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AGGIORNAMENTO AL 14.12.2016 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia, Scia contestabile ma solo entro 30 giorni.
Il Tar Marche: per interesse pubblico autotutela entro 18
mesi.
Nuovi limiti per l'impugnazione della Scia in edilizia. Alla
luce dei nuovi dettami normativi la documentazione della
Scia può essere contestata entro 30 giorni. Per motivi di
interesse pubblico il termine per agire in autotutela è di
18 mesi.
Questo è quanto si legge nella
sentenza
07.10.2016 n. 546
del TAR Marche in
merito alle tempistiche per l'impugnativa della
segnalazione certificata di inizio attività.
IL FATTO: venivano realizzati su un appezzamento
terriero degli immobili abusivi, realizzati
con Scia. Il confinante del soggetto
che aveva fatto i lavori sosteneva che il comune
dovesse procedere all'accertamento degli
abusi ed esercitare i suoi poteri repressivi.
I giudici, dopo aver accertato che il comune
aveva agito secondo le regole e che gli interventi
erano legittimi , ha spiegato che, in base
alle regole vigenti, erano scaduti i termini per
eventuali azioni. I giudici del Consiglio di stato
hanno ricordato che, in base all'articolo 19,
comma 3, della legge n. 241/1990, il comune
ha 30 giorni per fermare l'attività intrapresa
dopo il deposito della Scia se gli interventi non
rispettano quanto dichiarato nei documenti.
La Scia, sottolinea palazzo Spada, è un atto
privato perché riguarda attività liberalizzate,
quindi non è possibile l'impugnativa diretta. A
fronte di una Scia ritenuta illegittima, quindi,
i controinteressati possono
solamente sollecitare l'esercizio
dei poteri di controllo da
parte dell'amministrazione
competente, la quale è tenuta
a compiere le verifiche
necessarie al fine di accertare la legittimità
dell'attività o dell'intervento oggetto di denuncia
o segnalazione (art. 19, comma 6-ter,
legge n. 241/1990).
In altri termini, in base
alla normativa vigente, tre le ipotesi possibili,
a fronte di una segnalazione certificata di
inizio attività rispetto alla quale è decorso il
termine per l'esercizio, da parte dell'amministrazione, dei poteri inibitori «ordinari»:
esercizio di poteri di autotutela, esercizio di
poteri sanzionatori per dichiarazioni mendaci
ed esercizio dei poteri di vigilanza e inibitori
in materia urbanistica.
Il potere di autotutela deve intendersi come
potere sui generis, in quanto si differenzia
dalla consueta autotutela decisoria, non implicando
un'attività di secondo grado insistente
su un precedente provvedimento amministrativo,
e pur condividendo, con l'autotutela
classica, i presupposti e il procedimento. In
particolare, il ricorso all'autotutela (mediante
annullamento d'ufficio), sia classica sia sui
generis, può avvenire solamente in presenza
delle condizioni di cui all'articolo 21-nonies
della legge n. 241/1990 , ovvero sussistendo
le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce delle modifiche introdotte
dal decreto legge 12.09.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, sussiste uno sbarramento
temporale all'esercizio del potere di
autotutela, fissato in «18 mesi
dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione
o di attribuzione di vantaggi
economici»
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
III.1. Ciò posto, reputa il Collegio che non sussiste
alcun silenzio inadempimento dell’Amministrazione rispetto
alla diffida del 27.11.2015, sia perché il Comune ha
ragionevolmente argomentato i motivi del proprio diniego
nella citata nota prot. 36505 del 21.12.2015, sia perché
quest’ultima non costituisce violazione o elusione
dell’obbligo di provvedere nel senso prospettato dal
ricorrente e ciò per le seguenti ragioni.
- Occorre in primo luogo precisare che con tale ultima
diffida il ricorrente ha richiesto all’Amministrazione, per
le opere indicate nelle segnalazioni/denunce n. 258/2013 e
n. 167/2014, l’esercizio dei poteri inibitori ex art. 19,
commi 3, 4, 6-bis della legge n. 241/1990, nonché di
autotutela ex art. 21-nonies della medesima legge, previe le
opportune e necessarie verifiche e imponendo, altresì,
l’attuazione dell’ordinanza dirigenziale n. 43442 del
10.12.2008; entro tali limiti, pertanto, va accertata la
sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo al Comune di
Osimo.
- Come è noto, la nuova formulazione
dell’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990, pur
prevedendo un regime dei poteri di intervento dell’autorità
pubblica modificato rispetto al passato, conferma il potere
dell’Amministrazione di inibire motivatamente l’attività
intrapresa con SCIA e rimuovere gli effetti dannosi in caso
di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui
al comma 1 del medesimo articolo, il tutto entro sessanta
giorni (trenta in materia edilizia).
Ciò che cambia è la natura di atto privato della
segnalazione certificata di inizio di attività, trattandosi
di attività ormai liberalizzata, dal che consegue
l’affermazione circa la “non impugnabilità” diretta
della SCIA (art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/1990).
A fronte di una SCIA ritenuta illegittima, quindi, i
controinteressati possono solamente sollecitare l’esercizio
dei poteri di controllo da parte dell’Amministrazione
competente, la quale è tenuta a compiere le verifiche
necessarie al fine di accertare la legittimità dell’attività
o dell’intervento oggetto di denuncia o segnalazione (art.
19, comma 6-ter, cit.).
Inoltre, “decorso il termine per l'adozione dei
provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di
cui al comma 6-bis, l'amministrazione competente adotta
comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in
presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies”
(art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990).
In altri termini, in base alla normativa
vigente, sono tre le ipotesi possibili, a fronte di una
segnalazione certificata di inizio di attività rispetto alla
quale è decorso il termine per l’esercizio, da parte
dell’Amministrazione, dei poteri inibitori “ordinari”:
esercizio di poteri di autotutela (art. 21-nonies della
legge n. 241/1990); esercizio di poteri sanzionatori per
dichiarazioni mendaci (art. 19, comma 3, seconda parte e
art. 21, comma 1, della legge n. 241/1990); esercizio dei
poteri di vigilanza e inibitori in materia urbanistica (art.
19, comma 6-bis, e art. 21, comma 2, della legge n.
241/1990).
- Il potere di autotutela previsto
dall’art. 19, comma 4 cit. deve intendersi come potere
sui generis, in quanto si differenzia dalla consueta
autotutela decisoria, non implicando un’attività di secondo
grado insistente su un precedente provvedimento
amministrativo, e pur condividendo, con l’autotutela
classica, i presupposti e il procedimento
(TAR Bolzano-Trentino-Alto Adige, sez. I, 18.07.2016, n.
233; TAR Firenze–Toscana, sez. III, 08.06.2016, n. 960).
In particolare, il ricorso all’autotutela
(mediante annullamento d’ufficio) -sia classica che sui
generis- può avvenire solamente in presenza delle
condizioni di cui all’art. 21-nonies della legge n.
241/1990, ovvero sussistendo le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce delle modifiche introdotte dal
decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164,
sussiste uno sbarramento temporale all’esercizio del
potere di autotutela, fissato in “diciotto mesi dal
momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o
di attribuzione di vantaggi economici”. Il Consiglio di
Stato ha già avuto modo di chiarire che, pur se tale norma
non sia applicabile ratione temporis, in ogni caso,
essa rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del
sistema degli interessi rilevanti
(Consiglio di Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625 e
31.08.2016, n. 3762).
- Oltre ai limiti legislativamente fissati,
il ricorso all’autotutela incontra l’ulteriore limite della
discrezionalità amministrativa.
Anche a seguito della riforma dell’art. 19
della legge n. 241/1990, le regole cui è assoggettato il
potere amministrativo di controllo e di
inibizione-conformazione, decorsi sessanta (o trenta) giorni
dalla presentazione della SCIA, sono sempre e comunque
quelle di cui al primo comma dell’art. 21-nonies; ciò in
quanto il potere inibitorio originario è comunque esaurito
per decorso del termine di legge, sicché detto potere -sia
che riviva per effetto dell’autonoma iniziativa
dell’Amministrazione, sia che riviva per effetto dell’azione
sollecitatoria del terzo e, quindi, del giudice
amministrativo- resta nella sfera di disponibilità
dell’Amministrazione solo a particolari condizioni
(TAR Napoli-Campania, sez. IV, 05.04.2016, n. 1658).
- Facendo applicazione, al caso in esame, dei suesposti
principi, se ne ricava l’infondatezza delle censure con cui
il ricorrente lamenta l’elusione dell’obbligo di provvedere
ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 con
riferimento alla nota prot. 36505 del 21.12.2015, dal
momento che tale obbligo, per i motivi innanzi detti, non
sussiste in capo all’Amministrazione e può essere esercitato
solo in presenza di determinate condizioni.
- Non può dirsi neppure che il Comune di Osimo abbia violato
o eluso l’obbligo di provvedere rispetto all’esercizio dei
poteri inibitori sine die previsti per il caso di
dichiarazioni false o mendaci oppure rispetto all’esercizio
dei poteri sanzionatori conseguenti alla vigilanza
sull’attività edilizia, di cui all’art. 21, comma 2, della
legge n. 241/1990.
Si osserva, infatti, che le incompletezze e le incongruità
segnalate dal ricorrente nella diffida del 27.11.2015
rispetto alle segnalazioni n. 258/2013 e n. 167/2014 non
sono tali da determinare una falsa rappresentazione della
realtà o da trarre in inganno l’Amministrazione;
quest’ultima, invece, da un semplice raffronto tra la
documentazione già in suo possesso e la documentazione
allegata alle segnalazioni certificate di inizio attività di
cui si discute, avrebbe potuto agevolmente cogliere sin nei
primi trenta giorni dalla loro presentazione, le lamentate
difformità e omissioni, tanto più che esse attengono, per lo
più, a profili di tipo formale o documentale.
In particolare, le asserite incompletezze relative alla SCIA
n. 258/2013 potevano essere riscontrate dal raffronto tra la
tavola n. 3 allegata alla domanda di permesso di costruire
n. 42/2007 e la tavola unica allegata alla stessa SCIA n.
258/2013, entrambe in possesso dell’Amministrazione.
Analogamente, le incompletezze rilevate dal ricorrente
riguardo alla SCIA n. 167/2014 sono relative all’omessa
menzione di atti anch’essi già in possesso
dell’Amministrazione o addirittura adottati dallo stesso
Comune di Osimo, nonché di prescrizioni edilizie e
regolamentari la cui eventuale violazione poteva essere
comunque verificata dall’Ente sulla base della
documentazione prodotta; del pari, l’omessa indicazione,
nella tavola unica allegata alla suddetta SCIA n. 167/2014,
della distanza del fabbricato dalla strada privata, era
verificabile dal Comune, in quanto già indicata nella tavola
unica allegata alla SCIA n. 258/2013.
Né il ricorrente, nella propria diffida, ha allegato atti,
fatti o circostanze ulteriori su cui l’Amministrazione
avrebbe potuto aprire una nuova istruttoria, essendosi
limitato a riproporre le medesime questioni su cui già più
volte il Comune di Osimo aveva provveduto a dare risposta e
fatte oggetto di precedenti contenziosi.
III.2. In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto. |
UTILITA' |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Riscaldamento
nei condomini. Le nuove regole di termoregolazione e
contabilizzazione (articolo ItaliaOggi Sette del 17.10.2016). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCARICHI PROFESSIONALI:
U. Fantigrossi,
Pa e mandati
difensivi, il “vicolo cieco” del ricorso alla gara (Guida
al Diritto n. 48 - 26.11.2016 - tratto da
www.unioneamministrativisti.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
D. de Paolis,
La realizzazione delle opere di urbanizzazione nel D Leg.vo
50/2016 (Bollettino di Legislazione Tecnica n.
7-8/2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
E. Robaldo,
La realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo nel
nuovo codice (Urbanistica e appalti n. 7/2016).
---------------
L’articolo analizza il tema delle modifiche introdotte
dal nuovo codice alle modalità di affidamento dei lavori
aventi ad oggetto le opere di urbanizzazione a scomputo,
nonché esamina l’introduzione della specifica disciplina per
la realizzazione di un’opera pubblica a cura e spese di un
soggetto privato, soffermandosi, in particolare, sul caso
delle opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia che
dovranno essere affidate mediante la procedure ordinarie
(procedura aperta o procedura ristretta) a differenza di
quanto avveniva in precedenza (procedura negoziata con
invito a cinque operatori) e sulla nuova figura dell’opera
pubblica realizzata a spese del privato. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
A. Mancini,
Gli obblighi del committente nei cantieri edili: nomina
coordinatore, notifica preliminare e verifiche varie
(Bollettino di Legislazione Tecnica n. 5/2016). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La
Sezione ritiene che l’incentivo per funzioni tecniche di cui
all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 si applichi a tutte e tre le
tipologie di contratti pubblici di appalti: lavori,
servizi e forniture.
Le considerazioni sulla quali si fonda la soluzione positiva
del quesito in esame risiedono essenzialmente nella
circostanza che se la ratio della
disposizione legislativa di cui all’art. 113 d.lgs. 50/2016
e del criterio direttivo di delega deve essere individuata
nella previsione di un compenso incentivante per stimolare
una più attenta gestione delle fasi della programmazione e
dell’esecuzione dei contratti pubblici di appalto, il
predetto emolumento può essere riconosciuto sia per gli
appalti di lavori, sia per quelli di servizi e
forniture, in quanto per tutte e tre le predette
tipologie di contratti pubblici è prevista e disciplinata
dal codice degli appalti sia la fase della programmazione
(cfr. art 21 d.lgs. 50/2016) sia quella dell’esecuzione
(cfr., in particolare, l’art. 101 d.lgs. 50/2016).
A tali considerazioni si aggiunga, inoltre, che
sia l’inserimento delle “verifiche di
conformità”, che rappresentano le modalità di controllo
dell’esecuzione dei contratti di appalto di servizi e
forniture (cfr. art. 102, comma 2, d.lgs. 50/2016) nel
secondo comma dell’articolo 113 tra le attività
“incentivabili”, sia la menzione espressa nel comma 3 dei
servizi e delle forniture, costituiscono ulteriori elementi
dai quali far discendere che la voluntas legis sia stata
quella di remunerare anche specifiche attività di natura
tecnica (i.e. quelli elencate nell’articolo 133, comma 2,
d.lgs. 50/2016) dei contratti di appalto di servizi e
forniture.
In relazione all’ulteriore profilo
della richiesta di parere relativo alle tipologie di servizi
per i quali può essere previsto il compenso incentivante, la
Sezione ritiene che debba trattarsi di servizi ricompresi
nell’ambito di applicazione del codice degli appalti di cui
al d.lgs. 50/2016.
A titolo esemplificativo, per i servizi relativi alla cura
del patrimonio dell’ente locale deve essere richiamato
l’articolo 17, comma 1, lett. a), che prevede l’esclusione
delle disposizioni del codice stesso per i “servizi aventi
ad oggetto l’acquisto o locazione (omissis) di terreni,
fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti
diritti su tali beni”.
Inoltre, anche i servizi finanziari “relativi all’emissione,
all’acquisto, alla vendita e al trasferimento di titoli o di
altri strumenti finanziari ai sensi del decreto legislativo
24.02.1998, n. 58” sono espressamente esclusi dall’ambito di
applicazione del codice dei contratti pubblici dall’articolo
17, comma lett. e), del codice stesso.
---------------
La Sezione ritiene che il predetto emolumento non può essere
utilizzato per la remunerazione delle attività di
manutenzione ordinaria e straordinaria.
---------------
In ordine al richiesta di di sapere se per il compenso ex
art. art. 113 d.lgs. 50/2016 possa essere confermata la
deroga al tetto del salario accessorio, già riconosciuta, in
via pretoria, con riferimento alla disposizione di cui
all’articolo 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 (non più
applicabile al 2015), da considerare in rapporto al nuovo
limite introdotto dall’articolo 236 l. n. 208/2015 la Sezione ritiene che l’esclusione
dell’incentivo per l’attività di progettazione ex art. 93,
comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 dal tetto di spesa per il
salario accessorio di cui all’articolo 9, comma 2-bis, d.l.
78/2010, riconosciuto in via pretoria nella citata
deliberazione delle Sezioni riunite, non possa estendersi in
via automatica a tutte le tipologie di attività elencate nel
comma 2 dell’art. 113. Ciò in quanto è necessario verificare
la sussistenza dei presupposti indicati dalle Sezioni
riunite per poter escludere dal tetto di spesa del salario
accessorio anche l’incentivo per funzioni tecniche ex art.
113 d.lgs. cit..
In particolare, il criterio individuato
dalle Sezioni riunite per stabilire se un determinato
emolumento possa essere escluso dal tetto di spesa per il
salario accessorio è quello di verificare se remuneri “prestazioni
professionali tipiche di soggetti individuati o
individuabili” e se “le prestazioni potrebbero essere
acquisite anche attraverso il ricorso a personale estraneo
all’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi”.
Tutto ciò premesso, la Sezione,
rilevata la portata generale della questione di cui al punto
4.3. anche in relazione alla deliberazione delle Sezioni
riunite n. 51/2011, ritiene che sarebbe
utile l’adozione di una pronuncia di orientamento al fine di
stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui
all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 possano essere esclusi dal
tetto del salario accessorio di cui all’articolo 1, comma
236, l. n. 208/2015 (legge stabilità 2016).
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per
l’Emilia-Romagna:
- sospende la pronuncia e rimette gli atti
al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di
competenza in ordine al quesito sub 3) delle premesse in
fatto.
In particolare, affinché valuti la
possibilità di deferire le questioni alla Sezione della
autonomie, ai
sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174,
convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213,
secondo il quale per la risoluzione di questioni di
massima di particolare rilevanza in materia di attività
consultiva, la citata Sezione emana delibera di orientamento
alla quale le Sezioni regionali si conformano;
questo sempre che il Presidente della Corte
dei conti non ritenga, invece, opportuna l’adozione, da
parte delle Sezioni Riunite, di una pronuncia di
orientamento generale,
ai sensi dell’articolo 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78,
convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102,
qualora riconosca la sussistenza di un caso di
eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della
finanza pubblica.
---------------
Il Sindaco del Comune di Medicina (BO) ha inoltrato a
questa Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto
l’interpretazione della disposizione di cui all’articolo 113
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 recante la nuova disciplina in
materia di incentivi per funzioni tecniche.
In particolare, l’Ente chiede di conoscere se i predetti
emolumenti possano essere:
a) riconosciuti sia per gli appalti di lavori sia per quelli di
servizi e forniture anche qualora questi ultimi non siano
ricompresi negli stanziamenti e nei quadri economici
previsti per la realizzazione dei singoli lavori e, nel caso
affermativo, per i servizi di qualsiasi natura (cura
patrimonio dell’Ente, servizi alla persona, finanziari e
assicurativi);
b) corrisposti nelle ipotesi di manutenzione ordinaria e/o
straordinaria, fattispecie che non risultano espressamente
escluse nella nuova disposizione;
c) esclusi dal “tetto” del salario accessorio ai fini
dell’applicabilità dell’articolo 1, comma 236, l n. 208/2015.
...
4. Passando al merito del quesito la Sezione osserva quanto
segue.
A seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice dei
contratti pubblici di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50 la
disciplina in tema di compensi incentivanti è stata
profondamente modificata rispetto a quella contenuta
nell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 (oggi non più
in vigore).
L’articolo 1, comma 1, lett. rr), della legge 28.01.2016, n.
11, contenente la delega al Governo per l’attuazione della
disciplina in tema di appalti pubblici e concessioni,
dettava il seguente criterio: ”al fine di incentivare
l’efficienza e l’efficacia nel perseguimento della
realizzazione e dell’esecuzione a regola d’arte, nei tempi
previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in
corso d’opera, è destinata una somma non superiore al 2 per
cento dell’importo posto a base di gara per le attività
tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei
tempi e dei costi, escludendo l’applicazione degli incentivi
alla progettazione”.
L’articolo 113 del d.lgs. n. 50/2016, intitolato “Incentivi
per funzioni tecniche”, nel dare attuazione al predetto
criterio di delega, ha previsto che ”1. Gli oneri
inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori
ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di
conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche
connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo
9 aprile 2008 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche necessari per la redazione di un progetto
esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci
delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione.
L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore
stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non
conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del
fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti
da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione anche per il progressivo uso di
metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione
elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture,
di implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento
informatico, con particolare riferimento alle metodologie e
strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle
risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le
amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di
orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997,
n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta
qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa
sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e
gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica
di committenza nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di
altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della
centrale unica di committenza, una quota parte, non
superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2.".
Richiamate le disposizioni legislative che regolano la
materia in esame (incentivi per funzioni tecniche), la
Sezione rileva che il criterio direttivo di delega
soprarichiamato (art. 1, comma 1, lett. rr), l. n. 11/2016)
richiedeva che il compenso incentivante da poter riconoscere
a particolari categorie di dipendenti pubblici dovesse
riguardare determinate e specifiche attività di natura “tecnica”,
non più legate alla fase propedeutica alla realizzazione di
opere pubbliche, quali ad esempio la progettazione, quanto
piuttosto a quelle della programmazione, predisposizione e
controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del
contratto.
Sulla base del predetto criterio di delega è stato adottato
l’articolo 113 d.lgs. 50/2016 che, come già indicato,
contiene la nuova disciplina in materia di cd. compensi
incentivanti.
Il primo comma di tale disposizione fissa il
principio secondo il quale tutti gli oneri finanziari
relativi a spese inerenti la realizzazione di lavori
pubblici (progettazione, direzione dei lavori o
dell’esecuzione, vigilanza, collaudi tecnici e
amministrativi, verifiche di conformità, collaudo statico,
studi e ricerche connessi, progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento, coordinamento della sicurezza
in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del d.lgs.
81/2008) devono essere ricompresi negli stanziamenti
previsti per la realizzazione dei singoli lavori e negli
stati di previsione della spesa dei bilanci delle stazioni
appaltanti.
Il secondo comma prevede che, a valere sugli
stanziamenti previsti per la realizzazione di singoli
lavori, le amministrazioni pubbliche possono costituire un
apposito fondo (calcolato sul 2% dell’importo dei lavori
posti a base di gara) da utilizzare, sulla base della
disciplina da adottare con un atto di natura regolamentare,
per la remunerazione di attività di natura tecnica ivi
indicate.
Il terzo ed il quarto comma prevedono la
ripartizione del fondo costituito ai sensi del comma 2 nella
misura dell’ottanta per cento per “ciascuna opera o
lavoro, servizio, fornitura”, con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale e sulla base di un apposito
regolamento adottato da ciascuna pubblica amministrazione
secondo il proprio ordinamento, da riconoscere in favore del
responsabile unico del procedimento, dei soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate nel comma 2 e dei
loro collaboratori.
La restante misura del venti per cento, ad esclusione di
risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri
finanziamenti a destinazione vincolata, è destinata
all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali
ai progetti di innovazione e anche per tirocini formativi e
di orientamento ai sensi dell’articolo 18 l. n. 196/1997, o
per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta
qualificazione professionale nel settore dei contratti
pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con
le Università e gli istituti scolastici superiori.
4.1. Con il primo quesito il Comune chiede di
conoscere se l’incentivo per funzioni tecniche di cui
all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 possa essere riconosciuto
solo per appalti di lavori -in tal senso, secondo le sue
prospettazioni, deporrebbe l’interpretazione dei commi 1 e 2
esplicitamente riferiti a lavori- o anche agli appalti di
servizi e forniture, richiamati espressamente nei commi 3 e
4 della medesima disposizione normativa.
La Sezione ritiene che la disposizione in
esame si applichi a tutte e tre le tipologie di contratti
pubblici di appalti: lavori, servizi e
forniture.
Le considerazioni sulla quali si fonda la soluzione positiva
del quesito in esame risiedono essenzialmente nella
circostanza che se la ratio della
disposizione legislativa di cui all’art. 113 d.lgs. 50/2016
e del criterio direttivo di delega deve essere individuata
nella previsione di un compenso incentivante per stimolare
una più attenta gestione delle fasi della programmazione e
dell’esecuzione dei contratti pubblici di appalto, il
predetto emolumento può essere riconosciuto sia per gli
appalti di lavori, sia per quelli di servizi e
forniture, in quanto per tutte e tre le predette
tipologie di contratti pubblici è prevista e disciplinata
dal codice degli appalti sia la fase della programmazione
(cfr. art 21 d.lgs. 50/2016) sia quella dell’esecuzione
(cfr., in particolare, l’art. 101 d.lgs. 50/2016).
A tali considerazioni si aggiunga, inoltre, che
sia l’inserimento delle “verifiche di conformità”,
che rappresentano le modalità di controllo dell’esecuzione
dei contratti di appalto di servizi e forniture (cfr. art.
102, comma 2, d.lgs. 50/2016) nel secondo comma
dell’articolo 113 tra le attività “incentivabili”,
sia la menzione espressa nel comma 3 dei servizi e delle
forniture, costituiscono ulteriori elementi dai quali far
discendere che la voluntas legis sia stata quella di
remunerare anche specifiche attività di natura tecnica (i.e.
quelli elencate nell’articolo 133, comma 2, d.lgs. 50/2016)
dei contratti di appalto di servizi e forniture.
La Sezione evidenzia, altresì, che la soluzione ora proposta
è conforme, pur se fondata su diverse argomentazioni
giuridiche, al recente orientamento espresso nella materia
de qua dalla Sezione regionale di controllo per la
Lombardia con il
parere 16.11.2016 n. 333.
In relazione all’ulteriore profilo della
richiesta di parere relativo alle tipologie di servizi per i
quali può essere previsto il compenso incentivante, la
Sezione ritiene che debba trattarsi di servizi ricompresi
nell’ambito di applicazione del codice degli appalti di cui
al d.lgs. 50/2016.
A titolo esemplificativo, per i servizi relativi alla cura
del patrimonio dell’ente locale deve essere richiamato
l’articolo 17, comma 1, lett. a), che prevede l’esclusione
delle disposizioni del codice stesso per i “servizi
aventi ad oggetto l’acquisto o locazione (omissis) di
terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o
riguardanti diritti su tali beni”. Inoltre, anche i
servizi finanziari “relativi all’emissione, all’acquisto,
alla vendita e al trasferimento di titoli o di altri
strumenti finanziari ai sensi del decreto legislativo
24.02.1998, n. 58” sono espressamente esclusi
dall’ambito di applicazione del codice dei contratti
pubblici dall’articolo 17, comma lett. e), del codice
stesso.
4.2. Con il secondo quesito il Comune chiede di
conoscere se il compenso incentivante previsto dall’articolo
113 d.lgs. 50/2016 possa essere riconosciuto per le attività
di manutenzione ordinaria e straordinaria, in quanto le
stesse non sono espressamente escluse dalla nuova
disposizione.
Sulla base delle seguenti considerazioni la
Sezione ritiene che il predetto emolumento non può essere
utilizzato per la remunerazione delle predette attività.
In primo luogo si evidenzia che l’avverbio “esclusivamente”
utilizzato dal legislatore nel comma 2 dell’articolo in
esame per individuare le attività per lo svolgimento delle
quali può essere previsto un compenso specifico e aggiuntivo
deve essere interpretato nel senso della tassatività delle
attività incentivabili. Pertanto, non essendo stata
espressamente ricompresa l’attività di manutenzione, ne
discende che non può essere prevista per la stessa nessuna
remunerazione ai sensi dell’articolo 113 d.lgs. 50/2016.
In secondo luogo, si rileva che, ai fini
dell’applicazione del codice di contratti pubblici di cui al
d.lgs. 50/2016, nell’allegato I (cui fa rinvio l’articolo 3,
comma 2, lett. ll, n. 1), che contiene l’elenco delle
attività che costituiscono “appalti pubblici di lavori”,
non sono in alcun modo indicate le attività di manutenzione,
né ordinarie, né straordinarie.
4.3. Infine, con il terzo quesito l’Ente chiede di
sapere se per il compenso ex art. art. 113 d.lgs. 50/2016
possa essere confermata la deroga al tetto del salario
accessorio, già riconosciuta, in via pretoria, con
riferimento alla disposizione di cui all’articolo 9, comma
2-bis, d.l. 78/2010 (non più applicabile al 2015), da
considerare in rapporto al nuovo limite introdotto
dall’articolo 236 l. n. 208/2015.
L’esclusione dal tetto del salario accessorio previsto
dall’articolo 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010 per determinate
categorie di emolumenti -tra i quali l’incentivo per la
progettazione ex art. 93, comma 7-ter d.lgs. 163/2006- è
stato affermato nella
deliberazione 04.10.2011 n. 51
delle Sezioni riunite laddove è stato ritenuto che “le
sole risorse di alimentazione dei fondi da ritenere non
ricomprese nell’ambito applicativo dell’articolo 9, comma
2-bis, sono solo quelle destinate a remunerare prestazioni
professionali tipiche di soggetti individuati o
individuabili e che peraltro potrebbero essere acquisite
attraverso il ricorso esterno dell’amministrazione pubblica
con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli
enti”.
Inoltre, è stato aggiunto che si tratta di “risorse
che alimentano il fondo in senso solo figurativo dato che
esse non sono poi destinate a finanziarie gli incentivi
spettanti alla generalità del personale dell’amministrazione
pubblica”.
In particolare,
le risorse finalizzate ad incentivare
prestazioni poste in essere per la progettazione di opere
pubbliche possono essere escluse dal computo del tetto in quanto “si
tratta di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni
professionali specialistiche offerte da personale
qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica;
peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non
disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero
ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti
esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio
dell’ente interessato”. Le Sezioni riunite hanno,
inoltre, osservato che tale tipologia di prestazione
professionale afferisce “ad attività sostanzialmente
finalizzata ad investimenti”.
L’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge stabilità
2016) prevede espressamente che ”nelle more dell’adozione
dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17
della legge 07.08.2015, n. 124 (omissis), a decorrere dal
01.01.2016 l’ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente a trattamento accessorio del personale, anche
di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni
pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.05.2001, n. 165, e successive modificazioni,
non può superare il corrispondente importo determinato per
il l’anno 2015 ed è comunque automaticamente ridotto in
misura proporzionale alla riduzione del personale in
servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi
della normativa vigente”.
La Sezione ritiene che l’esclusione
dell’incentivo per l’attività di progettazione ex art. 93,
comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 dal tetto di spesa per il
salario accessorio di cui all’articolo 9, comma 2-bis, d.l.
78/2010, riconosciuto in via pretoria nella citata
deliberazione delle Sezioni riunite, non possa estendersi in
via automatica a tutte le tipologie di attività elencate nel
comma 2 dell’art. 113. Ciò in quanto è necessario verificare
la sussistenza dei presupposti indicati dalle Sezioni
riunite per poter escludere dal tetto di spesa del salario
accessorio anche l’incentivo per funzioni tecniche ex art.
113 d.lgs. cit..
In particolare, il criterio individuato
dalle Sezioni riunite per stabilire se un determinato
emolumento possa essere escluso dal tetto di spesa per il
salario accessorio è quello di verificare se remuneri “prestazioni
professionali tipiche di soggetti individuati o
individuabili” e se “le prestazioni potrebbero essere
acquisite anche attraverso il ricorso a personale estraneo
all’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi”.
*****
Tutto ciò premesso, la Sezione,
rilevata la portata generale della questione di cui al punto
4.3. anche in relazione alla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni
riunite, ritiene che sarebbe
utile l’adozione di una pronuncia di orientamento al fine di
stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui
all’articolo 113 d.lgs. 50/2016 possano essere esclusi dal
tetto del salario accessorio di cui all’articolo 1, comma
236, l. n. 208/2015 (legge stabilità 2016).
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per
l’Emilia-Romagna:
- si pronuncia nei termini di cui in motivazione sui quesiti
indicati sub 1) e 2) delle premesse in fatto;
- sospende la pronuncia e rimette gli atti
al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di
competenza in ordine al quesito sub 3) delle premesse in
fatto.
In particolare, affinché valuti la
possibilità di deferire le questioni alla Sezione della
autonomie, ai
sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174,
convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213,
secondo il quale per la risoluzione di questioni di
massima di particolare rilevanza in materia di attività
consultiva, la citata Sezione emana delibera di orientamento
alla quale le Sezioni regionali si conformano;
questo sempre che il Presidente della Corte
dei conti non ritenga, invece, opportuna l’adozione, da
parte delle Sezioni Riunite, di una pronuncia di
orientamento generale,
ai sensi dell’articolo 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78,
convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102,
qualora riconosca la sussistenza di un caso di
eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della
finanza pubblica
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 07.12.2016 n. 118). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Precontenzioso,
istanze da rifare. In gazzetta
ufficiale regolamento dell'anticorruzione.
Da riformulare le istanze di precontenzioso sulle gare di
appalto già presentate ad Anac prima del 19 ottobre;
precontenzioso vincolante se presentato da entrambe le
parti, ma sempre impugnabile al giudice amministrativo; non
ammesse le istanze su questioni puramente interpretative.
Sono questi alcuni dei punti rilevanti contenuti nel nuovo
regolamento
05.10.2016 dell'Autorità nazionale anticorruzione sul precontenzioso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 245
del 19.10.2016 che attua l'art. 211, comma 1, del nuovo
codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) e sul sito dell'Autorità.
Il regolamento, reso
anche a seguito del parere del Consiglio di stato del 15.09.2016, n. 1920/2016 definisce innanzitutto l'ambito
di applicazione oggettivo precisando che la formulazione del
parere di precontenzioso è cosa diversa dalle
raccomandazioni e che deve riguardare «questioni controverse
insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara»; da
ciò emerge con chiarezza che il precontenzioso si fonda non
su «semplici» questioni interpretative, ma su «questioni
controverse», sulle quali cioè le parti manifestano
posizioni contrapposte.
Dal punto di vista dell'ambito di applicazione soggettivo,
invece, l'Autorità precisa che possono rivolgere richiesta
di parere di precontenzioso all'Autorità, ovvero la stazione
appaltante, o una o più parti interessate o i soggetti
portatori di interessi collettivi costituiti in associazioni
o comitati.
Se l'istanza è presentata singolarmente, dalla stazione
appaltante o da una parte interessata, il parere reso non è
vincolante; in ogni caso l'istante è tenuto a comunicare la
presentazione della richiesta di parere a tutti i soggetti
interessati alla soluzione della questione controversa
oggetto della medesima. Inoltre il regolamento precisa che,
nel caso in cui l'istante singolo abbia manifestato la
volontà di attenersi a quanto stabilito nel parere, le altre
parti possono aderirvi entro il termine di dieci giorni
dalla ricezione della comunicazione; in tal caso il parere
reso ha efficacia vincolante per le parti che vi hanno
aderito.
Se invece la richiesta di parere è presentata (per pec e
secondo uno dei moduli allegati al regolamento) da entrambe
le parti coinvolte, il parere vincola entrambe le parti.
Il
regolamento stabilisce che non verranno prese in
considerazione le istanze volte a un controllo generalizzato
dei procedimenti di gara delle amministrazioni
aggiudicatrici, quelle presentate in assenza di una
questione controversa insorta tra le parti interessate o
presentate da soggetti diversi da quelli indicati
all'articolo 2 o, ancora, manifestamente mancanti di
interesse concreto al conseguimento del parere e
interferenti con esposti di vigilanza e procedimenti
sanzionatori in corso di istruttoria presso l'Autorità.
Inoltre l'Anac non darà corso alle richieste di contenuto
generico o contenenti un mero rinvio alla documentazione
allegata dall'istante, così come se vi sia un ricorso
giurisdizionale avente contenuto analogo (le parti hanno
l'obbligo di comunicarlo all'Autorità).
Infine va tenuto presente che il comunicato Anac che
accompagna il varo del regolamento afferma che se un
soggetto ha presentato una istanza di precontenzioso prima
dell'entrata in vigore del Regolamento, «qualora permanga da
parte dei soggetti istanti un interesse attuale e concreto
al rilascio del parere, le istanze andranno riformulate e
riproposte a firma di soggetti legittimati a esprimere verso
l'esterno la volontà dell'ente, nel rispetto delle nuove
disposizioni procedimentali, mediante utilizzo del relativo
modulo informatico»
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2016). |
APPALTI: Offerte
anomale, chiarezza sulle modalità di calcolo.
