissioni sono aggredibili entro trenta giorni.
In primo luogo il collegio ha richiamato il tradizionale principio secondo cui «il concorrente, mentre ha interesse a dolersi della propria esclusione dalla gara ovvero di clausole impeditive della partecipazione, non è titolare di un'analoga posizione nel caso intenda contestare l'ammissione di altro partecipante dal momento che tale atto, di natura endoprocedimentale, non possiede un'autonoma lesività». In secondo luogo i giudici fiorentini hanno però evocato il problema dell'inammissibilità anche sotto un altro e più pregnante profilo, e cioè con riferimento alla non immediata applicabilità del predetto art. 120.
Infatti, argomentazioni di natura letterale e sistematica ostano -secondo un'opinione opposta a quella espressa dal Tar Reggio Calabria n. 829 del 2016 e nonostante la natura processuale della norma- all'immediata applicabilità del rito introdotto dall'art. 204 del decreto legislativo n. 50 del 2016, riguardando esso solo i nuovi bandi.
L'impossibilità di dare immediata applicazione al meccanismo traspare significativamente anche dalle rigide (e oggi difficilmente applicabili) norme di trasparenza richieste dall'art. 29 del nuovo codice degli appalti, cioè per esempio il pubblicare sul profilo del committente e in tempi rapidissimi i provvedimenti di esclusione e di ammissione. In sintonia con la dottrina, il Tar ha infine affermato che il nuovo e speciale sottosistema processuale è legato al riassetto complessivo del sistema della contrattualistica pubblica (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALILiti, chi rilascia procura non sempre deve pagare.
Obbligato a corrispondere il compenso professionale all'avvocato per l'opera professionale richiesta non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite.

È quanto sostenuto dai giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con sentenza 30.09.2016 n. 19416.
I giudici hanno anche evidenziato che il compenso può anche essere corrisposto da colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell'interesse di un terzo. Infatti, è questa l'ipotesi nella quale verrà a instaurarsi un altro distinto rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente verrà assunta non dal patrocinato, ma dal soggetto che ha richiesto per lui l'opera professionale.
Gli Ermellini si sono quindi interrogati, in concreto, se il mandato di patrocinio provenga dalla stessa parte rappresentata in giudizio, o invece da un altro soggetto che abbia perciò assunto a proprio carico l'obbligo del compenso. Anche perché non è infrequente che una parte, la quale debba essere rappresentata e difesa in un giudizio destinato a svolgersi in una città diversa da quella della propria residenza, non conoscendo legali di quel foro, si rivolga a un professionista della propria città, e che sia poi quest'ultimo a metterla in corrispondenza con un legale del foro ove deve aver luogo il processo, al quale la parte conferisce il mandato ad litem.
Pertanto, secondo i giudici di piazza Cavour sarà possibile che «la parte abbia inteso intrattenere un rapporto di clientela unicamente con il professionista che già conosceva, ed abbia conferito al legale dell'altro foro soltanto la procura tecnicamente necessaria all'espletamento della rappresentanza giudiziaria: sicché il mandato di patrocinio in favore di quest'ultimo non proviene dalla parte medesima, bensì dal primo professionista, che ha individuato e contattato il legale del foro della causa e sul quale graverà perciò l'obbligo di corrispondere il compenso» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016).

SEGRETARI COMUNALISegretari, nuovo round sui diritti di rogito.
Nuovo round sui diritti di rogito dei segretari comunali. Il Tribunale di Milano smentisce ancora la Corte dei conti, riaffermando che l'emolumento deve essere riconosciuto a tutti coloro che operano in enti privi di dirigenza, indipendentemente dalla fascia professionale. Secondo i giudici contabili, invece, ad averne diritto sono solo i segretari di fascia C, sulla base di una lettura che strizza l'occhio alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e che quindi è condivisa anche dalla Ragioneria generale dello Stato.

Come noto (si veda ItaliaOggi del 22.04.2016), la questione nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014: esso dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
Tale norma ha dato luogo a due interpretazioni diverse: da un lato, si è affermato che l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di enti di piccole dimensioni collocati in fascia C, dall'altro lato si è argomentato che negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale i diritti spettano a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato il segretario.
Sul primo fronte si è schierata compatta la Corte dei conti, anche perché in tal senso si è espressa la sezione delle autonomie con la deliberazione n. 21/2015. Di recente, tale restrittiva lettura è stata confermata dalla Sezione regionale di controllo per l'Emilia-Romagna (deliberazione n. 74/2016).
Sul fronte opposto, troviamo, invece, il TRIBUNALE del lavoro di Milano, che nei giorni scorsi è tornato a pronunciarsi in modo netto sul tema con la sentenza 29.09.2016 n. 2516.
In tale pronuncia, si afferma che «le considerazioni svolte dalla Corte dei Conti, potrebbero, in linea di principio, essere condivisibili laddove attribuiscono un rilievo preminente all'interesse pubblico rispetto all'interesse del singolo segretario, tuttavia paiono offrire un'interpretazione della norma che mal si concilia con il dettato normativo. In sostanza, nell'intento di salvaguardare beni pur meritevoli di tutela, finisce per restringere il campo di applicazione della norma compiendo un'operazione di chirurgia giuridica non consentito nemmeno in nome della res pubblica».
Insomma, un vero caos che a questo punto può essere risolto solo dal legislatore (articolo ItaliaOggi del 06.10.2016).

CONDOMINIOCondomini, regolamenti sacri. Non è fatto rilevante che sia avvenuta la trascrizione. Secondo la Cassazione basta la menzione perché l'atto sia vincolante tra le parti.
Regolamento di condominio «sacro» anche senza l'avvenuta trascrizione. Chi acquista un locale (in un contesto di immobili adibiti esclusivamente allo svolgimento di libere attività professionali) e poi non vuole avere «cattive» sorprese dal proprietario vicino (che intende dare in affitto l'ufficio ad una società che, invece, svolge attività commerciale) può fruire delle norme favorevoli contenute nel regolamento condominiale soltanto menzionandone le relative clausole nel contratto di acquisto. Non occorre a tal fine l'avvenuta trascrizione del regolamento.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. II civile, con sentenza 28.09.2016 n. 19212, secondo cui basta che il regolamento condominiale sia solo menzionato per essere vincolante tra le parti.
Per conseguenza, negli appartamenti adibiti a studi professionali non è possibile esercitare l'attività di centri estetici (essendone prevista, nel caso di specie, dal regolamento condominiale solo a piano terra). Le clausole del regolamento condominiale vanno, quindi, rispettate e a ciò non influisce la mancata trascrizione a cura del Notaio rogante.
Difatti, la Suprema corte ritiene che tali clausole (che impongono limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà) sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti, per il semplice fatto che risultano menzionate nel contratto. La Cassazione ha, così, accolto il ricorso di due avvocati proprietari di due studi legali adiacenti ad un centro estetico condotto da una società. Respinta, quindi, la tesi della Corte d'appello che riteneva necessaria la trascrizione del regolamento condominiale.
Nel caso di specie, il regolamento condominiale dell'edificio prevedeva che i singoli appartamenti dovessero essere adibiti esclusivamente allo svolgimento di libere attività professionali, la vicina aveva, invece, locato il suo appartamento a una società che lo aveva destinato a centro estetico; attività che aveva comportato la diffusione di musica ad alto volume e l'utilizzo «in maniera smodata» delle strutture dell'edificio. Per cui i ricorrenti hanno chiesto e hanno ottenuto la condanna all'immediata cessazione delle predette attività (articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016).
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Con il secondo ed ultimo motivo il ricorrente nel denunciare omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo, oltre a violazione dell'art. 112 c.p.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 1341 e 1372 c.c., lamenta che la decisione abbia interpretato in modo irragionevole la clausola contrattuale, debitamente trascritta -relativa all'accettazione del Regolamento condominiale-, che diversamente rientrava per relationem nel testo della compravendita.
Né -diversamente da quanto affermato dalla corte territoriale- vi era la necessità di un ulteriore requisito, quale l'avvenuta trascrizione del Regolamento, per la sua efficacia, una volta intervenuta l'accettazione. Aggiunge il ricorrente che la corte di merito avrebbe dovuto, inoltre, tenere conto del documento prodotto attestante l'avvenuta trascrizione del Regolamento.
Il motivo è fondato.
La Corte d'appello ha accertato, in fatto, che nell'atto di acquisto dell'unità immobile sita nell'edificio in questione vi era un riconoscimento, seppure generico, del regolamento condominiale, che comprende diritti ed obblighi da esso derivanti, tra i quali il divieto di adibizione dell'appartamento ad uso diverso da studio professionale. Da ciò ha desunto, in diritto, la inopponibilità della clausola in questione, comportante una obbligazione propter rem, che era inefficace per l'acquirente, anche in mancanza della trascrizione dell'atto che lo imponeva.
La decisione non è in linea con la giurisprudenza di questa Corte (Casa. 03.07.2003 n. 10523; Casa. 14.01.1993 n. 395; Cass. 26.05.1990 n. 4905) secondo cui "
le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale, che può imporre limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti, di loro esclusiva proprietà purché siano enunciate in modo chiaro ed esplicito, sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione nell'atto di acquisto, si sia fatto riferimento al regolamento di condominio, che -seppure non inserito materialmente- deve ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto".
L'assunto del ricorrente è, dunque, condivisibile.
La trascrizione, salvo i casi in cui le sono attribuite particolari funzioni soltanto notiziali oppure costitutive, è destinata normalmente a risolvere i conflitti tra diritti reciprocamente incompatibili, facendo prevalere quello il cui atto di acquisto è stato inserito prioritariamente nel registro immobiliare. Presupposto indefettibile dell'operatività dell'istituto è quindi la concorrenza di situazioni giuridiche soggettive che risultino in concreto inconciliabili, alla stregua dei titoli da cui rispettivamente derivano.
Una tale situazione di conflitto non si verifica però quando una proprietà viene espressamente acquistata come limitata da altrui diritti, per i quali una precedente trascrizione non è quindi indispensabile, in quanto il bene non è stato trasferito come libero, né l'acquirente può pretendere che lo diventi a posteriori, per il meccanismo della "inopponibilità". In questo senso è univocamente orientata la giurisprudenza di legittimit
à (cfr. Casa. n, 17886 del 2009).
La Corte d'appello ha perciò errato decidendo nel senso della necessità della trascrizione del regolamento condominiale e della inopponibilità della clausola de qua, essendo nell'atto di acquisto della Ma. richiamato il Regolamento.

PUBBLICO IMPIEGOUffici legali insopprimibili. Tar: garantire l'autonomia degli avvocati.
È illegittimo sopprimere gli uffici legali degli enti pubblici e sostituirli con una struttura destinata a curare gli affari legali insieme ad altre attività.

Questo è quanto ha sancito il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I con la sentenza 28.09.2016 n. 1879.
Secondo i giudici amministrativi, infatti, ai fini dell'esercizio dell'attività forense da parte di avvocati dipendenti da enti pubblici, l'esistenza di un'autonoma articolazione organica dell'ufficio legale dell'ente risulta indispensabile affinché l'attività professionale, sebbene svolta in forma di lavoro dipendente, possa essere svolta con modalità che assicurino, oltre alla libertà dell'esercizio dell'attività di difesa, propria della figura professionale, anche l'autonomia del professionista.
Lo stesso art. 23 legge 31.12.2012, n. 247, stabilisce che agli avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici deve venire assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente e un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta, oltre ad essere iscritti in un elenco speciale annesso all'albo.
L'autonomia dell'ufficio legale, quindi, è pretesa dalla stessa legge.
Alla luce di queste considerazioni, nel caso in rassegna, il collegio afferma che non può che ritenersi illegittimo il decreto (nella specie del commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi nel settore sanitario della regione Calabria) nella parte in cui non prevede più l'esistenza autonoma di un ufficio legale e la sua sostituzione con una struttura denominata «Affari generali, legali ed assicurativi» destinata a curare gli affari legali delle aziende insieme ad altre attività estranee al ministero professionale dell'avvocato (curare la corrispondenza dell'ente, gestire il protocollo e collaborare alle attività di risk management).
Tale previsione si pone in stridente contrasto con la legge, e comporta la cancellazione degli avvocati dipendenti delle aziende dall'albo professionale e la conseguente necessità di attribuire ad avvocati del libero foro il compito di rappresentare e difendere l'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 05.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
8. – Nel merito, i motivi aggiunti sono fondati.
La giurisprudenza (cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 14.01.2008, n. 7; TAR Lazio-Latina, 30.03.2009, n. 255) ha già da tempo chiarito che
la peculiarità dell'attività forense, che vuole l'avvocato libero di esercitare la difesa del proprio patrocinato, mal si presta ad essere inquadrata in una struttura di tipo gerarchico; al contrario, l'esistenza di un'autonoma articolazione organica dell'ufficio legale dell'ente risulta indispensabile affinché l'attività professionale, ancorché svolta in forma di lavoro dipendente, possa essere svolta con modalità che assicurino, oltre alla libertà dell'esercizio dell'attività di difesa -propria della figura professionale- anche l'autonomia del professionista.
Anche la Corte di Cassazione, pronunziandosi a Sezioni Unite, ha affermato che
al fine dell'iscrizione negli elenchi speciali annessi all'albo degli avvocati è richiesto che presso l'ente pubblico esista un ufficio legale costituente un'unità organica autonoma e che coloro i quali sono ad esso addetti esercitino con libertà ed autonomia le loro funzioni di competenza, con sostanziale estraneità all'apparato amministrativo, in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione (Cass. Civ., Sez. Un., 18.04.2002, n. 5559).
Di recente, l’intervento del legislatore ha ribadito tali principi.
Infatti, l’art. 23 l. 31.12.2012, n. 247, stabilisce che
gli avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici, ai quali venga assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta, sono iscritti in un elenco speciale annesso all'albo.
Per l'iscrizione nell'elenco gli interessati presentano la deliberazione dell'ente dalla quale risulti la stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente stesso e l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni; la responsabilità dell'ufficio è affidata ad un avvocato iscritto nell'elenco speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i principi della legge professionale.
L’autonomia dell’ufficio legale, quindi, è pretesa dalla stessa legge.

9. – Nel caso di specie, al contrario, viene prevista la creazione di un'unica struttura, destinata a curare gli affari legali delle aziende insieme ad altre attività estranee al ministero professionale dell’avvocato (curare la corrispondenza dell’Ente, gestire il protocollo, collaborare alle attività di risk managment).
Tale previsione si pone in stridente contrasto con la legge, e comporta, come denunciato dal ricorrente, la cancellazione degli avvocati dipendenti delle aziende dall’albo professionale e la conseguente necessità di attribuire ad avvocati del libero foro il compito di rappresentare e difendere l’amministrazione. Ciò in violazione delle finalità che il decreto commissariale impugnato persegue.
10. – In conclusione, i motivi aggiunti debbono essere accolti, con annullamento in parte qua del provvedimento impugnato.

TRIBUTIOccupazioni d'urgenza, Ici dovuta al comune.
Se il comune occupa un terreno, con decreto di occupazione d'urgenza, lo stesso comune è legittimato a richiedere al proprietario il pagamento dell'imposta comunale. L'occupazione, infatti, ha carattere coattivo e non priva il proprietario del possesso dell'immobile poiché il bene, sino a esproprio o ablazione, continua ad appartenere a costui, qualificandosi l'occupante quale un mero detentore. L'imposta, dunque, continua a gravare sul proprietario.

È quanto si legge nell'ordinanza 27.09.2016 n. 19041 della Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con cui è stato rigettato il ricorso proposto dal contribuente contro una sentenza della Ctr di Napoli, favorevole all'amministrazione comunale.
Un comune della provincia campana aveva emesso un provvedimento di occupazione d'urgenza, in relazione a un terreno soggetto successivamente a procedura d'esproprio. L'occupazione d'urgenza è l'istituto in base a cui l'amministrazione ha la possibilità di anticipare gli effetti di un procedimento d'espropriazione per pubblica utilità: ciò allo scopo di ottenere subito la disponibilità dell'area, senza attendere i tempi, di solito abbastanza lunghi, della procedura di espropriazione.
In relazione a quello stesso terreno occupato, il comune (occupante) richiedeva il pagamento dell'Ici per gli anni dal 2005 al 2008. Contro tale provvedimento, il contribuente proponeva ricorso in Commissione tributaria, ma gli esiti dei giudizi di merito lo vedevano soccombente sia in primo che in secondo grado. La decisione è stata confermata dalla Cassazione, a cui si era rivolto, in ultima istanza, il contribuente.
L'occupazione d'urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso dell'immobile in quanto il bene, finché non interviene il decreto di esproprio o comunque l'ablazione, continua ad appartenere a lui, tanto che per tal motivo gli si riconosce un'indennità per l'occupazione, mentre nell'occupante, che riconosce la proprietà in capo all'espropriando, manca «l'animus rem sibi habendi», onde lo stesso è un mero detentore
In definitiva, il proprietario (rimasto possessore) è da ritenersi soggetto passivo dell'Ici, anche se l'immobile è detenuto da terzi.
Oltre all'occupazione del terreno e al pagamento dell'Ici, il contribuente è stato anche condannato al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi dell'articolo 13 del dpr 115/2002.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Con il primo motivo si deduce, ex art. 360, I comma, n. 3 c.p.c. la violazione dell'art. del dlgs 504 del 1992, dell'art. 1140 c.c. nonché dell'art. 22-bis del dpr n. 327/2001, laddove la Commissione regionale aveva ritenuto il contribuente tenuto alla dichiarazione Ici, malgrado lo stesso fosse stato, sin dall'anno 2004, privato del possesso e della disponibilità del proprio appezzamento di terreno, a seguito dell'occupazione di urgenza disposta dallo stesso comune.
La censura è infondata essendo, all'uopo, sufficiente richiamare il consolidato orientamento di questa Corte (al quale si è espressamente riportato il giudice di appello) secondo cui, in tema di espropriazioni, l'occupazione d'urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso dell'immobile in quanto il bene, finché non interviene il decreto di esproprio o comunque l'ablazione, continua ad appartenere a lui, tanto che per tal motivo gli si riconosce un'indennità per l'occupazione, mentre nell'occupante, che riconosce la proprietà in capo all'espropriando, manca «l'animus rem sibi habendi», onde lo stesso è un mero detentore.
Ne consegue che il proprietario è soggetto passivo dell'Ici ed è, quindi, obbligato a presentare la relativa dichiarazione, anche se l'immobile è detenuto da terzi (Cass. n. 21433/2007; id. n. 4753/2010).
Con il secondo motivo, rubricato art. 360, cpc 3 in redazione all'art. 2909 all'art.111, al giudicato esterno relativo agli immobili della coniuge comproprietaria formatosi con decisioni n. 523 Cfr Salerno, sez. 8, del 17/12/2012 e n. 9138 Ctr Napoli sez. n. 12, del 24/10/2014, il ricorrente deduce come la sentenza impugnata si ponga in contrasto con il giudicato esterno, formatosi in relazione ai giudizi promossi, per la stessa annualità, dal coniuge comproprietario ( ).
Il motivo non è meritevole di accoglimento alla luce del consolidato principio per cui in terna di giudicato, qualora due giudizi facciano riferimento a uno stesso rapporto giuridico e uno dei due si sia concluso con sentenza definitiva, il principio, secondo il quale l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative a un punto fondamentale comune a entrambe le cause preclude il riesame dello stesso punto, non trova applicazione allorché tra i due giudizi non vi sia identità di parti, essendo l'efficacia soggettiva del giudicato circoscritta, ai sensi dell'art. 2909 cod. civ., ai soggetti posti in condizione di intervenire nel processo (cfr. ex multis, di recente, Cass. n. 3187/2015) (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016).

APPALTIOfferte, quando scatta l'obbligo di riparametrare. Per evitare limiti alla concorrenza.
Obbligatoria la riparametrazione dei punteggi assegnati alle offerte in una gara di appalto pubblico se si prevede una soglia minima per il punteggio tecnico; il divieto di commistione fra requisiti soggettivi e oggettivi non si applica all'esperienza dei dipendenti o del team di lavoro.
Sono questi i principi affermati dal Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 27.09.2016 n. 3970 che ha trattato il tema della riparametrazione dei punteggi quando nel bando di gara è previsto che si aprano le buste contenenti l'offerta economica soltanto per le offerte tecniche che abbiano raggiunto un prefissato punteggio minimo.
Sul punto, oggetto di attenzione anche nelle linee guida 2/2016 emesse dall'Anac, i giudici chiariscono innanzitutto che la riparametrazione è indispensabile per evitare anomale restrizioni alla concorrenza ed al principio di massima partecipazione.
Non è questione e quindi non rileva, dice la sentenza, la differenza tra requisiti qualitativi chiesti ai fini dell'ammissione e requisiti richiesti ai fini della selezione. La fissazione di una soglia minima di punteggio per l'offerta tecnica opera su un altro piano perché non è un requisito di ammissione ma semplicemente una valore al di sotto del quale l'amministrazione non ritiene l'offerta accettabile quale che sia la proposta economica.
È proprio in tali casi che la giurisprudenza ha tuttavia predicato il carattere «indispensabile» della riparametrazione di cui alla lettera a), punto 5, dell'allegato P del vecchio regolamento ormai abrogato (dpr 207/2010), così da ripristinare, anche in funzione proconcorrenziale, un equilibrio tra i fattori di valutazione delle offerte.
La sentenza coglie l'occasione per precisare come debba intendersi la distinzione fra requisiti di ammissione e elementi di valutazione delle offerte: «solo i riferimenti all'impresa, e non quelli all'esperienza di singoli dipendenti o del team di lavoro, sono in contrasto con il principio del divieto di commistione tra requisiti soggettivi dell'offerente e requisiti oggettivi dell'offerta».
Un chiarimento che prende atto di quanto le direttive (la n. 24/2014) ammettono all'articolo 67 (criteri di aggiudicazione) in rapporto all'art. 58, comma 4 (articolo ItaliaOggi del 07.10.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIIl deposito della sentenza basta ai fini del tempo.
Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione è sufficiente il deposito mero della sentenza attestato dal cancelliere, ben potendo ogni ulteriore adempimento intervenire successivamente, considerata la larghezza del termine all'uopo previsto, senza necessità che il termine suddetto cominci a decorrere da quando la parte abbia effettiva possibilità di conoscenza dell'avvenuto deposito.

È quanto osservato dai giudici delle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 22.09.2016 n. 18569.
I giudici hanno altresì osservato che l'unico correttivo potrebbe essere costituito dalla possibilità di ricorso, anche d'ufficio, alla rimessione in termini solo qualora il giudice dell'impugnazione ravvisi «grave difficoltà» per l'esercizio del diritto di difesa determinato dall'avere il cancelliere non reso conoscibile la data di deposito della sentenza prima della successiva data attestante la «pubblicazione» della medesima, avvenuta a notevole distanza di tempo e in prossimità del termine di decadenza per l'impugnazione.
Altra questione sulla quale i giudici delle sezioni unite si sono soffermati nella sentenza in commento è quella circa l'apposizione di una doppia data alle sentenze civili, con le conseguenti problematiche giuridiche anche sul piano costituzionale. Osservano gli Ermellini che tale questione è stata riproposta frequentemente nel tempo, dando origine a una copiosa e non univoca giurisprudenza di legittimità nonché a sospetti d'illegittimità costituzionale.
Più recentemente però il continuo riproporsi della «sciagurata consuetudine» di apporre una doppia data in calce alle sentenze civili ha determinato un articolato intrecciarsi e sovrapporsi di interventi giurisdizionali che, osservano i supremi giudici, «non risulta ancora sopito e spesso si è osservato come le ripetute pronunce sulla questione riguardano tutte ipotesi in cui in calce alla sentenza sono state apposte dal cancelliere due date (individuate rispettivamente come di deposito e di pubblicazione), con un comportamento definito dalla Consulta (non mera irregolarità bensì) «patologia procedimentale grave», ancor più grave se si pensa che tutte le pronunce in argomento, pur divergenti tra loro su aspetti anche non secondari, sono da sempre concordi nello stigmatizzare incondizionatamente tale comportamento non solo per la sua determinante influenza sulle posizioni giuridiche degli interessati ma perché, ancor prima, introduce dubbi e ambiguità in un momento processuale di massimo rilievo, inducendo il fondato sospetto che non sia sufficiente una stigmatizzazione in sede processuale di tale deprecabile consuetudine, ma si rendano forse necessari interventi ulteriori, quanto meno di carattere disciplinare» (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2016).

APPALTI: L'aggiudicazione cristallizza l'anomalia.
Nelle gare d'appalto il momento in cui la soglia di anomalia viene cristallizzata in modo intangibile coincide con l'aggiudicazione definitiva.

Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. I, con la sentenza n. 1372 del 19.09.2016.
La controversia era nata perché la stazione appaltante, dopo la riammissione in gara di alcune ditte inizialmente espulse, aveva proceduto al ricalcolo della soglia di anomalia. Ciò aveva portato all'esclusione dell'offerta della ricorrente, giudicata anomala.
Per determinare il momento in cui la soglia di anomalia viene fissata in modo irreversibile, il Collegio ha puntato l'attenzione sull'esegesi della locuzione usata dal legislatore nell'ultima parte dell'art. 38, comma 2-bis del dlgs n. 16312006. Il confine invalicabile previsto dalla norma fa riferimento a «ogni variazione che intervenga (...) successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte (...)».
Ai fini della soluzione ermeneutica va preliminarmente tenuto a mente che in questo contenzioso non si era proceduto né all'aggiudicazione definitiva, né a quella provvisoria. Partendo anche da tale presupposto, il consesso fiorentino ha rimeditato il proprio orientamento.
Col richiamo a «ragioni di carattere sistematico e logico», l'organo giudicante ha prescelto la soluzione che esclude il potere della stazione appaltante di agire in autotutela solo dopo l'adozione dell'atto di aggiudicazione definitiva, rimanendo quindi possibile prima di tale momento. Da notare in sentenza la precisazione che è anche vero che la norma citata potrebbe legittimare una diversa interpretazione maggiormente restrittiva circa i poteri d'intervento dell'amministrazione.
In pratica l'interprete deve ritenere che il divieto di ricalcolo delle soglie e delle medie operi solo dopo la conclusione di una «fase effettiva» della procedura di evidenza pubblica (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Premesso che:
- la Città metropolitana di Firenze indiceva, per i lavori di completamento del lotto VI della variante S.R. 429, tratto Empoli-Castelfiorentino, una procedura aperta, ai sensi degli artt. 54 e 55 del d.lgs. n. 163/2006, da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso, inferiore a quello posto a base di gara, determinato mediante offerta a prezzi unitari, con l'esclusione automatica, ai sensi del combinato disposto dagli artt. 122, comma 9, e 253, comma 20-bis, delle offerte che presentavano un ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi dell'art. 86, comma 1;
- la procedura di gara veniva espletata con modalità interamente telematica sul Sistema Telematico Acquisti Regionale della Toscana - Città Metropolitana di Firenze (START);
- nella fase di qualificazione la Stazione appaltante escludeva dalla gara n. 28 operatori economici, tra i quali i concorrenti Bo. S.r.l. e C. S.r.l. in quanto ritenuti privi dei requisiti di partecipazione richiesti dal bando;
- a seguito dell'apertura delle offerte economiche delle ditte ammesse, il sistema telematico determinava la soglia di anomalia e stilava in automatico la graduatoria provvisoria dalla quale risultava, quale migliore offerta, quella della ditta En.;
- prima che intervenisse ogni forma di aggiudicazione, anche provvisoria, con provvedimento in autotutela n. 1273 del 29.06.2016 l'amministrazione, alla luce del più recente orientamento giurisprudenziale in tema di avvalimento frazionato (motivo che aveva determinato l’esclusione delle due concorrenti sopra menzionate), riammetteva in gara le due ditte precedentemente escluse;
- a seguito della riammissione delle due ditte, esaminate anche le loro offerte economiche, si determinava automaticamente una nuova soglia di anomalia e, conseguentemente, una nuova graduatoria nella quale si collocava al primo posto la ditta Es., evocata in giudizio come controinteressata, mentre l’offerta di En. risultava tra le offerte anomale;
considerato che:
- la società ricorrente ha proposto ricorso contestando il provvedimento di aggiudicazione per avere la stazione appaltante, in violazione dell'art. 38, co. 2-bis, d.lgs. n. 163/2006, dopo la riammissione in gara delle due ditte inizialmente escluse, illegittimamente proceduto al ricalcolo della soglia di anomalia;
- in tal senso si sarebbe espressa finora la giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2609; TAR Lazio, Latina, 16.03.2016, n. 150) la stessa ANAC (con il parere n. 130 del 22.07.2015), nonché questa Sezione con la sentenza n. 1516/2015;
- in particolare, con tale ultima pronuncia si è ritenuto che “Nel sistema delineato dalla norma, l’individuazione della soglia di anomalia è quindi rivelatrice dell’intenzione dell’amministrazione procedente di ritenere esaurita la fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione per addivenire a quella di formazione della graduatoria, e segna il momento oltre il quale divengono irrilevanti le sopravvenienze dovute non soltanto a pronunce giurisdizionali, ma anche all’iniziativa della stessa amministrazione, come inequivocabilmente si ricava dalle espressioni utilizzate dal legislatore. Il riferimento a ogni variazione intervenuta “anche” (e non solo) in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale indica infatti, a contrario, l’irrilevanza di qualsiasi variazione, a partire da quelle derivanti dall’esercizio dei poteri di autotutela dell’amministrazione” (TAR Toscana, sez. I, 09.11.2015, n. 1516);
ritenuto che:
- la tesi appena riportata, merita, ad avviso del Collegio, di essere rimeditata alla luce del più recente orientamento espresso in particolare dal Giudice di appello;
- la norma di legge invocata (introdotta dall'art. 39, co. 1, d.l. n. 90/2014) stabilisce che “
ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte”;
- la sentenza di questo Tribunale invocata dalla ricorrente attiene ad una fattispecie non del tutto sovrapponibile a quella oggetto di esame concernendo, infatti, un caso in cui la stazione appaltante aveva già proceduto all’aggiudicazione provvisoria della gara sulla base della prima soglia di anomalia, poi modificata con effetti anche sull’aggiudicazione;
- nello stesso senso la pronuncia del Consiglio di Stato n. 2609/2015 si sofferma su una fattispecie in cui già era intervenuta l’aggiudicazione definitiva della gara, mentre nel caso che ne occupa l’Amministrazione non aveva proceduto né all’aggiudicazione definitiva, né a quella provvisoria;
- lo snodo cruciale del ragionamento sul quale occorre puntare l’attenzione sta appunto nell’esegesi della locuzione usata dal Legislatore per determinate il momento in cui la soglia di anomalia viene fissata in modo intangibile perciò rendendosi impermeabile a “ogni variazione che intervenga…successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte…”;
- la stessa sentenza di questo TAR, più volte citata, reca uno snodo argomentativo in tal senso significativo, affermando che “
Sul piano operativo, l’interpretazione testuale non lascia adito a dubbi: il periodo finale del comma 2-bis scandisce le fasi della procedura di gara che precedono la determinazione della soglia di anomalia e la cui durata è di volta in volta rimessa al discrezionale apprezzamento della stazione appaltante, alla quale compete stabilire quando esse possano reputarsi esaurite, tenuto conto di ogni esigenza procedimentale, ivi comprese quelle dipendenti dal doveroso esercizio del potere di soccorso istruttorio”;
- partendo da questo presupposto il C.G.A. Reg. Siciliana ha ritenuto che “
A giudizio di questo Consiglio deve prevalere una diversa, e più coerente, interpretazione della norma che porta a limitare, per effetto della disposizione più volte richiamata, il potere dell’amministrazione di agire in autotutela solo dopo che la stazione appaltante ha adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva. In altri termini, nonostante il fatto che la norma possa legittimare una diversa interpretazione (maggiormente restrittiva del potere dell’amministrazione di agire in autotutela, escludendo tale possibilità sin dall’atto di ammissione o di esclusione), per il Consiglio, ragioni di carattere sistematico e logico impongono la soluzione che esclude il potere della stazione appaltante di agire in autotutela solo dopo l’adozione dell’atto di aggiudicazione definitiva, rimanendo possibile prima di tale momento” (C.G.A. Reg. Sic., 22.12.2015, n. 740; nello stesso senso, Cons. Stato, sez. V, n. 1052/2016; TAR Sicilia, Palermo, sez. I n. 583/2015);
- tali conclusioni sono supportate sul piano sistematico dal rilievo che “
l’articolo 11 cod. contratti individua le diverse fasi della procedura di evidenza pubblica –decreto o determina a contrarre, selezione dei contraenti, selezione dell’offerta, aggiudicazione definitiva, stipulazione del contratto– e tra queste non contempla la c.d. “fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte”; conseguentemente l’interprete deve ritenere che il divieto di ricalcolo delle soglie e delle medie operi solo dopo la conclusione di una “fase effettiva” della procedura di evidenza pubblica, fase questa individuabile proprio con il provvedimento di aggiudicazione definitiva (C.G.A. Reg. Sic., 22.12.2015, n. 740);
- a più forte ragione tali conclusioni si impongono nel caso in cui il procedimento si sia arrestato alla fase dell’aggiudicazione provvisoria atto che, pur essendo autonomamente impugnabile, non è individuabile come provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, conseguendone che sarebbe incoerente escludere la possibilità di rivedere le determinazioni già assunte;
- “
se non si consentisse anche dopo la novella del 2014, alla stazione appaltante di rivedere gli esiti delle preliminari decisioni assunte durante la gara, purché prima dell’aggiudicazione definitiva, difficilmente si comprenderebbe quale attività di controllo l’organo competente ad adottare l’atto di aggiudicazione definitiva deve effettuare sugli atti compiuti dal seggio di gara sino all’aggiudicazione provvisoria” (C.G.A. Reg. n. 740/2015 cit.);
- “
sotto un profilo logico, permettendo all’amministrazione di ravvedersi prima dell’aggiudicazione definitiva –senza frustrare le esigenze di celerità perseguite dalla norma (mentre diversa sarebbe la conclusione se fosse consentito all’amministrazione di ravvedersi dopo l’aggiudicazione definitiva)– si evita che l’amministrazione, pur essendosi accorta dell’errore, debba mantenere ferma l’aggiudicazione in favore di un operatore che non lo merita, esponendosi conseguentemente all’azione risarcitoria avanzata da chi, se la gara fosse stata condotta legittimamente, sarebbe risultato aggiudicatario” (C.G.A. Reg. Sic., n. 740/2015 cit.);
- per tali ragioni
deve ritenersi legittimo, da parte della stazione appaltante, l’esercizio del potere di modificare la soglia di anomalia, riammettendo in gara concorrenti esclusi nelle precedenti fasi del procedimento, purché ciò avvenga prima del provvedimento di aggiudicazione definitiva;

ENTI LOCALIOrganismi di diritto pubblico ad ampio raggio. Il consiglio di stato sulla nozione di derivazione comunitaria.
La nozione di «organismo di diritto pubblico», figura soggettiva di derivazione comunitaria, rileva nel settore degli appalti ed è tesa, in chiave pro-concorrenziale, ad applicare le regole di evidenza pubblica anche ai soggetti che, pur non essendo formalmente pubblici, soggiacciono a una dominante influenza pubblica.

È quanto affermato dai giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 16.09.2016 n. 3892.
A parere dei supremi giudici amministrativi tale regola non potrà applicarsi traslandola anche alle procedure selettive per l'assunzione di personale, essendo diverse le esigenze, e mancando, del resto, quell'aggancio sul versante comunitario che ne ha giustificato l'inserimento nel codice appalti.
In assenza di espresse previsioni di legge in tal senso, i soggetti formalmente privati non sono titolari di poteri pubblicistici, anche se ad altri e specifici fini siano considerati organismi di diritto pubblico. I giudici di palazzo Spada hanno, altresì aggiunto che anche nel caso in cui scelgano di applicare regole di trasparenza ed equità proprie dei concorsi pubblici, «i soggetti privati lo fanno ponendo 'autovincoli' alla propria autonomia negoziale, la cui violazione ben può essere sindacata dal giudice civile, trattandosi di atti finalizzati all'instaurazione di un rapporto lavorativo di natura privatistica».
Inoltre, nella sentenza in commento, è stato osservato come la fondazione di diritto privato non possa ritenersi -per il solo fatto di svolgere, sulla base di intese ed accordi attuativi con la Regione e l'Asl competente, attività riconducibili al servizio sanitario nazionale– un «ente» del Ssn, poiché a tal fine è necessaria una previsione di legge che qualifichi l'ente nel quadro del Ssn sottoponendolo alle regole pubblicistiche (in proposito si veda anche Ss.Uu., 25.11.2013, n. 26283) (articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016).
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9. Come correttamente rilevato dal Giudice di prime cure, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 63, comma 4, D.Lg.vo n. 165 del 2001 «spettano alla cognizione del Giudice Amministrativo soltanto le controversie, relative ai concorsi indetti dalle Amministrazioni dello Stato, compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, dalle aziende e dalle Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, dalle Regioni, dalle Province, dai Comuni, dalle Comunità Montane, dai Consorzi e/o dalle associazioni di Enti Locali, dalle Università, dagli Istituti autonomi case popolari, dalle Camere di Commercio e loro associazioni, da tutti gli Enti Pubblici non economici nazionali, regionali e locali, dalle amministrazioni e aziende ed Enti del Servizio Sanitario Nazionale, dall’ARAN e da tutte le altre Agenzie previste dal D.Lg.vo n. 300/1999».
9.2.
La fondazione di diritto privato non può ritenersi -per il sol fatto di svolgere, sulla base di intese ed accordi attuativi con la Regione e l’ASL competente, attività riconducibili al SSN– un ‘ente’ del SSN, poiché a tal fine è necessaria una previsione di legge che qualifichi l’ente nel quadro del S.S.N. sottoponendolo alle regole pubblicistiche (in proposito cfr SSUU, 25.11.2013, n. 26283).
9.3.
Né può applicarsi quella giurisprudenza riguardante l’individuazione della nozione di «organismo di diritto pubblico», poiché tale figura soggettiva, di derivazione comunitaria, rileva nel settore degli appalti ed è tesa, in chiave pro-concorrenziale, ad applicare le regole di evidenza pubblica anche ai soggetti che, pur non essendo formalmente pubblici, soggiacciono ad una dominante influenza pubblica.
La regola non può de plano essere traslata anche alle procedure selettive per l’assunzione di personale, essendo diverse le esigenze, e mancando, del resto, quell’aggancio sul versante comunitario che ne ha giustificato l’inserimento nel codice appalti.
In assenza di espresse previsioni di legge in tal senso, i soggetti formalmente privati (come la ‘nuova’ Fondazione Stella Maris Mediterraneo ONLUS) non sono titolari di poteri pubblicistici, anche se ad altri e specifici fini siano considerati organismi di diritto pubblico.
9.4. Anche ove scelgano di applicare regole di trasparenza ed equità proprie dei concorsi pubblici, i soggetti privati lo fanno ponendo ‘autovincoli’ alla propria autonomia negoziale, la cui violazione ben può essere sindacata dal giudice civile, trattandosi di atti finalizzati all’instaurazione di un rapporto lavorativo di natura privatistica.
10. In conclusione, l’appello va respinto.

APPALTISe la gara è saltata l’impresa va risarcita. Tar Napoli.
La Pa che ritarda la gara fino a perdere i finanziamenti deve risarcire l’impresa aggiudicataria provvisoria in caso di revoca del bando: è il cosiddetto danno da «contatto sociale», la lesione dell’obiettiva possibilità di stipula pur in assenza di un obbligo di prestazione. La tutela deve però tener conto della posizione di tale soggetto, non più «mero concorrente».
Lo chiarisce il TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 14.09.2016 n. 4300, accogliendo il ricorso di un consorzio stabile, aggiudicatario provvisorio di alcuni lavori di riqualificazione banditi da un Comune secondo l’offerta economicamente più vantaggiosa.
L’ente aveva revocato la gara poiché, per carenza di personale, aveva fatto slittare la pubblicazione del bando, i termini per parteciparvi e i tempi esaminare le offerte, non riuscendo così ad avviare i lavori entro la scadenza fissata per ottenere i fondi regionali.
Inoltre, il progetto non era finanziabile con risorse interne (se non con debiti a bilancio) e aveva «macroscopiche anomalie, tali da sconsigliare la realizzazione». Secondo i giudici, causando tali «incontestate criticità e ritardi», per la Pa vi è «un’ipotesi di responsabilità da contatto qualificato, attualmente ricadente nella figura generale di cui all’articolo 2043 del codice civile, specificamente come paradigma di cattiva gestione dei tempi e dell’organizzazione del procedimento», posto il «nesso di causalità» tra la mancata conclusione della gara e la perdita della possibilità di stipula.
In questi casi però è «peculiare e necessario» valutare il risarcimento del danno patrimoniale in base alla maggior rilevanza dell’aggiudicatario provvisorio rispetto agli altri concorrenti, rivestendo «una posizione procedimentale di aspettativa più prossima al bene della vita, costituito dall’utilità finale che dal punto di vista del lato interno dell’interesse legittimo è data dal divenire aggiudicatario definitivo»
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2016).
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MASSIMA
Con riferimento al quarto motivo di ricorso, afferente alla validità della clausola di esonero dei responsabilità di cui agli artt. 4 e 10 del bando di gara, osserva il Collegio che la questione non investe la legittimità del provvedimento impugnato, limitandosi, stando alla espressa formulazione delle disposizioni coinvolte, a costituire un’autonoma causa di invalidità della lex specialis sotto il profilo dell’inibitoria all’accesso alla tutela giurisdizionale di tipo risarcitorio,
Ebbene, nel solco di precedente giurisprudenza della Sezione, ritiene il Collegio che
la clausola con la quale l'Amministrazione si ritiene esonerata da ogni responsabilità contrattuale o anche precontrattuale, non può dispiegare alcuna efficacia nei confronti dei partecipanti ad una procedura di evidenza pubblica; questa deve essere interpretata alla stregua del riconoscimento all'Ente pubblico di un potere di implicita revoca dell'aggiudicazione, con obbligo di congrua motivazione che illustri la corretta ed esauriente ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti; infatti, qualsiasi interpretazione che tenda a sostenere l'insindacabile natura di tale facoltà e, per questa via, l'irresponsabilità civile dell'Amministrazione, comporterebbe la nullità della clausola ex art. 1335 c.c., in quanto si configurerebbe come condizione meramente potestativa (TAR Campania Napoli Sezione I 03.05.2011 n. 2433).
Entro questi limiti la censura non è meritevole di accoglimento, non assumendo connotazioni di concreta lesività del diritto della società ricorrente di proporre in giudizio azione di responsabilità nei confronti del Comune di Ischia.
Risolte le questioni di tipo impugnatorio, deve ora essere esaminata la domanda risarcitoria che si rivela meritevole di accoglimento nella parte in cui la società ricorrente lamenta una lesione del proprio legittimo affidamento ad una conclusione del procedimento di gara che fosse utile ad assicurarle la qualità di aggiudicatario definitivo e, quindi, di contraente del Comune di Ischia.
Non è dubitabile, infatti, che la lesione della posizione della ricorrente non trova fondamento giuridico nel provvedimento di ritiro degli atti di gara, momento di sostanziale accertamento da parte della stazione appaltante della ormai oggettiva impossibilità di concludere il procedimento in tempo utile per l’aggiudicazione definitiva e la stipulazione in favore del concorrente a tanto legittimato.
Il vulnus alla posizione del consorzio stabile Eg. scarl è piuttosto riconducibile alla colpevole condotta assunta dalla stazione appaltante nel corso della gestione del procedimento di gara, alla fine risoltosi in un inutile coinvolgimento della società ricorrente in una vicenda ed in un rapporto pervenuto ad un punto di sostanziale ed irreversibile arresto, senza alcuna possibilità di soluzione, con evidente lesione del legittimo affidamento di chi invece era titolare di una legittima aspettativa rispetto alla stipulazione di un contratto pubblico.
La condotta colpevole dell’ente resistente va individuata nelle incontestate criticità e ritardi registrati durante la fase di pubblicazione della lex specialis e nel consequenziale slittamento dei termini di partecipazione, nonché nella confessata lenta celebrazione delle attività di esame delle offerte, dichiaratamente ricondotta a problemi di tipo organizzativo interno. Si è dunque in presenza di un’ipotesi di responsabilità da contatto qualificato, attualmente ricadente nella figura generale di cui all’art. 2043 c.c., specificamente come paradigma di cattiva gestione dei tempi e dell’organizzazione del procedimento.
Sussiste il nesso di causalità, da individuarsi nella relazione causa effetto tra colpevole mancata conclusione del procedimento e perdita della possibilità di stipulazione del contratto.

Quanto al danno risarcibile, è opinione del Collegio che, rispetto al modello generale del procedimento amministrativo, nell’ambito di quelli ad evidenza pubblica, sia peculiare e necessario tenere conto, ai fini della concreta individuazione del legittimo affidamento oggetto di lesione, che la posizione dell’aggiudicatario provvisorio sia distinta da quella di chi sia ancora titolare di una posizione di mero concorrente.
Non può, invero, non tenersi conto che il divenire della funzione amministrativa nell’ambito del procedimento determini un consolidamento, in senso rafforzativo o di indebolimento, della posizione partecipativa del destinatario dell’azione autoritativa, nel caso del procedimento di gara maggiormente percepibile e giuridicamente rilevante; non a caso, costituisce nuovo approdo anche da parte del legislatore, la differenziazione tra partecipazione al procedimento di gara riferibile alla fase di qualificazione, attualmente considerata autonoma anche dal punto di vista della tutela processuale d’impugnazione, e presenza del concorrente alla fase, successiva, di apprezzamento delle offerte, costituente una stadiazione progressiva l’ingresso nella quale origina una posizione procedimentale di aspettativa più prossima al bene della vita, costituito dall’utilità finale che dal punto di vista del lato interno dell’interesse legittimo è data dal divenire aggiudicatario definitivo.

Ebbene,
per quanto concerne la tutela risarcitoria del legittimo affidamento, proprio la qualificazione in termini di bene patrimoniale di tale condizione soggettiva impone di dare rilievo all’oggettivamente apprezzabile progressivo rafforzamento del convincimento del suo titolare di essere sempre più vicino al conseguimento di un’utilità ragionevolmente spettante.
Ne discende che,
pur imponendo la mancata adozione di un provvedimento di aggiudicazione definitiva l’esclusione dei principi generali propri del risarcimento dei danni da lesione dell’interesse contrattuale negativo, ossia ascrivibili alla mancata stipulazione, essendosi il procedimento di gara arrestatosi prima di tale momento, sarà invece risarcibile, in termini di lucro cessante, proprio il danno da mancato conseguimento dell’aggiudicazione definitiva per fatto colpevole della stazione appaltante; danno che il Collegio stima nella misura del 3% della base d’asta, oltre alla maggiore somma tra interessi e rivalutazione monetaria dal 01.01.2015, data di verificazione del danno, al soddisfo.
Nulla spetta invece in termini di danno emergente, essendo state quelle di partecipazione alla gara sostenute dalla società ricorrente spese necessarie per l’acquisizione della posizione di aggiudicatario provvisorio, né quelle per danno curriculare, rimesse invece alla condizione di mancata stipulazione del contratto.
In questi termini, ai sensi dell’art. 34, quarto comma c.p.a. il Comune di Ischia entro trenta giorni dalla comunicazione della presente decisione, o notificazione, se anteriore, presenterà al consorzio ricorrente una proposta di risarcimento danni, secondo i criteri indicati nella presente motivazione.

APPALTI: Ati, lo stop porta alla black list. Sciolto il contratto per inadempimento c'è segnalazione. Sentenza del Tar Lazio: impresa nel casellario dell'Anac dopo la contestazione sui lavori.
Dopo che il comune ha risolto per grave inadempimento il contratto con l'associazione temporanea d'imprese la società partecipante finisce sul casellario informatico dei «cattivi» gestito dall'Anac, l'authority che vigila sugli appalti pubblici: è legittima l'iscrizione ex articolo 8, comma 2, lettera p) del dpr 207/2010 sulla black list laddove anche sui lavori assegnati alla singola azienda sono state rilevate negligenze, a partire dal degrado riscontrato sul cantiere alla data di scadenza dei lavori.

È quanto emerge dalla sentenza 12.09.2016 n. 9654, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Niente da fare per l'impresa di costruzioni: resterà sulla «lista nera» gestita dall'Anac creata per tutelare le stazioni appaltanti dei lavori pubblici. Fa bene il comune a chiedere via Pec all'autorità di estendere all'azienda «incriminata» il procedimento avviato nei confronti di un'altra società. E ciò perché l'amministrazione locale si è vista costretta a risolvere il contratto dopo le contestazioni del direttore dei lavori nel parco archeologico.
La società non può chiamarsi fuori perché è stata informata degli inadempimenti contrattuali di sua specifica responsabilità: non sono state realizzate le strutture di copertura degli scavi e si segnalano la sparizione di suppellettili e addirittura la presenza di scavi abusivi, dovuti all'omessa custodia. Insomma: è in base a documentali che l'autorità nazionale anticorruzione procede ad annotare l'intervenuta risoluzione del contratto nel casellario informatico. Spese di giudizio compensate.
E si può finire sulla lista dei cattivi anche per la violazione delle norme antinfortunistiche. Resta la «macchia» sulla «fedina» dell'impresa appaltatrice che sta costruendo la cittadella della cultura nel territorio del comune quando il coordinatore della sicurezza rileva irregolarità tali da sospendere i lavori: su segnalazione dell'ente che ha messo a gara quel lotto, infatti, l'authority di settore, ieri Avcp oggi Anac, deve dar conto del fatto nel casellario informatico delle imprese qualificate a svolgere lavori pubblici. L'annotazione è un atto dovuto senza obbligo di una particolare motivazione perché l'impresa deve ritenersi al corrente delle proprie inadempienze.
È quanto emerge dalla sentenza 6522/16, pubblicata dalla prima sezione del Tar Lazio. Decisivo il sopralluogo del coordinatore che blocca i lavori: nel cantiere vede lavorare operai su vani scala senza parapetto a più di due metri dal piano inferiore e accerta altre omissioni in termini di protezione dei lavoratori; lo stop alle operazioni scatta dunque per un «pericolo imminente».
Ecco allora che è inevitabile l'annotazione nel casellario informatico: la segnalazione della stazione appaltante non ha margini discrezionali perché è «grave» la violazione riscontrata rispetto alle norme antinfortunistiche. E dunque non c'è bisogno di coinvolgere l'impresa nel procedimento amministrativo: deve ritenersi che l'appaltatore sia al corrente degli illeciti che gli sono contestati dopo che gli è trasmesso il verbale del coordinatore per la sicurezza.
Inutile in particolare per l'impresa lamentare che non è stato comunicato l'avvio del procedimento in base alla legge sulla trasparenza dell'attività amministrativa (legge 241/1990). Il punto è che la segnalazione all'autorità vigilante costituisce un provvedimento a carattere vincolato per la stazione appaltante, il che consente di comprimere il diritto del privato a partecipare al procedimento amministrativo (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016).

EDILIZIA PRIVATAIl piano idrogeologico prevale sugli altri.
Il Pai (Piano assetto idrogeologico) è un piano generale, ma settoriale, in quanto relativo alla sola disciplina dell'assetto idrogeologico, che si interseca con la pianificazione regionale, provinciale e comunale.

È quanto ribadito dai giudici della I Sez. del TAR Piemonte con la sentenza 07.09.2016 n. 1135.
I giudici amministrativi torinesi nella sentenza in commento hanno evidenziato come il Pai quale piano territoriale di settore prevale sui piani e programmi di livello regionale provinciale e comunale in quanto finalizzato alla salvaguardia di persone, beni, e attività dai pericoli e dai rischi idrogeologici; tuttavia una variante potrebbe non operare alcun «adeguamento al Pai», né effettuarne un recepimento di disposizioni del Pai relative alla zona de qua. Il ricorso sottoposto all'attenzione dei giudici piemontesi, era stato proposto avverso gli atti della variante al Prg di adeguamento al Pai del comune.
Dopo l'approvazione del Pai da parte della regione, il comune aveva ritenuto, pur non essendovi obbligato, in quanto incluso tra le amministrazioni già dotate di carta di sintesi della pericolosità geomorfologica e dell'utilizzabilità urbanistica, di avviare una variante di compatibilità di cui al comma 3 art. 18 delle norme tecniche di attuazione (Nta) del Pai, al fine di definire il nuovo quadro del dissesto.
La circostanza che il comune fosse tra le amministrazioni «esonerate dalla suddetta verifica», ma abbia in ogni caso proceduto ad avviare il procedimento, non costituisce un vizio di illegittimità del procedimento stesso, in quanto l'inserimento nell'elenco dei «non obbligati» non privava l'amministrazione comunale della facoltà di adottare una variante, al fine di verificare la congruenza del piano vigente al Pai. L'art. 18 della Nta del Pai prevede che le regioni provvedano all'indicazione dei comuni esonerati in quanto già dotati di strumenti urbanistici compatibili con le condizioni di dissesto presente o potenziale, anche sulla base di quanto individuato nel Piano.
Ma dal comma 2 dell'art. 18 si deduce che ogni comune ha la facoltà di verificare la compatibilità idraulica e idrogeologica delle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti con le condizioni di dissesto presenti o potenziali rilevate nella cartografia di Piano, avvalendosi, tra l'altro, di analisi di maggior dettaglio eventualmente disponibili in sede regionale, provinciale o della comunità montana di appartenenza.
Pertanto, al fine di garantire il coordinamento tra i diversi livelli pianificatori e assicurare una pianificazione del territorio come azione unitaria, era facoltà dell'amministrazione adottare una variante di adeguamento al Pai (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Falso del manager non frena la gara.
Il rilascio di una falsa dichiarazione di non avere commesso violazioni tributarie (peraltro, definitivamente accertate) non fa sì che l'imprenditore non possa partecipare a una gara pubblica. Tale increscioso evento viene a essere sanato nel momento in cui il manager, prima della partecipazione alla procedura, sia stato ammesso alla rateazione del debito tributario dall'Amministrazione finanziaria e non risulti inadempiente nel pagamento della rate. In tale circostanza, l'imprenditore non commette il reato di falsa dichiarazione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 05.09.2016 n. 36821, che ha ribaltato le decisioni sottostanti che, invece, vedevano condannare l'imprenditore nei due gradi di giudizio.
La Suprema corte ha prima ricordato che le false dichiarazioni contenute nell'istanza di partecipazione a una gara d'appalto, rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del dpr 445/2000, danno origine al reato di falsità ideologica. Le dichiarazioni sostitutive di certificazioni si considerano, infatti, come rese a un pubblico ufficiale.
Ma poi, prendendo atto della tesi difensiva proposta dall'imprenditore che sosteneva che, a seguito della rateizzazione del debito disposta su richiesta del debitore, si fosse realizzata una novazione oggettiva dell'obbligazione di cui agli artt. 1230 e ss. c.c., ha stabilito che le «violazioni definitivamente accertate» non contano e per conseguenza l'imprenditore non ha commesso reato.
Al contrario, i giudici di merito erano del parere che l'ammissione al beneficio da parte dell'ente creditore non potesse incidere sugli inadempimenti precedenti e, in particolare, sulle irregolarità definitivamente accertate. Per cui, l'ammissione al pagamento rateizzato non avrebbe potuto far cadere l'illecito commesso prima.
Come premesso, la Cassazione ha dato torto ai giudici di merito (tribunale e corte d'appello) rovesciando le loro decisioni e, quindi, accogliendo le istanze difensive portate avanti dal presunto reo che ha cosi vinto il ricorso e ha pertanto potuto partecipare alla gara pubblica (articolo ItaliaOggi del 04.10.2016).

TRIBUTIBox, paga chi produce rifiuti. Garage esonerati da Tarsu/Tari. Ai contribuenti la prova. Un'ordinanza della Cassazione che mette in discussione il principio sugli immobili vuoti
Garage, autorimesse e box esonerati dal pagamento della Tarsu se gli occupanti dimostrano di non produrre rifiuti.

La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l'ordinanza 05.09.2016 n. 17623, smentisce quanto sostenuto in passato per questi immobili e, soprattutto, mette in discussione il principio affermato da tempo sugli immobili vuoti, che sono stati ritenuti soggetti al prelievo anche se inutilizzati, purché oggettivamente utilizzabili.
Dunque, i contribuenti non sono soggetti al pagamento della Tarsu, ma la stessa regola vale per la Tari, se provano che garage, autorimesse e box non producono rifiuti. Infatti, incombe sul contribuente l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per beneficiare delle esenzioni e, allo stesso modo, di segnalare al comune che alcune aree detenute od occupate aventi specifiche caratteristiche strutturali e di destinazione sono «inidonee alla produzione di rifiuti». Non basta la peculiare destinazione funzionale dell'immobile ad autorimessa. Va escluso che «un locale adibito a garage non possa che ritenersi, di per sé, improduttivo di rifiuti solidi urbani».
Tuttavia, è da chiedersi come può l'interessato dimostrare di non produrre rifiuti, se proprio la Cassazione ha ripetutamente affermato da oltre un decennio che il mancato uso dell'immobile non è un motivo valido per chiedere la detassazione. E ha inoltre precisato che la mancata attivazione delle utenze idriche e elettriche non dà comunque luogo all'esonero dal pagamento.
Anche con questa pronuncia, però, la Cassazione dà una mano ai comuni, considerato il gettito che deriva da questi immobili, e va oltre le pronunce dei giudici di merito che hanno ritenuto non tassabili i garage e non applicabili le norme contenute nella disciplina della tassa rifiuti (decreto legislativo 507/1993) perché non in linea con la normativa comunitaria e con il principio «chi inquina paga». Del resto, pone a carico dei contribuenti l'onere della prova sulla mancata produzione di rifiuti.
Le tesi dei giudici. La giurisprudenza di merito in alcuni casi ha escluso che i garage possano essere assoggettati al pagamento della tassa rifiuti. Per esempio, la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania (XXXIV), con la sentenza 483/2011, ha sostenuto che secondo la comune esperienza il garage di uso privato è luogo adibito al ricovero di uno o più veicoli, e, quand'anche la persona vi si trattenga per tempi non brevi, non è plausibile ipotizzare che ne derivino rifiuti.
Mentre, i giudici di legittimità hanno sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero dal pagamento della tassa rifiuti, precisando che è dovuta a prescindere dal fatto che il contribuente utilizzi l'immobile (sentenza 22770/2009). Ex lege, vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati).
Il presupposto è l'occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti. È sufficiente che il servizio di smaltimento rifiuti sia istituito per imporre ai contribuenti il pagamento della tassa. Quindi, il tributo è dovuto per la detenzione di locali e aree e non per il fatto che venga utilizzato il servizio fornito dall'ente (Cassazione, sentenza 12035/2015).
La stessa regola vale oggi per la Tari, considerato che anche la nuova disciplina non collega il pagamento alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento rifiuti. Sono state ritenute infondate le pronunce dei giudici tributari che hanno escluso il pagamento per i contribuenti che hanno documentato di non aver potuto fruire del servizio pubblico per la mancanza di collegamento stradale tra le loro abitazioni e il punto di raccolta dei rifiuti.
Secondo la Cassazione non si può condizionare l'obbligo tributario alla materiale fruizione del servizio, in quanto i criteri di ripartizione del costo sostenuto dal comune non sono collegati al suo concreto utilizzo, ma si basano su indici presuntivi. È pacifico che la ragione istitutiva della tassa sia quella di porre le amministrazioni locali nelle condizioni di soddisfare interessi generali della collettività e non di fornire delle prestazioni riferibili ai singoli cittadini.
In effetti, ex lege, anche il mancato svolgimento del servizio di raccolta da parte del comune non comporta l'esenzione, ma il pagamento del tributo in misura ridotta. L'articolo 59, comma 4, del decreto legislativo 507/1993 disponeva per la Tarsu la riduzione anche se il servizio di raccolta, sebbene istituito, non venisse svolto nella zona di residenza, di dimora o dove esercitava l'attività il contribuente. La riduzione spettava, inoltre, se il servizio era effettuato in grave violazione delle prescrizioni del regolamento comunale di nettezza urbana.
Nel regolamento comunale, infatti, devono essere indicati i limiti della zona di raccolta obbligatoria e dell'eventuale estensione del servizio a zone con insediamenti sparsi, le modalità di effettuazione del servizio, con l'individuazione degli ambiti e delle zone, nonché delle distanze massime di collocazione dei contenitori. È il contribuente che deve dare la prova delle condizioni per usufruire eventualmente della riduzione della tassa.
E le stesse regole valgono oggi per la Tari. I commi 656 e 657 della legge di Stabilità 2014 (147/2013) prevedono che il tributo è dovuto nella misura del 20% in caso di mancato svolgimento del servizio e in misura non superiore al 40% nelle zone in cui non è effettuata la raccolta, da graduare in relazione alla distanza dal più vicino punto di raccolta.
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Chi è sottratto all'imposizione.
Non sono soggetti alla tassa rifiuti i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, sempre che queste circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione. Tra i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la natura delle loro superfici rientrano quelli situati in luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono.
Pertanto, la legge prevede una presunzione relativa di produzione dei rifiuti che ammette la prova contraria. La sussistenza delle condizioni che fanno venir meno la presunzione di legge della potenziale produzione di rifiuti devono essere provate dal contribuente e riscontrabili da parte dell'amministrazione.
Sono sottratti all'imposizione i locali e le aree che sono oggettivamente inutilizzabili o insuscettibili di produrre rifiuti, e non quelli lasciati in concreto inutilizzati. Per la Cassazione, anche la scelta soggettiva del titolare di non usare l'immobile non assume alcuna rilevanza (articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTICapannoni, pubblicità più leggera.
Marchi e numeri di telefono apposti sui capannoni e sugli automezzi non sono messaggi pubblicitari. È quindi illegittima la pretesa comunale di tassare scritte, targhe e vetrofanie esposte da una società nella propria sede, poiché esse «non risultano identificative o coincidenti con il servizio reso o con il bene venduto dall'impresa».

Così si è espressa la Ctp Milano con sentenza 05.09.2016 n. 6675/36/2016.
Il caso vedeva contrapposta un'azienda di logistica e un'amministrazione comunale del Milanese, secondo cui gli elementi di riconoscibilità dell'impresa presenti sui veicoli e sulle attrezzature strumentali costituivano in realtà mezzi pubblicitari abusivi.
Diverso il parere del collegio meneghino, che ricorda come, ai sensi dell'articolo 5 del dlgs n. 507/1993, il presupposto impositivo scatta in presenza di «diffusione di messaggi pubblicitari nell'esercizio di un'attività economica, allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato».
La questione centrale, osservano i giudici, è quindi stabilire se l'esposizione di cartelli, loghi o recapiti integri il presupposto dell'imposta e, in caso affermativo, se essi rientrino nelle esenzioni previste dall'articolo 17 del citato dlgs (che esclude dal prelievo alcune pubblicità di dimensioni contenute entro specifiche soglie). A giudizio della Ctp, tuttavia, non è neanche necessario entrare nel merito della superficie dei «mezzi» contestati, in quanto nel caso di specie questi «non assolvono al compito principale ed esclusivo dei messaggi pubblicitari», ossia la promozione dei servizi offerti dall'azienda.
Le scritte e i loghi finiti sotto la lente dell'ente impositore, infatti, «rivestono portata generica, senza alcun richiamo alla attività svolta o al servizio reso dalla ricorrente» e sono semmai da considerare come «segnaletica identificativa della sede dell'azienda».
I recapiti societari e gli orari di apertura al pubblico non sono sufficienti a far considerare il messaggio pubblicitario, tanto più alla luce della collocazione in una strada privata (articolo ItaliaOggi del 05.10.2016).