Sciolti i dubbi sul calcolo dell'anomalia delle offerte
negli appalti pubblici, a seguito dell'abrogazione del
vecchio regolamento del codice del 2006 e dell'entrata in
vigore del decreto 50/2016; obbligo di indicare nella
documentazione di gara le modalità di calcolo; fornite
indicazioni puntuali sui cinque metodi di calcolo.
È questo l'effetto del
comunicato del Presidente 05.10.2016 dell'Anac
che fornisce alcune indicazioni operative in merito alle
modalità di calcolo della soglia di anomalia nel caso di
aggiudicazione di contratti pubblici con il criterio del
prezzo più basso.
Il comunicato fa seguito a numerose
richieste di chiarimenti pervenute all'Authority in merito
alle modalità di calcolo delle soglie di anomalia di cui
all'art. 97, comma 2 del Codice. Viene chiarito che si sta
parlando di procedure di affidamento di lavori, servizi e
forniture, di importo inferiore alle soglie Ue, quando il
criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso. In
questi casi, dice l'Anac, nella documentazione di gara è
opportuno indicare che non si procede all'esclusione
automatica, ancorché sia previsto nel bando, qualora il
numero delle offerte ammesse, e quindi ritenute valide, sia
inferiore a dieci.
Nel merito, poi, l'art. 97, comma 2, del
nuovo codice stabilisce che «la congruità delle offerte è
valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o
superiore ad una soglia di anomalia determinata» e che «al
fine di non rendere predeterminabili dai candidati i
parametri di riferimento per il calcolo della soglia» si
procede «al sorteggio, in sede di gara, di uno» tra i cinque
criteri definiti nelle lettere da a) a e) dello stesso
comma.
Rispetto al primo metodo (lettera a: «media
aritmetica dei ribassi di tutte le offerte ammesse con
esclusione del 10% arrotondato alla cifra superiore
rispettivamente per le offerte di maggiore ribasso e di
minore ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico
dei ribassi percentuali che superano la predetta media») il
comunicato precisa che l'abrogazione dell'articolo 121 del
dpr 207/2010 non consente più di procedere al cosiddetto
«accantonamento delle ali» (non considerazione delle offerte
di eguale valore).
Sul secondo metodo l'Anac chiarisce che «se la prima
cifra dopo la virgola è dispari, la media dei ribassi deve
essere ridotta percentualmente di un valore pari a tale
cifra, mentre non è corretto ridurre tale media di un valore
assoluto pari a detta cifra»; inoltre, utilizzando
l'interpretazione analogica rispetto alle lettere a) ed e),
il comunicato precisa che la norma dovrebbe essere letta nel
senso che la media cui fare riferimento è la «media
aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte
ammesse, arrotondata all'unità superiore, con esclusione del
10%, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di
quelle di minor ribasso»
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2016). |
APPALTI: Gare, errori e illeciti sono causa di esclusione.
Nella delibera Anac le indicazioni per le stazioni
appaltanti.
Rilevanti gli errori professionali e i comportamenti carenti
nell'esecuzione del contratto, anche se compiute nei
confronti di altre stazioni appaltanti; necessario che siano
inseriti nel casellario Anac.
Sono questi alcuni dei punti
rilevanti della delibera dell'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) trasmessa nei giorni
scorsi al Consiglio di stato che dà attuazione
all'articolo 80, comma 13, del nuovo codice
dei contratti pubblici (decreto 50/2016) che
affida all'Autorità presieduta da Raffaele
Cantone il compito di precisare i mezzi di
prova adeguati inerenti le cause di esclusione
e in particolare di individuare quali carenze
nell'esecuzione di un precedente contratto di
appalto possano considerarsi significative per
la stazione appaltante.
Innanzitutto la delibera precisa che la
norma si applica anche ai settori «speciali» (acqua, energia e trasporti) e che riguarda
gli illeciti professionali gravi sotto il profilo
della moralità professionale del concorrente
o della sua affidabilità, intesa come reale capacità
tecnico professionale, nello svolgimento
dell'attività.
Da questo punto di vista l'Anac
suggerisce alle stazioni appaltanti di dare rilievo
a «comportamenti gravi e significativi
riscontrati nell'esecuzione di precedenti contratti,
anche stipulati con altre amministrazioni»; si deve trattare non di fatti episodici ma
di comportamenti «sintomatici di persistenti
carenze professionali nell'esecuzione di prestazioni
contrattuali». A titolo di esempio: la
risoluzione del contratto, l'inadempimento di
una obbligazione contrattuale, le carenze del
prodotto o servizio fornito, i comportamenti
scorretti, il ritardo nell'adempimento, l'errore
professionale nell'esecuzione della prestazione.
Altrettanto significativi i comportamenti
con dolo o colpa grave, volti ad influenzare
le decisioni delle stazioni appaltanti in sede
di gara e, in generale, i comportamenti posti
in essere dal concorrente tesi a generare
nella stazione appaltante un convincimento
erroneo su una circostanza rilevante ai fini
della partecipazione o dell'attribuzione del
punteggio. In questi casi occorre verificare
se i gravi illeciti professionali siano riferibili
direttamente al concorrente o al subappaltatore
nei casi previsti dall'articolo 105, comma
6, del codice.
Le stazioni appaltanti dovranno comunicare
all'Anac, ai fini dell'iscrizione nel
casellario informatico di cui all'articolo 213,
comma 10, del codice i provvedimenti adottati,
nonché i provvedimenti di condanna emessi
in sede giudiziale con riferimento ai contratti
affidati che siano idonei a incidere sull'integrità
e l'affidabilità dei concorrenti. L'inadempimento
dell'obbligo di comunicazione all'Anac
comporterà l'applicazione delle sanzioni previste
dall'articolo 213, comma 13, del codice.
Gli operatori economici devono dichiarare
nel Dgue (documento di gara
unico europeo) tutte le notizie inserite nel
casellario informatico gestito dall'Autorità
astrattamente idonee a porre in dubbio la
loro integrità o affidabilità. La commissione
di gravi illeciti professionali non potrà comportare
l'esclusione dalle gare per un periodo
superiore a tre anni a decorrere dalla data
di annotazione della notizia nel casellario informatico
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Il
bando può puntare sulla parte tecnica.
Punteggi. Le regole per la riparametrazione.
Le stazioni appaltanti possono prevedere
nei bandi delle gare con l’offerta economicamente più
vantaggiosa la riparametrazione dei punteggi assegnati ai
criteri della parte tecnico-qualitativa delle offerte.
Le linee-guida 2/2016
(determinazione
21.09.2016 n. 1005) elaborate dall’Anac per guidare le
amministrazioni nella gestione delle procedure selettive
aggiudicate sulla base di un sistema multicriteriale
evidenziano che l’utilizzo della riparametrazione risponde a
una scelta della stazione appaltante, che deve essere
prevista nei documenti di gara ed è finalizzata a preservare
l’equilibrio tra le diverse componenti dell’offerta.
L’Autorità muta il proprio orientamento in materia e fa
rilevare anche che questo procedimento comporta il rischio
dare un peso eccessivo a elementi carenti delle offerte dei
concorrenti.
Il presupposto per l’applicazione della riparametrazione si
determina quando i punteggi relativi a un determinato
criterio sono attribuiti sulla base di subcriteri e nessun
concorrente raggiunga il punteggio massimo previsto. Questa
situazione rischia di alterare la proporzione stabilita
dalla stazione appaltante tra i diversi elementi di
ponderazione, specie quando la valutazione è basata sul
metodo aggregativo compensatore.
L’amministrazione, prevedendolo nel bando, può quindi
riparametrare i punteggi attribuiti a ciascun criterio,
riallineandoli rispetto ai punteggi massimi previsti, sia
per l’offerta migliore sia per le altre.
L’Anac fa rilevare come la procedura di riparametrazione sia
riferibile principalmente ai criteri di natura qualitativa
(quelli rispetto ai quali la commissione giudicatrice
esprime le proprie valutazioni su metodologie, aspetti
funzionali o organizzativi) e come possa essere effettuata
una seconda volta, sul punteggio complessivamente assegnato
alla parte tecnico-qualitativa dell’offerta.
L’Autorità precisa che ai fini della verifica di anomalia la
stazione appaltante deve fare riferimento ai punteggi
ottenuti dai concorrenti all’esito delle relative
riparametrazioni.
In relazione ai criteri di natura quantitativa le
linee-guida forniscono un articolato quadro di formule
applicabili alle gare, evidenziando come le modalità di
calcolo adottate dovrebbero comunque rispettare il principio
per cui il punteggio minimo, pari a zero, è attribuito
all’offerta che non presenta sconti rispetto al prezzo a
base di gara, mentre il punteggio massimo è assegnato
all’offerta che presenta lo sconto maggiore.
Tuttavia l’Anac fa rilevare che la scelta sull’utilizzo
della formula deve tener conto del peso attribuito alla
componente prezzo: pertanto, se a questa componente è
attribuito un valore molto contenuto, non dovranno essere
utilizzate le formule che disincentivano la competizione sul
prezzo e viceversa (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti,
i criteri vanno definiti fin dal progetto.
Anac. L’esame dell’offerta più vantaggiosa.
Le stazioni appaltanti devono definire i
criteri di valutazione delle offerte fin dalla fase della
progettazione, collegandoli alle caratteristiche
fondamentali dell’appalto.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha approvato e
pubblicato le linee-guida 2/2016
(determinazione
21.09.2016 n. 1005) relative all’applicazione
delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici
sull’offerta economicamente più vantaggiosa, fornendo anche
alcune importanti precisazioni sui presupposti e sulle
modalità di utilizzo del criterio del prezzo più basso.
Proprio la prevalenza dell’offerta più vantaggiosa e la
limitata casistica nella quale si può prevedere la selezione
con il minor prezzo costituiscono, secondo l’Anac,
presupposti che richiedono già nella fase di progettazione
dell’appalto la compiuta definizione del sistema criteriale,
rapportato al quadro prestazionale descrittivo del lavoro,
della fornitura o dei servizi da affidare.
Le linee-guida focalizzano l’attenzione sulla necessaria
connessione dei criteri all’oggetto dell’appalto e sulla
possibilità di fare ricorso agli elementi premiali definiti
dai decreti esplicativi dei criteri ambientali minimi, ma
evidenziano anche la novità relativa al possibile utilizzo
di alcuni elementi soggettivi, i quali devono comunque
riguardare aspetti (ad esempio riferiti alla qualificazione
del personale impiegato) che incidono in maniera diretta
sulla qualità della prestazione. L’Anac precisa che anche in
questo caso, la valutazione dell’offerta riguarda, di
regola, solo la parte eccedente la soglia richiesta per la
partecipazione alla gara, purché ciò non si traduca in un
escamotage per introdurre criteri dimensionali.
Le linee-guida sollecitano le stazioni appaltanti a
ricorrere al criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa con costo fisso con una certa prudenza,
soprattutto al di fuori della casistica definita da leggi e
regolamenti: in tal caso, se le amministrazioni vogliono
limitare o annullare la concorrenza sul prezzo devono
adeguatamente motivare sulle ragioni alla base di tale
scelta e sulla metodologia seguita per il calcolo del prezzo
o costo fisso (ed un’accurata indagine di mercato), in base
al quale verrà remunerato l’oggetto dell’acquisizione.
Nella pesatura dei criteri, le stazioni appaltanti non
possono attribuire a ciascuna componente, criterio o
subcriterio un punteggio sproporzionato o irragionevole
rispetto a quello attribuito agli altri elementi da tenere
in considerazione nella scelta dell’offerta migliore,
preservandone l’equilibrio relativo ed evitando situazioni
di esaltazione o svilimento di determinati profili a scapito
di altri. In tale prospettiva l’Anac indica due soluzioni:
ripartire proporzionalmente i punteggi tra i criteri
afferenti all’oggetto principale e agli oggetti secondari
dell’affidamento, nonché attribuire un punteggio limitato o
non attribuire alcun punteggio ai criteri relativi a profili
ritenuti non essenziali in relazione alle esigenze della
stazione appaltante.
Nella distribuzione dei pesi ponderali, l’Anac evidenzia
come le stazioni appaltanti debbano attribuire un punteggio
limitato alla componente prezzo quando intendono valorizzare
gli elementi qualitativi dell’offerta o quando vogliono
scoraggiare ribassi eccessivi. Viceversa, esse devono
attribuire un peso maggiore alla componente prezzo quando le
condizioni di mercato sono tali che la qualità dei prodotti
offerti dalle imprese è sostanzialmente analoga.
Inoltre devono limitare il peso attribuito ai criteri di
natura soggettiva o agli elementi premianti relativi alle
varianti progettuali (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ostruzionismi al bando.
Anche se provengono dalla maggioranza.
Il regolamento non può svilire le prerogative dei
consiglieri comunali.
Quale quorum si rende necessario per la validità delle
sedute consiliari di seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei
consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il
limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto
la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge
all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia».
Nella fattispecie in esame, il consiglio del comune ha
deliberato la modifica del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale recante «seduta di seconda convocazione»
prevedendo, al fine della validità della seduta, la presenza
di «almeno quattro consiglieri».
Poiché il consiglio comunale in questione è composto da soli
tre consiglieri di minoranza, è emersa la difficoltà, per
questi ultimi, di poter esercitare il proprio mandato
elettivo a causa del ripetersi delle assenze della
maggioranza e alla conseguente mancanza del numero legale
previsto per la validità delle sedute del consiglio.
Al riguardo il Tar Sicilia, Catania, sez. I, con sentenza
del 18/07/2006, n. 1181, in tema di c.d. «ostruzionismo di
maggioranza», ha evidenziato che il comportamento
preordinato al conseguimento della mancanza del numero
legale delle assemblee rappresentative costituisce una
inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti
delle minoranze, alle quali viene impedito di svolgere il
proprio ruolo di opposizione e quindi di esercitare un
diritto politico costituzionalmente garantito.
Secondo il Tar l'art. 49 della Costituzione preclude ai
partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque opera
non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e
surrettizia erosione delle istituzioni democratiche».
Pertanto, la modifica regolamentare deliberata, unitamente
alla sistematica assenza dei componenti di maggioranza
potrebbero configurare un inammissibile svilimento dei
diritti e delle prerogative dei consiglieri di minoranza.
Benché il vigente ordinamento non preveda poteri di
controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in
capo al ministero dell'interno, si ritiene che l'ente locale
in oggetto debba valutare l'opportunità di rivedere la
normativa regolamentare in questione
(articolo ItaliaOggi del 09.12.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Referendum senza ombre.
Nel regolamento le fasi della consultazione.
Eventuali norme transitorie devono essere
coerenti con lo statuto.
Perché una richiesta di consultazione referendaria comunale
possa essere dichiarata ammissibile, la disciplina
regolamentare di dettaglio deve considerarsi presupposto
imprescindibile per l'attivazione della consultazione
stessa, se specificamente prevista dallo statuto comunale?
L'eventuale approvazione del regolamento da parte del
consiglio comunale, con la previsione di norme transitorie
per lo svolgimento del referendum, potrebbe sanare
l'eventuale mancanza, ferma restando la verifica
dell'ammissibilità del quesito da demandare all'esame di un
organismo che sostituisca l'abrogato difensore civico?
Il nostro ordinamento presta una particolare attenzione alla
partecipazione diretta del cittadino nella vita delle
istituzioni locali.
Giova ricordare, in proposito, che l'Italia ha fatto propri
i principi della Carta europea dell'autonomia locale a cui
ha aderito sottoscrivendo la relativa convenzione, poi
ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439.
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi
del cittadino trovano una loro concretizzazione nel Tuel n.
267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica
dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non
meramente facoltativo dello statuto.
Un rinvio allo statuto è previsto dal comma 3 dell'art. 8
del citato decreto legislativo n. 267/2000 circa la previsione
di forme di consultazione della popolazione, nonché delle
procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e proposte
di cittadini singoli o associati dirette a promuovere
interventi per la migliore tutela di interessi collettivi
con la determinazione delle garanzie per il loro tempestivo
esame.
La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti
referendum anche su richiesta di un adeguato numero di
cittadini, che (comma 4) devono comunque riguardare materie
di esclusiva competenza locale.
Fermo restando l'obbligo di previsione degli istituti di
partecipazione, il referendum, si configura, dunque, quale
elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto
comunale che una volta previsto deve, però, essere
compiutamente disciplinato dal regolamento.
Nel caso di specie, lo statuto comunale rimanda ad apposito
regolamento comunale la disciplina delle modalità operative
del referendum, fornendo peraltro una serie di indicazioni
di dettaglio che dovrebbero essere recepite dal medesimo
regolamento.
Il regolamento, conformemente al parere del Consiglio di
stato, sez. I, 08.07.1998, n. 464 -reso, su richiesta
dell'amministrazione dell'interno, in relazione ad una
fattispecie analoga e il cui orientamento è stato
successivamente confermato dallo stesso Consiglio di stato -sez. IV- con la sentenza n. 3769/2008- si prospetta,
infatti, in funzione complementare e integrativa rispetto
alle previsioni statutarie, tanto da rendere inapplicabile
l'istituto del referendum consultivo in mancanza dello
stesso.
La giurisprudenza amministrativa formatasi in materia
ritiene, infatti, che debba essere la fonte regolamentare a
«prevedere le varie fasi nelle quali si articola la
consultazione, dall'iniziativa sino alla proclamazione dei
risultati» inclusi i sistemi con cui sindacare
l'ammissibilità della consultazione.
In tal senso, i cittadini interessati all'approvazione del
regolamento potranno sensibilizzare l'ente affinché proceda
al riguardo, poiché le previsioni dello statuto, non
consentono alcun margine discrezionale da parte
dell'amministrazione.
Pur considerando ammissibile l'adozione di un regolamento
attuativo per consentire, con specifiche norme transitorie,
anche il regolare espletamento della procedura già avviata,
deve essere comunque garantito ai promotori l'effettivo
esercizio entro i termini previsti dallo statuto. Peraltro,
le eventuali soluzioni tecniche da adottare con le norme
transitorie, in assenza delle modifiche statutarie, devono
comunque essere coerenti con le disposizioni di tale ultimo
strumento.
In particolare, l'art. 2, comma 186, lett. a), della legge
23/12/2009, n. 191, pur avendo soppresso la figura del
difensore civico comunale, ha stabilito che le relative
funzioni possono essere attribuite, mediante convenzione, al
difensore civico della provincia
(articolo ItaliaOggi del 02.12.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Parità di genere per
tutti. Principio applicabile anche se lo statuto tace.
I piccoli comuni non sfuggono
all'applicazione delle quote rosa.
In tema di parità di genere, quale disciplina deve essere
applicata nella composizione della giunta comunale di un
ente locale che conta una popolazione inferiore a 3 mila
abitanti?
La legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha
previsto il quorum del 40%, affinché sia rispettato il
principio dell'equilibrio di genere, per i soli comuni con
popolazione superiore ai 3.000 abitanti; per i comuni al di
sotto di tale soglia demografica resta vigente l'art. 6,
comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
L'articolo citato prevede che gli statuti comunali e
provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di
pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la
presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi
collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché
degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Tale disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma 1,
della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo
«promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla
espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi».
Ai sensi dell'art. 1, comma 2, della citata legge n. 215 del
2012 è, inoltre, previsto che gli enti locali, entro sei
mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, adeguino i
propri statuti e regolamenti alle disposizioni recate
dell'art. 6, comma 3, del richiamato Testo unico sugli enti
locali.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha
modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, disponendo che il sindaco ed il presidente nella
provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto
del principio di pari opportunità tra donne e uomini,
garantendo la presenza di entrambi i sessi».
Tale normativa va letta alla luce dell'art. 51 della
Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n.
1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al
principio della promozione delle pari opportunità tra donne
e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia
demografica, pertanto, devono trovare applicazione le
disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n.
215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione,
dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n.
198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo,
finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di
entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla
vita istituzionale degli enti territoriali.
Peraltro, le citate disposizioni sulla parità di genere
risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di
una espressa previsione nello statuto comunale, ferma
restando la necessità dell'adeguamento dello stesso da parte
dell'ente interessato
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quote rosa nei mini-enti.
La parità di genere non conosce eccezioni.
Il principio è immediatamente applicabile anche
se lo statuto tace.
Un ente locale che conta una popolazione inferiore a 3 mila
abitanti deve conformarsi alla vigente normativa in tema di
parità di genere nella composizione della giunta comunale? È
ammissibile la delega a un consigliere comunale?
La legge n. 56 del 7 aprile 2014, all'art. 1, comma 137, ha
disciplinato la materia per i soli comuni con popolazione
superiore ai 3 mila abitanti, stabilendo un preciso quorum
del 40% affinché sia rispettato il principio della parità di
genere; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica
occorre richiamare l'art. 6, comma 3, del dlgs n. 267/2000.
Tale articolo prevede che gli statuti comunali e provinciali
stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari
opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di
entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non
elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti,
aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
La citata disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma
1, della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo
«promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla
espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi».
Ai sensi del comma 2 dell'art. 1 della citata legge n. 215
del 2012 è previsto che gli enti locali, entro sei mesi
dall'entrata in vigore della legge stessa, adeguino i propri
statuti e regolamenti alle disposizioni del comma 3
dell'art. 6 del richiamato Tuel
L'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha
modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, disponendo che il sindaco ed il presidente nella
provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto
del principio di pari opportunità tra donne e uomini,
garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La normativa in parola va letta alla luce dell'art. 51 della
Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n.
1/2003 che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio
della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia
demografica, pertanto, devono trovare applicazione le
disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n.
215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione,
dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n.
198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo,
finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di
entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla
vita istituzionale degli enti territoriali. Ferma restando
la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'Ente,
le richiamate disposizioni normative sulla parità di genere
risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di
una espressa previsione statutaria.
Risulterebbe, infine, ammissibile la delega (interorganica)
ad un consigliere comunale a condizione che il suo contenuto
sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui
si riferisce e purché sia sancita all'interno dello statuto
nell'ambito dell'autonomia esercitabile ai sensi dell'art. 6
del decreto legislativo n. 267/2000
(articolo ItaliaOggi del 18.11.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto.
In caso di contrasto con il regolamento.
Cosa succede quando le due fonti normative dicono
cose diverse.
Qual è il quorum strutturale per la validità delle sedute
del consiglio comunale?
Nella fattispecie in esame, il regolamento di organizzazione
e funzionamento del consiglio comunale prevede che le sedute
consiliari, convocate in seconda convocazione, siano valide
con la presenza di almeno 14 consiglieri. Ai sensi dello
statuto comunale è previsto, invece, che le medesime sedute
siano valide con la presenza di almeno un terzo dei
consiglieri assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra le norme suindicate si è verificata a
seguito della modifica introdotta dalla legge n. 148/2011 che
ha inciso sulla composizione dei consigli operando una
riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia
demografica dell'ente locale in esame.
Ai fini dell'individuazione della disposizione normativa che
debba essere applicata, onde computare il numero di
consiglieri necessario per la validità delle sedute del
consiglio riunito in seconda convocazione, l'art. 38, comma
2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento
comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto»
la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per
la validità delle sedute», con il limite che detto numero
non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo
dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza
computare a tale fine il sindaco e il presidente della
provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel
senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei
consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso prospettato, seguendo la gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto
legislativo che disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e
dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n.
2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011) la citata
disposizione regolamentare deve essere disapplicata,
prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno, al fine di comporre la discrasia
evidenziata, un intervento correttivo volto ad armonizzare
le previsioni recate dalle richiamate fonti di autonomia
locale
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2016). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGATO: Personale,
incentivi bloccati senza «decentrato» entro l’anno.
Contratti. A rischio l’utilizzabilità delle risorse.
Le amministrazioni
locali devono costituire rapidamente il fondo per la
contrattazione decentrata e stipulare il contratto
collettivo decentrato integrativo entro l’anno.
Sono questi
due passaggi obbligati, alla luce dei principi dettati
dall’armonizzazione del sistema contabile, per evitare che
una parte delle risorse destinate alla incentivazione del
personale non siano utilizzabili nell’anno successivo. Va
quindi evitata la scelta (praticata spesso) di contrattare
nell’anno anche le risorse di quello precedente.
La costituzione del fondo deve essere effettuata con
determinazione del dirigente individuato come competente da
parte dell’amministrazione, che deve avere acquisito le
scelte dell’organo di governo sull’inclusione nella parte
variabile delle risorse aggiuntive previste dai contratti.
Di recente la sezione di controllo della Corte dei Conti
della Lombardia (delibera 226/2016) è tornata a ribadire il
divieto di inserire tali risorse, anche come semplice
conferma, nelle amministrazioni che non hanno rispettato il
patto di stabilità, comprese Province e Città metropolitane,
e/o hanno superato il tetto di spesa del personale. Sulla
costituzione del fondo occorre dar corso, come relazione
sindacale, unicamente alla informazione preventiva all’avvio
della contrattazione.
Il fondo del 2016 non può, nel suo insieme, superare quello
del 2015: analogo tetto va applicato alle risorse destinate
negli enti privi di dirigenti al salario accessorio delle
posizioni organizzative. L’avvertenza è necessaria perché in
queste amministrazioni il salario accessorio delle posizioni
organizzative non è finanziato dal fondo.
Nel tetto del fondo non vanno inclusi: incentivi per le
funzioni tecniche, compensi per gli avvocati dipendenti in
caso di successi con condanna dell’altra parte al pagamento
delle spese legali, risparmi dei fondo per il salario
accessorio e per lo straordinario del 2015, risorse
trasferite dall’Istat e proventi dei piani di contenimento
della spesa destinati alla incentivazione del personale.
Il fondo 2016 deve essere ridotto rispetto al 2015 in misura
proporzionale in caso di diminuzione del personale in
servizio, tenendo conto delle capacità assunzionali. Si
suggerisce di applicare il metodo della media aritmetica del
personale in servizio suggerito dalla Ragioneria Generale
dello Stato. Nella quantificazione delle capacità
assunzionali si deve tener conto sia di quelle dell’anno sia
del triennio precedente non utilizzate.
La circolare della
Ragioneria 12/2016 precisa che le amministrazioni devono
effettuare una verifica alla fine dell’anno. Le formula non
può essere intesa nel senso che le capacità assunzionali non
utilizzate devono determinare una riduzione del fondo,
perché questo era l’esito determinato dall’utilizzazione del
metodo della media aritmetica. Va invece interpretata nel
senso che le amministrazioni che avessero programmato le
assunzioni del personale in sovrannumero degli enti di area
vasta, potendo contare in tal caso su una capacità
assunzionale più elevata e che non le hanno realizzate,
possono ora contare su una capacità ridotta e devono tener
conto del taglio del fondo nel determinare la misura.
Nel contratto decentrato appare necessario ricordare che la
destinazione di risorse all’incentivazione della performance
in assenza di un adeguamento delle norme contrattuali e
regolamentari alle previsioni del decreto legislativo
150/2009 è da ritenere illegittima. E inoltre che le
progressioni orizzontali possono essere effettuate,
determinando immediatamente i benefici economici, ma a
condizione che siano finanziate permanentemente dalla parte
stabile del fondo, che i destinatari siano un numero
limitato di dipendenti e che la decorrenza non vada più
indietro del 1° gennaio dell’anno in cui le relative
graduatorie sono state approvate.
Per cui la contrattazione
decentrata del 2016 può sì decidere progressioni economiche
con decorrenza dal 1° gennaio di quest’anno; ma se le
graduatorie non saranno approvate entro il 31 dicembre la
decorrenza deve essere spostata almeno al 01.01.2017
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.10.2016). |
APPALTI: Gare, l'eco-certificazione aiuta.
Titoli ambientali in corsia preferenziale negli appalti.
Lo prevedono il dlgs 50/2016 e le novità europee riguardanti
Emas ed Ecolabel.
Imprese eco-certificate più competitive nelle gare a
evidenza pubblica.
È quanto emerge dalla sinergia tra regole
dettate dal neo Codice appalti, relative linee guida
applicative dell'Autorità e l'upgrade Ue delle norme su Emas
ed Ecolabel, i marchi comunitari verdi che certificano
processi e prodotti a basso impatto ambientale.
Eco-certificati nel nuovo Codice appalti. Dal 19/04/2016,
salvo mirate eccezioni, in base al dlgs 50/2016
l'aggiudicazione degli appalti deve avvenire mediante il
criterio dell'«offerta economicamente più vantaggiosa» (c.d.
«Oepv»), individuata sulla base del «miglior rapporto
qualità/prezzo» oppure dell'elemento «prezzo o costo»,
secondo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il
«costo del ciclo di vita».
Il metodo del «miglior rapporto
qualità/prezzo» deve essere fondato su criteri oggettivi,
tra i quali anche la valutazione del possesso di
certificazioni ambientali. Della centralità del criterio «Oepv»,
e dunque (logicamente) delle eco-certificazioni, danno atto
le ultime linee guida in materia dettate dall'Autorità
nazionale anticorruzione in attuazione del dlgs 50/2016.
Dalla delibera Anac 1005/2016 (G.U. 11/10/2016 n. 238)
emerge infatti come nella logica della nuova disciplina
appalti il confronto concorrenziale basato sul «miglior
rapporto qualità e prezzo» sia evitabile solo ove i relativi
benefici siano nulli o ridotti.
E le stazioni appaltanti che
intendono, ricorrendone le condizioni, derogare al criterio
«Oepv» per utilizzare quello (residuale) del «minor prezzo»
devono di conseguenza sempre: darne adeguata motivazione;
esplicitare comunque il criterio utilizzato per assicurare
la selezione della migliore offerta; dimostrare che
attraverso la deroga non sia avvantaggiato un particolare
fornitore. Ma sono anche sul piano fiscale i vantaggi
offerti dal dlgs 50/2016 alle imprese eco-certificate.
L'articolo 93 del dlgs 50/2016 prevede infatti per le
imprese eco-griffate una riduzione degli importi dovuti a
titolo di garanzia fideiussoria all'atto delle offerte, con
un occhio di riguardo per i titolari di certificati
ambientali Ue.
E ciò in primo luogo riconoscendo alle
imprese Emas una riduzione del 30%, laddove alle
eco-certificate Iso viene garantito solo il 20%. E in
secondo luogo prevedendo per gli operatori economici che
offrono almeno il 50% dei beni e servizi sotto marchio
Ecolabel uno sconto del 20% sulle garanzie.
Emas, le novità in arrivo. Saranno le imprese edili a essere
destinatarie delle prossime e sostanziose novità previste
dall'«Eco-Management and Audit Scheme», il sistema ex
regolamento 1221/2009/Ce cui possono aderire aziende e
organizzazioni, pubbliche o private, che rispettano
determinati standard di qualità ambientale.
Approvato dal
Consiglio Ue lo scorso settembre 2016, un documento sulle
«migliori pratiche di gestione ambientale» in via di
formalizzazione orienterà gli operatori di settore
(progettisti, cantieri edili, società di amministrazione di
immobili) verso l'upgrade delle eco-prestazioni nelle
attività che interessano l'intero ciclo di vita degli
edifici. E ciò al fine di ottenere o mantenere la
registrazione Emas, basata (infatti) sulla dimostrazione del
continuo miglioramento delle prestazioni ambientali
d'impresa.
Trovano così collocazione nel documento Ue in
itinere: per la fase di progettazione degli edifici,
indicazioni e standard per contenimento dei consumi di acqua
ed energia, prevenzione della produzione e recupero dei
rifiuti, scelta di materiali a basso impatto ambientale; per
la fase di costruzione o ristrutturazione, istruzioni di
contenimento delle emissioni (dalle atmosferiche alle
acustiche), utilizzo di materiali recuperati; per la fase di
manutenzione, regole per ottimizzazione energetica e
limitazione di sostanze pericolose nelle pratiche di
pulizia; per la fase di fine vita, regole per demolizione
selettiva degli edifici e recupero dei materiali.
Ecolabel, gli upgrade. Dall'inizio del 2016 a oggi l'Ue ha
già aggiornato alle ultime conoscenze utili gli standard
ambientali relativi a circa un quarto delle oltre 35
categorie di prodotti certificabili Ecolabel, il marchio
comunitario verde dedicato a beni e servizi e disciplinato
dal regolamento 66/2010/Ce.
Tra le rilevanti novità (anche
sul piano degli appalti pubblici) spicca la rivisitazione
delle regole relative al gruppo di prodotti «mobili», che
grazie alla decisione 2016/1332/Ue comprende ora anche beni
costituiti da materiali diversi dal legno, ma a condizione
che siano osservati stretti limiti sulle sostanze chimiche
utilizzate.
Le altre certificazioni. Salve le citate disposizioni su Emas ed Ecolabel, il nuovo Codice appalti impone alle
amministrazioni procedenti di riconoscere, sebbene con iter
diversi, tutti i validi sistemi di gestione ambientale.
L'articolo 87 del dlgs 50/2016 prevede infatti tre strumenti
per provare il possesso dei requisiti verdi di gara:
certificati di organismi indipendenti accreditati;
equivalenti attestati rilasciati da organismi di altri
Stati; altre prove documentali di analoghe misure di
garanzia di qualità ambientali.
E ciò pedissequamente a
quanto già stabilito dagli articoli 43 e 44 del pregresso dlgs 163/2006, articoli sui quali si è recentemente espresso
il Consiglio di stato tracciando la differente valenza
probatoria (tutt'ora valida) dell'eco-documentazione in
parola.
Nel caso di certificati rilasciati da organismi
indipendenti accreditati, si evince dalla sentenza 13.10.2016 n. 4238, l'amministrazione appaltante deve dare
per provato il possesso dei requisiti, non potendo
disconoscerlo; negli altri casi la stessa stazione
appaltante deve invece procedere a una concreta valutazione
dei titoli ambientali presentati, la cui validità deve
essere provata dal soggetto proponente con un soddisfacente
grado di certezza.
Le criticità del sistema Ue. Oltre a luci, sul sistema di
certificazioni ambientali Ue si proiettano però anche ombre.
Come si evince dall'«Indagine sulle organizzazioni che
abbandonano Emas» diramata dall'Ispra (Istituto superiore
per la protezione e la ricerca ambientale) lo scorso
5/7/2016, nel periodo 2013-2015 le registrazioni hanno
subito una ulteriore flessione (-7,5%) rispetto a quella già
rilevata nel biennio 2009-2010.
Oltre alla crisi economica, emerge dall'Indagine, hanno
concorso alla contrazione l'insoddisfazione delle imprese
per mancanza di ritorni in termini di visibilità,
insufficienza di semplificazioni burocratiche e di benefici
fiscali.
Un quadro, si sottolinea però nell'Indagine, sul quale
possono positivamente incidere le misure ex legge 221/2015
(c.d. «Green economy», in vigore dal
02/02/2016) che prevede
come nella definizione di graduatorie per assegnazione di
contributi, agevolazioni e finanziamenti in materia
ambientale costituisca elemento di preferenza il possesso di
certificazioni verdi, tra cui espressamente appaiono Emas ed
Ecolabel
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi, graduatorie prorogate. Slittamento entro fine
anno. Anci: ora sbloccare il turnover.
MANOVRA 2017/ Il ministro Madia ha risposto a Decaro.
Decreto dirigenza verso l'intesa.
Le graduatorie dei concorsi pubblici in scadenza al 31.12.2016 saranno prorogate. Lo slittamento dovrebbe
essere di un anno, quindi fino a tutto il 2017, e lascerà in
vita le speranze dei 4.471 vincitori di concorso e dei
151.378 idonei.
A tanto ammonta, secondo l'ultima
rilevazione della Funzione pubblica (disponibile sul sito
www.monitoraggiograduatorie.gov.it) l'esercito di
aspiranti dipendenti pubblici che bussa da anni alle porte
della p.a.
Chi, come nel caso dei vincitori, forte di un vero e proprio
diritto soggettivo all'assunzione, chi, come per gli idonei,
potendo vantare solo un'aspettativa legittima a entrare nei
ranghi della pubblica amministrazione. L'annuncio dello
slittamento è arrivato dal ministro Marianna Madia che in
risposta alla richiesta dell'Anci ha assicurato che le
graduatorie dei concorsi pubblici verranno prorogate. Quasi
sicuramente con il tradizionale decreto Milleproroghe di
fine anno.
«Ritengo che, prima della fine dell'anno, sia
possibile perfezionare l'adozione di un provvedimento
normativo che disponga la proroga di tutte le graduatorie
dei concorsi pubblici in scadenza al prossimo 31 dicembre»,
ha assicurato il ministro all'Anci. Una formale assunzione
di impegno che il neopresidente Antonio Decaro ha accolto
con soddisfazione.
«Si tratta di un segnale di attenzione
verso molti cittadini, in particolare giovani, ed evidenzia
l'impegno a migliorare la gestione del personale degli enti
locali che deve trovare traduzione, come chiediamo, in un
innalzamento della percentuale del turnover», ha commentato
il sindaco di Bari che nei giorni scorsi aveva scritto una
lettera al ministro per la semplificazione e la p.a.
motivando la richiesta con la necessità di favorire, «nella
prospettiva di riavvio delle procedure assunzionali nei
comuni, economia procedimentale e speditezza amministrativa,
tenendo anche conto delle legittime aspettative dei soggetti
risultati idonei nelle procedure concorsuali».
La proroga delle graduatorie e l'innalzamento delle soglie
di turnover sono due temi legati a doppio filo e l'Anci lo
sa bene visto che ha espressamente richiesto al governo un
incremento dell'attuale limite fissato al 25% delle
cessazioni.
La proposta dei sindaci prevede un turnover
differenziato in base a fasce demografiche. La percentuale
di dipendenti assumibili rispetto alle cessazioni, secondo
l'Anci, dovrebbe salire al 50% nel 2017 e al 75% nel 2018
per tutti i comuni sopra i 5.000 abitanti che abbiano i
conti in ordine, fino ad arrivare al 100% per i piccoli
comuni (si veda ItaliaOggi del 15/10/2016).
Va da sé che,
qualora la stretta sul turnover non dovesse allentarsi, per
gli enti sarebbe impossibile smaltire anche solo le
graduatorie dei vincitori di concorsi. Figuriamoci i 150
mila idonei che da anni attendono certezze sul proprio
futuro. Anche perché, com'è noto, gli aspiranti dipendenti
pubblici potrebbero essere molti di più di quanto
certificato dai dati della Funzione pubblica. Il ministero,
infatti, censisce solo gli enti da cui abbia ricevuto
comunicazioni sui concorsi espletati e sulle graduatorie in
essere.
Non tutti però trasmettono i dati a Palazzo Vidoni e
infatti il data base ministeriale conta solo 4.093 enti
sugli oltre 15/20 mila (tra comuni, regioni, province, asl,
policlinici, ministeri, agenzie, enti di previdenza,
istituti di ricerca, aziende autonome, università, camere di
commercio, ecc.) che costituiscono la galassia della p.a.
Decreto dirigenza.
Dopo la frenata in Conferenza unificata,
la bocciatura del Consiglio di stato e i rilievi delle
commissioni parlamentari, il decreto legislativo sulla
riforma della dirigenza potrebbe imboccare la strada giusta.
Ieri si è riunito il tavolo tecnico governo-autonomie che
dovrà elaborare la proposta di modifica del testo in vista
della prossima Conferenza unificata straordinaria convocata
per il 27 ottobre.
«Se l'Anci avrà le risposte che si
attende, in particolare sul fondo per il pagamento dei
dirigenti che finiscono in disponibilità e sulla maggiore
rappresentanza di enti locali e regioni nella commissione
per la tenuta dell'albo unico, l'intesa sul decreto
attuativo della riforma Madia potrà arrivare già giovedì»,
ha auspicato il delegato Anci al personale (e sindaco di
Chieti) Umberto Di Primio
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
conferenza di servizi accelera. La forma semplificata «a
distanza» punta ad abbreviare i tempi ed evitare impasse.
Procedure autorizzative. Le modifiche previste dal Dlgs
127/2016 si applicano ai procedimenti avviati dopo il
28.07.2016.
Le nuove regole
sulla conferenza di servizi previste dal Dlgs 127/2016
-applicabili ai procedimenti avviati dopo il 28 luglio
scorso- puntano a ridurre i tempi, snellirne l’iter ed
evitare impasse decisionali di questo strumento, introdotto
nel nostro ordinamento nel 1990 dalla legge 241/1990.
La conferenza semplificata.
Tra le principali novità
figura la cosiddetta conferenza semplificata, ossia un
modulo operativo che si aggiunge a quelli già esistenti e
che non richiede la presenza contemporanea dei
rappresentanti di ciascuna amministrazione coinvolta, non
svolgendosi tramite riunioni.
Questa tipologia di conferenza si innesta nell’ambito delle
conferenze di servizi “decisorie”, tese a maturare una
decisione unica, e spesso pluri-strutturata, a seguito di
una valutazione comparata di più interessi espressi nel
contesto di uno o più procedimento.
Il procedimento.
Oggi, quindi, la conferenza
decisoria si articola in due categorie: la semplificata e la
simultanea. Di regola, la conferenza decisoria si avvia con
la formula semplificata (fatta eccezione per casi specifici)
e si svolge in modalità asincrona, quindi senza la
partecipazione contestuale dei rappresentanti della Pa. Il
procedimento, quindi, si articola in più fasi:
La comunicazione.
Dopo l’avvio del
procedimento, l’amministrazione procedente invia alle altre
una comunicazione indicando l’oggetto della determinazione,
il termine per le integrazioni (15 giorni) e quello entro
cui pronunciarsi (45 giorni, che diventano 90 in caso di
interessi rafforzati come ambiente, beni culturali,
paesaggio, salute), nonché la data dell’eventuale riunione
per la convocazione in modalità simultanea.
L’invio delle determinazioni delle Pa
coinvolte. Entro
il termine assegnato, le Pa dovranno esprimersi formulando
il proprio “assenso” o il proprio “dissenso”, potranno
suggerire modifiche al progetto e indicare prescrizioni o
condizioni che devono essere chiare e analitiche nonché, se
riferite ad un vincolo, dovranno specificare a quale vincolo
fanno riferimento e la fonte normativa o regolamentare da
cui esso derivi.
Se una amministrazione coinvolta nel procedimento non
trasmette il proprio parere entro 45 giorni (90 per le
materie sensibili) o se la relativa determinazione non
rispetta i requisiti di chiarezza e completezza richiesti
dalla normativa, si forma, sul progetto esaminato, il
silenzio-assenso senza condizioni. Circostanza, questa, che
può determinare la responsabilità dell’amministrazione (per
il mancato esercizio del potere conferitole) o del
dipendente nei confronti della Pa.
La determinazione di conclusione del
procedimento.
Scaduto il termine assegnato alle Pa, l’amministrazione
procedente, entro i successivi cinque giorni, adotta la
determinazione di conclusione del procedimento che potrà
essere “positiva”, in caso di acquisizione di atti di
assenso, anche implicito, e le cui eventuali condizioni e
prescrizioni non modificano radicalmente il progetto
analizzato; o “negativa” in caso pervengano uno o più atti
di dissenso che l’amministrazione procedente non ritenga
superabili.
La conferenza simultanea.
Si ricorre alla conferenza
simultanea (ossia la formula della conferenza conosciuta
finora- che vede la partecipazione contestuale delle varie
amministrazioni allo stesso tavolo) nei seguenti casi:
- se in sede di conferenza semplificata le Pa esprimono
posizioni differenziate e con condizioni complesse;
- in caso di procedimenti di particolare complessità;
- qualora lo richieda il proponente.
Con la conferenza semplificata si riporta in auge, in altri
termini, il modello di formazione del provvedimento
amministrativo che non necessita del coinvolgimento
contestuale delle amministrazioni ma che vede
l’amministrazione procedente acquisire man mano dalle altre
Pa i vari pareri e poi emana il provvedimento finale.
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Spetta a chi dissente l’appello al
Governo. L’opposizione. Ribaltata
l’impostazione precedente.
Le nuove norme sulla
conferenza dei servizi definiscono anche il procedimento di
opposizione in caso di dissenso di una o più Pa. Fino al
Dlgs 127/2016, il meccanismo per risolvere dissensi lasciava
spesso dei dubbi interpretativi sulla formazione compiuta
delle volontà (di segno negativo) della Pa preposta alla
tutela di un interesse sensibile espresso nell’ambito della
conferenza di servizi.
Per considerarlo qualificato, il dissenso doveva essere,
anzitutto, “motivato”, circostanza questa, spesso, non di
immediata percezione: poteva bastare il semplice richiamo
all’esistenza di un vincolo culturale per motivare un
diniego ad un progetto edilizio? O l’amministrazione doveva
spiegare l’incompatibilità del progetto con il vincolo?
Ma le incertezze non terminavano qui: la disciplina della
legge 241/1990 imponeva all’amministrazione procedente di
rimettere la questione al Consiglio dei ministri. Quindi, la
decisione sull’esistenza di un dissenso validamente espresso
(ossia motivato), spettava ad una amministrazione terza,
chiamata a fare da arbitro del procedimento in corso. Anche
questa circostanza era foriera di molti conflitti: se ad
esempio la Pa procedente non riteneva “motivato” un dato
diniego, poteva decidere anche di concludere il procedimento
approvando il progetto.
In tal caso, l’amministrazione dissenziente poteva adire il
Tar competente per chiedere o l’annullamento per violazione
di legge (ossia delle norme che governavano la disciplina
del dissenso in conferenza) o la dichiarazione di nullità
per incompetenza assoluta (in quanto il provvedimento era
stato emanato dall’amministrazione appartenente a un plesso
completamente diverso da quello cui la legge attribuiva la
competenza, ossia il Cdm). Restava quindi un’alea di
incertezza.
Il Dlgs 127/2016 inverte l’onere della responsabilità di
sollevare l’opposizione e lo pone in capo
all’amministrazione dissenziente. Una modifica che elimina
le incertezze sulla legittimità del provvedimento finale per
la mancata devoluzione al Consiglio dei ministri: spetta
alla Pa dissenziente (preposta alla tutela dell’ambiente,
del paesaggio, dei beni culturali, salute e pubblica
incolumità) proporre opposizione al presidente del Consiglio
dei ministri entro dieci giorni dalla comunicazione della
determinazione di conclusione del procedimento.
Le Pa possono inoltre opporsi solo se hanno espresso in modo
inequivoco il proprio motivato dissenso, prima della
conclusione dei lavori della conferenza.
Nel caso in cui in conferenza siano acquisiti dissensi
qualificati (che possono portare alla proposizione
dell’opposizione), l’efficacia della determinazione motivata
di conclusione della conferenza è sospesa per dieci giorni.
Se l’opposizione non viene presentata, il provvedimento
riacquista efficacia una volta decorso detto termine.
Parimenti, se viene esperito il procedimento di opposizione,
la determinazione di conclusione della conferenza resta
sospesa in attesa della decisione finale su di esso.
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Per revoca e annullamento iter e
organismo identici. Gli altri rimedi. Le nuove norme hanno
confermato l’orientamento giurisprudenziale.
L’efficacia della
determinazione motivata di conclusione della conferenza non
è sempre uguale, ma dipende dal tipo di approvazione
ottenuta. In caso di approvazione unanime, la determinazione
è immediatamente efficace, mentre nel caso di approvazione
sulla base delle posizioni prevalenti, l’efficacia della
determinazione è sospesa ove siano stati espressi dissensi
qualificati, per il periodo utile all’esperimento del
rimedio dell’opposizione.
La determinazione motivata di conclusione della conferenza
sostituisce a ogni effetto tutti gli atti di assenso,
comunque denominati, di competenza delle varie Pa coinvolte
nel procedimento. Esse, tuttavia, possono:
sollecitare con congrua motivazione l’amministrazione
procedente ad assumere provvedimenti di annullamento in
autotutela (articolo 21-nonies della legge 241/1990), previa
indizione di una nuova conferenza;
sollecitare l’amministrazione procedente a provvedere con la
revoca (articolo 21-quinquies della legge 241/1990) solo se
esse abbiano partecipato alla conferenza di servizi o si
siano espresse nei termini.
Finora il potere di autotutela restava confinato
nell’elaborazione giurisprudenziale, che non solo lo
ammetteva ma aveva anche indicato -nel principio del
contrarius actus la formula operativa attraverso
cui esso poteva estrinsecarsi: i giudici amministrativi
avevano ribadito che occorreva la convocazione di una nuova
conferenza di servizi per annullare in autotutela o revocare
una precedente determinazione assunta in conferenza.
Oggi, il secondo comma dell’articolo 14-quater espressamente
riconosce che l’autotutela si esercita mediante nuova
conferenza (quindi, semplificata o simultanea, a seconda
della tipologia del primo consesso).
L’autotutela può estrinsecarsi nell’annullamento o nella
revoca, ma non tutte le amministrazioni possono richiedere
alla Pa procedente di esercitare entrambi i poteri:
- la formula dell’annullamento (ricorrendone, però, i
presupposti di violazione di legge, eccesso di potere e
incompetenza) può essere richiesta da tutte le Pa coinvolte;
- al contrario, solo le amministrazioni che abbiano
partecipato attivamente ai lavori della conferenza possono
richiedere la revoca di un provvedimento (ricordando, però,
che in edilizia i permessi di costruire, secondo il disposto
dell’articolo 12 del Dpr 380/2001, non sono revocabili).
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Raccolta dei pareri più facile per Scia
e permesso di costruire. L’ambito di utilizzo. Lo sportello
unico per le attività produttive potrà ricorrere alla
formula «asincrona».
Lo strumento
della conferenza di servizi è tradizionalmente collegato
alla necessità della semplificazione di procedimenti
articolati e complessi in cui confluiscono le decisioni di
più amministrazioni portatrici di interessi diversi.
Sono molti i casi in cui un procedimento amministrativo si
articola in più direzioni e necessita di acquisire un centro
in cui le varie opinioni vengono convogliate e valutate.
Conferenza istruttoria
Si pensi, ad esempio, a un’amministrazione che per
concludere il proprio procedimento –quindi, fondando la
propria decisione sulla valutazione del solo interesse
giuridico che è chiamata a tutelare– decida che per il
miglior risultato della sua azione amministrativa sia
opportuno un confronto con altre amministrazioni. Esse,
infatti, possono portare all’attenzione della Pa procedente
alcuni elementi in fatto o diritto che la possono aiutare a
meglio ponderare la valutazione che si concretizza nel
provvedimento finale.
È questo il caso della conferenza istruttoria, che esamina
più interessi coinvolti in un solo procedimento e che danno
vita ad una decisione monostrutturata. Si pensi all’ipotesi
di un permesso di costruire in area non vincolata o non in
fascia di rispetto, ma per il cui rilascio la Pa decida di
acquisire anche i pareri degli enti preposti alla tutela di
una determinata strada che potrebbe avere un impatto in
termini di traffico e circolazione con il progetto da
approvare.
Conferenza preliminare
Altra ipotesi è la conferenza preliminare, ossia quella che
viene convocata per svolgere un esame preventivo su un dato
progetto e così permettere all’istante e alla Pa di
comprendere le condizioni per ottenere in futuro i necessari
atti di consenso.
Conferenza decisoria
Molto frequenti, in edilizia, sono i casi di conferenza
decisoria, ossia la conferenza nel cui consesso sono
chiamati ad esprimersi i rappresentanti di più
amministrazioni direttamente coinvolte da un dato progetto e
che, per ragioni di celerità e speditezza, vengono chiamati
a partecipare attraverso il modulo della conferenza per il
rilascio del titolo edilizio finale.
Va anzitutto ricordato che è il Suap (Sportello unico per le
attività produttive) l’organo cui compete l’acquisizione dei
vari pareri eventualmente necessari in procedimenti così
complessi, e l’articolo 5 del Testo unico dell’edilizia (Dpr
380/2001) ricorda che tale raccolta può ben avvenire
attraverso proprio lo strumento della conferenza di servizi.
Si pensi, poi, all’articolo 20 del Dpr 380, che descrive il
procedimento per la formazione del permesso di costruire e
che attribuisce al responsabile del procedimento il compito
di curare l’istruttoria e, se necessario, acquisire gli
ulteriori atti di assenso, per il tramite della conferenza
di servizi.
Parimenti, per il procedimento tramite Scia: il legislatore
ricorre alla conferenza di servizi per il caso in cui
occorre acquisire più pareri.
Tali forme decisorie dovranno, oggi, essere impostate
secondo la riforma del Dlgs 127/2016, e quindi, non
richiederanno la presenza congiunta dei rappresentanti in
una sola riunione ma dovranno, di regola, seguire la formula
della conferenza semplificata, con richiesta di pareri da
parte della Pa procedente, seguita dall’invio delle
determinazioni degli altri enti coinvolti dal rilascio del
titolo edilizio (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Amianto,
scattano le bonifiche. Click day dal 16/11. A disposizione
17 mln in tre anni. Definite le
modalità per usufruire del bonus del 50% per interventi sui
capannoni.
Per il bonus del 50% sulla bonifica da amianto dei capannoni
click day dal 16 novembre. Le imprese potranno comunque
iniziare a registrarsi attraverso l'apposita piattaforma
elettronica accessibile dal sito del ministero dell'ambiente
www.minambiente.it già dal 27 ottobre. Il finanziamento
complessivo è pari a 17 milioni di euro e l'agevolazione non
spetta per investimenti di importo unitario inferiore a 20
mila euro. Entro 90 giorni dalla presentazione dell'istanza,
il Ministero dell'ambiente comunicherà alle imprese il
riconoscimento o il diniego dell'agevolazione.
Questo è quanto previsto dal decreto del 15.06.2016
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17.10.2016 n.
243) con il quale il ministero dell'ambiente ha definito le
modalità di presentazione delle domande per usufruire del
credito d'imposta per interventi di bonifica dei beni e
delle aree contenenti amianto.
Per garantire la massima
trasparenza e la maggiore comprensione possibile del modulo
di presentazione delle istanze, sono inoltre state redatte
dal dicastero dell'ambiente, le linee guida alla
predisposizione delle domande e le Faq. Le agevolazioni sono
concesse nei limiti e nelle condizioni del regolamento
europeo che prevede che il finanziamento pubblico alle
imprese uniche non possa superare, nel triennio, 100 mila
euro per le imprese di trasporto merci per conto terzi, e
200 mila euro per le altre.
Sono invece escluse le imprese
di produzione primaria di prodotti agricoli, pesca e
acquacoltura, e quelle che operano nei servizi di interesse
economico generale, le cui agevolazioni sono disciplinate da
altri regolamenti comunitari. Il credito d'imposta verrà
concesso solo per interventi di rimozione e smaltimento
dell'amianto, non per il semplice incapsulamento o
confinamento. Saranno finanziati solo gli interventi
conclusi, quelli di cui l'impresa può comprovare i pagamenti
effettuati e l'avvenuto smaltimento in discarica
dell'amianto entro il 31.12.2016.
Spese ammissibili.
Sono ammissibili al credito d'imposta gli interventi di
rimozione e smaltimento, anche previo trattamento in
impianti autorizzati, dell'amianto presente in coperture e
manufatti di beni e strutture produttive ubicati nel
territorio nazionale effettuati nel rispetto della normativa
ambientale e di sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono
ammesse, inoltre, le spese di consulenze professionali e
perizie tecniche nei limiti del 10% delle spese complessive
sostenute e comunque non oltre l'ammontare di 10.000,00 euro
per ciascun progetto di bonifica unitariamente considerato.
Sono considerate eleggibili le spese per la rimozione e lo
smaltimento, anche previo trattamento in impianti
autorizzati, di lastre di amianto piane o ondulate,
coperture in eternit, tubi, canalizzazioni e contenitori per
il trasporto e lo stoccaggio di fluidi, a uso civile e
industriale in amianto e sistemi di coibentazione
industriale in amianto.
Soggetti interessati.
Possono accedere ai contributi i soggetti titolari di
reddito d'impresa, ai sensi dell'articolo 2195 del codice
civile, purché si tratti di imprese le cui attività siano
riconducibili alle attività ammissibili a contributo «de
minimis» di cui al regolamento (Ue) n. 1407/2013 del 18.12.2013.
Di fatto, dunque, risultano escluse le imprese che operano
nei settori riconducibili ai regolamenti (Ue) n. 360/2012
(servizi di interesse economico generale), n. 1408/2013 del
18.12.2013 (settore agricolo) e n. 717/2014 del 27.06.2014 (settore della pesca e dell'acquacoltura).
Ciascuna impresa, considerata come «Impresa unica» ai sensi
del regolamento (Ue) n. 1407/2013 del 18.12.2013
(considerando n. 4 e articolo 2.2), può presentare tante
domande di contributo quanti sono gli interventi di
rimozione o smaltimento amianto effettuati nell'annualità
2016 sul territorio nazionale. Si ricorda che a ogni
intervento deve essere associato un diverso piano di lavoro.
All'agevolazione concessa deve essere applicato il limite di
importo cui al regolamento 1407/2013.
In caso di più domande
presentate singolarmente da imprese che risultino fra di
loro collegate o associate secondo le definizioni del citato
regolamento, si ricorda che queste devono essere considerate
come «impresa unica» e il finanziamento totale non può
eccedere i limiti imposti dal regolamento 1407/2013.
Ciascuna impresa unica può presentare domanda di contributo
anche se ha già beneficiato a qualsiasi titolo aiuti di
Stato concessi in regime «de minimis»; l'importo del
contributo al quale avrà diritto, qualsiasi sia l'ammontare
delle spese sostenute, sarà comunque commisurato al limite
stabilito dal regolamento 1407/2013 nell'arco di tre anni,
dunque:
- la differenza tra quanto già fruito nel triennio e 100.000
euro per le imprese esercenti il trasporto di merci su
strada per conto terzi;
- la differenza tra quanto già fruito nel triennio e 200.000
euro per tutte le altre imprese.
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Come presentare domanda telematica.
La procedura per la presentazione della domanda di
contributo è esclusivamente online, ossia avviene attraverso
la compilazione di un modulo e il caricamento di
informazioni e documenti mediante una piattaforma
informatica, accessibile all'indirizzo web:
www.minambienteamianto.ancitel.it
Per presentare la domanda l'azienda richiedente deve
eseguire i seguenti step procedurali:
- dalla pagina web www.minambienteamianto.ancitel.it,
l'impresa accede alla sezione «clicca qui per registrarti»
all'interno della quale è necessario compilare i campi
relativi alla sezione «dati anagrafici del richiedente»,
allegare documento di identità del dichiarante e
(eventualmente) il titolo di rappresentanza posseduto per
compilare la domanda per conto dell'impresa, dichiarare (con flag da apporre nel campo apposito) che i documenti allegati
sono copia conforme all'originale, compilare i campi
relativi alla sezione «dati dell'impresa», esprimere il
consenso in merito al trattamento dei dati personali, (con
due flag da apporre nei campi appositi) e terminare la
registrazione attraverso il pulsante «registrati».
- con lo username e la password rilasciati dal sistema al
termine della fase di registrazione, è possibile accedere
all'area riservata, suddivisa in cinque sezioni da compilare
in sequenza:
- «domanda all'interno della quale» vengono riepilogati i
dati identificativi dell'impresa, bisogna descrivere
brevemente l'intervento e deve essere resa una dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà in merito alla tipologia
dell'azienda richiedente, alle spese sostenute per
l'intervento di bonifica e alla posizione dell'azienda
riguardo agli aiuti di stato concessi a titolo di de minimis;
- «dichiarazioni» - nella quale vengono rese dichiarazioni
sostitutive di atto di notorietà sullo stato dell'impresa;
- «fatture» al cui interno vanno inseriti alcuni dati
identificativi dei documenti comprovanti le spese sostenute
a supporto della domanda di contributo, e allegate le
relative fatture commerciali quietanzate;
- «allegati» – nella quale è possibile scaricare i format da
utilizzare per le dichiarazioni da compilare, sottoscrivere
e caricare in piattaforma (obbligatori - allegati 1 e 2)
unitamente al piano di lavoro (obbligatorio) del progetto di
bonifica, alla comunicazione alla Asl (obbligatoria) di
avvenuta ultimazione dei lavori, alla certificazione
(eventuale) relativa all'amianto friabile e alla
certificazione Cccia (obbligatoria);
- «certifica e invio» che consente la verifica di
completezza dei contenuti della domanda prima della
conclusione della procedura, con l'invio formale.
Nella domanda, sottoscritta dal legale rappresentante
dell'impresa, dovrà essere specificato il costo complessivo
degli interventi, l'ammontare delle singole spese
eleggibili, l'ammontare del credito d'imposta richiesto e il
non usufruire di altre agevolazioni per le medesime voci di
spesa.
Il credito d'imposta è riconosciuto previa verifica, da
parte del Ministero dell'ambiente dell'ammissibilità in
ordine al rispetto dei requisiti previsti, secondo l'ordine
di presentazione delle domande e sino all'esaurimento del
limite di spesa complessivo pari a 17 milioni di euro
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO:
Distacchi ai morosi. Non a tutti. Servizio idrico
garantito per chi è in stato di disagio. Le principali
novità del Dpcm, pubblicato in G.U., con le linee guida per
l'Authority.
Vietato privare dell'acqua i soggetti che si trovano in
situazioni di difficoltà economico-sociale. Sono 50 i litri
giornalieri ai quali si ha comunque diritto anche se non si
è in regola con i pagamenti. In tutti gli altri casi di
morosità il distacco del servizio idrico sarà comunque
possibile soltanto superata una certa soglia di debito.
Sono queste le principali novità contenute nel decreto del
presidente del consiglio dei ministri del 29.08.2016,
pubblicato sulla G.U. n. 241 dello scorso 14.10.2016,
che tuttavia non sembrano essere direttamente applicabili
agli edifici condominali.
Il contenimento della morosità nel servizio idrico
integrato. Negli ultimi anni, anche a causa della grave
crisi economica, si è fatta sempre più pressante l'esigenza
di individuare una soluzione in grado di contemperare le
opposte esigenze delle imprese fornitrici del servizio
idrico, chiamate a fare i conti con continue e diffuse
situazioni di morosità, e degli utenti, spesso richiesti di
pagare in tempi stretti elevati importi a conguaglio o non
più in grado di rientrare da debiti pregressi.
Il più delle
volte la reazione dell'impresa fornitrice al mancato e
reiterato pagamento delle fatture è quella di interrompere
l'erogazione dell'acqua al soggetto moroso. Tuttavia questo
tipo di decisioni, per quanto legittime a livello del
singolo inadempimento contrattuale, vanno necessariamente
ripensate a livello collettivo e di sistema, perché possono
comportare una serie di importanti ripercussioni in tema di
tutela della salute e delle esigenze alimentari e
igienico-sanitarie, da un lato, di salvaguardia della
risorsa idrica e della necessità di copertura dei costi del
servizio a garanzia dell'equilibrio economico-finanziario
della gestione, dall'altro.
La questione è attualmente anche
in discussione al Senato, presso il quale pende l'esame di
uno specifico disegno di legge, e una prima soluzione è
stata anticipata con il Dpcm in esame, adottato su proposta
del ministro dell'ambiente, di concerto con il ministro
dello sviluppo economico.
Si è quindi in primo luogo deciso
di diversificare il trattamento delle situazioni di morosità
a seconda delle tipologie di utenza (domestiche
residenziali, seconde case, commerciali) e di salvaguardare
in ogni caso i soggetti che si trovino in condizioni
socio-economiche disagiate. Per questi ultimi, tenuto conto
di quanto indicato dall'Organizzazione mondiale della
sanità, si è quindi stabilito un minimo vitale di fabbisogno
di acqua intangibile e pari a 50 litri al giorno per
persona.
Il ruolo dell'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il
sistema idrico. Il Dpcm del 29.08.2016 demanda
all'Autorità di settore il compito di provvedere a
disciplinare nel dettaglio la materia. In primo luogo
dovranno essere individuate le «condizioni di documentato
stato di disagio economico-sociale» in base alle quali le
utenze domestiche residenti, anche se morose, dovranno
vedersi garantito il fabbisogno minimo giornaliero di acqua
del quale si diceva (in un recente intervento pubblico il
ministro dell'ambiente, Gianluca Galletti, ha fatto espresso
riferimento all'indicatore Isee), nonché le attività di
servizio pubblico le cui utenze non potranno in nessun caso
essere disalimentate.
Al di fuori dei casi di disagio
economico-sociale, per le utenze domestiche residenziali
morose si potrà però procedere al distacco solo
successivamente al mancato pagamento di fatture che siano
complessivamente superiori a un importo pari al
corrispettivo annuo dovuto in relazione al volume della
fascia agevolata, che sarà presto determinato
dall'Authority. Per tutte le utenze morose, inoltre, la disalimentazione potrà essere avviata solo in seguito alla
regolare messa in mora del debitore e all'escussione del
deposito cauzionale, ove versato, nei casi nei quali lo
stesso non consenta la copertura integrale del debito.
L'Autorità di settore, al fine di contenere il fenomeno
della morosità, dovrà quindi individuare apposite condizioni
che le imprese del settore dovranno recepire nella propria
contrattualistica volte, in generale, ad aumentare la
trasparenza e la correttezza nei rapporti con l'utenza e, in
particolare, a stabilire modalità e tempistiche di lettura
dei contatori, periodicità di fatturazione, procedure di
pagamento con possibile definizione di piani di
rateizzazione, modalità di gestione dei reclami e delle
controversie, individuazione delle procedure di messa in
mora dell'utente, di recupero del credito, di
disalimentazione delle utenze e riattivazione delle stesse
in caso di successivo pagamento.
---------------
Ma in condominio la strada è in salita.
Parallelamente a quanto avviene nei rapporti tra fornitore e
utente, anche in condominio è possibile procedere al
distacco del servizio idrico nei confronti dei condomini in
mora nel pagamento delle spese comuni. Infatti uno dei
deterrenti individuati dal novellato art. 63 disp. att. c.c.
per combattere la morosità condominiale è proprio la
possibilità di escludere il comproprietario non in regola
con i pagamenti per oltre un semestre dall'utilizzazione dei
beni e dei servizi comuni suscettibili di godimento
separato.
A conti fatti, il distacco del condomino moroso
dai servizi comuni, in particolar modo per acqua e
riscaldamento, risulta però essere una strada poco
praticabile. E questo sia per motivi tecnici (per procedere
in tal senso occorre, infatti, poter agire sulle parti
comuni, poiché altrimenti occorre acquisire una previa
autorizzazione giudiziale a entrare con la forza nella
proprietà esclusiva del condomino e provvedere a sigillare
la derivazione dell'impianto comune) che giuridici (poiché
si rischia di intaccare un diritto di rilevanza
costituzionale come quello alla salute per tutelare un
diritto di contenuto meramente patrimoniale, in molti casi
capita che il giudice investito della questione blocchi
l'iniziativa del condominio o indichi delle particolari
modalità di esecuzione in grado di contemperare gli opposti
interessi).
La novità dell'individuazione di una soglia intangibile di
consumo di acqua per gli utenti morosi contenuta nel Dpcm
del 29.08.2016 non sembra però direttamente applicabile
al condominio, nel quale esiste un impianto comune dal quale
si diramano le tubazioni che raggiungono le singole
proprietà private, con le conseguenti difficoltà sia di
intervenire sulla singola diramazione per interrompere e/o
contingentare il flusso di acqua sia di ottenere dal
fornitore del servizio idrico l'applicazione dell'esimente
della situazione di disagio economico-sociale, per sua
natura relativa soltanto ad alcuni dei comproprietari che
compongono la compagine condominiale. Per converso, le
ricadute pratiche del suddetto principio potrebbero rendere
ancora più difficile il contrasto alla morosità
condominiale.
Se, infatti, per l'amministratore sarà
comunque difficile, in caso di difficoltà di pagamento delle
fatture per il consumo dell'acqua, ottenere dall'impresa
fornitrice l'erogazione di un quantitativo minimo, risulterà
invece probabilmente più facile per i condomini morosi
ottenere tutela in giudizio per evitare il distacco della
propria utenza dal servizio idrico condominiale ai sensi del
citato art. 63 disp. att. c.c.
Il nuovo riferimento
normativo del diritto ai 50 litri giornalieri sembra infatti
suonare come conferma indiretta di quella giurisprudenza che
garantisce la prevalenza al diritto alla salute del
condomino moroso sui diritti patrimoniali dei condomini in
regola con i pagamenti e potrebbe essere utilizzato in
giudizio come parametro di riferimento analogico per vietare
i distacchi oppure per autorizzarli, ove tecnicamente
possibile, garantendo l'erogazione alla singola utenza
morosa del predetto quantitativo minimo di acqua
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Province,
non c'è posto per tutti. Sono 476 i dipendenti
sovrannumerari da ricollocare.
Comuni e regioni possono riaprire le procedure di mobilità
ma va completato l'ultimo tassello.
Sono ancora 476 i dipendenti sovrannumerari delle province
da ricollocare, poco meno del 10% del personale
complessivamente piazzato presso altre amministrazioni, a
conclusione del laboriosissimo processo avviato dalla legge
190/2014. Per questo motivo, in quasi tutte le regioni, ai
sensi dell'articolo 16 del dl 113/2016, convertito in legge
160/2016, è possibile per comuni ed enti territoriali
ripartire con le procedure di mobilità, nei territori ove
sia stato ricollocato almeno il 90% dei sovrannumerari.
Tuttavia, la questione della ricollocazione dei dipendenti
provinciali, così come anche lo sblocco definitivo delle
assunzioni, è ancora lontana dalla sua soluzione definitiva.
Infatti, occorre adesso avviare una seconda fase del sistema
di ricollocazione del portale mobilita.gov.it, per fare sì
che le amministrazioni refrattarie assorbano i dipendenti.
Il numero di 476 ancora in attesa di ricollocazione può
apparire basso rispetto al volume molto più grande (quasi 20
mila) di potenziali in esubero. Occorre tuttavia precisare
che a questi occorre aggiungere i poco meno di 6 mila
dipendenti addetti ai servizi per il lavoro, ancora in
attesa di una ricollocazione definitiva.
Come è noto, questi ultimi dipendenti non sono stati inclusi
negli elenchi del personale da destinare in mobilità forzata
col portale mobilita.gov.it, nelle more di un loro futuro
lavorativo presso l'Anpal, agenzia nazionale per le
politiche attive del lavoro. Tuttavia, l'assorbimento dei
circa 6 mila dipendenti presso l'Anpal appare ancora
lontanissimo dal verificarsi e il 31/12/2016 scadono le
convenzioni tra Ministero del lavoro e regioni, che hanno
consentito di alleviare le province dal costo di questo
personale, ripartito per 2/3 sullo Stato e il restante terzo
alle regioni. Dunque, dall'1/1/2017 non si sa chi finanzierà
gli stipendi degli addetti ai servizi per il lavoro, né chi
sia il loro datore, posto che per il trasferimento all'Anpal
occorreranno mesi, se non anni.
Infatti, molti dei 6 mila
stanno partecipando alle procedure di mobilità volontaria
attivate dai comuni delle regioni nelle quali sono già state
sbloccate: ma, non è chiaro se le province possano
consentire dette mobilità, posto che questi dipendenti
paiono essere comunque soggetti ad un vincolo: la
destinazione comunque a servizi per il lavoro. Le procedure
di mobilità volontaria attivate dagli enti locali quindi si
intasano e complicano.
Peraltro, se i 476 dipendenti provinciali non ricollocati
non vengano urgentemente piazzati in altre amministrazioni,
anche lo sblocco delle mobilità volontarie subirà uno stop.
Infatti, i 476 andranno in disponibilità a marzo 2017 e da
quel momento avranno diritto ad essere ricollocati con
priorità su qualsiasi procedura di mobilità volontaria o di
concorso
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A rischio i resti assunzionali del 2012.
I resti assunzionali dell'anno 2012 vanno persi, se non si
giunge all'assunzione dei dipendenti entro il 2016.
L'articolo 3, coma 5-bis, del dl 90/2014, convertito in
legge 114/2014, come modificato lo scorso anno dal dl
78/2015, consente di utilizzare i residui ancora disponibili
delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite
al triennio precedente.