APPALTIAppalti senza discriminazioni. No ai bandi che avvantaggiano sono i grandi gruppi. Sentenza del Tar Lazio che ha annullato una gara Consip per i servizi di vigilanza.
Stop alle gare d'appalto solo per i grandi gruppi grazie al nuovo codice dei contratti pubblici. Con l'entrata in vigore del decreto legislativo 50/2016, infatti, la necessità di garantire la libera concorrenza fra le imprese è divenuta il «baricentro del sistema» delle procedure a evidenza pubblica. E la regola vale anche per la centrale di committenza che pure ha il compito di garantire economie di scala negli acquisti della pubblica amministrazione.
Deve dunque essere annullato il bando della Consip per la vigilanza negli edifici pubblici che suddivide il territorio nazionale in tredici lotti, che non si rivelano ambiti ottimali: in base ai requisiti di fatturato richiesti, infatti, possono candidarsi all'affidamento del servizio soltanto ventiquattro imprese per lotto, mentre restano escluse tutte le altre piccole e medie imprese.

È quanto emerge dalla sentenza 30.08.2016 n. 9441, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso l'istituto di vigilanza che rischia di trovarsi fuori da un appalto di fondamentale importanza strategica per il settore: vale 540 milioni di euro e può condizionare il mercato dei servizi di sicurezza per i prossimi tre anni. A dire della Consip, la gara è stata indetta rispettando i dettami della legge 488/1999 che impone tagli alla spesa pubblica evitando negli acquisti della pubblica amministrazione i costi che derivano da procedure parcellizzate.
È vero, nel bando per i servizi di sorveglianza degli immobili pubblici le imprese possono associarsi in raggruppamenti temporanei senza che l'impresa mandante debba essere in possesso di percentuali minime del requisito di fatturato specifico. Ma l'ingresso in una Rti o il ricorso all'avvalimento sono frutto di scelte discrezionali delle imprese interessate e non basta l'astratta possibilità di queste opzioni per garantire la partecipazione al bando anche dei più piccoli. Il punto della controversia, poi, non è tanto la soglia richiesta per partecipare alla gara, che di per sé non può ritenersi irragionevole: risulta pari al valore annualizzato del massimale del lotto per il quale si presenta l'offerta.
Il fatto è, invece, che così come sono strutturati i lotti l'offerta può essere presentata soltanto dai big player del mercato e ciò impedisce alle imprese più piccole di incrementare le proprie qualificazioni e professionalità; il tutto mentre con l'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti la funzione pro-concorrenziale delle regole di evidenza pubblica ha assunto ancora maggiore rilievo, senza in alcun modo ledere l'interesse dell'amministrazione alla scelta del miglior contraente. All'esigenza di tutelare gli interessi pubblici si è infatti aggiunta negli anni la necessità di evitare la discriminazione fra le imprese, sotto la spinta dei principi e delle direttive eurounitarie.
La concentrazione del bando, nella specie, risulta estrema mentre dovrebbe invece essere bilanciata da una ripartizione in lotti tale da favorire condizioni di efficienza del mercato dal punto di vista dell'offerta. Insomma: bisognerebbe far crescere le piccole imprese, e non escluderle. E l'individuazione di un ambito ottimale, specie in una gara d'appalto pesante, impone un'istruttoria adeguata e l'obbligo di una motivazione articolata. Se non è garantita la libera competizione sul mercato si configura la violazione del nuovo codice degli appalti perché la concorrenza ne è «il centro di gravità». Spese del giudizio compensate per la complessità e la novità delle questioni.
Novella decisiva. E negli ultimi giorni è sopraggiunta un'altra pronuncia dei giudici amministrativi a favore della libera competizione sul mercato degli appalti pubblici. Non si può impedire alle piccole e medie imprese di accreditarsi a Spid, il servizio pubblico di identificazione che dà a ogni cittadino il suo pin per interagire con gli enti pubblici e dunque pagare il bollo auto, cambiare il medico di base o verificare la propria situazione contributiva per la pensione.
Arriva, infatti, un nuovo stop per il regolamento varato a suo tempo dall'Agenzia per l'Italia digitale. E ciò perché risultano ingiustificati i paletti posti per la partecipazione al bando su capitale sociale minimo e polizze assicurative. È quanto emerge dalla sentenza 10214/2016, pubblicata il 13.10.2016 dalla terza sezione del Tar Lazio, che si innesta sulla falsariga di un provvedimento pronunciato nel 2015.
Accolto di nuovo il ricorso proposto da Assoprovider e Assintel Confcommercio, le associazioni che riuniscono gli operatori del settore. Non c'è ragione né normativa superiore che imponga la previsione di un capitale minimo per la partecipazione pari a 5 milioni di euro: il paletto posto per l'accreditamento non risulta richiesto per gli operatori pubblici e ha l'effetto di distorcere il mercato, ostacolando la concorrenza nel comparto.
Sproporzionati anche gli importi per le polizze assicurative disposte: non sono commisurati ai rischi di danni a terzi connessi allo svolgimento dell'attività digitale che risultano già coperti dalla disciplina di settore: pesa in ultimo l'articolo 25 del decreto legislativo 179/2016, di modifica dell'articolo 29, comma 3, del decreto legislativo 82/2005, che introduce per l'avvenire significativi elementi di flessibilità. Anche in questo caso le spese di giudizio sono compensate (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATACondoni, rigetto senza sorprese. Diniego illegittimo per motivi non indicati nel preavviso. Sentenza del Tar Campania: non si può impedire al privato di esporre le controdeduzioni.
Il provvedimento conclusivo del comune non può bocciare il condono edilizio del privato per l'opera contro legge per motivi che non sono indicati nel preavviso di rigetto. E ciò perché così facendo si vanifica lo scopo dell'istituto di cui alla legge 10-bis della legge sulla trasparenza, la 241/1990, che prevede la partecipazione dell'interessato al procedimento: quando le motivazioni dello stop non coincidono con quelle annunciate si finisce per rendere inutili le memorie difensive presentate in precedenza dal proprietario del manufatto.

È quanto emerge dalla sentenza 27.08.2016 n. 4111 della III Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso del titolare del manufatto, che pure è stato sequestrato.
Il punto è che il parere dell'ufficio condono del comune spiega come la sanatoria possa essere concessa per le porzioni di immobile oggetto dell'istanza originaria e non per la parte restante, che si ritiene realizzata soltanto dopo la presentazione della domanda: si traccia dunque una netta linea di demarcazione, dalla quale tuttavia si discosta del tutto il dirigente che pronuncia il no definitivo al colpo di spugna.
Ed è proprio questo che fa sorgere dubbi sull'istruttoria condotta dall'amministrazione. Risulta evidente, osservano i giudici amministrativi, la violazione del principio del contraddittorio perché chi ha realizzato i lavori si vede privato da una fondamentale garanzia tipica del giusto procedimento: articolare valide controdeduzioni ai motivi che secondo il comune impediscono il condono.
L'istituto del preavviso di rigetto, infatti, ha lo scopo di far conoscere alla pubblica amministrazione, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da essa assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo.
Con la conseguente illegittimità del provvedimento di diniego la cui motivazione sia arricchita di ragioni giustificative diverse e ulteriori rispetto a quelle preventivamente sottoposte al contraddittorio procedimentale attraverso la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza del privato. Dato che altrimenti l'interessato non potrebbe interloquire con l'amministrazione anche su detti profili differenziali né presentare le proprie controdeduzioni prima della determinazione conclusiva dell'ufficio.
E salvo che il provvedimento finale si discosti dalla motivazione contenuta nel preavviso solo in funzione dell'esigenza di replicare alle osservazioni presentate dal privato.
I limiti all'azione dell'amministrazione locale sono un tema molto dibattuto nella giurisprudenza. Il comune, per esempio, non può acquisire gratis al suo patrimonio il manufatto abusivo e ciò benché i proprietari non abbiano adempiuto al provvedimento di demolizione emesso. Perché l'ordinanza di demolizione non risulta notificata a tutti i comproprietari dell'opera e l'amministrazione, a sua volta, non adempie all'ordine istruttorio di depositare in giudizio una copia del provvedimento così come notificato.
Risultato: l'abuso edilizio resta dov'è e forse non sarà comunque abbattuto, dal momento che risulta presentata nelle more la domanda di condono. È quanto emerge dalla sentenza 5876/2015, pubblicata dalla III Sez. sezione del Tar Campania. Accolto il ricorso del marito: l'ordinanza di demolizione, spiega, è stata notificata soltanto alla moglie e il comune non riesce a dimostrare il contrario.
Si configura dunque una patente violazione del diritto di difesa della parte privata: solo l'inottemperanza all'ordinanza di demolizione può far scattare l'acquisizione gratuita del manufatto abusivo al patrimonio comunale ma nella specie uno dei comproprietari non ha potuto partecipare al procedimento amministrativo in corso per la mancanza di una regolare comunicazione. Pesa contro l'amministrazione anche l'inerzia di fronte all'ordine istruttorio.
E in ogni caso l'amministrazione locale non avrebbe comunque potuto dare l'ordine di demolire il manufatto perché nel frattempo era stata proposta la domanda di condono e, dunque, si doveva prima esaminare l'istanza e soltanto dopo procedere con le misure repressive (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
L’ordine di idee di parte ricorrente è condivisibile.
L’impugnato del provvedimento prot. n. 15170 adottato in data 28.03.2014 con cui veniva rigettata l’istanza di sanatoria degli abusi edilizi di cui all’art. 39, L. n. 724/1994 in ditta De Cr.Ge. - prot. n. 52969 del 16.11.1994 - fascicolo n. 22-bis è stato emanato richiamandosi <<il parere tecnico-amministrativo espresso in data 26.11.2012 dall’Ufficio Condono Edilizio, reso dal tecnico incaricato dall’Amministrazione Comunale con il quale è emerso che l’istanza di condono edilizio prot. n. 52969 del 16.11.1994 - Fascicolo n. 22-bis è accoglibile solo per le porzioni di immobili di cui all’originaria istanza, mentre per le opere, aggiuntiva e successiva l’istanza sono da adottare i consequenziali provvedimenti repressivi. Precisamente saranno oggetto di repressione edilizia le seguenti opere: “collegamento di tutta la struttura con muratura e copertura di esse con ampliamento volumetrico. Inoltre, un corpo di fabbrica raffigurato nei progetti con la lettera “A” modificato nella copertura rispetto all’originaria istanza di condono>>.
Pertanto con il suddetto parere si poneva una precisa e netta linea di demarcazione tra le opere per le quali era stata presentata la domanda di condono e quelle realizzate -sul presupposto della loro autonoma seperabilità ed individualità- successivamente, riservandosi alle prime opere la possibilità di un provvedimento di accoglimento della istanza di condono e preannunciando per quelle successive l’adozione dei consequenziali provvedimenti repressivi.
Impostazione e criterio siffatti sono stati seguiti anche in occasione dell’invio della “comunicazione di avvio del procedimento - artt. 7, 8 e 10 bis, Legge 241/90 - Finalizzato all’adozione di provvedimenti repressivi opere abusive”, di cui alla nota prot. n. 14970 del 05.04.2013, versata agli atti del giudizio ed avente ad oggetto: “Istanza di sanatoria per abusi edilizi di cui all’art. 39 legge 724/94 - prot. n. 52969 del 16.11.1994 - Fascicolo n. 22-bis”, con la quale, dopo avere “Ritenuto di potere esprimere parere di procedibilità tecnica limitatamente alle opere oggetto della originaria istanza di condono edilizio e parere di improcedibilità per le opere aggiuntive e successive l’istanza come sopra descritte”, si comunicava, ai sensi dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, l’avvio del procedimento finalizzato alla demolizione delle opere abusive realizzate successivamente alla presentazione dell’istanza di condono, consistenti in: “collegamento di tutta la struttura con muratura e copertura di esse con ampliamento volumetrico. Inoltre un corpo di fabbrica distinto nei progetti con la lettera “A” modificato nella copertura rispetto all’originaria all’atto dell’istanza di condono”, avvertendosi che l’iter amministrativo della pratica di condono prot. n. 52969 del 16.11.1994 - Fascicolo n. 22-bis, risulta improcedibile soltanto nelle more dell’ottemperanza ai provvedimenti repressivi che saranno emessi da questo Ente.
Invece,
in assenza di alcun elemento di valutazione innovativo e/o sopravvenuto, inspiegabilmente, in sede di determinazione finale, il dirigente ha ritenuto di rigettare in toto l’istanza di condono edilizio, individuando quale motivo di rigetto la circostanza (mai in precedenza ostentata) che, dal confronto di non meglio precisate risultanze istruttorie emergerebbe che detti interventi sono “stati realizzati successivamente alla presentazione della domanda di condono”.
Né alla circostanza che il provvedimento finale risulta, all’evidenza, adottato in modo non del tutto coerente con gli esiti istruttori, può ovviarsi affermando nell’impugnato provvedimento che “il preavviso di diniego, previsto dall’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241 costituisce un atto privo di contenuto provvedimentale con cui l’Amministrazione rende noto all’interessato il suo intendimento del tutto provvisorio, di procedere al diniego della sua domanda”, atteso che, pur non avendo contenuto provvedimentale, il preavviso di diniego è un atto che ha una sua rilevanza nell’ambito della formazione progressiva della decisione istruttoria procedimentale, nell’ottica segnata dall’art. 6, co. 1, lett. e), della legge n. 241 del 1990, il dirigente competente non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
Ne deriva altresì che
in presenza di elementi di contraddittorietà e di perplessità emersi nel corso dell’istruttoria esperita, non può non risultarne inficiata anche la motivazione della determinazione finale di rigetto integrale della domanda di condono.
Nota il Collegio che
il contrasto logico o, comunque, la disconnessione riscontrata nel provvedimento finale rispetto ad atti e circostanze emerse nel corso del procedimento è particolarmente grave allorquando il predetto contrasto si appalesa nella non perfetta coincidenza della determinazione finale con la comunicazione preventiva dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, ai sensi dell’art. 10-bis L. n. 241/1990.
In tale caso è evidente lesione dei principi del contraddittorio e della partecipazione al procedimento, in quanto l’inserimento, nel provvedimento conclusivo di motivi, assenti o, comunque, non integralmente esplicitati, nel c.d. preavviso di rigetto, finisce con il frustrare, sul piano della effettività, lo scopo partecipativo dell’istituto, facendo venire a mancare nell’interessato una fondamentale garanzia, tipica del giusto procedimento, costituita dalla possibilità di articolare valide controdeduzioni alle argomentazioni ostative.
Il rubricato art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, prevede che: <<Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda>> ed, indubbiamente, l’ampio raggio d’azione di un siffatto obbligo deriva da una legge, che se non costituzionale, è, indubbiamente da considerare di “sostanza costituzionale” in quanto tesa a dare attuazione ai principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
Infatti con una siffatta previsione, superando le perplessità sorte anche in giurisprudenza circa la necessità o meno della comunicazione di avvio del procedimento anche nei procedimenti ad istanza di parte, il Legislatore, esaltando la partecipazione dell’interessato ai processi decisionali che lo riguardano e con evidente finalità di deflazione del contenzioso giudiziario, ha inteso garantire un proficuo contraddittorio proprio allorquando il procedimento sta per concludersi con l’emanazione di un provvedimento sfavorevole all’interessato.
Secondo condivisa giurisprudenza: <<
La violazione da parte della P.A. dell’art. 10-bis L. n. 241/1990, relativo all’obbligo di inoltrare all’interessato la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza ha carattere assorbente e comporta l’annullamento del provvedimento conclusivo del procedimento in quanto è risultata preclusa -per la parte interessata- la partecipazione al procedimento>> (TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 08.09.2005, n. 6618 e TAR Lazio, sez. II, 18.05.2005, n. 3921).
Tuttavia,
al fine di non frustrare la funzione garantistica cui sopra si accennava e perché l’istituto del c.d. preavviso di diniego possa assolvere alla finalità di assicurare la partecipazione sul piano della effettività e non si risolva in un mero formalismo fine a se stesso prestandosi ad abusi o elusioni, necessita che i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, come comunicati nel c.d. preavviso si ritrovino o, comunque, si presentino in linea di coerenza logica con la parte motiva del provvedimento negativo, che magari potrà anche risultarne arricchito con l’aggiunta di ulteriori rilievi conseguenti alle osservazioni presentate dall’interessato, ma non potrà contenere una motivazione del tutto estranea ai motivi in precedenza comunicati ex art. 10-bis.
Secondo condivisa giurisprudenza <<
L'istituto del preavviso di rigetto, di cui all'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, ha lo scopo di far conoscere alla P.A., in contraddittorio rispetto alle motivazioni da essa assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo; con la conseguente illegittimità del provvedimento di diniego la cui motivazione sia arricchita di ragioni giustificative diverse e ulteriori rispetto a quelle preventivamente sottoposte al contraddittorio procedimentale attraverso la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza del privato, dato che altrimenti l'interessato non potrebbe interloquire con l'amministrazione anche su detti profili differenziali né presentare le proprie controdeduzioni prima della determinazione conclusiva dell'ufficio. E salvo che il provvedimento finale si discosti dalla motivazione contenuta nel preavviso solo in funzione dell'esigenza di replicare alle osservazioni presentate dal privato>> (TAR Catania sez. I, 30/07/2015, n. 2103).
Nella fattispecie, come agevolmente percepibile dal raffronto fra la nota n. prot. 14970 del 05.04.2013, recante il preavviso di diniego ex art. 10-bis citato ed il provvedimento prot. n. 15170 adottato in data 28.03.2014, contenente il definitivo provvedimento di diniego totale,
si rileva una evidente e rilevante asimmetria motivazionale, nel senso che in tale ultimo provvedimento si rinvengono motivazioni ulteriori e, comunque, non pienamente collimanti rispetto a quelle preannunciate nel preavviso di diniego, in tal modo vanificandosi del tutto le osservazioni e le memorie difensive presentate dall’interessato.
Né in contrario rileva che -come riferito nel medesimo provvedimento impugnato- in concreto “avverso il preavviso non sono pervenute osservazioni da giustificare la legittimità delle opere contestate nell’avvio del procedimento prot. 14970 del 05.04.2013, atteso che ciò che rileva, ai fini della illegittimità del provvedimento impugnato, è che l’interessato, in ogni caso, non è stato messo in grado di presentare, a ragion veduta, osservazioni difensive in ordine alle effettive ragioni (in particolare sulla circostanza che gli interventi in discussione “sono stati realizzati successivamente alla presentazione della domanda di condono”) per le quali l’istanza non sarebbe stata, poi, accolta.
In definitiva, ogni altra censura assorbita, il ricorso è fondato e deve essere accolto con il conseguente annullamento del provvedimento prot. n. 15170 del 28.03.2014 e con salvezza per quelli ulteriori.

INCARICHI PROGETTUALIAssociazione temporanea rafforzata.
L'associazione temporanea d'imprese conserva l'attribuzione dell'appalto anche se uno dei tecnici delle società, partecipanti si è già occupato del palazzo storico dove devono essere svolti i lavori messi a gara.
E ciò perché la norma dettata a tutela della concorrenza nei servizi di ingegneria e architettura punta soltanto a impedire che lo stesso soggetto che a suo tempo ha redatto il progetto possa poi aggiudicarsi appalto perché si trova nella condizione di vantaggio di conoscere già la situazione dell'immobile.

É quanto emerge dalla sentenza 12.08.2016 n. 777 del TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I.
Un ingegnere dello studio aderente all'Ati ha firmato a suo tempo uno studio diagnostico sulla staticità dell'antico fabbricato che ospita l'amministrazione comunale.
Non si configura, però, la dedotta violazione dell'art. 90, comma 8, del codice dei contratti pubblici, che vieta soltanto una commistione tra il soggetto che effettua la progettazione di un'opera e colui che gli darà materiale esecuzione: si tratta invero di una norma che limita la libertà economica e dunque non è possibile interpretarla in modo estensivo o peggio per analogia.
Gli studi «incriminati» dell'ingegnere, in effetti, sono pubblici: si limitano a verificare il rischio sismico per il fabbricato e non sono stati considerati in sede di valutazione dell'offerta tecnica (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il primo motivo di ricorso si duole del fatto che il pregresso incarico svolto dall’ing. Gi.To. relativo allo “studio diagnostico sulla staticità del Palazzo Comunale" ed alle "verifiche tecniche di rilevamento della vulnerabilità sismica” avrebbe consentito al raggruppamento aggiudicatario di avere un indebito vantaggio competitivo per la conoscenza che da tali incarichi è scaturita circa le soluzioni da adottare per eseguire la progettazione oggetto di gara.
A sostegno della doglianza viene richiamato il contenuto dell’art. 90, comma 8, D.lgs. 163/2016 che così dispone: “Gli affidatari di incarichi di progettazione non possono essere affidatari degli appalti o delle concessioni di lavori pubblici, nonché degli eventuali subappalti o cottimi, per i quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione; ai medesimi appalti, concessioni di lavori pubblici, subappalti e cottimi non può partecipare un soggetto controllato, controllante o collegato all'affidatario di incarichi di progettazione. Le situazioni di controllo e di collegamento si determinano con riferimento a quanto previsto dall'articolo 2359 del codice civile. I divieti di cui al presente comma sono estesi ai dipendenti dell'affidatario dell'incarico di progettazione, ai suoi collaboratori nello svolgimento dell'incarico e ai loro dipendenti, nonché agli affidatari di attività di supporto alla progettazione e ai loro dipendenti.”.
La norma non sembra riguardare il caso di specie poiché non si tratta di eseguire appalti che derivino da una progettazione realizzata dallo stesso soggetto.
La ratio della norma è chiara si vuole evitare una commistione tra il soggetto che effettua la progettazione di un’opera e colui che gli darà materiale esecuzione anche perché potrebbe essere necessario che il progettista esegua anche compiti di ausilio della stazione appaltante quale la direzione lavori.
Peraltro trattandosi di una norma limitativa della libertà economica non è possibile interpretarla estensivamente o peggio per analogia.

Vi è da dire, inoltre, che gli studi effettuati in passato dall’ing. To. non sono documenti riservati, ma liberamente consultabili e addirittura, a norma del bando, vi era l’obbligo da parte dei concorrenti di prenderne visione.
Inoltre gli incarichi precedentemente svolti per il Palazzo comunale non sono stati considerati in sede di valutazione dell’offerta tecnica.
Non vi è stata, pertanto, alcuna lesione dei principi richiamati nel motivo di ricorso che risulta in conclusione infondato.

TRIBUTIIci, decadenza in 5 anni e conta la ricezione.
Il termine quinquennale di decadenza per l'accertamento dell'imposta comunale sugli immobili si conta avendo riguardo al momento in cui il contribuente riceve l'atto, senza che sia possibile invocare il principio di scissione soggettiva tra notificante e destinatario (ove per il primo conta la spedizione, per il secondo la ricezione).
Solo alla ricezione, infatti, la notifica si perfeziona, così che essa, per rispettare i termini di decadenza e prescrizione, deve raggiungere il proprio scopo (e quindi giungere al destinatario) entro i tempi prestabiliti.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 20.07.2016 n. 6384/01/2016 della Ctp di Milano - Sez. I.
Il collegio meneghino ha annullato un avviso di accertamento Ici relativo all'annualità 2009 e pervenuto al contribuente, per via postale, nei primi giorni del 2015. Il comune resistente sosteneva di aver consegnato il plico al servizio postale prima che fosse spirato il termine di decadenza, ovvero entro il 31/12/2014.
Il contribuente manifestava invece la propria ricezione dell'atto, avvenuta in data 16.01.2015 e l'inapplicabilità del principio di scissione della notifica. Tale principio, derivante dalla nota sentenza della Corte cost. n. 477/2002, considera avvenuta la notifica per il notificante al momento della consegna dell'atto all'ufficio notificante, e per il destinatario al momento della ricezione dell'atto, salvaguardando entrambe le ragioni di tempestività dell'esercizio del diritto e di conoscenza dell'atto.
Ma il principio, secondo parte della giurisprudenza, vale solo per gli atti processuali e non per quelli sostanziali diretti a una persona determinata, per i quali vi è lo sbarramento dell'art. 1334 che ne ricollega l'efficacia alla conoscenza del destinatario («Gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati»).
La Ctp ha accolto il ricorso, ritenendo che, ai fini del rispetto del termine di decadenza, non possa valere il principio di scissione soggettiva della notifica, dovendo l'atto pervenire al destinatario entro lo spirare del predetto termine: unico momento in cui, secondo il collegio, può ritenersi perfezionato l'iter notificatorio.
Il termine di decadenza, poi, aggiunge la Ctp, è un termine perentorio e, come tale, non prorogabile ai sensi dell'articolo 153 del codice di procedura civile, il quale recita che «I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati ( )».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Sezione giudicante così decide. Il ricorso viene accolto alle stregua delle seguenti motivazioni e argomentazioni. II tributo in esame era relativo all'annualità 2009, il cui termine di decadenza dell'amministrazione, per la notifica dell'atto, spirava il 31.12.2014, in quanto quest'ultima può esigere il pagamento del tributo Ici entro cinque anni da quando il diritto alla esazione è sorto.
Nel caso in esame, risulta allegata al ricorso la copia fotostatica racc. n. 614195962604, con la quale Posteitaliane certifica che la data di accettazione del plico raccomandato è del 07.01.2015. La notifica, essendo atto di natura recettizia si è perfezionata il giorno 16.01.2015, così come risulta dalla certificazione di Posteitaliane sopra citata, ovvero nel giorno in cui la contribuente è venuta a conoscenza, per il tramite del ricevimento dell'avviso di accertamento della pretesa comunale.
Il termine quinquennale di cui sopra, è un termine perentorio e, quindi, improrogabile, ex art. 153 cpc e questo Giudice condivide l'interpretazione fornita dalla ricorrente, laddove afferma che non è possibile invocare il principio di scissione soggettiva, tra notificante e destinatario dell'atto attraverso il quale, per il primo si intende perfezionata la notifica dal momento di spedizione e, quindi, consegna della stessa e, per il secondo, dal momento di ricevimento della notifica.
Piace ricordare come, ai sensi dell'articolo 1, commi 161-167, della legge finanziaria per il 2007 ovvero, la legge 296/2006, il termine perentorio, non suscettibile di proroghe o modifiche ai sensi dell'articolo 153 cpc, di anni cinque, è quello applicabile ai tributi esatti dalle amministrazioni locali, tributi nel cui ambito rientra certamente quello ora in esame.
Più precisamente, il secondo periodo del comma 161 della legge da ultimo richiamata, testualmente recita: «Gli avvisi di accertamento in rettifica e d'ufficio devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati». La questione di diritto assurge a fattispecie pregiudiziale e, per l'effetto, il merito, è da questa assorbito. Sono queste le ragioni per le quali il ricorso viene accolto e annullato in toto l'atto impugnato. Le spese di giudizio seguono la soccombenza, come da dispositivo.
Il Collegio giudicante
PQM annulla l'atto impugnato. Condanna parte soccombente alla rifusione delle spese liquidate in complessivi 150,00 (articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016).

TRIBUTISul verde niente imposta comunale.
Un'area ricompresa in una zona destinata a verde pubblico attrezzato dal piano regolatore generale non è soggetta al pagamento dell'imposta comunale. Il vincolo di destinazione, infatti, non consente di considerare l'area come edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione del bene.

È quanto si legge nella sentenza 15.07.2016 n. 4226/06/2016 della Ctr di Milano.
Il giudice tributario della Lombardia ha confermato la decisione dei colleghi provinciali, impugnata dal comune di Varedo, pronunciandosi a favore del contribuente, per il quale sono state disposte anche le spese del grado di giudizio, quantificate in euro ottocento, oltre accessori di legge.
La questione controversa trattata nella sentenza in commento concerne il fatto che il vincolo di destinazione urbanistica a «verde pubblico» sottragga, o meno, l'area al regime fiscale dei suoli edificabili, ai fini dell'Ici. La Ctr di Milano ha ritenuto che, in tal caso, l'area sia esente dall'imposta poiché sottoposta a un vincolo che preclude tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione di edificazione.
Infatti, se il piano regolatore generale del comune stabilisce che un'area sia destinata a verde pubblico attrezzato, tale disposizione urbanistica impedisce l'edificazione. Dunque, l'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se inclusa in zona indicata come edificabile nello strumento urbanistico.
Pertanto, quando, come nella fattispecie, la zona sia stata concretamente vincolata a un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche ecc.), la classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione.
Sulla stessa linea della Ctr di Milano, si può segnalare la sentenza n. 5992/2015 della Corte di cassazione, con cui Piazza Cavour respingeva ricorso presentato da un comune abruzzese, che aveva impugnato una sentenza della Ctr Abruzzo favorevole al contribuente.
Non sempre tuttavia, la Suprema corte è stata univoca su questioni del genere, per esempio essendosi espressa anche in senso contrario al contribuente, affermando la debenza dell'Ici per un'area edificabile, anche se sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata (Cass. n. 9131/2007).
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso proposto da Brianza Srl avverso avviso di accertamento Ici anno 2010 sul presupposto che le aree con destinazione a verde pubblico non sono assoggettabili a Ici in quanto sottoposti a vincoli che di fatto ne impediscono l'edificabilità.
Appella il comune di Varedo censurando la sentenza impugnata e ribadendo in via preliminare la inammissibilità del ricorso introduttivo perché proposto oltre il termine perentorio stabilito dalla normativa vigente e, nel merito, asserendo la correttezza del proprio operato in quanto l'area in questione deve considerarsi edificabile ai sensi dell'art. 2, comma 1, lettera b), del dlgs 504/1992 ove stabilito che un terreno deve essere considerato edificabile sia nel caso in cui per lo stesso terreno esistono possibilità effettive di costruzioni. Fa presente che la norma delinea una nozione di area edificabile ampia ispirata alla mera potenzialità edificatoria.
Tale possibilità non può essere esclusa da vincoli o destinazioni urbanistiche che possono incidere solo sul valore venale del terreno. La potenzialità attribuita a un'area mediante lo strumento perequativo rappresenta un riconoscimento implicito di edificabilità che non può essere assoggettato a Ici. (...)
La Commissione tributaria regionale ritiene di dover confermare la sentenza impugnata in quanto, in tema di Imposta comunale sugli immobili (Ici) un'area, come quella in questione, compresa in una zona destinata in base al piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato è esente dell'imposta perché sottoposta ad un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, sicché non può essere qualificata come fabbricabile, ai sensi dell'art. 1, comma 2 del dlgs 30/12/1992, n. 504 e resta sottratta al regime fiscale dei suoli edificabili.
Ogni altra questione rimane assorbita.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
PQM
La Commissione conferma la sentenza impugnata e condanna il comune alla rifusione delle spese del grado che liquida in complessivi 800.00 oltre gli accessori di legge (articolo ItaliaOggi Sette del 17.10.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIABonifica, un dovere a 360 gradi. Proprietari tenuti a smaltire i rifiuti depositati da terzi. Il Tar Piemonte: è la titolarità che impone di vigilare contro i rischi per la salute.
Il proprietario deve smaltire i rifiuti abbandonati sul suo terreno anche se a depositarli sono i terzi, per esempio l'azienda che conduce il fondo in affitto. E ciò perché è il diritto dominicale sul cespite, così come inquadrato dalla Costituzione, a imporre al titolare di attivarsi, vigilando su ciò che è suo contro i pericoli per l'igiene e la salute pubblica.
Ancora: un primo ordine di bonifica, sospeso dal comune e poi seguito da un altro provvedimento, ben può fungere da comunicazione di avvio del procedimento in base alla legge sulla trasparenza degli atti amministrativi.

È quanto emerge dalla sentenza 15.07.2016 n. 994, pubblicata dalla I Sez. del TAR Piemonte.
Proroga inconferente. Deve rassegnarsi, la società proprietaria del fondo. Sul terreno ora affittato a terzi si trovano rottami e rifiuti di ogni genere. Senza dimenticare l'amianto. E alcune carcasse di elettrodomestici risultano riconducibili proprio all'attività svolta un tempo in loco dalla stessa azienda, che riceve l'ordine di bonifica in solido con l'impresa conduttrice.
Ma il punto è che anche se i rifiuti fossero stati abbandonati tutti da terzi il proprietario non potrebbe comunque chiamarsi fuori dallo smaltimento: la colpa nell'omissione del titolare dell'area, infatti, si configura in ogni caso di negligenza, che va interpretata come «mancata diligenza» e dunque «incuria e trascuratezza» nella gestione del bene.
Tra lo stop alla prima ordinanza e il secondo ordine di liberare il fondo dai rifiuti la società ben avrebbe potuto chiedere l'accertamento in contraddittorio dopo il sopralluogo dell'Arpa, l'agenzia regionale di protezione ambientale. Non l'ha fatto: si è limitata a domandare una proroga. E quindi ora deve provvedere e anche pagare le spese di giudizio.
I limiti al potere del comune in materia di igiene rispetto alla proprietà altrui sono una questione molto dibattuta nella giurisprudenza amministrativa. Per esempio: chi deve raccogliere i rifiuti abbandonati lungo la strada statale? Spetta all'ente proprietario dell'infrastruttura di collegamento, cioè l'unico che può e sa operare sulla carreggiata ostacolando il meno possibile il traffico dei veicoli. È così che il sindaco del comune nel cui territorio rientra il deposito di materiale inquinante ben può ordinare all'Anas di provvedere a rimuoverlo.
È quanto emerge dalla sentenza 51/2016, pubblicato dalla seconda sezione del Tar Campania.
In dettaglio: niente da fare per l'ente nazionale delle strade, non giova invocare violazione e falsa applicazione del testo unico sull'ambiente e del principio eurounitario «chi inquina paga», di cui alla direttiva 2004/35/Cee.
Si applica l'articolo 14 del codice della strada che impone obblighi ben precisi in materia di «poteri e compiti degli enti proprietari» delle infrastrutture: si tratta di una norma speciale di settore che, dunque, non può essere derogata se non da un'altra disposizione dello stesso tenore che la privi di efficacia; il decreto legislativo 152/06, invece, non contiene previsioni ad hoc in materia di sicurezza stradale e non viene quindi in rilievo la giurisprudenza relativa a ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi dalla sede stradale e dalle sue pertinenze.
Sarebbe illogico, concludono i giudici, imporre al Comune di rimuovere i rifiuti abbandonati nel sottopassaggio della statale: i mezzi dell'amministrazione locale con gli operatori ecologici finirebbero per intralciare il flusso dei veicoli, mentre deve ritenersi che le squadre dell'Anas siano abituate a operare lungo le strade di competenza. L'ente paga le spese di giudizio.
Passando a quanto attiene ai condomini, l'edificio deve avere locali ad hoc dove smaltire i rifiuti prodotti dai residenti, anche se non è di recente costruzione: il regolamento edilizio e quello di igiene, infatti, consentono al comune di ordinare all'ente di gestione di dotarsi di strutture adeguate quando l'immondizia risulta ammassata negli spazi comuni del complesso residenziale, in modo da poter nuocere alla salute degli stessi condomini.
È quanto emerge dalla sentenza 399/2015, pubblicata dalla quarta sezione del Tar Lombardia.
Niente da fare per il ricorso del condominio: risulta legittimo il provvedimento del Comune di Milano che ingiunge all'ente di gestione di trovare un locale adeguato dove stoccare la spazzatura, preferibilmente lontano da dove abita qualcuno. Decisivo il sopralluogo dell'Asl, inutile fare i furbi: spariscono i sacchetti dell'immondizia ammassati su trespoli a tre metri dalle finestre, ma ricompaiono pochi lontano, nei pressi dei box auto, in un altro luogo che gli ispettori ritengono inadeguato per lo smaltimento dei rifiuti.
L'immondizia risulta stoccata direttamente a terra, non lontana dagli appartamenti, in attesa del conferimento al servizio pubblico di raccolta: una situazione incompatibile con ogni elementare regola di pulizia. Ecco allora che superiori ragioni di igiene impongono all'amministratore del caseggiato di attrezzarsi secondo le istruzioni dell'amministrazione locale. Al condominio non resta che pagare le spese di giudizio.
Resta da capire che cosa succede se il deposito incontrollato di rifiuti avviene su di un terreno occupato abusivamente. E non è il proprietario che deve ripulire, mettere in sicurezza e recintare l'area. O almeno: non è il comune che glielo può imporre con un'ordinanza se manca la prova del dolo o della colpa da parte del titolare del fondo.
È quanto emerge dalla sentenza 1482/2015, pubblicata dalla terza sezione del Tar Lombardia.
Annullato perché illegittimo il provvedimento adottato da un comune in provincia di Milano dopo l'incendio che ha interessato l'area occupata dai nomadi. In origine c'era una comunità di giostrai in affitto ma in seguito si sono aggiunti insediamenti di abusivi che oggi non pagano alcun canone e si attaccano ai contatori per rubare l'energia elettrica: si sospetta che proprio dall'allacciamento non autorizzato si sia sviluppato il rogo.
 Il punto è che l'amministrazione locale sa che nel campo ci sono occupanti senza titolo e non può imporre al proprietario un'attività che si risolverebbe nel farsi giustizia da sé: nessun privato può infatti procedere in proprio a sgomberare un terreno e a portare via i beni presenti senza il consenso degli interessati.
E per le questioni di ordine pubblico serve sempre l'intervento delle autorità. Infine: soltanto chi è corresponsabile dell'abbandono incontrollato dei rifiuti può essere costretto alla rimessione in pristino dal provvedimento amministrativo: manca la prova della responsabilità in capo al proprietario del terreno. Al comune non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIAComuni, sì alla gestione interna.
Sì alla raccolta dei rifiuti in città gestita in house. Il comune ben può scegliere la soluzione interna per affidare il servizio di igiene ambientale perché l'ordinamento giuridico non predilige in assoluto né il privato né il pubblico né il partenariato misto: la scelta è affidata alla singola amministrazione a patto che sia conveniente per la comunità e deve dunque emergere da costi per abitante che siano trasparenti rispetto alle attività svolte.
È quanto emerge dalla sentenza 17.05.2016 n. 691, pubblicata dalla II Sez. della sede staccata di Brescia del TAR Lombardia: alla pronuncia non risulta applicabile le norme sopravvenute rappresentate dal nuovo codice appalti ma i principi affermati risultano in linea con la novella.
«Ampiamente discrezionale». Così è la scelta rimessa al Comune fra esternalizzare il servizio o provvedere in house. E nella specie la soluzione interna garantisce le attività essenziali nei servizi di igiene ambientale mentre la comunità amministrata ne ricava un vantaggio come emerge dalla comparazione del costo unitario praticato.
La gestione in house, peraltro, offre servizi accessori e s'impegna a tenere aperto un front office in favore degli utenti che possa portare a termine al meglio il passaggio delle consegne fra la vecchia e la nuova gestione, garantendo la continuità.
La soluzione interna risulta in grado di portare a termine la scelta politica dell'amministrazione locale che punta a incrementare la raccolta differenziata. Non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016).
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MASSIMA
1. Passando all’esame del merito, la prima censura è priva di pregio.
1.1 Premette il Collegio che il modello in house costituisce un modo di gestione ordinario dei servizi pubblici locali, alternativo rispetto all’affidamento mediante selezione pubblica, per cui non costituisce un’eccezione alla regola (cfr. TAR Liguria, sez. II – 08/02/2016 n. 120).
Il quinto considerando della direttiva U.E. 24/2014 sugli appalti pubblici, stabilisce sul punto che “
È opportuno rammentare che nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
1.2 Recentemente il Consiglio di Stato (cfr. sez. V – 15/03/2016 n. 1034) ha evocato l'orientamento comunitario secondo cui
un'autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e può farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche (in tal senso: CGUE, sentenza 06.04.2006 in causa C-410/14 (ANAV), e ha richiamato la propria precedente giurisprudenza la quale ha <<a propria volta stabilito che, stante l'abrogazione referendaria dell'articolo 23-bis del D.L. n. 112 del 2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell' articolo 4 del D.L. n. 138 del 2011 e le ragioni del quesito referendario (lasciare maggiore scelta agli enti locali sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali, anche mediante internalizzazione e società in house), è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (Cons. Stato, VI, 11.02.2013, n. 762)>>.
1.3 Anche questo TAR ha statuito (cfr. sentenza sez. II – 22/03/2016 n. 431) che “
l'ordinamento non predilige né l'in house, né la piena espansione della concorrenza nel mercato e per il mercato e neppure il partenariato pubblico-privato, ma rimette la scelta concreta al singolo Ente affidante …In definitiva, i servizi pubblici locali di rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando, all'esito di una gara ad evidenza pubblica, il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di una Società mista e quindi con una "gara a doppio oggetto" per la scelta del socio e per la gestione del servizio), ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house …”.
In particolare, devono essere osservate le modalità stabilite all’art. 34, comma 20, del D.L. 18/10/2012 n. 179 conv. in L. 17/12/2012 n. 221, per cui «
per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste».
Da ultimo questa Sezione (cfr. sentenza 09/05/2016 n. 639) ha osservato come “
la scelta, espressa da un ente locale, nella specie da un Comune, nel senso di rendere un dato servizio alla cittadinanza con una certa modalità organizzativa piuttosto di un’un'altra, ovvero in questo caso di ricorrere allo in house e non esternalizzare, è ampiamente discrezionale, e quindi, secondo giurisprudenza assolutamente costante e pacifica, è sindacabile nella presente sede giurisdizionale nei soli casi di illogicità manifesta ovvero di altrettanto manifesto travisamento dei fatti: nella materia dei servizi pubblici, affermano ad esempio il principio in generale C.d.S. sez. V 06.05.2011 n. 2713 e nel caso specifico della scelta di una gestione in house TAR Liguria sez. II 08.02.2016 n. 120 e TAR Puglia Bari sez. I 12.04.2006 n. 1318”.
1.4 Sotto altro punto di vista,
la relazione che supporta la scelta comunale di operare mediante affidamento in house (cfr. art. 34, comma 20, del D.L. 179/2012) è finalizzata a rendere trasparenti e conoscibili agli interessati tanto le operazioni di riscontro delle caratteristiche che fanno dell'affidataria una società in house, quanto il processo d’individuazione del modello più efficiente ed economico alla luce di una valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti (TAR Friuli Venezia Giulia – 26/10/2015 n. 468; TAR Abruzzo Pescara – 14/08/2015 n. 349).
Anche il recente D.Lgs. 18/04/2016 n. 50, non applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, statuisce all’art. 192, comma 2, che “
Ai fini dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
1.5 Nel caso in oggetto, l’esame della relazione tecnico economica predisposta dal Comune induce il Collegio a ritenere la scelta immune dai vizi dedotti. La stessa risulta infatti esaustiva per le ragioni che seguono:
- racchiude una comparazione tra i costi del servizio per abitante, dalla quale affiora la convenienza del prezzo unitario offerto dalla controinteressata (79,97 €) rispetto al valore medio calcolato in 7 Comuni (compreso Cologno al Serio) di dimensioni e territorio analoghi (94,71 €) e alle condizioni praticate all’Ente resistente dal precedente gestore (94,11 €); al riguardo, le rimostranze sull’eterogeneità dei territori e dei dati demografici sono state affermate in modo apodittico dalla ricorrente, senza insinuare dubbi con riscontri oggettivi ed elementi concreti;
- garantisce le prestazioni essenziali del servizio di igiene ambientale, oltre a interventi di carattere accessorio e complementare, tra le quali si possono citare la sensibilizzazione nel progetto di riduzione dei rifiuti da avviare a discarica o inceneritore, mediante laboratori didattici presso le scuole e incontri di aggiornamento della popolazione; ricerca, progettazione e realizzazione di sistemi alternativi di riutilizzo/recupero dei rifiuti; incontri periodici con l’utenza;
- racchiude l’impegno a mantenere attivo l’attuale Sportello front-office per l’intero 2016 (per facilitare i rapporti tra utenti e nuova Società – art. 17 lett. a – allegato A del disciplinare);
- con riguardo al problema della disomogeneità dei dati esibiti, la controinteressata ha sottolineato che la spesa prevista comprende tutte le attività correlate alla gestione del ciclo integrato dei rifiuti, incluse quelle di gestione della TARI;
- Servizi comunali garantisce per 5 anni (quale costo massimo) quello sostenuto dal Comune di Cologno al Serio durante la precedente gestione (art. 17 lett. b – allegato A del disciplinare).
In altra causa recentemente affrontata da questa Sezione (cfr. sentenza 09/05/2016 n. 639, già citata) si è osservato come
la relazione sia esaustiva qualora dimostri l’efficienza e la convenienza economica dell’affidamento, sottolineando che un’esposizione che illustri la scelta politica di spingere verso la raccolta differenziata (adottando nel Comune il metodo della cd. raccolta “porta a porta” ovvero la “differenziata spinta”) e raffronti i costi del servizio con quelli di alcuni Comuni ritenuti equivalenti non riveli illogicità, le quali <<secondo la giurisprudenza –in generale ad esempio C.d.S. sez. V 11.12.2015 n. 5655 e sez. III 23.11.2015 n. 5306- devono essere “abnormi” ovvero “macroscopiche”>>.
1.6 Per le ragioni illustrate, la scelta dell’amministrazione è adeguatamente motivata.
A fronte di un’ampia discrezionalità,
il Comune ha rispettato le prescrizioni di cui all’art. 34, comma 20, del D.L. 179/2012. La relazione esplicita in modo sufficientemente esaustivo le ragioni dell’affidamento, definendo gli obblighi di servizio pubblico in capo alla Società affidataria. L’economicità della gestione è avvalorata dai dati esibiti in giudizio, anche mediante il confronto con realtà territoriali simili.
In disparte ogni ulteriore approfondimento sull’attendibilità della proposta economica formulata da G.ECO (contestata dalle parti resistenti, in particolare dalla controinteressata con la produzione del costo esibito da G.ECO presso il Comune di Ponte San Pietro),
è opinione del Collegio che una modesta differenza sui costi complessivi non interferisca sulla bontà complessiva dell’opzione per il modello in house.
Quest’ultimo, infatti, deve obbedire a canoni di economicità, e tuttavia si differenzia dal sistema della gara pubblica, per cui anche un prezzo complessivamente (e moderatamente) superiore non compromette (necessariamente) gli obiettivi di interesse pubblico perseguiti dall’amministrazione procedente, in presenza di indicatori positivi rinvenibili nel disciplinare e nel contratto di servizio.
1.7 Non appare persuasiva la lamentata violazione dell’art. 3-bis, comma 1-bis, del D.L. 138/2011, dal momento che
il Piano economico-finanziario asseverato è correlato alla necessità di realizzare “interventi infrastrutturali” da parte del soggetto affidatario.
Infatti la disposizione invocata statuisce che “Al fine di assicurare la realizzazione degli interventi infrastrutturali necessari da parte del soggetto affidatario, la relazione deve comprendere un piano economico-finanziario che, fatte salve le disposizioni di settore, contenga anche la proiezione, per il periodo di durata dell'affidamento, dei costi e dei ricavi, degli investimenti e dei relativi finanziamenti, con la specificazione, nell'ipotesi di affidamento in house, dell'assetto economico-patrimoniale della società, del capitale proprio investito e dell'ammontare dell'indebitamento da aggiornare ogni triennio”. Non affiorano dagli atti di causa specifiche tipologie di investimento da effettuare per “interventi infrastrutturali”.

2. Anche il secondo motivo è infondato.
2.1 E’ noto che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea,
nel caso in cui il capitale della Società in house sia suddiviso tra una pluralità di soci pubblici, il controllo analogo può essere esercitato congiuntamente da tali autorità, non richiedendosi che lo stesso venga esercitato singolarmente per ciascuna di esse (così Corte di Giustizia U.E., sez. III – 29/11/2012 n. 182/11): ciò che rileva non è infatti la configurabilità di un controllo totale ed assoluto di ciascun ente pubblico sull’intera società, ma che, in forza di idonei strumenti giuridici, ciascun ente sia in grado di assumere il ruolo di dominus nelle decisioni operative rilevanti circa il frammento di gestione relativo al proprio territorio (in tal senso cfr. TAR Brescia, sez. II – 23/09/2013 n. 780).
In buona sostanza,
sono noti gli approdi cui –nella definizione del requisito del “controllo analogo”– la giurisprudenza europea ed interna si è ormai assestata, essendo sul punto sufficiente richiamare le più recenti pronunce dell’organo di appello, che ha ribadito la necessità che l’ente societario partecipato sia soggetto ad un controllo di stampo sostanzialmente organico, tale da rendere irrilevante l’alterità soggettiva con l’autorità pubblica partecipante. In virtù di un simile atteggiarsi dei rapporti, spetta quindi a quest’ultima nominare i vertici direttivi e di controllo, approvare gli indirizzi strategici ed i principali atti di gestione, svuotando conseguentemente l’autonomia decisionale dell’organo amministrativo invece riconosciuta dal codice civile alle società di capitali (Consiglio di Stato, sez. V – 28/07/2015 n. 3716, che richiama le proprie precedenti sentenze 14/10/2014 n. 5080 e 1373/2014 n. 1181).
2.2
A proposito nell’in house pluripartecipato, il Consiglio di Stato (cfr. sez. III – 27/04/2015 n. 2154) ha affermato che le amministrazioni pubbliche in possesso di partecipazioni di minoranza possono esercitare il controllo analogo in modo congiunto con le altre, a condizione che:
   a) gli organi decisionali dell’organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipanti, ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare più o tutti i soci pubblici partecipanti;
   b) i soci pubblici siano in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell’organismo controllato;
   c) l’organismo controllato non persegua interessi contrari a quelli di tutti i soci pubblici partecipanti.

2.3 Anche la recente direttiva appalti n. 24/2014 stabilisce all’art. 12, comma 3, che “
Un’amministrazione aggiudicatrice che non eserciti su una persona giuridica di diritto privato o pubblico un controllo ai sensi del paragrafo [ossia un controllo analogo] può nondimeno aggiudicare un appalto pubblico a tale persona giuridica senza applicare la presente direttiva quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
   a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita congiuntamente con altre amministrazioni aggiudicatrici un controllo sulla persona giuridica di cui trattasi analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi;
   b) oltre l’80 % delle attività di tale persona giuridica sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici controllanti o da altre persone giuridiche controllate dalle amministrazioni aggiudicatrici di cui trattasi;
   c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata
”.
2.4 Dall’esame dello Statuto di Servizi comunali (cfr. doc. 8 ricorrente), le predette condizioni risultano soddisfatte. L’art. 9 infatti, in aggiunta a quanto previsto dai singoli contratti/disciplinari di servizio, stabilisce che i Comuni soci “esercitano congiuntamente i più ampi poteri di direzione, coordinamento e supervisione sugli organi ed organismi societari”. Il Comitato unitario per il controllo analogo può impartire direttive vincolanti all’organo amministrativo sulla politica aziendale (con particolare riferimento alla qualità dei servizi prodotti e alle caratteristiche da assicurare per il perseguimento dell’interesse pubblico), può porre il veto sulle operazioni ritenute non congrue o non compatibili con gli interessi pubblici della collettività e del territorio; propone inoltre all’Assemblea una rosa di candidati tra i quali scegliere i membri del Consiglio di amministrazione e del Collegio sindacale. L’art. 14 garantisce l’effettiva partecipazione dei soci minoritari (il genere meno rappresentato deve ottenere almeno 1/3 dei componenti del Consiglio di amministrazione). La disposizione enuclea poi ulteriori meccanismi di tutela dei Comuni soci (cfr. commi 1, 5 lettere e, f, g, h).
2.5 In definitiva,
sono riscontrabili i requisiti individuati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale perché possa legittimamente disporsi l’affidamento in house.

INCARICHI PROFESSIONALILegali, parcella dimezzata anche senza spiegazione.
La parcella dell'avvocato è dimezzata senza spiegazione. Possibile? Sì, perché anche per i nuovi parametri forensi il parere di congruità dell'Ordine forense resta un atto nel quale il Consiglio conserva un'ampia discrezionalità e non richiede motivazione ad hoc: spetta allora al legale interessato dimostrare che nel determinare la cifra dovuta l'organismo professionale abbia deciso prescindendo del tutto dall'effettiva realtà delle prestazioni professionali rese.

È quanto emerge dalla sentenza 10.05.2016 n. 395, pubblicata dalla I Sez. del TAR Umbria.
L'avvocato ha chiesto al cliente oltre 34 mila euro, ma ne riceverà meno della metà, cioè 16 mila, in base ha quanto ha deciso l'Ordine.
Il giudice civile ha compensato le spese nonostante abbia accolto la domanda dell'assistito del legale nell'ambito di una controversia sul rispetto delle distanze legali tra i fabbricati: ha tuttavia ragione il Consiglio forense a ritenere indeterminabile il valore della lite come avviene sempre in quel tipo di controversie, mentre non ha valore il promemoria esplicativo della causa che ipotizza anche un intervento di demolizione e consolidamento dell'edificio: anche a voler prescindere dall'attendibilità, attiene soltanto alla fase di esecuzione della sentenza; d'altronde è stato lo stesso avvocato a ritenere la causa di valore indeterminato quando si è trattato di pagare il contributo unificato.
Decisiva in proposito è la segnalazione dell'Ordine che evidenzia all'avvocato come «le valutazioni di merito sono da ritenersi incorporate nelle annotazioni e nei depennamenti posti a margine» della nota dello stesso professionista, che «prevedeva uno scaglione di riferimento differente rispetto a quanto dichiarato negli atti di causa». Nessun dubbio, poi, che si applichino i nuovi parametri forensi alla controversia: la notula risulta successiva alla sentenza depositata dopo l'entrata in vigore del decreto ministeriale 55/2014.
E il parere richiesto all'Ordine sulla congruità della parcella non può essere ridotto a una mera certificazione della rispondenza del credito agli standard del regolamento. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 04.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
1.- I primi due motivi di ricorso, essendo in rapporto di complementarietà, e comunque incentrati sul vizio motivazionale, possono essere esaminati congiuntamente, e sono infondati.
Occorre anzitutto premettere come la parcella professionale del ricorrente debba seguire, ad avviso del Collegio, la disciplina contenente la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense di cui al d.m. 10.03.2014, n. 55, e non già quella di cui al d.m. 20.07.2012, n. 140.
Ed infatti la notula è successiva alla conclusione della causa, nella quale la sentenza è stata depositata il 14.11.2014, con conseguente applicabilità del d.m. n. 55 del 2014 (la cui entrata in vigore, a termini dell’art. 29, avviene il giorno successivo alla data della pubblicazione nella G.U., risalente al 02.04.2014).
Ciò precisato, va ricordato che secondo il costante indirizzo giurisprudenziale,
il parere di congruità sulle parcelle professionali reso dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati è atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, che non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, ma implica una valutazione di congruità della prestazione.
Non esaurendosi dunque siffatta valutazione di congruità in un mero riscontro di conformità alla tariffa delle prestazioni professionali degli avvocati, la liquidazione così effettuata interviene nell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale e, se contenuta tra i minimi ed i massimi tariffari (il che non è contestato nella fattispecie), non richiede specifica motivazione, spettando al contrario al professionista che lo contesti dedurre e provare che il giudizio stesso si sia tradotto in una determinazione, che finisce con il prescindere dal considerare l’effettiva realtà delle prestazioni professionali rese (in termini Cons. Stato, Sez. IV, 23.12.2010, n. 9352; Sez. IV, 24.12.2009, n. 8749).
La liquidazione della parcella del ricorrente non è dunque inficiata da vizio motivazionale, tanto più che, nella vicenda in esame, vi è stata la nota dell’Ordine degli Avvocati di Perugia in data 11.05.2015 che ha esplicitato al ricorrente come «le valutazioni di merito sono […] da ritenersi incorporate nelle annotazioni e nei depennamenti posti a margine della Sua nota, che prevedeva uno scaglione di riferimento differente rispetto a quanto dichiarato negli atti di causa».
Piuttosto, esaminando le censure del ricorrente, il Consiglio ha legittimamente preso a parametro lo scaglione di valore indeterminabile (alto), mentre il ricorrente aveva applicato quello del valore tra euro 500.000,00 ed euro 1.500.000,00; ed invero la domanda di accertamento della realizzazione di un edificio in violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni non consente di individuare il valore effettivo della controversia, e, del resto, lo stesso ricorrente aveva indicato un valore indeterminato ai fini del contributo unificato.
Il “pro-memoria” esplicativo del valore della causa, ipotizzante un intervento di demolizione e di consolidamento, anche a prescindere dalla sua attendibilità, non ha valore, in quanto attiene alla fase di esecuzione della sentenza.
2. - Con il terzo mezzo si deduce poi la contraddittorietà dell’operato dell’Ordine, che, nelle annotazioni apposte a margine della notula dal Consigliere delegato, ha individuato un importo pari ad euro 21.387,00, per poi successivamente liquidare, come si evince dall’elenco allegato al verbale dell’adunanza del Consiglio in data 10.04.2015, euro 16.000,00 di parcella professionale.
Anche tale censura non coglie nel segno, in quanto
l’annotazione del Consigliere responsabile del procedimento ha il solo valore di proposta, mentre la liquidazione viene effettuata dal Consiglio dell’Ordine in tutti i casi in cui la parcella sia superiore ad euro 20.000,00, come da prassi poi trasfusa nel regolamento dell’Ordine degli Avvocati di Perugia 27.03.2015, n. 2 (art. 6).
3. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere respinto.

AGGIORNAMENTO AL 09.12.2016

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SANZIONI RITARDATO VERSAMENTO (rateizzato) CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE:

l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha risolto la questione "se una volta costituita, ai sensi dell’art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (t.u. edilizia), una garanzia per il pagamento del contributo per il rilascio del permesso di costruire, il comune, avendo omesso di escutere la garanzia, possa, oltre che chiedere il pagamento del dovuto al debitore principale, infliggere comunque la sanzione pecuniaria (nella misura massima) prevista dalla disciplina regionale e comunale per i casi di mancato versamento del contributo".