Nel 2016, poiché è possibile
utilizzare pienamente le facoltà assunzionali del 2015,
l'ultimo triennio da considerare è quello che va dal 2012 al
2014. C'è, però, da tenere ben presenti le regole
finanziarie derivanti da due fattori. Il primo è la natura
scorrevole del triennio, che di anno in anno perde
l'annualità più antica (pertanto, nel 2017 il triennio sarà
il 2013-2015). Il secondo è costituito dalle nuove regole
contabili, dalle quali deriva l'eliminazione dei residui
passivi. La combinazione di questi fattori determina
l'impossibilità di utilizzare la quota residua delle facoltà
assunzionali del 2012, se entro l'anno 2016 non si sia in
grado di impegnare la spesa.
Non basta approvare il bando di gara per poter consolidare
le facoltà assunzionali residue del 2012. Applicando i
principi contabili, si deve necessariamente giungere
all'impegno definitivo della spesa, possibile solo laddove
si formi il titolo giuridico.
Nel caso di specie, trattandosi di procedure di
reclutamento, il titolo giuridico non può che essere la
stipulazione del contratto di lavoro: solo se si giunga a
detta stipulazione entro il 31/12/2016 le risorse del 2012
possono essere portate a giustificazione dell'assunzione.
Per meglio chiarire, occorre un esempio.
Ponendo che
un'assunzione a tempo pieno costi 30 mila euro l'anno,
immaginiamo che un ente abbia facoltà assunzionali di 5 mila
euro nel 2012, altri 5 mila nel 2013, 10 mila nel 2014 e 10
mila nel 2015, senza previsione di alcuna cessazione per il
2016. Cumulando queste facoltà, potrebbe giungere ad
assumere un'unità di personale intera, del costo appunto di
30 mila euro. Ma, se non si stipula il contratto di lavoro
entro il 31/12/2016, e dunque l'obbligazione non si
perfeziona, la prenotazione di impegno (che non si trasforma
in residuo) perde la copertura (solo virtuale) giuridica
della possibilità di utilizzare i 5 mila euro di facoltà
assunzionali del 2012.
Nell'esempio fatto, allora, se la
stipulazione del contratto interviene nel 2017, non sarebbe
possibile l'assunzione dell'unità di personale a tempo
pieno, ma solo a tempo parziale. Sta di fatto che l'articolo
3, comma 5, del dl 90/2014 non costituisce per gli enti una
fonte di entrata, ma autorizza ad effettuare la spesa per
assunzioni entro determinati limiti; le regole della
contabilità armonizzata non contengono alcuna specifica
indicazione su come gestire queste autorizzazioni basate sul
triennio scorrevole. Dovendo, quindi, applicare le
previsioni del principio contabile 4/2, punto 5.1, le
conseguenze sono la perdita della possibilità di utilizzare
l'autorizzazione alla spesa della quota di risorse assunzionali dell'anno più tardo del triennio.
Ciò ha
conseguenze non da poco proprio sul 2016, anno nel quale gli
enti locali di Lombardia e Toscana hanno avuto lo sblocco
delle assunzioni a seguito della ricollocazione dei
soprannumerari delle province solo a partire da ottobre.
Dovendo, per le assunzioni da concorso, prima esaurire le
procedure della mobilità obbligatoria prevista dall'articolo
34-bis de dlgs 165/2001, e poi quella della mobilità
volontaria regolata dall'articolo 30 sempre del dlgs
165/2001, nonché attivare l'iter concorsuale, è estremamente
difficile che possano riuscire ad assumere e dunque
stipulare il contratto di lavoro col vincitore del concorso,
avvalendosi della facoltà assunzionale riferita al 2012
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Durc,
estesi i controlli delle casse edili.
Regolarità contributiva estesa alle casse edili anche per le
imprese non edili se applicano il Ccnl dell'edilizia.
A stabilirlo è il decreto 23.02.2016 pubblicato sulla
G.U. n. 245/2016 che, inoltre, semplifica la regolarità
contributiva nei casi di fallimento, di liquidazione coatta
amministrativa con esercizio provvisorio e di
amministrazione straordinaria.
Imprese non edili.
Il provvedimento, a firma del ministero
del lavoro e di quello dell'economia, modifica il decreto 30.01.2015 che disciplina il documento unico di regolarità
contributiva, Durc, con due novità. Con il Durc, si ricorda,
viene attestato che un'impresa è regolare ai fini Inps
(contributi) e Inail (premi assicurativi), nonché
esclusivamente nel caso di imprese edili anche ai fini delle
contribuzioni dovute alle casse edili.
In primo luogo, come accennato, la verifica della regolarità
contributiva, finora svolta solo ai fini Inps e Inail nel
caso di imprese non appartenenti al settore dell'edilizia,
viene estesa anche alle casse edili nell'ipotesi in cui le
predette imprese (non appartenenti all'edilizia) applicano
il contratto collettivo nazionale edile.
In particolare, la
norma stabilisce che l'estensione della verifica vale «ai
soli fini Durc, per le imprese che applicano il relativo
contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle
organizzazioni, per ciascuna parte, comparativamente più
rappresentative».
Imprese in crisi.
La seconda novità stabilisce che, in caso
di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa con
esercizio provvisorio (artt. 104 e 206 del regio decreto n.
267/1942), l'impresa si considera regolare con riferimento
agli obblighi contributivi nei confronti dell'Inps,
dell'Inail e delle casse edili che siano scaduti
anteriormente alla data di autorizzazione all'esercizio
provvisorio.
Parimenti in caso di amministrazione
straordinaria (di cui al dlgs n. 270/1999 e alla legge n.
39/2004) e sempre con riferimento ai debiti contributivi
dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili scaduti
anteriormente alla data del decreto che fissa l'apertura
della procedura
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Turnover,
limiti a maglie larghe. Extra budget il riassorbimento degli
esuberi provinciali. La tesi di palazzo Vidoni nella nota
che ripristina le assunzioni in Lombardia e Toscana.
Limiti al turnover a maglie più larghe per comuni e regioni.
Secondo la Funzione pubblica, infatti, il riassorbimento dei
lavoratori in esubero delle province può essere conteggiato
«extra budget».
L'apertura si legge fra le righe della
nota 10.10.2016 n. 51991 di prot. che ha ripristinato le
ordinarie facoltà assunzionali nelle regioni Lombardia e
Toscana. Al riguardo, essa contiene l'importante novità di
non considerare più indisponibili tutti i posti inseriti nel
portale. L'indisponibilità viene giustamente circoscritta al
caso in cui all'ente sia stato assegnato personale in
mobilità.
La previsione consente effettivamente di riavviare la
politica assunzionale che, anche dopo lo liberatoria, di
fatto restava impedita dall'impossibilità di coprire i posti
indisponibili. Il blocco coinvolgeva anche le mobilità tra
enti soggetti a limitazioni delle assunzioni che,
finanziariamente neutre, non «consumano» il budget e sono
ammesse anche in assenza di capacità assunzionale
(ovviamente nei limiti delle vacanze di organico).
La nota sembra contenere, però, anche un'ulteriore
importante apertura che, se confermata, potrebbe costituire
un aiuto decisivo per i tanti enti che non dispongono di
capacità assunzionale sufficiente rispetto al fabbisogno
reale. Secondo la Funzione pubblica infatti, in caso di
assegnazioni «le risorse disponibili devono essere calcolate
anche tenendo conto dalla normativa prevista per finanziare
le assunzioni di detto personale».
Il riferimento è all'art. 1, comma 424, della legge di
stabilità 2014 (legge 190/2013) che permette di assumere il
personale in esubero degli enti di area vasta, oltre
l'ordinaria capacità assunzionale, fino al 100% del
risparmio prodotto dalle cessazioni intervenute nell'anno
precedente. La formulazione utilizzata sembra consentire
agli enti di computare le mobilità del personale in esubero
sulla quota di budget «aggiuntivo» del comma 424, dunque
oltre il budget assunzionale ordinario che rimarrebbe
interamente disponibile per ulteriori assunzioni. Questa
facoltà dovrebbe essere riconosciuta quantomeno nel caso in
cui l'ente utilizzi per intero il proprio budget
destinandolo nella programmazione annuale/triennale ad
assunzioni ordinarie.
Così, per esempio, nel 2016 l'ente potrebbe destinare il
budget del 25% (75% per gli enti con meno di 10.000 abitanti
con rapporto basso dipendenti/popolazione) interamente a
nuove assunzioni, computando le assegnazioni di personale in
esubero nel rimanente 75% (o 25%).
L'apertura dunque avrebbe grande importanza, specialmente
alla luce delle percentuali di turnover attualmente
previste, tanto più che secondo il citato comma 424 le
mobilità obbligatorie non si computano ai fini del rispetto
del tetto massimo alla spesa di personale (art. 1, commi 557
e 562, legge di stabilità 2007)
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2016). |
APPALTI: Nuovo
codice, attuazione lumaca. In sei mesi varati solo 5
provvedimenti sui 53 previsti. Le stazioni appaltanti
procedono con norme transitorie. In arrivo il correttivo
della riforma.
A sei mesi dall'entrata in vigore del codice dei contratti
pubblici sono stati varati tre decreti e due linee guida
Anac sul totale di 53 provvedimenti previsti nel nuovo
codice tra decreti ministeriali, interministeriali, della
presidenza del consiglio dei ministri e linee guida
dell'Anticorruzione (Anac).
È questo il bilancio, un po' scarno, della complessa opera
di attuazione del codice dei contratti pubblici, di cui
peraltro si dovrà predisporre il primo correttivo entro
aprile 2017 o prima (fine dicembre), come da alcuni
auspicato.
Per quel che riguarda le linee guida Anac, di cui l'Autorità
avviò subito dopo il 19 aprile sette consultazioni
pubbliche, ad oggi possiamo contare su due documenti già
definitivi e pubblicati in Gazzetta Ufficiale: quello sui
servizi di ingegneria e architettura (n. 1/2016) e quello
sull'applicazione del criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa (2/2016).
Sono in dirittura di arrivo, nei prossimi giorni, due altre
importantissime linee guida sulle quali Consiglio di Stato e
commissioni parlamentari già si sono espressi: quella sui
Rup (in cui si affronta la delicata questione della
qualifica di project manager) e quella sull'albo del
commissari di gara e sulla scelta degli stessi, attuativa
dell'articolo 77 che fa obbligo di ricorso a commissari
esterni per gli appalti sopra soglia Ue (mentre esiste la
facoltà di istituire una commissione esterna per gli appalti
sotto soglia e per tutti quelli che non presentano
particolare complessità).
A breve, quindi, sarebbero quattro su sette le linee guida
adottate dopo la consultazione di aprile (forse anche cinque
se uscirà la linea guida sul sotto soglia); mancherebbero
ancora all'appello quella sul partenariato pubblico-privato,
quella sulle procedure negoziate per beni infingibili. Per
quella sul rating di impresa si sta reimpostando un lavoro
delicato e complesso a causa delle interrelazioni con la
disciplina del rating di legalità.
C'è poi il fronte ministeriale: ad oggi sono usciti in
Gazzetta i decreti sui parametri di riferimento per il
calcolo dei corrispettivi di progettazione (dm 17.06.2016), il dpcm istitutivo della cabina di regia e i decreti
sui criteri minimi ambientali.
Mancano ancora all'appello (fra quelli che dovevano
teoricamente uscire entro il 19 ottobre o entro metà luglio)
nove decreti ministeriali sui dieci previsti (fra cui quelli
sulla programmazione, sui requisiti dei progettisti, sul Bim
(Building information modelling), sulla opere del ministero
della difesa, sul direttore dei lavori e sul direttore
dell'esecuzione, sulla pubblicità dei bandi di gara.
Sono tre quelli non usciti che fanno capo alla presidenza
del consiglio, che ha fatto uscire in Gazzetta il decreto
sulla cabina di regia, e uno quello di competenza
dell'Agenzia Italia digitale.
Va precisato che molti provvedimenti sono stati però avviati
al Consiglio di stato da parte del ministero delle
infrastrutture e in alcuni casi è stata data riposta anche a
richieste di supplementi di istruttoria (ad esempio il
decreto sui lavori prevalenti (attuativo dell'articolo 89,
comma 11).
Per adesso, quindi, il percorso di attuazione che poggia su
tanti provvedimenti, va avanti piano e in sede operativa le
stazioni appaltanti e i soggetti privati vanno avanti con la
disciplina transitoria, che fa salve diverse norme del dpr
207/2010 in attesa del varo dei provvedimenti attuativi.
Tutto ciò sullo sfondo dell'imminente primo correttivo del
codice (fine dicembre, come qualcuno vorrebbe, o aprile
2017) sul quale le commissioni parlamentari hanno sentito
operatori economici e amministrazioni, arrivando ad una
prima lista di possibili interventi richiesti che si dovrà
vedere se sarà possibile inserire in strumenti di urgenza
come i decreti-legge (visto che il codice si basa su una
delega attuativa anche delle direttive europee)
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2016). |
APPALTI: Appalti,
l'Anac fa da paciere. L'Authority ha ruolo precontenzioso.
Decisioni impugnabili. La
concentrazione di troppi poteri in un solo soggetto può
creare problemi di coordinamento.
Il nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs 18.04.2016 n.
50) ha ridefinito la funzione «precontenziosa» dell'Anac,
volta alla composizione e alla prevenzione delle
controversie in materia di procedure di affidamento dei
contratti pubblici.
L'art. 211 disciplina due distinti procedimenti,
genericamente qualificati come «precontenziosi»,
rimessi alla competenza dell'Autorità.
La stessa disposizione stabilisce la proponibilità del
ricorso giurisdizionale avverso le determinazioni conclusive
del precontenzioso (i pareri e le «raccomandazioni»
vincolanti dell'Autorità), con ciò riconoscendo la loro
natura provvedimentale.
Il riconoscimento esplicito dell'impugnabilità delle
decisioni dell'Anac smentisce la tesi sulla alternatività
alla tutela giurisdizionale dei rimedi previsti dall'art.
211.
La disciplina di cui all'art. 211 fonda la propria ratio
nell'impostazione di fondo dell'intero impianto del nuovo
codice, che attribuisce all'Anac ampi poteri di intervento e
di controllo nel sistema dei contratti pubblici. I poteri
paragiurisdizionali dell'Anac, però, non risultano privi di
controindicazioni e inducono a una riflessione sulla
complessiva «tenuta» del sistema:
I) la concentrazione di poteri normativi, sanzionatori,
amministrativi, contenziosi in un unico soggetto potrebbe
risultare inopportuna;
II) l'Autorità potrebbe essere caricata di un'ulteriore funzione,
che potrebbe spostare l'attenzione dal compito precipuo
della regolazione generale del settore.
In sintesi le principali novità possono così riassumersi:
a) è fissato il termine di 30 giorni dalla
richiesta per la pronuncia del parere precontenzioso;
b) è ridefinito il perimetro soggettivo
dell'efficacia vincolante del parere che «obbliga le
parti che vi abbiano preventivamente acconsentito»;
c) è prevista l'impugnabilità del parere
dinanzi al giudice amministrativo.
Il contenuto della norma può schematizzarsi in due ipotesi
distinte, considerate da altrettanti commi ed entrambe le
fattispecie prevedono uno specifico e puntale potere di
intervento dell'Anac, in riferimento a singole procedure «di
gara», allo scopo di verificarne la legittimità e di
porre rimedio ai vizi eventualmente rilevati ed accertati.
In entrambe le fattispecie è specificato che l'atto
dell'Autorità è comunque sottoposto al sindacato del giudice
amministrativo.
A) Nella prima fattispecie, la determinazione dell'Anac
consegue ad una richiesta di parte ed è finalizzata a
definire una possibile controversia (o anche una lite già in
atto).
La possibile funzione di «filtro» è indiscutibile ed
è presumibile l'effetto deflativo del contenzioso che il
legislatore si era prefisso.
B) Nella seconda fattispecie, invece, la determinazione
dell'Anac non interviene necessariamente su richiesta di
parte, né è collegata ad una «controversia» o alla
esistenza di una «questione»; ma, in assenza di una
puntuale riserva di impulso di ufficio, è prevedibile che
l'intervento dell'Autorità, in riferimento a particolari
procedure, sarà originato dalle segnalazioni de soggetti
direttamente coinvolti nella vicenda.
La fattispecie del comma 2, pertanto, concerne il potere
officioso dell'Anac di rilevare le illegittimità compiute
dalle stazioni appaltanti nel corso delle attività di
affidamento dei contratti, attivando un inedito procedimento
di «autotutela doverosa», presidiato da una pesante
sanzione pecuniaria ricadente, direttamente, sul competente
dirigente responsabile della stazione appaltante.
Potrebbe configurarsi in tal caso una peculiare forma di «controllo
collaborativo» dell'Autorità, incentrato sul potere,
anche officioso, di adottare atti di «raccomandazione
vincolante», finalizzati al ripristino della legalità
violata, attraverso l'imposizione dell'esercizio doveroso di
una particolare forma di autotutela obbligatoria delle
stazioni appaltanti.
Il rapporto tra le due diverse ipotesi regolate dall'art.
211 non è stato ben delineato dalla disposizione: tale
carenza potrebbe originare un problema di coordinamento
sistematico, poiché il procedimento precontenzioso di cui al
comma 1, originato dalla iniziativa di una parte interessata
alla risoluzione o prevenzione di una controversia, potrebbe
trasformarsi, di fatto, in un'attività di controllo
officioso dell'Anac sulla correttezza e legittimità della
procedura (ai sensi del comma 2) (articolo
ItaliaOggi del 21.10.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Codice
appalti verso il tagliando. Allo studio il decreto
correttivo: l'ipotesi di approvarlo entro fine anno.
Contratti pubblici. A sei mesi dall’entrata in vigore del
Dlgs 50 varati 6 provvedimenti attuativi su 56.
Anticipare il primo
tagliando al codice appalti. È l’ipotesi che sta prendendo
forma inquesti giorni per rispondere da subito alle
criticità evidenziate nella prima fase di attuazione del
Dlgs 50/2016, che proprio oggi chiude i primi sei mesi di
operatività.
Le audizioni avviate dal Parlamento per testare l’impatto
delle nuove regole sul mercato hanno messo in luce alcune
emergenze che potrebbero spingere il Governo a intervenire
con le prime correzioni entro la fine dell’anno, senza
aspettare la scadenza (massima) del 19 aprile per esercitare
la delega (prevista dalla legge 11/2016) a correggere in
corsa il codice.
Ancora da sciogliere la forma che prenderanno queste
correzioni. Una prima idea sarebbe quella di lavorare da
subito al decreto correttivo, anticipandone il varo entro
fine anno. L’altra ipotesi -più concreta per una questione
di tempi, ma anche meno coerente con il percorso immaginato
finora- è quella di procedere con una serie di modifiche
spot (magari da inserire in uno dei decreti in conversione
oppure nella legge di Bilancio), lasciando al provvedimento
da varare entro aprile il compito di un ripensamento più
organico. Sulla decisione finale peserà anche il parere del
Parlamento che dovrebbe completare nel giro di un paio di
settimane la sua consultazione.
Qualche certezza in più c’è, invece, sul merito degli
interventi da anticipare alla prima occasione. In prima fila
c’è la marcia indietro sul periodo di riferimento utile per
la dimostrazione dei requisiti di qualificazione delle
imprese. Il nuovo codice dimezza da 10 a 5 anni la forbice
entro la quale pescare i lavori eseguiti di maggior valore.
Il rischio è quello di mandare fuori mercato migliaia di
imprese.
Di qui la scelta di ripristinare il bonus decennale. Un
altro intervento potrebbe arrivare sui criteri di
aggiudicazione delle gara, ritoccando al rialzo il tetto
massimo per l’assegnazione degli appalti al massimo ribasso
(ora fissato a un milione di euro), venendo incontro alle
reiterate richieste di enti locali e imprese. Si porta
dietro più dubbi (insieme alla contrarietà dell’Anac) la
possibilità di intervenire sulla disciplina del subappalto,
rivedendo le norme che lasciano alle stazioni appaltanti la
facoltà di decidere di volta in volta se ammettere o meno i
subaffidamenti e che obbligano i costruttori a indicare con
l’offerta una terna di imprese da chiamare per i subappalti.
A sei mesi dall’entrata in vigore, il nuovo codice è
peraltro ancora lontano dall’essere attuato per intero. Solo
sei sui 56 provvedimenti attuativi nascosti tra le pieghe
del 220 articoli del Dlgs 50 sono arrivati al traguardo
finale. Mentre sono già stati abbondantemente superati i
termini di approvazione di altri 17 provvedimenti (si sale a
21 se si considerano anche i 4 in scadenza oggi) che
avrebbero dovuto essere varati entro l’estate, in modo da
abbreviare al minimo indispensabile la fase di transizione
tra il vecchio e il nuovo sistema.
Tra i provvedimenti arrivati al traguardo, due sono linee
guida varate dall’Anac (offerta più vantaggiosa e incarichi
di progettazione). L’Authority è pronta a licenziare a breve
anche i “manuali” sul Rup e sui commissari di gara.
Al ministero delle Infrastrutture hanno cominciato a
lavorare prima dell’estate ai 23 provvedimenti attuativi che
il nuovo codice intesta a Porta Pia. Per ora il lavoro dei
tecnici ha fruttato la messa a punto di una decina di
provvedimenti. Tra questi, il decreto che disegna il nuovo
sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, appena
inviato a Palazzo Chigi.
A fine percorso anche il provvedimento con i nuovi livelli
di progettazione delle opere pubbliche, strategico per i
professionisti, oltre che per le Pa.Allo stesso modo, entro
fine anno dovrebbe arrivare anche il decreto sull’utilizzo
del Bim: darà un primo calendario alla sperimentazione delle
nuove tecnologie digitali nei cantieri del nostro paese
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Bonifica
amianto, agevolazioni a novembre.
Dal 16 novembre le imprese possono presentare al ministero
dell'ambiente attraverso l'apposita piattaforma elettronica
accessibile sul sito www.minambiente.it la domanda per il
riconoscimento del credito d'imposta per interventi di
bonifica dei beni e delle aree contenenti amianto. Le
risorse a disposizione ammontano a 17 milioni di euro.
Possono beneficiare del credito d'imposta i soggetti
titolari di reddito d'impresa, indipendentemente dalla
natura giuridica assunta, dalle dimensioni aziendali e dal
regime contabile adottato, che effettuano interventi di
bonifica dall'amianto, su beni e strutture produttive
ubicate nel territorio dello stato, dal 1° gennaio 2016 al
31 dicembre 2016.
È con il decreto del 15.06.2016 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 17.10.2016 n. 243) con il quale il ministero
dell'ambiente ha definito le modalità di presentazione delle
domande per usufruire del credito d'imposta per interventi
di bonifica dei beni e delle aree contenenti amianto.
Sono ammissibili al credito d'imposta gli interventi di
rimozione e smaltimento, anche previo trattamento in
impianti autorizzati, dell'amianto presente in coperture e
manufatti di beni e strutture produttive ubicati nel
territorio nazionale effettuati nel rispetto della normativa
ambientale e di sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono
ammesse, inoltre, le spese di consulenze professionali e
perizie tecniche nei limiti del 10% delle spese complessive
sostenute e comunque non oltre l'ammontare di 10.000 euro
per ciascun progetto di bonifica unitariamente considerato.
Sono considerate eleggibili le spese per la rimozione e lo
smaltimento, anche previo trattamento in impianti
autorizzati, di lastre di amianto piane o ondulate,
coperture in eternit, tubi, canalizzazioni e contenitori per
il trasporto e lo stoccaggio di fluidi, a uso civile e
industriale in amianto e sistemi di coibentazione
industriale in amianto.
Nella domanda, sottoscritta dal legale rappresentante
dell'impresa, dovrà essere specificato il costo complessivo
degli interventi, l'ammontare delle singole spese
eleggibili, l'ammontare del credito d'imposta richiesto e il
non usufruire di altre agevolazioni per le medesime voci di
spesa. Il credito d'imposta è riconosciuto previa verifica
del rispetto dei requisiti da parte del ministero
dell'ambiente, secondo l'ordine di presentazione delle
domande
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2016). |
APPALTI: Appalti,
anomalie da valutare in base a cinque offerte. Anac. Le
istruzioni sul criterio del prezzo minore.
La rilevazione delle
offerte anormalmente basse in caso di utilizzo del criterio
del minor prezzo deve essere sviluppata per alcune formule
con applicazione analogica di alcuni parametri e
l’esclusione automatica deve essere effettuata solo per gli
affidamenti di valore inferiore alla soglia comunitaria.
Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione ha
chiarito con un nuovo comunicato le modalità applicative
delle formule per la rilevazione delle offerte anomale nelle
gare aggiudicate al prezzo più basso, stabilite
dall’articolo 97 del Codice degli appalti, fornendo
importanti precisazioni che consentono alle stazioni
appaltanti di superare alcuni problemi emersi per carenze
normative.
Le amministrazioni aggiudicatrici, quando scelgono il prezzo
più basso, devono valutare la congruità delle offerte che
presentano un ribasso pari o superiore a una soglia di
anomalia determinata, per non rendere predeterminabili dai
candidati i parametri di riferimento per il calcolo della
soglia, procedendo al sorteggio, in sede di gara, di uno tra
i cinque criteri indicati nelle lettere da a) a e) del comma
2 dell’articolo 97. In relazione al metodo descritto nella
lettera a), l’Anac evidenzia che il mancato accantonamento
di un’offerta identica a quella presentata da altro
concorrente e accantonata per il calcolo della soglia di
anomalia non produce discriminazione tra gli operatori
economici ammessi alla gara.
L’applicazione della metodologia specificata nella lettera
b) è problematica in quanto la norma è priva
dell’indicazione della grandezza rispetto alla quale va
calcolato il valore del 10% da rapportare al metodo di
calcolo. L’Anac precisa che tenendo conto della formulazione
degli altri metodi di calcolo e, in particolare, di quelli
descritti alle lettere a) ed e), entrambi recanti la dizione
«con esclusione del 10%, arrotondato all’unità superiore,
rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle
di minor ribasso» la lacuna può essere colmata mediante
procedimento analogico, facendo riferimento a questa
formulazione.
Con riferimento al calcolo dei criteri delle lettere c) e d)
l’Autorità rileva che la soglia di anomalia calcolata sulla
base dei ribassi assoluti o dei ribassi percentuali conduce
ai medesimi risultati, per cui possono essere utilizzati
indifferentemente i due metodi.
Per tutte le metodologie (particolarmente per la prima e la
quinta) le indicazioni dell’Anac fanno rilevare come siano
necessarie almeno cinque offerte da confrontare per poter
calcolare la media e lo scarto medio delle offerte, per cui,
mancando una norma che lo preveda, è necessario che le
stazioni appaltanti indichino nella documentazione di gara
che si procederà alla determinazione della soglia di
anomalia mediante ricorso ai metodi dell’articolo 97, comma
2, del Codice solo in presenza di almeno 5 offerte ammesse.
L’Autorità chiarisce infine che la facoltà di avvalersi
dell’esclusione automatica delle offerte anomale (prevista
dal comma 8 dell’articolo 97) è prevista solo per gli
affidamenti di lavori, servizi e forniture, di importo
inferiore alle soglie comunitarie, quando il criterio di
aggiudicazione è quello del prezzo più basso e si abbiano
almeno dieci offerte: le stazioni appaltanti devono
precisare nel bando che non si procederà all’esclusione
automatica se il numero delle offerte ammesse è inferiore a
dieci (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi legge 104, niente stop durante l'iter di
revisione. Le istruzioni dell'Inps sulla novità sui congedi
ai dipendenti in caso di disabilità grave.
I lavoratori che hanno diritto ai permessi 104 (lavoratori
loro stessi disabili e/o lavoratori che prestano assistenza
a familiari in disabilità) possono fruirne anche durante il
periodo di attesa della visita medica di revisione dello
stato invalidante (stato che dà diritto ai permessi).
Anche se l'autorizzazione Inps scade, pertanto, i datori di
lavoro possono continuare a consentire la fruizione dei
permessi fino a conclusione dell'iter sanitario di
revisione, il cui esito decreterà la possibilità o meno di
continuare a fruire dei permessi. Durante il periodo
dell'attesa della revisione, inoltre, possono continuare a
portare a conguaglio le somme anticipate ai lavoratori (le
retribuzioni delle giornate di assenza).
La novità,
introdotta dalla legge n. 114/2014 con efficacia dal 19.08.2014, di fatto non era mai divenuta operativa: lo è
divenuta adesso con le istruzioni dell'Inps (circolare n.
127/2016).
Come funzionava nel passato.
Prima della legge n. 114/2014, il lavoratore, autorizzato
dall'Inps alla fruizione dei benefici correlati alla
disabilità grave accertata con un verbale soggetto a
revisione, non poteva continuare a fruirne nel periodo
compreso tra la data di scadenza del verbale e il
completamento dell'iter sanitario di revisione. Solo
all'esito del nuovo accertamento sanitario (sulla base del
nuovo verbale) poteva presentare una nuova domanda,
eventualmente l'esito fosse stato di conferma dello stato di
disabile grave.
La legge n. 114/2014, di conversione del dl
n. 90/2014 (art. 25, comma 6-bis), ha inserito una
semplificazione disponendo che: «Nelle more
dell'effettuazione delle eventuali visite di revisione e del
relativo iter di verifica, i minorati civili e le persone
con handicap in possesso di verbali in cui sia prevista
rivedibilità conservano tutti i diritti acquisiti in materia
di benefici, prestazioni e agevolazioni di qualsiasi natura.
La convocazione a visita, nei casi di verbali per i quali
sia prevista la rivedibilità, è di competenza dell'Istituto
nazionale della previdenza sociale (Inps)».
Per effetto di
questa norma, i lavoratori titolari dei permessi correlati
alla disabilità grave in base a verbali con revisione
prevista a partire dal 19.08.2014, giorno di entrata in
vigore della norma, possono continuare a fruire dei permessi
anche durante l'iter sanitario di revisione.
In tal caso, ha
precisato l'Inps, non è necessario presentare una nuova
domanda di autorizzazione per poter continuare a fruire dei
permessi retribuiti mensili dal lavoro nel periodo compreso
tra la data di scadenza del verbale rivedibile e il
completamento dell'iter sanitario di revisione. Invece, la
presentazione di una nuova domanda di autorizzazione è
necessaria al fine di poter fruire, nel predetto periodo
compreso tra la data di scadenza del verbale rivedibile e il
completamento dell'iter sanitario di revisione, degli altri
benefici, ossia:
a) prolungamento del congedo parentale o dei riposi orari in
alternativa al prolungamento del congedo parentale;
b) del congedo straordinario per assistenza a familiari.
Ne deriva, pertanto, che anche il datore di lavoro è
autorizzato ad anticipare le retribuzioni ai lavoratori
recuperando gli importi mediante conguaglio con i contributi
dovuti all'Inps. All'esito della convocazione a visita di
revisione del disabile, si potranno verificare le seguenti
circostanze che produrranno effetti diversi sui permessi in
godimento:
• conferma stato di disabilità in situazione di gravità del
lavoratore che fruisce dei benefici per se stesso;
• conferma stato di disabilità in situazione di gravità
della persona assistita dal familiare lavoratore;
• mancata conferma dello stato di disabilità in situazione
di gravità del lavoratore che fruisce dei benefici per se
stesso o della persona assistita dal familiare lavoratore.
Vediamo le singole fattispecie.
Verbale conferma stato di disabilità del lavoratore che
fruisce dei benefici.
Il lavoratore titolare dei permessi e il datore di lavoro
riceveranno dall'Inps una lettera di comunicazione in cui
vengono confermati gli effetti del provvedimento di
autorizzazione a suo tempo rilasciato sulla base del verbale
rivedibile. Ciò basta a garantire il proseguimento della
fruizione dei permessi, senza necessità da parte del
lavoratore disabile di fare una nuova domanda.
Nell'ipotesi
in cui anche l'esito del nuovo accertamento sia soggetto a
revisione, il provvedimento dell'Inps con la conferma dei
permessi avrà efficacia fino alla conclusione dell'iter
sanitario della prevista, ulteriore revisione. In ogni caso
resta fermo, per il lavoratore disabile, l'obbligo di:
a) comunicare tempestivamente all'Inps e al datore di lavoro
ogni variazione delle situazioni di fatto e di diritto
dichiarate nella domanda a suo tempo presentata;
b) presentare una nuova domanda di autorizzazione qualora
presti attività lavorativa alle dipendenze di un datore di
lavoro diverso da quello indicato nella domanda originaria,
oppure qualora sia variata la modalità di articolazione
della prestazione lavorativa (da full-time a part-time o
viceversa).
Verbale di conferma stato di disabilità della persona
assistita dal lavoratore.
Valgono le considerazioni del caso precedente: il lavoratore
titolare dei permessi, il familiare disabile assistito e il
datore di lavoro riceveranno dall'Inps una lettera di
comunicazione in cui vengono confermati gli effetti del
provvedimento di autorizzazione a suo tempo rilasciato sulla
base del verbale rivedibile. Nell'ipotesi in cui anche
l'esito del nuovo accertamento sia soggetto a revisione, il
provvedimento dell'Inps con la conferma dei permessi ha
efficacia fino alla conclusione dell'iter sanitario della
prevista, ulteriore revisione.
In ogni caso resta fermo, per
il lavoratore, l'obbligo di: comunicare tempestivamente
all'Inps e al datore di lavoro ogni variazione delle
situazioni di fatto e di diritto dichiarate nella domanda a
suo tempo presentata; di presentare una nuova domanda di
autorizzazione qualora presti attività lavorativa alle
dipendenze di un datore di lavoro diverso da quello indicato
nella domanda originaria, oppure qualora sia variata la
modalità di articolazione della prestazione lavorativa (da
full-time a part-time o viceversa) oppure qualora intenda
modificare il tipo di fruizione dei permessi (esempio:
prolungamento del congedo parentale invece di giorni di
permesso).
Verbale di mancata conferma stato di disabilità.
Nel caso in cui la visita di revisione si concluda con un
verbale di mancata conferma dello stato di disabilità grave,
il lavoratore, il disabile e il datore di lavoro riceveranno
dall'Inps una lettera in cui è comunicata la cessazione
degli effetti del provvedimento di autorizzazione, a suo
tempo rilasciato in base al verbale rivedibile, con
decorrenza dal giorno successivo alla data di definizione
del nuovo verbale. Da tale data in avanti, pertanto, il
lavoratore non ha più diritto a fruire dei permessi.
Congedo parentale e congedo straordinario.
In questi casi, è necessario presentare una nuova domanda di
autorizzazione per continuare a fruire dei benefici, dopo la
scadenza del verbale rivedibile e fino al completamento
dell'iter sanitario di revisione. Pertanto, allo scadere
della prima autorizzazione, il lavoratore formula una nuova
domanda all'Inps, chiedendo il riconoscimento (appunto) dei
benefici nell'attesa del completamento dell'iter di
revisione sanitaria.
L'Inps verifica la sussistenza dei
requisiti e invia al lavoratore e al suo datore di lavoro la
nuova lettera di autorizzazione che avrà efficacia fino alla
revisione. Nella lettera è precisato al lavoratore che,
nell'eventualità che la revisione non dovesse riconoscergli
la disabilità e/o la situazione di gravità (quindi il
disconoscimento del diritto ai benefici), egli sarà tenuto
alla restituzione delle prestazioni eventualmente erogate
dal giorno successivo alla data del nuovo verbale, come
peraltro verrà comunicato dallo stesso Inps con l'invio di
lettere di cessazione del diritto ai benefici al disabile,
al lavoratore e al suo datore di lavoro.
Nel frattempo, resta fermo l'obbligo a carico del lavoratore
di comunicare tempestivamente a Inps e datore di lavoro le
variazioni delle situazioni di fatto e di diritto dichiarate
nella domanda presentata.
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Assistenza anche ai conviventi.
I lavoratori che prestano cura a disabili, fruendo dei
permessi 104, hanno diritto ai permessi anche quando
l'assistenza è rivolta a un convivente disabile grave e non
più solo, come è stato finora, al coniuge e/o a parenti e
affini entro il secondo grado.