     La querelle è stata rimessa dalla Sez. IV con l’ordinanza 22.06.2016 n. 2766 essendosi sul punto formati tre diversi orientamenti.
     Secondo il
primo orientamento giurisprudenziale, minoritario, occorre fare applicazione dei principi civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti quello che impone al creditore in buona fede di collaborare con il debitore ai fini del puntuale adempimento dell’obbligazione.
     A supporto di tale tesi è il rilievo che l’ente locale, ove il suo credito sia assistito da garanzia incondizionata, ha uno specifico dovere, ai sensi degli artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ., di richiedere quanto dovutogli al garante, con la conseguenza che l’ente stesso –omettendo tale ben esigibile adempimento- viola appunto l’obbligo per il creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore.
     Parallelamente, sul piano funzionale, si rileva che la previsione legislativa delle sanzioni per il mancato pagamento degli oneri concessori trova ragione nella necessità per l'amministrazione di disporre tempestivamente delle somme dovute dai privati onde poter procedere alla realizzazione delle necessarie infrastrutture di urbanizzazione: in tale contesto, un ente locale che sceglie di non incamerare subito la fideiussione non persegue la finalità di interesse pubblico per cui la sanzione è appunto predisposta (assicurare la tempestiva disponibilità delle somme per l’urbanizzazione), bensì altro scopo, ossia far lievitare la somma dovuta dal privato anche a rischio di un consistente differimento nell’incasso.
     Il
secondo orientamento giurisprudenziale, maggioritario, al quale l’ordinanza di rimessione aderisce, inquadra la fattispecie in una prospettiva pubblicistica, significativamente caratterizzata dalla presenza di strumenti –le sanzioni e la riscossione coattiva– tipici di un procedimento autoritativo e non paritetico.
     In questa prospettiva la fideiussione –che il comune è facoltizzato a richiedere in caso di rateizzazione del versamento- non ha affatto la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore.
     In sostanza, la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua le conseguenze previste nel caso di un eventuale suo inadempimento, conseguenze appunto riconducibili all’applicazione delle sanzioni e alla riscossione coattiva dell’intera somma dovuta.
     Né sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227, comma 2, cod. civ. -che riguarda l'esonero di responsabilità per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza– in primo luogo perché l'obbligazione relativa alle sanzioni pecuniarie ex art. 3, l. 28.02.1985 n. 47 non ha, certo, natura risarcitoria configurandosi come obbligazione legale, con finalità chiaramente e univocamente "sanzionatorie".
     In secondo luogo, l'onere di diligenza che l’art. 1227, comma 2, cod. civ. fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (v. Corte cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione delle sanzioni amministrative per ritardato pagamento).
     Un
terzo orientamento giurisprudenziale, pur tenendo conto della cogenza della previsione legale relativa all’applicazione delle sanzioni in caso di ritardato pagamento, ritiene però illegittima l’applicazione delle sanzioni in misura massima.
     E’ stato infatti rilevato -valorizzando il principio di leale collaborazione tra cittadino e comune, che ha valenza pubblicistica e rientra nell'ambito dei principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.- che il ritardo con cui l’ente locale procede alla richiesta di pagamento e l'assenza di qualsivoglia tentativo di escussione della fideiussione, comportano, all'evidenza, una violazione del dovere di correttezza che dovrebbe improntare il comportamento dell'Amministrazione comunale, in considerazione del fatto che l'Amministrazione non è un soggetto che agisce per massimizzare il suo profitto ma è un soggetto che agisce per realizzare nel modo migliore possibile un interesse pubblico che le è stato affidato dalla legge e che consiste, appunto, nella celere realizzazione delle opere di urbanizzazione (e, quindi, nella pronta disponibilità delle somme ad esse relative).
     Pertanto, secondo il richiamato indirizzo, il ritardo con cui il comune agisce per riscuotere le somme a titolo di oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il loro carattere automatico, scaturente dal disposto di legge, impedisce tuttavia l'applicazione delle sanzioni massime.
Ne consegue che l’ente locale –una volta decorsi 120 giorni dallo scadere del termine originario di pagamento– deve valersi della garanzia (per riscuotere quanto dovuto per oneri) e contestualmente irrogare al debitore inadempiente la sanzione minima normativamente prevista (commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

E l'Adunanza Plenaria si è espressa sposando il suddetto secondo orientamento giurisprudenziale (maggioritario):

EDILIZIA PRIVATAUn’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale.
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... per la riforma della sentenza 02.11.2011 n. 71 del TAR VALLE D'AOSTA-AOSTA, resa tra le parti, concernente applicazione di sanzioni pecuniarie per mancato pagamento di oneri concessori;
...
1. LA PROCEDURA OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1 Il giudizio verte sulla legittimità dell’atto sindacale 15.01.2011 n. 60 col quale il Comune di Ayas ha ingiunto alla qui appellante società Le Re. s.a.s. il pagamento della complessiva somma di euro 51.089,41 a seguito dell’accertamento dell’omesso e del ritardato pagamento delle rate relative ai contributi per oneri di urbanizzazione e per costi di costruzione dovuti in forza di due distinti tioli edilizi, rilasciati dallo stesso Comune il 28.08.1996 ed il 22.11.2003, per la realizzazione nella frazione di Champoluc di un fabbricato a civile abitazione e di un fabbricato ad uso commerciale.
In relazione alla concessione edilizia del 1996, il Comune di Ayas ha determinato gli oneri concessori, prevedendone il versamento in parte al rilascio del titolo edilizio (come di fatto avvenuto) e, per la residua parte, in quattro rate, con scadenza rispettivamente alla data di inizio dei lavori, della ultimazione della copertura, della fine dei lavori e del rilascio del certificato di agibilità. Anche in occasione del rilascio del secondo titolo edilizio in variante del 2003, il Comune ha concesso al richiedente il beneficio della rateizzazione dei pagamenti relativi al contributo di costruzione.
In entrambi i casi, al beneficiario del titolo edilizio è stato richiesto di costituire una polizza fideiussoria in favore del Comune di Ayas, a garanzia del puntuale pagamento delle singole rate dei distinti contributi di costruzione, determinati in relazione alla stima degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione.
1.2
La questione principale che la controversia pone è se, alla scadenza dei termini previsti per il pagamento rateale del contributo di costruzione, sia individuabile un onere collaborativo in capo alla Amministrazione concedente, desumibile dai principi generali in tema di buona fede e correttezza nei rapporti obbligatori di matrice civilistica ovvero dal principio di leale collaborazione proprio dei rapporti intersoggettivi di diritto pubblico, che si spinga fino al punto di ritenere che l’Amministrazione sia obbligata alla sollecita escussione della garanzia fideiussoria, al fine di non aggravare la posizione del soggetto obbligato, tenuto altrimenti al pagamento (oltre che delle rate non corrisposte) delle sanzioni di legge per omesso o ritardato pagamento.
La soluzione della questione incide direttamente sul tema della legittimità dell’atto sindacale impugnato in primo grado, posto che con tale atto l’Amministrazione comunale qui appellata ha richiesto alla società Le Re. s.a.s. il pagamento dei contributi ancora dovuti con la maggiorazione delle sanzioni per omesso o ritardato pagamento, pur non avendo mai provveduto all’escussione della garanzia fideiussoria né altrimenti sollecitato il debitore al pagamento di quanto ancora dovuto.
1.3 La causa impone la soluzione di due ulteriori questioni (che tuttavia esulano dall’ambito cognitorio proprio di questa Adunanza plenaria delineato nell’ordinanza di rimessione e che in ogni caso necessitano di approfondimenti istruttori) riguardanti:
   a) l’avvenuta ultimazione ( o meno) dei lavori assentiti con il primo titolo edilizio, posto che –come si è detto- al compimento dei lavori era stata cadenzato il pagamento della terza rata di contributo;
   b) la corretta imputazione dei pagamenti parziali eseguiti dal soggetto obbligato nel corso del tempo, imputazione che l’Amministrazione comunale (nel provvedimento impugnato in primo grado) ha compiuto ascrivendo quei pagamenti parziali prima a tacitazione del credito relativo alle sanzioni (applicate con lo stesso provvedimento ingiuntivo) e, soltanto per la residua parte, a parziale adempimento del debito relativo ai contributi ancora non versati.
Entrambe le questioni sono controverse in quanto la società appellante assume che in realtà i lavori non siano mai stati completati (donde l’insussistenza di un suo inadempimento –quantomeno in relazione alle rate di pagamento ancorate a detta scadenza- suscettibile di essere sanzionato). Quanto alla questione della imputazione dei pagamenti, la società appellante assume che l’Amministrazione avrebbe dovuto imputare i pagamenti parziali al debito per contributi e non al debito per sanzioni, in quanto il primo sarebbe più oneroso per il debitore.
2. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.
2.1 Con ricorso proposto dinanzi al TAR della Valle d’Aosta la società Le Re. s.a.s. ha impugnato il suindicato provvedimento ingiuntivo del sindaco del Comune di Ayas articolando sei motivi di censura e deducendo i seguenti argomenti difensivi a supporto della illegittimità del gravato provvedimento:
   a) che i lavori non erano stati in realtà ancora ultimati, in quanto l’edificio difettava di accesso alla viabilità pubblica, e che quindi la rata di pagamento correlata alla fine dei lavori avrebbe dovuto ritenersi come non ancora scaduta ( al pari, a fortiori, delle rate successive);
   b) che in generale il Comune di Ayas avrebbe dovuto escutere tempestivamente la garanzia fideiussoria, senza attendere inutilmente la decorrenza dei termini di pagamento e le ulteriori scansioni temporali previste dalla legge per la gradazione delle sanzioni pecuniarie in relazione al ritardo;
   c) che il Comune, erroneamente, aveva imputato taluni pagamenti parziali eseguiti nel corso del tempo dalla società Le Residence a copertura delle sanzioni già maturate invece che a copertura delle rate dei contributi già scadute.
Con sentenza 02.11.2011 n. 71 il Tar ha respinto il gravame, giudicando infondate tutte le censure dedotte.
In particolare, il giudice di primo grado ha ritenuto infondati i motivi di ricorso con i quali si contestava l’accertamento relativo alla fine dei lavori (propedeutico all’applicazione della sanzione per ritardo nel pagamento della rata collegata a tale evento) ritenendo incensurabili gli accertamenti istruttori dell’Amministrazione, che correttamente aveva fissato la data di ultimazione dei lavori in epoca ben anteriore all’applicazione della sanzione per il ritardo.
In ordine al tema della legittimità delle sanzioni applicate per il ritardo nel pagamento delle rate relative ai suddetti contributi il Tar, pur dando atto della esistenza di diversi orientamenti giurisprudenziali in materia, ha respinto la pretesa della ricorrente volta ad individuare un onere collaborativo a carico della Amministrazione comunale funzionale, anche a mezzo della escussione della garanzia fideiussoria, all’attuazione del rapporto obbligatorio ed ha conseguentemente ritenuto legittimo il provvedimento sindacale, anche nella parte applicativa delle maggiorazioni a titolo di sanzioni per il ritardo.
Il giudice di primo grado ha infine respinto anche il motivo di ricorso con il quale si contestava la corretta imputazione dei pagamenti parziali eseguiti dalla società ricorrente nel corso degli anni, essendo stata ritenuta incensurabile la scelta dell’Amministrazione di imputare detti pagamenti prima alle somme dovute per sanzioni e poi a quelle dovute per i contributi originariamente determinati, e tanto in applicazione analogica del principio di diritto desumibile dall’art. 1194 c.c. (secondo cui il pagamento fatto in conto di capitali e di interessi deve essere imputato prima agli interessi) essendo state le sanzioni qualificate alla stregua di accessori del credito, al pari degli interessi.
3. IL GIUDIZIO DI APPELLO DAVANTI ALLA IV SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO.
3.1 Con ricorso in appello r.g. n. 3468/12, la società Le Re. s.a.s. ha criticato la impugnata sentenza tornando a riproporre in secondo grado le censure già disattese dal Tar.
In particolare, la società appellante ha diffusamente contestato le conclusioni raggiunge dai primi giudici, insistendo sul rilievo secondo cui il Comune non avrebbe potuto legittimamente applicare le sanzioni previste per il ritardato pagamento di contributi concessori avendo omesso di sollecitare, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, il pagamento del dovuto alla scadenza delle singole rate e non avendo mai portato ad escussione la garanzia fideiussoria.
3.2 La società appellante ha richiamato a tal proposito gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa favorevoli alla propria tesi difensiva (Cons. St., V, sentenze 05.02.2003 n. 585 e 03.07.1995 n. 1001), lamentando che il giudice di primo grado abbia omesso di tener conto degli argomenti utilizzati nelle citate pronunce, addivenendo alla reiezione del ricorso sulla base di un’acritica o comunque non sufficientemente motivata adesione all’orientamento giurisprudenziale contrario.
A parere della società appellante, poiché era stata prestata, a garanzia del puntuale pagamento del contributo di costruzione, apposita garanzia fideiussoria (priva del beneficio di preventiva escussione del debitore principale, ai sensi dell’art. 1944, comma 2, cod. civ.) il Comune di Ayas ben avrebbe potuto riscuotere per tempo direttamente dal garante le rate dei contributi ancora dovuti, evitando in tal modo la maggiorazione degli importi per effetto dell’applicazione delle sanzioni per omesso o ritardato pagamento.
Nella prospettazione dell’appellante, sarebbe viepiù ravvisabile un obbligo (e non una mera facoltà) per l’Amministrazione creditrice di escutere il garante nel caso di ritardato versamento dei contributi concessori, obbligo desumibile dai principi di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali oltre che dal principio, compendiato nell’art. 1227, comma 2, del cod. civ., di non aggravamento della posizione del debitore.
A diversamente opinare, ha osservato la società appellante, deriverebbe la paradossale conseguenza che l’Amministrazione comunale trarrebbe giovamento dal proprio comportamento illecito (o quantomeno non diligente), nella misura in cui la sua inerzia sarebbe produttiva dei maggiori introiti relativi agli importi delle sanzioni dovute per il ritardo.
In sostanza, secondo l’appellante, il Comune di Ayas , una volta accertato il mancato pagamento delle rate relative agli oneri concessori (oggi contributi di costruzione) avrebbe potuto e dovuto, senza particolari difficoltà, escutere il fideiussore, così evitando di aggravare la posizione della parte debitrice. Non avendolo fatto, l’Amministrazione dovrebbe ritenersi senz’altro decaduta dalla potestà di imporre sanzioni pecuniarie, donde la sicura illegittimità dell’atto avversato in primo grado.
La società appellante ha poi distintamente censurato i capi decisori della gravata sentenza che hanno affrontato, rigettandoli, gli ulteriori motivi inerenti all’epoca della ultimazione dei lavori nonché l’ulteriore questione della corretta imputazione dei pagamenti parziali eseguiti.
L’appellante ha quindi concluso per l’accoglimento, con l’appello, del ricorso di primo grado, con consequenziale annullamento, in riforma della impugnata sentenza, dell’atto in primo grado gravato.
Si è costituito in appello il Comune di Ayas per resistere all’appello e chiederne la reiezione. In particolare, l’Amministrazione comunale ha dedotto che, a suo avviso, la prestazione della garanzia fideiussoria da un lato non libererebbe il debitore dall’obbligo di adempiere nel rispetto dei termini di pagamento, dall’altro non porrebbe a carico della Amministrazione comunale alcun onere di sollecitare il pagamento ovvero di escutere la garanzia fideiussoria (pena altrimenti la ipotizzata decadenza dalla potestà sanzionatoria).
All’udienza pubblica del 21.04.2016, fissata per la trattazione dinanzi alla Sezione quarta del Consiglio di Stato, la causa è stata trattenuta per la decisione.
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA PLENARIA.
4.1 Con ordinanza 22.06.2016 n. 2766, la Sezione quarta del Consiglio di Stato, investita del ricorso in appello r.g. n. 3468/12, ha ritenuto di rimettere la decisione della causa a questa Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del cod. proc. amm..
Nella parte in fatto della citata ordinanza la Sezione rimettente ha dato atto che, nell’ambito del ricorso originario, le deduzioni di parte appellante avevano riguardato tre distinti profili di gravame, avendo in particolare la ricorrente prospettato:
   a) che i lavori non erano stati ancora ultimati in quanto, secondo la prospettazione della società Le Re. s.a.s., l’edificio difettava di accesso alla via pubblica donde non poteva ritenersi venuta a scadenza la rata di pagamento del contributo di costruzione fissata alla data della fine dei lavori (e, per conseguenza, anche la rata successiva);
   b) che, in ogni caso, il Comune qui appellato avrebbe dovuto escutere tempestivamente il garante senza attendere la decorrenza dei termini di pagamento per l’irrogazione delle sanzioni;
   c) che, infine, il Comune aveva imputato erroneamente taluni pagamento parziali a copertura delle sanzioni già maturate invece che a copertura delle rate relative agli oneri scaduti.
Ciò premesso
la Sezione rimettente ha osservato come la questione centrale del giudizio fosse quella compendiata nella suindicata lett. b): e cioè se l’Amministrazione comunale sia legittimata a sanzionare il ritardo nel pagamento dei contributi di costruzione una volta che la stessa non si sia resa parte attiva nel richiedere al debitore principale ovvero al fideiussore, alle scadenze prestabilite, il pagamento delle rate scadute.
Su tale centrale questione del giudizio (in sé non esaustiva, posto che con l’appello sono state riproposte le ulteriori questioni di cui ai punti a) e c) che precedono) l’ordinanza di rimessione si è diffusamente soffermata, dando conto della esistenza di orientamenti non univoci nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, per il che ha ritenuto necessario un intervento chiarificatore di questa Adunanza plenaria al fine di risolvere la suindicata questione interpretativa.
4.2 L’ordinanza ha richiamato anzitutto l’art. 1 della legge n. 10 del 1977, che ha introdotto nell’ordinamento italiano il principio secondo cui ogni attività comportante trasformazione urbanistico-edilizia del territorio partecipa agli oneri da essa derivanti.
Ha rilevato il giudice rimettente come tale principio dell’onerosità del permesso di costruire sia oggi confermato dall’art. 11, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (recante il Testo unico in materia edilizia), il quale precisa (art. 16, comma 1) che il relativo contributo è costituito da due quote, commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese di urbanizzazione e al costo di costruzione dell’edificio assentito. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è di norma (salvo eventuale rateizzazione a richiesta dell’interessato) corrisposta all’atto del rilascio del permesso (ai sensi dell’ art. 16, comma 2) mentre la quota relativa al costo di costruzione è corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni all’ultimazione della costruzione.
A completamento del quadro normativo applicabile alla fattispecie, il giudice rimettente ha osservato come, ai sensi dell’art. 16, comma 3, d.P.R. cit., al momento della quantificazione e della rateizzazione del contributo di costruzione gli enti locali richiedano all’intestatario del titolo edilizio la prestazione di una garanzia, nei modi indicati dall’art. 2 della legge n. 348 del 1982; e che, nel caso di ritardato od omesso pagamento del contributo di costruzione, l’art. 42 del d.P.R. cit. (il quale riproduce sostanzialmente le previsioni già contenute nell’art. 3 della legge n. 47 del 1985) prevede che siano applicate delle sanzioni pecuniarie, la cui determinazione in concreto è rimessa, sia pur nel rispetto di alcune soglie minime e massime fissate dalla legislazione nazionale, alla legislazione regionale.
4.3 Ciò premesso in ordine alle disposizioni normative applicabili alla fattispecie, l’ordinanza di rimessione dà conto della esistenza di un risalente orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato, radicatosi con una prima sentenza della V Sezione (n. 1001 del 1995) secondo cui, allorché il credito vantato dal comune per il contributo di costruzione nei confronti del titolare di una concessione edilizia sia assistito da garanzia fideiussoria, una siffatta obbligazione di garanzia, priva di beneficium excussionis ed al di là della solidarietà tra debitore principale e fideiussore, esclude che il comune stesso possa far legittimamente ricorso alle sanzioni ai sensi dell’art. 3 l. 28.02.1985 n. 47 (oggi art. 42 d.P.R cit.), salvo che l’amministrazione creditrice abbia previamente escusso infruttuosamente il fideiussore. Solo in tal modo il comune conseguirebbe il pronto soddisfacimento del proprio credito salvaguardando, ad un tempo, l’interesse del debitore al contenimento delle somme da corrispondere a quel titolo (in sostanza, escludendo le maggiorazioni a titolo di sanzione).
4.4 Seguendo la stessa linea interpretativa, in epoca più recente (Cons. St., V , n. 32 del 2003, V, n. 571 del 2003 e I, parere 17.05.2013 n. 11663) è stato affermato che qualora il titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a garanzia del versamento dei contributi, una polizza fideiussoria, non possono essere applicate le sanzioni previste dall'art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47, per il caso di omesso o ritardato versamento dei contributi, ove l'amministrazione creditrice, violando i doveri di correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel chiedere al garante il pagamento delle somme dovute.
A sostegno di tale indirizzo è stato tra l’altro addotto il rilievo che l’ente locale, ove il suo credito sia assistito da garanzia incondizionata, avrebbe uno specifico dovere, ai sensi degli artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ., di richiedere quanto dovutogli al garante, con la conseguenza che, ove l’ente stesso ometta tale (ben esigibile) adempimento, violerebbe appunto l’obbligo per il creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore.
Osserva la Sezione rimettente come, sul piano funzionale, tale orientamento giurisprudenziale faccia leva sull’ulteriore argomento secondo cui la previsione legislativa delle sanzioni per il mancato pagamento degli oneri concessori trovi ragione nella necessità per l'amministrazione di disporre tempestivamente delle somme dovute dai privati, onde poter procedere alla realizzazione delle necessarie infrastrutture di urbanizzazione: in tale contesto, un ente locale che sceglie di non incamerare subito la fideiussione non persegue la finalità di interesse pubblico per cui la sanzione è appunto predisposta (e cioè assicurare la tempestiva disponibilità delle somme per l’urbanizzazione) bensì altro scopo, ossia attendere che per effetto della scadenza dei termini di pagamento possano essere applicate le sanzioni con conseguente maggiorazione degli introiti.
4.5 La Sezione rimettente richiama poi altro indirizzo, seguito dalla giurisprudenza maggioritaria, che inquadra la fattispecie in esame in una prospettiva asseritamente pubblicistica, significativamente caratterizzata dalla presenza di strumenti –le sanzioni e la riscossione coattiva– tipici di un procedimento autoritativo e non paritetico. Secondo tale orientamento, la fideiussione –che il comune può richieder in caso di rateizzazione del versamento- non avrebbe affatto la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituirebbe una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non graverebbe pertanto alcun obbligo giuridico di preventiva escussione del fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria servirebbe a scongiurare che il comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non varrebbe ad alleggerire la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenuerebbe le conseguenze previste nel caso di un eventuale suo inadempimento, conseguenze appunto riconducibili all’applicazione delle sanzioni e alla riscossione coattiva dell’intera somma dovuta (ex multis IV Sez. n. 5818 del 2012).
Tale maggioritario orientamento (IV n. 4320 del 2012, VI n. 5884 del 2014 e V n. 777 del 2016) si sarebbe peraltro fatto carico di precisare che la soluzione non cambierebbe quand’anche si volessero applicare alla fattispecie i principi desumibili dal diritto delle obbligazioni tra privati; ed invero, in materia di obbligazione "portable", quale appunto quella pecuniaria, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere la fideiussione piuttosto che attendere il pagamento -ancorché tardivo- dell’obbligato principale, salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso accettata dal creditore stesso.
Sempre secondo tale orientamento, non sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227, comma 2, cod. civ. -che riguarda l'esonero di responsabilità per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza– in primo luogo perché l'obbligazione relativa alle sanzioni pecuniarie di cui all’art. 3 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 non avrebbe natura risarcitoria, configurandosi come obbligazione legale, con finalità chiaramente e univocamente "sanzionatorie". In secondo luogo, in ragione del fatto che l'onere di diligenza che l’art. 1227, comma 2, fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali sono viceversa da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (in tal senso, Corte cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione delle sanzioni amministrative per ritardato pagamento).
Dopo aver esposto le ragioni sottese ai distinti orientamenti giurisprudenziali
il giudice rimettente esprime la sua netta preferenza per l’orientamento maggioritario, ritenuto più coerente con la disciplina applicabile alla fattispecie. E tuttavia, nell’ordinanza di rimessione, dà conto di un ulteriore e più recente indirizzo giurisprudenziale, che potrebbe definirsi intermedio rispetto ai precedenti.
4.6 In particolare, secondo tale ulteriore approccio interpretativo della Sezione quinta di questo Consiglio di Stato (n. 5734 del 2014 e n. 5287 del 2015) nella fattispecie oggetto di causa sussisterebbe un preciso onere collaborativo a carico dell’ente locale, desumibile dal principio di leale collaborazione tra cittadino e comune, avente valenza pubblicistica e rientrante nell'ambito dei principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.; secondo tale indirizzo, il ritardo con cui il comune agisce per riscuotere le somme a titolo di contributi dovuti, se non può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il carattere automatico delle sanzioni, scaturenti direttamente dalla legge, impedisce tuttavia l'applicazione delle sanzioni massime.
In sostanza, secondo tale innovativo orientamento, risulterebbe compatibile con l'interesse pubblico azionato, con il tenore delle disposizioni applicabili e con i principi costituzionali che ispirano i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione che l’ente locale provveda alla riscossione della sanzione ma soltanto nella misura minima, conseguente all’accertamento del ritardo protrattosi per i primi 120 giorni (ai sensi dell’ art. 42, comma 2, lett. a) del d.P.R. n. 380 del 2001). Per converso, sarebbero inapplicabili le maggiori sanzioni previste per ritardi superiori nella misura in cui l’amministrazione, con un comportamento improntato a diligenza e buona fede avrebbe potuto evitare, a mezzo della tempestiva escussione della garanzia fideiussoria, di aggravare la posizione debitoria dell’intestatario del titolo edilizio .
Proprio in ragione della eterogeneità delle posizioni che si riscontrano nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato il giudice rimettente, senza nascondere la sua già manifestata preferenza per l’orientamento espresso dalla giurisprudenza maggioritaria, ha ritenuto di rimettere la risoluzione della questione interpretativa a questa all’Adunanza plenaria, che è stata così investita della decisione del ricorso a norma dell’art. 99, comma 1, cod. proc. amm..
4.7 Per effetto del rinvio della causa dinanzi a questa Adunanza plenaria è stata fissata l’udienza pubblica del 05.10.2016 alla quale il ricorso è stato trattenuto per la sentenza.
5. CONSIDERAZIONI DELLA ADUNANZA PLENARIA.
5.1
Ritiene l’Adunanza plenaria che, nell’ambito dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali di cui ha riferito il giudice rimettente, sia senz’altro condivisibile l’orientamento maggioritario maturato in seno a questo Consiglio di Stato.
La soluzione si impone alla luce delle chiare previsioni delle disposizioni normative applicabili alla fattispecie nonché alla luce dei principi generali dell’ordinamento.
Per vero, può fin d’ora anticiparsi come il quadro delle diposizioni normative applicabili al caso in esame non consenta di individuare, a carico della Amministrazione comunale qui appellata, un onere di collaborazione con il debitore nella finalizzazione del pagamento del contributo di costruzione tale per cui la sua violazione possa tradursi in una decadenza della stessa Amministrazione dal potere di sanzionare il ritardo nel pagamento.
Peraltro, la soluzione non muta a seconda che la questione controversa sia affrontata sulla base dei principi desumibili dal sistema normativo applicabile ai rapporti intersoggettivi di diritto amministrativo, al cui novero la fattispecie andrebbe ascritta (quantomeno in relazione al rapporto debitore principale-pubblica amministrazione) ovvero attingendo ai canoni interpretativi di matrice civilistica.
Ed infatti, quale che sia l’approccio interpretativo che si voglia seguire, si deve ritenere che resti in ogni caso integro il potere-dovere della amministrazione comunale di applicare le sanzioni pecuniarie per il ritardo nel pagamento dei contributi di costruzione al semplice verificarsi delle condizioni previste dalla legge, dovendosi per contro escludere la sussistenza di un obbligo di preventiva escussione della garanzia fideiussoria.
5.2 Giova premettere, riguardo alla natura del contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria, che detto contributivo rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a costruire (art. 1 della legge n. 10 del 1977), la ragione della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio.
Il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, ed ha carattere generale, prescindendo totalmente delle singole opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
In sostanza, le opere di urbanizzazione (per la cui remunerazione il contributo viene imposto) hanno spesso portata più ampia rispetto a quelle strettamente necessarie ad urbanizzare il nuovo insediamento edilizio posto in essere da chi abbia ottenuto il titolo edilizio ed hanno quindi sovente natura indivisibile, nel senso che non sono frazionabili in porzioni funzionali al soddisfacimento delle esigenze dei singoli nuovi insediati. In ragione di tanto, per l’esecuzione di dette opere, da realizzare in conseguenza del fatto edificatorio in sé considerato, l’amministrazione comunale attinge normalmente alla fiscalità generale, senza necessariamente attendere il pagamento del contributo da parte dell’obbligato, e quindi a prescindere dal suo puntuale adempimento.
Per tale motivo, quand’anche risultino trasfuse in apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica. Come si è detto, infatti, l’amministrazione è tenuta ad eseguire le opere di urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il comparto ove viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Da ciò discende che il soggetto obbligato sia tenuto a corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei termini convenuti e che l’amministrazione comunale deve eseguire le opere di urbanizzazione in coerenza, anche sul piano temporale, allo sviluppo edilizio del territorio.
5.3 Vale altresì osservare, ancora in via preliminare, come il contributo di costruzione, quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si collochi pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico. Ne è ulteriore riprova il fatto che , come si dirà meglio in seguito, il suo mancato pagamento legittima l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 d.P.R. cit.) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate (art. 43 d.P.R. cit.).
5.4 Tali preliminari affermazioni di principio, ad avviso di questa Adunanza plenaria, non sono senza conseguenze, per le ragioni che saranno via via esplicitate più avanti, nella risoluzione nei sensi già indicati del quesito interpretativo qui all’esame.
5.5 In tale direzione conduce anzitutto l’argomento, di per sé dirimente, di natura esegetico-letterale, desumibile dal contenuto delle specifiche disposizioni normative applicabili alla fattispecie.
Il riferimento è qui sia alla disposizione (art. 16 d.P.R. cit.) che prevede il meccanismo della prestazione della garanzia per il caso di pagamento rateale del contributo di costruzione, sia alla disposizione (art. 42 d.P.R. cit.) che disciplina le sanzioni per l’omesso o ritardato pagamento.
Orbene,
nessuna di tali disposizioni consente di enucleare elementi letterali da cui desumere, anche indirettamente, la sussistenza di un onere collaborativo, o soltanto sollecitatorio dell’adempimento, a carico della amministrazione creditrice del contributo, una volta che siano venuti a scadenza i termini per il pagamento.
In particolare, l’art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, la cui rubrica reca contributo di costruzione prevede -per quel che qui rileva- che il Comune possa rateizzare, su richiesta dell’interessato, la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione mentre, per ciò che attiene alla quota di contributo relativa al costo di costruzione, la norma (art. 16, comma 3) dispone che la stessa sia corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie previste dal Comune.
Pertanto,
la fonte normativa che attribuisce al Comune la facoltà richiedere garanzia all’intestatario di un titolo edilizio cui sia stato accordato il beneficio della rateizzazione del contributo di costruzione (nelle due componenti suindicate) nulla prevede riguardo all’ipotizzato dovere dell’amministrazione di attivarsi al più presto per la escussione della garanzia fideiussoria.
Pertanto, già in base a tale rilievo, appare evidente come la costruzione interpretativa che enuclea dal sistema giuridico il suddetto dovere collaborativo in capo all’amministrazione risulti sfornita di una sicura base legale.

Ancor più significativo in tal senso il dettato letterale della disposizione che regola l’applicazione delle sanzioni.
L’art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001 (che riproduce il contenuto dell’art. 47 della legge 28.02.1985 n. 47) prevede che “le regioni determinano le sanzioni per il ritardato o mancato versamento del contributo di costruzione in misura non inferiore a quanto previsto nel presente articolo e non superiore al doppio". Dispone più nel dettaglio la norma che il mancato versamento, nei termini stabiliti, del contributo di costruzione di cui all'articolo 16 comporta:
   a) l'aumento del contributo in misura pari al 10 per cento qualora il versamento del contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni;
   b) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
   c) l'aumento del contributo in misura pari al 40 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
Recita ancora la disposizione che le misure di cui alle lettere precedenti non si cumulano e che, nel caso di pagamento rateizzato, le norme di cui al secondo comma si applicano ai ritardi nei pagamenti delle singole rate.
Infine, la norma stabilisce che decorso inutilmente il termine di cui alla lettera c) del comma 2, il comune provvede alla riscossione coattiva del complessivo credito nei modi previsti dall'articolo 43. E che, in mancanza di leggi regionali che determinino la misura delle sanzioni di cui al presente articolo, queste saranno applicate nelle misure indicate nel comma 2.
Di contenuto sostanzialmente analogo la legge regionale della Valle d’Aosta 06.04.1998 n. 11 (adottata sulla base della legge 28.02.1985, n. 47 art. 3), applicabile alla fattispecie di causa, che tuttavia ha graduato diversamente (in misura più consistente) gli aumenti del contributo dovuti in relazione al ritardo nel pagamento, determinandoli nella misura minima del 20% (per il caso di ritardo contenuto entro il termine di 120 gg. dalla scadenza del primo termine), nella misura intermedia del 40% (per il caso di ritardo contenuto entro gli ulteriori 60 gg.) fino a giungere al 100% del contributo (per ritardi ancora superiori).
Orbene,
anche dalla portata letterale delle disposizioni che integrano il regime sanzionatorio, si evince come l’applicazione dell’aumento di contributo sia correlata al fatto in sé del suo mancato o non puntuale pagamento da parte dell’obbligato, senza distinzione alcuna, sul piano delle conseguenze del meccanismo sanzionatorio, tra l’ipotesi dell’obbligazione del solo debitore e quella in cui sia stata prestata una garanzia fideiussoria accessoria per il pagamento del suddetto contributo. E soprattutto, ciò che appare davvero dirimente, è che la norma sanzionatoria (nazionale o regionale) non riconnette rilevanza alcuna ai comportamenti delle parti diverse dal debitore principale (e cioè della amministrazione e del fideiussore) antecedenti al fatto-inadempimento. Ciò che unicamente rileva, nella logica della norma sanzionatoria, è il semplice mancato pagamento della rata di contributo imputabile al debitore principale.
L’argomento esegetico-letterale depone pertanto per l’insussistenza di un dovere di “soccorso” dell’amministrazione comunale nei confronti del beneficiario di un titolo edilizio in ritardo nel pagamento del contributo di costruzione. Per contro, sempre sulla base del tenore letterale delle richiamate disposizioni, l’amministrazione è tenuta, trattandosi di attività vincolata prevista direttamente dalla fonte normativa di rango primario (che trova applicazione ove la regione non abbia diversamente articolato l’entità delle sanzioni nel rispetto dei parametri fissati dalla legge nazionale), all’applicazione delle sanzioni alla scadenza dei termini di pagamento, senza potersi sottrarre al potere-dovere di aumentare, in funzione sanzionatoria, l’importo del contributo dovuto.
5.6 Da quanto appena detto discende che
risulta sfornita di base normativa ogni opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio del comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore.
Ed invero
il sistema di pagamento del contributo di costruzione è caratterizzato dalla presenza solo eventuale di una garanzia prestata per l’adempimento del debito principale e di un parallelo strumento a sanzioni crescenti, con chiara funzione di deterrenza dell’inadempimento, che trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligato principale.
In tale sistema, l’amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata ha solo la facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non accada, l’amministrazione avrà comunque il dovere/potere di sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all’aumentare del ritardo.
Peraltro,
solo alla scadenza di tutti termini fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver applicato le massime maggiorazioni di legge), l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore principale (art. 43 d.P.R. n. 380 del 2001).
La portata di tale ultima disposizione è peraltro tale da ritenere che
l’amministrazione, se pure non è impedita dallo svolgere attività sollecitatoria dei pagamenti (senza attingere al rimedio straordinario della riscossione coattiva) in occasione delle scadenze dei termini intermedi cui sono correlati gli aumenti percentuali del contributo secondo il già indicato modello, è certo facultata ad attendere il volontario pagamento da parte del debitore (e eventualmente del suo fideiussore), salvo in ogni caso restando il suo potere-dovere di applicare le sanzioni di legge per il ritardato pagamento.
Per quanto su evidenziato,
deve convenirsi sul fatto che la lettera della legge sia chiara nell’assegnare all’amministrazione il potere/dovere di applicare le sanzioni al verificarsi di un unico presupposto fattuale, e cioè il ritardo nel pagamento da parte dell’intestatario del titolo edilizio (o di chi gli sia subentrato secundum legem).
La stretta osservanza del principio di legalità, imposta dalla rigorosa applicazione del canone interpretativo- letterale delle disposizioni richiamate, comporta pertanto che
va ritenuta legittima l’applicazione delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di pagamento che siano potute venire all’interessato o al suo fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo edilizio.
In definitiva,
la facoltà per l’amministrazione di escutere direttamente il fideiussore (nei casi, quali quello di specie, in cui non è stato convenuto il beneficium excussionis) non può tradursi, in difetto di espressa previsione normativa, in una decadenza dell’amministrazione dal potere di sanzionare il pagamento tardivo dell’obbligato, essendo tale potere incondizionatamente previsto (allo stato attuale della legislazione) dall’art. 42 d.P.R. cit. e dall’art. 72 della legge 06.04.1998 n. 11 della Regione Valle d’Aosta .
Tali conclusioni risultano coerenti con l’affermazione secondo cui il principio di legalità che connota l’azione dei pubblici poteri va letto in una duplice declinazione: in senso proprio, secondo cui non può darsi esercizio legittimo di potere senza che sussista una specifica fonte legislativa legittimante; ma anche nel senso che, ove detta fonte legislativa sussista e, come nella fattispecie oggetto di causa, l’esercizio del potere (sanzionatorio) sia vincolato al verificarsi di taluni presupposti fattuali, l’amministrazione non potrebbe, dopo aver riscontrato la ricorrenza delle condizioni previste dalla legge, sottrarsi legittimamente al suo esercizio.
Ora, in applicazione di tali chiari principi normativi,
il soggetto che abbia omesso o ritardato il pagamento del contributo di costruzione incorre nelle sanzioni per ritardato pagamento. Peraltro, il regime giuridico che connota la genesi e le modalità di riscossione del contributo de quo esclude che possano essere configurate ipotesi di non debenza della specifica prestazione patrimoniale diverse da quelle individuate dal legislatore (v. in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 20.04.2009, n. 2359).
5.7 Tali considerazioni sarebbero già sufficienti a ritenere che la corretta soluzione della questione interpretativa sia quella già individuata dalla giurisprudenza prevalente di questo Consiglio di Stato (ex multis IV n. 5818 del 2012, IV n. 4320 del 2012 e V n. 777 del 2016), senza che la soluzione al quesito possa mutare nei casi in cui –quale quello oggetto di causa- al debitore principale si aggiunga un ulteriore obbligato (il fideiussore) in funzione di un rafforzamento della garanzia patrimoniale.
Ove sia costituita a richiesta della amministrazione, la garanzia fideiussoria, quale obbligazione accessoria di quella principale, è prestata nell’interesse esclusivo dell’ente locale, al fine di offrire maggiori garanzie di soddisfacimento del gettito relativo alla speciale entrata di diritto pubblico di che trattasi (i.e. il pagamento del contributo di costruzione) e rappresenta, ex latere debitoris, l’onere correlato al beneficio della rateizzazione del pagamento.
Sarebbe paradossale se, in tale situazione giuridico-fattuale, per effetto del rilascio di una garanzia fideiussoria in suo favore, l’amministrazione risultasse privata del potere di sanzionare il ritardo o l’omesso pagamento del debitore principale se solo abbia mancato di escutere il fideiussore alla scadenza del termine di pagamento; altrettanto illogico sarebbe che, correlativamente, con la stipula della polizza fideiussoria, il debitore principale possa conseguire un’esimente speciale, non prevista dalla legge, rispetto all’applicazione a suo carico delle sanzioni per omesso o ritardato pagamento (nella misura in cui, così ragionando, alla scadenza del termine di pagamento, o l’amministrazione provvede ad escutere tempestivamente il fideiussore o perde il diritto di applicare le sanzioni di legge).
Si aggiunga che, come correttamente rilevato nella richiamata sentenza di questo Consiglio di Stato n. 777 del 2016, nei casi –quali quello in esame- di fideiussione con clausola a prima richiesta non alterante il tipo normativo di garanzia fideiussoria in senso stretto (e quindi non assimilabile al cd. contratto autonomo di garanzia), troverebbe comunque applicazione, sul piano dei principi generali, l’art. 1942 cod.civ.: a mente del quale la fideiussione si estende “a tutti gli accessori del debito principale”, con esclusione tuttavia delle somme dovute ad altro titolo (quali certamente le sanzioni amministrative dovute ex lege per il ritardato versamento dei ratei del contributo di urbanizzazione. In tal senso, Cass. 12.06.2001 n. 7885).
Nel caso di specie, peraltro, l’esclusione della responsabilità del fideiussore per il pagamento delle sanzioni risulta poi espressamente esclusa dal tenore testuale della polizza fideiussoria versata in atti.
Da ciò conseguirebbero difficoltà ulteriori per l’amministrazione comunale nella riscossione del credito, ove dovesse predicarsi la sussistenza di una regola praeter legem che condizionasse la legittimità delle sanzioni alla previa escussione del fideiussore.
Ed infatti, prima della scadenza del termine di pagamento, il comune non potrebbe azionare la garanzia; una volta scaduto il termine, l’ente non potrebbe richiedere al fideiussore (il quale, per quanto detto, sarebbe tenuto solo nei limiti del contributo omesso) le maggiorazioni del contributo dovute a titolo sanzionatorio. Con il risultato che, ove dovesse accedersi alla tesi del necessario coinvolgimento del fideiussore, l’amministrazione dovrebbe indirizzare in senso bidirezionale l’azione esecutiva, non utilizzando lo strumento normativo ben più rapido ed efficace che la legge le affida (art. 43 d.P.R. cit), rappresentato dalla riscossione coattiva di diritto pubblico nei confronti del solo debitore principale, per tutte le somme derivanti da contributi omessi o pagati in ritardo e dalle maggiorazioni dovute ex lege a titolo di sanzioni pecuniarie.
Tale ulteriore contraddizione dimostra come debba essere senz’altro preferita la soluzione che esclude che l’applicazione delle sanzioni di legge possa essere correlata alla previa escussione della garanzia e come non sia ragionevolmente esigibile richiedere alla amministrazione comunale una tale attività supplementare nell’attuazione del rapporto obbligatorio.
5.8 D’altra parte, gli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza minoritaria di questo Consiglio di Stato, pur se non scevri di qualche aspetto suggestivo, risultano tuttavia non utili, ad un più approfondito esame, a ricostruire la sussistenza del predetto onere collaborativo a carico della Amministrazione anche sulla base dei principi desumibili dal diritto civile.
Si è detto che, secondo l’indirizzo giurisprudenziale minoritario, il problema interpretativo all’esame non può che risolversi facendo coerente applicazione dei principi civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti quello che impone al creditore in buona fede di collaborare con il debitore ai fini del puntuale adempimento dell’obbligazione.
Osserva l’Adunanza plenaria che, nella fattispecie in esame, l’applicazione dei canoni civilistici della correttezza e della buona fede nell’adempimento delle obbligazioni ed in sede di esecuzione contrattuale (artt. 1175 e 1375 cod. civ.), ove anche applicati allo speciale rapporto che lega -in posizione non paritetica- l’Amministrazione che rilascia il titolo edilizio ed il privato cittadino (cui viene imposto il pagamento dei relativi oneri) non potrebbe condurre a conclusioni diverse da quelle fin qui esposte.
Ed invero, anche nei rapporti interprivati, il mancato pagamento, alla scadenza del termine convenuto, di un’obbligazione portable da eseguirsi al domicilio del creditore (nel cui genus rientra pacificamente l’obbligazione pecuniaria ai sensi dell’art. 1182, comma 2, cod. civ.) determina ipso facto l’inadempimento del debitore, il quale è costituito in mora senza necessità di intimazione o richiesta fatta per iscritto (cfr. art. 1219 cod. civ.).
Non è pertanto esigibile, neanche secondo i canoni del diritto civile, un onere collaborativo a carico dell’amministrazione creditrice tale per cui la stessa possa essere giuridicamente tenuta a sollecitare il pagamento del credito alla scadenza del termine ovvero ad escutere tempestivamente (e necessariamente) l’obbligazione fideiussoria prestata in suo favore. E, d’altra parte, anche secondo i canoni civilistici, il creditore non è onerato, e ancor meno obbligato, ad escutere preventivamente il fideiussore prima di agire nei confronti del debitore (salvo che non si rinvenga una clausola contrattuale in tal senso).
Per tutte le ragioni già enunciate è da escludere che un siffatto onere sussista ed è del pari escluso che la sua ipotizzata genesi possa ricondursi al dovere di correttezza (art. 1175 cod. civ.) cui devono ispirare il comportamento il debitore ed il creditore nello svolgimento del rapporto obbligatorio. Anche il principio relativo all’esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.) non risulta correttamente evocato nella fattispecie posto che, se il debitore è inadempiente alla scadenza del termine fissato per il pagamento e se, sul piano civilistico, egli subisce tutte le conseguenze negative derivanti dalla mora ex re a prescindere dall’eventuale inerzia del creditore,non sarebbe giuridicamente corretto assimilare tale semplice inerzia della amministrazione ad un atteggiamento addirittura contrario a buona fede, in quanto funzionale all’arricchimento derivante dalle maggiorazioni del contributo dovuto in applicazione delle sanzioni.
Anche il richiamo al capoverso dell'art. 1227 cod. civ. è fuorviante e non vale a costituire una valida base giuridica per l’individuazione di un onere collaborativo della amministrazione comunale nell’immediata attuazione del rapporto obbligatorio onde non aggravare la posizione del debitore.
Ed invero viene qui facile osservare come la maggiorazione del contributo di costruzione in ragione del ritardo nel pagamento prevista dal richiamato art. 42 d.P.R. n. 380 del 2001 (e dalle analoghe disposizioni normative precedenti) non ha natura risarcitoria o corrispettiva, bensì di sanzione pecuniaria nascente al momento in cui diviene esigibile la sanzione principale.
Orbene, l'onere di diligenza che la appena richiamata disposizione del codice civile, ispirata a principi di solidarietà sociale, fa gravare sul creditore si inscrive nella ben distinta fattispecie del concorso del fatto colposo del creditore nella causazione di un danno.
Nel caso in esame, non sarebbe corretto sul piano giuridico configurare alla stregua di un fatto colposo la mancanza di sollecitudine della amministrazione creditrice nell’agire a tutela del proprio credito (in senso non diverso, Corte cost. n. 308 del 1999). Del pari non corretta sarebbe l’assimilazione delle sanzioni pecuniarie derivanti ex lege dal mancato pagamento imputabile esclusivamente al debitore ai danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.
5.9 Per ragioni non dissimili da quelle fin qui enunciate non merita condivisione, a parere di questa Adunanza plenaria, l’orientamento giurisprudenziale che potrebbe definirsi intermedio e di cui ha dato conto l’ordinanza di rimessione.
Secondo tale approccio interpretativo, la sanzione per il ritardo potrebbe essere applicata nella misura minima soltanto in relazione al mancato pagamento della rata di contributo entro i primi 120 giorni dalla data di scadenza (secondo quanto dispone l’art. 42, comma 2, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001).
Solo a seguito dello spirare di tale prima scansione temporale (nel cui ambito soltanto sarebbe legittima l’applicazione della sanzione nella percentuale minima prevista dalla legge nazionale e, ove esistente, dalla legge regionale) diverrebbe esigibile l’onere per l’amministrazione di escutere il fideiussore con la conseguenza che, in difetto, la stessa amministrazione non avrebbe titolo per sanzionare l’ulteriore ritardo nel pagamento da parte del debitore principale.
L’Adunanza rileva come anche tale soluzione interpretativa non sia condivisibile atteso che la stessa:
   - non risulta fondata su salde basi normative ed anzi si risolve in un’inammissibile disapplicazione delle disposizioni normative nazionali e regionali che, come si è detto, correlano l’applicazione delle sanzioni al manifestarsi del semplice ritardo ovvero dell’omesso pagamento del contributo di costruzione (quali unici presupposti fattuali);
   - è in sé non ragionevole, posto che sterilizza il potere sanzionatorio dell’amministrazione proprio in relazione ai ritardi più significativi, cui il legislatore riserva un trattamento sanzionatorio più severo;
   - individua un onere di soccorso a carico della Amministrazione, sia pure allo scadere del primo periodo di inadempimento protrattosi per 120 giorni, che non solo non è nella legge ma che, per quanto già detto, non sarebbe neppure correttamente desumibile in applicazione dei principi di buona fede e correttezza che governano le obbligazioni ed i contratti di diritto civile ovvero, per analoghe ragioni, del principio di leale collaborazione proprio dei rapporti intersoggettivi di diritto amministrativo.
Peraltro, anche l’argomento della strumentalità della pronta escussione del fideiussore in funzione della rapida acquisizione nelle casse comunali del contributo di costruzione per l’esecuzione delle opere pubbliche è smentito dalla già evidenziata natura non sinallagmatica delle distinte prestazioni della parte pubblica e di quella privata (sul punto v. supra, par. 5.2).
Anche in ragione di tanto, e cioè del rapporto non corrispettivo delle prestazioni delle parti, non sarebbe esigibile a carico dell’amministrazione un onere di verifica riguardo al puntuale pagamento, nel rispetto delle scadenze fissate per le singole rate, del contributo di costruzione (nelle suindicate sue componenti), né sarebbe esigibile la tempestiva escussione della garanzia fideiussoria pena, altrimenti, la decadenza dal potere sanzionatorio. Un’opzione interpretativa di tale portata si porrebbe infatti in contrasto, oltre che con il principio di legalità (nei sensi dianzi indicati), anche con il principio costituzionale del buon andamento, attese le difficoltà oggettive cui andrebbero incontro i comuni (specie quelli di grandi dimensioni) nell’attivare tempestivamente le attività propedeutiche alla sollecitazione dei pagamenti dei contributi di costruzione alla scadenza delle singole rate.
5.10 In definitiva, per tutte le suesposte ragioni, l’Adunanza plenaria ritiene di poter concludere, per quanto di sua competenza, con l’affermazione del seguente principio di diritto: <<
Un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale>>.
Ai fini della risoluzione delle ulteriori questioni controverse (i.e., determinazione della fine dei lavori e corretta imputazione dei pagamenti eseguiti), anch’esse incidenti sulla legittimità dell’atto oggetto del ricorso di primo grado, nonché ai fini della definizione dell’intero giudizio alla luce del principio di diritto in questa sede espresso dalla Adunanza plenaria, le parti sono rimesse dinanzi alla Sezione quarta del Consiglio di Stato, cui vanno restituiti gli atti per ogni ulteriore statuizione, in rito, nel merito e sulle spese anche di questa fase di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
   a) formula il principio di diritto di cui in motivazione;
   b) restituisce gli atti alla Sezione IV del Consiglio di Stato per ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese del giudizio (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 07.12.2016 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

09.12.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Per il nuovo codice il patrocinio legale è un appalto di servizi.
Le attività di rappresentanza legale in giudizio sono appalti di servizi, compresi tra quelli esclusi dall'applicazione del codice dei contratti ma assoggettati al rispetto dei principi dell'ordinamento comunitario.

L'Autorità nazionale anticorruzione fornisce con il Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP una prima indicazione interpretativa sulla qualificazione del patrocinio legale alla luce delle previsioni contenute nel Dlgs 50/2016.
Tra vecchie e nuove regole
L'Anac ricostruisce il quadro formatosi nell'ordinamento previgente, che aveva condotto alla qualificazione del patrocinio come contratto di prestazione d'opera intellettuale, pertanto interamente sottratto alle regole del Dlgs 163/2006, quindi delinea l'impatto delle nuove disposizioni.
Rilevando come il nuovo codice dei contratti abbia mantenuto i servizi legali tra quelli (elencati nell'Allegato IX) cui si applica il regime alleggerito delineato dagli articoli 140 e seguenti, l'Autorità evidenzia come l'articolo 17 del Dlgs 50/2016, recependo l'articolo 10 della direttiva 2014/24/Ue, abbia annoverato tra gli appalti esclusi dall'applicazione del Codice gli appalti di servizi concernenti cinque tipologie di servizi legali.
In questa classificazione, definita dalla lettera d) dello stesso articolo 17, rientrano infatti la rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato in un arbitrato o in una conciliazione nonché in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche.
I princìpi applicabili
Secondo l'Anac, la disposizione del Dlgs 50/2016, pur volta a sottrarre dall'ambito oggettivo di applicazione del codice alcuni servizi legali, vale tuttavia a qualificare il patrocinio legale come un appalto di servizi.
La riconducibilità del patrocinio legale tra gli appalti di servizi (benché esclusi dall'ambito di applicazione del nuovo codice) comporta il necessario rispetto dei principi generali che informano l'affidamento degli appalti pubblici, esplicitati nell'articolo 4 del Dlgs 50/2016, e la conseguente impossibilità di procedere attraverso affidamenti fiduciari.
Per l'applicazione dei principi dell'ordinamento comunitario l'Anac richiama la Comunicazione interpretativa della Commissione Ue 2006/C-179/02, nella quale si stabilisce che la stazione appaltante deve garantire una procedura di aggiudicazione equa e imparziale, nonché con adeguata pubblicizzazione.
La comunicazione interpretativa richiede che siano garantiti l'uguaglianza di accesso per gli operatori economici di tutti gli Stati membri, termini adeguati per la presentazione della manifestazione d'interesse o dell'offerta e un approccio trasparente e oggettivo, in modo che tutti i concorrenti conoscano in anticipo le regole applicabili e abbiano la certezza che tali regole saranno applicate nello stesso modo a tutti gli operatori.
L'Anac, rilevando come la finalità perseguita con l'applicazione dei principi dell'ordinamento comunitario sia l'apertura del mercato alla concorrenza, evidenzia come la Commissione ammetta espressamente che le amministrazioni aggiudicatrici possono prevedere di applicare sistemi di qualificazione, come la redazione di un elenco di operatori qualificati mediante una procedura trasparente e aperta oggetto di adeguata pubblicità da cui selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta.
L'iscrizione all'elenco
Rispetto a questo quadro l'Autorità precisa (richiamando le proprie linee-guida sugli affidamenti sottosoglia) che l'iscrizione all'elenco dei soggetti interessati provvisti dei requisiti richiesti dovrebbe essere consentita senza limitazioni temporali e di numero (massimo) degli avvocati, in quanto incidenti sulla concorrenza.
In relazione ai requisiti per l'iscrizione al sistema di qualificazione, l'Anac evidenzia come in capo ai soggetti interessati non debbano sussistere i motivi di esclusione previsti dall'articolo 80 del codice, nonché distingue nettamente tra il potenziale conflitto di interessi regolato dall'articolo 42 del Dlgs 50/2016 (che deve essere verificato caso per caso e non impedisce l'iscrizione) e quello disciplinato dall'articolo 24 del Codice deontologico forense, in quanto si tratta di una causa di esclusione che recepisce il principio di prevenzione dei conflitti tra interessi contrapposti.
Tale disposizione, infatti, impone all'avvocato di astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale, risultando quindi ostativa, quando sussistente, all'iscrizione in un elenco dell'amministrazione (articolo Quotidiano Enti Locali & PA dell'08.12.2016).
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MASSIMA

Servizi legali – patrocinio legale – appalto di servizi – esclusione dall’ambito oggettivo di applicazione del Codice – rispetto dei principi generali dell’art. 4 del d.lgs. n. 50/2016 – elenco di professionisti per l’affidamento di incarichi di rappresentanza e difesa in giudizio.

Il patrocinio legale è un appalto di servizi escluso dall’ambito di applicazione del Codice e va affidato nel rispetto dei principi di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Non è conforme ai richiamati principi l’affidamento tramite elenco di professionisti per il quale è congiuntamente previsto un numero massimo di iscritti, un termine di 60 gg. per la presentazione delle richieste di iscrizione e la durata triennale dell’iscrizione.
Articoli 4 e 17 del d.lgs. 50/2016.
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Considerato in fatto
Con nota acquisita al prot. n. 108546 del 14.07.2016, Equitalia S.p.A. ha chiesto all’Autorità di esprimere il proprio avviso su alcuni profili dell’adottando sistema di affidamento di incarichi di rappresentanza e difesa in giudizio tramite costituzione di elenco di professionisti, al fine di verificarne il rispetto dei principi fondamentali della normativa europea in materia di appalti, ai sensi dell’art. 41 del d.lgs. n. 50 del 2016, in quanto servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del Codice.
Il “Regolamento per la costituzione dell’elenco dei professionisti per l’affidamento di incarichi di rappresentanza e difesa in giudizio da parte delle società del gruppo Equitalia", che l’istante è in procinto di emanare, disciplina la costituzione dell’elenco e ne stabilisce i requisiti e i criteri per l’iscrizione, le modalità di utilizzo e di eventuale aggiornamento.
In estrema sintesi, il sistema prevede la formazione di un elenco, di durata triennale -strutturato in sei sezioni, ciascuna con un numero massimo di iscritti- tramite l’iscrizione dei soggetti in possesso dei requisiti richiesti (paragrafo 6) «fino al raggiungimento del numero massimo dei soggetti iscrivibili per ciascuna sezione/area geografica dell’Elenco» ed, eventualmente, tramite sorteggio pubblico, nel caso in cui il numero delle domande ammesse sia superiore al numero massimo dei soggetti iscrivibili per ciascuna sezione/area geografica (paragrafi 4 e 5).
Il Regolamento dispone che l’affidamento degli incarichi agli iscritti nell’Elenco, cui si può ricorrere solo dopo «l’avvenuto accertamento preliminare dell’impossibilità oggettiva di utilizzare dipendenti interni» (paragrafo 3), avvenga sulla base del criterio di rotazione, derogabile solo in alcune ipotesi predefinite, di modo che «i professionisti potranno essere destinatari di un nuovo affidamento solo una volta che sia stato completato il giro di rotazione» (paragrafo 7).
Più in dettaglio, il paragrafo 5 dedicato alla struttura dell’Elenco, dopo avere chiarito che «l’inserimento nell’Elenco non comporta l’attribuzione di alcun diritto e/o interesse del professionista in ordine a eventuali conferimenti di incarichi né conseguentemente, l’assunzione di alcun obbligo da parte delle Società del Gruppo», precisa che, con esclusivo riferimento alla sezione V.a (contenzioso della riscossione che include tutte le Autorità Giudiziarie competenti in materia di contenzioso della riscossione con esclusione della Corte di Cassazione), «si stima che ad ogni professionista potranno essere affidati un numero annuo di incarichi pari a circa centocinquanta per un compenso stimato pari a circa 35.000 euro oltre accessori», con l’ulteriore precisazione che, «trattandosi di una stima, il numero degli incarichi e l’importo dei compensi potrà variare a seconda delle effettive esigenze del Gruppo Equitalia».
Il primo quesito verte sulla conformità ai principi di cui all’art. 4 del Codice, con particolare riferimento ai principi di proporzionalità, economicità, imparzialità e parità di trattamento, della previsione di un numero annuo medio di incarichi e di un compenso minimo.
Il paragrafo 4 del Regolamento prevede che sia pubblicato un avviso sul profilo del committente per 60 giorni, termine entro il quale gli interessati devono presentare le domande di iscrizione all’Elenco. Il paragrafo 5 individua le sezioni in cui è articolato l’Elenco, una delle quali è ulteriormente suddivisa in sottosezioni geografiche, e il numero massimo di iscritti per ogni sezione e sottosezione.
Con il secondo quesito, l’istante chiede se la previsione di un elenco aperto solo per un periodo predeterminato, unitamente alla previsione di un numero massimo di iscritti per ciascuna sezione (che l’istante valuta proporzionato all’entità del contenzioso e al numero di incarichi tale da assicurare la remuneratività dei servizi legali affidati), risponda ai principi di cui all’art. 4 del Codice.
Il paragrafo 6 elenca i requisiti di carattere generale e speciale che devono essere posseduti ai fini dell’iscrizione nell’Elenco. Tra questi,
   (a) inesistenza di cause di incompatibilità con lo svolgimento dell’incarico professionale affidato e di situazioni anche potenziale di conflitti di interesse (è vietato l’affidamento dell’incarico a familiari, entro il secondo grado, di dipendenti del Gruppo Equitalia assegnati alle strutture del contenzioso);
   (b) non avere in corso, in qualità di difensore di altre parti, il patrocinio per cause promosse contro le Società del Gruppo, Agenzia delle Entrate e INPS;
   (c) avere conseguito negli ultimi tre anni solari un volume di affari pari ad almeno 120.000 euro di cui la quota costituita da servizi resi al Gruppo Equitalia non potrà essere superiore al 30% del volume d’affari complessivo;
   (d) avere conseguito negli ultimi tre anni solari un fatturato specifico in attività analoghe a quelle oggetto della specifica sezione per la quale si chiede l’iscrizione pari ad almeno 50.000,00 euro, ovvero, ai soli fini dell’iscrizione nelle sezioni V.a (contenzioso della riscossione che include tutte le Autorità Giudiziarie competenti in materia di contenzioso della riscossione con esclusione della Corte di Cassazione) e V.b (contenzioso della riscossione davanti alla Corte di Cassazione), avere svolto almeno 50 incarichi in attività analoghe;
   (e) avere svolto nell’ultimo anno solare almeno tre incarichi in attività analoghe a quelle oggetto della specifica sezione per la quale si chiede l’iscrizione:
   (f) possesso di adeguata polizza assicurativa a copertura dei rischi derivanti dall’attività professionale con impegno del professionista ad adeguare il massimale ove richiesto, o, in alternativa, possesso di una polizza di “responsabilità professionale” con massimale non inferiore a 2 milioni di euro.
Il terzo quesito verte sulla conformità ai principi di cui all’art. 4 del Codice dei requisiti sopra indicati e,con particolare riferimento al requisito di cui alla lettera (a) –cause di incompatibilità e conflitti di interesse– è volto a verificare se esso non introduca una restrizione della libertà di iniziativa economica incompatibile con i principi di proporzionalità, efficacia, imparzialità e parità di trattamento. Viene inoltre chiesto se l’eventuale previsione di una polizza assicurativa con massimale non inferiore a 2 milioni di euro sia proporzionale al compenso minimo stimato di 35.000,00 euro.
Il paragrafo 7 prevede che non saranno conferiti incarichi ai professionisti iscritti nell’Elenco per i quali dovessero risultare cartelle di pagamento complessivamente di importo superiore a 1.000,00 euro per le quali risulti morosità.
Con il quarto quesito l’istante chiede l’avviso dell’Autorità in ordine al rispetto dei principi di cui all’art. 4 del Codice della richiamata previsione, tenuto conto che essa introduce una disciplina più stringente rispetto alla specifica causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 4, del Codice.
Ritenuto in diritto
L’analisi dei singoli quesiti presuppone la sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento inerente l’affidamento dei servizi legali e, in particolare, del patrocinio legale, che, con l’entrata in vigore del nuovo Codice, appare significativamente mutato.
Sotto la vigenza del d.lgs. n. 163/2006, i servizi legali, in quanto ricompresi nell’Allegato IIB, erano sottratti alla disciplina puntuale del Codice, se non per gli articoli 65, 68 e 225, ed erano soggetti al regime di affidamento semplificato risultante dal combinato disposto dell’art. 20 e dell’art. 27.
Tuttavia, parte della giurisprudenza distingueva dalla categoria generale dei servizi legali l’incarico di patrocinio legale conferito singolarmente, ritenendo sussistente una differenza ontologica tra l’attività di assistenza e consulenza giuridica, caratterizzata dalla presenza di una specifica organizzazione -riconducibile ad un servizio oggetto di appalto affidabile tramite procedura ad evidenza pubblica- e il conferimento del singolo incarico di patrocinio legale, ritenuto integrante un contratto d’opera intellettuale e quindi non rientrante nell’ambito oggettivo di applicazione della disciplina codicistica in materia di appalti.
Veniva conseguentemente ritenuto che la scelta fiduciaria del patrocinatore legale fosse esclusivamente soggetta ai principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 11.05.2012 n. 2730).
La stessa Autorità, nella determinazione 07.07.2011 n. 4, aveva ritenuto che il patrocinio legale, cioè il contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente, fosse inquadrabile nell’ambito della prestazione d’opera intellettuale, in base alla considerazione per cui il servizio legale, per essere oggetto di appalto, richieda qualcosa in più, “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa” (cfr. Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Basilicata, deliberazione n. 19/2009/PAR).
Il nuovo Codice dei contratti ha mantenuto i “servizi legali” tra quelli - elencati nell’Allegato IX - cui si applica il regime alleggerito delineato dagli artt. 140 e ss.
L’art. 17 del d.lgs. n. 50/2016, tuttavia, recependo l’art. 10 della dir. 2014/24/UE, ha annoverato tra gli appalti esclusi dall’applicazione del Codice gli appalti di servizi concernenti cinque tipologie di servizi legali, tra cui, alla lettera d), n. 1), la rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell’art. 1 della legge 09.02.1982, n. 31, (1.1 in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato membro dell’Unione europea, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o conciliativa internazionale; 1.2 in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro dell’Unione europea o un Paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali).
La richiamata disposizione, volta a sottrarre dall’ambito oggettivo di applicazione del Codice taluni servizi legali, vale tuttavia a qualificare il patrocinio legale (sicuramente identificabile nella richiamata lettera d), n. 1), dell’art. 17, comma 1), come un appalto di servizi. La riconducibilità del patrocinio legale tra gli appalti di servizi (benché esclusi dall’ambito di applicazione del Codice) comporta il necessario rispetto dei principi generali che informano l’affidamento degli appalti pubblici, esplicitati nell’art. 4 del d.lgs. n. 50/2016, e la conseguente impossibilità di procedere attraverso affidamenti fiduciari.
I principi generali che presiedono all’affidamento dei contratti pubblici sono richiamati nel considerando n. (1) della direttiva 2014/24/UE che sancisce la necessità che l’aggiudicazione degli appalti pubblici da o per conto di autorità degli Stati membri rispetti i principi del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e in particolare la libera circolazione delle merci, la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi, nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza.
L’assunto è recepito dal legislatore nazionale nel combinato disposto dell’art. 30, comma 1, e dell’art. 4 del d.lgs. n. 50/2016 dove, con riferimento agli appalti e alle concessioni soggette al Codice (art. 30) e ai contratti esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del Codice (art. 4), sono fissati i principi discendenti dal TFUE che devono presiedere all’affidamento.
Fondamentali indicazioni, anche operative, circa l’applicazione dei richiamati principi nel caso di affidamento di contratti esclusi dall’applicazione delle direttive sono stati fornite dalla Commissione europea nella Comunicazione interpretativa 2006/C 179/02.
Con specifico riferimento alle procedure di aggiudicazione dell’appalto, cui si riferiscono i primi due quesiti, la Commissione ha chiarito che, a corollario dell’obbligo di garantire una pubblicità trasparente, la stazione appaltante deve garantire una procedura di aggiudicazione equa e imparziale. Nella specie, secondo le indicazioni della Commissione, occorre garantire, tra le altre, l’uguaglianza di accesso per gli operatori economici di tutti gli Stati membri, termini adeguati per la presentazione della manifestazione d’interesse o dell’offerta e un approccio trasparente e oggettivo, di modo che tutti i concorrenti conoscano in anticipo le regole applicabili e abbiano la certezza che tali regole saranno applicate nello stesso modo a tutti gli operatori. La finalità perseguita è l’apertura del mercato alla concorrenza.
Circa le modalità pratiche attraverso cui dare attuazione ai richiamati principi, la Commissione ammette espressamente che le amministrazioni aggiudicatrici possono prevedere di applicare sistemi di qualificazione, ovvero «la redazione di un elenco di operatori qualificati mediante una procedura trasparente e aperta oggetto di adeguata pubblicità» da cui selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Rientra nella descritta tipologia il sistema di selezione che l’istante ha deliberato di adottare.
La peculiarità dell’elenco in esame risiede nel fatto che Equitalia ha fissato per ciascuna sezione dell’elenco un numero massimo di iscritti. Tale numero massimo, nel caso della sezione V.a, risulta calcolato, sulla base dei dati storici, in modo da garantire tendenzialmente l’affidamento di un numero annuo di incarichi pari a circa centocinquanta per un compenso stimato pari a circa 35.000 euro oltre accessori. A corollario del sistema, il regolamento prevede che le richieste di iscrizione all’elenco possano essere presentate solo nell’arco dei 60 giorni durante i quali l’avviso è pubblicato sul profilo del committente e che l’elenco ha durata triennale.
Al riguardo, si osserva che la combinazione delle richiamate disposizioni (numero massimo degli iscritti, termine di 60 gg. per la presentazione dell’istanza e durata triennale dell’iscrizione) determina un indubbio effetto restrittivo della concorrenza finendo per comprimere l’effettiva contendibilità dell’affidamento del servizio di patrocinio legale da parte dei soggetti potenzialmente interessati.
L’iscrizione dei soggetti interessati provvisti dei requisiti richiesti dovrebbe essere consentita senza limitazioni temporali (cfr. proposta di Linee guida Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici). Qualora le difficoltà gestionali paventate dall’istante legate al rilevante numero di domande che verosimilmente potrebbero essere ricevute si rivelassero non superabili attraverso l’adozione di opportune misure organizzative, l’effetto restrittivo derivante dalla limitazione temporale della presentazione delle istanze dovrebbe essere contemperato dalla riduzione del termine di validità dell’iscrizione, che potrebbe essere portata a un anno, in modo da rendere più frequenti le finestre temporali entro le quali i soggetti qualificati possono manifestare l’interesse all’iscrizione nell’elenco (60 giorni ogni anno e non 60 giorni ogni tre anni).
Quanto alla limitazione del numero dei soggetti che possono iscriversi a ciascuna sezione dell’Elenco, si tratta di una misura tendenzialmente contraria all’interesse dell’amministrazione che dovrebbe, in linea di principio, tendere a poter disporre della platea più ampia possibile di soggetti qualificati tra cui selezionare, in questo caso sulla base del criterio di rotazione, gli affidatari del servizio.
L’imposizione di un numero massimo di iscritti, inoltre, è di fatto limitativa della concorrenza perché equivale a contingentare il numero dei soggetti che possono accedere ad un sistema di qualificazione prodromico all’affidamento di servizi. Non pare neppure sostenibile che la misura in esame possa essere legittimata dall’intento di “garantire” a ciascun professionista qualificato un certo numero di incarichi annuo, trattandosi di una logica estranea (e contraria) ai principi informatori –concorrenza e par condicio su tutti– dell’affidamento dei contratti pubblici.
Il terzo e il quarto quesito riguardano i requisiti generali e speciali richiesti ai fini dell’iscrizione nell’Elenco.
Al riguardo, si evidenzia che costituisce ius receptum il principio secondo cui tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrono all’esecuzione di appalti pubblici devono essere in possesso dei requisiti di moralità previsti dal Codice dei contratti. Il possesso di inderogabili requisiti di moralità rappresenta un fondamentale principio di ordine pubblico economico che trova applicazione anche nelle gare riguardanti appalti in tutto o in parte esclusi dall’applicazione del Codice (Parere sulla Normativa 11.07.2012 - rif. AG 10/12, Parere sulla Normativa 03.07.2013 - rif. AG 8/13, Parere di Precontenzioso 17.07.2013 n. 128 - rif. PREC 119/13/F, Parere di Precontenzioso 29.07.2014 n. 14 - rif. PREC 56/14/S).
Vi è infatti l’imprescindibile esigenza che il soggetto che contratta con la pubblica amministrazione sia affidabile e quindi in possesso dei requisiti di carattere generale attualmente tipizzati dall’art. 80 del d.lgs n. 50/2016. Se dunque, nell’ambito delle richiamate procedure, la stazione appaltante può non esigere il medesimo rigore formale di cui all’art. 80 e gli stessi vincoli procedurali, essa ha comunque l’obbligo di verificare in concreto il possesso da parte dei concorrenti dei requisiti di moralità indicati nell’art. 80.
Si rileva, inoltre, che la giurisprudenza ha precisato, con riferimento al previgente Codice ma sulla base di principi applicabili anche alla vigente normativa, «che nessuna delle norme del codice dei contratti pubblici (…) sembra impedire alle Amministrazioni che, come nel caso in esame, intendono predisporre un elenco di operatori economici da interpellare per procedure negoziate per l’affidamento di lavori di subordinare l’inserimento dei candidati nell'elenco stesso al possesso dei requisiti soggettivi di cui all’art. 38, comma 1, del predetto codice( …); un anticipato accertamento (rispetto alle singole procedure) del possesso dei requisiti in questione non solo non è espressamente vietato, ma anzi può risultare utile a prevenire il rischio per le Amministrazioni pubbliche di intrattenere rapporti o comunque di entrare in contatto con soggetti nei cui confronti sussistono cause ostative alla partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica e alla stipulazione dei relativi contratti; ferma comunque la necessità di operare puntuali verifiche nei confronti dei soggetti inclusi nell’elenco in occasione delle specifiche procedure per cui siano interpellati» (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 24.03.2011 n. 498).
Se dunque appare corretta la richiesta dell’insussistenza dei motivi di esclusione di cui all’art. 80, la richiesta di ulteriori requisiti va vagliata alla luce del principio generale di tassatività della cause di esclusione.
Con riferimento al requisito dell’insussistenza di cause di incompatibilità con lo svolgimento dell’incarico professionale affidato e di situazioni anche potenziali di conflitto di interesse (di cui alla lettera (a) del richiamato elenco), si rappresenta che il comma 5, lett. d), dell’art. 80 reca già la disciplina delle indicate fattispecie prevedendo il divieto di partecipazione alla gara dell’operatore economico qualora determini una situazione di conflitto di interesse ai sensi dell’art. 42, comma 2, non sia diversamente risolvibile.
L’art. 42, comma 2, definisce il conflitto di interesse come la situazione in cui il personale di una stazione appaltante che interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione.
In particolare, costituiscono situazione di conflitto di interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione previste dall’art. 7 del d.P.R. 16.04.2013, n. 62, ovvero i casi in cui l’adozione di decisioni o ad attività possono coinvolgere interessi del dipendente, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Qualora ciò si verifica, l’art. 42, comma 3, impone l’obbligo di astensione del personale dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione.
Pertanto l’operatività della causa di esclusione di cui al comma 5, lett. d), dell’art. 80 scatta unicamente quando la situazione di conflitto di interessi non sia risolvibile o non sia risolta tramite la misura prevista dall’art. 42 di astensione del personale della stazione appaltante coinvolto in tale situazione.
Ritenuto dunque che, alla luce della disciplina dell’art. 80, peraltro richiamata dal Regolamento in esame, il conflitto di interessi porta all’esclusione del concorrente solo come extrema ratio, si reputa che la clausola del Regolamento che sancisce il divieto di partecipazione nei casi di conflitto di interesse anche potenziale, oltre a contrastare con il comma 5, lett. d), dell’art. 80, violi i principi di proporzionalità e parità di trattamento di cui all’art. 4 del Codice.
Diverso è il caso del requisito di cui alla lettera (b) del richiamato elenco (non avere in corso, in qualità di difensore di altre parti, il patrocinio per cause promosse contro le Società del Gruppo, Agenzia delle Entrate e INPS), trattandosi di causa di esclusione che recepisce il principio di prevenzione dei conflitti tra interessi contrapposti sancito dal Codice deontologico forense -che impone all’avvocato di astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale (art. 24)- e che dunque è connaturato alla peculiare qualifica professionale degli operatori economici interessati alla procedura di selezione in esame.
Quanto al requisito dell’insussistenza di cartelle di pagamento complessivamente di importo superiore a 1.000,00 euro per le quali risulti morosità (dove per morosità si intende la sussistenza di cartella di pagamento o avviso di accertamento esecutivo o avviso di addebito scaduto ed impagato per debiti complessivi superiori a 1.000,00 euro), si rappresenta che il “livello di moralità” che il contraente con la pubblica amministrazione deve possedere è già stato stabilito dal legislatore, per ciò che concerne la regolarità contributiva, con i parametri di cui al comma 4 dell’art. 80. Richieste più stringenti, se non previste da altre disposizioni di legge vigenti, sono da ritenersi sproporzionate e lesive della par condicio.
Infine, per ciò che concerne i requisiti speciali, si evidenzia che le stazioni appaltanti, anche nel caso di appalti esclusi, hanno facoltà di richiedere, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, requisiti minimi di idoneità tecnica ed economica, anche diversi da quelli previsti dal Codice, al fine di garantire un determinato livello di affidabilità dell’aggiudicatario sul piano economico-finanziario e tecnico-organizzativo (Parere sulla Normativa 27.05.2015 - rif. AG 37/2015/AP).
Deve ovviamente trattarsi di requisiti individuati «tenendo conto della natura del contratto ed in modo proporzionato al valore dello stesso; in ogni caso, detti requisiti non devono essere manifestamente irragionevoli, irrazionali, sproporzionati, illogici ovvero lesivi della concorrenza» (determinazione 10.10.2012 n. 4). Alla stregua dei richiamati parametri, il requisito di cui alla lettera (c) del richiamato elenco (volume di affari negli ultimi tre anni di 120.000,00 euro) potrebbe apparire sproporzionato e potenzialmente discriminatorio nei confronti di soggetti che abbiano maturato una esperienza specifica nel settore del contenzioso della riscossione che, per stessa ammissione dell’istante, è caratterizzato da elevata numerosità degli incarichi con compensi non rilevanti.
Il Consiglio
ritiene, nei limiti di cui in motivazione, che:
il patrocinio legale è un appalto di servizi escluso dall’ambito di applicazione del Codice e va affidato nel rispetto dei principi di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Non è conforme ai richiamati principi l’affidamento tramite elenco di professionisti per il quale è congiuntamente previsto un numero massimo di iscritti, un termine di 60 gg. per la presentazione delle richieste di iscrizione e la durata triennale dell’iscrizione
(Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP - link a www.anticorruzione.it).

INCARICHI PROFESSIONALICodice appalti, due strade per i servizi degli avvocati. Alcuni dicono che serve una mini gara, altri sostengono l'affidamento diretto dell'incarico.
La nuova disciplina dei contratti pubblici sulla rappresentanza e difesa in giudizio della p.a..

Pasticciaccio sugli incarichi agli avvocati da parte delle p.a. dopo il nuovo codice degli appalti. C'è chi dice che bisogna fare una mini gara perché sono contratti di appalto, anche se si escludono le procedure più pesanti (gara pubblica) e c'è chi dice che è un contratto d'opera, assolutamente estraneo al campo di applicazione del codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016).
Tutto sta nel fatto che proprio il nuovo codice dei contratti pubblici indica la rappresentanza e difesa in giudizio come «servizio escluso». Con questa classificazione, però, si apre la strada alla applicazione delle mini gare: se siamo di fronte a un contratto escluso dall'applicazione dei procedimenti ordinari, è pur vero che questo presupporrebbe che siamo nel campo della normativa sui contratto di appalto. Per stare al di fuori di questa logica, bisogna qualificare il contratto con l'avvocato incaricato della difesa in giudizio non come contratto di appalto di servizi, ma come contratto d'opera intellettuale.
Ma analizziamo le due impostazioni, mentre le p.a. vanno a tentoni e aspettano un chiarimento dalla giurisprudenza.
Appalto. Una tesi sostiene che gli incarichi ad avvocati sono appalto di servizio, per cui è escluso l'affidamento diretto su basi fiduciarie (in latino «intuitu personae»).
Questa tesi si appoggia sull'art. 17 del codice dei contratti, che inserisce, tra i contratti cosiddetti esclusi, i servizi legali, anche quelli concernenti la rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato in un arbitrato o conciliazione, nei procedimenti giudiziari.
Secondo questa impostazione l'esclusione non significa che le amministrazioni hanno mano libera. Anzi è nuova la classificazione di queste attività come servizi ed è quindi preclusa la strada dell'affidamento dell'incarico ai sensi del codice civile, che vale solo per i committenti privati. Il risultato di questa impostazione è che bisogna applicare i principi generali degli appalti, tra cui l'economicità, la trasparenza, la par condicio tra i concorrenti.
Ci vorrebbe un avviso pubblico, precisando le caratteristiche del servizio, magari richiedendo particolari esperienze o specializzazioni. Si può acquisire le manifestazioni di interesse e poi passare a un confronto concorrenziale. Non si esclude la possibilità di una scelta diretta, ma solo se motivata da urgenza delle procedure.
Opera intellettuale. La tesi diametralmente opposta fa leva sull'articolo 4 del codice degli appalti. Questo articolo definisce l'ambito di applicazione dei dlgs 50/2016 ai soli contratti di appalto, tra cui non può essere inserito il mandato difensivo. L'appalto, infatti, è un contratto con cui l'appaltatore si assume il rischio connesso al compimento dell'opera o del servizio; nel mandato difensivo manca questa caratteristica, anzi l'articolo 2230 del codice civile esprime una regola del tutto diversa (tanto che si parla di obbligazione di mezzi e non di risultato).
Peraltro sarebbe opinabile una norma che impedisse a un soggetto giuridico di scegliersi il difensore, prerogativa certamente connaturata al diritto di difesa costituzionalmente garantito.
E non si potrebbe dire che il codice dei contratti del 2016 abbia abrogato implicitamente le disposizioni del codice civile sull'attività professionale. Infine viene ricordata la giurisprudenza del consiglio di stato che si era pronunciata nel senso di escludere le gare per gli affidamenti ai legali in vigenza del vecchio codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006).
Secondo il Consiglio di stato, Sez. V, 11.05.2012 n. 2730 la scelta dell'avvocato per la difesa in giudizio dell'amministrazione costituisce prestazione intellettuale, estranea all'applicazione dell'obbligo di gara per i servizi legali.
Da ultimo ci si chiede come si possa fare a imbastire le procedure di mini gara quando scadono i termini processuali e si rischia di incaricare l'avvocato a ridosso delle scadenze. Ci si chiede altresì come possa sostenersi la necessità di rispettare il principio di economicità (prendere l'avvocato che offre il prezzo più basso) quando in giudizio vale la regola dell'accollo delle spese in base alla soccombenza in giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Visita medica in orario di reperibilità: quando l’assenza è ingiustificata.
La Corte di Cassazione sottolinea che,
nel caso l’assenza del lavoratore sia da giustificare con l‘effettuazione di una visita specialistica, non sarà sufficiente produrre il relativo certificato medico, ma anche dimostrare quali necessità non abbiano consentito al lavoratore di svolgere la visita al di fuori delle fasce orarie di reperibilità.
La Corte sancisce così la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per via del mancato rispetto delle fasce di reperibilità previste in caso di malattia. In particolare la Cassazione ribadisce l’assoluto rilievo, in termini di legge, del rispetto delle fasce orarie che, va ricordato, decorrono dal primo giorno di malattia.
Può essere legittimamente licenziato il dipendente che, essendo in malattia, viene trovato più volte assente alla visita fiscale: è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 02.12.2016 n. 24681.
La Suprema Corte ribadisce così l’assoluto rilievo, in termini di legge, del rispetto delle fasce orarie che, va ricordato, decorrono dal primo giorno di malattia.
Il caso: comportamento omissivo, sanzioni, ruolo del lavoratore
La sentenza emessa dalla Corte riguarda la questione sorta in seguito al licenziamento intimato ad un lavoratore dipendente che era risultato assente per ben 5 volte alla visita fiscale di controllo della malattia, senza mai aver fornito adeguate giustificazioni al riguardo.
E il comportamento omissivo del lavoratore era stato ripetuto nonostante allo stesso, in relazione alla precedenti assenze, fossero state comminate, da parte del datore di lavoro, una multa e la sospensione, crescente in termini di tempo, dal servizio.
Tale circostanza risultava ulteriormente aggravata in considerazione della ruolo ricoperto dal lavoratore, che era direttore di un ufficio postale, e come tale responsabile del coordinamento e del controllo di altri dipendenti.
Insufficiente il certificato di visita medica in orario di reperibilità
La Corte di Cassazione precisato, come anche già in passato, l’obbligo di reperibilità alle visite di controllo imposto al lavoratore dipendente rappresenta un onere all’interno del rapporto assicurativo ma anche un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro.
Ne deriva che, con riferimento al caso esaminato, l’irrogazione della sanzione può essere evitata solamente qualora il lavoratore possa provare un ragionevole impedimento all’osservanza di tale comportamento.
Non rileva l’effettività della malattia, poiché ciò che rileva è lo scopo che la legge intende perseguire attraverso i controlli che vengono effettuati dagli uffici pubblici competenti.
A tal fine, nel caso l’assenza del lavoratore sia da giustificare con l‘effettuazione di una visita specialistica, non sarà sufficiente produrre il relativo certificato medico, ma anche dimostrare quali necessità non abbiano consentito al lavoratore di svolgere la visita al di fuori delle fasce orarie di reperibilità (commento tratto da www.ipsoa.it).
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MASSIMA
Il primo motivo è infondato.
Nel fissare i limiti dell'obbligo di reperibilità del lavoratore alle visite di controllo questa Corte ha infatti precisato, con orientamento risalente e consolidato, che, mediante la previsione di cui all'art. 5 l. n. 638/1983, si è imposto al lavoratore un comportamento (e cioè la reperibilità nel domicilio durante prestabilite ore della giornata) che è, ad un tempo, un onere all'interno del rapporto assicurativo ed un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro, ma il cui contenuto resta, in ogni caso, la "reperibilità" in sé; con la conseguenza che l'irrogazione della sanzione può essere evitata soltanto con la prova, il cui onere grava sul lavoratore, di un ragionevole impedimento all'osservanza del comportamento dovuto e non anche con quella della effettività della malattia, la quale resta irrilevante rispetto allo scopo, che la legge ha inteso concretamente assicurare, dell'assolvimento tempestivo ed efficace dei controlli della stessa da parte delle strutture pubbliche competenti, siano esse attivate dall'ente di previdenza ovvero dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 legge 20.05.1970 n. 300.
In particolare,
a dimostrazione che il giudizio sull'osservanza dell'obbligo di reperibilità non dipende dal fatto dell'esistenza della malattia (nel senso della necessità di ritenere il lavoratore assolto da tale obbligo soltanto perché effettivamente malato), è stato precisato che -in presenza di una contrattazione collettiva contenente (quale anche il CCNL per il personale non dirigente di Poste Italiane: cfr. art. 43, commi 8 e 9) detto obbligo di reperibilità a carico del lavoratore- che il dipendente non può limitarsi a produrre il certificato medico attestante l'effettuazione di una visita specialistica, ma deve dare dimostrazione delle "comprovate necessità" che impediscono l'osservanza delle fasce orarie, e cioè che la visita non poteva essere effettuata in altro orario al di fuori delle predette fasce, "ovvero che la necessità della visita era sorta negli orari di reperibilità, tenuto conto che il giustificato motivo di assenza del lavoratore ammalato dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità, di cui all'art. 5 della normativa sopra indicata, si identifica in una situazione sopravvenuta che comporti la necessità assoluta ed indifferibile di allontanarsi dal luogo nel quale il controllo deve essere esercitato" (cfr. Cass. n. 2756/1995; conforme Cass. n. 13982/1991).
Tale principio di diritto è stato ancora e più di recente ribadito da Cass. n. 3226/2008 (già citata nella sentenza impugnata), per la quale "
in tema di controlli sulle assenze per malattia dei lavoratori dipendenti, volti a contrastare il fenomeno dell'assenteismo e basati sull'introduzione di fasce orarie entro le quali devono essere operati dai servizi competenti accessi presso le abitazioni dei dipendenti assenti dal lavoro, ai sensi dell'art. 5, co. 14°, d.l. 12.09.1983 n. 496, convertito con modificazioni dalla legge n. 638 del 1983, la violazione da parte del lavoratore dell'obbligo di rendersi disponibile per l'espletamento della visita domiciliare di controllo entro tali fasce assume rilevanza di per sé, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, e può anche costituire giusta causa di licenziamento".
Nel caso di specie, la Corte, con motivazione adeguata e comunque non oggetto di censure, ha accertato come l'appellante non solo non avesse mai documentato, neppure ex post, alcuna causa di giustificazione in relazione all'assenza dal domicilio del 29/02/2008, ma avesse, per le quattro assenze precedenti (in data 25/10/2007, 10/12/2007, 18/12/2007 e 18/01/2008), prodotto certificati medici, oggetto di specifico esame, inidonei a provare un serio e fondato motivo che giustificasse l'assenza alle visite domiciliari di controllo (cfr. sentenza, p. 5).
La Corte territoriale risulta altresì avere esaminato la relazione di consulenza medicolegale depositata dal ricorrente, traendone il convincimento che neppure da essa fosse possibile ritenere provata la sussistenza di un giustificato motivo di assenza, atteso che -come riconosciuto dallo specialista che l'aveva redatta- la cura praticata dal Mi. si attua secondo appuntamenti concordati con il centro terapeutico (p. 6).
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
La Corte ha, infatti, accertato
come il lavoratore fosse stato rinvenuto ripetutamente assente alle visite domiciliari di controllo della malattia e come avesse reiterato il medesimo comportamento rilevante sul piano disciplinare, pur dopo l'applicazione della prima sanzione (della multa) e di quelle (sospensione dal servizio) in seguito, e secondo una progressione crescente (un giorno, cinque e dieci giorni), adottate dal datore di lavoro: comportamento, questo, per la cui valutazione, ai fini del giudizio di proporzionalità in rapporto alla più grave misura espulsiva da ultimo inflitta, non poteva restare indifferente il contenuto delle mansioni assegnate, e cioè di preposto ad un ufficio, tali da comportare compiti di coordinamento e di controllo di altri dipendenti.
Su tali premesse, la sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state rivolte.
L'art. 43, comma 9, CCNL per il personale non dirigente di Poste Italiane S.p.A. prevede esplicitamente che il "constatato mancato rispetto da parte del lavoratore degli obblighi" indicati al precedente co. 8 (e cioè l'obbligo del lavoratore in malattia di trovarsi fin dal primo giorno di assenza dal lavoro nel domicilio comunicato al datore "in ciascun giorno, anche se domenicale o festivo, dalle ore 10 alle 12 e dalle ore 17 alle 19" nonché l'obbligo di dare "preventiva comunicazione alla Società" nel caso in cui, durante tali fasce orarie, egli debba assentarsi dal proprio domicilio "per visite, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi"), "comporta la perdita del trattamento di malattia, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge, ed è sanzionabile con l'applicazione di provvedimento disciplinare".
Non rileva, d'altra parte, che l'applicazione di una sanzione sia configurata come una "possibilità" (laddove risulta affermato che il mancato rispetto degli obblighi a carico del lavoratore è sanzionabile) e non come "effetto automatico" dell'infrazione, posto che l'esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro rientra comunque, su di un piano generale, nella sfera della sua discrezionalità e che la previsione della "possibilità" di tale esercizio, quale delineata dalle parti collettive con la norma in esame, assicura di per sé della rispondenza della decisione datoriale di farvi eventuale ricorso alla comune volontà dei contraenti.
La sentenza si sottrae altresì alle censure del ricorrente con riguardo alle disposizioni di cui ai commi 4 e 5 dell'art. 55 CCNL di riferimento.
In particolare, e
diversamente da quanto sembra sostenere il lavoratore, che imputa alla sentenza di non avere tenuto in debito conto l'assenza di intenzionalità/mala fede nel comportamento sanzionato, il co. 4 prevede esplicitamente che nella valutazione dell'entità afflittiva del provvedimento disciplinare si debba avere riguardo non solo alla intenzionalità del comportamento ma anche al "grado di negligenza" dimostrato da esso, elemento soggettivo rispetto al quale la Corte territoriale ha correttamente evidenziato la reiterazione in un contenuto periodo di tempo della identica condotta e la sua costante riproduzione pur a fronte della relativa e conseguente progressione sanzionatoria, consumatasi a partire dall'ottobre 2007.
Né, sulla scorta di tali valutazioni, può ritenersi che la Corte abbia trascurato l'ulteriore previsione del comma 4, là dove è stabilito che la verifica dell'osservanza del principio di "gradualità e proporzionalità" nell'applicazione delle sanzioni debba volgersi anche a comprendere la valutazione del "comportamento complessivo del lavoratore", avendo le parti collettive espressamente precisato sul punto che tale valutazione debba avere "particolare riguardo ai precedenti disciplinari nell'ambito del biennio"; o la previsione di cui al comma 5 dello stesso art. 55, che per "mancanze della stessa natura già sanzionate nel biennio" (come nella fattispecie) consente l'irrogazione, a seconda della gravità del caso e delle circostanze, di una sanzione di livello più elevato rispetto a quella già inflitta: profilo che la Corte risulta aver preso in considerazione attraverso gli elementi già posti in evidenza e il rilievo della mancanza di alcuna giustificazione, neppure ex post, a proposito dell'assenza all'ultima visita domiciliare di controllo, nel quadro di un codice disciplinare (art. 56) che vede la "recidiva plurima, nell'anno, delle mancanze previste nel precedente gruppo" sanzionata proprio con la misura (recesso con preavviso) da ultimo adottata da Poste Italiane e oggetto di impugnazione.
Il ricorso deve conseguentemente essere respinto.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 09.12.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 30.11.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 01.12.2016 n. 157).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 09.12.2016, "Adozione delle misure di conservazione relative ai 9 siti Rete Natura 2000 compresi nel territorio del Parco Nazionale dello Stelvio e trasmissione delle stesse al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi del d.p.r. 357/97 e s.m.i. e del d.m. 184/2007 e s.m.i." (deliberazione G.R. 30.11.2016 n. 5928).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Palazzo Madama chiude i lavori: sì definitivo alla legge di bilancio. Prorogati gli incentivi per gli interventi di recupero edilizio, la riqualificazione energetica e antisismica, l’acquisto di mobili e elettrodomestici destinati a immobili ristrutturati (07.12.2016 - link a www.fiscooggi.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Azienda pubblica servizi alla persona. Presidenza commissione selezione incarico di Direttore generale.
Qualora un soggetto sia chiamato a svolgere le funzioni di Presidente di una commissione di concorso e partecipi, in qualità di aspirante, alla procedura medesima, si verifica l'esistenza di quella comunanza di interessi idonea a far insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di imparzialità, trasparenza e parità di trattamento, comunque inquadrabile nell'art. 51, comma 2, c.p.c. (ricusazione).
Pertanto, è necessario procedere alla sostituzione del Presidente stesso, in quanto palesemente incompatibile.

L'Ente ha chiesto un parere in ordine ad alcuni dubbi emersi in relazione alla presidenza della commissione deputata ad esaminare i curricula degli aspiranti al conferimento dell'incarico di Direttore generale presso l'Azienda medesima. In particolare l'Amministrazione precisa che lo statuto aziendale contempla la previsione in base alla quale il Direttore generale ha il compito di presiedere le commissioni di concorso.
Nella fattispecie concreta si evidenzia che ha presentato il proprio curriculum, in qualità di aspirante, anche la persona che attualmente ricopre l'incarico temporaneo (fino al 31.12.2016) di Direttore generale presso l'Ente. Premesso un tanto, l'Amministrazione istante chiede se:
- vi sono motivi per non ritenere che l'interessata abbia legittimamente inviato il proprio curriculum, in relazione al bando descritto;
- nell'ipotesi in cui il curriculum dell'interessata debba essere vagliato come tutti gli altri, la scrivente manifesta dubbi sull'imparzialità della presidenza della commissione, che non dovrebbe essere attribuita ad un soggetto che è direttamente interessato alla procedura, in quanto aspirante.
Preliminarmente si osserva che le procedure selettive bandite dalle pubbliche amministrazioni hanno lo scopo di selezionare i candidati che risultino in possesso di requisiti atti a garantire la professionalità e l'esperienza ritenute necessarie per lo svolgimento delle specifiche funzioni richieste
[1].
A quanto sopra esposto si ricollega il principio del favor partecipationis, emanazione della trasparenza dell'attività amministrativa, volta a garantire comunque la massima partecipazione e parità di trattamento fra tutti i partecipanti alla procedura.
La finalità precipua di ogni selezione concorsuale pubblica è infatti quella di scegliere il candidato migliore nel numero più ampio di partecipanti in possesso dei requisiti ritenuti necessari per la copertura del posto messo a concorso. Qualsiasi clausola del bando che limiti la partecipazione viola infatti i principi costituzionali desumibili dall'art. 97 della Costituzione
[2].
Ne consegue che ogni candidato in possesso dei requisiti prescritti dal bando ha pieno diritto di partecipare alla selezione indetta.
Premesso un tanto, bisogna però esaminare la questione relativa all'interessato che, nella fattispecie prospettata, si troverebbe a presiedere la commissione di concorso e a valutare, esprimendo un giudizio, il curriculum presentato da sé medesimo.
A tal proposito si rappresenta che, per le commissioni giudicatrici di concorsi pubblici, trova applicazione l'obbligo di astensione, per incompatibilità, dei componenti un organo collegiale. Ciò si verifica per il solo fatto che questi siano portatori di interessi personali, atti ad inverare una posizione di conflittualità o anche di divergenza rispetto a quello, generale, affidato alle cure della P.A., e ciò indipendentemente dalla circostanza che, nel corso del procedimento l'organo abbia proceduto in modo imparziale, o che non vi sia prova di condizionamento per effetto del potenziale conflitto d'interessi.
Sussiste pertanto, per evitare l'uso strumentale dell'obbligo d'astensione e della correlata ricusazione, la necessità d'una lettura stringente delle norme ex art. 51 c.p.c.
[3].
L'incompatibilità tra esaminatore e concorrente (nella fattispecie di cui si discute sono la medesima persona) implica senza dubbio l'esistenza di quella comunanza di interessi idonea a far insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di imparzialità, trasparenza e parità di trattamento comunque inquadrabile nell'art. 51, comma 2, del c.p.c..
Conseguentemente, in applicazione dei suddetti principi, cui si aggiunge quello della buona amministrazione, l'Amministrazione deve provvedere a sostituire il Presidente di commissione, in quanto palesemente incompatibile.
Ad ogni buon conto, proprio per preservare l'Ente istante da possibili situazioni di carenza/assenza del vertice amministrativo, si suggerisce di stipulare una convenzione con amministrazione analoga, al fine di fornire, eventualmente in condizione di reciprocità, adeguato supporto in tutti i possibili casi di assenza o impedimento del Direttore generale, allo scopo di consentire l'ordinario e corretto andamento dell'azione amministrativa.
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[1] Cfr. Cons. di Stato, sez. v, sentenza n. 1622 del 2012.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. III, sentenza n. 965/2016.
[3] Cfr. Cons. di Stato, sez. III, sentenza n. 1577 del 2014
(07.12.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

CORTE DEI CONTI

APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: Parere in merito a questioni che riguardano il valore di vendita delle reti e degli impianti di proprietà alla distribuzione del gas.
La cessione delle reti e degli impianti si inquadra, in termini generali, nella disciplina di diritto comune concernente il patrimonio indisponibile (articolo 826 c.c.), tali dovendo considerarsi i beni in questione, ove di proprietà di enti pubblici e strumentali all'espletamento di un servizio pubblico.
La disciplina codicistica prevede che i beni patrimoniali indisponibili possano essere ceduti esclusivamente a condizione che ne venga mantenuta la destinazione al servizio nel quale sono stati impiegati (articolo 828, comma 2, c.c.); pertanto, essi possono essere oggetto di negozi traslativi di diritto privato (nel rispetto della condizione suesposta), ma è escluso ogni acquisto che si ponga, di per sé, in contrasto con la funzione pubblica cui sono destinati (es. usucapione, pignoramento, esecuzione forzata).
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Per gli enti locali alla scadenza delle concessioni possono di fatto porsi le seguenti tre opzioni:

   a)
l’ente non riscatta l’impianto ma affida al nuovo concessionario il servizio trasferendogli il diritto di riscatto che lo stesso eserciterà corrispondendo il VIR al gestore uscente e la RAB ai successivi;
   b)
l’ente riscatta, se non può beneficiare della devoluzione gratuita, il relativo impianto e, nell’affidare ad altro soggetto il relativo servizio, mantiene la titolarità degli impianti di rete per la cui messa a disposizione riceverà comunque una remunerazione che al fine di non essere ricaricata eccessivamente sulle tariffe praticate all’utenza viene determinata sulla RAB (anziché sul valore industriale) salvo eventuale adeguamento (autorizzato dall’AEEGSI) in caso di notevole scostamento rispetto al VIR;
   c)
l’ente riscatta l’impianto (sempre se non è prevista la devoluzione a titolo gratuito) e ne cede la proprietà, con destinazione al servizio di rete, al concessionario vincitore della gara.
---------------

E’ proprio in materia di vendita da parte dell’Ente locale al nuovo gestore della proprietà dell’impianto, che è intervenuto il MiSE laddove chiarisce che “
il valore di trasferimento è pari al valore delle immobilizzazioni nette di località del servizio di distribuzione e misura, relativo agli impianti che vengono alienati, al netto dei contributi pubblici in conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di località (c.d. RAB), come riconosciuto dall’Autorità nella tariffa valida per la gestione d’ambito e come già spettante all’ente locale in quanto titolare della rete. Pertanto, la decisione dell’ente locale di alienare o meno la rete di proprietà pubblica non deve creare nuovi oneri a carico dei clienti finali del servizio in termini di aumento delle tariffe di distribuzione gas”.
Tale impostazione conferma sostanzialmente quanto già rappresentato, a fini puramente regolatori, dall’AEEGSI. Consegue dunque da tale lettura che
in caso della peraltro obbligatoria cessione della proprietà delle reti da parte del gestore uscente, quest’ultimo si vedrà riconosciuto il VIR mentre laddove l’alienazione degli impianti avviene da parte del comune (in sede di affidamento del servizio) il valore del trasferimento andrà determinato sulla base della RAB.
---------------

Va qui ribadito che sono le norme di contabilità pubblica a disciplinare il valore di iscrizione, nello stato patrimoniale, dei beni del demanio e del patrimonio (allegato 4/3 al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118).
In particolare, i principi contabili dispongono che “
(…) le immobilizzazioni materiali sono distinte in beni demaniali e beni patrimoniali disponibili e indisponibili. (…). Le immobilizzazioni sono iscritte nello stato patrimoniale al costo di acquisizione dei beni o di produzione, se realizzato in economia (inclusivo di eventuali oneri accessori d'acquisto, quali le spese notarili, le tasse di registrazione dell'atto, gli onorari per la progettazione, ecc.), al netto delle quote di ammortamento. Qualora, alla data di chiusura dell'esercizio, il valore sia durevolmente inferiore al costo iscritto, tale costo è rettificato nell'ambito delle scritture di assestamento mediante apposita svalutazione. Le rivalutazioni sono ammesse solo in presenza di specifiche normative che le prevedano e con le modalità ed i limiti in esse indicati. Per quanto non previsto nei presenti principi contabili, i criteri relativi all'iscrizione nello stato patrimoniale, alla valutazione, all'ammortamento ed al calcolo di eventuali svalutazioni per perdite durevoli di valore si fa riferimento al documento OIC n. 16".
Va peraltro rimarcato (cfr. Lombardia n. 277/2016/PAR) come
tale indicazione specifica debba comunque essere accompagnata dal principio di prudenza (allegato 1 relativo ai principi contabili generali e applicati di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118),
secondo cui “Nel bilancio di previsione (…) devono essere iscritte solo le componenti positive che ragionevolmente saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato”.
Di conseguenza, al di là di ogni considerazione circa le indicazioni del MiSE e dell’AEEGSI, qui non può che ribadirsi come
i criteri di iscrizione nello stato patrimoniale dei beni di proprietà degli Enti locali restino disciplinati dalle norme di contabilità pubblica e che tali disposizioni tendono a privilegiare il criterio del costo storico, da rettificare solo nel caso di eventi che determinino un decremento effettivo del valore del bene.
Resta fermo, peraltro, che
nell’ambito della predisposizione del bilancio preventivo, la valutazione delle entrate potrà tenere conto della prevista cessione a titolo oneroso (se la stessa è divenuta concreta e attuale) i cui effetti dovranno essere stimati da parte dell’ente secondo criteri prudenziali che tengano conto di tutte le eventuali e complessive circostanze capaci di influire sulle effettive possibilità di realizzare i proventi derivanti dalla cessione del bene.
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I Comuni richiedenti riferiscono che, stretti dai vincoli di bilancio e considerata la remunerazione che otterrebbero dal Gestore dell’Ambito Territoriale Minimo (ATEM) negli anni di gestione della rete gas di cui sono comproprietari, stanno valutando l’opzione di cederne la proprietà ed incassare il relativo valore, operazione che, in linea con le indicazioni del Ministero per lo Sviluppo Economico (MiSE), avverrebbe nel contesto della gara d'ATEM.
I Comuni sottolineano come le Autorità di regolazione (MiSE e Autorità per l'Energia Elettrica, il Gas e il Sistema Idrico – AEEGSI) abbiano sostenuto che nell’ipotesi di alienazione a nuovo gestore il valore di trasferimento in favore dell’aggiudicatario non deve essere il cosiddetto valore industriale residuo – VIR – ma la RAB (Regulatory Asset Base) ossia il valore corrispondente al capitale investito riconosciuto ai fini tariffari.
I Comuni rimarcano quindi che a loro avviso:
   a) la valorizzazione tramite il metodo RAB (in luogo del VIR) comporterebbe un danno per gli equilibri di bilancio atteso che il primo è in inferiore al secondo;
   b) l’utilizzazione di distinti criteri di valorizzazione configurerebbe disparità di trattamento tra Gestori privati proprietari di reti e Comuni proprietari di reti, “in contrasto con l'articolo 3 della Costituzione” e spingerebbe gli enti a comportamenti non in linea con “l'articolo 97 della Costituzione che impone all'amministrazione pubblica di valorizzare i propri beni e a ricavarne il massimo importo percepibile”.
Tutto ciò premesso, i Comuni istanti chiedono:
   1) “Può l'Amministrazione Comunale attribuire ad uno stesso cespite un valore diverso in funzione del proprietario, e per quelle di proprietà dell’Ente Locale una valorizzazione inferiore, senza incorrere in un possibile “Danno Erariale” per gli Amministratori che lo hanno deliberato?
   2) Può l'Amministrazione Comunale mettere in vendita nella gara d’Ambito, le sue proprietà ad un importo che non corrisponde al reale valore, consapevole che le proprietà del Gestore hanno avuto un trattamento diverso, di molto superiore a quelle di proprietà dell'Ente Locale. Infatti ha dovuto approvare con Delibera Comunale le valorizzazioni dei cespiti di proprietà del Gestore Uscente a VIR, mentre dovrà approvare per le sue proprietà un valore di molto inferire a quello che è stato riconosciuto al Gestore, in quanto dovranno essere valorizzati a RAB?
   3) Deve l'Amministrazione comunale mettere in gara anche i suoi impianti a valore di VIR per non far incorrere i suoi Amministratori in un possibile addebito di Danno Erariale?
   4) Può l'Amministrazione Comunale mettere in vendita i suoi Asset a RAB consapevole che la fac del MISE non ha tenuto nella giusta considerazione che la sottovalutazione dei cespiti di proprietà dell'Ente Locale a favore del Gestore subentrante può essere considerata dalla Comunità Europea un Aiuto di stato alla ditta che si aggiudicherà la gara d'Ambito?”.

...
Quanto al secondo aspetto (generalità ed astrattezza), l’effettiva formulazione dei quesiti è da un lato tale da risultare eccessivamente puntuale e concreta fino ad involgere precise scelte gestionali e dall’altro richiede un anticipato parere sulla responsabilità erariale (quesiti 1, 3 e 4) il che interferisce con le funzioni giurisdizionali attribuite alle competenti sezioni della Corte e risulta dunque inammissibile in forza di consolidata giurisprudenza (cfr. da ultimo deliberazione del 06.09.2016, n. 229 della Sezione di controllo Lombardia) ed in base a un costante orientamento (cfr. ex multis deliberazione delle Sezione delle Autonomie del 10.03.2006, n. 5/AUT/2006) secondo cui non possono ritenersi procedibili i quesiti che possano formare oggetto di esame in sede giurisdizionale da parte di altri organi a ciò deputati dalla legge.
In definitiva, è da ritenere che i quesiti 1), 3) e 4) non possano essere considerati ammissibili mentre il 2) è scrutinabile ma solo nel senso che questa Sezione può qui riportare taluni principi generali relativi al regime proprietario dei beni in questione, il tutto nell'ambito dell’articolata disciplina, legislativa e regolamentare, della gestione e titolarità delle reti di gas.
...
MERITO
Va in primo luogo rimarcato che
la cessione delle reti e degli impianti si inquadra, in termini generali, nella disciplina di diritto comune concernente il patrimonio indisponibile (articolo 826 c.c.), tali dovendo considerarsi i beni in questione, ove di proprietà di enti pubblici e strumentali all'espletamento di un servizio pubblico.
La disciplina codicistica prevede che i beni patrimoniali indisponibili possano essere ceduti esclusivamente a condizione che ne venga mantenuta la destinazione al servizio nel quale sono stati impiegati (articolo 828, comma 2, c.c.); pertanto, essi possono essere oggetto di negozi traslativi di diritto privato (nel rispetto della condizione suesposta), ma è escluso ogni acquisto che si ponga, di per sé, in contrasto con la funzione pubblica cui sono destinati (es. usucapione, pignoramento, esecuzione forzata).

Con riguardo agli aspetti più specifici, dal punto di vista microeconomico
il servizio di distribuzione del gas configura un “monopolio naturale”, forma di mercato che se non adeguatamente regolata è portatrice di svantaggi per i clienti finali in termini di rapporto tra qualità e prezzo del servizio erogato. La normativa di riferimento, proprio al fine di creare le migliori condizioni per la clientela, si è nel tempo evoluta nel senso dell’abolizione del regime di monopolio (articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 23.05.2000, n. 164 –cd Decreto Letta– “Attuazione della direttiva n. 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell'articolo 41 della legge 17.05.1999, n. 144”).
Le norme hanno dunque disposto la tendenziale liberalizzazione delle “attività di importazione, esportazione, trasporto e dispacciamento, distribuzione e vendita di gas naturale, in qualunque sua forma e comunque utilizzato” e con specifico riguardo all’attività di distribuzione, la liberalizzazione si è concretizzata da un lato nella separazione funzionale tra proprietà degli impianti e gestione degli stessi e dall’altro nell’affidamento del servizio in via esclusiva ma ben limitata nel tempo (massimo 12 anni), il tutto in un quadro che ha avuto ed ha tuttora ad obiettivo anche la riduzione del numero delle reti presenti in ogni ambito territoriale.
L’articolo 14, comma 4 del citato Decreto Letta, dispone che: "Alla scadenza del periodo di affidamento del servizio, le reti, nonché gli impianti e dotazioni dichiarati reversibili, rientrano nella piena disponibilità dell'ente locale. Gli stessi beni, se realizzati durante il periodo di affidamento, sono trasferiti all'ente locale alle condizioni stabilite nel bando di gara e nel contratto di servizio".
La norma in parola distingue i beni preesistenti all'affidamento del servizio, i quali, al termine del medesimo, dovranno rientrare nella disponibilità dell'ente locale, da quelli realizzati nel corso dell'affidamento (di proprietà di privati, dunque) che, secondo quanto previsto dal comma 8, sono trasferiti da un gestore all'altro per effetto del succedersi della gare d'ambito, circolando unitamente alla gestione del servizio di distribuzione.
Nella fase del processo di liberalizzazione la disciplina primaria sopra menzionata è stata ulteriormente integrata (articolo 46-bis del decreto legge 01.10.2007, n. 159, convertito dalla legge 29.11.2007, n. 222) prevedendo la emanazione di un decreto interministeriale finalizzato a disciplinare, in concreto, i criteri per l’affidamento del servizio “tenendo conto in maniera adeguata, oltre che delle condizioni economiche offerte, e in particolare di quelle a vantaggio dei consumatori, degli standard qualitativi e di sicurezza del servizio, dei piani di investimento e di sviluppo delle reti e degli impianti”.
Il risultante DM 12.11.2011, n. 226, definisce, tra l’altro,
le condizioni economiche dei trasferimenti, secondo i seguenti criteri:
   a)
il valore di rimborso degli impianti nella fase transitoria è definito dalle parti convenzionalmente o, in mancanza di accordo, in base al valore industriale della parte di impianto di proprietà del gestore uscente secondo il costo di costruzione a nuovo (VIR);
   b)
il valore di rimborso degli impianti nella fase “a regime”, ai sensi dell’articolo 14, comma 8, del D.Lgs. n. 164/2000, riformulato dall’articolo 24, comma 1, del decreto legislativo 01.06.2011, n. 93, è pari “al valore delle immobilizzazioni nette di località del servizio di distribuzione e misura, relativo agli impianti la cui proprietà viene trasferita dal distributore uscente al nuovo gestore, incluse le immobilizzazioni in corso di realizzazione, al netto dei contributi pubblici in conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di località, calcolato secondo la metodologia della regolazione tariffaria vigente e sulla base della consistenza degli impianti al momento del trasferimento della proprietà” (RAB).
All’articolo 8, comma 3, lo stesso DM specifica l’obbligo, da parte del nuovo gestore, di corrispondere “annualmente agli Enti locali e alle società patrimoniali delle reti che risultino proprietarie di una parte degli impianti dell’ambito” la remunerazione della RAB.
Come osservato a proposito di questione analoga a quella in trattazione dalla Sezione di controllo della Lombardia (n. 277/2016/PAR),
la differenza tra i due criteri trova la sua ragion d’essere nel fatto che nel periodo transitorio il costruttore e proprietario dell’impianto (in precedenza gestore del servizio) subisce, in seguito alla cessazione ope legis della concessione, una sostanziale ablazione del proprio diritto dominicale e deve essere ristorato della stessa utilità perduta mentre “a regime” l’attribuzione delle proprietà (o della mera disponibilità) degli impianti a rete è definita dall’ente contestualmente all’affidamento del servizio e sorge la più limitata esigenza di remunerare il gestore precedente esclusivamente delle somme investite nell’impianto.
In via eccezionale, tuttavia, il legislatore (sempre nel decreto legislativo n. 93/2011) ha consentito ai primi concessionari del periodo a regime l'ammortamento della differenza tra il valore di rimborso e il valore delle immobilizzazioni nette, al netto dei contributi pubblici in conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di località. Tale adeguamento è operato tramite il riconoscimento nella tariffa da parte della AEEGSI, nel caso lo scostamento tra i due criteri sia superiore al venticinque per cento (deliberazione AEEGSI del 26.06.2014, n. 310).
In definitiva,
per gli enti locali alla scadenza delle concessioni possono di fatto porsi le seguenti tre opzioni:
   a)
l’ente non riscatta l’impianto ma affida al nuovo concessionario il servizio trasferendogli il diritto di riscatto che lo stesso eserciterà corrispondendo il VIR al gestore uscente e la RAB ai successivi;
   b)
l’ente riscatta, se non può beneficiare della devoluzione gratuita, il relativo impianto e, nell’affidare ad altro soggetto il relativo servizio, mantiene la titolarità degli impianti di rete per la cui messa a disposizione riceverà comunque una remunerazione che al fine di non essere ricaricata eccessivamente sulle tariffe praticate all’utenza viene determinata sulla RAB (anziché sul valore industriale) salvo eventuale adeguamento (autorizzato dall’AEEGSI) in caso di notevole scostamento rispetto al VIR;
   c)
l’ente riscatta l’impianto (sempre se non è prevista la devoluzione a titolo gratuito) e ne cede la proprietà, con destinazione al servizio di rete, al concessionario vincitore della gara.
E’ proprio in materia di vendita da parte dell’Ente locale al nuovo gestore della proprietà dell’impianto, che è intervenuto il MiSE con un “Chiarimento circa la possibilità per gli Enti locali di alienare il proprio asset, costituito dalla rete e dagli impianti di distribuzione del gas naturale” nel quale dopo aver premesso che “non spetta a questo Ministero fornire l’interpretazione di normative primarie riguardanti il regime di gestione dei servizi pubblici locali, nonché il regime di circolazione dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello Stato (…)” chiarisce che “
il valore di trasferimento è pari al valore delle immobilizzazioni nette di località del servizio di distribuzione e misura, relativo agli impianti che vengono alienati, al netto dei contributi pubblici in conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di località (c.d. RAB), come riconosciuto dall’Autorità nella tariffa valida per la gestione d’ambito e come già spettante all’ente locale in quanto titolare della rete. Pertanto, la decisione dell’ente locale di alienare o meno la rete di proprietà pubblica non deve creare nuovi oneri a carico dei clienti finali del servizio in termini di aumento delle tariffe di distribuzione gas”.
Tale impostazione conferma sostanzialmente quanto già rappresentato, a fini puramente regolatori, dall’AEEGSI. Consegue dunque da tale lettura che
in caso della peraltro obbligatoria cessione della proprietà delle reti da parte del gestore uscente, quest’ultimo si vedrà riconosciuto il VIR mentre laddove l’alienazione degli impianti avviene da parte del comune (in sede di affidamento del servizio) il valore del trasferimento andrà determinato sulla base della RAB.
In punto di economia e regolamentazione vanno in definitiva rimarcati due elementi:
  
da un lato come, in termini generali, possano ben sussistere contesti caratterizzati da regolazione non simmetrica e ciò proprio al fine di stimolare l’entrata di più competitori sul mercato e quindi maggiore utilità per i consumatori/contribuenti finali;
  
dall’altro come sussistendo una chiara e definita relazione diretta tra valore riconosciuto al (peculiare) bene-rete in sede di cessione e livello delle tariffe che i consumatori pagheranno a fronte dei servizi erogati (più alto il primo, più alte le seconde), ciò che viene a determinarsi, nel caso del riconoscimento della RAB in luogo del VIR, è il trasferimento di un valore a beneficio dell’ente che è si inferiore nel momento in cui si realizza la cessione, ma non se valutato lungo l’intera durata della concessione, dal momento che il più basso valore è a fronte di benefici futuri per i consumatori in termini di più contenuti livelli delle tariffe.
Comunque, al di là delle potenziali disarmonie nel regime transitorio sulle quali questa Sezione non può esprimersi e al di là dell’eventuale incongruenza delle norme esistenti e della presunta disparità di trattamento delle quali i Comuni possono eventualmente lamentarsi nelle sedi appropriate, presso le quali far valore eventuali presunti diritti,
va qui ribadito che sono le norme di contabilità pubblica a disciplinare il valore di iscrizione, nello stato patrimoniale, dei beni del demanio e del patrimonio (allegato 4/3 al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118).
In particolare, i principi contabili dispongono che “
(…) le immobilizzazioni materiali sono distinte in beni demaniali e beni patrimoniali disponibili e indisponibili. (…). Le immobilizzazioni sono iscritte nello stato patrimoniale al costo di acquisizione dei beni o di produzione, se realizzato in economia (inclusivo di eventuali oneri accessori d'acquisto, quali le spese notarili, le tasse di registrazione dell'atto, gli onorari per la progettazione, ecc.), al netto delle quote di ammortamento. Qualora, alla data di chiusura dell'esercizio, il valore sia durevolmente inferiore al costo iscritto, tale costo è rettificato nell'ambito delle scritture di assestamento mediante apposita svalutazione. Le rivalutazioni sono ammesse solo in presenza di specifiche normative che le prevedano e con le modalità ed i limiti in esse indicati. Per quanto non previsto nei presenti principi contabili, i criteri relativi all'iscrizione nello stato patrimoniale, alla valutazione, all'ammortamento ed al calcolo di eventuali svalutazioni per perdite durevoli di valore si fa riferimento al documento OIC n. 16".
Va peraltro rimarcato (cfr. Lombardia n. 277/2016/PAR) come
tale indicazione specifica debba comunque essere accompagnata dal principio di prudenza (allegato 1 relativo ai principi contabili generali e applicati di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118), secondo cui “Nel bilancio di previsione (…) devono essere iscritte solo le componenti positive che ragionevolmente saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato”.
Di conseguenza, al di là di ogni considerazione circa le indicazioni del MiSE e dell’AEEGSI, qui non può che ribadirsi come
i criteri di iscrizione nello stato patrimoniale dei beni di proprietà degli Enti locali restino disciplinati dalle norme di contabilità pubblica e che tali disposizioni tendono a privilegiare il criterio del costo storico, da rettificare solo nel caso di eventi che determinino un decremento effettivo del valore del bene.
Resta fermo, peraltro, che
nell’ambito della predisposizione del bilancio preventivo, la valutazione delle entrate potrà tenere conto della prevista cessione a titolo oneroso (se la stessa è divenuta concreta e attuale) i cui effetti dovranno essere stimati da parte dell’ente secondo criteri prudenziali che tengano conto di tutte le eventuali e complessive circostanze capaci di influire sulle effettive possibilità di realizzare i proventi derivanti dalla cessione del bene (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 01.12.2016 n. 234).

PUBBLICO IMPIEGO: E' illegittimo conferire un incarico "gratuito" all'ex responsabile UTC in pensione.
La disciplina generale in merito alla gestione del personale pubblico è informata e plasmata da principi sistematici tali che non consentono l’utilizzo di personale a titolo gratuito
, legati alla tutela della dignità del lavoro e al rispetto della normativa generale in materia, oltre che alla necessità di evitare l’esposizione degli enti pubblici a rischi legali e di contenzioso e, quindi, finanziari per le ricadute sul bilancio in caso di soccombenza.
In definitiva,
il rapporto di una pubblica amministrazione con qualsiasi soggetto non può che essere di tipo oneroso e comunque inquadrabile in uno degli schemi giuridici previsti dal codice civile e dalle leggi speciali in materia di lavoro, anche in ragione del fatto che l’inserimento di un soggetto nell’organizzazione pubblica non può non comportare la soggezione al potere di controllo e di indirizzo necessario alla realizzazione delle sue finalità istituzionali, con le conseguenze di legge che si ricollegano alla instaurazione di un rapporto di servizio, incompatibile con una logica di precarietà giuridica conseguente alla gratuità delle prestazioni.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte ricordato che
il lavoro gratuito è ammesso nei soli casi espressamente disciplinati dalla legge, ipotesi fra cui rileva il lavoro prestato gratuitamente nelle organizzazioni di volontariato. Nella prospettiva di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale, la legge n. 91/266 ha, infatti, introdotto nell’ordinamento la figura soggettiva delle organizzazioni di volontariato, che persegue finalità di carattere sociale, civile e culturale per il tramite degli aderenti.
Costoro devono prestare la propria opera in modo personale, spontaneo e gratuito, senza scopo di lucro neppure indiretto, esclusivamente per fini di solidarietà. Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 266/1991 “Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile verso i terzi".
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Con la nota richiamata in epigrafe il Sindaco del comune di Grottaminarda (AV) ha chiesto alla Sezione un parere con riguardo alla possibilità di conferire un incarico di collaborazione, in forma gratuita, ad un funzionario collocato in quiescenza per raggiunti limiti di età, ex responsabile dell’ufficio tecnico comunale con funzioni dirigenziali e, in particolare:
- se l’incarico di collaborazione possa ricomprendere la conservazione della funzione di RUP per gli interventi iniziati in costanza del rapporto di lavoro,
- se la gratuità della collaborazione possa confliggere con il riconoscimento della quota dell’incentivo ex art. 93 d.lgs. n. 163/2006 e/o art. 113 d.lgs. n. 50/2016 (commisurato alla responsabilità connessa alle specifiche prestazioni da svolgere) e
- se sia consentito, in via generale, fornire copertura assicurativa a carico dell’amministrazione, per le prestazioni svolte dal funzionario destinatario dell’incarico in forma gratuita.
...
Ciò premesso, questa Sezione rileva come al lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione inerisca la generale previsione di accesso tramite concorso, passibile di essere superata solo in forza di una disposizione di legge (art. 97, comma 4).
La modalità di ingresso agli impieghi pubblici tramite concorso costituisce, da un lato, uno strumento al servizio del buon andamento dell’agire pubblico (art. 97 Cost.), in quanto volto ad individuare il miglior candidato per la posizione bandita e, dall’altro lato, presidia il diritto di tutti i cittadini ad accedere agli uffici pubblici (art. 51 Cost.) quale strumento per promuovere l’uguaglianza e rimuovere gli ostacoli che di fatto la limitano (art. 3 Cost.).
Il rapporto di lavoro subordinato riveste un carattere necessariamente oneroso in aderenza al dettato dell’art. 36 della Costituzione, in forza del quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
L’art. 2094 c.c. qualifica come prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro.
L’onerosità è garantita dall’art. 2126 c.c., anche nel caso di nullità o annullamento del contratto di lavoro non derivante da illiceità dell’oggetto o della causa, allorquando è riconosciuto il diritto al trattamento retributivo per la prestazione di fatto svolta dal lavoratore.
Il carattere necessariamente oneroso del rapporto di lavoro subordinato discende, con riferimento agli enti locali, dall’art. 90, comma 2, TUEL, ai sensi del quale “al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali”. (Sezione Campania parere 05.06.2014 n. 155).
Dunque, pur comprendendo le istanze dell’Ente (che riterrebbe auspicabile la continuità dell’azione amministrativa intrapresa e il mantenimento di un elevato livello qualitativo delle attività di competenza del RUP), deve ribadirsi che
la disciplina generale in merito alla gestione del personale pubblico è informata e plasmata da principi sistematici tali che non consentono l’utilizzo di personale a titolo gratuito, quali quelli sopra espressi, legati alla tutela della dignità del lavoro e al rispetto della normativa generale in materia, oltre che alla necessità di evitare l’esposizione degli enti pubblici a rischi legali e di contenzioso e, quindi, finanziari per le ricadute sul bilancio in caso di soccombenza (cfr. SRC Campania
parere 23.09.2015 n. 213).
In definitiva,
il rapporto di una pubblica amministrazione con qualsiasi soggetto non può che essere di tipo oneroso e comunque inquadrabile in uno degli schemi giuridici previsti dal codice civile e dalle leggi speciali in materia di lavoro, anche in ragione del fatto che l’inserimento di un soggetto nell’organizzazione pubblica non può non comportare la soggezione al potere di controllo e di indirizzo necessario alla realizzazione delle sue finalità istituzionali, con le conseguenze di legge che si ricollegano alla instaurazione di un rapporto di servizio, incompatibile con una logica di precarietà giuridica conseguente alla gratuità delle prestazioni.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte ricordato che
il lavoro gratuito è ammesso nei soli casi espressamente disciplinati dalla legge (cfr. anche SRC Lombardia parere 11.05.2015 n. 192), ipotesi fra cui rileva il lavoro prestato gratuitamente nelle organizzazioni di volontariato. Nella prospettiva di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale, la legge n. 91/266 ha, infatti, introdotto nell’ordinamento la figura soggettiva delle organizzazioni di volontariato, che persegue finalità di carattere sociale, civile e culturale per il tramite degli aderenti.
Costoro devono prestare la propria opera in modo personale, spontaneo e gratuito, senza scopo di lucro neppure indiretto, esclusivamente per fini di solidarietà. Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 266/1991 “Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile verso i terzi".
L’ipotesi prospettata appare, in ogni caso, in aperta contraddizione con le indicazioni fornite dall’Autorità nazionale anticorruzione e dalla giurisprudenza di questa Corte, volte a valorizzare il criterio di rotazione del personale nell’ambito delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, nello schema di Piano nazionale anticorruzione 2016, (datato 20.05.2016), si auspica la rotazione del personale, quale misura organizzativa preventiva, finalizzata a limitare il consolidarsi di relazioni che possano alimentare dinamiche improprie nella gestione, contribuendo, inoltre, in tal modo, alla formazione del personale, accrescendo le conoscenze e la preparazione professionale del lavoratore, anche attraverso appositi percorsi di formazione.
La Corte dei conti, Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, con deliberazione 28.04.2016, n. 7, da parte sua,
occupandosi della richiesta di rinnovo di un incarico dirigenziale che si prolungava dal 2005, ha negato il visto di legittimità evidenziando come l’ulteriore proroga dell’incarico per altri tre anni, in assenza di selezione comparativa, superasse i criteri di ragionevolezza rappresentando, il rinnovo, infatti, sempre secondo il Collegio, un istituto eccezionale a carattere derogatorio.
Anche in questo caso, quindi, viene in evidenza l’esigenza di assicurare discontinuità nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 23.11.2016 n. 344).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIl noto principio per cui "ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione di una concessione edilizia da parte di un proprietario di immobile limitrofo occorre la piena conoscenza della stessa, che si verifica con la consapevolezza del contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio ovvero quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell'opera" va letto all'interno della singola controversia e alla luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove lo stesso impugni un titolo edilizio sulla base dell'asserita divergenza dell'intervento realizzato (o in corso di realizzazione) con quello astrattamente autorizzabile in base alla disciplina urbanistica vigente, il termine per la proposizione del ricorso (correttamente) non potrà che decorrere dal momento -anche successivo all'avvio dell'attività di cantiere e all'apposizione dell'apposito cartello di inizio lavori- in cui il soggetto acquisisca piena coscienza e cognizione degli elementi essenziali dell'opera, in base ai quali si renda evidente l'incompatibilità della stessa con i parametri urbanistici vigenti.
Pertanto, deve essere ribadita, quale regola generale, quella secondo cui, ai fini della decorrenza dei termini per l’impugnazione di una concessione edilizia (oggi permesso di costruire), occorre che le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l’entità delle violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente derivante dal provvedimento e che, di conseguenza, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre con il completamento dei lavori, a meno che, tuttavia, non venga provata una conoscenza anticipata oppure -come nel caso di specie- si deducano censure di assoluta inedificabilità dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso.
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Come può agevolmente evincersi da quanto testé specificato, tutti i motivi di impugnazione miravano sostanzialmente a confermare la permanenza del vincolo di rispetto stradale asseritamente sussistente sul terreno di proprietà del controinteressato, sig. Ga.Ni., e la relativa inedificabilità dell'area oggetto dei provvedimenti impugnati.
Ebbene, stanti tali premesse, non può sorgere dubbio che l'odierno appellante ben poteva essere pienamente cosciente della lesività dei provvedimenti -e in particolar modo della concessione edilizia rilasciata in favore del Ga.- a far data dall'inizio dei lavori di cantiere, che in base alle risultanze del primo grado di lite deve essere individuata nel 13.11.2002.
Il noto principio per cui "ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione di una concessione edilizia da parte di un proprietario di immobile limitrofo occorre la piena conoscenza della stessa, che si verifica con la consapevolezza del contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio ovvero quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell'opera" (C.G.A.R.S. Sez. I, 28.05.2007 n. 421; Cons. Stato Sez. V, 23.09.2005 n. 5033), difatti, va letto all'interno della singola controversia e alla luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove lo stesso impugni un titolo edilizio sulla base dell'asserita divergenza dell'intervento realizzato (o in corso di realizzazione) con quello astrattamente autorizzabile in base alla disciplina urbanistica vigente, il termine per la proposizione del ricorso (correttamente) non potrà che decorrere dal momento -anche successivo all'avvio dell'attività di cantiere e all'apposizione dell'apposito cartello di inizio lavori- in cui il soggetto acquisisca piena coscienza e cognizione degli elementi essenziali dell'opera, in base ai quali si renda evidente l'incompatibilità della stessa con i parametri urbanistici vigenti.
Pertanto, deve essere ribadita, quale regola generale, quella secondo cui, ai fini della decorrenza dei termini per l’impugnazione di una concessione edilizia (oggi permesso di costruire), occorre che le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l’entità delle violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente derivante dal provvedimento (cfr. Cons. Stato, IV, 23.07.2009, n. 4616) e che, di conseguenza, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre con il completamento dei lavori, a meno che, tuttavia, non venga provata una conoscenza anticipata oppure -come nel caso di specie- si deducano censure di assoluta inedificabilità dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso (cfr. Cons. Stato, IV, 10.12.2007, n. 6342).
Dunque, nel caso in cui, come nella fattispecie, il ricorrente affermi l'inedificabilità assoluta dell'area, già la prima forma di intervento sul fondo rende lo stesso perfettamente cosciente dell'incompatibilità dell'opera con la disciplina applicabile. Ne deriva che, in quest'ultimo caso, il termine decadenziale per la proposizione dell'azione deve ritenersi decorrente dal giorno in cui il soggetto abbia conoscenza dell’attività edilizia in corso.
A tale fine, va ulteriormente specificato che, al di là di qualsiasi questione circa l'avvenuta apposizione del cartello di inizio lavori sul cantiere, il sig. Sa., in quanto fornitore dell'apporto idrico necessario per l'attività cantieristica e in quanto frontista del fondo del Ga., non poteva che essere venuto a conoscenza dell'attività edilizia fin dai primi momenti della sua realizzazione.
Ne deriva che lo stesso avrebbe potuto (e dovuto) proporre la propria domanda di annullamento entro il termine decadenziale di 60 giorni dalla data di inizio lavori (13.11.2002) e pertanto non oltre il 12.01.2003.
Avendo il sig. Sa. notificato il ricorso di primo grado in data 10.03.2003, appare evidente come lo stesso fosse oramai irrimediabilmente decaduto dalla relativa azione. Bene, quindi, ha fatto il Tar campano nel dichiarare il ricorso irricevibile per tardività, pronuncia che deve essere pertanto confermata anche in sede di appello.
Le considerazioni sopra svolte, tra l'altro, prescindono, per evidenti ragioni di ordine logico-giuridico, da qualsiasi valutazione circa l'inammissibilità dell'atto di appello con il quale, dopo aver puntualmente contestato l'erroneità della pronuncia di primo grado in rito di irricevibilità del ricorso di primo grado, ci si rimette in modo del tutto generico, per quanto attiene ai motivi di merito dell'impugnazione, alle doglianze già presentate in primo grado, nonostante l'insegnamento di questo Giudice, secondo cui "un rinvio indeterminato agli atti di primo grado, senza alcuna ulteriore precisazione del loro contenuto, è inidoneo ad introdurre giudizio di appello motivi in tal modo dedotti, trattandosi di formula di stile insufficiente a soddisfare l'onere di espressa riproposizione (Cons. Stato, V, 28.12.2012 n. 6684; id., 16.08.2010, n. 5702, e giur. ivi. cit.)" (Cons. Stato Sez. V, 01.12.2014 n. 5939) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.12.2016 n. 5125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI manufatti di cui si ingiunge la demolizione sono stati edificati nel 1948 e nel 1963, dunque quando l’obbligo della previa acquisizione della licenza edilizia vigeva solo per i fabbricati ricompresi nelle zone urbanizzate, ai sensi dell'art. 31 l. 1150/1942 in combinato disposto con gli artt. 4 e 5 del Regolamento edilizio comunale, mentre il centro sportivo oggetto della presente controversia si trovava in zona agricola, al di fuori del centro urbano.
Ne risulta l’illegittimità del riferimento alla legge n. 47/1985 e al d.P.R. n. 380/2001 contenuto nel provvedimento impugnato, in considerazione del tempo di realizzazione delle opere medesime.