Lo stabilisce la sentenza
della Corte costituzionale n. 231/2016, dichiarando
l'illegittimità costituzionale dell'art. 33, comma 3, della
legge 104/1992 nella parte in cui non include il convivente
tra i soggetti legittimati a fruire dei permessi mensili per
l'assistenza a persone con handicap in situazione di
gravità.
Le tutele della «104». Con questo nome (la «104»),
generalmente, viene indicato un insieme di tutele previste
da una specifica legge, la n. 104 del 1992 (da cui il nome),
legati allo stato di disabilità grave (si veda tabella per
le definizioni). Tra l'altro, queste tutele sono destinate:
a) ai lavoratori dipendenti portatori di disabilità grave;
b) e ai lavoratori dipendenti che prestano assistenza ai
familiari portatori di disabilità grave.
I benefici di cui i predetti lavoratori possono fruire sono
questi:
• permessi retribuiti mensili dal lavoro (art. 33 della
legge n. 104/1992);
• prolungamento del congedo parentale (art. 33 del dlgs n.
151/2001) o, in alternativa, riposi orari o giornalieri
mensili (art. 33 della legge n. 104/1992);
• congedo straordinario per assistenza a familiari (art. 42
del dlgs n. 151/2001).
I permessi mensili retribuiti spettano ai lavoratori
dipendenti che siano portatori di handicap in situazione di
disabilità grave (in tabella le definizioni) ovvero a
coniugi, parenti o affini e (adesso) anche a conviventi more
uxorio, che prestano assistenza a soggetti disabili gravi.
Il congedo parentale, si ricorda, consiste nel diritto
all'astensione dal lavoro di ciascun genitore, per ogni
bambino nei primi dodici anni di vita, per una durata non
superiore a sei mesi se fruiti dalla madre, sette mesi se
fruiti dal padre, con il limite massimo di undici mesi
complessivamente per entrambi i genitori. In caso di figlio
disabile grave i genitori, lavoratori dipendenti, hanno
diritto, alternativamente tra loro (o il padre o la madre),
al prolungamento dell'astensione fino a che il bimbo non
copie i tre anni d'età a condizione che il bambino non
risulti ricoverato a tempo pieno presso istituti
specializzati. In alternativa, possono fruire di due ore di
permesso retribuito al giorno fino al compimento dei tre
anni di vita del bambino oppure a tre giorni di permesso
mensili anche frazionabili in ore.
Infine, il congedo straordinario per assistenza spetta alla
lavoratrice madre o, in alternativa, al lavoratore padre o,
dopo la loro scomparsa, a uno dei fratelli o sorelle
conviventi del soggetto con handicap grave, al fine di
prestare assistenza al figlio (ovvero al fratello). Il
periodo del congedo, continuativo o frazionato, non può
superare i due anni, durante i quali il richiedente ha
diritto a percepire un'indennità pari all'ultima
retribuzione. La durata massima di due anni va conteggiata
per ogni persona assistita, sommando i congedi fruiti da
entrambi i genitori in tutto l'intero arco della vita
lavorativa.
Serve un'autorizzazione Inps. Il diritto a fruire di tutti i
predetti permessi e congedi è subordinato a
un'autorizzazione da parte dell'Inps, la cui domanda può
essere presentata in presenza di determinati requisiti tra
cui il riconoscimento della disabilità dello stesso
lavoratore, ovvero della persona da assistere per la quale
si chiede il permesso, e la situazione di gravità della
disabilità.
Il riconoscimento (di disabilità e situazione di
gravità) è dato da una commissione ad hoc, previa
sottoposizione del soggetto disabile (il lavoratore stesso o
il familiare del lavoratore) a visita medica. Il
riconoscimento avviene mediante un c.d. «verbale di
accertamento della disabilità» che può avere durata
indefinita (cioè permanente) o definita, nel qual caso si
dice che la disabilità è «soggetta a revisione» mediante
successiva visita presso la commissione allo scadere della
validità del primo verbale.
La novità della Corte costituzionale. La norma di
riferimento è l'art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992 la
quale stabilisce che i permessi mensili retribuiti spettano
ai lavoratori dipendenti che siano portatori di handicap in
situazione di gravità (in tabella le definizioni) ovvero a
coniugi, parenti o affini entro il 1° grado che prestano
assistenza a un soggetto affetto da disabilità grave e fino
al 2° grado nei casi in cui i genitori o il coniuge (della
persona con handicap grave) abbiano più di 65 anni d'età
oppure siano deceduti o invalidi.
I permessi spettano per 2
ore al giorno ovvero per 3 giorni al mese (frazionabili in
ore). Come si vede, la norma non include il convivente more
uxorio (il convivente dopo la morte del coniuge, quindi dopo
lo scioglimento del matrimonio) tra i soggetti beneficiari
dei permessi e qui c'è stato l'intervento della Corte
costituzionale.
La vicenda trattava, in modo specifico, di una lavoratrice
dipendente di un'azienda sanitaria che aveva chiesto il
riconoscimento di questi permessi al fine di poter assistere
il proprio compagno affetto dal morbo di Parkinson. In un
primo momento la lavoratrice aveva avuto l'autorizzazione a
fruire delle ore di permesso, ma successivamente
l'autorizzazione gli era stata revocata con richiesta anche
della restituzione delle ore di permesso fruite. La vicenda
prende la piega giudiziaria (tribunale di Livorno) e finisce
sul tavolo della Corte costituzionale che, come detto, ha
riconosciuto il diritto di fruire dei permessi anche tra
conviventi con la sentenza n. 23 del 23 settembre.
Il
ragionamento seguito è questo: la legge n. 104/1992 intende
favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap in
situazione di gravità in ambito familiare e, quindi,
l'interesse primario è quello di assicurare la continuità di
cure e assistenza del disabile che si realizzino in ambito
familiare. Il permesso mensile retribuito è, dunque, in
rapporto di stretta e diretta correlazione con le finalità
perseguite dalla legge n. 104/1992, in particolare con
quelle di tutela della salute psicofisica della persona
portatrice di handicap.
Peraltro, la salute psicofisica del disabile è un diritto
fondamentale dell'individuo tutelato dall'art. 32 della
Costituzione; e il diritto alla salute psicofisica,
comprensivo della assistenza e della socializzazione, è
garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione
di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di
una «formazione sociale» e, tra le possibili «formazioni
sociali», c'è anche la «convivenza more uxorio».
Riunite queste considerazioni, la suprema Corte
costituzionale conclude per ritenere del tutto irragionevole
che nell'elencazione dei soggetti legittimati a fruire del
permesso mensile retribuito non sia incluso il convivente
della persona con handicap in situazione di gravità. Anche
perché, spiega la sentenza, è ormai principio consolidato
quello per cui la diversa considerazione che fa la
Costituzione della convivenza e del rapporto coniugale non
esclude la loro equiparazione rispetto a istituti specifici
in presenza di situazioni analoghe.
Nel caso dei permessi mensili, l'elemento unificante tra le
due situazioni è dato dall'esigenza di tutelare il diritto
alla salute psicofisica del disabile grave, collocabile tra
i diritti inviolabili dell'uomo. Altrimenti ci si verrebbe a
trovare di fronte a un'assurdità: la minore tutela del
disabile deriverebbe non dal fatto che non ci sono persone a
lui legate affettivamente, ma dal fatto che il rapporto
affettivo sia qualificato dal rapporto di parentela o di
coniugio
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.10.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
Consiglio di Stato: da cambiare la riforma della dirigenza
pubblica. Legge Madia. Il parere sul
decreto attuativo prefigura rischi di costituzionalità.
Costituzionalità, fattibilità e spesa.
Sono i tre carichi che il Consiglio di Stato mette nel suo
parere sulla riforma della dirigenza pubblica.
Il parere (Consiglio di Stato, Commissione speciale,
parere 14.10.2016 n. 2113), va chiarito, è «positivo»,
ma è accompagnato da una lunga serie di «condizioni
indefettibili» che vanno appunto al cuore delle tre
questioni elencate all’inizio.
Sulla costituzionalità, lo snodo è rappresentato dal
rapporto fra dirigenti pubblici e politica, e dall’esigenza
di assicurare ai primi un’autonomia che ai giudici
amministrativi sembra messa a rischio dall’impianto della
riforma. In gioco ci sono i principi di «imparzialità»
e «buon andamento» dell’amministrazione (articolo 97
Costituzione).
Per garantirli, argomentano i giudici amministrativi nelle
99 pagine del parere, il nuovo sistema del ruolo unico e
degli incarichi a tempo deve essere modificato in più di un
elemento strutturale. Prima di tutto, i criteri con cui le
amministrazioni sono chiamate a scegliere i loro dirigenti
devono essere «oggettivi e trasparenti», e per
realizzare questa condizione serve un «sistema efficace
di valutazione».
La sua è in effetti l’assenza più evidente nel decreto (Atto
del Governo n. 328 - Schema di decreto
legislativo recante disciplina della dirigenza della
Repubblica): il governo ha lavorato a un ricco insieme
di indicatori, ma nelle vorticose giornate agostane che
hanno portato al primo via libera al decreto si è deciso
in extremis di rimandare la questione al nuovo Testo
unico del pubblico impiego. Quest’altro capitolo cruciale
della riforma Madia è atteso al primo passaggio e non
arriverà in Gazzetta Ufficiale prima di luglio, per cui i
giudici amministrativi chiedono di regolare puntualmente la
fase transitoria, accompagnandola con un crono-programma
esplicito e una fase di sperimentazione.
A scaldare l’agosto del decreto, si ricorderà, è stata in
particolare la forte opposizione degli attuali dirigenti di
prima fascia, sfociata nella riserva di almeno il 30% delle
posizioni dirigenziali generali che saranno banditi dalle
loro amministrazioni. Sul punto, il parere suggerisce di
prevedere una riserva fissa, e di alzarla al 50% con una
scelta che in ogni caso impedirebbe alle amministrazioni di
dedicare agli uscenti una quota più alta (ipotesi possibile
nel testo attuale). L’altra soglia al centro delle polemiche
è quella che alza la parte accessoria almeno al 50% della
retribuzione complessiva, e che secondo il Consiglio di
Stato rischia di essere viziata da eccesso di delega.
Tornando alle garanzie, i giudici insistono sull’esigenza di
assicurare «una durata ragionevole dell’incarico»,
che altrimenti finisce per dipendere dalla discrezionalità
della politica. Tradotto in pratica, il parere suggerisce
che, se non c’è una valutazione negativa del dirigente, il
mancato rinnovo del suo incarico possa essere deciso solo
con un provvedimento motivato, da adottare al termine «di
un procedimento amministrativo che assicuri il rispetto
delle regole del contraddittorio».
Anche perché, in alternativa, è facile prevedere che il
meccanismo sia travolto da una valanga di ricorsi. Per la
chiusura anticipata dell’incarico, invece, dovrebbe servire
«il rigoroso accertamento della responsabilità
dirigenziale». Su questo delicato equilibrio di interessi
dovrebbe vigilare un «organismo di garanzia» che non può
essere individuato solo nella commissione nazionale chiamata
a gestire i ruoli unici.
La commissione nazionale, composta dai presidenti di Anac e
Crui oltre che dai segretari generali di Interno ed Esteri,
Ragioniere generale e due esperti indipendenti, è solo uno
degli aspetti che impattano sulla «fattibilità» della
riforma, a rischio secondo i giudici. Tra gli aspetti più
critici c’è l’obbligo di attuarla senza aumentare la spesa,
obiettivo che sembra irraggiungibile vista la complessità
dei meccanismi da mettere in moto (articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, ci vorrà un anno per il Testo unico.
Il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, fa il punto sulle
modifiche.
Massimo ribasso, maggiore trasparenza delle procedure sotto
soglia, revisione dei requisiti al fine di ottenere
l'attestazione Soa.
Sono questi gli ambiti in cui verranno
apportate correzioni al Codice appalti. Quelle correzioni
chieste a gran voce dai comuni che hanno più volte lamentato
come il nuovo Codice stia
ingessando le gare anziché rilanciarle.
L'attuazione del Dlgs 50/2016, che come
richiesto anche dal Consiglio di stato
avverrà con un Testo unico, richiederà
tuttavia molto tempo. «Più di un anno»,
ha detto il presidente dell'Autorità anticorruzione,
Raffaele Cantone, intervenuto
all'assemblea Anci di Bari, «anche
perché i termini previsti dal codice non
sono perentori, quindi non c'è un problema
di eventuali proroghe. Il sistema
consente di tenere in vita le norme del
vecchio regolamento fino a quando non
ci saranno le linee guida, in modo che
nulla sia bloccato».
Secondo Cantone le correzioni al Codice
riguarderanno «aspetti tutto sommato
marginali in un provvedimento che è
stato solo per minima parte attuato perché
non sono ancora partite le commissioni
di gara estratte a sorte, non sono
partite le stazioni appaltanti qualificate,
non è ancora partito il rating di impresa». I tempi per l'attuazione saranno
lunghi perché, ha spiegato Cantone, le
linee guida hanno bisogno di tempo se
si vuole che siano realmente concertate.
«Su questo punto c'è un equivoco di fondo,
prima ci si dice che è fondamentale
che le linee guida nascano dal confronto,
poi ci si accusa di perdere tempo, ma
il confronto che stiamo portando avanti
con gli operatori è un confronto reale. Ne
abbiamo licenziate due, altre le stiamo
licenziando, su alcune abbiamo manifestato
perplessità evidenti. Per esempio
sul rating di impresa abbiamo registrato
una quantità enorme di problemi che
non ci consentono di licenziare in tempi
rapidi le linee guida».
Sulle semplificazioni procedurali, soprattutto
in materia di centrali uniche
di committenza, richieste in particolare
dai piccoli comuni, il presidente
dell'Anac ha aperto a possibili modifiche
a patto però che «non venga messa in discussione
la filosofia di fondo del codice».
«Così come noi chiediamo ai privati di
essere qualificati per poter partecipare
ai lavori dobbiamo chiedere anche alle
stazioni appaltanti di esserlo. L'idea del
vecchio codice in cui tutti facevano tutto
è un'idea che non può andare avanti», ha
detto Cantone. «Ciononostante c'è sicuramente
una parte di attività che deve
essere gestita dai territori viciniori e in
questo sì che vi può essere uno spazio per introdurre
semplificazioni»
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti, associazionismo libero. Bacini omogenei per gestire
insieme le funzioni.
ASSEMBLEA ANCI/ Matteo Ricci (sindaco di Pesaro) fa il punto
sulla riforma in cantiere.
L’associazionismo comunale cambia pelle. Verranno creati
bacini omogenei che aggregheranno i piccoli comuni in unioni
sulla base di criteri socioeconomici e geomorfologici, ma
non più sulla base della popolazione. Saranno i sindaci a
decidere con chi associarsi sulla base delle scelte che
verranno
espresse nelle assemblee
provinciali.
I bacini omogenei non
coincideranno necessariamente
con gli enti di area
vasta, ma avranno una
dimensione più ridotta.
In montagna invece coincideranno
con gli ambiti
territoriali delle comunità
montane.
Nelle nuove aggregazioni
i piccoli comuni dovranno
mettere insieme almeno
tre funzioni fondamentali,
ma se decideranno di associarne
un numero maggiore
saranno premiati con
incentivi. La scelta su quali
competenze gestire in forma
associata dovrebbe spettare
agli enti, ma il condizionale
è d'obbligo perché sul punto
il governo, con il sottosegretario
Gianclaudio Bressa, la
pensa diversamente.
Gli affari regionali vorrebbero
infatti che non venisse
lasciata ai municipi la
decisione sulle tre funzioni
da mettere insieme.
L'assemblea Anci di Bari
ha rappresentato l'occasione
per fare il punto sulla
nuova legge di riforma a
cui Anci e governo stanno
lavorando da tempo.
Il dossier è stato seguito
dal sindaco di Pesaro, Matteo
Ricci, neoresponsabile
enti locali del Pd.
L'obiettivo è fare presto
anche se sarà difficile perché
il referendum costituzionale
del 4 dicembre e la
sessione di bilancio sono
destinati a monopolizzare
l'agenda politica dei prossimi
mesi.
«La nostra proposta, che
per ora è l'unica proposta
in campo sull'associazionismo
comunale, ha ricevuto
il consenso unanime
del ministero dell'interno,
degli affari regionali, del
ministro per le riforme
Maria Elena Boschi, delle
commissioni parlamentari,
ma poi ha subìto una frenata,
un po' per il referendum
è un po' anche per le nostre
vicende interne che ci hanno
portato a eleggere oggi
il nostro nuovo presidente
(la mancata rielezione di
Piero Fassino a sindaco di
Torino è stata un fulmine
a ciel sereno per l'Associazione
ndr)», ha ammesso
Ricci.
«Ora bisogna riprendere
rapidamente la marcia
anche perché la proroga
dell'associazionismo forzoso
delle funzioni scade
il 31 dicembre e se per
quella data la materia non
sarà stata oggetto di riordino
con una legge servirà
un'altra proroga».
Ricci rispedisce al mittente
le critiche di chi osserva
che con i nuovi bacini omogenei
si correrà il rischio di
realizzare un nuovo centralismo
provinciale, proprio in
un momento in cui le province
sono avviate verso il
viale del tramonto.
«Non si corre questo rischio,
semmai il pericolo
è che si venga a creare un
nuovo centralismo regionale.
E l'unica ricetta per
scongiurarlo, nel momento
in cui le province vengono
svuotate di poteri, è proprio
quello di rafforzare i comuni,
cosa che la proposta
dell'Anci realizza appieno».
Certo, nelle assemblee provinciali
che decideranno le
sorti dei territori i comuni
avranno peso diverso per
effetto del voto ponderato,
ma anche su questo punto
secondo Ricci si possono trovare
delle modifiche.
«Non abbiamo deciso una
volta per tutte i meccanismi
elettorali, li affineremo in
corso d'opera».
Sulle fusioni, nell'occhio
del ciclone dopo la proposta
di legge Lodolini sull'accorpamento
forzoso dei comuni
sotto i 5 mila abitanti (subito
però sconfessata dai
vertici del Pd), Ricci è stato
chiaro: le fusioni devono essere
volontarie, non imposte,
perché non ha senso mettere
insieme enti che non vogliono
coesistere.
Sulla stessa lunghezza
d'onda, Dimitri Tasso, coordinatore
nazionale Anci
unioni di comuni che mette
in guardia dai facili entusiasmi
in materia di fusioni.
«Fondendo i comuni non
si risolvono i loro problemi,
perché la somma di
due debolezze è anch'essa
una debolezza. È impossibile
associare chi non vuole
stare insieme».
Per Tasso la
strada di una legge unica
nazionale per disciplinare
l'associazionismo è quella
giusta perché altrimenti si
lascerebbe il campo alle regioni
che già stanno andando
in ordine sparso, «alcune
con regole molto avanzate,
altre con norme abbastanza
discutibili»
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Ricostruzione, l'elenco di Errani. Incarichi solo a
professionisti qualificati in regola col Durc.
Norme per gli affidamenti pubblici e privati contenute nel
decreto legge sul sisma del 24 agosto.
Prevista la qualificazione dei professionisti che
interverranno nell'area del sisma di agosto con un elenco ad
hoc istituito da Vasco Errani, accessibile soltanto a chi
avrà il Durc regolare; servirà per l'affidamento di
incarichi pubblici e privati. Previsto un tetto
all'acquisizione degli incarichi
e l'incompatibilità per i
direttori dei lavori che abbiano
rapporti con le imprese esecutrici;
white list per le imprese
esecutrici sia per appalti privati
che per appalti pubblici.
Sono questi alcuni dei punti
più rilevanti del decreto legge
approvato dal consiglio dei
ministri martedì scorso che
contiene misure urgenti a sostegno
delle popolazioni del
centro Italia colpite dal terremoto
del 24 agosto scorso.
Un punto centrale su cui
punta il decreto è quello
della qualificazione dei
professionisti: per assicurare
la massima trasparenza nel
conferimento degli incarichi
di progettazione e direzione
dei lavori, si procede all'istituzione
di un elenco speciale
dei professionisti abilitati che
sarà attivato dal commissario
straordinario con un avviso
pubblico finalizzato a raccogliere
le manifestazioni di
interesse nel quale saranno
precisati anche i criteri generali
ed i requisiti minimi per
l'iscrizione nell'elenco.
Saranno ammessi negli
elenchi soltanto i professionisti
che presentano il
Durc regolare. L'elenco sarà
disponibile presso le prefetture,
uffici territoriali del governo
di Rieti, Ascoli Piceno,
Macerata, Perugia, L'Aquila e
Teramo, nonché presso tutti i
comuni interessati dalla ricostruzione
e gli uffici speciali
per la ricostruzione.
Soltanto ai professionisti
iscritti nell'elenco potranno
fare ricorso i soggetti privati
che intenderanno conferire
gli incarichi per la ricostruzione
o riparazione e ripristino
degli immobili danneggiati
dagli eventi sismici. Fino
all'istituzione dell'elenco i
privati potranno affidare incarichi
a professionisti iscritti
agli ordini e collegi professionali
che siano in possesso di
adeguati livelli di affidabilità
e professionalità (peraltro
non precisati) e che non
abbiano commesso violazioni
in materia contributiva e previdenziale
ostative al rilascio
del Durc.
Per le opere pubbliche
(beni culturali compresi)
sarà determinata una soglia
massima di assunzione
degli incarichi, tenendo conto
dell'organizzazione dimostrata
dai professionisti nella
qualificazione, mentre per
gli interventi di ricostruzione
privata saranno indicati criteri
finalizzati ad evitare concentrazioni
di incarichi che
non trovano giustificazione
in ragioni di organizzazione
tecnico-professionale.
Prevista l'incompatibilità
per chi svolgerà il ruolo
di direttore dei lavori: non
dovrà avere in corso né avere
avuto (dovrà rilasciare al riguardo
apposita autocertificazione)
negli ultimi tre anni
rapporti diretti di natura professionale,
commerciale o di
collaborazione, comunque denominati,
con l'impresa affidataria
dei lavori, né rapporti
di parentela con il titolare o
con chi riveste cariche societarie
nella stessa.
Viene stabilito un contributo
massimo, a carico
del commissario straordinario,
per tutte le attività tecniche
poste in essere per la ricostruzione
pubblica e privata,
nella misura del 10%, con un
possibile contributo aggiuntivo,
per le sole indagini o prestazioni
specialistiche, nella
misura massima del 2%.
Poi c'è il capitolo delle
cosiddette white list per cui
tutti gli operatori economici
dovranno essere iscritti (validità
un anno, rinnovabile)
in un apposito elenco, tenuto
dalla struttura denominato
Anagrafe antimafia degli
esecutori, cui si potrà accedere
soltanto se le verifiche
fatte in precedenza agli stessi
fini si siano concluse con esito liberatorio
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati
con polizza-infortuni. La copertura andrà dalla
responsabilità professionale agli incidenti.
Professioni e tutele. Tempo fino all’11.10.2017
per stipulare la nuova assicurazione obbligatoria.
È fissata all’11.10.2017 la dead-line a
disposizione degli avvocati per stipulare l’assicurazione
obbligatoria per la responsabilità professionale e contro
gli infortuni.
È stato, infatti, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di
martedì scorso (la n. 238) il decreto del ministero della
Giustizia che, in linea con il nuovo ordinamento forense,
detta le condizioni essenziali e i massimali minimi per
l’assicurazione. Oggi meno della metà degli avvocati è
dotato di un’assicurazione Rc professionale e pochissimi
sono coperti contro gli infortuni.
Sul fronte della responsabilità derivante dallo svolgimento
della professione, la polizza deve avere una copertura a
tutto campo. Rientrano nell’assicurazione obbligatoria i
danni -patrimoniali e non, indiretti, permanenti, temporanei
e futuri- che il legale può causare, oltre che ai clienti e
alle controparti processuali, anche a terzi, in maniera
colposa o con colpa grave, nello svolgere tutte le attività
alle quali è abilitato, giudiziali e stragiudiziali. La
norma specifica inoltre che tra i terzi non rientrano
collaboratori e familiari. L’ombrello assicurativo deve
estendersi anche ai collaboratori, praticanti, dipendenti e
sostituti processuali per fatti colposi o dolosi.
Prevista anche la responsabilità per i danni derivanti dalla
custodia di documenti, denaro, titoli e valori ricevuti in
deposito dai clienti o dalle controparti.
Tutelati i familiari del professionista: gli eredi possono
contare su una retroattività illimitata e un’ultrattività
almeno decennale per gli avvocati che smettono di esercitare
quando la polizza è ancora attiva. Fasce di rischio e
massimali sono tarati sul reddito dei professionisti, anche
associati, con una forbice che va dai 350mila euro ai 10
milioni.
Per tutti gli avvocati scatta anche l’obbligo
dell’assicurazione contro gli infortuni. La polizza è
prevista per il legali e i collaboratori e i praticanti, per
i quali non sia già attiva la copertura Inail. Le garanzie
riguardano tutti gli infortuni che possono capitare nello
svolgere l’attività «o a causa o in occasione di essa»
e possono comportare la morte o un’invalidità sia temporanea
che permanente. Tra i rischi assicurati, anche quelli
connessi agli spostamenti di lavoro.
La norma precisa inoltre che l’assicurazione deve contenere
clausole che escludano espressamente il diritto di recesso
dell’assicuratore, il quale non può fare marcia indietro in
seguito alla denuncia di un sinistro o del suo risarcimento,
nel corso della durata del contratto o nel periodo di
ultrattività. Anche in caso di franchigie e scoperti
l’assicuratore deve comunque risarcire il terzo per l’intero
importo, ferma restando la possibilità di recuperare le
relative somme «dall’assicurato tenuto indenne dalla
pretesa risarcitoria del terzo».
Della copertura va informato il cliente e la polizza è
disponibile presso il Consiglio nazionale forense o sui siti
Internet. Non essere in regola coi requisiti dettati dal Dm
costa la cancellazione dall’albo. La Cassa forense è pronta
a dare il suo contributo. «Meno della metà degli avvocati
ha una Rc professionale -dice il presidente Nunzio Luciano-
e pochissimi hanno una polizza infortuni. Per la prima
abbiamo già convenzioni e le adegueremo alle norme, cercando
di abbattere i costi per i colleghi, mentre per gli
infortuni valuteremo di intervenire, dove è possibile, con
le risorse disponibili grazie al Regolamento assistenza»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2016). |
INCARICHI PROGETTUALI: Polizza allargata. Responsabilità solidale assicurata.
Le indicazioni del Consiglio nazionale ingegneri.
Ingegneri chiamati ad allargare la copertura assicurativa
alla responsabilità solidale con altri soggetti. Perché le
compagnie di assicurazione spesso coprono solo la quota di
danno direttamente e personalmente imputabile
all'assicurato, lasciando scoperta la parte di
responsabilità
che può derivare dal vincolo di solidarietà con
committenti, progettisti, impresa, fornitori e
così via.
E' l'indicazione fornita agli iscritti dal
Consiglio nazionale degli ingegneri, tramite
la
circolare
10.10.2016 n. 804.
Il
gruppo di lavoro «Ingegneria forense» ha infatti
esaminato le problematiche riguardanti
le responsabilità dell'ingegnere, rilevando che
in molte vertenze il professionista può essere
gravemente penalizzato dalle norme che,
nella realizzazione di opere pubbliche o private,
regolano la responsabilità solidale tra
l'impresa, il professionista e gli altri soggetti
coinvolti.
In pratica, dalla lettura degli articoli
2055 e 1292 del codice civile, emerge che
in caso di danno il danneggiato ha la facoltà
di rivolgere le sue pretese risarcitorie anche
a un solo soggetto, il quale avrà poi diritto
di regresso sugli altri coobbligati in proporzione
alle rispettive quote di responsabilità.
Per quanto riguarda l'ingegnere, chiarisce
la circolare, quando svolge atti professionali
risponde per eventuali danni personalmente
e illimitatamente con il proprio patrimonio
personale, presente e futuro. A questo
proposito, sottolinea il Cni, alcune polizze
di assicurazione per responsabilità civile
professionale prevedono che, nel caso in cui
si verifichi una situazione di responsabilità
solidale, la copertura assicurativa collegata
al vincolo di solidarietà valga esclusivamente
per la sola quota di danno direttamente e
personalmente imputabile all'assicurato, con
esclusione di quella parte di responsabilità
che possa derivare dal vincolo di solidarietà
con altri soggetti.
Quindi, secondo il Cni, gli
iscritti devono essere sensibilizzati affinché
pretendano dalla propria compagnia di assicurazione
la copertura di queste specifiche
situazioni, con una clausola che preveda la
copertura assicurativa anche per la quota
di responsabilità solidale dell'assicurato
con altri soggetti, fermo il diritto di regresso
nei confronti di altri terzi responsabili.
Tale clausola dovrebbe essere già prevista
nel disciplinare di incarico e, specifica la
circolare, gli iscritti dovrebbero chiedere
anche l'inserimento di una clausola di «maggior
termine per la notifica delle richieste
di risarcimento». Prevedendo un periodo di
tempo di almeno dieci anni successivo alla
scadenza del periodo di assicurazione, entro
il quale l'assicurato può notificare richieste
di risarcimento manifestatesi dopo la scadenza
e riferite a un atto commesso durante
il periodo di assicurazione o nel periodo di
retroattività
(articolo ItaliaOggi del 13.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, supervisione Anac.
Le misure per la ricostruzione.
Ricostruzione con la supervisione dell'Anac; Invitalia
centrale unica di committenza, albo delle imprese e dei
professionisti, costante monitoraggio sugli interventi con
una struttura di missione ad hoc.
E quanto
prevede, per la parte relativa agli
appalti, il decreto legge approvato
ieri dal consiglio dei ministri che
contiene misure urgenti a sostegno
delle popolazioni del centro Italia
colpite dal terremoto del 24 agosto.
Il provvedimento d'urgenza, per quel
che riguarda le opere pubbliche e i
beni culturali, prevede una specifica
pianificazione degli interventi oltre
ad un piano di interventi sui dissesti
idrogeologici, articolato per le
quattro regioni interessate. A valle
della pianificazione, sulla base delle
priorità stabilite dal commissario
straordinario d'intesa con i vice commissari
nel cabina di coordinamento
e in coerenza con il piano delle opere
pubbliche e il piano dei beni culturali
i soggetti attuatori (le regioni, con gli
uffici speciali perla ricostruzione, il
ministero delle infrastrutture e quello
dei beni culturali) provvederanno
a predisporre ed inviare i progetti
degli interventi al commissario straordinario
che approverà i progetti
esecutivi e adotterà il decreto di concessione
del finanziamento.
I progetti
finanziati saranno trasmessi alla
centrale di committenza (l'Agenzia
nazionale per l'attrazione degli investimenti Spa-Invitalia, che stipulerà
apposita convenzione con il commissario
straordinario ) che gestirà le
gare. Viene istituita, nell'ambito del
ministero dell'interno, una apposita
struttura di missione che provvederà
alla prevenzione e al contrasto
delle infiltrazioni della criminalità
organizzata nell'affidamento e
nell'esecuzione dei contratti pubblici
e di quelli privati che fruiscono di
contribuzione pubblica. A supporto
della struttura opererà l'istituendo
Gruppo interforze centrale
per l'emergenza e la ricostruzione
nell'Italia centrale (Giceric).
Tutti
gli operatori economici interessati
a partecipare, a qualunque titolo e
per qualsiasi attività, agli interventi
di ricostruzione, pubblica e privata
dovranno essere iscritti, a domanda,
in un apposito elenco, tenuto dalla
struttura e denominato Anagrafe
antimafia degli esecutori (entrano
di diritto se già in white list ex legge
Severino); l'iscrizione varrà un anno
e sarà rinnovabile.
Ai contratti, subappalti
e subcontratti relativi agli
interventi di ricostruzione, pubblica
e privata, si applicano le norme sulla
tracciabilità dei flussi finanziari.
L'Anac effettuerà il controllo sulle
procedure del commissario straordinario,
con una unità operativa
speciale, sul modello Expo 2015.
Anche la Corte dei conti eserciterà
il controllo preventivo sugli atti di
natura regolatoria e organizzativa
del commissario straordinario. Previsto
un elenco cui dovranno essere
iscritti tutti i professionisti incaricati
di attività relative ad interventi
pubblici e privati (dovranno essere
in possesso del Dure regolare). Previste
incompatibilità fra direttore
dei lavori e imprese esecutrici del
contratto e un tetto massimo per il
contributo assegnabile per le attività
tecniche (10% del valore degli
interventi)
(articolo ItaliaOggi del 12.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati assicurati. Polizza obbligatoria in un anno.
In G.U. n. 238 il decreto del ministero della giustizia.
Scatta tra un anno l'obbligo di assicurazione anche per gli
avvocati.
È stato infatti pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 238 di ieri il decreto del ministero della
giustizia, firmato il 22.09.2016, recante le
condizioni essenziali e i massimali minimi delle polizze
relative
alle assicurazioni per
la responsabilità civile e contro
gli infortuni, che entrerà
in vigore decorsi 12 mesi dalla
pubblicazione in G.U. Il decreto
individua cinque fasce
di rischio: la A per l'attività
svolta in forma individuale
con fatturato riferito all'ultimo
esercizio chiuso non superiore
a 30 mila giuro per la quale è
previsto un massimale minimo
di 350 mila euro per sinistro
e per anno assicurativo.
La fascia
B, invece, riguarda l'attività
svolta in forma individuale
con fatturato riferito all'ultimo
esercizio chiuso tra i 30 e i 70
mila euro, per la quale è necessari
io un massimale minimo di
500 mila euro per sinistro e per
anno assicurativo. La fascia C
riguarda, poi, l'attività svolta
in forma individuale con fatturato
superiore a 70 mila euro,
per la quale è necessario un
massimale minimo pari a un
milione di euro. Nella fascia D
rientra l'attività svolta in forma
collettiva con un massimo
di dieci professionisti e un
fatturato non superiore a 500
mila giuro, per la quale il massimale
minimo previsto dal
decreto è pari a un milione di
giuro per sinistro con il limite
di 2 milioni di giuro per anno
assicurativo.
La fascia E è relativa,
poi, all'attività svolta in
forma collettiva con un massimo
di dieci professionisti e un
fatturato superiore a 500 mila
giuro: in questo caso, il massimale
minimo previsto è di due
milioni di euro per sinistro col
limite di quattro milioni di euro
per anno assicurativo. Infine,
la fascia F riguarda l'attività
svolta da avvocati sempre in
forma collettiva con oltre dieci
professionisti e un massimale
minimo di 5 milioni di euro per
sinistro col limite di 10 milioni
di euro per anno assicurativo.
L'assicurazione deve prevedere
la copertura della responsabilità
civile dell'avvocato per tutti
i danni che dovesse causare
colposamente a terzi nello svolgimento
dell'attività professionale,
per danni di carattere patrimoniale, non patrimoniale,
indiretto, permanente, temporaneo
e futuro. Per quanto
riguarda l'efficacia nel tempo
della copertura, l'assicurazione
deve prevedere, anche a favore
degli eredi, una retroattività
illimitata e una ultrattività
almeno decennale per gli avvocati
che cessano l'attività
nel periodo di vigenza della
polizza.
Inoltre, l'assicurazione
deve contenere clausole
che escludano espressamente
il diritto di recesso dell'assicuratore
dal contratto a seguito
della denuncia di un sinistro o
del suo risarcimento. Per quanto
riguarda l'assicurazione
contro gli infortuni, le somme
assicurate minime sono: cento
mila euro per il caso morte,
100 mila per il caso invalidità
permanente e 50 euro per la
diaria giornaliera (articolo ItaliaOggi del 12.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Contabilizzatori,
rischio ritardi e sanzioni.
Riscaldamento. In molti casi sarà impossibile adempiere
entro il giorno di accensione degli impianti e si finirà per
slittare a primavera.
Molti
amministratori, condòmini, proprietari di edifici si stanno
rendendo conto del fatto che nel condominio o nell'edificio
polifunzionale (in cui almeno due soggetti devono ripartire
tra loro la fattura dell'energia acquistata; definizione non
chiara del decreto legislativo 102/2014) non si riuscirà a
far eseguire per tempo e/o totalmente gli adempimenti
richiesti dalla normativa in tema di contabilizzazione e
termoregolazione. Installando cioè entro il 31.12.2016
sotto-contatori per ciascuna unità immobiliare (negli
impianti a diramazione orizzontale, più recenti) o
contabilizzatori e termovalvole in corrispondenza di ciascun
radiatore all'interno delle unità immobiliari, negli
impianti a diramazione verticale (sono la stragrande
maggioranza).
Molti condomìni hanno inizialmente affrontato blandamente la
contabilizzazione, anche in attesa di chiarimenti su diversi
punti della normativa, chiarimenti giunti in parte con il
decreto legislativo 141/2016, pubblicato in Gazzetta
ufficiale solo il 25.07.2016 e integrativo (con rilevanti
modifiche) del decreto 102/2014.
Passato il periodo feriale, amministratori e condòmini di
edifici non (o non completamente) a norma si chiedono cosa
fare, considerando che molte ditte incaricate all'ultimo dei
lavori non garantiscono di poter iniziare o comunque
terminare i lavori prima dell'accensione degli impianti, per
difficoltà a reperire termovalvole, sotto-contatori,
contabilizzatori ed altro materiale, dovendo comunque dare
la precedenza agli edifici che commissionarono i lavori per
primi.
Dopo l'accensione degli impianti, che avverrà il 15 ottobre,
il 1° e il 15 novembre e il 1° dicembre (a seconda delle
fasce climatiche del Dpr 412/1993), tecnicamente, i lavori
(o parte di essi) non siano più eseguibili, per cui si dovrà
procedere dopo lo spegnimento degli impianti alla fine
dell'inverno. E ci si chiede che succederà in caso di
controlli dopo il 31.12.2016. Al momento non sono previste
proroghe e gli amministratori si pongono il problema dei
controlli che dovessero venire fatti a partire da inizio
2017, anche considerate le sanzioni previste da 500 a 2.500
euro per il proprietario dell'unità immobiliare (e per
ciascuna unità immobiliare) che non ha installato entro il
termine previsto i sotto-contatori (articolo 16, comma 6,
del decreto 102/2014) o altro idoneo sistema negli impianti
a diramazione verticale (articolo 16, comma 7).
E poi ci si pone il problema delle eventuali responsabilità
addebitabili all'amministratore dal condominio o da una
parte dei condòmini per non aver adeguatamente condotto
l'assemblea ad adottare la delibera di adozione di sistemi
di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per
il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base
al consumo effettivamente registrato; delibera che,
peraltro, richiede un numero di voti che rappresenti la
maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell'edificio.
È consigliabile far comunque adottare le delibere
dall'assemblea, dando atto di quanto già realizzato,
manifestando la decisione di porre in essere ogni rimanente
adempimento imposto dalle norme per lavori in caldaia,
termovalvole, contabilizzatori , eccetera, conferendo gli
incarichi del caso.
Se poi le ditte non ce la fanno nei tempi, si avrà cura di
tenere lo scambio di corrispondenza a dimostrazione e
giustificazione di ciò, da esibire in caso di controlli.
Le preoccupazioni non riguardano i casi in cui la
contabilizzazione non sia tecnicamente possibile o non sia
efficiente in termini di costi o non sia proporzionata
rispetto ai risparmi energetici potenziali (impianti a
diramazione orizzontale) o quando l'installazione dei
sistemi di contabilizzazione non risulti efficiente in
termini di costi (impianti a diramazione verticale), sempre
che ciò risulti da relazione tecnica di un progettista o
tecnico abilitato, anche perché -in tali casi- si è esenti
da sanzioni (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Poche
deroghe regionali su inizio e fine dei lavori. Trento
concede sette anni, durata variabile in Val D’Aosta.
Titoli abilitativi. Nella maggior parte delle autonomie
norme in linea con il Tu edilizia.
Sono poche le
Regioni che hanno legiferato sui tempi di efficacia dei
titoli abilitativi relativamente alla realizzazione delle
costruzioni edili. Quelle che l’hanno fatto spesso si sono
accodate alla normativa statale.
L’ultima è stata la Sicilia che con una legge dello scorso
agosto (legge regionale 16/2016) ha stabilito che i lavori
per la costruzione di una casa o di un’officina devono
iniziare entro un anno dal giorno in cui il permesso è
rilasciato, e terminare entro tre anni dalla posa della
prima pietra. Proprio come prevede l’articolo 15 del Dpr
380/2001, il Testo unico sull’edilizia.
Le proroghe
La possibilità, attribuita ai sindaci, di concedere in
maniera discrezionale e condizionata delle proroghe, ha
prodotto anche un certo contenzioso, davanti al Tar e al
Consiglio di Stato, e si è rivelata poco adeguata per la
gestione della situazione di crisi profonda e prolungata del
settore dell’edilizia nel nostro Paese.
Per rendere più agevole protrarre nel tempo l’efficacia dei
titoli abilitativi, l’articolo 30 del Dl 69 del 21.06.2013
(convertito con la legge 14.09.2011, n. 148), contenente
provvedimenti urgenti per il rilancio dell’economia, tra le
altre misure di semplificazione per il settore
dell’edilizia, introdusse anche una proroga straordinaria
dei termini per l’inizio e la fine dei lavori.
Le proroghe hanno diverse scadenze, secondo le tipologie di
opere alle quali si riferiscono. Nel caso dei lavori da
realizzare per l’attuazione di convenzioni urbanistiche
stipulate fino al 31.12.2012, i termini per avviarli e per
terminarli sono spostati in avanti di tre anni, per legge,
senza necessità che gli interessati ne facciano richiesta.
Per le altre opere, i cui titoli abilitativi furono
rilasciati o presentati prima dell’entrata in vigore del Dl
69/2013 (e cioè del 22.06.2013) la proroga è di due anni.
Anche in questo caso non è soggetta a valutazione da parte
del Comune; deve però essere richiesta prima che scadano i
termini iniziali e l’opera non deve essere diventata
incompatibile con le eventuali modifiche introdotte al Prg.
In quest’ultimo caso è stata fatta salva la possibilità
delle Regioni legiferare diversamente.
Le norme regionali
Sono poche però le Regioni che hanno approvato norme sui
termini e sulle proroghe che si sono allontanate dalla
normativa statale ordinaria prevista dal testo unico
sull’edilizia e da quella speciale del Dl 69/2013.
Nelle loro leggi sul governo del territorio e sulla
disciplina urbanistica le Regioni spesso riportano, anche in
termini pressoché letterali, le disposizioni contenute negli
articoli delle leggi statali. Vi si discostano nella
disciplina di casi di dettaglio o situazioni specifiche.
I casi particolari
I punti di maggiore innovazione sono contenuti nelle leggi
degli enti con maggiore autonomia. In provincia di Trento
per realizzare un’opera si dispone di sette anni di tempo
dalla data di rilascio del titolo abilitativo alla
costruzione: devono iniziare entro due anni e concludersi
nei cinque successivi dal momento della loro partenza.
Per evitare date esistenti solo nelle carte, la provincia
trentina e il Piemonte hanno stabilito che non si può
ritenere che i lavori siano iniziati con la sola apertura
del cantiere o con l’esecuzione di qualche scavo e la
sistemazione del terreno, ma devono essere realizzate opere
più consistenti; dopodiché, per la comunicazione di
ultimazione dei lavori, il progetto deve essere stato
eseguito in ogni sua parte.
La durata dei lavori in Valle d’Aosta è variabile. Quanto
più si sale in montagna, tanto più tempo viene concesso per
completare l’intervento: si può arrivare a cinque anni per
le costruzioni da realizzare oltre i 1.500 metri. Anche
altre Regioni si sono discostate dalle previsioni statali
soprattutto sui termini di fine lavoro.
Nei Comuni umbri, invece, dopo aver messo la prima pietra di
case e capannoni, vi sono quattro anni per mettere l’ultima,
ma è possibile avere una proroga di altri due. Infine, in
Liguria la proroga dei termini può essere indicata già nel
permesso di costruire (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nel
Dup anche il fabbisogno di personale. Da considerare il
blocco delle assunzioni per chi sfora il pareggio o non
approva il preventivo in tempo.
La programmazione strategico-operativa
del prossimo triennio non può prescindere dalla politica
assunzionale e retributiva dell’ente, soggetta a un ampio
sistema di regole, da coordinare con l’armonizzazione
contabile. Nel Documento unico di programmazione devono
infatti essere declinati i fabbisogni di personale e
indicate le eventuali risorse variabili da destinare alla
contrattazione di secondo livello.
La sezione strategica definisce le linee di indirizzo
politico-amministrativo di mandato, che trovano attuazione
nella sezione operativa attraverso la programmazione annuale
e triennale del fabbisogno di personale. In base a quanto
prevede l’articolo 91 del Tuel e l’articolo 6 del Dlgs
165/2001, il programma triennale dei fabbisogni del
personale deve essere elaborato, in coerenza con la
dotazione organica dell’ente, su proposta dei competenti
dirigenti che individuano i profili professionali necessari
allo svolgimento dei compiti istituzionali delle strutture
cui sono preposti.
Su questo documento deve essere espresso il parere
dell’organo di revisione contabile per verificarne la
coerenza con i principi di riduzione complessiva della spesa
(articolo 19, comma 8, della legge 448/2001). La verifica
circa il rispetto dei limiti di spesa viene espressamente
prevista dall’articolo 3, comma 10-bis, del Dl 90/2014, in
base al quale i revisori dei conti sono tenuti ad allegare
una certificazione ad hoc alla relazione di
accompagnamento alla delibera di approvazione del bilancio
annuale dell’ente.
In caso di mancato adempimento, il prefetto presenta una
relazione al ministero dell’Interno. Con la medesima
relazione viene inoltre verificato il rispetto delle
prescrizioni portate dai commi 557 e 562 dell’articolo 1
della legge 296/2006, relative all’obbligo di riduzione
della spesa di personale, il cui importo deve essere
mantenuto annualmente entro la spesa media sostenuta nel
triennio 2011/2013 e, negli enti che non erano assoggettati
al patto, entro l’importo impegnato nel 2008.
La programmazione del personale comprende anche l’adozione
del piano triennale delle azioni positive e pari opportunità
(deliberazione 82/2016 Corte dei conti Liguria in tema di
rilevanza della mancata adozione) e la verifica dell’assenza
di posizioni professionali in sovrannumero. Per procedere a
nuove assunzioni occorre inoltre che l’ente abbia adottato
il Piano della performance e abbia rideterminato la
dotazione organica
La politica assunzionale deve fare i conti anche con i
vincoli di finanza pubblica, per i quali a partire dal 2016,
il patto di stabilità è sostituito dal pareggio di bilancio.
Solo gli enti che hanno rispettato i saldi obiettivo loro
assegnati e che hanno trasmesso entro il 31.03.2016 la
certificazione del rispetto del patto di stabilità interno
per l’anno 2015 possono infatti procedere ad assumere
personale. Limitatamente all’anno 2016, la mancata
trasmissione della certificazione entro il 31 marzo non
viene sanzionata, a condizione però che l’invio sia avvenuto
entro il 30 aprile (articolo 7, comma 5, del Dl 113/2016.
Resta comunque inteso il divieto di assunzione negli enti
per i quali, anche in corso di anno, è prefigurabile lo
sforamento dei limiti di finanza pubblica.
L’ articolo 9 del Dl 185/2008 stabilisce poi la sanzione del
blocco del ricorso all’indebitamento e delle assunzioni per
gli enti non in regola con gli obblighi di gestione e
certificazione dei crediti attraverso la piattaforma
informatica.
A decorrere dal 2017, la mancata approvazione nei termini
del bilancio di previsione, del rendiconto e del bilancio
consolidato sarà inoltre sanzionata, in base al Dl 113/2016
(articolo 9, comma 1-quinquies), con la nuova penalità del
blocco delle assunzioni, che scatterà anche nell’ipotesi di
ritardo nella trasmissione dei documenti alla Banca dati
pubbliche amministrazioni (Bdap) rispetto al termine di
trenta giorni dalla loro approvazione. La sanzione cesserà
all’atto di approvazione e invio dei documenti.
Pur rappresentando indicatori rilevanti ai fini della
verifica della sana gestione finanziaria dell’ente, non
costituiscono condizione per l’attuazione della politica
assunzionale il rispetto dell’indicatore di tempestività dei
pagamenti e dell’indice della spesa di personale sulla spesa
corrente (abrogato dall’articolo 16, comma 1, del Dl
113/2016) (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Lavori pubblici, piano entro sabato. In settimana
va approvato in giunta il documento sulle opere pubbliche.
L’assenza del decreto attuativo del nuovo Codice appalti
mantiene in vigore il vecchio obbligo.
Per la prima volta
quest’anno tutti gli enti locali sono obbligati a verificare
la coerenza fra il documento unico di programmazione
presentato al consiglio entro lo scorso 31 luglio e lo
schema del programma triennale dei lavori pubblici che deve
essere adottato dalla giunta entro il 15 ottobre.
A pesare, sul già complicato quadro normativo, è l’assenza
del decreto del ministero delle Infrastrutture a cui era
stato demandato il compito di dare attuazione alle novità
sulla programmazione introdotte dall’articolo 21 del nuovo
codice di contratti.
La disciplina prevede l’obbligo, per le amministrazioni
aggiudicatrici, di adottare il piano biennale degli acquisti
di beni e servizi (di importo unitario pari o superiore a
40mila euro) e la programmazione triennale dei lavori
pubblici e i loro aggiornamenti annuali, nel rispetto dei
documenti programmatori e in coerenza con il bilancio. Le
opere pubbliche incompiute vanno inserite nella
programmazione triennale, per il loro completamento o per
l’individuazione di soluzioni alternative quali il
riutilizzo, anche ridimensionato, la cessione a titolo di
corrispettivo per la realizzazione di altra opera pubblica,
la vendita o la demolizione.
Nell’ambito del programma, le amministrazioni individuano i
bisogni che possono essere soddisfatti con capitali privati.
Inoltre gli enti devono comunicare, entro ottobre, l’elenco
delle acquisizioni di forniture e servizi d’importo
superiore a un milione di euro che prevedono di inserire
nella programmazione biennale al Tavolo tecnico previsto
dall’articolo 9, comma 2, del Dl 66/2014.
In attesa del decreto attuativo (il termine, del 18 luglio,
è ampiamente scaduto), le amministrazioni applicano le
vecchie regole sia per la gestione dell’anno in corso sia
per la nuova programmazione. Questo significa che entro il
15 ottobre gli enti dovranno adottare in giunta il programma
dei lavori pubblici per il 2017-2019, facendo riferimento
agli schemi e modelli approvati con decreto del ministero
delle Infrastrutture del 24.10.2014.
All’interno dei nuovi programmi, le amministrazioni
individuano un ordine di priorità degli interventi, tenendo
comunque conto dei lavori necessari alla realizzazione delle
opere non completate e già avviate sulla base della
programmazione triennale precedente, dei progetti esecutivi
già approvati e dei lavori di manutenzione e recupero del
patrimonio esistente, oltre che degli interventi
suscettibili di essere realizzati attraverso contratti di
concessione o di partenariato.
Occorrerà inoltre che il programma triennale delle opere
pubblichi rechi anche la previsione degli stati di
avanzamento lavori in base ai quali si determina
l’imputazione alle singole annualità del bilancio di
previsione e, ove l’opera è finanziata con risorse già
accertate, il fondo pluriennale vincolato (da elaborare
sulla base dei cronoprogrammi) in attuazione al principio
della competenza finanziaria potenziata.
Una volta che gli schemi sono stati adottati in giunta,
occorrerà renderli pubblici con affissione nella sede delle
amministrazioni per almeno 60 giorni consecutivi ed
eventualmente mediante pubblicazione sul profilo di
committente della stazione appaltante. È prudente infatti
continuare a rispettare quest’obbligo che, sebbene previsto
dalla vecchia disciplina abrogata (articolo 128, comma 2,
del Dlgs 163/2006), resta transitoriamente ancora in vita
per la programmazione del prossimo triennio.
Entro il 15 novembre, infine, con lo schema di delibera del
bilancio di previsione finanziario 2017-2019, la giunta
presenterà al consiglio la nota di aggiornamento del Dup
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Pec,
obbligo esteso ai revisori. Indirizzi o aggiornamenti da
comunicare entro il 30/11. I chiarimenti del Mef: in caso di
inosservanza sanzioni amministrative fino a 2.500 euro.
Tutti i revisori legali dovranno dotarsi di strumenti di
comunicazione elettronica per dialogare con la pubblica
amministrazione e le imprese. Con l'entrata in vigore del
dlgs 17.072016, n. 135 è stato esteso alla categoria di tali
professionisti l'obbligo di un indirizzo di posta
elettronica certificata, da comunicare al ministero
dell'economia e delle finanze o al soggetto incaricato alla
tenuta del registro dei revisori legali.
A tale proposito è intervenuta la circolare Mef del 29.09.2016, n. 21 che illustra le modalità e i termini
di comunicazione delle caselle di Posta elettronica
certificata degli iscritti nel registro dei revisori legali,
in attuazione dell'art. 27, comma 2, del citato decreto
legislativo.
Le comunicazioni degli indirizzi di posta
elettronica certificata o il loro eventuale aggiornamento
dovrà avvenire entro la data del 30.11.2016. In caso
di inosservanza degli obblighi di comunicazione, scatta una
sanzione amministrativa che va da un minimo di 50 a un
massimo di 2.500 euro. Nessuna comunicazione, invece, per i
«vecchi» revisori. Tra le novità introdotte dalla recente
normativa spicca la modifica apportata all'art. 8 del dlgs
n. 39/2010 che prevede la suddivisione del registro nella
sezione A e B.
Cosa prevede il dlgs 135/2016.
Le recenti innovazioni introdotte dal decreto si inseriscono
in un contesto di progressiva diffusione di strumenti di
comunicazione elettronica tra tutti gli operatori economici,
e tra questi ultimi e lo Stato, favorendo la semplificazione
degli adempimenti connessi allo scambio di informazioni e
documenti e la riduzione degli oneri amministrativi.
In proposito, va ricordato che il legislatore aveva già
intrapreso un percorso di graduale adeguamento affinché
tutte le pubbliche amministrazioni, i professionisti e le
imprese si dotassero di strumenti di comunicazione
elettronica tramite i quali dialogare con pieno valore
legale.
L'entrata in vigore del dlgs 135/2016, ha esteso alla
categoria dei revisori legali l'obbligo di un indirizzo Pec
da comunicare al ministero dell'economia e delle finanze o
al soggetto incaricato alla tenuta del registro dei revisori
legali.
La circolare 21/2016.
La circolare ha fornito alcune prime indicazioni operative
volte a favorire comportamenti omogenei nell'adempimento
degli obblighi di comunicazione. In primo luogo, è utile
osservare che la comunicazione di un valido indirizzo Pec
costituisce un preciso obbligo a carico di tutti gli
iscritti, persone fisiche e giuridiche (anche di quelli fino
a oggi sprovvisti di tale strumento), che dovranno dunque
farsi carico di attivare una casella Pec presso un fornitore
certificato.
L'elenco pubblico dei gestori, cui si invita a
far riferimento, è accessibile sul sito internet
istituzionale dell'Agenzia per l'Italia digitale (Agid)
a
questo indirizzo.
La successiva comunicazione dell'indirizzo al Registro dei
revisori dovrà avvenire esclusivamente con le ordinarie
modalità telematiche previste per l'aggiornamento del
contenuto informativo del Registro, e in particolare
mediante accesso all'Area riservata del portale della
revisione legale disponibile all'indirizzo
www.revisionelegale.mef.gov.it.
In merito alla procedura
necessaria per acquisire le credenziali personali di accesso
(username e password), è utile consultare l'apposita guida
operativa già predisposta e accessibile nella sezione
«Accreditamento».
I «vecchi» revisori.
Per quanto concerne i soggetti che già in passato avevano
comunicato al registro dei revisori legali un valido
indirizzo di Pec, a essi non è richiesta alcuna ulteriore
comunicazione. Ogni casella Pec comunicata dovrà, inoltre,
essere associata univocamente a un singolo iscritto.
Se,
infatti, la ratio legis è quella di consentire agli
operatori economici e ai professionisti di dotarsi di
strumenti certificati per dialogare con la p.a. e a
quest'ultima di estendere e potenziare l'offerta dei propri
servizi telematici anche in favore degli stessi iscritti,
motivi di coerenza e di sistematicità inducono a escludere
la possibilità di utilizzare caselle «condivise» o «comuni»,
per esempio più professionisti che utilizzano in modo
promiscuo una stessa casella Pec nell'ambito di uno studio
associato, nonché quelle intestate ad altri revisori o a
soggetti terzi.
Aggiornamento indirizzi.
In riferimento all'aggiornamento degli indirizzi elettronici
già esistenti, deve evidenziarsi che risultano comunicate al
Registro un certo numero di caselle cec-pac (@postacertificata.gov.it),
attualmente risultanti non più attive, essendo il servizio
stato dismesso. In questi casi occorre sostituire la casella
di posta certificata non più operativa con una nuova casella
Pec standard rilasciata da un fornitore certificato.
Per
quanto concerne i professionisti iscritti presso altri albi,
ordini o collegi professionali, nel segnalare che per tali
categorie era già in vigore una normativa che imponeva
l'obbligo di dotarsi di strumenti di comunicazione
elettronica, si ritiene che ai fini della comunicazione al
registro ciascun singolo iscritto possa indicare la casella
Pec già utilizzata per l'ordine professionale o collegio di
appartenenza o ricorrere, alternativamente, a una casella
Pec specifica diversa dalla precedente.
Resta ferma, infine, la necessità di procedere
all'aggiornamento del proprio indirizzo Pec entro il termine
di 30 giorni da qualsiasi variazione.
Quando effettuare la comunicazione.
Tutti gli iscritti (revisori legali e società di revisione
legale) dovranno provvedere per tempo al descritto
adempimento, assicurando che gli indirizzi di Posta
elettronica certificata siano comunicati al Registro, o
eventualmente aggiornati, entro la data del 30.11.2016.
Le sanzioni.
La mancata comunicazione di informazioni obbligatorie che
costituiscono parte essenziale del contenuto informativo del
registro dei revisori legali, ovvero il mancato
aggiornamento dei predetti dati nei tempi previsti alla
normativa, espone l'iscritto all'applicazione delle sanzioni
amministrative di cui all'art. 24 del dlgs n. 39/2010. Si
tratta di una specifica sanzione amministrativa pecuniaria
in caso di inosservanza degli obblighi di comunicazione
delle informazioni, applicabile nella misura da 50 a 2.500
euro.
Le sezioni A e B del registro.
I revisori legali iscritti al registro che svolgono attività
di revisione legale o che collaborano a un'attività di
revisione legale in una società di revisione legale, o che
hanno svolto le predette attività nei tre anni precedenti,
sono collocati in un'apposita sezione denominata «Sezione
A».
Gli iscritti che non hanno assunto incarichi di
revisione legale o non hanno collaborato a un'attività di
revisione legale in una società di revisione legale per tre
anni consecutivi, sono collocati, d'ufficio, in un'apposita
sezione del registro denominata «Sezione B», e non sono
soggetti ai controlli di qualità. Sia i soggetti iscritti
nella «Sezione A» che quanti sono iscritti nella «Sezione B»
del Registro, sono tenuti:
- agli obblighi di comunicazione e di aggiornamento del
contenuto informativo ai sensi dell'articolo 7 del dlgs n.
39/2010;
- a osservare gli obblighi in materia di formazione
continua;
- al pagamento del contributo annuale di iscrizione
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'edilizia parla una sola lingua. Via al
regolamento tipo: interventi e definizioni standard.
Lo prevede uno schema di accordo della
conferenza unificata governo, regioni e comuni.
Regolamento tipo per l'edilizia. L'armonizzazione degli
strumenti urbanistici riguarda sia le modalità di stesura
del regolamento comunale sia la definizione degli istituti
urbanistici (per esempio superficie, volume, distanze,
verande ecc.).
È l'obiettivo dell'articolo 4 del Testo Unico per l'edilizia
che sta facendo passi avanti con lo schema di decreto di
accordo della conferenza unificata stato-regioni-enti locali
(si veda ItaliaOggi del 30.09.2016).
In generale va detto che i comuni devono avere un loro
regolamento edilizio sulle modalità costruttive e di
gestione del territorio. Il regolamento edilizio è citato
anche nel codice civile in materia per esempio di distanze e
fa parte degli strumenti urbanistici, che definiscono la
regolarità dell'attività edificatoria.
Ora dalla babele dei linguaggi e dei regolamenti
(l'autonomia regolamentare produce frammentazione) si vuole
passare al modello uniforme in tutta Italia. Dappertutto si
parlerà la stessa lingua edilizia e non si potrà avere
significati diversi per medesimi lemmi.
L'armonizzazione dovrà servire anche a raggiungere obiettivi
sostanziali, quali la semplificazione dei procedimenti,
igiene pubblica, estetica, incremento della sostenibilità
ambientale, superamento delle barriere architettoniche e
riqualificazione urbana e recupero aree abbandonate.
Lo schema di accordo della conferenza unificata governo,
regioni e comuni sul regolamento edilizio tipo si propone di
dare seguito a quanto disposto dall'articolo 4, comma
1-sexies, del Testo unico per l'edilizia (Dpr 380/2001).
Questa norma è stata inserita dal decreto legge n. 133/2014
e ha aperto la strada all'adozione di uno schema di
regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e
uniformare le norme e gli adempimenti.
L'accordo in sede di conferenza unificata avrà valenza in
tutta Italia, in quanto è stato dichiarato livello
essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della
concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale.
Il regolamento edilizio-tipo, che indica anche i requisiti
prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla
sicurezza e al risparmio energetico, dovrà essere adottato
dai singoli comuni. La finalità del regolamento-tipo è
l'armonizzazione delle definizioni dei tipi di intervento,
come dei parametri edificatori.
L'uniformità del linguaggio e delle definizioni è
importantissima per scongiurare una confusione semantica,
che diventa incertezza delle posizioni giuridiche. Per
verificare se un certo intervento edilizio sia ammesso o
meno molto spesso, se non sempre, occorre, infatti,
verificare il vocabolario interno dei piani regolatori e
delle norme di attuazione dei singoli enti e magari le
definizioni cambiano da comune a comune, anche se ubicati in
contesti territoriali omogenei. Dalla definizione di
pertinenza o di volume tecnico o di superficie o di altezza,
per esempio, può dipendere il rilascio o meno di un titolo
edilizio.
Il testo uniforme rende più semplice prevedere se un
intervento sia realizzabile oppure no e a trarne beneficio
saranno, in prima battuta, i professionisti chiamati ad
asseverare Scia o a valutare la fattibilità di un permesso
di costruire. Peraltro l'esigenza di uniformità riguarda
anche l'interpretazione e l'attuazione della normativa
edilizia, per le quali lo schema di accordo rinvia a linee
guida di futura adozione.
Il testo unico.
Nel testo unico per l'edilizia (Dpr 380/2001, articolo 4) si
prevede che il regolamento deve contenere la disciplina
delle modalità costruttive, con particolare riguardo al
rispetto delle normative tecnico-estetiche,
igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili
e delle pertinenze degli stessi.
Un contenuto obbligatorio è
quello fissato dal comma 1-ter dell'articolo 4 citato: i
comuni devono adeguare il regolamento prevedendo, che ai
fini del conseguimento del titolo abilitativo edilizio sia
obbligatoriamente prevista, per gli edifici di nuova
costruzione a uso diverso da quello residenziale con
superficie utile superiore a 500 metri quadrati e per i
relativi interventi di ristrutturazione edilizia,
l'installazione di infrastrutture elettriche per la ricarica
dei veicoli idonee a permettere la connessione di una
vettura da ciascuno spazio a parcheggio coperto o scoperto e
da ciascun box per auto, siano essi pertinenziali o no, in
conformità alle disposizioni edilizie di dettaglio fissate
nel regolamento stesso.
Sempre nell'articolo 4, al comma
1-sexies, si trova la base del regolamento edilizio tipo: il
governo, le regioni e le autonomie locali, in attuazione del
principio di leale collaborazione, devono concludere in sede
di conferenza unificata accordi per l'adozione di uno schema
di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e
uniformare le norme e gli adempimenti. Gli accordi
costituiscono livello essenziale delle prestazioni,
concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale.
Le tappe.
Il regolamento tipo dovrà essere approvato dalla conferenza
unificata stato-regioni, poi entro 180 giorni le regioni
devono recepirlo nell'ordinamento regionale e le regioni
dovranno individuare le modalità di attuazione da parte
degli enti locali.
Se la regione non dovesse intervenire, i
comuni devono comunque adeguare i propri regolamenti edilizi
al modello nazionale entro 180 giorni. In sostanza entro un
anno ci dovrebbero essere regolamenti edilizi in tutta
Italia con la medesima struttura e con il medesimo
vocabolario.
Il regolamento tipo.
Nello schema reso noto il regolamento edilizio tipo prevede
due parti: i princìpi generali e le disposizioni
regolamentati comunali. Nei principi generali il comune non
si dovrà dilungare sulla definizione dei parametri
urbanistici ed edilizi, definizione degli interventi edilizi
e delle destinazioni d'uso, procedimenti sui titoli
abilitativi, la modulistica unificata completa di elaborati
da allegare, i requisiti generali delle opere edilizie.
Su
questi aspetti come sulla disciplina dei vincoli
paesaggistici, ambientali, culturali e territoriali basterà
un rinvio alle discipline statali e regionali, che non
richiedono un atto di recepimento nei regolamenti edilizi.
Nella seconda parte i regolamenti dovranno disciplinare le
procedure interne, le norme su qualità, sostenibilità delle
opere, dei cantieri e dell'ambiente urbano e requisiti
tecnici integrativi complementari.
---------------
Invariate le previsioni dimensionali.
L'applicazione del regolamento edilizio uniforme non deve
spostare la cubatura edificabile. L'effetto di invarianza,
per i profili dimensionali, è una scelta obbligata, anche
per rispetto alle autonomie locali nella determinazione
delle scelte di pianificazione urbanistica del territorio.
Nella bozza del provvedimento, l'articolo 2, comma 4,
prevede che il recepimento delle definizioni uniformi
inderogabili nel regolamento edilizio comunale non comporta
la modifica delle previsioni dimensionali degli strumenti
urbanistici vigenti, che continuano a essere regolate dal
piano vigente oppure dal piano adottato alla data di entrata
di sottoscrizione dell'accordo in sede di conferenza
unificata.
La clausola neutralizza eventuali possibili effetti
sostanziali derivanti dalla semplice adozione del
vocabolario unico nazionale. Il solo recepimento delle
definizioni edilizie non può portare effetto di incremento o
decremento delle dimensioni edificabili. Peraltro le scelte
sul se, quanto e cosa edificare non possono essere stabilite
con un provvedimento sull'armonizzazione dei regolamenti, ma
sono appannaggio della strumentazione urbanistica locale e
non della normativa statale che stabilisce regole standard
sulla produzione delle fonti regolamentari edilizie.
Altro discorso è quello degli obiettivi delle disposizioni
regolamentari, una volta approvate. Lo schema indica ai
comuni una serie di obiettivi, tra i quali spicca quello
della semplificazione dei procedimenti, per il profilo
burocratico, e quello della sostenibilità ambientale ed
energetica, per i profili di tutela del territorio.
Particolare enfasi è attribuita, poi, alla sicurezza
pubblica e al recupero urbano delle aree dismesse e degli
edifici abbandonati
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016). |
TRIBUTI: Sugli
orti esenzione Imu limitata. A
coltivatori diretti e imprenditori professionali (iap).
L'esenzione da imposta municipale (Imu) per i terreni
incolti e per gli orti resta limitata ai coltivatori diretti
(Cd) e agli imprenditori professionali (Iap).
Ne consegue che i soggetti diversi possono beneficiare di
un'eventuale esenzione dall'applicazione del tributo
soltanto se i terreni posseduti risultino inseriti nei
comuni esentati e individuati dalla datata circolare 9/1993.
Così, in risposta al quesito proposto dall'on. Fragomeli (Interrogazione
a risposta immediata in commissione 5-09691 del 05.10.2016), il
viceministro dell'economia e delle finanze, on. Casero, è
intervenuto sul tema dell'esenzione da imposta municipale (Imu)
per i terreni agricoli, dopo la recente risposta al question-time dello scorso 4 maggio e dopo le novità introdotte dalla
legge 208/2015.
Il problema si era posto giacché, dopo l'intervento della
legge di Stabilità 2016 (comma 13, art. 1, legge 208/2015),
è stata introdotta l'esenzione dal pagamento del detto
tributo, ai sensi della lett. h), comma 1, art. 7, dlgs
504/1992, tenendo conto dei criteri indicati dalla
circolare 14/06/1993 n. 9 e a decorrere dal 1° gennaio
scorso, a favore di coltivatori diretti (Cd) e imprenditori
agricoli professionali (Iap), iscritti nella previdenza
agricola, per i terreni collocati nelle isole minori e per
quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a
proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
Tale
situazione, per gli interroganti, ha creato una
discriminazione tra i contribuenti, in quanto prescinde
dalla relativa coltivazione ma non risulta applicabile a chi
coltiva il fondo per solo diletto e non può acquisire le
dette qualifiche (Cd o Iap), anche se la giurisprudenza di
legittimità ha parlato soltanto di esercizio delle attività
agricole, di cui all'art. 2135 c.c. (Cassazione, sentenza
7369/2012).
Purtroppo, salvo le eventuali esenzioni indicate dalla
circolare richiamata, non risulta legalmente possibile
estendere l'esenzione per la coltivazione degli orticelli
alla generalità dei proprietari, dovendo l'applicazione
restare limitata a determinati destinatari e a particolari
situazioni, anche perché la Suprema Corte ha affermato che,
in linea di principio, qualsiasi terreno è potenzialmente
suscettibile di sfruttamento agricolo
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità
erariale solo sui dirigenti.
La riforma della dirigenza cancella la responsabilità
erariale degli organi politici.
Lo schema di decreto legislativo attuativo della legge
124/2015
(Atto
del Governo n. 328 - Schema di decreto
legislativo recante disciplina della dirigenza della
Repubblica)
esaspera la cosiddetta «esimente politica»,
addossando in via esclusiva la responsabilità erariale sulla
dirigenza pubblica, aggiungendo alla sua precarizzazione
estrema e conseguente soggezione alla politica, anche quella
di «scudo» contro scelte dannose per le finanze pubbliche.
Andando oltre le indicazioni della legge delega, lo schema
di decreto non si limita a precisare la responsabilità
esclusiva dei dirigenti per gli atti di loro competenza,
situazione del resto esistente anche nell'attuale regime
normativo. Al contrario, mira ad escludere del tutto il
coinvolgimento degli organi politici. Il decreto opera
modificando gli articoli 16 e 17 del dlgs 165/2001.
Il primo
regola le funzioni dei dirigenti di massimo vertice: in
questo caso, ci si limita a precisare l'esclusività della
responsabilità erariale. L'articolo 17 è, invece, dedicato
ai dirigenti chiamati alla gestione operativa, dove più
evidente e diretta è proprio l'utilizzazione delle risorse
pubbliche. In questo caso, si aggiunge una nuova lettera e-ter) che stabilisce che i dirigenti «sono titolari in via
esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per
l'attività gestionale, ancorché derivante da atti di
indirizzo dell'organo di vertice politico».
La norma
frappone una barriera insormontabile alla responsabilità
erariale degli organi di governo: infatti, interrompe la
sequenza causa-effetto del danno, sicché anche se questo
discenda da un provvedimento attuativo di indirizzi
amministrativi evidentemente mal congegnati, comunque ne
risponderà contabilmente solo il dirigente. La norma,
insomma, sembra intendere che i dirigenti debbano mettere
necessariamente nel conto l'attuazione del rischio di
sobbarcarsi la responsabilità erariale per aver attivato gli
indirizzi previsti dalla politica.
Si può osservare, in
proposito, che compito della dirigenza è comunque attuare
gli indirizzi nel rispetto delle norme e, dunque, anche di
quelle contabili. Ma, nella prassi, gli indirizzi o
direttive della politica invadono il campo della gestione,
sottraendole la scelta del modo con cui tradurre in atti gli
indirizzi stessi. Laddove un dirigente, dunque, intendesse
attuare l'indirizzo politico in modo difforme da quello
indicato, il contrasto sarebbe inevitabile e certamente come
minimo il rapporto dirigente- politica diverrebbe molto
teso.