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Per il fatto che il centro sportivo occupa un’area di proprietà dello Stato prima demaniale e ora appartenente al patrimonio del medesimo in seguito a decreto di sdemanializzazione, anche la censura con la quale l’istante ha dedotto la violazione dell’art. 35, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 è fondata, in considerazione della mancata previa comunicazione all’Agenzia del Demanio dell’avvio del procedimento teso all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, in relazione al potere di autotutela dell’ente proprietario.
Ed invero, ai sensi della suddetta disposizione normativa: “Resta fermo il potere di autotutela dello Stato e degli enti pubblici territoriali, nonché quello di altri enti pubblici, previsto dalla normativa vigente”.
Ne risulta, dunque, l’illegittimità dell’ordine di demolizione, adottato omettendo il concerto con l’Agenzia del Demanio, che avrebbe potuto determinarsi in senso diverso mediante l’esercizio del proprio potere di autotutela.
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Coglie nel segno anche la doglianza concernente la violazione del principio dell’affidamento, la contraddittorietà e la carenza di motivazione del provvedimento di demolizione, adottato dopo circa cinquant’anni dalla realizzazione dei manufatti, che insistono su area ove è ammessa la destinazione sportiva per le prescrizioni dello strumento urbanistico vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato.
E’ stato, invero, affermato che: “L'ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell´accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato. Pertanto, qualora le difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca alcuna adeguata motivazione sull'esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato”.
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... per l'annullamento:
- dell’ordinanza del Comune di Voghera n. 559/05 del 19.09.2005, con la quale si diffida la Presidente della Cooperativa ricorrente a demolire i seguenti manufatti: spogliatoi, servizi e piscine interrate; nonché per la condanna al risarcimento dei danni;
- con motivi aggiunti: dell’ordinanza n. 79 del 17.02.2006 con la quale si ingiunge la Presidente della Cooperativa ricorrente a demolire i seguenti manufatti: spogliatoi, servizi e piscine interrate; nonché per la condanna al risarcimento dei danni.
...
Con il presente ricorso la Cooperativa istante, che gestisce in concessione un centro sportivo che occupa un’area di proprietà dello Stato prima demaniale e ora appartenente al patrimonio del medesimo in seguito a decreto di sdemanializzazione, ha impugnato l’ordinanza indicata in epigrafe, con la quale il Comune di Voghera l’ha diffidata a demolire gli spogliatoi, i servizi e le piscine interrate del tennis club sull’assunta abusività dei medesimi manufatti.
...
Il collegio ritiene che il ricorso sia fondato.
Ed invero, riguardo al primo motivo, con il quale l’istante ha dedotto la violazione dell’art. 31 della legge n. 1150 del 1942 in combinato disposto con gli artt. 4 e 5 del Regolamento edilizio comunale, deve osservarsi che, effettivamente, non è contestato che i manufatti di cui si ingiunge la demolizione siano stati edificati nel 1948 e nel 1963, dunque quando l’obbligo della previa acquisizione della licenza edilizia vigeva solo per i fabbricati ricompresi nelle zone urbanizzate, ai sensi delle disposizioni normative succitate, mentre il centro sportivo oggetto della presente controversia si trovava in zona agricola, al di fuori del centro urbano.
Ne risulta l’illegittimità del riferimento alla legge n. 47/1985 e al d.P.R. n. 380/2001 contenuto nel provvedimento impugnato, in considerazione del tempo di realizzazione delle opere medesime.
Anche la censura con la quale l’istante ha dedotto la violazione dell’art. 35, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 è fondata, in considerazione della mancata previa comunicazione all’Agenzia del Demanio dell’avvio del procedimento teso all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, in relazione al potere di autotutela dell’ente proprietario.
Ed invero, ai sensi della suddetta disposizione normativa: “Resta fermo il potere di autotutela dello Stato e degli enti pubblici territoriali, nonché quello di altri enti pubblici, previsto dalla normativa vigente”.
Ne risulta, dunque, l’illegittimità dell’ordine di demolizione, adottato omettendo il concerto con l’Agenzia del Demanio, che avrebbe potuto determinarsi in senso diverso mediante l’esercizio del proprio potere di autotutela.
Infine, coglie nel segno anche la doglianza concernente la violazione del principio dell’affidamento, la contraddittorietà e la carenza di motivazione del provvedimento di demolizione, adottato dopo circa cinquant’anni dalla realizzazione dei manufatti, che insistono su area ove è ammessa la destinazione sportiva per le prescrizioni dello strumento urbanistico vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato.
E’ stato, invero, affermato che: “L'ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell´accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato. Pertanto, qualora le difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca alcuna adeguata motivazione sull'esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato” (Cons. Stato, sez. IV, 08.04.2016, n. 1393).
E tale adeguata motivazione, nei sensi di cui sopra, non si rinviene affatto nel provvedimento oggetto della presente impugnazione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi le ulteriori censure dedotte, il ricorso principale e il ricorso per motivi aggiunti vanno accolti e per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, mentre sussistono giusti motivi per compensarle tra la società ricorrente e l’Agenzia del Demanio (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 06.12.2016 n. 2307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il diniego paesaggistico con motivazione del tipo "l’intervento edilizio non può essere autorizzato in quanto l’architettura che ne deriva risulta molto impattante nel contesto paesaggistico, poiché fortemente percepito dal Paesaggio naturale nelle immediate vicinanze”.
Invero, il provvedimento impugnato è totalmente carente di motivazione, limitandosi ad affermare quanto sopra riportato in maniera apodittica e, di fatto, tautologica.
Al di là del generico richiamo al forte impatto (e alla forte percezione da parte del “Paesaggio Naturale”) non vi è, tuttavia, l’indicazione di alcun concreto elemento volto a supportare tale giudizio negativo o ad esplicitare sotto quale profilo, in che misura, per quale specifica ragione si afferma l’esistenza di un “forte impatto” preclusivo dell’intervento.
Per pacifica giurisprudenza, l’Amministrazione non può limitarsi ad esprimere valutazioni apodittiche e stereotipate, ma deve specificare le ragioni del diniego ovvero esplicitare i motivi del contrasto tale opere da realizzarsi e le ragioni di tutela dell’area interessata dall’apposizione del vincolo.
Non è sufficiente, quindi, la motivazione del diniego all’istanza di autorizzazione fondata su una generica incompatibilità, non potendo l’Amministrazione limitate la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe e formule stereotipate.

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10.2. Le conclusioni cui è giunta la sentenza appellata, peraltro, oltre che supportate da una adeguata motivazione, sono, per quel che più rileva in questa sede, pienamente condivisibili nel merito.
Il provvedimento impugnato è totalmente carente di motivazione, limitandosi ad affermare, in maniera apodittica e, di fatto, tautologica, che l’intervento edilizio non può essere autorizzato in quanto “l’architettura che ne deriva risulta molto impattante nel contesto paesaggistico, poiché fortemente percepito dal Paesaggio naturale nelle immediate vicinanze”.
Al di là del generico richiamo al forte impatto (e alla forte percezione da parte del “Paesaggio Naturale”) non vi è, tuttavia, l’indicazione di alcun concreto elemento volto a supportare tale giudizio negativo o ad esplicitare sotto quale profilo, in che misura, per quale specifica ragione si afferma l’esistenza di un “forte impatto” preclusivo dell’intervento.
Per pacifica giurisprudenza (cfr., tra le tante, Con. Stato, sez. VI, 24.03.2014, n. 1418; Cons. Stato, sez. VI, 21.02.2008, n. 653), l’Amministrazione non può limitarsi ad esprimere valutazioni apodittiche e stereotipate, ma deve specificare le ragioni del diniego ovvero esplicitare i motivi del contrasto tale opere da realizzarsi e le ragioni di tutela dell’area interessata dall’apposizione del vincolo.
Non è sufficiente, quindi, la motivazione del diniego all’istanza di autorizzazione fondata su una generica incompatibilità, non potendo l’Amministrazione limitate la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe e formule stereotipate.
Il difetto motivazione emerge in maniera ancora più evidente se si considera che rispetto al PTP n. 2 Litorale Nord, l’area su cui insiste il predetto immobile è classificata C2, e la relativa disciplina prevede che “gli esiti formali e fisici del regime urbanistico vigente sono considerati sostanzialmente coerenti con le vocazioni del territorio e non in rilevante contrasto con i valori ambientali e paesistici vigenti. Pertanto, il PTP, per quanto di sua pertinenza, assume le norme dei vigenti strumenti urbanistici come sue proprie […]” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.12.2016 n. 5108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire.
Non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso che l’immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale).
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, la c.d. demo-ricostruzione –ovvero un’incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia– tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere.
L'attività di ricostruzione di ruderi è stata invece concordemente considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i caratteri dell’entità urbanisitco-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali.
Sicché, nulla rileva che, attraverso complesso attività tecniche, si riesca a risalire all’originaria consistenza dell’edificio, considerato che quest’ultimo non esista più come entità edilizia nell’attualità e dunque la sua ricostruzione si configura, comunque, come una nuova costruzione.
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11. Infondato, infine, il motivo di appello diretto a sostenere che la ricostruzione del rudere sia intervento qualificabile come ristrutturazione edilizia tutte le volte in cui sia possibile risalire comunque alla originaria consistenza del manufatto.
La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire (Cons. Stato Sez. IV 15.09.2006 n. 5375).
Non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso che l’immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale: Cons. Stato, sez. V, 21.10.2014, n. 5174; Cons. Stato, V, 15.03.1990, n. 293 e 20.12.1985, n. 485).
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, la c.d. demo-ricostruzione –ovvero un’incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia– tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 475).
L'attività di ricostruzione di ruderi è stata invece concordemente considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione (cfr. Cass. pen. 20.02.2001, n. 13982; Cons. Stato, V, 01.12.1999, n. 2021), avendo questi perduto i caratteri dell’entità urbanisitco-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali.
Sicché, come correttamente ha rilevato la sentenza appellata, a nulla rileva che, attraverso complesso attività tecniche, si riesca a risalire all’originaria consistenza dell’edificio, considerato che quest’ultimo non esista più come entità edilizia nell’attualità e dunque la sua ricostruzione si configura, comunque, come una nuova costruzione.
Non risulta dirimente, in senso contrario il richiamo fatto dall’appellante all’art. 7, comma 8-bis, della legge regionale Campania n. 19 del 2009, ai sensi del quale “E’ consentito il recupero edilizio […] in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, mediante intervento di ricostruzione in sito, di edifici diruti e ruderi, purché sia comprovata la preesistenza […] nonché la consistenza e l’autonomia funzionale, con obbligo di destinazione del manufatto ad edilizia residenziale […]”.
La norma non è applicabile al caso di specie, in quanto l’immobile oggetto della presente controversia non viene ricostruito in sito (ma è delocalizzato rispetto all’originaria aria di sedime) ed inoltre non è destinato ad edilizia residenza ma a bar gelateria. In relazione a tale circostanza ostativa all’applicazione della norma peraltro l’appello non contiene specifiche censure.
12. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello deve, pertanto, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.12.2016 n. 5106 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Taglio delle ali – Art. 97 d.lgs. n. 50/2016 – Offerte rientranti nelle cd. ali - Calcolo della media e determinazione dello scarto medio aritmetico – Interpretazione.
In tema di taglio delle ali, l’art. 97 del nuovo codice appalti (d.lgs. n. 50/2016) non ha voluto escludere le offerte delle c.d. ali sia dal calcolo della media che dalla determinazione dello scarto medio aritmetico: altrimenti, un legislatore tecnico e consapevole degli orientamenti della giurisprudenza, come quello che redige il testo di decreti legislativi per conto del governo, avrebbe formulato la norma in modo da eliminare possibili interpretazioni alternative, precisando che i ribassi percentuali che superano la media da confrontare dovevano essere solo quelli precedentemente utilizzati per calcolare la media dei ribassi.
Il fatto che le offerte con ribassi estremi in un senso o nell’altro siano escluse dal primo calcolo, è quindi dovuto alla sola necessità di evitare che offerte anomale incidano eccessivamente nel calcolare una media: l’individuazione dello scarto medio aritmetico serve a correggere detta media tenendo conto di tutte le offerte più alte presentate, così da rendere più vicina la media alla realtà delle offerte presentate alzando la soglia di anomalia e da ricomprendere qualche concorrente che resterebbe oltre la soglia in caso di mero riferimento ad uno scarto calcolato sulle sole offerte che hanno partecipato al calcolo sulla media (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 05.12.2016 n. 983 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Il Tar Bologna pronuncia in tema di taglio delle ali ex art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016.
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Gara – Offerta – Anomalia – Verifica – Taglio delle ali ex art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio.
L’art. 97, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nel dettare il criterio del c.d. taglio delle ali, necessario per individuare la soglia di anomalia delle offerte, non ha escluso le offerte delle c.d. ali dal calcolo della media e dalla determinazione dello scarto medio.
Diversamente, infatti, il legislatore del Codice avrebbe chiarito che i ribassi percentuali che superano la media da confrontare dovevano essere solo quelli precedentemente utilizzati per calcolare la media dei ribassi (1).

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   (1) Ha chiarito il Tar che il fatto che le offerte con ribassi estremi in un senso o nell’altro siano esclude dal primo calcolo, è dovuto alla necessità di evitare che offerte anomale incidano eccessivamente nel calcolare una media.
Ma l’individuazione dello scarto medio aritmetico serve a correggere detta media tenendo conto di tutte le offerte più alte presentate, così da rendere più vicina la media alla realtà delle offerte presentate alzando la soglia di anomalia così da ricomprendere qualche concorrente che resterebbe oltre la soglia in caso di mero riferimento ad uno scarto calcolato sulle sole offerte che hanno partecipato al calcolo sulla media.
Il tutto per favorire un maggior risparmio dell’Amministrazione (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 05.12.2016 n. 983 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La società ricorrente ha partecipato alla procedura negoziata per l’affidamento di un appalto di lavori per l’adeguamento impiantistico della sala F che deve contenere una parte del supercalcolatore Marconi; l’aggiudicazione sarebbe avvenuta con il criterio del prezzo più basso di cui all’art. 95, comma 4 lett. A), D.lgs. 50/2016.
La ricorrente giungeva seconda ma contestava che vi era stato un errore nel calcolare il c.d. “scarto aritmetico“; l’errore era stato segnalato alla stazione appaltante che però, in uno scambio di missive, confermava il provvedimento di aggiudicazione assunto.
Da ciò il ricorso che si fonda su un unico motivo.
Quando si sceglie il metodo di aggiudicazione del prezzo più basso vi deve essere la previa individuazione della soglia di anomalia.
Mediante tale soglia si eliminano le offerte meno attendibili perché un eccesso di ribasso può non garantire una seria esecuzione della prestazione.
Il meccanismo per giungere a questo risultato prevede innanzitutto il taglio delle ali che è stato effettuato, in virtù di sorteggio, secondo il metodo previsto dall’art. 97, comma 2, lett. E), D.lgs. 50/2016 “e) media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media, moltiplicato per un coefficiente sorteggiato dalla commissione giudicatrice all'atto del suo insediamento tra i seguenti valori: 0,6; 0,8; 1; 1,2; 1,4.”.
Pertanto si è proceduto all’eliminazione del 10% delle offerte più alte e più basse con calcolo della media aritmetica di quelle rimaste. La successiva operazione è stata quella di individuazione dello scarto medio aritmetico ovvero lo scarto medio tra i ribassi superiori alla media aritmetica e quest’ultima. Va precisato che nell’effettuare questo calcolo non vanno inserite le offerte scartate nel taglio delle ali.
Successivamente lo scarto medio aritmetico deve essere moltiplicato per uno dei parametri indicati dalla norma sopra richiamata, oggetto anche esso di sorteggio: nel caso di specie fu sorteggiato il parametro 1. Poi lo stesso viene sommato alla media aritmetica individuata nella prima fase del procedimento.
L’errore commesso dalla Commissione aggiudicatrice consiste nell’aver inserito anche le offerte tagliate nella prima fase nel calcolo dello scarto medio aritmetico.
Se non si fosse operato questo illegittimo modo di calcolare lo scarto medio aritmetico, il parametro finale sul quale verificare quale offerta fosse più vicina, avrebbe visto quale prima classificata la ricorrente e non la controinteressata.
Si costituiva in giudizio CI. chiedendo il rigetto del ricorso.
La questione posta dalla presente controversia è una pura questione di diritto che già con il precedente Codice degli Appalti ha dato luogo ad una giurisprudenza non uniforme.
La norma applicabile precedentemente era l'art. 86, comma 1, D.Lgs.163/2006, che prevede: "Nei contratti di cui al presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso, le stazioni appaltanti valutano la congruità delle offerte che presentano un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media".
Secondo un indirizzo favorevole al metodo usato dalla resistente, il cosiddetto "taglio delle ali", previsto dall'art. 86, comma, 1 del D.Lgs.163/2006, ha la finalità, unitamente ad altri elementi, solo di individuare la soglia di anomalia delle offerte e non di escludere automaticamente dalla gara le imprese che abbiano presentato offerte ricadenti nel detto taglio; ne consegue che le offerte che si situano oltre la fissata soglia di anomalia devono essere esclusivamente assoggettate al vaglio di congruità ai fini dell'aggiudicazione (vedasi ex multis TAR Napoli 2800/2016, TAR Abruzzo 370/2015, TAR Lombardia 1312/2011, TAR Puglia Lecce 2629/2010 ).
A favore dell’ipotesi contraria: Consiglio di Stato 3953/2012 la cui massima così si esprime: “In base all'art. 122, comma 9, del d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti), al fine dell'esclusione automatica delle offerte cd. anomale, sono considerate tali tutte quelle che presentino un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione (cd. taglio delle ali) del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente, delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media. Pertanto, dopo l'ammissione delle offerte, sono previste le seguenti fasi:
- taglio delle ali, vale dire l'esclusione dal calcolo del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso;
- calcolo della media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le residue offerte;
- calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che in tali offerte superano la predetta media;
- somma dei dati relativi alla media aritmetica e allo scarto medio aritmetico, con la conseguente determinazione della soglia di anomalia
” ( vedasi anche Consiglio di Stato 818/2016 ).
A fronte di una disciplina che aveva dato origine a tale contrasto giurisprudenziale, si deve ritenere che
un legislatore tecnico e consapevole degli orientamenti della giurisprudenza, come quello che redige il testo di decreti legislativi per conto del governo, abbia formulato la norma in modo da eliminare possibilmente interpretazioni alternative.
Ed allora
dobbiamo rifarci al testo della legge: se l’art. 97 citato avesse voluto escludere le offerte delle c.d. ali sia dal calcolo della media sia dalla determinazione dello scarto medio aritmetico, lo avrebbe detto esplicitamente precisando che i ribassi percentuali che superano la media da confrontare dovevano essere solo quelli precedentemente utilizzati per calcolare la media dei ribassi.
L’ANAC in un comunicato del 05.10.2016 ha sottolineato come
l’accantonamento delle ali costituisca una mera operazione matematica, distinta dall’effettiva esclusione di concorrenti che superano la soglia di anomalia.
Il fatto che le offerte con ribassi estremi in un senso o nell’altro siano esclude dal primo calcolo, è dovuto alla necessità di evitare che offerte anomale incidano eccessivamente nel calcolare una media. Ma l’individuazione dello scarto medio aritmetico serve a correggere detta media tenendo conto di tutte le offerte più alte presentate, così da rendere più vicina la media alla realtà delle offerte presentate alzando la soglia di anomalia così da ricomprendere qualche concorrente che resterebbe oltre la soglia in caso di mero riferimento ad uno scarto calcolato sulle sole offerte che hanno partecipato al calcolo sulla media. Il tutto per favorire un maggior risparmio dell’Amministrazione.
Pertanto il ricorso va respinto, ma, considerata l’esistenza di un notevole contrasto sul punto in giurisprudenza nell’interpretazione dell’art. 86 D.lgs. 163/2006 e la mancanza di un orientamento univoco sulla nuova norma appena entrata in vigore, appare equo compensar le spese di giudizio.

EDILIZIA PRIVATASia prima che dopo la l. n. 124 del 2015, le regole cui è assoggettato il potere amministrativo di controllo e di inibizione-conformazione, decorsi sessanta (o trenta, in materia edilizia) giorni dalla presentazione della s.c.i.a., sono sempre e comunque quelle di cui al primo comma dell'art. 21-nonies; ciò in quanto il potere inibitorio originario è comunque esaurito per decorso del termine di legge, sicché detto potere —che riviva per effetto dell'autonoma iniziativa dell'Amministrazione o per effetto dell'azione sollecitatoria del terzo e, quindi, del giudice amministrativo— resta nella sfera di disponibilità dell'Amministrazione solo a particolari condizioni.
Si veda anche altra giurisprudenza:
- Cons. St., sez. IV, 16.04.2014 n. 1880, che, con riferimento all'autotutela, parla di potere residuale, che presuppone un'attenta ponderazione comparativa degli interessi dei soggetti coinvolti, mentre il ripristino della legalità non è motivo di per sé solo sufficiente per l'annullamento del precedente atto; nello stesso senso anche Cons. St., sez. VI, 22.09.2014 n. 4780 e 04.02.2014, n. 532, ove si afferma che è riconosciuto, in ogni caso, l'affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell'autotutela, anche a prescindere da un vero e proprio annullamento dell'assenso tacito, che si ritenesse in precedenza formato.
- TAR Lazio, sez. II Roma, 13/01/2014, n. 350, secondo il quale ai sensi degli art. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990, il provvedimento amministrativo con cui l'amministrazione comunica l'inefficacia della s.c.i.a., siccome equivalente ad un provvedimento di revoca e/o annullamento, deve scontare i limiti e i presupposti propri che perimetrano l'esercizio del relativo potere, mediante esplicitazione delle sottese ragioni di interesse pubblico e tenendo conto degli interessi del destinatario.
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Nel caso specifico, l'esercizio dell'autotutela è certamente illegittimo, poiché nell’atto impugnato non si ravvisa alcun cenno circa la sussistenza delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale all'intervento in autotutela, prevalente sull'interesse del privato alla conservazione del titolo illegittimo; e manca altresì la necessaria considerazione degli interessi dei destinatari e ponderazione tra interessi pubblici e privati.

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... per l'annullamento del provedimento del Dirigente dell'U.T.C. emesso il 05.12.2014 con il quale si ordina al ricorrente la sospensione e la riduzione in pristino dei lavori realizzati all'interno della particella n. 12 del foglio di mappa n. 18 ed identificati con i fabbricati censiti in catasto al foglio di mappa 18, particelle nn. 631 e 632, in quanto eseguiti in difformità essenziale rispetto all'originaria concessione edilizia 03/2011.
...
III. Il quarto motivo di ricorso è fondato.
Occorre premettere che con il Decreto Legge 13/05/2011, n. 70 (convertito con legge n. 106 del 12.07.2011), sono state apportate modifiche al Testo Unico dell'edilizia (D.P.R. 380/2001) ed alla Legge 241/1990, ed è stata normata la SCIA in materia edilizia (art. 5, comma 2, punto b, del DL 70/2011 che modifica l'art. 19 L. 241/1990).
Le disposizioni in questione sono state oggetto di varie modifiche nel corso degli anni, in particolare con la legge 07.08.2015 n. 124 , che tuttavia non trova applicazione al caso oggetto di questo giudizio, svoltosi anteriormente alla sua entrata in vigore.
La disciplina relativa alla SCIA è stata recepita in Sicilia con l’art. 6 della L.R. n. 5/2011, che ha sostituito l'art. 22 della LR 10/1991 sulla base di quanto introdotto nell’ordinamento nazionale dalla Legge 98/2013.
Sulle questioni prospettate da parte ricorrente con il citato motivo di ricorso (illegittimità dell’atto impugnato perché carente della necessaria espressa e congrua motivazione circa l’interesse pubblico concreto ed attuale) si è recentemente espressa la giurisprudenza, ed in particolare TAR Campania, sez. IV Napoli, il quale, con sent. 05/04/2016, n. 1658, dopo accurata ricostruzione del quadro normativo (cui per brevità si fa rinvio), conclude nel senso che, sia prima che dopo la l. n. 124 del 2015, le regole cui è assoggettato il potere amministrativo di controllo e di inibizione-conformazione, decorsi sessanta (o trenta, in materia edilizia) giorni dalla presentazione della s.c.i.a., sono sempre e comunque quelle di cui al primo comma dell'art. 21-nonies; ciò in quanto il potere inibitorio originario è comunque esaurito per decorso del termine di legge, sicché detto potere —che riviva per effetto dell'autonoma iniziativa dell'Amministrazione o per effetto dell'azione sollecitatoria del terzo e, quindi, del giudice amministrativo— resta nella sfera di disponibilità dell'Amministrazione solo a particolari condizioni.
Si veda anche la giurisprudenza citata in detta sentenza: Cons. St., sez. IV, 16.04.2014 n. 1880, che, con riferimento all'autotutela, parla di potere residuale, che presuppone un'attenta ponderazione comparativa degli interessi dei soggetti coinvolti, mentre il ripristino della legalità non è motivo di per sé solo sufficiente per l'annullamento del precedente atto; nello stesso senso anche Cons. St., sez. VI, 22.09.2014 n. 4780 e 04.02.2014, n. 532, ove si afferma che è riconosciuto, in ogni caso, l'affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell'autotutela, anche a prescindere da un vero e proprio annullamento dell'assenso tacito, che si ritenesse in precedenza formato.
Si veda altresì TAR Lazio, sez. II Roma, 13/01/2014, n. 350, secondo il quale ai sensi degli art. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990, il provvedimento amministrativo con cui l'amministrazione comunica l'inefficacia della s.c.i.a., siccome equivalente ad un provvedimento di revoca e/o annullamento, deve scontare i limiti e i presupposti propri che perimetrano l'esercizio del relativo potere, mediante esplicitazione delle sottese ragioni di interesse pubblico e tenendo conto degli interessi del destinatario.
Nel caso specifico, l'esercizio dell'autotutela è certamente illegittimo, poiché nell’atto impugnato non si ravvisa alcun cenno circa la sussistenza delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale all'intervento in autotutela, prevalente sull'interesse del privato alla conservazione del titolo illegittimo; e manca altresì la necessaria considerazione degli interessi dei destinatari e ponderazione tra interessi pubblici e privati.
Tanto basta a determinare l’illegittimità del provvedimento impugnato, che, in accoglimento del ricorso, e previo assorbimento degli ulteriori profili, al cui esame parte ricorrente non mantiene alcun interesse, viene accolto (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 30.11.2016 n. 3112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto attiene alle distanze fra costruzioni o di queste con i confini, vige il regime della c.d. doppia tutela per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia di distanze, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del giudice ordinario) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'Amministrazione.
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8.1 Eccepisce innanzitutto quest’ultimo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi a suo dire di controversia che  riguardando questioni di distanze e, dunque, involgenti diritti soggettivi– avrebbe dovuto essere dedotta dinanzi al giudice ordinario.
Ritiene il Collegio che l’eccezione sia infondata per le ragioni di seguito esposte.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, nel nostro ordinamento, “…per quanto attiene alle distanze fra costruzioni o di queste con i confini, vige il regime della c.d. doppia tutela per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia di distanze, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del giudice ordinario) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'Amministrazione…” (Cons. Stato, Sez. IV, 31.03.2015, n. 1692) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.11.2016 n. 2274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla tempistica da osservare, da parte del terzo, per inibire l'esecuzione dei lavori edilizi con DIA/SCIA.
Vi è un orientamento, seguito dal giudice d’appello, secondo cui l’istanza di esercizio del potere inibitorio riguardante una denuncia di inizio attività deve essere inoltrata all’amministrazione –pena la tardività del giudizio istaurato avverso il provvedimento che dà ad essa riscontro– non oltre il termine di sessanta giorni decorrente dalla conoscenza della denuncia stessa.
Il Collegio tuttavia non condivide questo orientamento in quanto non aderente al dato normativo. Non vi è infatti alcuna norma che ponga un termine entro il quale il terzo deve formulare la predetta istanza, non contenendo l’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 alcuna prescrizione in proposito.
Si deve peraltro osservare che, con specifico riferimento alla DIA/SCIA in materia edilizia, la Sezione, in alcune recenti pronunce, ha avuto modo di affermare i seguenti principi:
   a) il terzo può sollecitare in qualsiasi momento l’esercizio del potere inibitorio;
   b) se la relativa istanza viene inoltrata entro il termine di sessanta giorni decorrente dalla piena conoscenza della DIA/SCIA, l’amministrazione deve esercitare il suddetto potere paralizzando l’attività del denunciante sulla base del mero riscontro dell’illegittimità di quest’ultima (potere inibitorio puro);
   c) se invece l’istanza del terzo viene depositata dopo il decorso del suddetto termine, l’amministrazione può intervenire unicamente qualora sussistano i presupposti per l’esercizio del potere di autotutela;
   d) il terzo può sempre impugnare l’atto con cui l’amministrazione si pronuncia sulla sua istanza.
Il rispetto del termine di sessanta giorni rileva dunque al solo fine di stabilire quale tipo di potere l’amministrazione potrà esercitare, giacché, se il terzo interviene tempestivamente, gli deve essere assicurata, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., una tutela non inferiore a quella di cui avrebbe goduto qualora avesse tempestivamente impugnato un permesso di costruire (e siccome in questo caso, il giudice avrebbe annullato l’atto sulla base del mero riscontro della sua illegittimità, allo stesso modo l’amministrazione deve privare la DIA/SCIA dei propri effetti abilitativi sulla base del mero riscontro della non conformità della stessa alla vigente normativa).
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Il controinteressato eccepisce ancora la tardività del ricorso rilevando che, nella sostanza, la ricorrente intende paralizzare gli effetti della DIA del 30.01.2014 e che, per questo motivo, l’istanza di esercizio del potere inibitorio avrebbe dovuto essere depositata non oltre il termine di sessanta giorni decorrente dalla sua conoscenza.
Con altra eccezione, lo stesso controinteressato rileva che, nel caso specifico, sono ormai decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio e che, quindi, l’istanza della ricorrente non potrebbe aver l’effetto di rimettere in termini l’Amministrazione. Potrebbe dunque esercitarsi il solo potere di autotutela del quale, comunque, non sussisterebbero i presupposti, non avendo la medesima Amministrazione effettuato l’attività di comparazione degli interessi a tal fine necessaria. La ricorrente non avrebbe, quindi, secondo il controinteressato, alcun interesse alla proposizione del ricorso.
In proposito si osserva quanto segue.
Si deve dare atto che, effettivamente, vi è un orientamento, seguito dal giudice d’appello, secondo cui l’istanza di esercizio del potere inibitorio riguardante una denuncia di inizio attività deve essere inoltrata all’amministrazione –pena la tardività del giudizio istaurato avverso il provvedimento che dà ad essa riscontro– non oltre il termine di sessanta giorni decorrente dalla conoscenza della denuncia stessa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015, n. 5161).
Il Collegio tuttavia non condivide questo orientamento in quanto non aderente al dato normativo. Non vi è infatti alcuna norma che ponga un termine entro il quale il terzo deve formulare la predetta istanza, non contenendo l’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 alcuna prescrizione in proposito (cfr. sul punto TAR Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114).
Si deve peraltro osservare che, con specifico riferimento alla DIA/SCIA in materia edilizia, la Sezione, in alcune recenti pronunce, ha avuto modo di affermare i seguenti principi:
   a) il terzo può sollecitare in qualsiasi momento l’esercizio del potere inibitorio;
   b) se la relativa istanza viene inoltrata entro il termine di sessanta giorni decorrente dalla piena conoscenza della DIA/SCIA, l’amministrazione deve esercitare il suddetto potere paralizzando l’attività del denunciante sulla base del mero riscontro dell’illegittimità di quest’ultima (potere inibitorio puro);
   c) se invece l’istanza del terzo viene depositata dopo il decorso del suddetto termine, l’amministrazione può intervenire unicamente qualora sussistano i presupposti per l’esercizio del potere di autotutela;
   d) il terzo può sempre impugnare l’atto con cui l’amministrazione si pronuncia sulla sua istanza (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.04.2016, n. 735).
Il rispetto del termine di sessanta giorni rileva dunque al solo fine di stabilire quale tipo di potere l’amministrazione potrà esercitare, giacché, se il terzo interviene tempestivamente, gli deve essere assicurata, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., una tutela non inferiore a quella di cui avrebbe goduto qualora avesse tempestivamente impugnato un permesso di costruire (e siccome in questo caso, il giudice avrebbe annullato l’atto sulla base del mero riscontro della sua illegittimità, allo stesso modo l’amministrazione deve privare la DIA/SCIA dei propri effetti abilitativi sulla base del mero riscontro della non conformità della stessa alla vigente normativa).
Non è dunque rilevante, ai fini della valutazione della tempestività del ricorso in esame, il fatto che, nel caso concreto, l’istanza della ricorrente sia stata inoltrata all’Amministrazione dopo il decorso del termine di sessanta giorni dal momento di piena conoscenza della DIA presentata dal controinteressato, essendo unicamente rilevante il fatto che sia stato tempestivamente impugnato l’atto che ha dato riscontro all’istanza di sollecitazione all’esercizio del potere inibitorio.
Né tale ritardo rileva ai fini della valutazione dell’interesse alla proposizione del gravame, posto che l’Amministrazione conserva comunque la possibilità di effettuare un intervento subordinato al riscontro dei presupposti dell’autotutela.
Neppure è decisivo il fatto che l’Amministrazione, in occasione dell’adozione degli atti impugnati, non abbia effettuato l’attività di comparazione degli interessi coinvolti.
L’accoglimento del ricorso costringerebbe infatti la stessa Amministrazione ad aprire nuovamente il procedimento, nel corso del quale ben potrà essere effettuata l’attività di comparazione degli interessi coinvolti; attività considerata in prima battuta non necessaria stante la ritenuta insussistenza dei profili di illegittimità denunciati dalla ricorrente.
Vi è dunque, quantomeno, un interesse strumentale alla proposizione del ricorso, posto che, in esito al nuovo procedimento, potrebbe essere adottato un atto favorevole alla ricorrente stessa.
Per tutte queste ragioni, le eccezioni in esame risultano infondate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.11.2016 n. 2274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Stabilisce l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che rientrano nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e, successiva, ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che, per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli interventi di demolizione e ricostruzione dovevano rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che, attualmente, possono considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che si limitano al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, l’ultimo periodo della disposizione specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione […] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Come si vede, questa norma prevede un’eccezione alla regola generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione.
E’ opinione del Collegio che, vista la genericità della previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.

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Nella fattispecie, proprio perché trattasi intervento di nuova costruzione, e non di intervento di ristrutturazione edilizia, esso avrebbe dovuto rispettare le norme sulle distanze.
In realtà, la qualificazione giuridica dell’intervento non sempre è decisiva per stabilire quando si imponga il rispetto delle succitate norme.
Va difatti evidenziato che la giurisprudenza sembra più che altro far riferimento al grado di innovatività della nuova opera rispetto alla precedente: la deroga è, in particolare, ammessa quando si tratti di interventi che comportino il recupero di un bene esistente già collocato a distanza inferiore a quella legale.
Quando invece l’intervento, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al fabbricato, renda l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente, l’osservanza delle disposizioni sulle distanze recate dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 si rende comunque necessaria, e ciò in ragione dell’interesse protetto da dette disposizioni volte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, che potrebbero venire irrimediabilmente compromesse dalla creazione di malsane intercapedini.
In base a questo orientamento, dunque, anche gli interventi ristrutturazione edilizia che determinano la creazione di un fabbricato del tutto diverso debbono essere realizzati nel rispetto delle norme dettate in materia di distanze.
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Il nuovo fabbricato (demolizione con successiva ricostruzione) è del tutto diverso dal precedente. Da ciò discende che, in applicazione dei principi sopra illustrati, la sua realizzazione avrebbe dovuto effettuarsi nel rispetto delle distanze legali imposte dall'articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968.
Nel caso concreto, tali prescrizioni non sono state rispettate, in quanto è pacifico che l’immobile ricostruito è collocato ad una distanza inferiore a dieci metri dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà della ricorrente e a meno di cinque metri dal confine.
A contrario non vale dedurre che è solo la parte dell’immobile ricostruita sulla sagoma preesistente (quella collocata al piano terra) a non rispettare le norme sulle distanze, mentre la parte che si discosta dalla preesistente sagoma è stata realizzata nello scrupoloso rispetto delle predette norme.
Va difatti osservato che, una volta stabilito che l’opera realizzata è completamente diversa da quella preesistente, essa deve rispettare nella sua interezza le suddette disposizioni, non potendosi, a parere del Collegio, effettuare valutazioni parcellizzate riguardanti le singole porzioni.
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9. Esaurita la trattazione delle questioni preliminari, può ora passarsi all’esame del merito del ricorso.
10. Con il primo motivo, la ricorrente sostiene che l’intervento oggetto della DIA del 30.01.2014 andrebbe qualificato non già come ristrutturazione edilizia, ma come intervento di nuova costruzione. E ciò sia in applicazione dell’articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto trattasi di intervento di demolizione e ricostruzione, con sagoma diversa, di un immobile situato in area vincolata ai sensi del decreto legislativo n. 42 del 2004; sia perché trattasi di intervento di sostituzione edilizia da ricondurre, ai sensi dell’articolo 27, comma 1, lett. e), punto 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005, proprio alla categoria della nuova costruzione.
L’Amministrazione –che ha invece qualificato l’intervento come ristrutturazione edilizia– sarebbe dunque incorsa in un evidente errore che determinerebbe l’illegittimità degli atti impugnati.
Questa censura viene ripresa e sviluppata nel primo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 5), nel quale la ricorrente ribadisce che l’intervento di cui è causa andrebbe correttamente ascritto alla categoria della nuova costruzione.
La parte evidenzia che nessun rilievo, ai fini della qualificazione, potrebbe avere la circostanza –evidenziata nella nota del Commissario prefettizio del Comune di Sant’Angelo Lodigiano– che l’area in cui è collocato l’immobile non rientra fra quelle previste e disciplinate dalla Parte I (rectius: nella Parte II, dedicata ai “Beni culturali”) del Codice dei beni culturali e del paesaggio, così come nessun rilievo potrebbe avere la circostanza che non trattasi di vincolo assoluto ma relativo. Secondo la ricorrente, infatti, l’articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 escluderebbe genericamente la possibilità di ascrivere alla categoria della ristrutturazione edilizia tutti gli interventi che consistono nella demolizione e nella successiva ricostruzione di immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, senza operare distinzione alcuna in ordine alla fonte ed alla natura del vincolo.
Né a dire della parte potrebbe avere rilievo il fatto che il Soprintendente abbia espresso parere positivo alla realizzazione dell’intervento, giacché non è compito di tale organo operare la qualificazione dell’intervento stesso sotto il profilo prettamente urbanistico.
Le censure appena illustrate sono strettamente connesse con quelle contenute nel terzo motivo del ricorso introduttivo e nei motivi sub 6) e 7) dei motivi aggiunti, per mezzo delle quali la ricorrente deduce che la non corretta qualificazione dell’intervento ha indotto il Comune a non ritenere violate le norme sulle distanze fra pareti finestrate e quelle sulle distanze dai confini sancite dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 e dall’art. 24 delle NTA del PGT.
Secondo la parte, infatti, una volta ascritto l’intervento di cui è causa alla categoria della nuova costruzione, imprescindibile sarebbe il dovuto rispetto delle suindicate norme, derogabili solo per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente. Rileva in subordine la ricorrente che, anche se si dovesse ascrivere l’intervento di cui è causa alla categoria della ristrutturazione edilizia, cionondimeno le norme sulle distanze di cui al citato articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 andrebbero, nel caso concreto, comunque rispettate.
10.1 In proposito il Collegio osserva quanto segue.
Stabilisce l’articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) che rientrano nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e, successiva, ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che, per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli interventi di demolizione e ricostruzione dovevano rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che, attualmente, possono considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che si limitano al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, l’ultimo periodo della disposizione specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione […] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Come si vede, questa norma prevede un’eccezione alla regola generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione.
E’ opinione del Collegio che, vista la genericità della previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.
L’interpretazione della norma in esame, condotta sulla base della sua lettera, porta dunque a ritenere che l’intervento di cui è causa –che incide su un’area soggetta a vincolo paesaggistico (cfr. doc. 8 di parte ricorrente) e che pacificamente non rispetta il limite della sagoma preesistente– va correttamente qualificato come intervento di nuova costruzione.
10.2 A questo punto, va però evidenziato che la non corretta qualificazione dell’intervento non è di per sé rilevante ai fini della valutazione della legittimità del provvedimento impugnato, in quanto ciò che rileva sono le conseguenze che da tale qualificazione si traggono in termini di disciplina applicabile.
Potrebbe dunque rilevare il fatto che, proprio perché trattasi intervento di nuova costruzione, e non di intervento di ristrutturazione edilizia, esso avrebbe dovuto rispettare le norme sulle distanze.
Il Collegio deve tuttavia osservare che, in realtà, la qualificazione giuridica dell’intervento non sempre è decisiva per stabilire quando si imponga il rispetto delle succitate norme.
Va difatti evidenziato che la giurisprudenza sembra più che altro far riferimento al grado di innovatività della nuova opera rispetto alla precedente: la deroga è, in particolare, ammessa quando si tratti di interventi che comportino il recupero di un bene esistente già collocato a distanza inferiore a quella legale. Quando invece l’intervento, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al fabbricato, renda l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente, l’osservanza delle disposizioni sulle distanze recate dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 si rende comunque necessaria, e ciò in ragione dell’interesse protetto da dette disposizioni volte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, che potrebbero venire irrimediabilmente compromesse dalla creazione di malsane intercapedini. In base a questo orientamento, dunque, anche gli interventi ristrutturazione edilizia che determinano la creazione di un fabbricato del tutto diverso debbono essere realizzati nel rispetto delle norme dettate in materia di distanze (cfr. Cass. civ., Sez. II, 03.03.2008, n. 5741; Cons. Stato, Sez. IV, 12.06.2014, n. 2995; Id. 12.07.2002, n. 3929; TAR Sardegna, Sez. II, 05.07.2016, n. 566).
10.3 Per dare soluzione alla presente controversia si può pertanto prescindere dalla qualificazione giuridica dell’intervento; e ciò anche perché, nel caso concreto, si potrebbe discutere se –una volta appurato che l’intervento di cui è causa rientra senz’altro nella categoria della nuova costruzione– sia giustificato riservare ad esso un trattamento differenziato in materia di norme sulle distanze rispetto agli interventi del tutto analoghi che ricadono in aree non vincolate (e che per questo unico motivo sono ascrivibili alla categoria della ristrutturazione edilizia), tenuto conto che, come si è detto, le predette norme hanno una finalità (quella di preservare la salubrità dei luoghi) che appare del tutto neutra in rapporto all’interesse volto alla tutela paesaggistica.
10.4 Ciò premesso si deve rilevare che, nel caso specifico, non è contestato (cfr. docc. 9, 13, 14, 15 e 16 di parte ricorrente) che l’intervento oggetto della DIA del 30.01.2014 ha comportato:
   a) la demolizione di un edificio che –seppur, a seguito del rilascio del permesso di costruire del 18.12.2012, risultava destinato a funzioni residenziali– conservava ancora nel concreto le caratteristiche strutturali di un immobile adibito a deposito e fienile (il suddetto permesso di costruire ha infatti assentito un mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale);
   b) la conseguente ricostruzione di un fabbricato, con sagoma diversa, avente funzione residenziale ed ospitante ben cinque unità abitative.
Il nuovo fabbricato è, quindi, del tutto diverso dal precedente. Da ciò discende che, in applicazione dei principi sopra illustrati, la sua realizzazione avrebbe dovuto effettuarsi nel rispetto delle distanze legali imposte dall'articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968.
Nel caso concreto, tali prescrizioni non sono state rispettate, in quanto è pacifico che l’immobile ricostruito è collocato ad una distanza inferiore a dieci metri dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà della ricorrente e a meno di cinque metri dal confine.
A contrario non vale dedurre che è solo la parte dell’immobile ricostruita sulla sagoma preesistente (quella collocata al piano terra) a non rispettare le norme sulle distanze, mentre la parte che si discosta dalla preesistente sagoma è stata realizzata nello scrupoloso rispetto delle predette norme.
Va difatti osservato che, una volta stabilito che l’opera realizzata è completamente diversa da quella preesistente, essa deve rispettare nella sua interezza le suddette disposizioni, non potendosi, a parere del Collegio, effettuare valutazioni parcellizzate riguardanti le singole porzioni (cfr., sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.2013, n. 844).
10.5 Per tutte queste ragioni, le censure in esame meritano condivisione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.11.2016 n. 2274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' deferita al G.O., e non al G.A., la domanda di annullamento degli atti ispettivi e dell’ordinanza di ingiunzione con la quale il Comune ha irrogato (al ricorrente) la sanzione pecuniaria di euro 516,00 per il rifiuto opposto -dallo stesso- all’accesso ai luoghi da parte dei funzionari comunali, per verificare la regolarità edilizia dei lavori in corso d'opera.
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... per l'annullamento:
   1. del provvedimento privo di data e di forma scritta e mai comunicato al ricorrente, con il quale il Comune di Cafasse disponeva il sopralluogo presso la proprietà del ricorrente (sulla base di un esposto della cui esistenza si è appresa nel corso del procedimento);
   2. del provvedimento del 24.10.2014, ad oggetto "diniego di accesso a proprietà privata per verifiche edilizie", contenente la relazione dell’accesso del 24.10.2014 e la disposizione della trasmissione dell’informativa alla Procura della Repubblica di Ivrea per l’accesso forzoso;
   3. dell’ordinanza ingiunzione n. 75/2014 del 29.10.2014, con la quale il Comune di Cafasse irrogava al ricorrente la sanzione pecuniaria di euro 516,00;
   4. del provvedimento di diniego dell’accesso agli atti amministrativi del 10.12.2014 prot. n. 6000, con il quale il Comune di Cafasse rigettava la richiesta del ricorrente di accesso all’esposto che aveva originato il sopralluogo del 24.10.2014;
   5. del provvedimento di accoglimento (parziale) dell’istanza di accesso agli atti amministrativi dell’11.12.2014 prot. n. 6011, con il quale il Comune accoglieva l’istanza di accesso alla relazione di sopralluogo del 24.10.2014, escludendone però l’esposto che ad essa risultava allegato;
...
- Vista la sentenza parziale di questa Sezione n. 547/2015, con la quale è stata respinta la domanda del ricorrente relativa al diniego di accesso agli atti ed ai documenti indicati in epigrafe;
- Ritenuto di poter decidere con sentenza in forma semplificata in ordine alla domanda di annullamento degli atti ispettivi e dell’ordinanza ingiunzione n. 75/2014 del 29.10.2014, con la quale il Comune di Cafasse ha irrogato al ricorrente la sanzione pecuniaria di euro 516,00 per il rifiuto opposto dal ricorrente Ma.Ai.Se., titolare della Ditta Ec., all’accesso ai luoghi da parte dei funzionari comunali, per verificare la regolarità edilizia dei capannoni e della centrale idroelettrica in via Roma n. 148;
- Ritenuto di dover dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in ordine all’impugnativa dell’ingiunzione e degli atti presupposti;
- Richiamati, a tal fine:
  
l’art. 59 della legge regionale piemontese n. 56 del 1977, rubricato “Vigilanza sulle trasformazioni”, ai cui sensi: “1. Il comune esercita la vigilanza sulle trasformazioni urbanistiche ed edilizie del territorio in applicazione della normativa vigente. 2. Per l'esercizio delle funzioni di cui al presente articolo, il responsabile del servizio competente si avvale dei funzionari e agenti comunali e dispone le forme di controllo ritenute più efficienti. 3. I funzionari, agenti o incaricati dei controlli, per esercitare le funzioni di vigilanza e verifica, devono poter accedere ai cantieri, alle costruzioni e ai fondi muniti di mandato del responsabile del servizio competente. 4. Salvo quanto stabilito dalle leggi statali e dalle leggi regionali di settore e senza pregiudizio delle sanzioni penali, la violazione per chi si sottrae all'obbligo di consentire l'accesso previsto al comma 3, comporta la sanzione pecuniaria pari a 516,00 euro”;
  