Con l'attualizzarsi del pericolo per il dirigente di
non poter aspirare al rinnovo biennale dell'incarico o,
comunque, a riottenere l'incarico anche a seguito di
interpello. Non basta. L'articolo 21, comma 1, del dlgs
165/2001, per questa parte non modificato, prevede
espressamente la responsabilità dei dirigenti per «inosservanza
delle direttive», dalla quale possono derivare sanzioni
di gravità crescente: dall'impossibilità del rinnovo
dell'incarico, alla revoca anticipata, al licenziamento.
È evidente che in questo modo i dirigenti, stretti nella
morsa da un lato della responsabilità erariale che fa da «scudo»
alla politica e, dall'altro, dalle pesanti conseguenze
derivanti dalla violazione delle direttive, potranno essere
portati ad accettare il rischio della condanna da parte
della magistratura contabile, pur di non perdere chance di
rinnovo dell'incarico e, soprattutto, di non essere «segnati»
come dirigenti non disposti a «coprire» le
responsabilità politiche
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2016). |
ENTI LOCALI: Partecipate,
ricognizione al via. Il consiglio ha sei mesi di tempo per
approvare la delibera. L'Anci ha
predisposto un manuale operativo per gli enti alle prese con
le scadenze del T.u..
Con l'entrata in vigore il 23 settembre scorso del Testo
unico in materia di partecipate (dlgs 175/2016) attuativo
della riforma Madia, è iniziata a decorrere la tabella di
marcia delle scadenze che gli enti locali e le società
dovranno rispettare per adeguarsi al decreto.
Entro il
23.03.2017 (sei mesi dall'entrata in vigore) dovrà essere
approvata la delibera consiliare di revisione straordinaria
delle partecipazioni detenute dagli enti locali.
Adempimento, questo, obbligatorio anche in assenza di
partecipazioni. A ricordarlo è l'Anci che proprio in vista
dell'entrata in vigore del T.u. ha predisposto un manuale
operativo, integralmente scaricabile sul sito internet
www.anci.it, al fine di offrire ai comuni un primo quadro di
analisi e orientamento.
Nel testo del manuale, oltre alle
note di lettura delle singole disposizioni del
provvedimento, tutti i soggetti interessati possono trovare
un pratico scadenzario dei vari adempimenti a carico dei
comuni e degli amministratori delle società partecipate
nonché un facsimile di deliberazione del consiglio comunale
(che ItaliaOggi pubblica integralmente in queste pagine a
beneficio dei comuni) per il piano di razionalizzazione
previsto dall'articolo 24 del dlgs.
L'alienazione delle partecipazioni non in regola con il T.u.
dovrà essere completata entro il 23.03.2018 (un anno
dall'approvazione della delibera di revisione
straordinaria), mentre a decorrere dal 2018 scatterà la
razionalizzazione periodica che gli enti dovranno compiere
con cadenza annuale.
Molti gli adempimenti anche a carico delle società. Entro il
23.03.2017 le società dovranno adeguarsi alle disposizioni
del Testo unico e in particolare a quelle concernenti: il
divieto dei dipendenti dell'ente controllante di essere
amministratori e la onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti delle società controllanti che siano anche
amministratori delle controllate.
Sempre entro il 23.03.2017 dovrà essere completata la
ricognizione del personale in servizio per individuare
eventuali eccedenze. L'elenco del personale in eccesso dovrà
essere trasmesso alle regioni a cui spetterà gestire le
procedure di mobilità
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2016). |
PATRIMONIO: Opere
mini-enti, piano nazionale. Il Cipe finanzierà i progetti
per la banda ultralarga. Gli
interventi devono essere programmati ogni tre anni e
selezionati con bandi pubblici.
Piano per i piccoli comuni finanziato con 100 milioni di
euro dal 2017 al 2023, con una dotazione di 10 milioni il
primo anno e di 15 milioni negli anni successivi; obiettivo:
la manutenzione del territorio, la messa in sicurezza e la
riqualificazione delle infrastrutture e degli edifici
pubblici, l'efficienza energetica delle fonti rinnovabili,
il recupero dei centri storici e dei beni culturali,
storici, e artistici.
È quanto prevede il disegno di legge per il sostegno e la
valorizzazione dei comuni fino a cinquemila abitanti e per
il recupero e la riqualificazione dei centri urbani
approvato il 28 settembre, all'unanimità (438 voti
favorevoli), dall'aula della camera e adesso passato al
Senato (Atto
Senato n. 2541 - Misure per il sostegno e la
valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per
la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei
medesimi comuni).
Il disegno di legge in primo luogo si pone l'obiettivo di
promuovere nei piccoli comuni l'efficienza e la qualità dei
servizi essenziali, con particolare riferimento
all'ambiente, alla protezione civile, all'istruzione, alla
sanità, ai servizi socio-assistenziali, ai trasporti, alla
viabilità, ai servizi postali nonché al ripopolamento dei
comuni anche attraverso progetti sperimentali di
incentivazione della residenzialità.
Per realizzare queste finalità si prevede l'istituzione di
un fondo presso il ministero dell'interno con una dotazione
di 10 milioni di euro per l'anno 2017 e di 15 milioni di
euro per ciascuno degli anni dal 2018 al 2023; un totale di
100 milioni.
Queste risorse dovranno servire a realizzare gli interventi
programmati in un piano nazionale, da aggiornare ogni tre
anni, per la riqualificazione dei piccoli comuni, destinato,
fra le altre cose, alla manutenzione del territorio, alla
messa in sicurezza e riqualificazione delle infrastrutture
stradali e degli edifici pubblici, all'acquisizione e
riqualificazione di terreni e di edifici in stato di
abbandono o di degrado.
I progetti presentati dai comuni saranno selezionati con
bandi pubblici che dovranno anche indicare i tempi di
realizzazione, le modalità di coinvolgimento dei
finanziamenti pubblici e privati, i livelli di miglioramento
della dotazione infrastrutturale secondo criteri di
sostenibilità ambientali.
I piccoli comuni potranno inoltre individuare, all'interno
del perimetro dei centri storici, zone di particolare
pregio, dal punto di vista della tutela dei beni
architettonici e culturali, nelle quali realizzare
interventi integrati pubblici e privati finalizzati alla
riqualificazione urbana, nel rispetto delle tipologie
costruttive e delle strutture originari. Una particolare
attenzione viene anche riservata ai borghi antichi o ai
centri storici abbandonati o parzialmente spopolati: in
questi casi i comuni potranno promuovere la realizzazione di
alberghi diffusi, come definiti ai sensi delle disposizioni
emanate dalle regioni e dalle province autonome.
Sono inoltre previste misure per il contrasto dell'abbandono
di immobili nei piccoli comuni, «anche allo scopo di
prevenire crolli o situazioni di pericolo» e di terreni, al
fine di evitare fenomeni di dissesti idrogeologici.
Altro capitolo è quello del recupero delle stazioni
ferroviarie disabilitate o case cantoniere della società
Anas spa, al valore economico definito dai competenti uffici
dell'Agenzia del territorio, ovvero stipulare intese
finalizzate al loro recupero, per destinarle, anche
attraverso la concessione in comodato a favore di
organizzazioni di volontariato, a presìdi di protezione
civile e salvaguardia del territorio ovvero a sedi di
promozione dei prodotti tipici locali.
Previsti anche progetti informatici per la banda ultralarga
nei comuni nei quali gli operatori non hanno interesse a
intervenire: in questo caso vi saranno apposite risorse Cipe
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2016). |
APPALTI: P.a.,
trattativa diretta per gli acquisti online. La piattaforma
Mepa ora ammette anche questa procedura.
Al via la piattaforma Mepa (Mercato elettronico della P.a.)
per gli affidamenti diretti rivolti a un unico operatore
economico.
Nell'ambito del Mepa è stata ammessa la possibilità di
utilizzare una nuova procedura per l'affidamento di
contratti pubblici denominata «trattativa diretta». Il
mercato digitale della P.a. è per acquisti sotto la soglia
comunitaria, di tipo selettivo, in cui i fornitori che hanno
ottenuto l'abilitazione offrono i propri beni e servizi
direttamente online; i compratori registrati (le pubbliche
amministrazioni) possono consultare il catalogo delle
offerte ed emettere direttamente ordini d'acquisto o
richieste d'offerta.
In sostanza, tramite il Mepa si possono effettuare acquisti
di beni e servizi sotto soglia in applicazione delle
procedure di acquisto in economia o di cottimo fiduciario e,
adesso, anche affidamenti diretti realizzabili mediante
«ordine diretto» oppure «richiesta di offerta» (Rdo) con un
unico fornitore. Il Mepa consente anche di procedere
all'affidamento sotto soglia attraverso un confronto
concorrenziale delle offerte, realizzabili mediante Rdo
rivolta ai fornitori abilitati.
Fino a qualche giorno fa era possibile procedere con le
modalità «ordine diretto» e «richiesta di offerta», ma dal 4
ottobre gli utenti delle pubbliche amministrazioni potranno
selezionare nel carrello degli acquisti la modalità
«trattativa diretta».
Sul portale degli acquisti della pubblica amministrazione
www.acquistinretepa.it si precisa che «la trattativa diretta si
configura come una modalità di negoziazione, semplificata
rispetto alla tradizionale Rdo, rivolta a un unico operatore
economico».
La trattativa diretta può essere avviata da un'offerta a
catalogo o da un oggetto generico di fornitura (metaprodotto)
presente nella vetrina della specifica iniziativa
merceologica. Non dovendo garantire una pluralità di
partecipazione, la trattativa diretta non ne presenta le
tipiche richieste informative (criterio di aggiudicazione,
parametri di peso-punteggio, invito dei fornitori, gestione
dei chiarimenti, gestione delle buste di offerta, fasi di
aggiudicazione).
Viene indirizzata a un unico fornitore, e
risponde a due precise fattispecie normative, cioè
l'articolo 36, comma 2, lett. a, per l'affidamento diretto,
con procedura negoziata e l'articolo 63 per la procedura
negoziata senza previa pubblicazione del bando, con un solo
operatore economico con riguardo ai contratti di importo
fino al limite della soglia comunitaria nel caso di beni e
servizi, per importi fino a un milione di euro nel caso di
lavori di manutenzione.
Gli oggetti di fornitura richiesti possono appartenere anche
a bandi diversi, ma in questo caso il fornitore dovrà essere
abilitato a tutti i bandi oggetto della trattativa per poter
sottomettere la propria offerta. Come per la richiesta di
offerta, anche nella trattativa diretta le operazioni di
trasmissione della richiesta, di risposta del fornitore e
dell'eventuale formalizzazione del contratto, andranno
effettuate a sistema, secondo le consuete modalità di
formalizzazione (caricamento a sistema dei documenti firmati
digitalmente).
Il portale mette inoltre a disposizione un manuale d'uso del
sistema di e-procurement per le amministrazioni,
aggiornato al 23.09.2016, intitolato Guida alla
predisposizione della trattativa diretta
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2016). |
APPALTI SERVIZI: Motivazione
rafforzata per gli affidamenti in house.
Con l'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti (dlgs
50/2016), l'Italia si è adeguata alle direttive europee 23,
24 e 25 del 2014 in materia di affidamenti in house
providing. In particolare, l'articolo 5 del dlgs 50/2016
disciplina i requisiti che dovrebbero avere i soggetti
affidatari diretti di servizi e fornisce la definizione di
controllo analogo.
Le caratteristiche degli affidamenti in house sono invece
trattate dall'art. 192 del nuovo codice che, riguardo agli
affidamenti diretti di servizi in regime di concorrenza a
propri organismi controllati, prevede espressamente
l'obbligo di effettuare una valutazione preventiva in ordine
alla congruità dell'offerta economica dei soggetti in house,
avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione.
In
pratica, l'ente pubblico è tenuto a definire preventivamente
il livello qualitativo e quantitativo del servizio da
affidare e ad effettuare una comparazione tra le varie forme
di gestione: con gara, in house o con società mista e gara a
doppio oggetto. L'art. 192, inoltre, prosegue imponendo una
motivazione rafforzata nell'atto di affidamento diretto in
house. Devono essere infatti esplicitate le ragioni del
mancato ricorso al mercato e indicati i benefici per la
collettività, anche con riferimento agli obiettivi di
universalità, socialità, efficienza, economicità, qualità
del servizio e ottimale impiego delle risorse pubbliche.
Le
conseguenze immediate di tali disposizioni sono che le p.a.
dovranno valutare non solo la correttezza degli affidamenti
in house dal punto di vista giuridico, ma anche dal punto di
vista sostanziale, indicando puntualmente, attraverso una
specifica attività istruttoria, come la propria società
possa fornire il servizio oggetto di affidamento diretto a
condizioni economiche e qualitative migliori rispetto al
mercato.
Recentemente anche il Consiglio di stato, con la sentenza
1900 del 12.05.2016, si è espresso in maniera piuttosto
netta a proposito dell'obbligo di motivare in maniera
adeguata le ragioni di fatto e di diritto che giustifichino
la convenienza di affidare un servizio ad un società in
house.
Con la citata sentenza, infatti la sezione V richiama
l'art. 34, comma 20, del dl 179/2012 che, ribadendo il
principio di trasparenza e democraticità delle decisioni
pubbliche, impone un dettagliato e aggravato onere
motivazionale, subordinando la legittimità della scelta
della concreta modalità di gestione di un servizio pubblico
locale alla redazione di un'apposita relazione, contenente
valutazioni di tipo concreto, riscontrabile, controllabile,
intellegibile e pregnante sui profili di convenienza, non
solo economica, della gestione prescelta.
In definitiva, in assenza di un'istruttoria completa ed
approfondita e in mancanza di una effettiva valutazione di
tutte le possibili forme gestionali, secondo il Consiglio di
stato gli affidamenti diretti in house providing sono
illegittimi
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Fascicolo
incostituzionale. Impone ai privati oneri sproporzionati.
Norma sul registro di fabbricato in Puglia impugnata dal
governo.
«Gli obblighi di stesura e aggiornamento del fascicolo del
fabbricato comportano il ricorso a una pluralità di
professionisti (geometri, architetti, ingegneri, geologi)
abilitati. Tale onere viene imposto indistintamente a tutti
i proprietari, con violazione del principio di eguaglianza
di cui all'art. 3 Cost.
Le norme regionali impongono ai
privati oneri superflui e comunque sproporzionati ed
eccessivamente gravosi, ponendosi dunque in contrasto con
l'art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di
ragionevolezza, e con l'art. 42, co. 2, Cost. in quanto
comporta limiti alla proprietà privata che non appaiono
necessari ad assicurarne la funzione sociale.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 315/2003,
giudicando su analoghe norme della regione Campania, ha
osservato che «la previsione di siffatto obbligo e dei
conseguenti oneri economici deve essere compatibile con il
principio di ragionevolezza e proporzionalità e che le
relative modalità di attuazione debbono essere adeguate allo
scopo perseguito dal legislatore».
Queste circostanze hanno
condotto a giudicare le norme censurate lesive dell'art. 3
Cost., sotto il profilo del generale canone di
ragionevolezza, e dell'art. 97 Cost., in relazione al
principio di efficienza e buon andamento della Pubblica
Amministrazione.
Inoltre, la Corte Costituzionale ha
ricordato, con la sentenza n. 312 del 2010, che la normativa
sul «registro del fabbricato» è stata giudicata
incostituzionale quando si è ritenuto che «le specifiche
modalità di predisposizione e tenuta del registro fossero
contrarie al generale canone di ragionevolezza, a cagione
della eccessiva gravosità degli obblighi imposti ai
proprietari e dei conseguenti oneri economici, nonché al
principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione,
data la ritenuta intima contraddittorietà della imposta
necessità di richiedere ad una pluralità di tecnici privati
informazioni già in possesso delle competenti
amministrazioni».
«La complessità e vastità delle
attestazioni richieste rispondono a finalità di vigilanza e
controllo che non solo appartengono alla tipica
responsabilità pubblica, ma sono connesse ad interessi della
collettività non immediatamente riferibili alla
responsabilità dei proprietari. Le disposizioni censurate si
pongono in contrasto con gli articoli 3 e 97 Cost.,
imponendo la duplicazione di accertamenti e la conservazione
di informazioni e documenti già ricadenti nei compiti
affidati alla Pubblica Amministrazione, oltre a violare i
principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui agli stessi
articoli 3, 97 Cost., l'art. 42 Cost., in quanto comportano
limiti alla proprietà privata che non appaiono necessari ad
assicurarne la funzione sociale».
Corte costituzionale.
«Se nessun dubbio può sussistere riguardo alla doverosità
della tutela della pubblica e privata incolumità, che
rappresenta lo scopo dichiarato della legge, e al
conseguente obbligo di collaborazione che per la
realizzazione di tale finalità può essere imposto ai
proprietari degli edifici, non è, neppure, contestabile che
la previsione di siffatto obbligo e dei conseguenti oneri
economici deve essere compatibile con il principio di
ragionevolezza e proporzionalità e che le relative modalità
di attuazione debbono essere adeguate allo scopo perseguito
dal legislatore».
«Una parte considerevole delle
informazioni richieste al tecnico sono già in possesso delle
amministrazioni comunali nel cui territorio ciascun
fabbricato è ubicato (si pensi ai dati relativi alla
situazione progettuale, urbanistica, edilizia, catastale,
strutturale di immobili costruiti o ristrutturati nel
rispetto delle norme urbanistiche pro tempore vigenti,
previo rilascio dei necessari provvedimenti autorizzatori o
concessori), ed alcune di esse (quelle, ad esempio,
riguardanti la esistenza di vincoli o relative alla
storicità del fabbricato dalla realizzazione all'attualità)
non possono ritenersi strettamente connesse allo scopo
perseguito dal legislatore e sono tali da risultare (specie
per gli edifici di epoca risalente) di difficile
acquisizione».
Tar Lazio.
«La legge non ammette interventi ed opere generalizzate
sugli edifici di qualunque genere, età e condizione, sicché
gli accertamenti, al fine d'evitare oneri eccessivi e senza
riguardo al loro peso sulle condizioni economiche dei
proprietari, devono esser suggeriti solo in caso d'evidente,
indifferibile ed inevitabile necessità, se del caso con
graduazione dei rimedi da realizzare».
«Non si tratta di
pervenire, anche attraverso la collaborazione dei cittadini,
a completare quei soli aspetti di peculiare o particolare
conoscenza, relativa a singole unità abitative, che la fitta
trama pianificatoria talvolta non può acquisire». Vi è,
piuttosto, «l'illegittimo tentativo di scaricare gli oneri
di tal conoscenza sui privati». E non serve a evitare i
crolli: nei casi di specie, mancò non il fascicolo di
fabbricato, ma il controllo pubblico
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., giusto abolire la vicedirigenza.
La consulta salva la legge monti.
La Consulta sancisce la legittimità
costituzionale dell'abolizione della vice dirigenza
nell'ambito del lavoro pubblico.
Mentre fervono i lavori per la sofferta riforma della
dirigenza avviata dalla legge 124/2015 e dallo schema di
decreto attuativo attualmente all'esame del Parlamento (Atto
del Governo n. 328 - Schema di decreto
legislativo recante disciplina della dirigenza della
Repubblica),
riaffiorano strascichi della spending review di Monti, che
aveva detto stop, appunto, alla vicedirigenza, trovando,
ora, nella sentenza della Corte costituzionale 03.10.2016, n. 214 il conforto della legittimità della scelta a
suo tempo operata.
I ricorrenti avevano contestato la
legittimità costituzionale dell'articolo 5, comma 13, del
d.l. 95/2012, convertito in legge 135/2012, che ha abrogato
l'articolo 17-bis del dlgs 165/2001. Tale norma prevedeva
che la contrattazione collettiva del comparto ministeri
istituisse una specifica separata area della vicedirigenza
nella quale sarebbe stato ricompreso il personale laureato
appartenente alle posizioni di funzionario di vertice, con
cinque anni di anzianità in tali posizioni.
In effetti, tale
norma non ha mai visto la luce, perché la contrattazione
collettiva di fatto non è mai partita per l'assenza degli
atti di indirizzo all'Aran da parte del ministro della
funzione pubblica, necessari anche per determinare l'importo
massimo delle risorse finanziarie da destinare. Proprio
l'assenza degli atti di indirizzo ha scatenato nel 2006
l'iniziativa di 372 funzionari, dipendenti
dell'amministrazione della giustizia, che hanno diffidato
presidenza del consiglio dei ministri, ministero
dell'economia e delle finanze e dipartimento della funzione
pubblica ad attivare la contrattazione.
A fronte della
perdurante inerzia è partita una complessa sequenza di
iniziative giurisdizionali contro il silenzio delle
amministrazioni competenti, passata per una serie di ricorsi
al Tar Lazio che ordinò la nomina di un commissario ad acta
per provvedere all'atto di indirizzo al posto del governo.
Ma, pochi mesi dopo, proprio nel 2012 la spending review di
Monti bloccò tutto, con l'eliminazione della vice dirigenza.
I funzionari hanno proseguito nella loro contestazione che,
attraverso il Tar Lazio, è arrivata sul tavolo della
Consulta. La Corte non è rimasta convinta della violazione
della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che a dire
del giudice remittente si sarebbe potuta determinare.
In
realtà, le ragioni superiori di contenimento della spesa
pubblica alla base del d.l. 95/2012 escludono che il
legislatore abbia inteso abolire la vice dirigenza come
norma mirata a depauperare i funzionari di un diritto
acquisito, soprattutto considerando che l'abolizione
dell'articolo 17-bis del dlgs 165/2001 non si era limitata
ad incidere la sfera giuridica dei 372 iniziali ricorrenti,
ma ha coinvolto l'intera sfera della pubblica
amministrazione.
Le superiori ragioni di razionalizzazione
della spesa pubblica costituiscono, secondo la Corte, la
base per la tenuta costituzionale della legge-Monti (articolo ItaliaOggi del 04.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Edifici
pubblici, vincolati gli immobili «over 70». Il ministero: no
alla norma che riporta la soglia a 50 anni.
Interesse storico-artistico. Passo indietro dopo il parere
relativo al Codice appalti.
Tra le novità del
Codice degli appalti è compresa una misura che riporta a 50
anni la soglia per considerare vincolato un bene immobile
pubblico (anche in assenza di puntuale provvedimento di
vincolo).
Entrato in vigore il 16 aprile scorso, il Dlgs 50/2016 ha
infatti abrogato l’articolo 4 del decreto Sviluppo (Dl
70/2011), incluso il comma 16: quello cioè che aveva
innalzato a 70 anni tale soglia.
La disciplina pre e post-2011
Prima dell’arrivo del decreto Sviluppo, il Codice dei beni
culturali (Dlgs 42/2004) prevedeva per gli immobili di
proprietà di soggetti pubblici (o di privati senza scopo di
lucro) una presunzione di vincolo culturale –con la
conseguente applicazione della tutela propria del demanio
culturale– per il solo fatto di essere stato ultimato da più
di 50 anni (ed essere opera di autore non più vivente).
Il decreto legge 70/2011 ha dunque poi elevato questo
limite, prevedendo che gli immobili pubblici debbano
considerarsi vincolati solo se ultrasettantennali, e
restringendo così di fatto il novero dei beni immobili da
considerarsi culturali. Questa indicazione è stata ora
“cancellata” dal nuovo Codice appalti.
Le conseguenze del vincolo
Per comprendere l’impatto della modifica, occorre
evidenziare le principali conseguenze della presunzione di
culturalità:
- la prima è l’impossibilità di alienazione dell’immobile
prima della procedura di verifica della sussistenza o meno
di un interesse culturale. Procedura che, a sua volta, può
avere due possibili esiti: il riconoscimento di un valore
culturale e dunque l’apposizione di un vincolo espresso
sull’immobile, o la dichiarazione che tale interesse
culturale non sussiste;
- la seconda conseguenza è la necessità di ottenere il
preventivo parere positivo del ministero dei Beni culturali,
prima di avviare qualsiasi intervento edilizio
sull’edificio.
Le regole 2016 e i dubbi
Dopo l’abrogazione del limite di 70 anni da parte
dell’articolo 217, comma 1, lettera v), del nuovo Codice
degli appalti, si è aperto però un problema interpretativo.
Cosa accade in pratica? Si ritornano a considerare vincolati
gli immobili con oltre 50 anni, quindi –per il 2016– tutti
quelli realizzati prima del 1966? Oppure solo gli immobili
realizzati prima del 1946?
L’ufficio legislativo del ministero dei Beni culturali
(parere del 3 agosto 2016) ritiene che non ci sia alcun
effetto abrogativo, e soprattutto alcuna reviviscenza della
normativa precedente. Quindi, secondo il ministero, nessuna
presunzione per gli immobili costruiti nell’arco temporale
1946-1966: la presunzione di culturalità si ha solo per gli
immobili pubblici ultrasettantennali.
La ricostruzione contenuta nel parere ministeriale ha il
pregevole intento di “confinare” le modifiche introdotte dal
nuovo Codice degli appalti allo stretto ambito di
applicazione. Tuttavia, come ogni tesi “esegetica”, potrebbe
essere smentita da una tesi opposta che dovesse emergere
anche tra qualche anno non solo in dottrina, ma al termine
di eventuali contenziosi.
Cessioni e interventi
In tal senso, una differente interpretazione avrebbe
rilevanti effetti pratici. Perché l’alienazione di beni che
si presumono culturali, effettuata senza seguire le
procedure previste dalla legge, comporta la nullità
dell’atto di trasferimento.
L’esecuzione di lavori su questi immobili, avviata senza la
preventiva autorizzazione, implica invece delle sanzioni,
anche penali. Nell’ipotesi di interventi privi di
autorizzazione (ovvero in caso di interventi diversi da
quelli autorizzati), l’articolo 160 del Codice dei beni
culturali stabilisce l’obbligo, a carico del trasgressore,
di eseguire le opere necessarie a reintegrare il danno
arrecato al bene culturale.
Se la reintegrazione non è possibile, «il responsabile è
tenuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore
della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla
cosa».
Quanto alle sanzioni penali, viene punito con l’arresto da
sei mesi a un anno, e con l’ammenda da 775 a 38.734,50 euro,
chiunque senza autorizzazione demolisce, rimuove, modifica,
restaura ovvero esegue opere di qualunque genere sui beni
culturali.
Il chiarimento necessario
In questo quadro è facile comprendere come l’adesione
all’una o all’altra tesi interpretativa, circa gli effetti
delle abrogazioni introdotte dal nuovo Codice degli appalti,
abbia dunque rilevanti ricadute pratiche.
In ragione di tali effetti, e dell’esigenza di avere delle
certezze in un ambito così delicato, potrebbe essere utile
un ulteriore intervento chiarificatore da parte del
legislatore.
---------------
Per gli stabili privati procedura
avviata dal soprintendente. L’altro fronte. Limiti all’uso e
alla circolazione.
Gli immobili di
proprietà privata sono considerati beni culturali quando
interviene un espresso provvedimento di vincolo. Mentre
fanno eccezione quelli di proprietà di soggetti pubblici
privatizzati, opera di autore non più vivente e realizzati
da oltre 70, ovvero 50 anni (si veda l’altro articolo), per
i quali vale la presunzione di culturalità.
Il procedimento di vincolo è avviato dal soprintendente, ma
la dichiarazione di interesse culturale è adottata dal
ministero. Questa viene notificata al proprietario (al
possessore o al detentore) ed è trascritta, su richiesta del
soprintendente, nei relativi registri, con conseguente
efficacia nei confronti di terzi. A riguardo, la
giurisprudenza ha ritenuto che un errore di trascrizione del
provvedimento non determini il venir meno dell’opponibilità
del vincolo, in presenza di elementi idonei a evidenziare la
sussistenza della dichiarazione di un interesse
particolarmente importante del bene (Consiglio di Stato,
sentenza 4569 del 22.09.2008).
Il provvedimento che dichiara l’interesse culturale
introduce alcuni importanti limiti all’uso e alla
circolazione dell’immobile. In primo luogo, il bene
vincolato è soggetto –in caso di alienazione o conferimento
in società– al diritto di prelazione (riferita al contratto
definitivo che va denunciato). Il ministero ha 60 giorni di
tempo per esercitare la prelazione (ovvero 180 giorni dalla
ricezione di denuncia tardiva o dall’acquisizione di tutti
gli elementi costitutivi della stessa, in caso di omessa o
incompleta denuncia): durante questo periodo il contratto è
sottoposto alla condizione sospensiva del mancato esercizio
del diritto di prelazione.
In pendenza del termine per l’esercizio della prelazione,
all’alienante è vietato effettuare la consegna della cosa
(prescrizione sanzionata anche a livello penale
dall’articolo 173 del Codice dei beni culturali, Dlgs
42/2004). Inoltre, le clausole del contratto di alienazione
(con l’eccezione del prezzo) non impegnano lo Stato.
Altri limiti riguardano l’utilizzo e, in particolare,
l’esecuzione di opere sull’edificio. A tal fine è
obbligatoria –per interventi di qualsiasi natura– la
preventiva autorizzazione che deve (dovrebbe) intervenire
nel termine (ordinatorio) di 120 giorni dalla richiesta. Per
realizzare i lavori è quindi necessario sia il titolo
abilitativo comunale sia l’autorizzazione della
soprintendenza.
In linea di principio, non è esclusa la possibilità di
un’autorizzazione tardiva della Soprintendenza. Tale
circostanza, tuttavia, se può sanare l’intervento a livello
edilizio, non fa venir meno il reato previsto dall’articolo
169 del Codice dei beni culturali. Infatti, come affermato
dalla Cassazione (sentenza 46082/2008), «in tema di
tutela penale del patrimonio archeologico, storico o
artistico nazionale, né l’accertamento postumo di
compatibilità con il vincolo culturale rilasciato dalla
Soprintendenza né l’autorizzazione in sanatoria rilasciata
dall’Autorità preposta esplicano effetto estintivo ovvero
escludono la punibilità del reato d’abusivo intervento su
beni culturali»
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Società,
dal sindaco i tagli dei costi. Con la riforma i Comuni
devono fissare gli obblighi sul contenimento di spese e
personale.
Partecipate. Le aziende che non pubblicano gli atti di
indirizzo rischiano di vedersi bloccati i pagamenti non
legati ai contratti di servizio.
Gli enti locali
devono definire gli indirizzi per il contenimento delle
spese di funzionamento delle società a controllo pubblico,
che sono chiamate a loro volta a rimodulare regole e
dinamiche per la gestione delle risorse umane.
Il Testo unico sulle partecipate disciplina numerosi
interventi obbligatori che comportano l’attivazione in tempi
rapidi di processi organizzativi.
L’approccio strategico è definito dall’articolo 19, comma 5,
del decreto legislativo 175/2016, nel quale si stabilisce
che le amministrazioni socie fissano, con propri
provvedimenti, obiettivi specifici, con proiezioni annuali e
pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento
delle società. Questi provvedimenti devono a loro volta
essere pubblicati sul sito delle società, che altrimenti
rischiano di incorrere in pesanti sanzioni a partire dal
blocco dei pagamenti da parte dell’ente (con l’eccezione di
quelli dovuti per i contratti di servizio), mentre i
dirigenti responsabili possono vedersi tagliare le voci
accessorie del personale e comminare una sanzione
amministrativa fino a 10mila euro.
In questi atti di indirizzo gli enti devono focalizzare
l’attenzione in particolare sulle spese per il personale,
potendo prevedere il contenimento degli oneri contrattuali e
delle assunzioni, dovendo tenere in considerazione sia i
limiti stabiliti dalla normativa vigente per il reclutamento
del personale nelle amministrazioni pubbliche sia i vincoli
definiti dall’articolo 25 dello stesso decreto: in
particolare, occorre focalizzarsi sull’utilizzo obbligatorio
della mobilità per i lavoratori individuati in esubero e sul
correlato blocco delle assunzioni a tempo indeterminato fino
al 30.06.2018.
I provvedimenti degli enti partecipanti si configurano come
il quadro di riferimento necessario per le società. Le
aziende controllate devono infatti garantire il concreto
perseguimento degli obiettivi fissati dai soci, recependo le
indicazioni per le dinamiche organizzative in propri atti di
natura regolamentare e quelle per il contenimento delle
spese di personale all’interno della contrattazione di
secondo livello.
L’elaborazione degli obiettivi relativi alle spese di
funzionamento deve essere realizzata dalle amministrazioni
sulla base di un’analisi accurata delle prospettive
industriali di ogni società e dei servizi a essa affidati;
la valutazione deve tenere conto della complessità delle
attività svolte dalla società e del contesto in cui
l’azienda opera.
Ad esempio, nel caso di una società affidataria del servizio
di gestione del ciclo dei rifiuti in un’area a forte
vocazione turistica stagionale, gli indirizzi relativi al
reclutamento di personale dovranno essere articolati tenendo
conto dei picchi di presenze e delle conseguenti necessità
di assunzioni di personale con contratti a tempo
determinato.
I provvedimenti regolativi adottati dalle amministrazioni
possono essere configurati anche come strumenti di
sollecitazione per la verifica dei processi di
riorganizzazione in corso, soprattutto quando prevedano
procedure di mobilità, realizzabili solo se avviate prima
dell’entrata in vigore del decreto legislativo 175/2016.
Gli obiettivi possono riguardare anche soluzioni di
ottimizzazione de processi di procurement, con la previsione
dell’obbligo di acquisizione di beni e servizi mediante il
mercato elettronico o analoghe piattaforme telematiche entro
la soglia comunitaria.
Gli enti soci possono definire anche limitazioni specifiche,
come quelle adottate da alcune amministrazioni nei confronti
delle proprie società partecipate in ordine all’acquisto e
alla gestione di autoveicoli, e prevedere l’adozione di
regolamenti o di sistemi criteriali dettagliati per
l’effettuazione di spese di rappresentanza: va ricordato che
queste ultime sono considerate dalla Corte dei conti
recessive rispetto alle spese necessarie ad assicurare il
regolare funzionamento delle società (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Terre,
l'analisi apre alla deroga. Riutilizzo in loco dopo verifica
di non contaminazione. Nel nuovo dpr
sui materiali da scavo, l'iter per gestirli fuori dal regime
dei rifiuti.
Anche se effettuate nella realizzazione della recinzione di
un giardino, le attività di escavazione e riutilizzo in loco
delle terre estratte potranno essere condotte fuori dal
regime dei rifiuti solo previa e peculiare analisi chimica
del suolo che ne provi l'assenza di contaminazione.
Questa una delle novità legate all'imminente debutto del
nuovo regolamento sulla gestione delle terre e rocce da
scavo (Atto
del Governo n. 279 - Schema di decreto del
Presidente della Repubblica concernente regolamento recante
disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce
da scavo), licenziato in via definitiva dal governo (nella forma
di dpr) il 14.07.2016, in corso di pubblicazione sulla G.U.
Oltre a incidere sulla disciplina per la gestione dei
riporti che costituiscono «rifiuti» o «sottoprodotti», il
decreto in itinere interessa infatti anche quelli
inquadrabili a monte come «non rifiuti». E questo dettando
le procedure per poter invocare il regime di deroga alle
rigide regole sui rifiuti a monte previsto dal Codice
ambientale per il suolo non contaminato escavato e destinato
a rimanere in sito.
Le terre da scavo escluse dal regime dei
rifiuti. A sensi
dell'articolo 185, comma 1), lettera c) del dlgs 152/2006
non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui
rifiuti: «Il suolo non contaminato e altro materiale allo
stato naturale escavato nel corso di attività di
costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a
fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito
in cui è stato escavato».
Attuando tale disposizione
generale, il regolamento in arrivo detta le regole che gli
operatori dovranno osservare per dimostrare l'effettiva
sussistenza della condizione principe della «non
contaminazione» al fine di poter legittimamente godere della
sottesa deroga. E ciò imponendo un accertamento analitico
che andrà condotto in tutti i cantieri, a prescindere dalle
loro dimensioni.
La verifica di «non contaminazione».