l’art. 133, primo comma – lett. f), cod. proc. amm., che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie “aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio”;
- Ritenuto che la sanzione pecuniaria irrogata dal Comune, ai sensi della richiamata norma regionale, per la violazione del dovere di soggiacere all’attività di vigilanza, non possa ricondursi al novero degli atti in materia edilizia, bensì alla differente e generale materia della funzione ispettiva dell’amministrazione, che è ordinariamente presidiata da sanzioni afflittive accessorie con lo scopo di assicurare l’effettività e la speditezza dei controlli da parte degli organi di polizia locale;
- Ritenuto, in conclusione, di dover dichiarare il difetto di giurisdizione sulla domanda di annullamento degli atti ispettivi (ignoti) e dell’ordinanza ingiunzione n. 75/2014 del 29.10.2014, in favore del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 11 cod. proc. amm. (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 29.11.2016 n. 1464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Area sottoposta a vincolo paesaggistico - Realizzazione di una piscina - Permesso di costruire - Nulla osta.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Predisposizione degli impianti tecnologici ed idraulici - Prescrizione del reato - Revoca dell'ordine di demolizione e quello di rimessione in pristino - Artt. 6, 44 d.P.R. n. 380/2001 - Codice dei beni culturali del paesaggio - Art. 181, comma 1, d.lgs. 42/2004 - Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità - Art. 129 cod. proc. pen..
L'attuale formulazione dell'art. 181 Codice dei beni culturali è la seguente: "1. Chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici e' punito con le pene previste dall'articolo 44, lettera e), del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.".
1-bis. La pena è della reclusione da uno a quattro anni qualora i lavori di cui al comma 1 abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi
.".
Nel caso in specie realizzazione, in area sottoposta a vincolo paesaggistico, una struttura per piscina occupante una superficie in pianta di circa 45 mq. e profonda mediamente 1,5 m., con predisposizione degli impianti tecnologici ed idraulici, necessitava il permesso di costruire.
Tuttavia, poiché non ricorrono cause di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., stante la manifesta infondatezza della deduzione relativa alla non necessarietà del permesso di costruire per la realizzazione della piscina in questione, di dimensioni non trascurabili e suscettibile di autonoma utilizzazione, che non risulta neppure posta a servizio esclusivo di una residenza privata legittimamente edificata (cfr. Sez. 3, n. 39067 del 21/05/2009, Vitti; Sez. 3, n. 37257 del 11/06/2008, Alexander; nonché Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno), la sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio, per essere il residuo reato di cui al capo d), qualificato come contravvenzione ai sensi dell'art. 181, comma 1, d.lgs. 42/2004, estinto per prescrizione.
Devono, di conseguenza, essere revocati l'ordine di demolizione e quello di rimessione in pristino (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.11.2016 n. 50331 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La d.i.a. presentata concerneva lavori di manutenzione straordinaria che, successivamente ad essa, sono state intraprese una serie di opere che hanno modificato in maniera rilevante la consistenza dell’immobile.
Invero, il professionista incaricato ha evidenziato di aver “trovato uno stato dei luoghi variato rispetto a quando era stata redatta la D.I.A.” con costruzione di nuove parti consistenti in:
   - realizzazione di una scala esterna che conduce al lastrico solare;
   - modifica della quota del solaio di calpestio del suppenno, coprendo il locale prospiciente Via Pentelete;
   - realizzazione di una balconata in sostituzione dell’aia, di un balcone al primo livello su Via Pentelete e di un terrazzo a quota terreno, con masso rinforzato e sistemazioni esterne, compresa la muratura in tufo delimitante i confini.
Trattasi in tutta evidenza di opere (sanzionate con il provvedimento impugnato) innovative dell’assetto preesistente del manufatto edilizio ed in alcun modo descrivibili quali interventi preordinati all’utilizzazione e fruizione ottimale degli interventi compresi nella d.i.a. presentata (come addotto dalla ricorrente).
Essi concernono, piuttosto, l’alterazione dei volumi esistenti all’interno (con l’abbassamento del piano di calpestio del solaio) e l’introduzione di elementi tipologici nuovi, che modificano la sagoma dell’edificio (scala esterna e balconate).
Non è dubitabile che gli stessi sono annoverabili nella nozione di nuova costruzione e che, pertanto, per essi fosse richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 in relazione al precedente art. 3.
Sotto tale profilo, questa Sezione ha già avuto modo di rilevare che ricorre l’ipotesi di nuova costruzione anche se le opere sono state intraprese su un preesistente immobile:
   - <<il concetto di “nuova costruzione”, rilevante al fine di potersi ritenere avverata una “trasformazione del territorio”, è pacificamente ravvisabile non solo in caso di interventi ricadenti su “aree libere”, ma anche qualora essi si presentino in aggiunta a strutture preesistenti, pur legittimamente edificate>>;
   - <<nella fattispecie si è trattato di un intervento di trasformazione edilizia del territorio con creazione di nuove superfici e volumi, per il quale indubbiamente necessitava del previo rilascio del permesso di costruire, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” di cui all’art. 3, co. 1, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001, concetto comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero modificativo di altro preesistente…>>.
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... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) dell'ordinanza del Responsabile VII Settore del Comune di Ottaviano n. 64/VII prot. 22523/GEN del 24/11/2009, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente realizzate alla Via Pentelete, in difformità sostanziali dalla d.i.a. prot. 19019 del 21/11/2007; del provvedimento prot. 1006744/09 del 18/12/2009 del Dirigente del Settore provinciale del Genio Civile della Regione Campania - Area Generale di Coordinamento LL.PP., con cui è ordinata la sospensione immediata dei lavori; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in quanto lesivo;
- (quanto ai motivi aggiunti) del provvedimento del Responsabile del VII Settore del Comune di Ottaviano prot. gen. n. 2791 del 02/02/2010, recante il diniego della d.i.a. in sanatoria prot. 1089 del 15/01/2010; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in quanto lesivo.
...
1- Il ricorso e i motivi aggiunti sono infondati.
1.1- Vanno innanzitutto esaminati il secondo e terzo motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente.
Con essi si sostiene che le opere non costituiscono variazione essenziale alla d.i.a. prot. 19019 presentata il 21/11/2007 e che per le stesse (a loro volta assentibili con d.i.a.) era irrogabile una sanzione pecuniaria.
Le censure sono prive di fondamento.
Benché non sia stata esibita la suindicata d.i.a. (riguardante, secondo la ricorrente, il completamento del fabbricato), risulta che questa concerneva lavori di manutenzione straordinaria (come indicato nel diniego di sanatoria) e che, successivamente ad essa, sono state intraprese una serie di opere che hanno modificato in maniera rilevante la consistenza dell’immobile.
Invero, nella stessa relazione tecnica che accompagna la d.i.a. in sanatoria del 15/01/2010, il professionista incaricato ha evidenziato di aver “trovato uno stato dei luoghi variato rispetto a quando era stata redatta la D.I.A.” (cfr. doc. 4 della produzione della ricorrente), con costruzione di nuove parti consistenti in:
   - realizzazione di una scala esterna che conduce al lastrico solare;
   - modifica della quota del solaio di calpestio del suppenno, coprendo il locale prospiciente Via Pentelete;
   - realizzazione di una balconata in sostituzione dell’aia, di un balcone al primo livello su Via Pentelete e di un terrazzo a quota terreno, con masso rinforzato e sistemazioni esterne, compresa la muratura in tufo delimitante i confini.
Trattasi in tutta evidenza di opere (sanzionate con il provvedimento impugnato) innovative dell’assetto preesistente del manufatto edilizio ed in alcun modo descrivibili quali interventi preordinati all’utilizzazione e fruizione ottimale degli interventi compresi nella d.i.a. presentata (come addotto dalla ricorrente).
Essi concernono, piuttosto, l’alterazione dei volumi esistenti all’interno (con l’abbassamento del piano di calpestio del solaio) e l’introduzione di elementi tipologici nuovi, che modificano la sagoma dell’edificio (scala esterna e balconate).
Non è dubitabile che gli stessi sono annoverabili nella nozione di nuova costruzione e che, pertanto, per essi fosse richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 in relazione al precedente art. 3.
Sotto tale profilo, questa Sezione ha già avuto modo di rilevare che ricorre l’ipotesi di nuova costruzione anche se le opere sono state intraprese su un preesistente immobile (cfr. la sentenza del 07/06/2016 n. 3367: <<il concetto di “nuova costruzione”, rilevante al fine di potersi ritenere avverata una “trasformazione del territorio”, è pacificamente ravvisabile non solo in caso di interventi ricadenti su “aree libere”, ma anche qualora essi si presentino in aggiunta a strutture preesistenti, pur legittimamente edificate>>; cfr., altresì, la sentenza del 19/07/2016 n. 4109: <<nella fattispecie si è trattato di un intervento di trasformazione edilizia del territorio con creazione di nuove superfici e volumi, per il quale indubbiamente necessitava del previo rilascio del permesso di costruire, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” di cui all’art. 3, co. 1, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001, concetto comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero modificativo di altro preesistente…>>).
Consegue da tutto ciò che il Comune di Ottaviano ha correttamente fatto ricorso al potere repressivo degli abusi edilizi, dettato dall’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 per le opere prive del permesso di costruire (realizzate, peraltro, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, che vieta la modificazione dello stato esteriore dei luoghi) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.11.2016 n. 5522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: - la presentazione dell’istanza di sanatoria dopo l’emanazione dell’ordine di demolizione non incide su quest’ultimo (se non producendo una temporanea quiescenza, sino alla scadenza del termine di sessanta giorni, ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, per la formazione del silenzio-rifiuto; nel caso in esame, l’istanza di sanatoria è stata espressamente rigettata con il provvedimento impugnato con i motivi aggiunti);
- è univocamente affermato che il potere repressivo degli abusi edilizi sorge, con carattere vincolato, dall’accertamento della realizzazione di opere prive del prescritto titolo abilitativo e sull’unico presupposto della mancanza di esso, ed è sufficientemente motivato con riferimento alla descrizione dell’abuso, fondandosi su un interesse pubblico che è in re ipsa, coincidente con l’esigenza di ripristino della situazione compromessa dall’illecita attività edilizia [cfr., da ultimo: <<L’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio>>];
- è altresì escluso che l’ordinanza di demolizione debba contenere l’indicazione dell’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio del Comune, come anche in tal caso a più riprese statuito da questa Sezione (cfr. la sentenza del 15/07/2016 n. 3549, con richiami, secondo cui “l’individuazione specifica dell’area da acquisire non è un elemento essenziale dell’ordine di demolizione, dovendo piuttosto essere contenuta nell’atto che opera l’acquisizione”);
- non è richiesta la previa comunicazione di avvio del procedimento (cfr., per tutte, la citata sentenza del 27/8/2016 n. 4110: “Invero per giurisprudenza, assolutamente prevalente e condivisa dal Collegio: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. (…)>>).
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... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) dell'ordinanza del Responsabile VII Settore del Comune di Ottaviano n. 64/VII prot. 22523/GEN del 24/11/2009, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente realizzate alla Via Pentelete, in difformità sostanziali dalla d.i.a. prot. 19019 del 21/11/2007; del provvedimento prot. 1006744/09 del 18/12/2009 del Dirigente del Settore provinciale del Genio Civile della Regione Campania - Area Generale di Coordinamento LL.PP., con cui è ordinata la sospensione immediata dei lavori; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in quanto lesivo;
- (quanto ai motivi aggiunti) del provvedimento del Responsabile del VII Settore del Comune di Ottaviano prot. gen. n. 2791 del 02/02/2010, recante il diniego della d.i.a. in sanatoria prot. 1089 del 15/01/2010; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in quanto lesivo.
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1.2- Le ulteriori censure vanno disattese, in quanto:
   - la presentazione dell’istanza di sanatoria dopo l’emanazione dell’ordine di demolizione non incide su quest’ultimo (se non producendo una temporanea quiescenza, sino alla scadenza del termine di sessanta giorni, ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, per la formazione del silenzio-rifiuto; nel caso in esame, l’istanza di sanatoria è stata espressamente rigettata con il provvedimento impugnato con i motivi aggiunti);
   - è univocamente affermato che il potere repressivo degli abusi edilizi sorge, con carattere vincolato, dall’accertamento della realizzazione di opere prive del prescritto titolo abilitativo e sull’unico presupposto della mancanza di esso, ed è sufficientemente motivato con riferimento alla descrizione dell’abuso, fondandosi su un interesse pubblico che è in re ipsa, coincidente con l’esigenza di ripristino della situazione compromessa dall’illecita attività edilizia [cfr., da ultimo, la sentenza della Sezione del 27/08/2016 n. 4110: <<L’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio>> (TAR Campania, sez. II, 30.01.2015, n. 601)];
   - è altresì escluso che l’ordinanza di demolizione debba contenere l’indicazione dell’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio del Comune, come anche in tal caso a più riprese statuito da questa Sezione (cfr. la sentenza del 15/07/2016 n. 3549, con richiami, secondo cui “l’individuazione specifica dell’area da acquisire non è un elemento essenziale dell’ordine di demolizione, dovendo piuttosto essere contenuta nell’atto che opera l’acquisizione”);
   - non è richiesta la previa comunicazione di avvio del procedimento (cfr, per tutte, la citata sentenza del 27/8/2016 n. 4110: “Invero per giurisprudenza, assolutamente prevalente e condivisa dal Collegio: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. (…)>>) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.11.2016 n. 5522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento che nega la richiesta di concessione in sanatoria è atto vincolato: pertanto, la mancata comunicazione del preavviso di diniego non produce, in base al principio di cui all’art 21-octies, effetti vizianti, ove il Comune non avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi.
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... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) dell'ordinanza del Responsabile VII Settore del Comune di Ottaviano n. 64/VII prot. 22523/GEN del 24/11/2009, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente realizzate alla Via Pentelete, in difformità sostanziali dalla d.i.a. prot. 19019 del 21/11/2007; del provvedimento prot. 1006744/09 del 18/12/2009 del Dirigente del Settore provinciale del Genio Civile della Regione Campania - Area Generale di Coordinamento LL.PP., con cui è ordinata la sospensione immediata dei lavori; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in quanto lesivo;
- (quanto ai motivi aggiunti) del provvedimento del Responsabile del VII Settore del Comune di Ottaviano prot. gen. n. 2791 del 02/02/2010, recante il diniego della d.i.a. in sanatoria prot. 1089 del 15/01/2010; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in quanto lesivo.
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2- I motivi aggiunti investono il provvedimento di diniego della d.i.a. in sanatoria, formulato dal Comune argomentando che:
   - a prescindere dall’integrazione della pratica (tra l’altro, con la documentazione fotografica dello stato preesistente), la difformità più rilevante si configura nell’utilizzazione residenziale del tetto-suppenno e, per essa, è necessario ripristinare l’originario stato dei luoghi;
   - è rinvenibile un aumento di volumetria urbanistica, insuscettibile di conseguire l’autorizzazione paesaggistica postuma, e non può essere accordata la d.i.a. in sanatoria per interventi di ripristino della conformità urbanistica.
Al di là dell’involuta formulazione del provvedimento (messa in rilievo dalla ricorrente), esso si fonda su un presupposto legittimo ed assorbente, resistendo quindi alle censure svolte con i motivi aggiunti, che vanno conseguentemente respinti.
2.1- Quanto alla denunciata violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, va osservato che il diniego di sanatoria si fonda sull’inconciliabilità paesaggistica cosicché, stante il suo carattere vincolato, esso non è invalidato dall’omissione del preavviso di cui alla norma invocata (cfr., in tema, Cons. Stato, sez. IV, 25/09/2014 n. 4809: “E’ sufficiente ricordare, in proposito, l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa, a mente della quale il provvedimento che nega la richiesta di concessione in sanatoria è atto vincolato: pertanto, la mancata comunicazione del preavviso di diniego non produce, in base al principio di cui all’art 21-octies, effetti vizianti, ove il Comune non avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi (Cons. St., Sez. IV, 10.05.2012, n. 2714)”; conf., tra le altre, con ulteriori richiami, la sentenza di questa Sezione del 17/09/2015 n. 4564) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.11.2016 n. 5522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'indubbia realtà dei fatti manifesta l’esecuzione di un complesso di nuove opere (- realizzazione di una scala esterna che conduce al lastrico solare; - modifica della quota del solaio di calpestio del suppenno, coprendo il locale prospiciente Via ...; - realizzazione di una balconata in sostituzione dell’aia, di un balcone al primo livello su Via ... e di un terrazzo a quota terreno, con masso rinforzato e sistemazioni esterne, compresa la muratura in tufo delimitante i confini) per le quali è esclusa la compatibilità paesaggistica, come rappresentato nel provvedimento.
La richiesta di sanatoria contrasta difatti con quanto previsto dall’art. 167, quarto comma, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004, a tenore del quale la compatibilità paesaggistica può essere accertata, sempre che "i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, (...) non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
La sanabilità postuma dell’opera sotto l’aspetto paesaggistico è dunque esclusa in presenza di nuove superfici o volumi, per l’evidente finalità di preservazione posta alla base della tutela paesaggistica, che impedisce di mantenere nuovi ingombri in zona ove è vietata l’edificazione in assenza di autorizzazione paesaggistica.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la norma riguarda qualsiasi incremento volumetrico, finanche interrato, aggiungendosi che esulano dal concetto solo le opere aventi funzione servente e prive di funzionalità autonoma (cfr. per il comune e generale principio, benché espresso in diversa fattispecie, Cons. Stato n. 1272/2014: “integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima" e tale non può considerarsi il balcone che non si connoti per una mera funzionalità decorativa).
Nel caso in esame, si è quindi in presenza di un intervento concretatosi nella realizzazione di volumi e superfici utili prima non esistenti e che non può conseguire l’assenso per la compatibilità paesaggistica, atto necessario presupposto al rilascio del titolo edilizio in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
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... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) dell'ordinanza del Responsabile VII Settore del Comune di Ottaviano n. 64/VII prot. 22523/GEN del 24/11/2009, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente realizzate alla Via Pentelete, in difformità sostanziali dalla d.i.a. prot. 19019 del 21/11/2007; del provvedimento prot. 1006744/09 del 18/12/2009 del Dirigente del Settore provinciale del Genio Civile della Regione Campania - Area Generale di Coordinamento LL.PP., con cui è ordinata la sospensione immediata dei lavori; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in quanto lesivo;
- (quanto ai motivi aggiunti) del provvedimento del Responsabile del VII Settore del Comune di Ottaviano prot. gen. n. 2791 del 02/02/2010, recante il diniego della d.i.a. in sanatoria prot. 1089 del 15/01/2010; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in quanto lesivo.
...
2.2- Le altre censure sono principalmente accomunate dalla denuncia del deficit di istruttoria, mirando a sostenere che l’intervento non ha natura residenziale e non comporta aumento di volumetria urbanistica, per cui può conseguire l’autorizzazione paesaggistica postuma (secondo, quinto e sesto motivo).
Le affermazioni sono smentite dall’indubbia realtà dei fatti, che manifesta l’esecuzione di un complesso di nuove opere (come sopra descritte e analizzate), per le quali è esclusa la compatibilità paesaggistica, come rappresentato nel provvedimento.
La richiesta di sanatoria contrasta difatti con quanto previsto dall’art. 167, quarto comma, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004, a tenore del quale la compatibilità paesaggistica può essere accertata, sempre che "i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, (...) non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
La sanabilità postuma dell’opera sotto l’aspetto paesaggistico è dunque esclusa in presenza di nuove superfici o volumi, per l’evidente finalità di preservazione posta alla base della tutela paesaggistica, che impedisce di mantenere nuovi ingombri in zona ove è vietata l’edificazione in assenza di autorizzazione paesaggistica.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la norma riguarda qualsiasi incremento volumetrico, finanche interrato (cfr., di recente, la sentenza della Sezione del 30/08/2016 n. 4124), aggiungendosi che esulano dal concetto solo le opere aventi funzione servente e prive di funzionalità autonoma (cfr. per il comune e generale principio, benché espresso in diversa fattispecie, Cons. Stato, sez. V, 13/03/2014 n. 1272: “integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima" (Cons. St., Sez. IV, 15.01.2013, n. 223) e tale non può considerarsi il balcone che non si connoti per una mera funzionalità decorativa).
Nel caso in esame, si è quindi in presenza di un intervento concretatosi nella realizzazione di volumi e superfici utili prima non esistenti e che non può conseguire l’assenso per la compatibilità paesaggistica, atto necessario presupposto al rilascio del titolo edilizio in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
A ciò consegue l’infondatezza delle censure, essendo stato il diniego di sanatoria legittimamente adottato sulla base dell’impossibilità di rilascio del nulla osta paesaggistico in via postuma.
2.3- Quanto alla mancata indicazione delle norme urbanistiche che disciplinano la realizzazione degli interventi edilizi nella zona, occorre precisare che il diniego è adeguatamente sorretto dalla enunciata preclusione alla compatibilità paesaggistica, che assorbe ogni altra valutazione di ordine strettamente urbanistico.
Inoltre, il diniego è fondato sull’insanabilità delle opere, per cui assolve alla funzione tipica dell’accertamento di conformità (negando la sanatoria richiesta), mentre le affermazioni sulla necessità di ripristinare lo stato dei luoghi rafforzano il concetto e non comportano sviamento dalla funzione tipica.
3- Conclusivamente, alla stregua delle osservazioni che precedono, vanno respinti il ricorso e i motivi aggiunti (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.11.2016 n. 5522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto al primo aspetto, ritiene il Collegio che il proprietario di un immobile sia legittimato ad impugnare titoli edificatori da altri richiesti su beni di sua proprietà, ove ritenga che le opere autorizzate non siano conformi alla normativa urbanistica disciplinante la zona di intervento.
In tal senso, l’utilitas sperata da una decisione favorevole del giudice attiene alla conformità dell'immobile alla disciplina urbanistica vigente e, dunque, alla sua liceità sotto l'aspetto urbanistico-edilizio, non potendosi, di poi, non rilevare che il titolare del diritto dominicale ha piena facoltà di opporsi a modificazioni del bene con le quali egli non concordi.
Quanto al secondo aspetto, va qui richiamato l’ampio orientamento giurisprudenziale in forza del quale la “vicinitas”, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, costituisce criterio di per sé sufficiente a rappresentare l’interesse al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente, rilevandosi peraltro come, nel caso di specie, la ricorrente deduca la lesione delle potenzialità di utilizzazione della sua proprietà.
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... per l’annullamento, previa sospensiva dell’efficacia:
- del permesso di costruire rilasciato dal Comune di Matera in favore della controinteressata prot. n. 50987 Rif. Prot. 30433/ 49376/2014 — Prat. N. A/7/2013;
- di ogni altro titolo abilitativo, ove esistente, che consenta la realizzazione alla società contro interessata dei capannoni artigianali nell’area 2° ampliamento Paip;
- di ogni atto presupposto, conseguente, attuativo dei precedenti atti impugnati, nonché degli atti dell'istruttoria, pareri, espressioni consultive.
...
1.2. Con una seconda eccezione, formulata in termini similari da parte resistente e dalla società controinteressata, si è sostenuto che la deducente difetterebbe di interesse a ricorrere, in quanto «pur ammettendo che la sottoscrizione della convenzione di lottizzazione (ai fini attuativi del P.d.L.) costituisca presupposto indefettibile per il rilascio del permesso a costruire in oggetto, con l'individuazione e realizzazione delle opere di urbanizzazione, appare di tutta evidenza che l'interesse a ricorrere per il mantenimento e l'attuazione del Piano di Lottizzazione sarebbe evidentemente sorto sin dal momento del rilascio della prima concessione edilizia e di quelle successive, poiché già in tale momento è stata irrimediabilmente pregiudicata la possibilità di attuazione del P.d.L. nel Progetto presentato all'epoca dai privati. Peraltro, quand’anche il permesso a costruire impugnato fosse dichiarato illegittimo (e così non è) sarebbe ugualmente impossibile attuare il Piano di Lottizzazione così come approvato con D.C.C. n. 623/1997».
1.2.1. L’eccezione va disattesa. Emerge dagli atti di causa che la ricorrente è comproprietaria del lotto 17, in parte oggetto del titolo edilizio in contestazione, ed è confinante col lotto 18, pure oggetto di quest’ultimo.
Ebbene, quanto al primo aspetto, ritiene il Collegio che il proprietario di un immobile sia legittimato ad impugnare titoli edificatori da altri richiesti su beni di sua proprietà, ove ritenga che le opere autorizzate non siano conformi alla normativa urbanistica disciplinante la zona di intervento.
In tal senso, l’utilitas sperata da una decisione favorevole del giudice attiene alla conformità dell'immobile alla disciplina urbanistica vigente e, dunque, alla sua liceità sotto l'aspetto urbanistico-edilizio, non potendosi, di poi, non rilevare che il titolare del diritto dominicale ha piena facoltà di opporsi a modificazioni del bene con le quali egli non concordi (Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2015, n. 4176).
Quanto al secondo aspetto, va qui richiamato l’ampio orientamento giurisprudenziale in forza del quale la “vicinitas”, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, costituisce criterio di per sé sufficiente a rappresentare l’interesse al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente (Cons. Stato, sez. IV, 18.11.2014, n. 5662; id., 05.03.2015, n. 1116; id., 12.03.2015, n. 1315; id., 16.03.2010, n. 1535), rilevandosi peraltro come, nel caso di specie, la ricorrente deduca la lesione delle potenzialità di utilizzazione della sua proprietà (TAR Basilicata, sentenza 28.11.2016 n. 1071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La sottoscrizione della convenzione urbanistica costituisce presupposto necessario per il rilascio del permesso di costruire.
Solo dopo la stipula della convenzione di lottizzazione, infatti, si perfeziona lo strumento urbanistico attuativo, e l’area interessata riceve una disciplina urbanistica che consente di procedere all’edificazione, in concorso con la dotazione dell’area delle necessarie opere di urbanizzazione; il rilascio delle singole concessioni edilizie, infatti, è espressamente subordinato dal legislatore, ai sensi dell’art. 28, quinto comma, della legge n. 1150 del 1942, all’impegno a realizzare, contemporaneamente ai fabbricati, le opere di urbanizzazione.
In effetti, all’approvazione del piano deve seguire la stipula della convenzione di lottizzazione, che, a sua volta, costituisce il presupposto per l’autorizzazione a lottizzare da parte del Comune. Pertanto, la stipula della convenzione e la successiva trascrizione a cura del privato sono condizioni di efficacia della delibera di approvazione della lottizzazione.
In altri termini, il piano di lottizzazione convenzionata acquista efficacia non per effetto dell'approvazione del relativo progetto da parte del Consiglio comunale, ma con le successive stipulazioni e trascrizioni della convenzione.
Del resto, la convenzione di lottizzazione conclusa dalla P.A. col privato interessato al rilascio di una concessione edilizia, «non assume valenza privatistica ed autonoma rispetto all’atto autoritativo di concessione, ma si inserisce nel procedimento amministrativo finalizzato al rilascio di essa, essendo imposto dalla P.A. come momento necessario di tale procedimento e condizionando l’adozione del provvedimento».
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Come si è visto innanzi, il piano di lottizzazione non ha mai acquisito efficacia, per la mancata sottoscrizione della convenzione ad esso accessiva.
Da ciò consegue, quindi, l’applicazione dell’art. 9, n. 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, sono consentiti soltanto gli interventi previsti dalle lettere a), b), c) e d) del n. 1 dell’art. 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse, consentendo solo attività di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, ed inibendo tutti gli interventi di nuova costruzione.
In tal senso, come osservato da condivisibile giurisprudenza, con tale disposizione: «il legislatore delegato:
- ha enunciato il principio della indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale (già desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come affermato da questo Consiglio);
- ha rimarcato la rilevanza nel sistema del piano attuativo, in quanto strumento indispensabile per l'affermazione dell'ordinato assetto del territorio;
- ha reso irrilevante ogni indagine di fatto sulla sussistenza o meno 'nei pressi' o 'nella zona' delle opere di urbanizzazione, anche se, in precedenza, l’amministrazione abbia violato le previsioni dello strumento generale, rilasciando permessi di costruire in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del "piccolo" lotto intercluso, da intendere quale area di limitata estensione, circondata da edifici all'interno di un tessuto completamente edificato;
- non ha ammesso equipollenti al piano attuativo, nel senso che in sede amministrativa -per l'esame di una istanza di permesso- o in quella giurisdizionale non possono essere effettuate le indagini spettanti all'autorità competente ad approvare il medesimo piano (sulla base del relativo procedimento), in assenza delle quali il legislatore considera lesa l'assoluta esigenza che vi sia un razionale assetto del territorio».
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Nel caso di specie neppure ricorrono le condizioni cui gli arresti giurisprudenziali richiamati dalla controinteressata subordinano il rilascio del titolo edilizio.
In particolare, secondo tale ultimo indirizzo «una concessione edilizia può essere rilasciata in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore solo quando in sede istruttoria l’Amministrazione abbia accertato che il lotto del richiedente sia l'unico a non essere stato ancora edificato (vi sia già stata, cioè, una pressoché completa edificazione dell'area, come nell'ipotesi del lotto residuale ed intercluso), e si trovi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, sia anche dotata delle opere di urbanizzazione.
Pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo, in pratica, nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti».
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... per l’annullamento, previa sospensiva dell’efficacia:
- del permesso di costruire rilasciato dal Comune di Matera in favore della controinteressata prot. n. 50987 Rif. Prot. 30433/ 49376/2014 — Prat. N. A/7/2013;
- di ogni altro titolo abilitativo, ove esistente, che consenta la realizzazione alla società contro interessata dei capannoni artigianali nell’area 2° ampliamento Paip;
- di ogni atto presupposto, conseguente, attuativo dei precedenti atti impugnati, nonché degli atti dell'istruttoria, pareri, espressioni consultive.
...
2. Nel merito, il ricorso è fondato, alla stregua della motivazione che segue.
2.1. Col primo motivo, si è lamentata la realizzazione delle opere in questione su di «un’area per cui è prevista l’adozione di piano di lottizzazione senza che sia mai stata firmata la convenzione di lottizzazione, condizione, quest’ultima, di efficacia del piano», nonché l’indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale.
2.1.1. La doglianza va condivisa. Occorre subito rilevare come sia la stessa Amministrazione comunale a riconoscere la necessità di uno strumento urbanistico attuativo per il corretto e ordinato sviluppo del territorio e per l’uso più adeguato di quest’ultimo. Si legge, infatti, nella relazione allegata agli scritti difensivi di parte resistente che «la normativa di p.r.g. nel definire i parametri urbanistici ha imposto l’attuazione mediante il ricorso ad un piano particolareggiato di iniziativa pubblica o, in alternativa, ad un piano di lottizzazione convenzionata ad iniziativa privata».
2.1.2. Si legge, ancora, nella predetta relazione tecnica che «in mancanza di iniziativa dell'Amministrazione pubblica i privati proprietari delle aree interessate, così come più approfonditamente descritto nella relazione di p.d.l. (all. doc. n. 2), hanno deciso di presentare mi piano di lottizzazione convenzionato sottoscrivendo tutti gli elaborati di progetto del piano. Con deliberazione di Consiglio comunale n. 623 del 24/06/1997 l'Amministrazione comunale ha approvato il p.d.l. su indicato con il relativo schema di convenzione, ma i privati, per il completamento dell'iter procedimentale non hanno mai, di comune accordo, sollecitato la stipula della convenzione per presumibile modifica della loro volontà contrattuale».
2.1.3. E’ dunque incontroverso che nell’area di cui è questione non sono in vigore strumenti urbanistici attuativi, essendosi l’Amministrazione comunale limitata all’approvazione del piano di lottizzazione di iniziativa privata su cui si controverte. E’, altresì, incontestato che la convenzione accessiva al piano di lottizzazione approvato nel 1997 non è stata sottoscritta.
Ora, la sottoscrizione della convenzione urbanistica costituisce presupposto necessario per il rilascio del permesso di costruire. Solo dopo la stipula della convenzione di lottizzazione, infatti, si perfeziona lo strumento urbanistico attuativo, e l’area interessata riceve una disciplina urbanistica che consente di procedere all’edificazione, in concorso con la dotazione dell’area delle necessarie opere di urbanizzazione; il rilascio delle singole concessioni edilizie, infatti, è espressamente subordinato dal legislatore, ai sensi dell’art. 28, quinto comma, della legge n. 1150 del 1942, all’impegno a realizzare, contemporaneamente ai fabbricati, le opere di urbanizzazione. In effetti, all’approvazione del piano deve seguire la stipula della convenzione di lottizzazione, che, a sua volta, costituisce il presupposto per l’autorizzazione a lottizzare da parte del Comune. Pertanto, la stipula della convenzione e la successiva trascrizione a cura del privato sono condizioni di efficacia della delibera di approvazione della lottizzazione (TAR Lazio, sez. I, 04.09.2001, n. 7110).
In altri termini, il piano di lottizzazione convenzionata acquista efficacia non per effetto dell'approvazione del relativo progetto da parte del Consiglio comunale, ma con le successive stipulazioni e trascrizioni della convenzione (TAR Campania, 28.10.1997, n. 2648; TAR Lazio, Latina, 17.07.1995, n. 592; Cons. Stato, sez. IV, 06.10.1984, n. 744).
Del resto, la convenzione di lottizzazione conclusa dalla P.A. col privato interessato al rilascio di una concessione edilizia, «non assume valenza privatistica ed autonoma rispetto all’atto autoritativo di concessione, ma si inserisce nel procedimento amministrativo finalizzato al rilascio di essa, essendo imposto dalla P.A. come momento necessario di tale procedimento e condizionando l’adozione del provvedimento» (Cass. civ., SS.UU., ord. 07.02.2002, n. 1763).
2.1.4. Ne consegue che, allo stato, l’area interessata risulta sprovvista di piani particolareggiati di attuazione, in relazione ai quali rilasciare i relativi titoli edilizi.
2.1.5. L’Amministrazione resistente e la società controinteressata hanno sostenuto, a tal riguardo, che «dal punto di vista legislativo non esiste alcuna norma in materia, che obbliga l’Amministrazione comunale, all'esito dell'approvazione di un piano di lottizzazione ed in carenza della volontà dei privati alla stipula della convenzione, a coartare in maniera autoritaria gli stessi proponenti alla sottoscrizione dell'atto negoziale», invocando in tal senso quanto affermato dalla decisione del Consiglio di Stato, sez. V, n. 3217 del 21.05.2010. L’argomento, tuttavia, è inconferente, in quanto il punto centrale della questione è piuttosto quello dell’attuale disciplina urbanistica delle aree interessate, come si è visto innanzi, allo stato carente.
2.1.6. Sempre secondo parte resistente e la società controinteressata, la situazione in essere nel caso di specie, essendo ormai trascorso oltre un decennio dalla relativa approvazione, sarebbe assimilabile a quella di decadenza dei piani attuativi, nella quale sarebbe «comunque consentita la costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto della normativa edilizia di zona che resta ultrattiva a tempo indeterminato soprattutto nelle ipotesi in cui è sufficientemente determinata la disciplina di edificazione nelle sue linee fondamentali ed essenziali».
2.1.7. La tesi è, ancora una volta, inconferente, posto che, come si è visto innanzi, il piano di lottizzazione non ha mai acquisito efficacia, per la mancata sottoscrizione della convenzione ad esso accessiva. Da ciò consegue, quindi, l’applicazione dell’art. 9, n. 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, sono consentiti soltanto gli interventi previsti dalle lettere a), b), c) e d) del n. 1 dell’art. 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse, consentendo solo attività di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, ed inibendo tutti gli interventi di nuova costruzione.
In tal senso, come osservato da condivisibile giurisprudenza, con tale disposizione: «il legislatore delegato:
- ha enunciato il principio della indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale (già desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come affermato da questo Consiglio con le decisioni Sez. V, 23.03.2000, n. 1594; Sez. V, 08.07.1997, n. 772; Sez. V, 16.06.1997, n. 640; Sez. V, 30.04.1997, n. 412; Sez. V, 22.03.1995, n. 451);
- ha rimarcato la rilevanza nel sistema del piano attuativo, in quanto strumento indispensabile per l'affermazione dell'ordinato assetto del territorio (Sez. IV, 05.03.2008, n. 940; Sez. V, 03.03.2004, n. 1013; Sez. IV, 25.08.2003, n. 4812);
- ha reso irrilevante ogni indagine di fatto sulla sussistenza o meno 'nei pressi' o 'nella zona' delle opere di urbanizzazione, anche se, in precedenza, l’amministrazione abbia violato le previsioni dello strumento generale, rilasciando permessi di costruire in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del "piccolo" lotto intercluso (Sez. IV, decc. 6625 e 2674 del 2008; Sez. IV, 05.03.2008, n. 940), da intendere quale area di limitata estensione, circondata da edifici all'interno di un tessuto completamente edificato;
- non ha ammesso equipollenti al piano attuativo (Sez. IV, decc. 6625 e 2674 del 2008; Sez. IV, 08.06.2007, n. 3007), nel senso che in sede amministrativa -per l'esame di una istanza di permesso- o in quella giurisdizionale non possono essere effettuate le indagini spettanti all'autorità competente ad approvare il medesimo piano (sulla base del relativo procedimento), in assenza delle quali il legislatore considera lesa l'assoluta esigenza che vi sia un razionale assetto del territorio
» (Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2009, n. 8531).
D’altro canto, l’Amministrazione impugnata, come dimostra in fatto l’intervenuta approvazione del piano di lottizzazione, ha ritenuto di non poter prescindere dal piano attuativo. In tal senso, suscita perplessità l’aver dapprima approvato tale atto, ritenendone in tutta evidenza la necessità, anche in aderenza a specifiche previsioni dello strumento urbanistico generale, per poi affermarne la sostanziale irrilevanza.
2.1.8. Peraltro, nel caso di specie neppure ricorrono le condizioni cui gli arresti giurisprudenziali richiamati dalla controinteressata subordinano il rilascio del titolo edilizio.
In particolare, secondo tale ultimo indirizzo «una concessione edilizia può essere rilasciata in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore solo quando in sede istruttoria l’Amministrazione abbia accertato che il lotto del richiedente sia l'unico a non essere stato ancora edificato (vi sia già stata, cioè, una pressoché completa edificazione dell'area, come nell'ipotesi del lotto residuale ed intercluso), e si trovi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, sia anche dotata delle opere di urbanizzazione; pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo, in pratica, nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti (C.d.S., IV, 01.08.2007, n. 4276; IV, 21.12.2006, n. 7769; V, 03.03.2004, n. 1013)» (Cons. Stato, sez. V, 05.10.2011, n. 5450).
Ebbene, di tale compiuta attività istruttoria non è dato rinvenire alcuna traccia nell’impugnato permesso di costruire, che nulla riporta in relazione a tali profili. Né tali carenze istruttorie non possono essere superate dal riferimento, fatto nella documentazione di parte resistente, ai contenuti della «relazione tecnica della richiesta del sig. Tonta per la concessione edilizia rilasciata nell'anno 2000», o dall’elaborato peritale versato in atti da parte controinteressata.
Invero, in primo luogo il Collegio ritiene di dare continuità all’ampio orientamento che afferma l’inammissibilità della motivazione postuma del provvedimento lesivo, addotta dall’Amministrazione emanante soltanto in sede giudiziale (ex multis, TAR Basilicata, 18.01.2016, n. 30, e la giurisprudenza ivi richiamata).
Inoltre, si tratta pur sempre di atti provenienti da parti private, mentre difetta comunque l’indicazione di quella attività istruttoria mediante cui «l'Amministrazione accerti che la zona in cui si inserisce il suolo destinato alla realizzanda costruzione sia pressoché completamente edificata, tale da rendere superflua un'opera di lottizzazione» (Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2012, n. 26).
A ben vedere, anzi, l’Amministrazione comunale assume a presupposto del proprio operato proprio la vigenza del piano di lottizzazione, e la necessità di realizzare le opere urbanistiche ivi contemplate, avendo acquisito dalla società richiedente un «atto unilaterale d’impegno a rispettare comunque le previsioni di piano di lottizzazione laddove fosse stipulata apposita convenzione».
Neppure ricorre, infine, l’ulteriore presupposto costituito dall’essere, il lotto del richiedente, l’unico non edificato, posto che soltanto «la maggior parte dei lotti del piano di lottizzazione sono stati realizzati ovvero sono in corso di realizzazione». Del resto, l'interessato all’edificazione ben può stimolare, con gli strumenti consentiti dal sistema, l’approvazione del piano attuativo considerato indefettibile dallo strumento generale (Cons. Stato n. 8531 del 2009 cit.).
3. Dalle considerazioni che precedono discende l’accoglimento del ricorso, con assorbimento di ogni ulteriore censura e, per l’effetto, l’annullamento degli atti impugnati (TAR Basilicata, sentenza 28.11.2016 n. 1071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mancanza del certificato di agibilità non comporta quale necessaria ed inderogabile conseguenza l’obbligo per il Comune di adottare l’ordine di sgombero dell’immobile.
In tale materia è opportuno distinguere tra la mancanza dell’agibilità, e la mancanza del certificato di agibilità, che operano su piani diversi, sostanziale l’uno, e formale l’altro.
L’ordinanza di sgombero si giustifica senz’altro, ai sensi dell’art. 222, del RD 27.07.1934, n. 1265, per la mancanza dei requisiti sostanziali prescritti dalle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità ed igiene, e prescinde dalla presenza o meno del certificato, che ha la funzione solo di attestare il possesso di tali requisiti, ma che, anche se presente, non è ostativo all’adozione di un’ordinanza di sgombero come chiarito dall’art. 26 del DPR 06.06.2001, n. 280, secondo il quale “il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l’esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell’articolo 222 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265”.
Va pertanto valutato quando la mancanza del certificato è dovuta a motivi formali o quando è dovuta alla carenza sostanziale dei requisiti di agibilità, perché solo nel secondo caso è sempre giustificata un’ordinanza di sgombero.
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Nella fattispecie, non vi è alcuna contestazione circa la mancanza dei requisiti sostanziali di agibilità dell’immobile, ma è contestato quale unico elemento ostativo al rilascio del certificato la previsione dello strumento urbanistico che lo subordina al recupero della torre colombara che non è stato ancora effettuato dai ricorrenti.
Ritiene il Collegio che fino a che sarà vigente tale previsione dello strumento urbanistico non possa effettivamente essere legittimamente rilasciato il certificato di agibilità, ma che al contempo, nel caso di occupazione dell’immobile legittimamente costruito in conformità a quanto previsto dal piano regolatore, nel caso di specie ciò non giustifichi di per sé l’adozione di un’ordinanza di sgombero in presenza dei presupposti sostanziali di agibilità.
Deve infatti essere considerato che allo stato attuale non vi è una norma che disciplini espressamente le conseguenze della mancanza, sul piano formale, del certificato di agibilità, posto che l’art. 221, secondo comma, del regio decreto 27.07.1934, n. 1265, che puniva con una sanzione pecuniaria il mancato possesso del certificato, è stato abrogato a decorrere dal 30.06.2003, dall’articolo 136, comma 2, lettera a), del DPR 06.06.2001, n. 380, senza essere sostituito da una norma dello stesso tenore (l’art. 24, comma 3, del DPR 06.06.2001, n. 380, sanziona la mancata presentazione dell’istanza), ed anche il primo comma, il quale dispone che gli edifici o le parti di essi di nuova costruzione non possono essere abitati senza la previa autorizzazione dell'Autorità comunale, a giudizio del Collegio, deve essere interpretato tenendo conto della finalità che gli è propria di tutela, in senso sostanziale, della salute e dell'incolumità della collettività.
Ne discende che nel caso di specie il Comune non può ordinare lo sgombero dell’abitazione in presenza dei presupposti sostanziali di agibilità, perché le peculiarità della fattispecie la fanno ritenere maggiormente assimilabile a quegli edifici privi di certificato già esistenti alla data di entrata in vigore del DPR 06.06.2001, n. 380, per i quali non siano state eseguite le tipologie di interventi edilizi indicate all’art. 24, comma 2, che comportano l’obbligo di acquisire il certificato, o a quegli edifici per i quali, pur essendo obbligatorio il possesso del certificato, questo manchi per inerzia degli interessati, che non lo hanno chiesto, o per il diniego del Comune motivato con riferimento ad incompletezze di carattere istruttorio, ma che in ogni caso sono in possesso dei requisiti sostanziali di agibilità; poiché si tratta, in questi casi, di ipotesi regolarizzabili sul piano formale, un’ordinanza di sgombero risulterebbe non giustificata.
E’ evidente che in tal modo il Comune rimane privo di un efficace strumento per ottenere dai ricorrenti l’adempimento dell’obbligo di recuperare la torre colombara previsto dallo strumento urbanistico, che è l’interesse primario dallo stesso perseguito con l’adozione della variante al piano regolatore, ma tale conseguenza è addebitabile alla condotta non sufficientemente prudente della stessa Amministrazione comunale che non ha predisposto gli strumenti giuridici necessari da utilizzare in caso di inadempimento, omettendo di trasfondere la previsione dello strumento urbanistico in un atto convenzionale di cui poter chiedere eventualmente l’adempimento, omettendo di prevedere una penale o una polizza fiudeiussoria a garanzia dell’adempimento, ritenendo successivamente di poter sostituire lo stesso divieto di rilascio del certificato previsto dallo strumento urbanistico mediante la previsione di una polizza fideiussoria che non è stata stipulata dai ricorrenti, ed infine lasciando trascorrere diversi anni tollerando di fatto sia l’inadempimento che l’utilizzo dell’immobile, con la conseguenza che non appare legittimo ora ovviare a tali mancanze utilizzando l’ordine di sgombero dell’immobile e di rimozione dei collegamenti dei servizi pubblici alla rete come una sanzione indiretta di carattere afflittivo volta a perseguire non la mancanza dei requisiti sostanziali di agibilità, ma l’inadempimento di un obbligo.
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Conseguentemente, deve essere annullata l’ordinanza di sgombero e deve essere annullata anche l’ordinanza che ha disposto la rimozione dei collegamenti, perché è motivata con riferimento al DM 22.01.2008, n. 37, che prevede che l’agibilità venga rilasciata sulla base della dichiarazione di conformità degli impianti resa dall’impresa installatrice, e con riferimento all’art. 48 del DPR 06.06.2001, n. 380, che ha uno specifico ambito di applicazione riferito alle aziende erogatrici dei servizi pubblici ponendo obblighi sulle stesse, atteso che si tratta di norme che non prevedono un potere in capo al Comune di ordinare la rimozione dei collegamenti.
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FATTO
I ricorrenti con concessione edilizia n. 01P14441 prot. n. 17310 del 30.08.2001, hanno ottenuto dal Comune la possibilità di realizzare in zona agricola un edificio unifamiliare di circa 600 mc.
Tale facoltà edificatoria è stata ammessa dal piano regolatore mediante un’apposita previsione nella quale era previsto un intervento unitario che comprendeva anche il necessario recupero di un’antica torre colombara denominata “Lettra”, con l’indicazione che “il rilascio del certificato di abitabilità per i nuovi volumi è subordinato alla verifica da parte degli uffici comunali, dell’avvenuto recupero e risanamento degli antichi edifici”.
I ricorrenti hanno realizzato la nuova unità abitativa, per la quale hanno chiesto il rilascio del certificato di abitabilità in data 29.12.2003, e non hanno realizzato il recupero della torre colombara.
In merito alla richiesta di rilascio del certificato di agibilità il Comune con nota prot. n. 1306 del 21.01.2004, pervenuta ai ricorrenti il 23.01.2004, ha dapprima chiesto delle integrazioni documentali relativamente al nulla osta del gestore del servizio idrico integrato per l’allaccio al sistema fognario e alla regolarità dell’impianto radiotelevisivo, che sono state fornite dai ricorrenti il 04.02.2004.
Infine il Comune, con provvedimento prot. n. 3029 del 12.02.2004, ha comunicato di non poter rilasciare il certificato di agibilità in quanto non risultava ottemperata la prescrizione contenuta nello strumento urbanistico che subordinava il rilascio del certificato all’avvenuto recupero e risanamento della torre colombara Lettra.
I ricorrenti con istanza del 16.02.2004, hanno nuovamente chiesto il rilascio del certificato di agibilità, rappresentando delle ragioni di urgenza e dichiarandosi disponibili a sottoscrivere una polizza fideiussoria a garanzia del completamento dei lavori della torre colombara.
Il Comune con nota prot. n. 4584 del 04.03.2004, ha accolto quest’istanza assegnando un termine di due anni per il completamento dei lavori e disponendo la necessità di una polizza fideiussoria per l’importo di € 100.000,00, da riscuotere in caso di inadempimento.
Tali impegni tuttavia non hanno avuto seguito.
A distanza di alcuni anni, a seguito di un sopralluogo svolto il 22.02.2010, il Comune ha accertato che l’edificio risultava utilizzato come abitazione.
Con ordinanze nn. 67 e 68 del 23.03.2010, ha ordinato di rimuovere gli allacciamenti e di sgomberare i locali per la mancanza del certificato di agibilità.
Con il ricorso in epigrafe tali ordinanze, unitamente al diniego di rilascio dell’agibilità, sono impugnate per le seguenti censure:
   I) violazione dell’art. 4 del DPR 22.04.1994, n. 425, nonché degli artt. 221 e 222 del RD 27.07.1934, n. 1265, nonché dell’art. 26 del DPR 06.06.2001, n. 380, travisamento e difetto di motivazione perché il Comune non ha tenuto conto che il certificato di agibilità deve ritenersi rilasciato per silenzio assenso, in quanto sono decorsi i termini di legge tra la data di presentazione dell’istanza ed il diniego, e comunque perché il Comune non può negare il rilascio del certificato in presenza dei requisiti di agibilità;
   II) violazione degli artt. 24, 25 e 26 del DPR 06.06.2001, n. 380, nonché degli artt. 221 e 222 del RD 27.07.1934, n. 1265, difetto di motivazione e carenza di istruttoria perché lo sgombero può essere disposto solo per la carenza dei requisiti sostanziali di igiene, salubrità e sicurezza che nel caso all’esame sussistono;
   III) erronea applicazione dell’art. 24 del DPR 06.06.2001, n. 380, e dell’art. 222 del RD 27.07.1934, n. 1265, difetto di istruttoria e travisamento perché lo sgombero dell’edificio non può essere impropriamente utilizzato per una finalità sanzionatoria;
   IV) sviamento, difetto di motivazione e difetto di presupposto perché l’ordine non è rivolto a tutti gli occupanti dell’immobile, ma solo all’intestatario del titolo edilizio;
   V) difetto di motivazione e violazione del principio dell’affidamento per il lunghissimo lasso di tempo intercorso e per la circostanza che, a seguito di un precedente sopralluogo del 2007, l’Amministrazione non ha assunto alcun provvedimento;
   VI) contraddittorietà, perché l’Amministrazione successivamente al diniego del certificato di agibilità ha manifestato la disponibilità a rilasciarlo;
   VII) difetto di istruttoria e di motivazione perché non risulta svolto un accertamento circa l’avvenuto recupero o meno della torre colombara;
   VII) travisamento, contraddittorietà, perplessità e carenza di istruttoria perché dal verbale del sopralluogo del 2010, non emerge con chiarezza né se la situazione sia o meno cambiata rispetto al sopralluogo del 2007, né se l’edificio sia effettivamente abitato, in quanto risulta solo che la taverna è occupata;
   IX) violazione, relativamente all’ordinanza che ha disposto il distacco dei collegamenti, dell’art. 48 del DPR 06.06.2001, n. 380, e dell’art. 9 del DM 22.01.2008, n. 37, perché tali norme non ammettono l’adozione di un ordine di sgombero, ma adempimenti a carico di soggetti diversi dal Comune;
   X) violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241, perché, ove si ammetta che il certificato di agibilità si è formato per silenzio assenso, l’atto impugnato deve essere qualificato come un provvedimento in autotutela, adottato in mancanza della previa acquisizione dell’apporto procedimentale dell’interessato.
Si è costituito in giudizio il comune di Malo concludendo per la reiezione del ricorso.
Con ordinanza n. 426 del 01.07.2010, è stata accolta la domanda cautelare.
Alla pubblica udienza del 26.10.2016, in prossimità della quale le parti hanno depositato memorie a sostegno delle proprie difese, la causa è stata trattenuta in decisone.
DIRITTO
1. Preliminarmente deve essere dichiarata l’irricevibilità delle censure contenute nell’ambito del primo motivo volte a contestare il provvedimento prot. n. 3029 del 12.02.2004, con il quale è stato negato il rilascio del certificato di agibilità, perché proposte tardivamente per la prima volta a distanza di anni con il ricorso in epigrafe.
Le censure contenute nel primo motivo e nel decimo motivo, con le quali i ricorrenti sostengono che il certificato di agibilità deve ritenersi rilasciato per silenzio-assenso, sono infondate e devono essere respinte.
Infatti, come è chiarito dalla documentazione versata in atti, il termine per la formazione del silenzio-assenso è stato interrotto a seguito della richiesta di integrazione documentale effettuata con nota prot. n. 1306 del 21.01.2004, pervenuta ai ricorrenti il 23.01.2004, e alla quale gli stessi hanno risposto il 04.02.2004, e ciò impedisce il decorso del termine necessario per la formazione del silenzio-assenso.
2. Tenuto conto dell’assoluta peculiarità della fattispecie all’esame, si rivelano fondate le assorbenti censure di cui al secondo, terzo e nono motivo.
I provvedimenti del Comune muovono dal presupposto secondo il quale la mancanza del certificato di agibilità comporta quale necessaria ed inderogabile conseguenza l’obbligo per il Comune di adottare l’ordine di sgombero dell’immobile.
Tale premessa non può essere condivisa e la giurisprudenza alla quale si richiama il Comune nelle memorie e in sede di trattazione orale è inconferente, perché riguarda fattispecie nelle quali era impugnato il diniego di rilascio del certificato di agibilità e non, come nel caso all’esame, un’ordinanza di sgombero di un’abitazione, o fattispecie nelle quali gli obblighi assunti dal privato il cui adempimento era condizione per il rilascio del certificato di agibilità, erano stati assunti nell’ambito di una convenzione che invece nel caso all’esame non è stata stipulata, o ancora fattispecie nelle quali la mancanza del certificato di agibilità si accompagnava alla carenza dei requisiti sostanziali per il suo rilascio, che nel caso all’esame non sono contestati dal Comune.
Come dedotto nel ricorso, in tale materia è opportuno distinguere tra la mancanza dell’agibilità, e la mancanza del certificato di agibilità, che operano su piani diversi, sostanziale l’uno, e formale l’altro (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 18.01.2011, n. 275).
L’ordinanza di sgombero si giustifica senz’altro, ai sensi dell’art. 222, del RD 27.07.1934, n. 1265, per la mancanza dei requisiti sostanziali prescritti dalle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità ed igiene, e prescinde dalla presenza o meno del certificato, che ha la funzione solo di attestare il possesso di tali requisiti, ma che, anche se presente, non è ostativo all’adozione di un’ordinanza di sgombero come chiarito dall’art. 26 del DPR 06.06.2001, n. 280, secondo il quale “il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l’esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell’articolo 222 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265”.
Va pertanto valutato quando la mancanza del certificato è dovuta a motivi formali o quando è dovuta alla carenza sostanziale dei requisiti di agibilità, perché solo nel secondo caso è sempre giustificata un’ordinanza di sgombero.
La peculiarità della controversia all’esame è dovuta alla circostanza che non vi è alcuna contestazione circa la mancanza dei requisiti sostanziali di agibilità dell’immobile, ma è contestato quale unico elemento ostativo al rilascio del certificato la previsione dello strumento urbanistico che lo subordina al recupero della torre colombara che non è stato ancora effettuato dai ricorrenti.
Ritiene il Collegio che fino a che sarà vigente tale previsione dello strumento urbanistico non possa effettivamente essere legittimamente rilasciato il certificato di agibilità, ma che al contempo, nel caso di occupazione dell’immobile legittimamente costruito in conformità a quanto previsto dal piano regolatore, nel caso di specie ciò non giustifichi di per sé l’adozione di un’ordinanza di sgombero in presenza dei presupposti sostanziali di agibilità.
Deve infatti essere considerato che allo stato attuale non vi è una norma che disciplini espressamente le conseguenze della mancanza, sul piano formale, del certificato di agibilità, posto che l’art. 221, secondo comma, del regio decreto 27.07.1934, n. 1265, che puniva con una sanzione pecuniaria il mancato possesso del certificato, è stato abrogato a decorrere dal 30.06.2003, dall’articolo 136, comma 2, lettera a), del DPR 06.06.2001, n. 380, senza essere sostituito da una norma dello stesso tenore (l’art. 24, comma 3, del DPR 06.06.2001, n. 380, sanziona la mancata presentazione dell’istanza), ed anche il primo comma, il quale dispone che gli edifici o le parti di essi di nuova costruzione non possono essere abitati senza la previa autorizzazione dell'Autorità comunale, a giudizio del Collegio, deve essere interpretato tenendo conto della finalità che gli è propria di tutela, in senso sostanziale, della salute e dell'incolumità della collettività.
Ne discende che nel caso di specie il Comune non può ordinare lo sgombero dell’abitazione in presenza dei presupposti sostanziali di agibilità, perché le peculiarità della fattispecie la fanno ritenere maggiormente assimilabile a quegli edifici privi di certificato già esistenti alla data di entrata in vigore del DPR 06.06.2001, n. 380, per i quali non siano state eseguite le tipologie di interventi edilizi indicate all’art. 24, comma 2, che comportano l’obbligo di acquisire il certificato, o a quegli edifici per i quali, pur essendo obbligatorio il possesso del certificato, questo manchi per inerzia degli interessati, che non lo hanno chiesto, o per il diniego del Comune motivato con riferimento ad incompletezze di carattere istruttorio, ma che in ogni caso sono in possesso dei requisiti sostanziali di agibilità; poiché si tratta, in questi casi, di ipotesi regolarizzabili sul piano formale, un’ordinanza di sgombero risulterebbe non giustificata.
E’ evidente che in tal modo il Comune rimane privo di un efficace strumento per ottenere dai ricorrenti l’adempimento dell’obbligo di recuperare la torre colombara previsto dallo strumento urbanistico, che è l’interesse primario dallo stesso perseguito con l’adozione della variante al piano regolatore, ma tale conseguenza è addebitabile alla condotta non sufficientemente prudente della stessa Amministrazione comunale che non ha predisposto gli strumenti giuridici necessari da utilizzare in caso di inadempimento, omettendo di trasfondere la previsione dello strumento urbanistico in un atto convenzionale di cui poter chiedere eventualmente l’adempimento, omettendo di prevedere una penale o una polizza fiudeiussoria a garanzia dell’adempimento, ritenendo successivamente di poter sostituire lo stesso divieto di rilascio del certificato previsto dallo strumento urbanistico mediante la previsione di una polizza fideiussoria che non è stata stipulata dai ricorrenti, ed infine lasciando trascorrere diversi anni tollerando di fatto sia l’inadempimento che l’utilizzo dell’immobile, con la conseguenza che non appare legittimo ora ovviare a tali mancanze utilizzando l’ordine di sgombero dell’immobile e di rimozione dei collegamenti dei servizi pubblici alla rete come una sanzione indiretta di carattere afflittivo volta a perseguire non la mancanza dei requisiti sostanziali di agibilità, ma l’inadempimento di un obbligo.
Ne consegue che per le censure di cui al secondo e terzo motivo del ricorso, che hanno carattere assorbente, deve essere annullata l’ordinanza di sgombero e, in accoglimento del nono motivo, deve essere annullata anche l’ordinanza che ha disposto la rimozione dei collegamenti, perché è motivata con riferimento al DM 22.01.2008, n. 37, che prevede che l’agibilità venga rilasciata sulla base della dichiarazione di conformità degli impianti resa dall’impresa installatrice, e con riferimento all’art. 48 del DPR 06.06.2001, n. 380, che ha uno specifico ambito di applicazione riferito alle aziende erogatrici dei servizi pubblici ponendo obblighi sulle stesse, atteso che si tratta di norme che non prevedono un potere in capo al Comune di ordinare la rimozione dei collegamenti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.11.2016 n. 1299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer le serre, se con determinate caratteristiche (ad esempio, estesa pavimentazione e con ambiente chiuso e destinato a perdurare nel tempo), è necessario il permesso di costruire.
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5. Il ricorso è fondato e deve accogliersi, e il provvedimento impugnato deve annullarsi con rinvio al tribunale di Torre Annunziata, per nuovo esame.
Il ricorrente è stato condannato con la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata del 23.01.2006, che disponeva anche la demolizione delle opere e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, per il reato di cui alla lettera c) dell'art. 20 legge n. 47 del 1985 e art. 81 cod. pen. per avere in esecuzione del medesimo disegno criminoso, iniziato, continuato ed eseguito, in assenza della concessione edilizia in area e/o su bene soggetto a tutela ex art. 139-146 d.lgs. 490 /1999 le seguenti opere: struttura metallica composta da profilati e tubolari con tipologia a tunnel occupante una superficie di mq 2300 allo stato prive di copertura e tamponamenti (capo A dell'imputazione).
Dalla descrizione dell'opera contenuta nell'imputazione emerge che si tratta di un impianto-serra, di discrete dimensioni, ma senza opere murarie (struttura metallica composta da profilati e tubolari con tipologia a tunnel). L'accertamento della presenza o no di opere murarie è accertamento di merito, che però risulta del tutto assente nell'ordinanza impugnata. L'accertamento risulta, invece, essenziale e determinante per la valutazione della possibilità di sanatoria con D.I.A. -già presentata dal ricorrente-, e quindi della revoca o no dell'ordine di demolizione.
In tema di reati edilizi, il giudice dell'esecuzione investito della richiesta di revoca o di sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 in conseguenza della presentazione di una istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è tenuto a esaminare i possibili esiti ed i tempi di conclusione del procedimento amministrativo e, in particolare:
   a) il prevedibile risultato dell'istanza e la sussistenza di eventuali cause ostative al suo accoglimento;
   b) la durata necessaria per la definizione della procedura, che può determinare la sospensione dell'esecuzione solo nel caso di un suo rapido esaurimento
(Sez. 3, n. 47263 del 25/09/2014 - dep. 17/11/2014, Russo, Rv. 261212; Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016, Manna, Rv. 266763).
5.1.
Questa Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che per le serre, se con determinate caratteristiche (ad esempio, estesa pavimentazione e con ambiente chiuso e destinato a perdurare nel tempo), è necessario il permesso di costruire, vedi Cassazione Sez. 3, n. 37139 del 10/04/2013 - dep. 10/09/2013, Di Benedetto, Rv. 257679, e Sez. 3, n. 36594 del 17/05/2012 - dep. 21/09/2012, Giuffrida, Rv. 253572.
Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (come modificato dal d.l. 25.03.2010, n. 40) "le serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell'attività agricola" possono eseguirsi senza alcun titolo abilitativo.
E' necessaria quindi una valutazione di merito, non compiuta dal provvedimento impugnato, sulla natura della serra in oggetto; ovvero se la stessa sia o no con opere murarie rilevanti, in relazione alla citata disposizione (art. 6, d.P.R. 380/2001).
Sul punto, è opportuno ricordare anche la normativa regionale della Campania, che espressamente disciplina la costruzione delle serre (leggi regionali 24.03.1995, n. 8, 21.03.1996, n. 7, 22.11.2010, n. 13, 18.12.2012, n. 33 e 06.05.2013, n. 5; vedi anche regolamento di attuazione delle norme per la realizzazione di impianti serricoli funzionali allo sviluppo delle attività agricole, del 06.12.2013, n. 8; e la legge regionale n. 19 del 2001).
In particolare la legge regionale n. 8 del 24.03.1995, all'art. 3, prevede: "1. Nella realizzazione degli impianti serricoli, di cui alla presente legge, è vietato il ricorso ad opere murarie eccedenti il piano di campagna o l'utilizzazione di pannelli prefabbricati che richiedono, per il relativo assemblaggio, l'esecuzione di opere murarie ovvero di altre tecniche di posa in opera che non ne consentono l'immediato e semplice smontaggio. Sono consentite solo opere murarie, non continue, entroterra strettamente necessarie all'ancoraggio dei detti impianti.
2. Le chiusure laterali degli impianti serricoli, così come la copertura, devono essere realizzate con materiali che consentono, dall'esterno, la visione ed il controllo delle colture. Sono, comunque, vietate soluzioni compositive compatte suscettibili, anche in assenza di opere, di mutamento di destinazione d'uso, ovvero soluzioni che richiedono, all'atto della dismissione dell'impianto, attività di demolizione e non di semplice smontaggio
".
Per queste opere non necessita la concessione ma è sufficiente la D.I.A., vedi legge Regione Campania n. 19 del 2001, art. 2, comma 1, lettera G: "Possono essere realizzati in base a semplice denuncia di inizio attività: ... g) la realizzazione di impianti serricoli funzionali allo sviluppo delle attività agricole, di cui alla legge regionale 24.03.1995, n. 8".
L'analisi della normativa nazionale, art. 6 comma 1, lettera e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (come modificato dal d.l. 25.03.2010 n. 40), e della normativa regionale, nei limiti della rilevanza penale di quest'ultima (vedi Cassazione Sez. 3, n. 8086 del 26/01/2011 - dep. 02/03/2011, Lin, Rv. 249540, per la legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12; vedi anche Sez. 3, n. 1428 del 05/05/1994 - dep. 21/06/1994, Menietti, Rv. 198174, per la legge 15.06.1978, n. 14 della Regione Val d'Aosta), non risulta compiuta nell'ordinanza impugnata, che deve annullarsi quindi con rinvio per analisi sul punto -trattandosi anche di accertamenti di fatto, non compatibili con il giudizio di legittimità- (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.11.2016 n. 49602).

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia e necessità del permesso di costruire.
Non rientrando la tettoia nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, e costituendo dunque parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata, per la edificazione della stessa è necessario il permesso a costruire.
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3. Il ricorso, come proposto, e fatto salvo quanto oltre, è manifestamente infondato.
Quanto in primo luogo alla pretesa sufficienza, quale titolo abilitativo alla realizzazione del manufatto, della d.i.a., va infatti ribadito che, non rientrando la tettoia nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, e costituendo dunque parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata, per la edificazione della stessa è necessario il permesso a costruire (tra le altre, da ultimo, Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro e altro, Rv. 257290); e ciò tanto più considerando che la sentenza impugnata ha posto in evidenza che il manufatto cui tale tettoia accedeva era già ab origine abusivo. Né, già solo in ragione di tale ultimo dato, può farsi alcuna seria questione di buona fede del ricorrente in (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.11.2016 n. 48300 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'Anac non ha il potere di dichiarare la nullità di un incarico ritenuto inconferibile.
Nessuna disposizione, tanto della legge delega n. 190/2012 quanto del d.lgs. n. 39/2013, attribuisce all'Anac il potere di ordinare ai soggetti vigilati dall'Autorità l'adozione di determinati atti in relazione al conferimento di incarichi e, soprattutto, di predeterminarne il contenuto.
Il principio di legalità dell'azione amministrativa, di rilevanza costituzionale (artt. 1, 23, 97 e 113 Cost.), impone che sia la legge a individuare lo scopo pubblico da perseguire e i presupposti essenziali, di ordine procedimentale e sostanziale, per l'esercizio in concreto dell'attività amministrativa.
Ne discende che il contenuto dei poteri spettanti all'Autorità nell'ambito dei procedimenti per il conferimento di incarichi va ricercato, quanto meno per i suoi profili essenziali, nel dato normativo primario, non essendo consentito il ricorso ad atti regolatori diversi, quali le linee guida o altri strumenti di cd. soft law, per prevedere l'esercizio di poteri nuovi e ulteriori, non immediatamente percepibili dall'analisi della fonte legislativa.
L'art. 16 del d.lgs. n. 39/2013 attribuisce all'Anac un potere di vigilanza sul rispetto delle disposizioni del decreto. La norma delinea chiaramente il ruolo e i compiti dell'Anac in materia di inconferibilità di incarichi e li descrive nei termini dell'esercizio di un generale potere di vigilanza, rafforzato attraverso il riconoscimento di forme di dissuasione e di indirizzo dell'ente vigilato, che possono financo condurre alla sospensione di un procedimento di conferimento ancora in fieri ma che non possono comunque mai portare alla sostituzione delle proprie determinazioni a quelle che solo l'ente vigilato è competente ad assumere.
Pertanto, solo ed esclusivamente ai Responsabili Prevenzione Corruzione (RPC) dell'ente, e non anche all'Anac, spetta il potere di dichiarare la nullità di un incarico ritenuto inconferibile ed assumere le conseguenti determinazioni (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 14.11.2016 n. 11270 - tratto da www.documentazione.ancitel.it).

APPALTI SERVIZI: In house: obbligo di dismissione se non sussiste possibilità di indirizzo verso finalità di interesse pubblico.
Il discrimine posto per dar corso all'obbligo di dismissioni di cui all'art. 3, c. 27, l. n. 244 del 2007, è non tanto l'oggetto sociale, quanto l'entità concreta della partecipazione o dei particolari poteri e diritti, vale a dire la capacità per l'ente di assicurarsi un'incidenza determinante sul governo della società partecipata: in particolare se questa partecipazione -eventualmente insieme o in alternativa a speciali diritti di socio o riserve di amministratore, ovvero a particolari rapporti contrattuali tra la società e l'amministrazione pubblica partecipante -sia tale da consentire all'ente pubblico di governare verso quei fini la società partecipata o meglio la sua attività, in ipotesi anche sulla base di caratterizzazioni esterne di matrice pubblicistica e derogatorie degli ordinari dispositivi di funzionamento propri del modello societario definito dal Codice civile.
Laddove questo governo non sia possibile, la partecipazione dell'ente pubblico assume nei fatti le incongrue ed elusive caratteristiche di un mero sostegno finanziario a un'attività di impresa, che si realizza attraverso la sottoscrizione di parte del capitale ma che non si accompagna alla possibilità di indirizzarla verso finalità di interesse pubblico. Viene meno, dunque, la ragion d'essere di quella stessa partecipazione, che resta del tutto passiva.
In questo caso la partecipazione assume dunque le caratteristiche effettive di un investimento con scopo di lucro, che norme quali l'art. 3, c. 27, l. n. 244 del 2007 hanno ormai inteso contrastare. L'evoluzione dei criteri che connotano lo schema dell'affidamento in house -ma anche la configurazione statutaria o legale, della riserva di speciali poteri pubblici per ragioni di interesse pubblico (c.d. golden share)- segna al fondo questa linea di definizione dei rapporti propri di un ente pubblico in partecipazione societaria.
Nella complessità di queste combinazioni tra forme giuridiche eterogenee e di originaria diversa finalità, al centro sta il tema dell'ampiezza delle deroghe per esigenze pubblicistiche alle forme di controllo societario di diritto comune.
La complessità della tematica indica comunque che per un'autorità amministrativa ciò che rileva e che giustifica una sua partecipazione al capitale di una società è la funzionalizzazione dello strumento societario alle proprie ragioni d'ufficio: sicché ciò che conta è soprattutto il tipo di indirizzo o di influenza che sulla società l'ente pubblico può davvero esercitare per assicurarne l'irrinunziabile coerenza con le proprie finalità istituzionali (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2016 n. 4688 - tratto da www.documentazione.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO: Deve risarcire i danni causati ai vicini, insieme all’impresa di costruzione, chi ristruttura la casa senza affidare al direttore dei lavori abilitato la direzione delle opere che invece segue personalmente.
Se hai intenzione di fare lavori in casa e, per risparmiare sui costi, non nomini un direttore dei lavori che –in quanto professionista abilitato, controlli l’esecuzione delle opere con assunzione di responsabilità a proprio carico– rischi grosso: infatti, in caso di danni provocati ai vicini dovrà risponderne con i propri soldi insieme alla ditta di costruzioni.
È quanto chiarito dalla Cassazione con una sentenza pubblicata ieri
[1].
Lavori edili anche senza direttori dei lavori.
È possibile eseguire lavori in casa senza nominare un direttore dei lavori, ma solo se si tratta di interventi di modesta portata: in questo caso, il proprietario dell’immobile, se esperto in materia, potrà seguire personalmente la ditta che effettua le opere. Ma egli deve sapere che, nel caso in cui qualcosa vada storto e vengano commessi degli errori, con conseguenti danni alle proprietà confinanti, a risponderne sarà egli stesso, in solido con la ditta edile.
«In solido» significa che il soggetto danneggiato potrà chiedere il pagamento dell’intero indennizzo all’uno o, indifferentemente, all’altro.
Nel caso invece di interventi edili di portata più ampia, intervenendo su strutture o con utilizzo del cemento armato, le norme edilizie impongono la nomina di un direttore dei lavori, figura necessaria insieme a quella del progettista e del professionista che segue i calcoli.
Può quindi costare caro eseguire lavori edili senza un direttore dei lavori, cioè senza un professionista abilitato che segua l’impresa man mano che procede l’esecuzione dell’opera data in appalto. Una scelta di tale tipo, infatti, se può portare a un risparmio sui costi, dall’altro lato però accresce le responsabilità del committente per i lavori affidati direttamente all’impresa, confidando nelle capacità di quest’ultima. Infatti, l’intera responsabilità della corretta esecuzione dell’opera non ricade solo sull’impresa appaltatrice, ma anche sul proprietario dell’immobile.
Secondo la sentenza in commento, in caso di mancata nomina del direttore dei lavori si desume che i lavori stessi siano stati eseguiti sotto la direzione e responsabilità diretta e concorrente dello stesso committente (ossia il proprietario dell’appartamento, del terreno, dell’immobile). Con la conseguenza –di non poco conto– che tutti i danni causati ai vicini di casa per via degli errori esecutivi saranno quindi risarciti sia dall’impresa edile che dal committente.
Diverso il caso in cui il proprietario di casa nomini sì un direttore dei lavori, ma questo sia privo di sufficienti competenze per controllare in dettaglio la correttezza dell’esecuzione dell’opera: in tal caso, anche se il direttore diventa solo un “parafulmine”, al solo scopo di eludere le norme sulla sicurezza e sulla responsabilità, resta ugualmente responsabile.
Secondo infatti la Cassazione
[2], il direttore dei lavori deve garantire al committente di possedere tutte le competenze necessarie a controllare la corretta esecuzione delle opere da parte dell’appaltatore e dei suoi ausiliari; diversamente, è tenuto ad astenersi dall’accettare l’incarico o a delimitare, sin dall’origine, le prestazioni promesse. Pertanto il direttore incapace è responsabile nei confronti del committente se non rileva in corso d’opera l’inadeguatezza delle opere strutturali, sebbene affidate ad altro professionista, salvo che dimostri che i vizi potevano essere verificati solo a costruzione ultimata.
In parole povere, anche un tecnico che non è in grado di progettare è responsabile se non è in grado di controllare.
La Cassazione ha chiarito che compito del direttore dei lavori è di individuare la perfetta corrispondenza delle opere al progetto e che l’addebito assegnato dalla corte territoriale mette in evidenza proprio condotte imperfette rispetto all’attività professionale di controllo di conformità al progetto.
Il responsabile dei lavori, è persona di fiducia del committente, ha il compito di sorvegliare i lavori, di garantire che le opere vengano eseguite in conformità al progetto con potere/dovere di intervento tempestivo con ordine di sospensione dei lavori ove rilevi delle difformità (11.11.2016 - commento tratto da www.laleggepertutti.it).
...
[1] Cass. sent. n. 22884 del 10.11.2016.
[2] Cass. sent. n. 7370/2015
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MASSIMA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Ga.Ma. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova Co. e Al.Ga. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti dall'appartamento di sua proprietà sito in Genova-Nervi, consistititi in lesioni murarie, a causa dei lavori di ristrutturazione eseguiti nell'appartamento sottostante dai convenuti senza l'adozione delle necessarie adeguate cautele.
Si costituirono i Ga. contestando la domanda e chiedendo e ottenendo di chiamare in causa in manleva l'impresa Ni., appaltatrice dei lavori. Questa, costituitasi in giudizio, dedusse di aver eseguito i lavori sotto la direzione dei tecnici preposti dai committenti.
Il Tribunale rigettò la domanda proposta nei confronti dei Ga. e condannò l'impresa Ni. al risarcimento dei danni patiti dalla Ma., stimati in € 16.010,16.
La sentenza venne appellata dalla Ma., la quale chiese la condanna dei Ga., in solido con l'impresa appaltatrice, al risarcimento dei danni, da quantificarsi in misura superiore a quella stimata dal Tribunale.
La Corte d'appello di Genova, con sentenza del 09.12.2011, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha riconosciuto la concorrente responsabilità dei committenti, condannandoli in solido con l'impresa Ni. al risarcimento dei danni, nella misura stimata dal primo giudice.
Ha dichiarato inammissibile la domanda di manleva proposta dai Ga. nei confronti dell'impresa appaltatrice. Le spese del doppio grado di giudizio venivano poste per i due terzi a carico degli appellati, con compensazione del residuo terzo.
Avverso la suddetta decisione Co. e Al.Ga. propongono ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi ed illustrato da memoria.
Resiste con controricorso Ga.Ma..
L'impresa Ni. non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
...
2. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 132 n. 4 c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. e all'art. 111, comma 6, Costituzione.
I ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere affermato la
responsabilità dei committenti in solido con l'impresa appaltatrice, avendo essi "affidato all'appaltatore l'esecuzione di interventi di natura strutturale senza disporre di un progetto e senza nemmeno affidare ad un professionista abilitato la direzione dei lavori: che pertanto sono stati eseguiti dall'impresa appaltatrice sotto la direzione e la responsabilità diretta -e concorrente- degli stessi committenti".
Sostengono che dal verbale di udienza del 20.06.2000 emergeva che l'impresa Ni. aveva ammesso -con conseguente rinuncia dei Ga. alla prova- le circostanze relative alla "esecuzione di tutti i lavori" da parte dell'impresa appaltatrice a "cura e sotto la propria dichiarata responsabilità", sicché sarebbe esclusa ogni ingerenza dei committenti, tenuto altresì conto dell'irrilevanza della mancanza di un progetto e della figura del direttore dei lavori.
Il motivo è infondato.
I ricorrenti, invero, censurano la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi una propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice del merito, il quale, nella specie, con adeguata motivazione, sulla base degli elementi acquisti al processo, ha  riconosciuto la concorrente responsabilità dei committenti (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 10.11.2016 n. 22884).

ATTI AMMINISTRATIVIIl giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo.
In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto e attuale", essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A..
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi.
Occorre, infine, soggiungere che in via di principio il diritto di accesso deve ammettersi anche quando il richiedente non sia oggettivamente certo che l'istanza abbia come oggetto l'esibizione di un documento effettivamente esistente, dovendo in tal caso l'amministrazione rilasciare una dichiarazione dalla quale risulti, appunto, l'inesistenza del documento medesimo.

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... per l'annullamento del diniego del Comune di -OMISSIS- di accesso agli atti, afferenti a tutti i documenti posti alla base del rilascio del certificato di agibilità prot. n. -OMISSIS-, nonché per l'accertamento del diritto del ricorrente di prendere visione ed estrarre copia della certificazione suddetta.
...
L’esponente premette di aver acquistato alcune unità immobiliari site nel Comune di -OMISSIS-, fissando l’obbligo per la parte venditrice di fargli conseguire nel più breve tempo possibile e a proprie spese l’agibilità delle unità immobiliari acquistate.
Nell’ambito del giudizio sorto con la parte venditrice avente ad oggetto proprio l’effettivo adempimento della clausola appena menzionata, l’esponente apprendeva del rilascio dell’agibilità degli immobili in questione da parte del Comune di -OMISSIS-, sicché egli proponeva istanza in data 07.03.2016 per ottenere dal predetto ente territoriale la copia del certificato di agibilità e di tutti i documenti posti a base del rilascio.
Sennonché con nota del 21.03.2016, prosegue l’esponente, egli otteneva copia del solo certificato di agibilità, ma non dei documenti posti alla base del suo rilascio, nonostante le promesse verbali e gli impegni in tal senso assunti da parte della dirigenza dell’Ufficio Tecnico del Comune di -OMISSIS-.
Avverso il diniego tacito maturato sull’istanza di accesso, il sig.-OMISSIS- ha proposto il ricorso introduttivo del presente giudizio, notificato in data 4 maggio e depositato in pari data, chiedendone l’annullamento con la condanna del Comune all’ostensione dei documenti richiesti, sul presupposto che tali atti sarebbero rilevanti nell’ambito del giudizio civile di cui il sig.-OMISSIS- è parte.
Il Comune di -OMISSIS- non si è costituito e alla camera di consiglio del 20.07.2016 la causa è stata introitata per la decisione.
Nel merito l’istanza di accesso è certamente fondata e deve essere condannato il Comune di -OMISSIS- all’ostensione dei documenti richiesti dal sig.-OMISSIS-.
Occorre premettere che il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo (cfr. da ultimo Cons. St. Ad. Plen. 7/2012).
In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto e attuale", essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A..
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi (cfr. TAR Roma Lazio sez. II, 01.12.2011, n. 9461).
Occorre, infine, soggiungere che in via di principio il diritto di accesso deve ammettersi anche quando il richiedente non sia oggettivamente certo che l'istanza abbia come oggetto l'esibizione di un documento effettivamente esistente, dovendo in tal caso l'amministrazione rilasciare una dichiarazione dalla quale risulti, appunto, l'inesistenza del documento medesimo (cfr., ex multis, TAR Sardegna, sez. II, 24/11/2015 n. 1142; TAR Catania, (Sicilia), sez. I, 28/04/2016, n. 1179; Cons. Stato, sez. IV, 31.03.2015, n. 1705).
Orbene, l’istanza attorea si dispiega in coerenza con i soprarichiamati postulati, normativi e giurisprudenziali, attesa, anzitutto, l’esistenza di una posizione legittimante, fatta palese dalla posizione differenziata in cui versa l’istante in ragione della proprietà dei cespiti oggetto della contestata agibilità.
Del pari, non può essere revocata in dubbio, nei limiti suddetti, la sussistenza di un interesse conoscitivo concreto ed attuale, attesa l’evidente, diretta afferenza degli atti richiesti al contenzioso già in atto, potendo essi costituire un utile strumento di difesa ovvero, comunque, rilevare in vista di una compiuta ricostruzione dei rapporti di causa ad effetto nella dinamica degli eventi accertati.
E infatti, per un verso il ricorrente ha dato prova della pendenza di un procedimento giurisdizionale in cui la sussistenza dell’agibilità riveste carattere centrale, mentre il ricorrente in qualità di proprietario dei beni in questione è certamente titolare di un interesse diretto all’acquisizione della documentazione richiesta, rispetto alla quale quindi egli ha obiettivamente un posizione differenziata.
Né viene in rilievo alcuna esigenza di tutelare la riservatezza di terzi o la posizione in genere di terzi.
In definitiva, alla luce di quanto fin qui argomentato, il ricorso deve essere accolto e, per l'effetto, l'Amministrazione intimata dovrà, di conseguenza, consentire al ricorrente di prendere visione ed estrarre copia, previo rimborso del costo di riproduzione e dei diritti di ricerca e visura, della documentazione richiesta.
A tanto l’Amministrazione suddetta resta tenuta nel termine di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione o, se a questa anteriore, dalla notificazione della presente decisione (TAR Molise, sentenza 19.10.2016 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Dopo l’approvazione di un piano di lottizzazione che vedeva coinvolti alcuni privati questi ultimi si rifiutavano successivamente di sottoscrivere la conseguente convenzione, e nonostante richieste e diffide delle appellanti l’Amministrazione comunale nessuna iniziativa provvedeva ad adottare.
Non può non rilevarsi che un’ipotesi di lottizzazione, presentata da soggetti privati, può essere presa in considerazione e valutata favorevolmente dall’Amministrazione comunale soltanto nel caso in cui la stessa sia idonea a soddisfare interessi pubblici di natura urbanistica.
Sicché, mentre in presenza dell’accordo di tutte le parti private ricomprese in un comparto omogeneo lo stesso è sicuramente valutabile positivamente dall’Amministrazione in quanto capace di poter compiutamente determinare un assetto complessivo di una certa area, allorquando questa volontà privata viene meno in parte sicuramente l’Amministrazione è titolare del potere di valutare se tale ridotta composizione possa in qualche modo soddisfare gli interessi pubblici di natura urbanistica che la originaria lottizzazione era in grado di portare a compimento.

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L’appello in esame è proposto dai legali rappresentanti della s.a.s. Sg.Gi. & C. s.a.s. Ma. & C. e si dirige contro la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo ha rigettato un ricorso ivi proposto per l’annullamento del silenzio serbato dall’Amministrazione che non ha dato corso ad una convenzione di lottizzazione, conseguente all’approvazione di un piano di lottizzazione, precedentemente approvato.
Precisano gli appellanti che, dopo l’approvazione di un piano di lottizzazione che vedeva coinvolti alcuni privati, oggi appellati, questi ultimi si rifiutavano successivamente di sottoscrivere la conseguente convenzione e nonostante richieste e diffide delle appellanti, l’Amministrazione nessuna iniziativa provvedeva ad adottare.
...
L’appello non è fondato.
Non può non rilevarsi, infatti, che un’ipotesi di lottizzazione, presentata da soggetti privati, può essere presa in considerazione e valutata favorevolmente dall’Amministrazione comunale soltanto nel caso in cui la stessa sia idonea a soddisfare interessi pubblici di natura urbanistica, per cui, mentre in presenza dell’accordo di tutte le parti private ricomprese in un comparto omogeneo lo stesso è sicuramente valutabile positivamente dall’Amministrazione in quanto capace di poter compiutamente determinare un assetto complessivo di una certa area, allorquando questa volontà privata viene meno in parte, come è accaduto nel caso di specie, sicuramente l’Amministrazione è titolare del potere di valutare se tale ridotta composizione possa in qualche modo soddisfare gli interessi pubblici di natura urbanistica che la originaria lottizzazione era in grado di portare a compimento.
Naturalmente, una corretta valutazione avrebbe potuto trovare compimento in un annullamento della lottizzazione (con conseguente impossibilità di sottoscrivere la successiva convenzione), essendo venuti meno i presupposti per la sua operatività, ma il fatto che l’Amministrazione abbia assunto un atteggiamento sostanzialmente inerte di fronte al venir meno della volontà di alcuni soggetti che originariamente avevano richiesto la lottizzazione se, da un lato, può essere censurata in quanto manifestazione inerte, dall’altro non può certo pretendersi da parte dell’appellante che l’Amministrazione desse corso ad una convenzione in mancanza degli originari presupposti né che addirittura la stessa potesse operare una lottizzazione d’ufficio, trattandosi in quest’ultimo caso in una diversa procedura che, al di là dei costi che vi erano connessi, doveva necessariamente essere collegata a valutazioni d’ufficio da parte dell’Amministrazione comunale che, non solo non c’erano, ma che, come si evince dalla memoria di resistenza, l’Amministrazione non aveva alcun interesse ad intraprendere.
L’originaria lottizzazione era stata richiesta da alcuni soggetti, ricomprendenti l’intera area di riferimento; il fatto che poi alcuni di tali soggetti avevano ritirato il loro assenso ha determinato il venir meno delle ragioni stesse che sottostavano all’approvazione della lottizzazione, per cui il fatto che l’Amministrazione si sia poi rifiutata di addivenire alla convenzione con la parte residua dei soggetti che avevano richiesto la lottizzazione è da ritenersi corretta sostanzialmente, essendo venuti meno i presupposti che l’avevano originata.
Pertanto, pur in presenza di una procedura che meglio avrebbe dovuto estrinsecarsi con l’annullamento o la revoca della precedente lottizzazione, ugualmente non può accedersi alla tesi della società appellante di un obbligo dell’Amministrazione di sottoscrivere la convenzione con la parte dei soggetti residui favorevoli alla lottizzazione, né la stessa può essere obbligata a procedere ad una lottizzazione d’ufficio, che, come si è prima evidenziato, è collegata a diversi presupposti e a una diversa istruttoria, che non si è ritenuto di porre in essere.
L’appello è, perciò, infondato e va, conseguentemente rigettato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.05.2010 n. 3217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.12.2016

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATADecreto SCIA 2 in Gazzetta. Ecco le nuove regole per l’edilizia (01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATATitoli abilitativi edilizi, ecco la guida definitiva con tutti gli interventi (01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAAddio al certificato di agibilità. Ecco la segnalazione certificata di agibilità (01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAArrivano le regole per la CILA. Ecco come procedere (01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATASCIA in edilizia, cosa cambia con il decreto SCIA 2 (01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAInterventi in edilizia libera senza titolo: le semplificazioni introdotte dal decreto SCIA 2 (01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Linee guida per la verifica della relazione sul contenimento dei consumi energetici (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 02.12.2016 n. 837).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2016, "Approvazione del «Documento programmatico strategia di gestione della Rete Natura 2000 Regione Lombardia» e del «Prioritised Action Framework (PAF) for Natura 2000 for the Eu Multiannual Financing Period 2014-2020»" (deliberazione G.R. 28.11.2016 n. 5903).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2016, "Adeguamento delle sanzioni amministrative pecuniarie in materia di danni alle superfici boschive e ai terreni soggetti a vincolo idrogeologico (art. 61, comma 14, l.r. n. 31/2008)" (decreto D.S. 18.11.2016 n. 11847).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2016, "Adeguamento del «Valore del soprassuolo» stabilito con d.g.r. 675/2005" (decreto D.S. 18.11.2016 n. 11846).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 05.12.2016, "Modifica dell’articolo 33 del regolamento regionale 24.03.2006, n. 2 (Disciplina dell’uso delle acque superficiali e sotterranee, dell’utilizzo delle acque a uso domestico, del risparmio idrico e del riutilizzo dell’acqua in attuazione dell’articolo 52, comma 1, lettera c) della legge regionale 12.12.2003, n. 26). Disposizioni per l’attuazione del decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali del 31.07.2015 (Approvazione delle linee guida per la regolamentazione da parte delle Regioni delle modalità di quantificazione dei volumi idrici ad uso irriguo)" (regolamento regionale 02.12.2016 n. 10).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 05.12.2016 "Criteri per l’identificazione nei piani di governo del territorio delle opere edilizie incongrue presenti nel territorio agricolo e negli ambiti di valore paesaggistico (art. 4, comma 9, l.r. 31/2014)" (deliberazione G.R. 18.11.2016 n. 5832).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 05.12.2016, "Modulistica unificata e standardizzata per la presentazione del permesso di costruire (PDC): adeguamento della modulistica nazionale alle normative specifiche e di settore di Regione Lombardia" (deliberazione G.R. 28.11.2016 n. 5909).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 02.12.2016, "Approvazione del piano dei controlli sugli attestati di prestazione energetica degli edifici, previsto dall’art. 11, della l.r. 24/2014" (deliberazione G.R. 28.11.2016 n. 5900).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Falletta, Il freedom of information act italiano e i rischi della trasparenza digitale (30.11.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Nuovo accesso civico e modello di FOIA statunitense. 1.1. Premessa. 1.2. Profili essenziali del FOIA statunitense. 2. Il FOIA italiano: la terza fase della trasparenza amministrativa. 2.1. La questione dell’accessibilità universale. 2.2. La questione dei limiti al nuovo sistema di accesso. 2.3. L’azionabilità del right to know. 3. I rischi della trasparenza digitale.

APPALTI: R. Calzoni, Autorità nazionale anticorruzione e funzione di vigilanza collaborativa: le novità del Codice dei contratti pubblici (30.11.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Aspetti introduttivi. 2. La nuova Autorità nazionale anticorruzione. 3. Le funzioni attribuite all’Autorità dal d.l. n. 90 del 2014. 4. Le funzioni dell’Autorità a recepimento delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE: il nuovo Codice dei contratti pubblici. 5. L’attività di vigilanza. 5.1. L’ attività di vigilanza in materia di contratti pubblici. 5.2. La vigilanza in materia di prevenzione e contrasto della corruzione. 5.3. La vigilanza in materia di trasparenza dell’azione amministrativa. 6. La vigilanza collaborativa. 6.1. L’Esposizione Universale Milano 2015. 6.2. L’ambito oggettivo di applicazione della vigilanza collaborativa. 6.3. L’ambito soggettivo di applicazione della vigilanza collaborativa. 6.4. La qualificazione delle stazioni appaltanti ai sensi del nuovo Codice dei contratti pubblici. 6.5. Il protocollo di azione. 6.6. Il procedimento di vigilanza collaborativa ed i possibili esiti. 7. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: S. Villamena, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili (30.11.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa; - 2. «Accesso civico» o «accessi civici»? Necessaria distinzione delle fattispecie rilevanti; - 3. Tratti distintivi fra accesso civico 2013 e accesso civico 2016; - 4. Rapporto fra accesso civico 2016 e diritto di accesso: individuazione di un possibile criterio sistematico e applicativo; 5. Sintesi conclusiva.

APPALTI: R. De Nictolis, Lo stato dell’arte dei provvedimenti attuativi del codice. Le linee guida Anac sui gravi illeciti professionali (30.11.2016 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Introduzione. 2. I sei tipi di linee guida. 3. I 53 atti attuativi del codice e i regolamenti di organizzazione dell’ANAC. 4. In particolare i regolamenti di organizzazione dell’ANAC. - 5. Lo stato di attuazione del codice (al 30.11.2016). 6. Linee guida “cruciali”, errata corrige, decreto correttivo. 7. Il grave illecito professionale ex art. 80, c. 11, e le LG ANAC. 7.1. Profili generali. 7.2. Le singole ipotesi: la negligenza professionale. 7.3. Le singole ipotesi: la turbativa di gara. 7.4. I mezzi di prova. 7.5. Profili transitori. 7.6. Rilevanza temporale. 7.7. Le linee guida dell’ANAC: ambito e natura giuridica.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

LAVORI PUBBLICI: Trasmissione delle varianti in corso d’opera ex art. 106, co. 14, del d.lgs. 50/2016 (Comunicato del Presidente 23.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Trasmissione delle varianti in corso d’opera ex art. 106, co. 14, del d.lgs. 50/2016.
In ragione della nuova disciplina dell’art. 106 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 rispetto all’art. 132 del d.lgs. 163/2006 e all’art. 37, d.l. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, si fornisce in allegato il nuovo Modulo di trasmissione delle varianti in corso d’opera dei contratti di lavori da compilarsi a cura del responsabile del procedimento (RdP).
Il nuovo Modulo prevede di fornire anche alcune brevi informazioni (non documentazione) tese a facilitare il coordinamento tra le varianti in corso d’opera propriamente intese e gli altri istituti di modifica del contratto nella fase di esecuzione.
Restano valide le indicazioni generali già fornite con i precedenti comunicati (v. Comunicato del 04.03.2016) in ordine all’accertamento delle cause delle varianti a cura del RdP.
Si richiama infine l’attenzione sull’obbligo di trasmissione delle varianti in corso d’opera entro trenta giorni dall’approvazione da parte della stazione appaltante, ex art. 106, comma 14, d.lgs. 50/2016, e sulle sanzioni amministrative pecuniarie in caso di ritardo ex art. 213, comma 13, del codice stesso.
All.: Modulo di trasmissione delle “varianti in corso d’opera dei contratti sopra-soglie di lavori o concessioni ex art. 106, co. 14, 2° periodo, d.lgs. 50/2016 e dei precedenti comunicati, nonché alcune informazioni sulle “modifiche”.

APPALTI: Indicazioni operative in merito all’esercizio della funzione consultiva diversa dal precontenzioso svolta dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (Comunicato del Presidente 16.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Funzione consultiva dell’Autorità - Indicazioni per le richieste diverse dal precontenzioso.
Con il Comunicato del Presidente del 16.11.2016 si forniscono nuove indicazioni operative in merito all’esercizio della funzione consultiva diversa dal precontenzioso svolta dall’Anac, con particolare riguardo alle condizioni di ammissibilità per la trattazione delle richieste.
Il Comunicato ribadisce che i quesiti proposti saranno oggetto di trattazione solo nel caso in cui rivestano uno dei caratteri di rilevanza indicati dal Regolamento Anac sulla funzione consultiva del 20.07.2016.
Novità per quanto riguarda l’ordine di trattazione dei quesiti che saranno presi in esame secondo l’ordine cronologico di arrivo, fermo restando che potrà essere data priorità a quelli, pur pervenuti successivamente, che soddisfano una o più delle condizioni espresse nel comunicato.
Non saranno considerate prioritarie richieste di urgenza non motivate e con motivazione generica.

ATTI AMMINISTRATIVI: Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio ai sensi dell’articolo 47 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, come modificato dal decreto legislativo 25.05.2016, n. 97 (Regolamento 16.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Trasparenza - Nuovo Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio.
Pubblicato il nuovo Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio ai sensi dell’articolo 47 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, come modificato dal decreto legislativo 25.05.2016, n. 97.
Il d.lgs. 97/2016 ha apportato, tra le altre, alcune significative modifiche all’articolo 47 del d.lgs. n. 33/2013, cd. “decreto trasparenza”, che prevede “sanzioni per la violazione degli obblighi di trasparenza per casi specifici”. In particolare, analogamente a quanto disposto per le sanzioni in materia di anticorruzione, è previsto che sia l’ANAC ad irrogare le sanzioni, e a disciplinare con proprio Regolamento il relativo procedimento. Si è reso pertanto necessario sostituire il Regolamento del 23.07.2015, che attribuiva all’ANAC la competenza ad irrogare le sanzioni in misura ridotta, ed al Prefetto quelle definitive.
Il procedimento disciplinato dal presente Regolamento tende ad agevolare l’accertamento della violazione, coinvolgendo i Responsabili per la trasparenza e gli Organismi indipendenti di valutazione o altri organismi con funzioni analoghe, ed a semplificare, nel pieno rispetto del contraddittorio, l’istruttoria volta all’irrogazione della sanzione, in misura ridotta, conformemente a quanto indicato dalla legge 689/1981, ovvero definita entro i limiti minimo e massimo edittali, tenuto conto delle circostanze indicate dall’art. 11 della citata legge 689.
Il nuovo regolamento entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (
pubblicato nella G.U. 05.12.2016 n. 284).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALILa necessità di un preventivo di massima che indichi la misura del compenso, oltre ad essere oggetto di specifica previsione da parte della normativa che ha abrogato le tariffe professionali (art. 9, D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012) e che attualmente disciplina i compensi, tra l’altro, degli avvocati, viene espressamente contemplata dal Principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (All. n. 4/2 al D.lgs. n. 118/2011), il quale, al paragrafo 5.2, lett. g), proprio “al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio”, non solo prevede, in deroga al principio della competenza potenziata, l’imputabilità dell’impegno assunto con il conferimento dell’incarico all’esercizio in cui il contratto è firmato, garantendo, in tal modo, la copertura della spesa, ma impone, altresì, all’ente di chiedere ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto l’impegno originario (ciò in considerazione della probabile reimputazione ad altro.
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La carenza iniziale nella stima del costo della prestazione, che espone l’ente al rischio (o anche certezza) della formazione di oneri a carico del bilancio privi della necessaria copertura, in contrasto con i canoni della sana gestione finanziaria, non può influire sulla esistenza ed entità dell’obbligazione sorta per effetto dell’espletamento dell’incarico, che deve trovare, ovviamente nei limiti della effettiva spettanza e nel rispetto delle norme e dei principi che regolano il riconoscimento dei debiti fuori bilancio, la dovuta rappresentazione contabile nelle scritture dell’ente, allo scopo di consentirne il regolare adempimento.

Ove la stima non sia stata adeguata ed effettivamente i compensi maturati dal legale eccedano l’impegno assunto, l’alternativa è il riconoscimento del debito, secondo la procedura disciplinata dall’art. 194 TUEL ovvero, nell’ipotesi di non riconoscibilità del rapporto obbligatorio per la accertata assenza dei presupposti ivi previsti, l’imputazione diretta del rapporto medesimo all’amministratore, funzionario o dipendente che abbiano consentito l’acquisizione della prestazione in assenza dell’impegno e della necessaria copertura (art. 191, 4° comma, TUEL).
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Nella richiesta di parere, il Sindaco del Comune di Bussolengo (VR) chiede se sia legittimo “liquidare parcelle di un avvocato relative a cause per le quali lo stesso era stato incaricato con delibera di Giunta, senza aver preventivamente acquisito preventivo di spesa” ed, in caso di risposta affermativa, in che misura, tenuto conto di quanto affermato, da un canto, dalla Suprema Corte in merito alla sussistenza, in capo all’ente, dell’obbligazione, esclusivamente per la somma impegnata in bilancio e, dall’altro, dalla Corte dei conti (tra l’altro, nella deliberazione della Sezione regionale di controllo per la Campania n. 110/2015/PAR) in merito al ricorso alla procedura del riconoscimento del debito fuori bilancio, ex art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL.
...
Nel merito, esso ha ad oggetto la possibilità di liquidare, in favore di professionista formalmente incaricato dall’ente (nella specie, avvocato) e per la prestazione resa, un importo maggiore di quello impegnato, ove questo, determinato in assenza di apposito preventivo di spesa, risulti “significativamente inferiore rispetto all’attività svolta e documentata da parcella professionale per la quale sono stati applicati i tariffari previsti dai decreti ministeriali in materia di onorari e diritti professionali”.
In sostanza, l’ente chiede a questa Sezione se l’assunzione dell’impegno di spesa costituisca un limite rispetto all’obbligazione civilistica sorta per effetto del conferimento dell’incarico al professionista ed, in caso di risposta negativa, quale sia la procedura corretta da seguire sotto il profilo contabile ai fini della liquidazione dell’importo eccedente la previsione.
Il problema ovviamente si pone nei casi in cui la “stima” del valore della prestazione richiesta al professionista sia inadeguata e determini, quindi, l’insufficienza dell’impegno assunto al momento del conferimento.
Deve precisarsi, in merito, che
la necessità di un preventivo di massima che indichi la misura del compenso, oltre ad essere oggetto di specifica previsione da parte della normativa che ha abrogato le tariffe professionali (art. 9, D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012) e che attualmente disciplina i compensi, tra l’altro, degli avvocati, viene espressamente contemplata dal Principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (All. n. 4/2 al D.lgs. n. 118/2011), il quale, al paragrafo 5.2, lett. g), proprio “al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio”, non solo prevede, in deroga al principio della competenza potenziata, l’imputabilità dell’impegno assunto con il conferimento dell’incarico all’esercizio in cui il contratto è firmato, garantendo, in tal modo, la copertura della spesa, ma impone, altresì, all’ente di chiedere ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto l’impegno originario (ciò in considerazione della probabile reimputazione ad altro esercizio, ossia quello nel quale l’obbligazione viene effettivamente a scadenza, del residuo passivo formatosi proprio per effetto del meccanismo di imputazione previsto dal principio suddetto).
Analogamente, prima della entrata in vigore della normativa sull’armonizzazione dei sistemi contabili appena richiamata, era previsto che i compensi per prestazioni professionali dovessero trovare copertura in bilancio già dal momento del conferimento, in base ad una stima del relativo costo, in modo da evitare il più possibile la formazione di debiti fuori bilancio (Principio contabile n. 2 per gli enti locali formulato dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti Locali).
Posto ciò,
la carenza iniziale nella stima del costo della prestazione, che espone l’ente al rischio (o anche certezza) della formazione di oneri a carico del bilancio privi della necessaria copertura, in contrasto con i canoni della sana gestione finanziaria, non può influire sulla esistenza ed entità dell’obbligazione sorta per effetto dell’espletamento dell’incarico, che deve trovare, ovviamente nei limiti della effettiva spettanza e nel rispetto delle norme e dei principi che regolano il riconoscimento dei debiti fuori bilancio, la dovuta rappresentazione contabile nelle scritture dell’ente, allo scopo di consentirne il regolare adempimento.
Come correttamente rilevato dalla Sezione regionale di controllo per la Campania nel parere 01.04.2015 n. 110), richiamata nella richiesta di parere, infatti,
ove la stima non sia stata adeguata ed effettivamente i compensi maturati dal legale eccedano l’impegno assunto, l’alternativa è il riconoscimento del debito, secondo la procedura disciplinata dall’art. 194 TUEL ovvero, nell’ipotesi di non riconoscibilità del rapporto obbligatorio per la accertata assenza dei presupposti ivi previsti, l’imputazione diretta del rapporto medesimo all’amministratore, funzionario o dipendente che abbiano consentito l’acquisizione della prestazione in assenza dell’impegno e della necessaria copertura (art. 191, 4° comma, TUEL).
In quest’ottica, deve essere risolto il dubbio manifestato dall’ente circa la possibilità di limitare il vincolo derivante dal detto rapporto obbligatorio all’importo dell’impegno di spesa originario.
In primo luogo, deve rilevarsi che la pronuncia della Suprema Corte da ultimo richiamata nella richiesta di parere (SS.UU., sentenza n. 10798/2015) non consente affatto di ipotizzare, sic et simpliciter, “che sia sorta un’obbligazione per l’ente solo ed esclusivamente per la somma impegnata in bilancio”.
Oltre a ribadire il carattere di sussidiarietà dell’azione di indebito arricchimento (art. 2042 c.c.), la sentenza si limita ad affermare il principio secondo cui il riconoscimento, da parte della p.a., dell’utilità della prestazione o dell’opera non costituisce un requisito dell’azione di indebito arricchimento e rileva soltanto “in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell’imputabilità dell’arricchimento all’ente pubblico”, ma non esime la pubblica amministrazione dall’attivazione della procedura di riconoscimento del debito, “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento”, atteso che la responsabilità diretta del o dei dipendenti che hanno consentito la fornitura sorge soltanto per la (e se vi sia una) ”parte non riconoscibile ai sensi dell’articolo 194, 1° comma, lett. e)” del TUEL (art. 191, 4° comma, cit.).
La sussidiarietà dell’azione di indebito arricchimento, che comporta la non esperibilità dell’azione medesima nell’ipotesi in cui il danneggiato disponga di un altro rimedio per farsi indennizzare il pregiudizio subito (art. 2042 c.c.), infatti, oltre ad attenere ad un ambito processuale e di tutela giurisdizionale –del tutto diverso da quello, di natura contabile, al quale è riconducibile la problematica della gestione della spesa pubblica, oggetto di esame– comunque non esclude l’imputabilità dell’obbligazione direttamente all’ente, qualora si sia verificato un arricchimento, percepibile come tale e suscettibile di riconoscimento.
Diversamente, si consentirebbe di riversare indebitamente sui dipendenti che agiscono in nome e per conto dell’ente anche il costo di prestazioni dalle quali quest’ultimo abbia tratto un obiettivo (e consapevole) beneficio e di arricchirsi, quindi, ingiustamente, a scapito di terzi (professionista ovvero dipendenti), in violazione del generale principio secondo cui nemo lucupletari potest cum aliena iactura (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 29.11.2016 n. 375).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL'ordinanza di demolizione che assegni al privato un termine per provvedere inferiore a quello (di 90 giorni) stabilito dal legislatore non è illegittima, in quanto il destinatario conserva comunque un termine non inferiore a quello di legge per procedere all’imposta demolizione.
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La circostanza che l'ordine di demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non descriva l'area da acquisire non è causa di illegittimità dello stesso, atteso che l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza eventuale fissata direttamente dalla legge, per il caso in cui il destinatario non ottemperi spontaneamente, senza necessità dell'esercizio di alcun potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione.
Pertanto il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato, non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate.
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2.2 Quanto, infine, al motivo con cui parte ricorrente lamenta l'assegnazione di un termine per l'esecuzione spontanea della demolizione inferiore (60 giorni) a quello (90 giorni) previsto dalla disciplina di settore, il Collegio rileva che tale censura deve ritenersi improcedibile. Ed, invero, il termine legale prescritto dall'articolo 31 del t.u. sull'edilizia risulta, ad oggi, abbondantemente decorso senza che la parte ricorrente abbia, comunque, ottemperato.
D'altro canto, si è già evidenziato in giurisprudenza che l'ordinanza di demolizione che assegni al privato un termine per provvedere inferiore a quello (di 90 giorni) stabilito dal legislatore, non è illegittima, in quanto il destinatario conserva comunque un termine non inferiore a quello di legge per procedere all’imposta demolizione (cfr. TAR Firenze Toscana sez. III, n. 2110 del 20.12.2012).
2.2 Con riferimento all’omessa descrizione dell’area di sedime è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui la circostanza che l'ordine di demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non descriva l'area da acquisire non è causa di illegittimità dello stesso, atteso che l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza eventuale fissata direttamente dalla legge, per il caso in cui il destinatario non ottemperi spontaneamente, senza necessità dell'esercizio di alcun potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione.
Pertanto il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato, non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate (cfr. Consiglio di Stato sez. V n. 3438 del 07.07.2014).
Nel caso in esame difatti il provvedimento di demolizione non contiene, come non potrebbe, alcun ordine direttamente acquisitivo, ma si limita a preannunciare la possibilità di acquisizione gratuita delle opere abusive al patrimonio comunale, per il caso di inottemperanza entro il termine assegnato (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.12.2016 n. 5567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Tar Liguria si sofferma sull'istituto dell'avvalimento e sulla possibilità del soccorso istruttorio in caso di genericità del relativo contratto.
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Gara – Avvalimento – Art. 89, d.lgs. n. 50 del 2016 – Contenuto del contratto – Individuazione.
Gara – Avvalimento – Contratto nullo per genericità – Soccorso istruttorio ex art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione.
In tema di contratto di avvalimento l’art. 89, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 ha recepito la legge delega 28.01.2016, n. 11 nella parte in cui (art. 1, comma 1, lett. zz) ha specificamente disposto la revisione della disciplina in materia di avvalimento, imponendo che il relativo contratto indicasse nel dettaglio le risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui l'oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara; il Codice di contratti dispone infatti che l'operatore economico deve dimostrare alla stazione appaltante che disporrà dei mezzi necessari mediante presentazione di una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente; è quindi illegittimo il contratto di avvalimento che si limiti a prevedere, richiamando quanto richiesto dal disciplinare di gara, che l’impresa ausiliaria si obbliga a fornire alle Imprese ausiliate tutti i requisiti di carattere tecnico ma anche economico, finanziario ed organizzativo previsti dal bando di gara, risolvendosi l’impegno contrattuale in una mera riproduzione tautologica del testo del disciplinare di gara, difettando così della puntuale indicazione dei mezzi che la ditta ausiliaria dovrebbe fornire alle ausiliate per rendere effettivo il possesso del requisito di gara (1).
A fronte di un contratto di avvalimento generico non è possibile fare ricorso al c.d. “soccorso istruttorio”, atteso che ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 il soccorso istruttorio non è esperibile per sopperire alle irregolarità che impediscono in maniera radicale di individuare il contenuto della documentazione (2).

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   (1) Il Tar Liguria ha richiamato il recente arresto dell’Adunanza plenaria dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 04.11.2016, n. 23, che ha rimarcato la necessità di indicare nel contratto di avvalimento, con appropriato grado di determinatezza o determinabilità, i mezzi concreti che l’impresa ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata, evidenziando altresì che l'esigenza di una puntuale individuazione dell'oggetto dell'avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico negli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c., che configurano quale causa di nullità del contratto l'indeterminatezza ed indeterminabilità del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale nella necessità di non permettere agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche.
In particolare, è stata ritenuta insufficiente la mera riproduzione tautologica, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente il concorrente", o espressioni equivalenti, con conseguente legittimità dell'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e specifica elencazione od indicazione delle risorse e dei mezzi in concreto prestati (Cons. St., sez. III, 18.04.2011, n. 2344; id., sez. V, 06.08.2012, n. 4510; id., sez. IV, 16.01.2014, n. 135; 17.10.2012, n. 5340; id., sez. VI, 13.06.2013, n. 3310; id., sez. III, 03.09.2013, n. 4386).
   (2) Ad avviso del Tar Liguria la nullità dell’oggetto del contratto di avvalimento impedisce di individuarne il contenuto dal momento che, ai sensi dell’art. 89, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, deve escludersi che l’oggetto dell’avvalimento possa essere costituito dal requisito nella sua natura cartolare.
Oggetto dell’avvalimento, nella impostazione del nuovo Codice sono i mezzi e le risorse dal cui possesso il requisito scaturisce. Così come, esemplificando, l’avviamento non può essere considerato a prescindere dall’azienda a cui si riferisce così, del pari, il requisito non può essere considerato separatamente dalle risorse e mezzi cui afferisce (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 02.12.2016 n. 1201 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Avvalimento – Art. 89 d.lgs. n. 50/2016 – Contratto – Riproduzione tautologica del testo del disciplinare di gara – Indicazione puntuale dei mezzi forniti all’ausiliata.
In tema di avvalimento, l’attuale disciplina dettata dall’art. 89 del D.Lgs. n. 50/2016 prescrive specificamente che “… L'operatore economico dimostr[i] alla stazione appaltante che disporrà dei mezzi necessari mediante presentazione di una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente…”.
L’impegno contrattuale non può quindi risolversi in una mera riproduzione tautologica del testo del disciplinare di gara, difettando altrimenti della puntuale indicazione dei mezzi che la ditta ausiliaria dovrebbe fornire alle ausiliate per rendere effettivo il possesso del requisito di gara.
Requisiti di partecipazione - Possesso di precedenti esperienze – Requisito di natura tecnica – Avvalimento – Caratteristiche.
Quando il bando prevede l'ammissione esclusivamente delle imprese che hanno prodotto negli anni precedenti un determinato fatturato non globale, ma specificamente attinente a rapporti identici o analoghi a quello da instaurare in esito al procedimento...la stazione appaltante non richiede un requisito di natura finanziaria (per la quale si provvede, ad esempio, con il richiamo al fatturato globale), ma un requisito di natura tecnica (consistente nel possesso di precedenti esperienze che consentono di fare affidamento sulla capacità dell'imprenditore di svolgere la prestazione richiesta), sicché l'avvalimento di un tale requisito di natura tecnica non può essere generico (e cioè non si può limitare... ad un richiamo 'meramente cartaceo o dichiarato' allo svolgimento da parte dell'ausiliaria di attività che evidenzino le sue precedenti esperienze), ma deve comportare il trasferimento, dall'ausiliario all'ausiliato, delle competenze tecniche acquisite con le precedenti esperienze (trasferimento che, per sua natura, implica l'esclusività di tale trasferimento, ovvero delle relative risorse per tutto il periodo preso in considerazione dalla gara) (Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 864).
Avvalimento – Art. 83 d.lgs. n. 50/2016 – Irregolarità che impediscono l’individuazione del contenuto della documentazione – Ricorso al soccorso istruttorio – Preclusione.
Se, da un lato, l’art. 83, comma 9, del D.Lgs. n. 50/2016 si apre affermando che “Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio”, dall’altro, l’ultimo periodo della medesima disposizione precisa che “Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa.”.
Il nuovo codice dei contratti pubblici detta dunque una disposizione normativa che sancisce espressamente l’inutilizzabilità del soccorso istruttorio per sopperire alle irregolarità che impediscono in maniera radicale di individuare il contenuto della documentazione (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 02.12.2016 n. 1201 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
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E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
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Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, il C.G.A., con decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente … con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; sicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione.

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C. - Il ricorso merita accoglimento, in conformità ai precedenti in termini della Sezione (vd., da ultimo, TAR Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645).
D. - È fondata l’eccezione di prescrizione ai sensi dell’art. 28 l. n. 689/1981, sollevata in ricorso.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Cons. St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
E. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (vd. TAR Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id, 02.04.2015, n. 812; 23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vd. anche Tar Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395; Tar Napoli, VI, 13.02.2015, n. 1092).
F. - Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, il C.G.A., con decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente … con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; sicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano (ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015 e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 del 19.10.2015 e da ultimo parere 21.02.2012, n. 28/2012; 21.11.2016, n. 1210) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 30.11.2016 n. 2807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Revoca dell’aggiudicazione e recesso – Stipula del contratto.
Dopo la stipula del contratto d’appalto, la revoca è impraticabile, dovendo utilizzarsi, in quella fase, il diverso strumento del recesso (cfr. Cons. Stato, A.P., 29.06.2014, n. 14); prima del perfezionamento del documento contrattuale, al contrario, l’aggiudicazione è pacificamente revocabile (cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 13.04.2011, n. 2291).
Revoca dell’aggiudicazione legittima – Ragioni di interesse pubblico – Legittimo affidamento – Motivazione – Gare soggette alla disciplina del d.lgs. n. 50/2016.
La revoca di un’aggiudicazione legittima postula la sopravvenienza di ragioni di interesse pubblico (o una rinnovata valutazione di quelle originarie) particolarmente consistenti e preminenti sulle esigenze di tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha partecipato alla gara, ed esige, quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa dei predetti interessi (cfr. Cons. St., sez. V, 19.05.2016, n. 2095).
Tale principio è valido anche per le procedure di aggiudicazione soggette alla disciplina del d.lgs. n. 50 del 2016, nella misura in cui il paradigma legale di riferimento resta, anche per queste ultime, l’art. 21-quinquies l. n. 241 del 1990, e non anche la disciplina speciale dei contratti, che si occupa, infatti, di regolare il recesso e la risoluzione del contratto, e non anche la revoca dell’aggiudicazione degli appalti (ma solo delle concessioni).
Revoca dell’aggiudicazione – Assoluta inidoneità della prestazione inizialmente richiesta dall’Amministrazione.
L’aggiudicazione della gara a un’impresa che ha diligentemente confezionato la sua offerta in conformità alle prescrizioni della lex specialis può essere validamente rimossa, con lo strumento della revoca, solo nell’ipotesi eccezionale in cui una rinnovata (e, comunque, tardiva) istruttoria ha rivelato l’assoluta inidoneità della prestazione inizialmente richiesta dalla stessa Amministrazione a soddisfare i bisogni per i quali si era determinata a contrarre.
Al contrario, non può in alcun modo giudicarsi idoneo a giustificare la revoca un ripensamento circa il grado di satisfattività della prestazione messa a gara.
Revoca dell’aggiudicazione – Comunicazione di avvio del procedimento – Art. 7 L. n. 241/1990.
L’esercizio dei poteri di autotutela finalizzati al ritiro dell’aggiudicazione definitiva impone alla stazione appaltante di assicurare la partecipazione dell’impresa aggiudicataria, onde consentirle di tutelare adeguatamente, in sede procedimentale, la posizione qualificata validamente acquisita, per mezzo della necessaria osservanza della prescrizione di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990 (cfr. ex multis Cons., St., sez. V, 27.04.2011, n. 2456) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 29.11.2016 n. 5026 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Il Consiglio di Stato approfondisce le condizioni del valido esercizio della revoca dell’aggiudicazione di una gara pubblica dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti.
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Gara – Aggiudicazione – Revoca – Possibilità.
Gara – Aggiudicazione – Revoca – Dopo entrata in vigore nuovo Codice dei contratti – Possibilità – Ragioni.
Gara – Aggiudicazione – Revoca – Per caratteristiche oggetto dell’appalto – Limiti.
Nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, mentre la revoca resta impraticabile dopo la stipula del contratto d’appalto, dovendo utilizzarsi, in quella fase, il diverso strumento del recesso, prima del perfezionamento del documento contrattuale, al contrario, l’aggiudicazione è pacificamente revocabile.
Anche con l’entrata in vigore del nuovo Codice di contratti pubblici la revoca di un’aggiudicazione legittima postula la sopravvenienza di ragioni di interesse pubblico (o una rinnovata valutazione di quelle originarie) particolarmente consistenti e preminenti sulle esigenze di tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha diligentemente partecipato alla gara, rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla, ed esige, quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa dei predetti interessi; il paradigma legale di riferimento resta l’art. 21-quinquies, l. 07.08.1990 n. 241, e non anche la disciplina speciale dei contratti, che si occupa, infatti, di regolare il recesso e la risoluzione del contratto, e non anche la revoca dell’aggiudicazione degli appalti (ma solo delle concessioni) (1).
Allorché la revoca dell’aggiudicazione sia disposta con riferimento alle caratteristiche dell’oggetto dell’appalto, il ripensamento dell’Amministrazione, per legittimare il provvedimento di ritiro dell’aggiudicazione, deve fondarsi sulla sicura verifica dell’inidoneità della prestazione descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura (2).

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(1) Ha chiarito il Consiglio di Stato che a fronte della nota strutturazione procedimentale della scelta del contraente, la definizione regolare della procedura mediante la selezione di un’offerta (giudicata migliore) conforme alle esigenze della stazione appaltante (per come cristallizzate nella lex specialis) consolida in capo all’impresa aggiudicataria una posizione particolarmente qualificata ed impone, quindi, all’Amministrazione, nell’esercizio del potere di revoca, l’onere di una ponderazione particolarmente rigorosa di tutti gli interessi coinvolti.
(2) Ad avviso della Sezione le Amministrazioni pubbliche devono preliminarmente verificare le proprie esigenze, poi definire, coerentemente con gli esiti dell’anzidetta analisi, gli elementi essenziali del contratto e, solo successivamente, indire una procedura di affidamento avente ad oggetto la prestazione già individuata come necessaria, è evidente che l’aggiudicazione della gara a un’impresa che ha diligentemente confezionato la sua offerta in conformità alle prescrizioni della lex specialis può essere validamente rimossa, con lo strumento della revoca, solo nell’ipotesi eccezionale in cui una rinnovata (e, comunque, tardiva) istruttoria ha rivelato l’assoluta inidoneità della prestazione inizialmente richiesta dalla stessa Amministrazione (e, quindi, dovuta dall’aggiudicatario) a soddisfare i bisogni per i quali si era determinata a contrarre; al contrario, non può in alcun modo giudicarsi idoneo a giustificare la revoca un ripensamento circa il grado di satisfattività della prestazione messa a gara.
Se si ammettesse, infatti, la revocabilità delle aggiudicazioni sulla sola base di un differente e sopravvenuto apprezzamento della misura dell’efficacia dell’obbligazione dedotta a base della procedura, si finirebbe, inammissibilmente, per consentire l’indebita alterazione delle regole di imparzialità e di trasparenza che devono presidiare la corretta amministrazione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, con inaccettabile sacrificio dell’affidamento ingenerato nelle imprese concorrenti circa la serietà e la stabilità della gara, ma anche con un rischio concreto di inquinamento e di sviamento dell’operato delle stazioni appaltanti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 29.11.2016 n. 5026 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI L’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva.
Invero, “E' legittimo il provvedimento di esclusione da una procedura di gara per collegamento sostanziale dedotto da una pluralità di indici, consistenti in legami parentali dei rispettivi rappresentanti, nell'analogia nelle modalità di presentazione delle offerte e nella coincidenza tra sedi o residenze dei titolari delle due diverse imprese”.
Come, inoltre, di recente statuito, la fattispecie prevista dall’art. 38, comma 1, lett. m-quater del d.lgs. n. 163/2006 è caratterizzata come un "pericolo presunto" (con una terminologia di derivazione penalistica), coerentemente con la sua funzione di garanzia di ordine preventivo rispetto al superiore interesse alla genuinità della competizione che si attua mediante le procedure ad evidenza pubblica.
Pertanto, si deve escludere che la concreta incidenza delle offerte concordate sull'esito della selezione costituisca un elemento strutturale dell'ipotesi prefigurata dal legislatore, tant'è vero che la formulazione della norma non autorizza una simile lettura ed in ogni caso, l'influenza determinante sull'individuazione della migliore offerta non è nella disponibilità delle imprese sostanzialmente collegate, ma dipende da variabili indipendenti rispetto alla loro volontà, quali in particolare il numero delle partecipanti e l'entità dei ribassi, comunque non idonee ad elidere il disvalore della condotta volta ad alterare la competizione.
Ne consegue che l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale.
Ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti.
A giudizio del Collegio, si tratta dell’unica via percorribile al fine di garantire la giusta tutela ai principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche nonché della parità di trattamento delle imprese concorrenti, principi che verrebbero irrimediabilmente violati qualora si aderisse alla tesi delle controparti e, quindi, demandando l’esclusione dalla gara di imprese in collegamento sostanziale ad una posteriore valutazione sul contenuto delle offerte.

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... per l'annullamento:
- della determina dirigenziale n. 326 adottata il 29.04.2016 avente come oggetto l'aggiudicazione della gara d'appalto inerente i lavori di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale opere elettriche - biennio 2016/2017, in favore della controinteressata, aggiudicazione di cui la ricorrente ha avuto notizia in data 06.05.2016;
- in parte qua, di tutti i verbali di gara;
- della nota assunta dal Dirigente di Settore Lavori Pubblici e Patrimonio in data 27.04.2016 ed inviata a mezzo PEC il 02.05.2016, con la quale la P.A. ha respinto le contestazioni sollevate dalla ricorrente in merito all'aggiudicazione provvisoria intervenuta a favore della controinteressata;
- di ogni altro atto o provvedimento presupposto e conseguente, nonché per la declaratoria di nullità/inefficacia del contratto che nelle more dovesse essere sottoscritto tra le parti.
...
Il Collegio, aderendo all’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ritiene che la censura sia fondata.
Ed invero, come affermato anche molto di recente dal Consiglio di Stato, l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva.
E' legittimo il provvedimento di esclusione da una procedura di gara per collegamento sostanziale dedotto da una pluralità di indici, consistenti in legami parentali dei rispettivi rappresentanti, nell'analogia nelle modalità di presentazione delle offerte e nella coincidenza tra sedi o residenze dei titolari delle due diverse imprese” (cfr., fra le tante, Con. Stato, sez. V, 11.07.2016, n. 3057; 02.05.2013, n. 2397; sez. VI, 22.02.2013, n. 1091; 08.05.2012, n. 2657).
Come, inoltre, di recente statuito, la fattispecie prevista dall’art. 38, comma 1, lett. m-quater del d.lgs. n. 163/2006 è caratterizzata come un "pericolo presunto" (con una terminologia di derivazione penalistica), coerentemente con la sua funzione di garanzia di ordine preventivo rispetto al superiore interesse alla genuinità della competizione che si attua mediante le procedure ad evidenza pubblica. Pertanto, si deve escludere che la concreta incidenza delle offerte concordate sull'esito della selezione costituisca un elemento strutturale dell'ipotesi prefigurata dal legislatore, tant'è vero che la formulazione della norma non autorizza una simile lettura ed in ogni caso, l'influenza determinante sull'individuazione della migliore offerta non è nella disponibilità delle imprese sostanzialmente collegate, ma dipende da variabili indipendenti rispetto alla loro volontà, quali in particolare il numero delle partecipanti e l'entità dei ribassi, comunque non idonee ad elidere il disvalore della condotta volta ad alterare la competizione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.08.2015, n. 3772; 11.07.2016, n. 3057).
Ne consegue che, al contrario di quanto sostenuto dall’Amministrazione resistente e dalla società controinteressata costituita, l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale.
Ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti (Con. Stato, sez. V, 04.03.2010, n. 1265).
A giudizio del Collegio, si tratta dell’unica via percorribile al fine di garantire la giusta tutela ai principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche nonché della parità di trattamento delle imprese concorrenti, principi che verrebbero irrimediabilmente violati qualora si aderisse alla tesi delle controparti e, quindi, demandando l’esclusione dalla gara di imprese in collegamento sostanziale ad una posteriore valutazione sul contenuto delle offerte.
Nella fattispecie in questione il Collegio ritiene che sia stata ampiamente documentata dalla ricorrente la presenza di indizi gravi, precisi e concordanti del collegamento sostanziale tra le imprese, che si riportano brevemente di seguito:
- strettissime connessioni parentali tra i soci delle due società (il capitale della G.R. Du.Im. è partecipato per il 44% dal signor Li.Ra.Da. e per il 19% dal signor Li.Gi., mentre quello della Li.Im. è partecipato per il 70% da Li.Gi. e per il 15% da Li.Ra.Da.; Li.Gi. è sia padre di Ra.Da., Amministratore della G.R. Du.Im. s.r.l., sia Amministratore della Li.Im. s.r.l.);
- identità delle Sedi amministrative, site al medesimo indirizzo di via G. Pa. n. 43 in Cesana Brianza (Lc);
- identità di indirizzo del magazzino, posizionato per entrambe in via G. Pa. n. 6 sempre in Cesana Brianza (Lc);
- presenza, su svariati siti internet, di pubblicità delle due società rappresentanti il medesimo ed identico indirizzo di sede: Cesana Brianza (Lc), via G. Pa. n. 43;
- calligrafia di compilazione delle domande di partecipazione alla gara per le due società palesemente identica;
- presenza, nell’elenco fornitori del Comune di Bergamo della sola G.R. Du.Im. s.r.l., con indicazione però di numero telefono e fax identici a quelli indicati dalla Li.Im. s.r.l. nella domanda di partecipazione alla gara;
- segreteria telefonica che risponde al numero 031.... (che secondo quanto dichiarato nei documenti di gara dovrebbe essere il telefono della G.R. Du.Im. s.r.l.), che riferisce che si è in contatto con la Li.Im. s.r.l.;
- contratti di locazione di entrambe le sedi delle società stipulati con la stessa locataria, Im. L&F s.r.l., che ha come amministratore il signor Li.Gi. e sede legale in Albavilla (Co), via Ca. n. 9/b, che coincide con la sede legale della G.R. Du.Im. s.r.l.
Quelli appena descritti sono tutti profili dai quali emerge con estrema evidenza, a giudizio del Collegio, l’esistenza di un collegamento sostanziale tra la G.R. Du.Im. s.r.l. e la Li.Im. s.r.l.. Ne consegue, dunque, che il comune di Cinisello Balsamo avrebbe dovuto procedere all’esclusione delle due imprese dalla procedura di gara oggetto della controversia.
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi l’ulteriore censura dedotta, il ricorso va accolto e per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.11.2016 n. 2248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANel sistema normativo attualmente vigente i piani di lottizzazione e/o particolareggiati hanno durata decennale, sicché, decorso infruttuosamente detto termine, essi perdono efficacia.
Tale limite temporale, specificatamente stabilito dagli artt. 16, comma 5, e 17 della legge n. 1150 del 1942 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo tra le parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere ed il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal piano medesimo, ma che, tuttavia, non può incidere sulla validità massima, prevista dalla legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria.
Ne consegue che, scaduto il termine di efficacia stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile portare ad esecuzione gli espropri preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, non potendosi, in particolare, procedere all’edificazione residenziale per assenza di tale fondamentale presupposto.

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6.1. Alcune preliminari considerazioni in punto di diritto appaiono utili al Collegio ai fini del decidere.
6.2. Nel sistema normativo attualmente vigente i piani di lottizzazione e/o particolareggiati hanno durata decennale, sicché, decorso infruttuosamente detto termine, essi perdono efficacia (cfr., Cons. St., sez. IV, 27.04.2015, n. 2109; idem, TAR Umbria, sez. I., 07.12.2001, n. 650).
Tale limite temporale, specificatamente stabilito dagli artt. 16, comma 5, e 17 della legge n. 1150 del 1942 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo tra le parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere ed il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal piano medesimo, ma che, tuttavia, non può incidere sulla validità massima, prevista dalla legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria (cfr., in detti termini, Cons. St., sez. VI, 05.12.2013, n. 5807; Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2013, n. 1574; Cons. St., sez. IV, 28.12.2012, n. 6703).
6.3. Ne consegue che, scaduto il termine di efficacia stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile portare ad esecuzione gli espropri preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, non potendosi, in particolare, procedere all’edificazione residenziale per assenza di tale fondamentale presupposto (in tal senso, Cons. St., sez. IV, 27.10.2009, n. 6572) (TAR Umbria, sentenza 28.11.2016 n. 745 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi e ambientali - Casetta prefabbricata in legno - Estinzione per prescrizione del reato di costruzione abusiva - Zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Assenza del permesso di costruire e del prescritto nulla osta - Reato di costruzione abusiva - Natura permanente - Condotta, cessazione e prescrizione - Artt. 44, lett. c), DPR n. 380/2001 e 181 d.Lvo n. 42/2004.
Il reato di costruzione abusiva ha natura permanente per tutto il tempo in cui continua l'attività edilizia illecita, ed il suo momento dì cessazione va individuato o nella sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta ex auctoritate, o nella ultimazione dei lavori per il completamento dell'opera o, infine, nella sentenza di primo grado ove i lavori siano proseguiti dopo l'accertamento e sino alla data del giudizio.
Si tratta di un principio affermato anche con riferimento al reato previsto dall'art. 181, comma 1, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, qualora la fattispecie sia realizzata, come nella specie, attraverso una condotta che si protragga nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo, trattandosi di reato che ha natura permanente e che si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo.
Sicché, l'estinzione per prescrizione del reato di costruzione abusiva travolge l'ordine di demolizione delle opere illecite, in quanto esso presuppone comunque la pronuncia di una sentenza di condanna (o ad essa equiparata); non risulta, quindi, sufficiente l'avvenuto accertamento della commissione dell'abuso come nel caso di sentenza che rileva l'intervenuta prescrizione del reato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.11.2016 n. 49838 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria, l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
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L’Amministrazione non può effettuare, d’ufficio, una valutazione di conformità di un intervento edilizio realizzato senza titolo, in assenza di una istanza di condono.
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L'attività sanzionatoria della P.A. sull'attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione delle opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull'interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
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... per l'annullamento dell'ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi (prot. n. 1863 reg. ordinanze n. 279) emessa in data 19.07.2007 dal Responsabile del servizio tecnico del Comune di Fiorano Canavese nei confronti di Mi.Ol., notificata in data 25.07.2007;
...
II) La ricorrente ha impugnato l’ordinanza di demolizione di due distinti manufatti, per uno dei quali ha presentato domanda di sanatoria nel corso di giudizio.
Si deve ricordare che secondo l’orientamento consolidato, la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di sanatoria, l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Pertanto il ricorso va dichiarato improcedibile nella parte in cui è gravato l’ordine di demolizione della muratura esterna.
Per il resto è invece infondato.
La stessa ricorrente afferma che le opere sono state realizzate senza titolo, ma, a fronte dalla loro conformità alla disciplina edilizia e urbanistica vigente, ritiene che l’ordinanza sia illegittima, per difetto di istruttoria e di motivazione.
Il motivo non è fondato, in quanto l’Amministrazione non può effettuare, d’ufficio, una valutazione di conformità di un intervento edilizio realizzato senza titolo, in assenza di una istanza di condono.
Quanto alla motivazione e al decorso del termine, si deve richiamare l’orientamento prevalente secondo cui l'attività sanzionatoria della P.A. sull'attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione delle opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull'interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Nella memoria del 09.09.2015 la ricorrente ha rilevato che l’ordinanza non è stata notificata al marito, comproprietario dell’immobile: volendo considerare questo rilievo al pari di una censura, va dichiarata inammissibile perché introdotta con una memoria non notificata e comunque tardivamente (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 23.11.2016 n. 1448 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDeve trovare applicazione la nuova disciplina che impone l’obbligo di apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica, adempimento che risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa.
Trattandosi di un passaggio essenziale della procedura concorsuale, la mancata pubblicità delle sedute di gara costituisce non una mera mancanza formale, ma una violazione sostanziale, che invalida la procedura, senza che occorra la prova di un'effettiva manipolazione della documentazione prodotta e le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post, una volta rotti i sigilli e aperti i plichi.
Si tratta, evidentemente, di un passaggio procedimentale che non ammette equipollenti, in quanto richiesto ora da una norma primaria, per cui, in caso di violazione, non può essere in alcun modo “sanato”, con conseguente impossibilità di applicare l’art 21-octies comma 2, prima parte, della l. n. 241/1990, dettato per i soli vizi c.d. formali.

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2.2.2 E’ invece fondata la seconda doglianza relativa alla violazione dei principi di trasparenza ed imparzialità, in quanto è incontestato che l’apertura delle buste recanti l’offerta tecnica si è svolta in seduta riservata.
L’obbligo di apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica discende dall'articolo 12 del decreto legge 07.05.2012, n. 52 che ha modificato l'articolo 283, comma 2, del d.p.r. n. 207 del 2010 prevedendo espressamente l'apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti le offerte tecniche.
La disposizione per le procedure concluse o pendenti alla data del 09.05.2012, ha previsto la sanatoria del vizio per il caso in cui i medesimi plichi siano stati aperti in seduta riservata.
La sentenza citata dalle difese della stazione appaltante e della controinteressata (Consiglio di Stato n. 275/2016) al fine di affermare la semplice irregolarità delle operazioni di gara, attiene ad una fattispecie differente, in cui la seduta di apertura delle buste tecniche risaliva al 2009, prima della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 13/2011: in quel caso la lettera d'invito prevedeva la seduta pubblica per l'apertura delle buste tecniche, mentre detta operazione si era svolta in seduta riservata.
I Giudici d’appello hanno ritenuto che sussistesse la violazione della lex specialis, ma che questa illegittimità, scaturente dalla violazione di una norma procedimentale stabilita nella lex specialis in modo difforme dalla regola normativa, non comportasse l'annullamento della gara, trovando applicazione l'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990.
Ritiene però il Collegio di dover sottolineare la diversità del caso in esame, in cui deve trovare applicazione la nuova disciplina che impone l’obbligo di apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica, adempimento che risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa.
Trattandosi di un passaggio essenziale della procedura concorsuale, la mancata pubblicità delle sedute di gara costituisce non una mera mancanza formale, ma una violazione sostanziale, che invalida la procedura, senza che occorra la prova di un'effettiva manipolazione della documentazione prodotta e le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post, una volta rotti i sigilli e aperti i plichi (Cons. St., A.P., 28.07.2011, n. 13; Cons. St., sez. III, 04.11.2011, n. 5866; Cons. St., sez. V, 07.11.2006, n. 6529).
Si tratta, evidentemente, di un passaggio procedimentale che non ammette equipollenti, in quanto richiesto ora da una norma primaria, per cui, in caso di violazione, non può essere in alcun modo “sanato”, con conseguente impossibilità di applicare l’art 21-octies comma 2, prima parte, della l. n. 241/1990, dettato per i soli vizi c.d. formali (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 23.11.2016 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Come è ampiamente noto, il provvedimento che ingiunge la demolizione è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la constatata esecuzione dell'opera in difformità dalla concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione né, trattandosi di atti del tutto vincolati, è necessaria una comparazione di interessi e una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.

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6). Infine, con il sesto motivo di ricorso la ricorrente lamenta che mancherebbe l’interesse pubblico alla rimozione delle opere.
La doglianza è priva di qualsiasi fondamento alla luce del consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229).
Come è ampiamente noto, il provvedimento che ingiunge la demolizione è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la constatata esecuzione dell'opera in difformità dalla concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione né, trattandosi di atti del tutto vincolati, è necessaria una comparazione di interessi e una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Consiglio Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5229; TAR Campania Napoli, sez. VI, 07.09.2009, n. 4899; TAR Lazio Roma, sez. I, 16.07.2009 , n. 7036; TAR Lazio Roma, sez. I, 02.04.2009, n. 3579) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. VI, sentenza 16.11.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIn tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.
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Il d.m. 02.04.1968, n. 1444 (emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dalla legge 06.08.1967, n. 765), ed in particolare l'art. 9 di tale decreto, impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o nella revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante nei rapporti tra privati.
Ciò significa, però, che i limiti in tema di distanze prescritti dall'art. 9 del d.m. citato non sono direttamente applicabili nei rapporti tra privati finché non siano stati inseriti negli strumenti appositamente formati o revisionati, mentre l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma
fa insorgere l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio di applicare immediatamente la disposizione del menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata.
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L'invocato art. 9, ultimo comma, del D.M. 04.04.1968 n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata.
Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è, quindi, recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, bensì dal primo comma dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva
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L'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 costituisce espressione di una «sintesi normativa», consentendo che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur provvista di «efficacia precettiva e inderogabile», solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
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I - Il primo motivo del ricorso di Gr.Am. Di Ma., Em. D'Al. e Sa. D'Al. deduce la violazione dell'art. 9, comma 3, d.m. n. 1444/1968 in rapporto all'art. 22 della Norme tecniche di attuazione del Piano Regolatore Generale del Comune di Roseto degli Abruzzi, nonché la violazione dell'art. 27 della legge n. 457/1978. Viene criticata la sentenza d'appello per non aver condiviso l'assunta conformità dell'art. 22 della N.T.A. all'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, ovvero comunque all'art. 27 della legge n. 457/1978.
I ricorrenti invocano la configurabilità dell'ipotesi di deroga di cui al comma 3 del citato art. 9, ricorrente per i gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche, in quanto l'art. 22 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Roseto si riferiva alla sola Zona B del territorio comunale, prevedendo la deroga alle distanze maggiori "in considerazione ... della particolare tessitura urbana comune a tutte le sottozone, al fine di conservare il carattere urbanistico ormai consolidatosi".
Inoltre, la deroga era stabilita per lo più per le ristrutturazioni in ampliamento o le nuove costruzioni per le parti non eccedenti i due piani fuori terra e l'altezza massima di 7,50 ml. Inoltre, l'intervento edilizio della Di Ma. si collocava nella "Zona di recupero" individuata agli effetti dell'art. 27, comma 1, legge n. 457/1978, circostanza non considerata dalla Corte d'Appello e confermata dalle successive determinazioni comunali del 06.08.2013 e 12.09.2013.
Il secondo motivo del ricorso di Gr.Am. Di Ma., Em. D'Al. e Sa. D'Al. allega la violazione dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e dell'art. 42 Cost. sostenendo che avrebbe errato la Corte d'Appello a ritenere applicabile l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968 in via diretta nei rapporti tra privati, avendo tale norma quale destinatari i soli comuni.
I due motivi di ricorso, che possono trattarsi congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.
Secondo, infatti, l'ormai consolidato orientamento di questa Corte,
in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15458 del 26/07/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3199 del 11/02/2008).
Ne consegue che correttamente la Corte d'Appello di L'Aquila ha concluso nel senso che l'art. 22, lettera b, delle Norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Roseto degli Abruzzi, vigente ratione temporis, (secondo cui "In caso di ristrutturazioni in ampliamento e/o la costruzione di nuovi edifici per la parti che non superino i due piani di altezza fuori terra ed un'altezza massimo di 7,50 mi, ivi compresi quelli del punto o) del presente articolo ... l'edificazione può anche avvenire alle stesse distanze dei confini degli edifici prospicienti ed insistenti sui lotti limitrofi all'area oggetto di intervento alla data di adozione del PRG"), essendo in contrasto con le previsioni del citato art. 9, doveva essere disapplicato dal giudice ordinario, a norma dell' art. 5, legge 20.03.1865, n. 2248, all. E.
Quanto, in particolare, alla tesi sostenuta nel secondo motivo di ricorso, questa Corte ha precisato come
il d.m. 02.04.1968, n. 1444 (emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dalla legge 06.08.1967, n. 765), ed in particolare l'art. 9 di tale decreto, impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o nella revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante nei rapporti tra privati.
Ciò significa, però, che i limiti in tema di distanze prescritti dall'art. 9 del d.m. citato non sono direttamente applicabili nei rapporti tra privati finché non siano stati inseriti negli strumenti appositamente formati o revisionati, mentre l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma
(come appunto avvenuto nel caso per cui è in lite, con l'approvazione il 10.01.1990 del Piano Regolatore generale del Comune di Roseto degli Abruzzi e delle realtive N.T.A.) fa insorgere l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio di applicare immediatamente la disposizione del menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27558 del 31/12/2014; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7563 del 30/03/2006).
I ricorrenti sostengono, poi, che fosse, tuttavia, integrata nella specie l'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione.
Ora,
l'invocato art. 9, ultimo comma, del D.M. 04.04.1968 n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (Cass. Sez. U, Sentenza n. 1486 del 18/02/1997). Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è, quindi, recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, bensì dal primo comma dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12424 del 20/05/2010).
Come più generalmente affermato da Corte cost. 23.01.2013, n. 6,
l'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 costituisce espressione di una «sintesi normativa», consentendo che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur provvista di «efficacia precettiva e inderogabile», solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
Nel caso in esame, la Corte d'Appello ha negato che si fosse in presenza di un gruppo di edifici inclusi in un medesimo piano particolareggiato, ovvero di costruzioni facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata.
Il primo motivo del ricorso di Gr.Am. Di Ma., Em. D'Al. e Sa. D'Al., prospettato in rubrica sub specie di violazione dell'art. 9, comma 3, d.m. n. 1444/1968 e dell'art. 22 della N.T.A., nella sua esposizione, a ben vedere, non deduce un'erronea interpretazione o applicazione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle citate norme di legge, ma allega un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, profilo correlato alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto dell'omesso esame di fatto decisivo nella motivazione della sentenza.
Né può seguirsi il ragionamento dei ricorrenti, secondo cui la previsione dell'art. 22, lettera b, delle N.T.A. sarebbe comunque assimilabile alle ipotesi, aventi valida portata derogatoria, contemplate nel comma 3 dell'art. 9, d.m. n. 1444/1968, diverse essendo le norme tecniche di attuazione dei piani regolatori, le quali hanno natura regolamentare e danno luogo ad uno strumento meramente secondario e subalterno, rispetto ai piani particolareggiati ed alle lottizzazioni convenzionate, i quali danno luogo ad uno strumento urbanistico esecutivo
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 14.11.2016 n. 23136).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa responsabilità della P.A., ai sensi dell'art. 2043 c.c., per l'esercizio illegittimo della funzione pubblica, è configurabile qualora si verifichi un evento dannoso che incida su un interesse rilevante per l'ordinamento e che sia eziologicamente connesso ad un comportamento della P.A. caratterizzato da dolo o colpa, non essendo sufficiente la mera illegittimità dell'atto a determinarne automaticamente l'illiceità.
Ne consegue che il criterio di imputazione della responsabilità non è correlato alla sola illegittimità del provvedimento, ma ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento dell'elemento soggettivo e della connotazione dell'azione amministrativa come fonte di danno ingiusto.

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Quanto all'assunto della violazione dell'art. 2043 c.c., deve osservarsi come i ricorrenti abbiano, come visto, prospettato un obbligo risarcitorio del Comune di Roseto degli Abruzzi e della Provincia di Teramo per effetto dell'emanazione dell'art. 22, lettera b, delle Norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Roseto degli Abruzzi (ovvero di disposizioni di natura regolamentare), norma illegittima perché contrastante con l'art. 9, d.m. n. 1444/1968, nonché per effetto del rilascio delle concessioni edilizie in favore della Di Ma..
Si tratta, pertanto, di ipotesi peculiare, in quanto i privati qui non lamentano, come accade di frequente, l'illegittimo diniego di concessioni edilizie da parte della P.A., ovvero il danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, quanto il rilascio di concessioni edilizie rivelatesi illegittime, che avevano fatto costruire un immobile in violazione di norme inderogabili.
La pretesa risarcitoria dei ricorrenti è, allora, non meritevole di accoglimento, come correttamente deciso in dispositivo dai giudici del merito, seppure va prescelta una diversa motivazione di tale statuizione, ai sensi dell'art. 384, comma 4, c.p.c..
Questa Corte afferma costantemente che
la responsabilità della P.A., ai sensi dell'art. 2043 c.c., per l'esercizio illegittimo della funzione pubblica, è configurabile qualora si verifichi un evento dannoso che incida su un interesse rilevante per l'ordinamento e che sia eziologicamente connesso ad un comportamento della P.A. caratterizzato da dolo o colpa, non essendo sufficiente la mera illegittimità dell'atto a determinarne automaticamente l'illiceità. Ne consegue che il criterio di imputazione della responsabilità non è correlato alla sola illegittimità del provvedimento, ma ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento dell'elemento soggettivo e della connotazione dell'azione amministrativa come fonte di danno ingiusto (tra i precedenti più recenti, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23170 del 31/10/2014; Cass. Sez. 6- 3, Ordinanza n. 4172 del 15/03/2012; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 22508 del 28/10/2011; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12282 del 27/05/2009; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6005 del 15/03/2007).
Deve dunque affermarsi che non è ravvisabile fatto illecito, dal quale sia derivato un danno ingiusto risarcibile, nel comportamento osservato dal Comune di Roseto degli Abruzzi e dalla Provincia di Teramo, consistente nell'emanazione dell'art. 22, lettera b, delle Norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Roseto degli Abruzzi e nel rilascio in favore di Gr.Am. De Ma. di concessioni edilizie rivelatesi illegittime, e perciò disapplicate, in quanto contrastanti con l'art. 9 d.m. n. 1444/1968 (norma che prescrive una distanza minima inderogabile immediatamente operante anche nei confronti dei privati dopo la predisposizione dello strumento urbanistico locale), non essendo configurabile un interesse legittimo pretensivo allo svolgimento di attività edilizia oggettivamente non consentita dall'ordinamento, né meritando tutela, alla stregua del diritto positivo, l'interesse al bene della vita correlato alle spese ed agli investimenti che la De Ma. era stata indotta a sostenere in conseguenza dell'affidamento riposto nelle illegittime concessioni edilizie conseguite (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7479 del 27/03/2007)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 14.11.2016 n. 23136).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina antisismica e ruolo del progettista.
In tema di disciplina antisismica la sola veste di progettista non consente, di per se, di ravvisare il concorso nel reato, in quanto la fase di redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la redazione del progetto e l'attività di attuazione dello stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed alla quale il progettista deve avere fornito un apporto concreto ed ulteriore rispetto alla mera redazione del progetto.
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Il ricorso è fondato.
Il Tribunale di Messina ha affermato la responsabilità del ricorrente, in relazione alla violazione degli artt. 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001, a cagione della sua qualifica di progettista, senza altro aggiungere riguardo alla sua partecipazione alla realizzazione dell'illecito.
Ora,
benché l'art. 95 d.P.R. 380/2001 sanzioni la condotta di chiunque violi le disposizioni del capo IV del T.u. in materia di edilizia, e l'art. 93 del medesimo T.u. contempli la condotta di chiunque intenda procedere a costruzioni ed il successivo art. 94 stabilisca la necessità della preventiva autorizzazione per chiunque esegua interventi edilizi in zone sismiche, consentendo, dunque, il concorso dell'extraneus in tali reati, e cioè di soggetti ulteriori rispetto al committente ed all'esecutore materiale dei lavori, è necessario, però, che vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel reato: si deve cioè accertare che l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa (Sez. 3, n. 16571 del 23/03/2011, Iacono, Rv. 250147; Sez. 3, Ordinanza n. 7765 del 07/11/2013, Benigni, Rv. 258300).
In assenza di tale accertamento la sola veste di progettista non è consente, di per se, di ravvisare il concorso nel reato, in quanto la fase di redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la redazione del progetto e l'attività di attuazione dello stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed alla quale il progettista deve avere fornito un apporto concreto ed ulteriore rispetto alla mera redazione del progetto (Sez. 3, n. 8420 del 12/12/2002, Ridolfi, Rv. 224166).
Sussiste, di conseguenza, il vizio di motivazione denunciato in ordine alla partecipazione del ricorrente alla realizzazione degli illeciti che gli sono stati ascritti, che comporta la necessità di annullare la sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Messina, per nuovo esame alla stregua dei principi richiamati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.11.2016 n. 47271 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVINotifica al portiere nulla senza ricerche.
La notifica al portiere è nulla, se l'addetto alla notificazione non dà contezza delle previe ricerche effettuate per reperire l'effettivo destinatario e delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l'atto: è necessario che dai documenti di notifica si evincano le ricerche effettuate dall'agente, prima di consegnare il plico al portiere.

È quanto afferma la Corte di Cassazione - Sez. VI civile, nell'ordinanza 08.11.2016 n. 22707 con cui i giudici di Piazza Cavour hanno cassato la sentenza di seconde cure, sfavorevole al contribuente, e accolto il ricorso introduttivo, non essendo necessarie ulteriori indagini fattuali.
Il ricorso originario era stato proposto contro una cartella di pagamento, non preceduta, secondo il ricorrente, dal prodromico avviso di accertamento. L'Agenzia delle entrate, di contro, documentava l'avvenuta notifica di tale atto, consegnato al portiere dello stabile. Dopo i giudizi di merito favorevoli all'amministrazione, la Cassazione ha ribaltato l'esito, censurando la sentenza di seconde cure, laddove aveva «ritenuto valida la notificazione dell'avviso di accertamento effettuato nelle mani del portiere, senza che l'ufficiale giudiziario avesse adempiuto alla formalità di attestare le avvenute ricerche delle persone preferenzialmente abilitate alla ricezione dell'avviso di accertamento».
La notifica al portiere è contemplata dall'articolo 139, comma 3, del codice di procedura civile, quale via residuale, ovvero «in mancanza delle persone indicate nel comma precedente». L'iter va poi completato con l'invio della comunicazione di avvenuta notifica. Tuttavia, spiega la Cassazione, la notificazione può ritenersi valida soltanto ove sussista la prova scritta delle (vane) ricerche delle persone menzionate dal comma 2 del medesimo articolo 139, ovvero il destinatario, in primis, o una persona di famiglia o addetta alla casa.
Non sono necessarie particolari forme sacramentali da osservarsi, ma è comunque necessario che vi sia una minima traccia di tali ricerche nei documenti di notifica; soltanto dopo averle compiute (e attestate), l'agente notificatore può consegnare il plico al portiere o a un vicino di casa che accetti di riceverlo. «La particolarità della vicenda processuale» ha indotto la Corte di cassazione «a compensare integralmente tra le parti le spese dei gradi di merito e quelle di questo giudizio».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA.
(...) ricorre, affidandosi a unico motivo, avverso la sentenza, indicata in epigrafe, con cui la Commissione tributaria regionale del Lazio, in controversia relativa a impugnazione di cartella di pagamento, confermando la decisione di primo grado, aveva ritenuto ritualmente notificato al contribuente il prodromico avviso di accertamento. L'Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione mentre Equitalia Gerit s.p.a. non ha svolto attività difensiva.
A seguito di deposito di relazione ex art. 380-bis c.p.c. è stata fissata l'adunanza della Corte in camera di consiglio, con rituale comunicazione alle parti. Considerato in diritto con l'unico motivo il ricorrente deduce la violazione di legge perpetrata dal giudice di appello laddove aveva ritenuto valida la notificazione dell'avviso di accertamento effettuato nelle mani del portiere, senza che l'ufficiale giudiziario avesse adempiuto alla formalità di attestare le avvenute ricerche delle persone preferenzialmente abilitate alla ricezione dell'avviso di accertamento. La censura è fondata.
La giurisprudenza consolidata di questa Corte (ss.uu. n. 8214/2005, n. 24536/2009; n. 22151/2013) statuisce che, in caso di notifica nelle mani del portiere, l'ufficiale giudiziario deve dare atto oltre che della assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l'atto, onde il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l'assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall'art. 139 c.p.c. secondo la successione preferenziale da detta norma stabilita. È nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell'ufficiale giudiziario non contenga l'attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata.
Nel caso in esame, il mancato adempimento della suddetta formalità risulta dalla stessa sentenza impugnata. Ne deriva, in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la decisione nel merito della sentenza impugnata, l'accoglimento del ricorso introduttivo del contribuente. La particolarità della vicenda processuale induce a compensare integralmente tra le parti le spese dei gradi di merito e quelle di questo giudizio.
PQM
La Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo del contribuente. Compensa integralmente tra le parti le spese dei gradi di merito e quelle di questo giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi edilizi assentibili in mancanza di preventiva approvazione di Piano Attuativo.
La disamina della questione dev'essere allora compiuta alla luce dell'art. 9 d.P.R. n. 380/2001, da reputarsi immediatamente applicabile, secondo il paradigma operativo descritto dall'art. 2, comma 3, d.P.R. cit., nelle regioni a statuto ordinario, senza che rivestano alcuna rilevanza, ai fini che qui interessano, disposizioni regionali anteriori all'entrata in vigore del testo unico dell'edilizia.
Orbene, la legittimità della D.i.a. avrebbe dovuto essere vagliata dall’ente locale alla luce dell’art. 9 del d.P.R. n. 380/2001, dal quale non si desume l’insussistenza di una preclusione assoluta all’edificazione per la realizzazione di insediamenti produttivi in zone bianche e fuori dal perimetro dei centri abitati, “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione”.
L’art. 9 cit. consente, infatti, l’edificabilità diretta “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione”, purché vengano rispettate le condizioni sancite dalla stessa disposizione:
   a) che si tratti di un intervento di nuova edificazione da realizzarsi fuori dal perimetro dei centri abitati con il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro;
   b) che, in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non superi un decimo dell'area di proprietà.
Si desume, pertanto, che tutti gli interventi edilizi realizzati all’esterno del perimetro dei centri abitati, che determinino la trasformazione del territorio mediante la realizzazione di un organismo con una volumetria entro il limite di 0,03 metri cubi per metro quadro e una superficie coperta contenuta entro il limite di un decimo dell’area di proprietà avrebbero potuto essere realizzati anche in assenza del piano attuativo previsto dall’art. 72 delle N.T.A. del piano regolatore generale.
Nel caso di specie, alla luce di quanto disposto dall’art. 9 del d.p.r. 380 del 2001 è pertanto illegittima la motivazione assunta a fondamento dell’annullamento d’ufficio del titolo edilizio fondata sulla inammissibilità dell’intervento per l’assenza dello strumento urbanistico attuativo, non avendo il Comune verificato se l’intervento determinasse la creazione di organismi edilizi con superfici coperte e volumetrie superiori ai limiti prescritti dalla stessa disposizione.
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... per l'annullamento del provvedimento 26.11.2014, n. 105034, con il quale il dirigente del settore ricostruzione del Comune dell’Aquila ha disposto l’annullamento della DIA 13.03.2012, n. 254, relativa alla realizzazione di un impianto per la messe in riserva di rifiuti non pericolosi (R13) da costruzione e demolizione in L’Aquila sull’area distinta in catasto al foglio 61, part. 20;
...
6.- Il primo motivo posto a fondamento del provvedimento impugnato si basa sull'assunto secondo cui la d.i.a. n. 254/2012 violerebbe l’art. 72 delle N.T.A. del piano regolatore generale, che, nell’area in questione, situata in “zona artigianale di espansione” impone l’adozione di un piano urbanistico preventivo per la realizzazione di interventi edilizi.
Secondo la tesi di parte ricorrente l’intervento oggetto della dichiarazione di inizio di attività non sarebbe subordinato alla previa adozione di un piano attuativo, in quanto non realizza alcuna opera di carattere stabile e quindi non integra alcuna edificazione, trattandosi di un impianto dove i rifiuti vengono temporaneamente depositati e stoccati per poi essere trasferiti nell’impianto principale e quindi l’intervento realizzato si sarebbe sostanziato nella mera preparazione del terreno.
La ricorrente peraltro chiarisce la compatibilità dell’intervento in esame con la destinazione di zona (“artigianale di espansione”) prevista dal piano regolatore generale e la compatibilità degli impianti per la messa in riserva di rifiuti non pericolosi da costruzione e demolizione proprio in zone con destinazione artigianale o industriale.
Di contro, la difesa comunale ribadisce in giudizio la illegittimità della D.i.a. alla luce dell’art. 72 della N.T.A., che non consentiva l’edificabilità diretta, ma imponeva la previa adozione del piano attuativo preventivo ai sensi dell’art. 27 della legge 865/1971 e richiama la giurisprudenza secondo la quale la previsione di piano regolatore, che assoggetta di regola gli interventi edificatori alla previa approvazione di un piano particolareggiato per l’area interessata, è intesa a garantire un ordinato e armonico sviluppo del territorio ovvero ad assicurare il raccordo tra la nuova edificazione e le strutture esistenti.
Di qui il Comune deduce che: non vi sarebbero stati i presupposti di fatto e di diritto che avrebbero potuto legittimare l’intervento e quindi la formazione del titolo edilizio, anche alla luce dell’inesatta dichiarazione di controparte in ordine alla conformità dell’intervento al PRG, sottacendo il difetto del pregiudiziale piano attuativo.
6.1.- Al riguardo, il Collegio ritiene innanzitutto necessario chiarire che il Comune non contesta l’astratta insediabilità dell’impianto di stoccaggio di rifiuti non pericolosi nella zona in questione “artigianale di espansione”, ma lo ritiene illegittimo in quanto l’intervento è stato realizzato in assenza della preventiva adozione del piano attuativo.
La disamina della questione dev'essere allora compiuta alla luce dell'art. 9 d.P.R. n. 380/2001, da reputarsi immediatamente applicabile, secondo il paradigma operativo descritto dall'art. 2, comma 3, d.P.R. cit., nelle regioni a statuto ordinario, senza che rivestano alcuna rilevanza, ai fini che qui interessano, disposizioni regionali anteriori all'entrata in vigore del testo unico dell'edilizia.
Orbene, la legittimità della D.i.a. avrebbe dovuto essere vagliata dall’ente locale alla luce dell’art. 9 del d.P.R. n. 380/2001, dal quale non si desume l’insussistenza di una preclusione assoluta all’edificazione per la realizzazione di insediamenti produttivi in zone bianche e fuori dal perimetro dei centri abitati, “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione”.
L’art. 9 cit. consente, infatti, l’edificabilità diretta “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione”, purché vengano rispettate le condizioni sancite dalla stessa disposizione:
   a) che si tratti di un intervento di nuova edificazione da realizzarsi fuori dal perimetro dei centri abitati con il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro;
   b) che, in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non superi un decimo dell'area di proprietà.
Si desume, pertanto, che tutti gli interventi edilizi realizzati all’esterno del perimetro dei centri abitati, che determinino la trasformazione del territorio mediante la realizzazione di un organismo con una volumetria entro il limite di 0,03 metri cubi per metro quadro e una superficie coperta contenuta entro il limite di un decimo dell’area di proprietà avrebbero potuto essere realizzati anche in assenza del piano attuativo previsto dall’art. 72 delle N.T.A. del piano regolatore generale.
Nel caso di specie, alla luce di quanto disposto dall’art. 9 del d.p.r. 380 del 2001 è pertanto illegittima la motivazione assunta a fondamento dell’annullamento d’ufficio del titolo edilizio fondata sulla inammissibilità dell’intervento per l’assenza dello strumento urbanistico attuativo, non avendo il Comune verificato se l’intervento determinasse la creazione di organismi edilizi con superfici coperte e volumetrie superiori ai limiti prescritti dalla stessa disposizione (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 08.11.2016 n. 705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento di una DIA.
Nel caso di specie, poiché il provvedimento repressivo (della DIA) è stato adottato dopo la scadenza del termine perentorio di cui all'art. 23, comma 6, d.P.R. n 380 del 2001, occorre verificare la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 21-nonies legge n. 241 del 1990 per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio.
L'art. 21-nonies cit. prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nella specie, manca sia l'esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero ripristino della legalità violata) sia la valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio sia l’esame del sopravvenuto parere positivo dell’Autorità di bacino. Nel caso in esame l’affidamento ingenerato nella società odierna ricorrente, peraltro, era particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall'adozione della d.i.a. annullata, risultando trascorsi ben due anni e mezzo dal suo consolidamento.
Va aggiunto sotto tale profilo che il decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha introdotto uno sbarramento temporale all'esercizio del potere di autotutela, rappresento da "diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici".
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis al caso di specie, in quanto entrata in vigore dopo la presentazione della d.i.a., ogni caso, come il giudice d’appello ha già avuto modo di chiarire, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti.

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... per l'annullamento del provvedimento 26.11.2014, n. 105034, con il quale il dirigente del settore ricostruzione del Comune dell’Aquila ha disposto l’annullamento della DIA 13.03.2012, n. 254, relativa alla realizzazione di un impianto per la messe in riserva di rifiuti non pericolosi (R13) da costruzione e demolizione in L’Aquila sull’area distinta in catasto al foglio 61, part. 20;
...
9.- Il parere negativo dell’Autorità di bacino del 18.06.2012 (poi superato, come sopra chiarito, dal successivo parere con prescrizioni, reso della medesima Autorità il 31.07.2014), inficiando la validità della d.i.a., avrebbe consentito all'Amministrazione di intervenire sul titolo, adottando un provvedimento inibitorio/ripristinatorio o entro il termine di decadenza previsto dall'art. 23, comma 6, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, oppure, scaduto infruttuosamente tale termine, soltanto ricorrendo le condizioni alle quali l'art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, subordina l'esercizio del potere di autotutela.
Nel caso di specie, poiché il provvedimento repressivo è stato adottato dopo la scadenza del termine perentorio di cui all'art. 23, comma 6, d.P.R. n 380 del 2001, occorre verificare la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 21-nonies legge n. 241 del 1990 per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio.
10-. L'art. 21-nonies cit. prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nella specie, manca sia l'esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero ripristino della legalità violata) sia la valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio sia l’esame del sopravvenuto parere positivo dell’Autorità di bacino. Nel caso in esame l’affidamento ingenerato nella società odierna ricorrente, peraltro, era particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall'adozione della d.i.a. annullata, risultando trascorsi ben due anni e mezzo dal suo consolidamento.
Va aggiunto sotto tale profilo che il decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha introdotto uno sbarramento temporale all'esercizio del potere di autotutela, rappresento da "diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici".
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis al caso di specie, in quanto entrata in vigore dopo la presentazione della d.i.a., ogni caso, come il giudice d’appello ha già avuto modo di chiarire, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625).
11.- Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso merita accoglimento (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 08.11.2016 n. 705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 35, comma 17, della legge n. 47/1985, prevede che <<decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda di condono edilizio, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all'accatastamento>>.
Lo stesso art. 35, comma 17 della legge n. 47/1985 fa salve dall’applicazione della disciplina del silenzio-assenso le ipotesi (disciplinate dall’art. 40, comma 1, della medesima legge) di domanda di condono presentata oltre il termine prescritto, di dichiarazioni dolosamente infedeli e di domande di condono aventi ad oggetto opere non suscettibili di sanatoria elencate all'art. 33 della legge n. 47/1985.
Al di fuori delle tipizzate ipotesi di esclusione dalla disciplina del silenzio-assenso, la giurisprudenza ha costantemente affermato che il rigetto per mancanza di uno dei requisiti di legge, deve essere comunque pronunciato dal Comune entro il perentorio termine biennale ex art. 35, comma 17, l. 28.02.1985 n. 47, decorso il quale si forma il c.d. "silenzio-assenso" ed è preclusa a detta amministrazione la possibilità di emanare legittimamente un provvedimento di diniego di concessione in sanatoria, senza prima aver annullato d'ufficio l'assenso così formatosi.
Va però chiarito che la sola presentazione di una domanda di condono non può rappresentare un titolo abilitativo edilizio, in quanto il termine per la formazione del silenzio assenso non decorre:
   a) se non sussistono i presupposti previsti dal combinato disposto di cui all’art. 11 del D.P.R. 380 del 2001 e all’art. 31, comma 3, L. 28/02/1985, n. 47, per il rilascio del titolo edilizio, laddove l’istante non dimostra di essere proprietario o in possesso di altro titolo che lo legittima a richiederlo o non produce documentazione idonea a dimostrare di essere legittimamente interessato al conseguimento della sanatoria medesima;
   b) se non è stata pagata l’oblazione nella misura prevista;
   c) se alla domanda di condono non è allegata la documentazione specificamente elencata all’art. 35, comma 3, della legge n. 47 del 1985;
   d) se non è acquisito il parere dei competenti organi tecnici;
   e) se l’interessato ha presentato dichiarazioni infedeli circa la consistenza e le caratteristiche dell'opera abusiva.
Anche nel caso di specie, quindi, la sola presentazione della domanda di condono non è sufficiente a considerare come rilasciato “per silentium” il titolo edilizio richiesto, considerata la mancata presentazione, da parte dell’istante, della documentazione atta a dimostrare il diritto di proprietà esclusiva sull’area o altro titolo legittimante, come previsto dal combinato disposto degli articoli 11 del D.P.R. 380 del 2001 e 31, comma 3, L. 28/02/1985, n. 47.

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Il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
Se è vero che il titolo edilizio in sanatoria è rilasciato facendo salvi i diritti dei terzi e che il Comune non è tenuto ad effettuare complessi accertamenti in ordine alla titolarità del bene, è altresì vero che, in caso di dissidio fra proprietari, perché le opere di cui si chiede il condono incidono sul diritto di alcuni di essi, è necessario che l'istruttoria della pratica ed il provvedimento finale diano conto della verifica della legittimazione del soggetto richiedente.
La giurisprudenza, infatti, ha considerato inapplicabile l'istituto del condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi comuni da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri.
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5.- Il ricorso è infondato.
5.1.- L’art. 35, comma 17, della legge n. 47/1985, prevede che <<decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all'accatastamento>>.
Lo stesso art. 35, comma 17 della legge n. 47/1985 fa salve dall’applicazione della disciplina del silenzio-assenso le ipotesi (disciplinate dall’art. 40, comma 1, della medesima legge) di domanda di condono presentata oltre il termine prescritto, di dichiarazioni dolosamente infedeli e di domande di condono aventi ad oggetto opere non suscettibili di sanatoria elencate all'art. 33 della legge n. 47/1985.
Al di fuori delle tipizzate ipotesi di esclusione dalla disciplina del silenzio-assenso, la giurisprudenza ha costantemente affermato che il rigetto per mancanza di uno dei requisiti di legge, deve essere comunque pronunciato dal Comune entro il perentorio termine biennale ex art. 35, comma 17, l. 28.02.1985 n. 47, decorso il quale si forma il c.d. "silenzio-assenso" ed è preclusa a detta amministrazione la possibilità di emanare legittimamente un provvedimento di diniego di concessione in sanatoria, senza prima aver annullato d'ufficio l'assenso così formatosi (Consiglio di Stato, sez. V, 24/03/1997, n. 286; Consiglio di Stato, sez. V, 22/01/2003, n. 250).
Va però chiarito che la sola presentazione di una domanda di condono non può rappresentare un titolo abilitativo edilizio, in quanto il termine per la formazione del silenzio assenso non decorre:
   a) se non sussistono i presupposti previsti dal combinato disposto di cui all’art. 11 del D.P.R. 380 del 2001 e all’art. 31, comma 3, L. 28/02/1985, n. 47, per il rilascio del titolo edilizio, laddove l’istante non dimostra di essere proprietario o in possesso di altro titolo che lo legittima a richiederlo o non produce documentazione idonea a dimostrare di essere legittimamente interessato al conseguimento della sanatoria medesima;
   b) se non è stata pagata l’oblazione nella misura prevista;
   c) se alla domanda di condono non è allegata la documentazione specificamente elencata all’art. 35, comma 3, della legge n. 47 del 1985 (Consiglio di Stato, sez. VI, 11/09/2013, n. 4493);
   d) se non è acquisito il parere dei competenti organi tecnici (Consiglio di Stato, sez. VI, 04/10/2013, n. 4907);
   e) se l’interessato ha presentato dichiarazioni infedeli circa la consistenza e le caratteristiche dell'opera abusiva.
Anche nel caso di specie, quindi, la sola presentazione della domanda di condono non è sufficiente a considerare come rilasciato “per silentium” il titolo edilizio richiesto, considerata la mancata presentazione, da parte dell’istante, della documentazione atta a dimostrare il diritto di proprietà esclusiva sull’area o altro titolo legittimante, come previsto dal combinato disposto degli articoli 11 del D.P.R. 380 del 2001 e 31, comma 3, L. 28/02/1985, n. 47.
5.2.- Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria. Se è vero che il titolo edilizio in sanatoria è rilasciato facendo salvi i diritti dei terzi e che il Comune non è tenuto ad effettuare complessi accertamenti in ordine alla titolarità del bene (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990), è altresì vero che, in caso di dissidio fra proprietari, perché le opere di cui si chiede il condono incidono sul diritto di alcuni di essi, è necessario che l'istruttoria della pratica ed il provvedimento finale diano conto della verifica della legittimazione del soggetto richiedente.
La giurisprudenza, infatti, ha considerato inapplicabile l'istituto del condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi comuni da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri (Cons. St, sez. V, 08.11.2011, n. 5894).
Traslando i principi esposto al caso di specie, il Comune, lungi dall’aver condotto un’istruttoria carente, ha dapprima, con nota 10.03.2010, n. 2712, informato l’istante della mancanza di un titolo legittimante alla richiesta di sanatoria e ha poi correttamente respinto la richiesta di condono a causa della mancata dimostrazione da parte dell’istante del possesso di un titolo di proprietà esclusiva sull’area su cui è stata realizzata la tettoia abusiva.
Invero, in presenza di contestazione da parte dei proprietari dell’area sulla quale era stato realizzato il manufatto abusivo, il Comune riteneva inidonea l’autocertificazione resa ai sensi dell’art. 4 della legge 04.01.1968, n. 15, con la quale la signora Di Agostino dichiarava di aver “ereditato la proprietà e comunque il possesso dell’appezzamento di terreno” individuato in catasto al foglio 39, part. 32.
Peraltro, la domanda di condono non è stata corredata da alcuna manifestazione di volontà dei comproprietari dell’area su cui insiste il manufatto abusivo, che avrebbe avuto carattere autorizzatorio e quindi idoneo a conferire alla signora Di Ag. la legittimazione a presentare l’istanza per ottenere il titolo edilizio in sanatoria, sicché deve ritenersi, conformemente a quanto sostenuto dal Comune, che la ricorrente fosse priva di legittimazione a richiedere il titolo edilizio.
In conclusione, il Comune di Campli ha espletato l'accertamento relativo all'esistenza in capo alla signora Gi. Di Ag. di un idoneo titolo di disponibilità giuridica dell'immobile. E tale doveroso accertamento, alla luce delle risultanze dell’istruttoria, ha coerentemente indotto il Comune a ritenere la insussistenza dei presupposti per l’ammissibilità della domanda di condono.
In particolare, come emerge dalla documentazione versata in atti, i signori Al. Di Em. e Do. Di An. avevano rappresentato al Comune, con note 06.03.2004 e 24.01.2005 che:
   a) la signora Di Ag. non vantasse alcun diritto sull’area dove era stata realizzata la tettoia abusiva, in quanto tale area, distinta in catasto al foglio 39, part. 32, costituiva corte comune in comproprietà tra i signori Di Em., Di An. ed altri comproprietari;
   b) non risultava veritiero quanto dichiarato dalla signora Di Ag. con l’autocertificazione allegata alla domanda circa l’acquisto, per eredità, della proprietà e del possesso del bene, atteso che Fi. D’Ag. (dante causa della odierna ricorrente), citato in giudizio Al. Di Em. e Do. Di An. proprio per l’occupazione della corte comune con la realizzazione della tettoia, in tale giudizio, all’udienza del 18.07.1995 rinunziava alla domanda riconvenzionale volta all’accertamento dell’usucapione, così come risulta, peraltro, dall’ordinanza del giudice istruttore dell’08.08.1996;
   c) comunque tale giudizio civile era stato dichiarato estinto.
6.- Per quanto sinora evidenziato il ricorso deve essere respinto in quanto infondato nel merito (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 08.11.2016 n. 698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTITarsu, accertamento ko a convenzione scaduta.
L'accertamento per la Tarsu, emesso dall'ente affidatario del servizio di accertamento e riscossione dei tributi comunali, è nullo se, prima della sua emissione è scaduta la convenzione tra il comune e l'ente stesso; sussiste, in tal caso, un difetto di legittimazione attiva in capo al concessionario, che abbia agito per conto del comune scavalcando i termini di vigenza della specifica convenzione.

È quanto si legge nella sentenza 27.10.2016 n. 5974/08/2016 della Ctp di Salerno.
La vertenza nasce dal ricorso presentato da una contribuente, contro un avviso di accertamento Tarsu relativo alle annualità 2010, 2011 e 2012, per un appartamento sito nel comune di Sarno (Sa). La maggiore imposta scaturiva dalla rettifica della superficie accertata per l'immobile, dai dichiarati 50 a 72 mq. L'atto era stato emesso dalla società concessionaria del servizio di accertamento e riscossione dei tributi locali.
La difesa di parte ricorrente eccepiva, in primis, il difetto di legittimazione attiva della società concessionaria, rilevando che la convenzione con il comune di Sarno fosse scaduta nel maggio del 2015, mentre l'accertamento risultava notificato a dicembre 2015. Tra le altre doglianze, un difetto di notifica, il mancato sopralluogo presso l'immobile e la carenza di motivazione.
La resistente si costituiva in giudizio, depositando un accordo stragiudiziale di proroga dei servizi, per le pratiche già in carico.
Il motivo relativo alla carenza di legittimazione del concessionario ha fatto breccia nel pensiero del collegio giudicante. La Ctp di Salerno, infatti, ha accolto il ricorso e annullato l'avviso di accertamento. Dopo la scadenza della convenzione tra il comune e il concessionario, quest'ultimo non può più compiere atti impositivi e recuperare i tributi comunali, venendo meno la sua legittimazione attiva. Con la conseguenza che tale difetto si traduce nella nullità degli atti emessi. Sulla questione della presunta proroga, invece, la commissione ha rilevato che l'accordo riguardava soltanto l'esaurimento della fase di riscossione dei tributi in carico: con la conseguenza che ogni attività accertativa doveva essere esperita direttamente dall'ente comunale.
La decisione dei giudici campani, favorevole alla parte contribuente, è stata mitigata dalla compensazione integrale delle spese di giudizio.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA.
La ricorrente contro la Soget spa avverso l'avviso di accertamento Tarsu n. 1-065135-15-00007768-73 per gli anni 2010, 2011 e 2012 notificata in data 7/12/2015 con la quale viene accertata una maggiore superficie Tarsu da mq 50 a mq 72 relativa all'immobile ubicato in Sarno.
La ricorrente eccepisce la legittimità dell'avviso di accertamento per una serie di motivi, quali: violazione dell'art. 140 c.p.c. per errata notifica; difetto di legittimazione attiva della Soget privo dei relativi poteri accertativi per intervenuta scadenza del contratto di concessione in gestione del servizio di accertamento tra il comune di Sarno e la Soget; inesistenza del sopralluogo e preavviso da parte degli addetti che avrebbero dovuto rilevare la superficie accertata; errata indicazione degli importi pagati e conseguente errore sulla differenza tarsu accertata; errata indicazione della modalità di calcolo degli interessi; motivazione apparente; carenza del visto di esecutorietà.
Si conosce in giudizio la Soget con atto di controdeduzione si riserva di articolare le proprie ragioni avverso l'eccezioni della parte ricorrente.
Parte ricorrente propone memorie a ulteriore illustrazione di quanto eccepito nel ricorso introduttivo.
In data 27.09.2016 si è riunita la Commissione per la trattazione del ricorso che ha così deciso: «L'eccezione del difetto di legittimazione attiva della Soget spa appare fondata: dalla documentazione allegata nel ricorso risulta scaduta in data 16.05.2015 la convenzione del servizio di accertamento tra il comune di Sarno e la Soget.
Il successivo accordo stragiudiziale del 21/05/2015 prot. 17839/2015 con il quale viene formalizzato il passaggio delle consegne al comune di Sarno degli atti prodotti dalla Soget durante il servizio in convenzione e l'ultimazione in capo a quest'ultima dell'attività residua di riscossione, non investe l'attività accertativa che, a partire dal 16/05/2015 doveva ricadere nelle attribuzioni del comune di Sarno. L'atto impugnato è stato emesso dalla Soget in data 26/11/2015 e notificato alla ricorrente in data 07.12.2015 e pertanto va annullato.
Assorbite tutte le altre eccezioni.
PQM
La commissione accoglie il ricorso. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016).

TRIBUTIAvviso di ricevimento, fa fede indirizzo giusto.
L'avviso di ricevimento della raccomandata con cui è stata spedita la cartella di pagamento funge da prova della notifica, salvo che l'indirizzo indicato sullo stesso sia quello sbagliato; in tal caso, non è neppure necessario proporre querela di falso per superare il valore probatorio di tale documento. Di più. L'indirizzo indicato sulla dichiarazione dei redditi, diverso da quello di residenza, può valere come elezione di domicilio, ma non all'infinito; al limite, ciò può valere per l'anno di presentazione della dichiarazione, ma non per gli anni a seguire in cui tale indicazione sia stata omessa.

Sono i principi che si leggono nella sentenza 17.10.2016 n. 745/02/2016 della Ctp di Frosinone (presidente Ferrara, relatore Pacetti).
La vertenza nasce dal ricorso proposto da un contribuente contro dei ruoli esattoriali conosciuti attraverso l'estratto rilasciato dall'agente della riscossione. La contestazione principale riguardava la notifica delle cartelle di pagamento. A tal proposito, venivano depositati gli avvisi di ricevimento delle cartelle, tutte notificate a mezzo posta.
Tuttavia, tali raccomandate risultavano spedite a un indirizzo diverso dalla residenza anagrafica: l'amministrazione sosteneva di aver appreso tale indirizzo dalle dichiarazioni presentate dal contribuente negli anni addietro, indicandolo come domicilio fiscale.
Il giudice tributario, tuttavia, ha rilevato che le dichiarazioni a cui si riferiva l'ufficio finanziario risultavano presentate molti anni addietro rispetto alle notifiche delle cartelle di pagamento: in sostanza, si legge nella sentenza, un indirizzo indicato sulla dichiarazione dei redditi del 2005 non può risultare come valido riferimento per la notifica di una cartella nell'anno 2013. Di contro, il riferimento principale, ovvero la residenza anagrafica, è un dato facilmente appurabile, a cui l'amministrazione può risalire senza particolari sforzi.
Dunque, poiché gli avvisi di ricevimento facevano capo a questo indirizzo, ritenuto invalido dalla Ctp, nessuna prova poteva attribuirsi loro, non rendendosi necessaria alcuna azione di disconoscimento o querela; in linea con quanto sostenuto dalla Corte di cassazione nella sentenza 879/2016, secondo cui «perché l'avviso di ricevimento provi, fino a querela di falso, che l'atto sia stato consegnato al destinatario è dunque necessario che: a) l'atto sia stato consegnato all'indirizzo del destinatario».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA.
In premessa, si rileva l'ammissibilità del ricorso proposto contro le cartelle di pagamento conosciute attraverso l'estratto di ruolo rilasciato dall'agente della riscossione, per impugnare cartelle non correttamente notificate. È ammissibile l'impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata validamente notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l'estratto di ruolo, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell'ultima parte del terzo comma dell'art. 19 del dlgs n. 546 del 1992, così come disposto dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza del 02.10.2015, n. 19704. [omissis]
La prova con cui l'amministrazione sostiene che le notifiche siano state effettuate si rinviene negli avvisi di ricevimento depositati agli atti che però possono svolgere tale funzione, e quindi fungere da piena prova della notifica sino a querela di falso, soltanto se indirizzati nel luogo ove la stessa notifica doveva essere eseguita.
Nessun valore ha, invece, un avviso di ricevimento indirizzato in un luogo diverso dalla residenza o dal domicilio fiscale eventualmente eletto altrove. Sotto tale aspetto, poi, non può accogliersi l'eccezione dell'ufficio secondo cui il contribuente avrebbe indicato altro indirizzo di domicilio fiscale sulle dichiarazioni dei redditi presentate negli anni passati. Infatti, l'elezione di domicilio ai sensi dell'articolo 60, comma 1, lettera d), del dpr 29.09.1973, n. 600 «deve risultare espressamente da apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate».
Dunque, l'indicazione di un indirizzo diverso dalla residenza, su una dichiarazione dei redditi relativa ad annualità precedenti non può fungere a tale scopo e soprattutto tale indicazione non può essere a carattere perpetuo: ovvero, se l'elezione di domicilio può al limite presumersi per l'anno d'imposta a cui la dichiarazione dei redditi si riferisce, tale elezione non può valere per gli anni successivi, ovvero per quelli in cui sono state notificate le cartelle di pagamento.
Nel caso di specie, per esempio, l'indicazione di un indirizzo sulla dichiarazione dei redditi dell'anno 2005 non può giustificare il fatto che l'amministrazione notifichi a tale indirizzo una cartella nell'anno 2013. Ciò anche considerando che la residenza del contribuente è una circostanza facilmente appurabile per l'amministrazione finanziaria, che ha a disposizione tutti gli strumenti per risalirvi immediatamente e senza particolari sforzi.(...) (articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016).

TRIBUTINo profit, paletti all'esenzione. Niente imposte quando non cambia la destinazione. La Cassazione: il mancato uso dell'immobile non fa perdere il diritto al regime agevolato.
Un ente no profit ha diritto all'esenzione Ici se l'immobile è destinato ad attività svolte con modalità non commerciali, anche se non viene utilizzato. Il mancato utilizzo non fa perdere il diritto al trattamento agevolato, a meno che non sia un indizio del mutamento di destinazione del bene o della cessazione della sua strumentalità. La stessa regola vale anche per Imu e Tasi.

L'importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 12.10.2016 n. 20516.
Secondo la Cassazione, il mancato utilizzo di un immobile non esclude il diritto al trattamento agevolato. Assume rilevanza, invece, «solo quello che sia indizio di un mutamento della destinazione o della cessazione della strumentalità del bene». L'ente non commerciale ha diritto all'esenzione da Ici, Imu e Tasi, prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992, anche se l'immobile non viene utilizzato, «purché sia stato nella sua disponibilità».
Nello specifico, «l'esenzione non spetta qualora l'immobile perda il carattere di strumentalità all'esercizio delle attività considerate oppure esca dalla sfera di disponibilità del soggetto non profit». Dunque prevale la destinazione, «restando irrilevante l'eventuale impossibilità temporanea di utilizzo effettivo».
Il possesso dell'immobile. Mentre la Cassazione ritiene non sia causa di esclusione del beneficio fiscale il mancato uso dell'immobile, gli stessi giudici di legittimità (sentenza 14913/2016) hanno affermato che un requisito essenziale per fruire dell'esenzione è il suo possesso qualificato da parte dell'ente.
Per l'esonero dalle imposte locali, infatti, non è sufficiente il possesso di fatto. Altrimenti l'agevolazione si estenderebbe al soggetto titolare. L'uso indiretto da parte dell'ente che non ne sia possessore non consente al proprietario di fruire dell'esenzione.
Il comodato. Regole rigide anche per il comodato. Se un ente concede in comodato un immobile a un altro ente, che vi svolge l'attività con modalità non commerciali, non ha diritto all'esenzione Imu e Tasi poiché non lo utilizza direttamente. Nonostante il Ministero dell'economia e delle finanze (risoluzione 4/2013) si sia espresso fornendo un'interpretazione diversa, favorevole al mantenimento del beneficio anche in caso di concessione del bene in comodato.
Del resto, la Cassazione ha chiarito che l'esenzione esige l'identità soggettiva tra il possessore, ovvero il soggetto passivo delle imposte locali, e l'utilizzatore dell'immobile. L'interpretazione del Mef non è in linea con le pronunce sia della Corte costituzionale (ordinanze 429/2006 e 19/2007) che della Cassazione, secondo cui per fruire dell'esenzione l'ente non commerciale dovrebbe non solo possedere, ma anche utilizzare direttamente l'immobile.
Pertanto, per fruire dell'esenzione è richiesta una duplice condizione: l'utilizzazione diretta degli immobili da parte dell'ente possessore e l'esclusiva loro destinazione a attività peculiari che non siano produttive di reddito. L'agevolazione non può essere riconosciuta nel caso di utilizzazione indiretta, ancorché eventualmente assistita da finalità di pubblico interesse.
L'evoluzione normativa. In seguito alle modifiche normative che sono intervenute sulla materia, è stata riconosciuta l'esenzione parziale Imu e Tasi per gli enti no profit. Questo beneficio, però, non può valere per l'Ici. Per quest'ultimo tributo, in effetti, era richiesta la destinazione esclusiva dell'immobile per finalità non commerciali. L'evoluzione della norma che riconosce i benefici fiscali per una parte dell'immobile non può avere effetti retroattivi.
Ancorché si tratti della stessa norma che disciplina l'agevolazione, non può essere riconosciuta l'esenzione parziale Ici, come avviene per Imu e Tasi, se parte dell'immobile è stata destinata a un'attività, tra quelle elencate dal citato articolo 7, svolta con modalità commerciali.
I giudici di piazza Cavour, con la sentenza 4342/2015, hanno precisato che il trattamento agevolato è limitato «all'ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di culto» indicate nella legge 222/1985 e, dunque, non si applica ai fabbricati di proprietà di enti ecclesiastici nei quali venga esercitata un'attività sanitaria, non rilevando neppure la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi, che costituisce «un momento successivo alla loro produzione e non fa venir meno il carattere commerciale dell'attività».
Bisogna ricordare che la disciplina Imu, che si applica anche alla Tasi, dà diritto all'esenzione anche qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista. L'agevolazione si applica solo sulla parte nella quale si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia identificabile. La parte dell'immobile dotata di autonomia funzionale e reddituale permanente deve essere iscritta in Catasto e la rendita produce effetti a partire dal 01.01.2013. Nel caso in cui non sia possibile accatastarla autonomamente, il beneficio fiscale spetta in proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile che deve risultare da apposita dichiarazione.
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Scuole paritarie, condizioni rigide.
La Cassazione (sentenze 14225 e 14226/2015) ha fissato i paletti anche per le attività svolte dalle scuole paritarie. Ha infatti stabilito che se l'attività didattica viene esercitata da una scuola paritaria e gli utenti pagano un corrispettivo si perde il diritto all'agevolazione fiscale, nonostante la gestione operi in perdita. E il fine di lucro non viene meno se con i ricavi si ha come obbiettivo quello di raggiungere il pareggio di bilancio. Per i giudici di legittimità manca il carattere imprenditoriale dell'attività degli enti no profit solo nel caso in cui sia svolta a titolo gratuito.
L'esenzione Ici prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i) del decreto legislativo 504/1992 era limitata all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati totalmente allo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma (sanitarie, didattiche, ricettive, ricreative, sportive e così via) in forma non commerciale. In realtà, per l'Ici il legislatore non è mai intervenuto per chiarire quando un'attività può essere definita commerciale.
È stato sempre demandato ai giudici il compito di prendere posizione, senza avere dei parametri ai quali fare riferimento. Per l'Imu, invece, l'articolo 4 del decreto ministeriale 200/2012 ha enunciato per le varie tipologie di attività, al fine di definire la loro natura non commerciale, quali criteri devono essere osservati. Per esempio, l'attività didattica si ritiene svolta con modalità non commerciali se è paritaria rispetto a quella statale, non discrimina gli alunni e accoglie i portatori di handicap.
Infine, è richiesto che venga esercitata a titolo gratuito o dietro versamenti di corrispettivi di importo simbolico, tali da coprire solo una frazione del costo effettivo del servizio (articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016).

EDILIZIA PRIVATACom’è noto, lo Sportello unico per l'edilizia (S.u.e.) è un servizio, disciplinato dal Testo unico dell'edilizia, all’art. 5 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Esso è stato istituito con l'intento di creare un unico canale di interfaccia tra Amministrazione pubblica e cittadino, nel caso di intervento edilizio, non dovendo occuparsi quest'ultimo di presentare varie istanze in vari uffici competenti per territorio o per determinati aspetti (ad esempio, quelli paesaggistico-ambientali).
In particolare, il S.u.e. riceve le istanze edilizie, a firma del committente proprietario o avente diritto, sull'immobile e rilascia il provvedimento conseguente, ove previsto; se occorre, sulla scorta della documentazione presentata dal privato, interroga le altre Amministrazioni pubbliche tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio, per pareri o assensi. Nel caso di specie, si tratta proprio di un’istanza edilizia.
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Viceversa, il S.u.a.p. (Sportello unico delle attività produttive) è previsto dall’art. 2, comma primo, del D.P.R. n. 160/2010 per la cura dei procedimenti amministrativi <<che abbiano ad oggetto l’esercizio di attività produttive e di prestazioni di servizi e quelli relativi alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione, ampliamento, trasferimento, nonché cessazione o riattazione delle suddette attività>>.
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Invero, la ditta controinteressata non ha chiesto l’attivazione di alcuno dei procedimenti elencati nel citato art. 2, comma primo, del D.P.R. n. 160/2010, poiché non ha avviato né ha dichiarato di voler avviare alcuna attività produttiva, ma ha soltanto realizzato, previo assenso del Comune, una nuova ripartizione interna di un preesistente fabbricato di sua proprietà, modificandone la destinazione d’uso.
Pertanto, non si può escludere, nella specie, la sussistenza della competenza dello Sportello unico dell’edilizia ad adottare l’atto impugnato.
Va rilevato, solo per inciso, che il S.u.e. è soltanto un ufficio amministrativo del Comune, alla stregua dello Sportello per le attività produttive, sicché il vizio di incompetenza non deve essere valutato con riferimento al momento organizzativo in senso stretto, ma al settore di attività unitariamente considerato; quindi, se l'organo asseritamente incompetente riguardo al provvedimento concretamente emanato, appartiene comunque allo stesso plesso amministrativo ed ha competenza ad adottare altre determinazioni nell'ambito del medesimo settore di attività, si può escludere che sussista il vizio di incompetenza, in senso assoluto.
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IV – Quanto all’impugnazione del permesso di costruire n. 7 del 20.03.2015, rilasciato alla ditta controinteressata e avente a oggetto <<completamento fabbricato per diversa distribuzione degli spazi e cambio di destinazione d’uso dei locali a piano terra>>, il Collegio ritiene destituite di fondamento le quattro censure del ricorso, riassumibili come segue: 1) incompetenza dello Sportello unico per l’edilizia; 2) mancanza del lotto minimo; 3) illegittimità dell’accorpamento tra fondi non strettamente contigui; 4) mancanza, nel progetto, della previsione di un quadro elettrico.
V – Quello assentito dal S.u.e. del Comune di Trivento (Cb), con il permesso di costruire impugnato è l’ampliamento, con cambio di destinazione d’uso per locali commerciali, di un fabbricato preesistente, in un’area ricadente in zona E (agricola).
Com’è noto, lo Sportello unico per l'edilizia (S.u.e.) è un servizio, disciplinato dal Testo unico dell'edilizia, all’art. 5 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380. Esso è stato istituito con l'intento di creare un unico canale di interfaccia tra Amministrazione pubblica e cittadino, nel caso di intervento edilizio, non dovendo occuparsi quest'ultimo di presentare varie istanze in vari uffici competenti per territorio o per determinati aspetti (ad esempio, quelli paesaggistico-ambientali).
In particolare, il S.u.e. riceve le istanze edilizie, a firma del committente proprietario o avente diritto, sull'immobile e rilascia il provvedimento conseguente, ove previsto; se occorre, sulla scorta della documentazione presentata dal privato, interroga le altre Amministrazioni pubbliche tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio, per pareri o assensi. Nel caso di specie, si tratta proprio di un’istanza edilizia.
Viceversa, il S.u.a.p. (Sportello unico delle attività produttive) è previsto dall’art. 2, comma primo, del D.P.R. n. 160/2010 per la cura dei procedimenti amministrativi <<che abbiano ad oggetto l’esercizio di attività produttive e di prestazioni di servizi e quelli relativi alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione, ampliamento, trasferimento, nonché cessazione o riattazione delle suddette attività>>.
Invero, la ditta controinteressata non ha chiesto l’attivazione di alcuno dei procedimenti elencati nel citato art. 2, comma primo, del D.P.R. n. 160/2010, poiché non ha avviato né ha dichiarato di voler avviare alcuna attività produttiva, ma ha soltanto realizzato, previo assenso del Comune, una nuova ripartizione interna di un preesistente fabbricato di sua proprietà, modificandone la destinazione d’uso.
Pertanto, non si può escludere, nella specie, la sussistenza della competenza dello Sportello unico dell’edilizia ad adottare l’atto impugnato.
Va rilevato, solo per inciso, che il S.u.e. è soltanto un ufficio amministrativo del Comune, alla stregua dello Sportello per le attività produttive, sicché il vizio di incompetenza non deve essere valutato con riferimento al momento organizzativo in senso stretto, ma al settore di attività unitariamente considerato; quindi, se l'organo asseritamente incompetente riguardo al provvedimento concretamente emanato, appartiene comunque allo stesso plesso amministrativo ed ha competenza ad adottare altre determinazioni nell'ambito del medesimo settore di attività, si può escludere che sussista il vizio di incompetenza, in senso assoluto (cfr.: Tar Piemonte Torino I, 03.01.2014 n. 4)
(TAR Molise, sentenza 19.05.2016 n. 219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La natura edificabile di un suolo non viene meno per effetto delle ridotte dimensioni o della particolare conformazione del lotto (salvo che gli strumenti urbanistici le considerino espressamente significative della non edificabilità), essendo sempre possibile l'accorpamento tra fondi contigui, ovvero l'asservimento urbanistico a fondo vicino avente identica destinazione.
Invero, l'atto di asservimento dei suoli, che comporta la cessione di cubatura tra fondi vicini, è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura realizzabile in un’altra particella della stessa zona e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria.
La cubatura espressa dal terreno (ossia, la possibilità di edificare un determinato volume edilizio) è oggetto di un contratto di trasferimento con il quale il proprietario di un'area trasferisce a titolo oneroso parte delle sue possibilità edificatorie a un altro soggetto, allo scopo di consentire a quest'ultimo di realizzare, nell'area di sua proprietà, una costruzione di maggiore cubatura, nel rispetto dell'indice di densità fondiaria.
L'area dalla quale la cubatura è stata sottratta diviene, per quella parte di cubatura alienata, inedificabile: e tale inedificabilità è una qualità obiettiva del fondo, che inerisce alla proprietà immobiliare e si trasferisce al trasferimento di questa (fermo restando che, laddove necessaria per il negozio in seno al quale la cessione è pattuita, anche la relativa cessione risulterà dalla trascrizione).
Inoltre, l'esistenza dell'asservimento deve risultare dal certificato di destinazione urbanistica dell'area, ex art. art. 30, comma 2, del T.u.e. (D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il concetto di contiguità o vicinanza tra fondi, asservito e asservente, va inteso in senso relativo, poiché qui si tratta non di misurare in modo preciso le distanze, ma semplicemente di garantire il razionale sfruttamento degli spazi fabbricabili, nel rispetto delle regole di programmazione territoriale, sicché l’incremento volumetrico non superi il limite massimo della capacità edificatoria prevista dallo strumento urbanistico per l’ambito nel quale è collocata l’area da edificare.
Per fondi contigui o vicini devono, dunque, intendersi –stando a un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa- quelli ubicati nella medesimo sottozona urbanistica, di talché anche una certa qual distanza tra i due fondi non costituisce ostacolo, se la sottozona urbanistica è la medesima.
La ratio di tale interpretazione della norma è di considerare, nella sua complessità, il carico urbanistico della zona o sottozona, di guisa che i fondi tra i quali avviene la cessione di cubatura non devono essere necessariamente adiacenti, purché abbiano la medesima destinazione urbanistica, siano relativamente vicini e il fondo asservito resti inedificabile.
In conclusione, lo sfruttamento della cubatura ceduta in un progetto edilizio, da parte dell'acquirente, è legato a due condizioni, cioè la omogeneità dell'area territoriale entro la quale si trovano i due terreni (cedente la cubatura e ricevente la cubatura oggetto del contratto) e la relativa vicinanza dei due fondi.

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VII – Anche la terza doglianza del ricorso va disattesa, poiché –a un attento esame– si può ritenere che non risulti violata la disciplina sull’ampiezza minima del lotto da destinare ad attività produttiva (3.000 mq), stante la vigenza dell’art. 11 delle N.t.a. del P.d.f. comunale, il quale consente l’asservimento tra fondi, con riguardo al rispetto dell’indice di fabbricabilità, mediante un contratto di cessione di cubatura che, nella specie, è intercorso tra Di Le. Ga. e Di Le. Fe., con rogito notarile del 03.03.2015.
La natura edificabile di un suolo non viene meno per effetto delle ridotte dimensioni o della particolare conformazione del lotto (salvo che gli strumenti urbanistici le considerino espressamente significative della non edificabilità), essendo sempre possibile l'accorpamento tra fondi contigui, ovvero l'asservimento urbanistico a fondo vicino avente identica destinazione (cfr.: Cass. civile V, 12.05.2010 n. 11433).
Invero, l'atto di asservimento dei suoli, che comporta la cessione di cubatura tra fondi vicini, è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura realizzabile in un’altra particella della stessa zona e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria (cfr.: Cons. Stato VI, 09.02.2016 n. 547).
La cubatura espressa dal terreno (ossia, la possibilità di edificare un determinato volume edilizio) è oggetto di un contratto di trasferimento con il quale il proprietario di un'area trasferisce a titolo oneroso parte delle sue possibilità edificatorie a un altro soggetto, allo scopo di consentire a quest'ultimo di realizzare, nell'area di sua proprietà, una costruzione di maggiore cubatura, nel rispetto dell'indice di densità fondiaria.
L'area dalla quale la cubatura è stata sottratta diviene, per quella parte di cubatura alienata, inedificabile: e tale inedificabilità è una qualità obiettiva del fondo, che inerisce alla proprietà immobiliare e si trasferisce al trasferimento di questa (fermo restando che, laddove necessaria per il negozio in seno al quale la cessione è pattuita, anche la relativa cessione risulterà dalla trascrizione). Inoltre, l'esistenza dell'asservimento deve risultare dal certificato di destinazione urbanistica dell'area, ex art. art. 30, comma 2, del T.u.e. (D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il concetto di contiguità o vicinanza tra fondi, asservito e asservente, va inteso in senso relativo, poiché qui si tratta non di misurare in modo preciso le distanze, ma semplicemente di garantire il razionale sfruttamento degli spazi fabbricabili, nel rispetto delle regole di programmazione territoriale, sicché l’incremento volumetrico non superi il limite massimo della capacità edificatoria prevista dallo strumento urbanistico per l’ambito nel quale è collocata l’area da edificare.
Per fondi contigui o vicini devono, dunque, intendersi –stando a un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa- quelli ubicati nella medesimo sottozona urbanistica (cfr.: Cons. Stato V, 13.08.1996 n. 918), di talché anche una certa qual distanza tra i due fondi non costituisce ostacolo, se la sottozona urbanistica è la medesima. La ratio di tale interpretazione della norma è di considerare, nella sua complessità, il carico urbanistico della zona o sottozona, di guisa che i fondi tra i quali avviene la cessione di cubatura non devono essere necessariamente adiacenti, purché abbiano la medesima destinazione urbanistica, siano relativamente vicini e il fondo asservito resti inedificabile (cfr.: Cons. Stato V, 30.10.2003 n. 6734; idem V, 03.03.2003 n. 1172; idem V, 10.03.2003 n. 1278; idem V, 28.06.2000 n. 3637; idem V, 01.10.1986 n. 477; Tar Molise I, 19.01.2004 n. 3; Tar Sardegna I, 23.02.2000 n. 171).
In conclusione, lo sfruttamento della cubatura ceduta in un progetto edilizio, da parte dell'acquirente, è legato a due condizioni, cioè la omogeneità dell'area territoriale entro la quale si trovano i due terreni (cedente la cubatura e ricevente la cubatura oggetto del contratto) e la relativa vicinanza dei due fondi (cfr.: Tar Lazio Roma II-bis, 10.09.2010 n. 32217; Tar Sicilia Catania I, 12.10.2010 n. 4113).
Nel caso di specie, si può ritenere che tali condizioni siano realizzate
(TAR Molise, sentenza 19.05.2016 n. 219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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