A tutto tondo la disciplina del dpr sulla preliminare
verifica, laddove l'articolo 24 e il connesso allegato
tecnico n. 4 del provvedimento dettano sia le regole da
seguire per identificare il terreno interessato sia i
parametri chimici da soddisfare per poter essere considerato
come non contaminato.
Sotto il primo profilo, sono previste
le precise caratteristiche che i campioni da sottoporre ad
analisi dovranno avere nonché le specifiche sostanze su cui
le suddette analisi (condotte in laboratorio o in campo)
dovranno vertere. Sotto il secondo profilo, il decreto
impone invece il confronto dei risultati delle analisi con i
valori di «concentrazioni soglia di contaminazione» (Csc)
previste dalle colonne A e B, tabella 1, allegato 5 alla
Parte quarta del dlgs 152/2006 con riferimento alla
specifica destinazione d'uso urbanistica o ai valori di
fondo naturali. Sarà il rispetto di detti valori a
garantire, in base al nuovo decreto, il soddisfacimento
della condizione di non contaminazione.
Tutto ciò con due
peculiarità: se il sito è stato interessato da pregressa
attività antropica, occorrerà cercare e analizzare anche le
ulteriori sostanze potenzialmente presenti; se le operazioni
di scavo comporteranno invece l'utilizzo di sostanze non
contemplate dal dpr sarà altresì necessario l'esaurimento di
una preventiva procedura di verifica di non pericolosità da
attivarsi presso l'Istituto superiore di sanità.
Tra le
condizioni per il riutilizzo «in deroga» dei riporti in
parola non vi sarà dunque quella del rispetto del limite del
20% di presenza di materiale antropico, condizione
circoscritta dall'articolo 4 dello stesso dpr alle terre da
scavo destinate a essere riutilizzate fuori sito come
sottoprodotti.
Tempistica e formalizzazione della
verifica. La
verifica di non contaminazione andrà condotta prima di
avviare le attività di escavo e formalizzata tramite
apposita documentazione, a pena di veder inquadrate tutte le
operazioni svolte sotto il regime proprio dei rifiuti ex
dlgs 152/2006 (con le relative sanzioni in caso di assenza
di autorizzazione).
Dispone infatti l'articolo 24, comma 4
del neo dpr che «comunque prima dell'inizio dei lavori»
proponente o esecutore devono: effettuare campionamento e
relativa caratterizzazione per accertare l'idoneità delle
terre al reimpiego; di conseguenza, redigere un apposito
progetto in cui sono definite volumetrie di scavo, quantità
di terre e rocce da riutilizzare, coordinate del loro
deposito e collocazione definitiva.
In termini generali è
utile ricordare che ai sensi dell'articolo 266, comma 7 del dlgs 152/2006 un'ulteriore «semplificazione amministrativa
delle procedure relative ai materiali, ivi incluse le terre
e le rocce da scavo, provenienti da cantieri di piccole
dimensioni» potrà essere comunque adottata dal Minambiente
con proprio decreto.
Regole particolari: l'amianto naturale.
Riutilizzo in deroga al regime sui rifiuti possibile, ma
ulteriormente condizionato, anche per le terre in parola che
contengono «amianto naturale» oltre i valori di soglia. Il
regime di favore (non parimenti previsto per le terre,
invece, destinate a essere reimpiegate fuori sito come
sottoprodotti) è dal dpr accordato ai materiali da scavo che
provengono da affioramenti geologici naturali contenenti
amianto in misura superiore al relativo parametro di
riferimento recato dalla più sopra citata tabella 1 del dlgs
152/2006 e fissato in 1000 mg/kg.
Il reimpiego delle terre e
rocce da scavo interessate oltremisura dal cosiddetto
«amianto naturale» sarà possibile: previa determinazione dei
valori di fondo naturale da assumere per il terreno
interessato; nel solo preciso sito di produzione e sotto
controllo delle Autorità competenti; previa presentazione di
un apposito piano di riutilizzo ad Arpa e Asl.
E le attività nei siti sub «Via».
Condizioni ad hoc anche per condurre escavi e riutilizzi
delle terre in questione nell'ambito di opere o attività
soggette a valutazione di impatto ambientale. La sussistenza
delle condizioni per gestire i materiali escavati fuori dal
regime dei rifiuti ex articolo 185 del dlgs 152/2006 dovrà
in questo caso essere: effettuata in fase di Studio di
impatto ambientale (Sia); attraverso la presentazione di un
«piano preliminare di utilizzo in sito» con descrizione
dettagliata di sito, attività di escavo e riutilizzo da
effettuare, modalità di caratterizzazione delle terre;
previa trasmissione degli atti alle Autorità competenti
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Scia
2, scontro governo-regioni. Gli enti rivendicano la loro
autonomia sulle autorizzazioni.
Stravolto in Conferenza unificata il dlgs che punta a
uniformare i procedimenti per le imprese.
È scontro tra stato e regioni sulla Scia 2. Lo schema di
decreto è quello varato in prima lettura dal consiglio dei
ministri il 15 giugno scorso, su cui il Consiglio di stato
si è espresso il 4 agosto successivo, con un parere recante
diverse proposte di modifica.
Il provvedimento punta a uniformare su tutto il territorio
nazionale i procedimenti autorizzatori per l'edilizia e le
attività d'impresa come il commercio, l'artigianato e la
somministrazione di alimenti e bevande; ma il testo due
giorni fa è stato stravolto in Conferenza unificata, dove le
regioni hanno pesantemente messo mano al testo, rivendicando
la propria autonomia.
Secondo gli enti territoriali, infatti, devono essere fatti
salvi i regimi amministrativi più favorevoli in termini di
semplificazione già previsti localmente. Anche in
considerazione dell'esplicito richiamo nella legge delega
(n. 124/2015) a principi e criteri direttivi di derivazione
Ue, a cui le regioni si sono tenute, nel legiferare. Al
contrario dello stato centrale, che, invece, nella tabella A
contenuta nello schema di dlgs (quella che individua i
procedimenti autorizzatori da utilizzare) ha operato una
mera ricognizione della normativa esistente.
Il ritorno all'autonomia regionale in fatto di Scia è una
delle condizioni che le regioni hanno posto per il
raggiungimento dell'intesa in Conferenza unificata. Stando a
quanto riportato da una nota, emanata dalla Conferenza delle
regioni (e non dalla Unificata) l'intesa sarebbe stata
raggiunta con l'accoglimento delle richieste regionali. Ma
il governo tace.
Lo schema di decreto legislativo in oggetto, va ricordato, è
quello per l'individuazione dei procedimenti oggetto di
autorizzazione e segnalazione certificata di inizio
attività, in applicazione della riforma Madia sulla pubblica
amministrazione (art. 5 della legge suddetta).
Questioni generali di forma e sostanza. Le comunicazioni che
legittimano, in via semplificata, l'esercizio di una
attività, non sono delle «mere» informative ma possono
essere corredate nei casi previsti dalla legge da
asseverazioni o certificazioni, così come già avviene per le
Scia. A proposito, invece, del glossario unico che, in
materia edilizia, dovrebbe garantire omogeneità di regime
giuridico in tutto il territorio nazionale e approvato con
specifico decreto ministeriale, secondo le regioni va fin da
subito precisato che esso deve contenere l'elenco delle
principali opere edilizie, con l'individuazione della
categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del
conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi
della Tabella A che forma parte integrante del decreto
legislativo e che viene ormai considerata una codificazione
soft; ciò in quanto ridisciplina i sistemi autorizzatori
oggi previsti.
Secondo le regioni, inoltre, la consulenza preistruttoria
prevista in modalità gratuita per il settore dell'edilizia,
dovrebbe andare estesa a tutte le fattispecie disciplinate
dal decreto legislativo in corso di approvazione e,
pertanto, anche con riferimento alle attività nel settore
del commercio e dell'artigianato. Una consulenza, tuttavia,
che nulla ha a che vedere con il tutor d'impresa previsto
dal disegno di legge S958 e proposto dal governo Letta,
fortemente sostenuto da Confindustria ma contrastato da Rete
imprese Italia.
Norme in materia di ambiente. Secondo le regioni sussistono
forti dubbi sul fatto che le novità contenute all'art. 4
dello schema di decreto legislativo possano portare ad una
effettiva semplificazione della disciplina. Chiedono,
pertanto, uno stralcio dell'intero articolo e l'impegno, da
parte del governo, di avviare un confronto con le regioni
stesse per la complessiva riscrittura del titolo V del dlgs
152/2006 che regolamenta la bonifica di siti contaminati.
Ciò in quanto, a giudizio delle regioni, l'utilizzo di
obiettivi di bonifica diversi riferito al soggetto della
bonifica introdurrebbe una disparità di trattamento tra i
diversi titolari della bonifica.
Autonomia regionale e modifiche normative.
Al fine di salvaguardare le disposizioni regionali che
prevedono semplificazioni ulteriori rispetto a quanto
proposto dal governo nella tabella A, viene espressamente
richiesto di stabilire, con apposita disposizione, che le
regioni e gli enti locali possano prevedere livelli
ulteriori di semplificazione e di fissare al 30.06.2017 il
termine di adeguamento alle nuove disposizioni. Le regioni,
infine, hanno avanzato diverse proposte di miglioramento del
testo, pur non ritenendole condizionati ai fini dell'intesa,
ma comunque come interventi opportuni
(articolo ItaliaOggi dell'01.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Sulla
ostensibilità -o meno- di atti rispetto ai quali sono state
svolte indagini di natura penale.
La tipologia degli atti richiesti al Comune dall’odierno
ricorrente rientra a pieno titolo nell’ambito degli atti e
documenti esclusi dall’accesso ai sensi dell’art. 24, comma
1, lett. a), della legge 07.08.1990, n. 241 atteso che
trattasi di atti rispetto ai quali sono state svolte
indagini di natura penale che proseguono nell’ambito
dell’attività di polizia amministrativa per i riflessi repressivo-sanzionatori
in materia edilizia.
Con particolare riferimento agli atti
prodotti nel corso di indagini penali, seppure è vero che,
secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale, non
ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica
amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto
coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratto
all'accesso, in quanto laddove la denuncia sia riconducibile
all'esercizio delle istituzionali funzioni amministrative,
l’atto non ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 329 c.p.p. e non può ritenersi coperto dal segreto istruttorio,
nondimeno deve considerarsi che se la pubblica
amministrazione trasmette all'autorità giudiziaria una
notizia di reato nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è
in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia
giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto
istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p..
Nello specifico, con riferimento al contenuto dei documenti
richiesti e tenuto conto del tenore delle espressioni recate
dall’istanza ostensiva allegata al fascicolo di parte
ricorrente, pare evidente la natura di dati giudiziari
relativi a terzi soggetti (ai sensi dell’art. 4, comma 1,
lett. d) del d.lgs. 30.06.2003, n. 196), rispetto ai quali
il ricorrente non ha limitato la richiesta ai soli dati a
lui riferibili, se esistenti.
Di talché, pur tenuto conto che, in disparte la innegabile
inadempienza da parte del Comune intimato che avrebbe dovuto
comunque completare il procedimento ostensivo con l’adozione
di un provvedimento espresso, gli atti richiesti dal
ricorrente rientrano nella categoria di quelli esclusi
dall’accesso documentale ai sensi dell’art. 24, commi 1,
lett. a) e 7, della legge n. 241/1990 e che quindi il
ricorso va respinto.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento di diniego di
accesso ai documenti amministrativi richiesti con istanza
prot. n. 713/2016 del 27.02.2016.
...
- Premesso che il Signor An.As., essendo venuto a
conoscenza, per circostanze dallo stesso non precisate,
della circostanza che la Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Velletri aveva inviato al Comune di Rocca di
Papa, in data 13.11. 2015, una lista di immobili ritenuti
non conformi alla normativa edilizia, oggetto di
procedimento già definito, chiedendo che venisse riferito
circa lo stato di detti immobili e la situazione relativa
agli occupanti degli stessi;
- Considerato che l’odierno ricorrente, sostenendo che la
natura di tale lista sarebbe riconducibile nell’alveo dei
meri atti amministrativi relativi a procedimenti penali già
conclusi, ha chiesto al Comune di Rocca di Papa, con istanza
del 28.02.2016, protocollata con il n. 713/2016, l’accesso
documentale alla surrichiamata lista inviata dalla Procura
della Repubblica al Comune nonché, inoltre, alla lista degli
immobili effettivamente sottoposti ad accertamenti tecnici
da parte della Polizia locale ovvero da parte di altre Forze
di polizia oppure ancora da parte dell’Ufficio tecnico
comunale, senza ottenere alcun riscontro;
- Rilevato che per tale ragione il Signor An.As. ha proposto
ricorso dinanzi a questo Tribunale nei confronti del
silenzio diniego formatosi sull’istanza ostensiva sopra
citata chiedendo che, in seguito all’accertamento
dell’obbligo di provvedere al richiesto accesso documentale,
il Comune venga condannato a rendere possibile l’ostensione
dei suddetti documenti;
- Verificato che il Comune di Rocca di Papa non si è
costituito in giudizio;
- Valutato che la tipologia degli atti richiesti al Comune
dall’odierno ricorrente rientra a pieno titolo nell’ambito
degli atti e documenti esclusi dall’accesso ai sensi
dell’art. 24, comma 1, lett. a), della legge 07.08.1990, n.
241 atteso che trattasi di atti rispetto ai quali sono state
svolte indagini di natura penale che proseguono nell’ambito
dell’attività di polizia amministrativa per i riflessi
repressivo-sanzionatori in materia edilizia;
- Specificato che, con particolare riferimento agli atti
prodotti nel corso di indagini penali, seppure è vero che,
secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale, non
ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica
amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto
coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratto
all'accesso, in quanto laddove la denuncia sia riconducibile
all'esercizio delle istituzionali funzioni amministrative,
l’atto non ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 329
c.p.p. e non può ritenersi coperto dal segreto istruttorio,
nondimeno deve considerarsi che se la pubblica
amministrazione trasmette all'autorità giudiziaria una
notizia di reato nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è
in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia
giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto
istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. (cfr., tra le
molte, Cons. Stato, Sez. VI, 29.01.2013) n. 547);
- Puntualizzato inoltre che, con riferimento al contenuto
dei documenti richiesti e tenuto conto del tenore delle
espressioni recate dall’istanza ostensiva allegata al
fascicolo di parte ricorrente, pare evidente la natura di
dati giudiziari relativi a terzi soggetti (ai sensi
dell’art. 4, comma 1, lett. d) del d.lgs. 30.06.2003, n.
196), rispetto ai quali il ricorrente non ha limitato la
richiesta ai soli dati a lui riferibili, se esistenti;
- Tenuto conto quindi che, in disparte la innegabile
inadempienza da parte del Comune intimato che avrebbe dovuto
comunque completare il procedimento ostensivo con l’adozione
di un provvedimento espresso, gli atti richiesti dal
ricorrente rientrano nella categoria di quelli esclusi
dall’accesso documentale ai sensi dell’art. 24, commi 1,
lett. a) e 7, della legge n. 241/1990 e che quindi il
ricorso va respinto;
- Stimato che, nonostante la soccombenza della parte
ricorrente nel presente giudizio, il comportamento
colpevolmente inerte tenuto dal Comune di Rocca di Papa, nel
corso della procedura fatta oggetto di contenzioso,
costituisce il necessario presupposto per disporre la
compensazione delle spese giudiziali
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 12.12.2016 n. 12318 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'interesse
all'accesso ai documenti deve essere considerato in
astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al
caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla
fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale, che gli
interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei
documenti acquisiti mediante l'accesso, o sulla
ammissibilità e la rilevanza dei documenti richiesti
rispetto ad un giudizio pendente.
---------------
- Rilevato che non si presentano elementi utili a negare
l’ostensione del contenuto del fascicolo presente presso il
X Municipio di Roma Capitale intestato alla Società
ricorrente (per come espressamente richiesto nella istanza
ostensiva), sia attraverso la visione dei documenti
contenuti nel fascicolo medesimo sia attraverso la
estrazione di copia degli atti, in ossequio al duplice
principio generale secondo il quale, ai sensi dell’art. 24,
comma 7, della legge 07.08.1990, n. 241 per un verso deve
comunque essere garantito l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici nonché, sotto
altro profilo, il problema del bilanciamento delle
contrapposte esigenze delle parti interessate, diritto di
accesso e di difesa e cura dei propri interessi, da parte
del richiedente, da un lato, e diritto di riservatezza dei
terzi, dall'altro, va risolto dando prevalenza al diritto di
accesso (sempre ai sensi del citato art. 24, comma 7),
qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei
propri interessi giuridici.
D’altronde, per costante giurisprudenza, l'interesse
all'accesso ai documenti deve essere considerato in
astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al
caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla
fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale, che gli
interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei
documenti acquisiti mediante l'accesso, o sulla
ammissibilità e la rilevanza dei documenti richiesti
rispetto ad un giudizio pendente (su tutti i principi di cui
sopra di rinvia alla decisione del Consiglio di Stato, Sez.
IV, 10.03.2014 n. 1134); (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-quater,
sentenza 12.12.2016 n. 12317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La suddivisione in lotti secondo nel nuovo Codice dei
contratti.
---------------
Gara – Lotti – Suddivisione – Obbligo – Art. 51, d.lgs.
n. 50 del 2016 – Limiti.
Il principio della “suddivisione in
lotti”, previsto dall'art. 51, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 al
fine di favorire l’accesso alle gare pubbliche delle micro,
piccole e medie imprese, non è posto in termini assoluti, ma
può essere derogato, seppure con una decisione adeguatamente
motivata.
Lo stesso art. 51, al comma 1, secondo periodo,
afferma, infatti, che “le stazioni appaltanti motivano la
mancata suddivisione dell’appalto in lotti nel bando di gara
o nella lettera d’invito e nella relazione unica di cui agli
artt. 99 e 139” (1).
---------------
(1) Il Tar ha evidenziato la necessità di comprendere le
indicazioni che l’ordinamento fornisce in ordine ai valori o
interessi nel perseguimento dei quali la deroga può
avvenire, giacché la regolamentazione procedimentale
(obbligo di motivazione), pur significativa e importante,
non copre lo spazio ancor più rilevante della legalità
sostanziale e cioè della scelta del contemperamento degli
interessi pubblici contrapposti. Risposta al quesito pare
rinvenibile dall’esame della disciplina europea, di cui
quella nazionale costituisce recepimento.
Il n. 78 della direttiva 2014/24/UE, occupandosi della
questione, dopo aver posto in evidenza la necessità di
garantire la partecipazione delle piccole e medie imprese
alle gare pubbliche e il correlato strumento della
suddivisione in lotti, si occupa anche della possibile
scelta della stazione appaltante di non procedere
all’articolazione in lotti e, oltre a prevedere la necessità
di motivazione, si spinge anche a considerare le possibili
ragioni giustificative di una tale scelta: evidenzia quindi
che “tali motivi potrebbero, per esempio, consistere nel
fatto che l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che tale
suddivisione possa rischiare di limitare la concorrenza o di
rendere l’esecuzione dell’appalto eccessivamente difficile
dal punto di vista tecnico o troppo costosa, ovvero che
l’esigenza di coordinare i diversi operatori economici per i
lotti possa rischiare seriamente di pregiudicare la corretta
esecuzione dell’appalto”.
Tra gli interessi che possono essere valorizzati dalle
stazioni appaltanti per non procedere alla suddivisione in
lotti vi è dunque anche quello dei costi cui la suddivisone
in lotti può condurre. Ecco che già a livello europeo
compare la tensione tra i due contrapposti obiettivi
costituiti, da un lato, dalla finalità di garantire la
partecipazione delle piccole e medie imprese alle gare
d’appalto, con conseguente loro suddivisione in lotti di
importo limitato, e, dall’altro, della finalità di garantire
razionalizzazione e contenimento della spesa attraverso la
centralizzazione e aggregazione delle gare medesime.
Ha ancora chiarito il Tar che ai fini della composizione dei
suddetti contrapposti interessi assume rilievo, come dato di
legislazione interna che consuma parte della scelta
valutativa della stazione appaltante, la legislazione di
c.d. spending review; viene in particolare in considerazione
la disciplina di cui all’art. 9, d.l. 24.04.2014, n. 66,
norma che, in relazione alla acquisizione di servizi
specificamente individuati da parte di soggetti
nominativamente indicati e al superarsi di soglie anch’esse
specificamente fissate, impone l’aggregazione,
centralizzando gli acquisti medesimi in all’uopo creati.
Il d.P.C.M. 24.12.2015 (in G.U. 09.02.2016, n.
32), cui la norma primaria ha rimesso la disciplina
applicativa, sottopone alle gare centralizzate, in chiara
funzione di risparmio di spesa, l’affidamento dei “servizi
di smaltimento rifiuti sanitari” di importo superiore a €
40.000,00. Si tratta di regolamentazione che, pur non
escludendo in radice la suddivisione in lotti, effettua una
selezione delle tipologie di gare per le quali l’obiettivo
di aggregazione in funzione del contenimento dei costi e
dell’ottenimento di economie di scala appare oggetto di
particolare attenzione da parte del legislatore (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 12.12.2016 n. 1755 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
6 – Con il primo motivo di ricorso l’Impresa individuale
Do.Gi. censura il bando di gara impugnato, per
aver lo stesso indetto una gara di consistenti dimensioni
senza divisione in lotti, come imposto dall’art. 51 del
d.lgs. n. 50 del 2016, in tal modo restringendo la
concorrenza, in palese violazione dei principi comunitari
volti a favorire gare pubbliche nelle quali sia garantito un
confronto concorrenziale aperto anche alle imprese di
piccole e medie dimensioni.
La Sezione si è già pronunciata
su tematica simile nella sentenza n. 1129 del 2016, ancorché
resa su gara alla quale si applicava la disciplina di cui al
d.lgs. n. 163 del 2006; la questione deve quindi essere
ripresa e analizzata nel nuovo contesto disciplinare di cui
al d.lgs. n. 50 del 2016 e della normativa europea di cui
esso costituisce recepimento.
Anche nel nuovo quadro
disciplinare la censura è infondata alla luce delle
considerazioni di seguito esplicitate.
6.1 – L’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016 ha mantenuto e in
parte rafforzato il principio della “suddivisione in lotti”,
posto in essere “al fine di favorire l’accesso delle
microimprese, piccole e medie imprese” alle gare pubbliche,
già previsto dall’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del
2006.
Deve tuttavia evidenziarsi che, anche nel nuovo
regime, il principio non risulta posto in termini assoluti e
inderogabili, giacché il medesimo art. 51, al comma 1,
secondo periodo, afferma che “le stazioni appaltanti
motivano la mancata suddivisione dell’appalto in lotti nel
bando di gara o nella lettera d’invito e nella relazione
unica di cui agli articoli 99 e 139”.
Il principio della
“suddivisione in lotti” può dunque essere derogato, seppur
attraverso una decisione che deve essere adeguatamente
motivata; residua tuttavia la necessità di comprendere le
indicazioni che l’ordinamento fornisca in ordine ai valori o
interessi nel perseguimento dei quali la deroga può
avvenire, giacché la regolamentazione procedimentale
(obbligo di motivazione), pur significativa e importante,
non copre lo spazio ancor più rilevante della legalità
sostanziale e cioè della scelta del contemperamento degli
interessi pubblici contrapposti. Risposta al quesito pare
rinvenibile dall’esame della disciplina europea, di cui
quella nazionale costituisce recepimento.
Il <considerando>
n. 78 della direttiva 2014/24/UE, occupandosi della
questione, dopo aver posto in evidenza la necessità di
garantire la partecipazione delle PMI alle gare pubbliche e
il correlato strumento della suddivisione in lotti, si
occupa anche della possibile scelta della stazione
appaltante di non procedere all’articolazione in lotti e,
oltre a prevedere la necessità di motivazione, si spinge
anche a considerare le possibili ragioni giustificative di
una tale scelta: evidenzia quindi che “tali motivi
potrebbero, per esempio, consistere nel fatto che
l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che tale
suddivisione possa rischiare di limitare la concorrenza o di
rendere l’esecuzione dell’appalto eccessivamente difficile
dal punto di vista tecnico o troppo costosa, ovvero che
l’esigenza di coordinare i diversi operatori economici per i
lotti possa rischiare seriamente di pregiudicare la corretta
esecuzione dell’appalto”.
Tra gli interessi che possono
essere valorizzati dalle stazioni appaltanti per non
procedere alla suddivisione in lotti vi è dunque anche
quello dei costi cui la suddivisone in lotti può condurre.
Ecco che già a livello europeo compare la tensione tra i due
contrapposti obiettivi costituiti, da un lato, dalla
finalità di garantire la partecipazione delle PMI alle gare
d’appalto, con conseguente loro suddivisione in lotti di
importo limitato, e, dall’altro, della finalità di garantire
razionalizzazione e contenimento della spesa attraverso la
centralizzazione e aggregazione delle gare medesime.
6.2 – Ai fini della composizione dei suddetti contrapposti
interessi assume rilievo, come dato di legislazione interna
che consuma parte della scelta valutativa della stazione
appaltante, la legislazione di c.d. spending review; viene
in particolare in considerazione la disciplina di cui
all’art. 9 del decreto-legge n. 66 del 2014, norma che, in
relazione alla acquisizione di servizi specificamente
individuati da parte di soggetti nominativamente indicati e
al superarsi di soglie anch’esse specificamente fissate,
impone l’aggregazione, centralizzando gli acquisti medesimi
in <soggetti aggregatori> all’uopo creati.
Il DPCM 24.12.2015 (in G.U. 09.02.2016, n. 32), cui la norma
primaria ha rimesso la disciplina applicativa, sottopone
alle gare centralizzate, in chiara funzione di risparmio di
spesa, l’affidamento dei “servizi di smaltimento rifiuti
sanitari” di importo superiore a € 40.000,00.
Si tratta di
regolamentazione che, pur non escludendo in radice la
suddivisione in lotti, effettua una selezione delle
tipologie di gare per le quali l’obiettivo di aggregazione
in funzione del contenimento dei costi e dell’ottenimento di
economie di scala appare oggetto di particolare attenzione
da parte del legislatore.
6.3 – Nel caso in esame il soggetto aggregatore, che ha
indetto la gara ai sensi della richiamata disciplina di cui
al decreto-legge n. 66 del 2014 e del DPCM del 24.12.2015, ha correttamente motivato la scelta di non procedere
alla suddivisione in lotti, statuendo che “la gara è
impostata in unico lotto per ottenere economie di mercato, a
fronte di tipologie di prestazioni uguali per tutta la
Regione, come richiesto dalla mission di Estar dalla
tipologia di gara ricompresa nell’elenco del DPCM 24/12/2015,
riservate ai soggetti aggregatori, considerando che
l’attuale assetto di mercato, come evidenziato dal dialogo
tecnico effettuato, non pregiudica la partecipazione alla
gara”.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte e della
normativa europea e interna richiamata si tratta di
motivazione adeguata e idonea a rispondere all’obbligo di
giustificazione di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 50 del
2016. |
APPALTI:
Raggruppamenti di tipo verticale e orizzontale nel nuovo
Codice appalti.
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Gara – Raggruppamenti di tipo verticale e orizzontale –
Art. 48, d.lgs. n. 50 del 2016 – Indicazione prestazione
principale e secondaria – Mancanza nel bando – Conseguenza.
La distinzione tra -e la stessa
configurazione di- raggruppamenti di tipo orizzontale e
verticale, ex art. 48, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, con
riferimento allo specifico procedimento di gara, presuppone
che la lex specialis abbia indicato la prestazione
principale e quella/e secondaria/e.
Pertanto, ove, invece, la lex speicialis di gara non rechi
la suddetta distinzione, indicando quale oggetto
dell’affidamento un servizio unitario, pur articolato in
diversi segmenti attuativi, la qualificazione -come
orizzontale– di un raggruppamento concorrente discende ed è
coerente con la disciplina di gara, in assenza dei
presupposti (correlati alla menzionata necessaria
distinzione ad opera del bando delle prestazioni oggetto di
affidamento) per la configurazione di un raggruppamento di
tipo verticale (1).
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(1) Ha chiarito il Tar Salerno che l’indicazione nell’offerta delle
imprese ricorrenti delle singole parti dell’unitario
servizio, la cui esecuzione è demandata alle imprese
raggruppate, lungi dal contraddire la suddetta
auto-qualificazione del raggruppamento ricorrente come
orizzontale (che, ai sensi del comma 2 dell’art. 48, d.lgs.
n. 50 del 2016, presuppone che gli operatori economici
eseguono il medesimo tipo di prestazione), risponde alla
prescrizione di cui all’art. 48, comma 4, d.lgs. n. 50 del
2016, ai sensi del quale “nel caso di forniture o servizi
nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio
o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori
economici riuniti o consorziati” (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.12.2016 n. 2631 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
- Rilevato preliminarmente che l’impugnato provvedimento
di esclusione scaturisce dal fatto che la capogruppo MPS
s.p.a. ha dichiarato di partecipare alla gara quale
capogruppo di un costituendo R.T.I. di tipo orizzontale,
indicando le attività che sarebbero state svolte da ciascuna
delle imprese raggruppate, in asserito contrasto con l’art.
48, comma 2, d.lvo n. 50/2016, ai sensi del quale nel caso
di servizi “per raggruppamento orizzontale si intende
quello in cui gli operatori economici eseguono il medesimo
tipo di prestazione”, evidenziando altresì la stazione
appaltante che “nel caso di RTI orizzontale le aziende
raggruppate avrebbero dovuto fornire dimostrazione di
possedere i medesimi requisiti, nel caso di specie mancanti”;
- Richiamato il disposto dell’art. 48, comma 2, d.lvo n.
50/2016, ai sensi del quale “nel caso di forniture o
servizi, per raggruppamento di tipo verticale si intende un
raggruppamento di operatori economici in cui il mandatario
esegue le prestazioni di servizi o di forniture indicati
come principali anche in termini economici, i mandanti
quelle indicate come secondarie; per raggruppamento
orizzontale quello in cui gli operatori economici eseguono
il medesimo tipo di prestazione; le stazioni appaltanti
indicano nel bando di gara la prestazione principale e
quelle secondarie”;
- Rilevato quindi che la distinzione tra -e
la stessa configurazione di- raggruppamenti di tipo
orizzontale e verticale, con riferimento allo specifico
procedimento di gara, presuppone che la lex specialis
abbia indicato la prestazione principale e quella/e
secondaria/e;
- Rilevato che la disciplina di gara, nella
fattispecie in esame, non reca la suddetta distinzione,
indicando quale oggetto dell’affidamento un unitario
servizio “Bollettino”, pur articolato in diversi
segmenti attuativi;
- Considerato quindi che, in siffatto
contesto, la qualificazione -come orizzontale- del
raggruppamento ricorrente discende ed è coerente con la
disciplina di gara, in assenza dei presupposti (correlati
alla menzionata necessaria distinzione ad opera del bando
delle prestazioni oggetto di affidamento) per la
configurazione di un raggruppamento di tipo verticale;
- Rilevato altresì che l’indicazione nell’offerta delle
imprese ricorrenti delle singole parti dell’unitario
servizio “Bollettino”, la cui esecuzione è demandata
alle imprese raggruppate, lungi dal contraddire la suddetta
auto-qualificazione del raggruppamento ricorrente come
orizzontale, risponde alla prescrizione di cui all’art. 48,
comma 4, d.lvo n. 50/2016, ai sensi del quale “nel caso
di forniture o servizi nell'offerta devono essere
specificate le parti del servizio o della fornitura che
saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o
consorziati”;
- Rilevata infine la genericità dell’assunto secondo cui le
imprese raggruppate sarebbero carenti dei requisiti
prescritti dal bando e la sua conseguente inidoneità, così
formulato, a sorreggere l’impugnato provvedimento di
esclusione;
- Ritenuto quindi che la domanda di annullamento di
quest’ultimo debba essere accolta, siccome fondata, potendo
disporsi l’assorbimento delle censure non esaminate; |
APPALTI SERVIZI:
La Corte di Giustizia fornisce alcuni chiarimenti circa il
requisito della c.d. attività prevalente necessario per
individuare un legittimo affidamento in house.
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Appalti pubblici – Affidamenti in house – Attività
prevalente per l’amministrazione aggiudicatrice – Attività
svolta in favore di enti territoriali terzi – Esclusione.
Appalti pubblici – Affidamenti in house – Attività
prevalente per l’amministrazione aggiudicatrice – Controllo
analogo – Criteri di individuazione.
In materia di affidamenti diretti
degli appalti pubblici, detti «in house», al fine di
stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente
per l’amministrazione aggiudicatrice e segnatamente per gli
enti territoriali che siano suoi soci e che lo controllino,
non si deve ricomprendere in tale attività quella imposta a
detto ente da un’amministrazione pubblica, non sua socia, a
favore di enti territoriali a loro volta non soci di detto
ente e che non esercitino su di esso alcun controllo; tale
ultima attività deve essere considerata come un’attività
svolta a favore di terzi. (1)
In materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici,
detti «in house», al fine di stabilire se l’ente affidatario
svolga l’attività prevalente per gli enti territoriali che
siano suoi soci e che esercitino su di esso, congiuntamente,
un controllo analogo a quello esercitato sui loro stessi
servizi, occorre tener conto di tutte le circostanze del
caso di specie, tra le quali, all’occorrenza, l’attività che
il medesimo ente affidatario abbia svolto per detti enti
territoriali prima che divenisse effettivo tale controllo
congiunto (2).
---------------
(1-2)
I. - Con la sentenza in epigrafe la Corte, decidendo una questione
rimessa dal Consiglio di Stato (ordinanza sez. V,
20.10.2015, n. 4793), fornisce ulteriori chiarimenti nella
delicata materia degli affidamenti in house.
Ciò appare particolarmente rilevante per l’ordinamento
nazionale, a fronte della sopravvenuta declaratoria di
incostituzionalità, per vizi del procedimento di
approvazione (cfr. Corte cost. n. 251 del 2016) della l. n.
124 del 2015 (c.d. legge delega Madia), attuata, nella parte
di interesse (disciplina della società pubbliche e, in
particolare, dell’in house), dagli artt. 2, comma 1,
lett. o), e 16, d.lgs. 19.08.2016, n. 175 (sul quale il
Consiglio di Stato ha espresso il parere 21.04.2016, n.
968).
In particolare, la fattispecie concreta rimessa alla Corte
UE nasceva dall’impugnativa, da parte di un’impresa di
settore, di una delibera comunale che, ritenendo sussistenti
i presupposti per l'affidamento in house ad una società a
partecipazione pubblica, assegnava alla stessa un appalto
del servizio di gestione del ciclo integrato dei rifiuti
urbani.
L’ordinanza di rimessione dopo aver svolto un esame
ricostruttivo del panorama normativo italiano e della
giurisprudenza europea in tema di in house, al fine di
risolvere la controversia sottoponeva alla Cge i due
seguenti quesiti: “se, nel computare l’attività
prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche
riferimento all’attività imposta da un’amministrazione
pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci”; “se,
nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente
controllato, debba farsi anche riferimento agli affidamenti
nei confronti degli enti pubblici soci prima che divenisse
effettivo il requisito del cd. controllo analogo”.
II. – La Corte europea, nel formulare i principi formulati
riassunti nelle due massime in epigrafe, ha preso e le mosse
dall’individuazione dell’obiettivo della disciplina in tema
di in house.
In proposito ha ribadito che il requisito soggettivo –ovvero
che il soggetto cui attribuire l’affidamento diretto svolga
l’attività prevalente con l’ente o con gli enti locali che
lo controllano- è finalizzato a garantire che la direttiva
2004/18 trovi applicazione anche nel caso in cui un’impresa
controllata da uno o più enti sia attiva sul mercato e possa
pertanto entrare in concorrenza con altre imprese.
Da ciò ne consegue, secondo la Corte, che:
a) un’impresa non sia necessariamente privata della
libertà di azione per il mero fatto che le decisioni che la
riguardano siano prese dall’ente o dagli enti locali che la
controllano, se essa può svolgere ancora una parte
importante della sua attività economica presso altri
operatori; per contro, qualora le prestazioni di detta
impresa siano sostanzialmente destinate in via esclusiva
all’ente o agli enti locali in questione, appare
giustificato che l’impresa di cui trattasi sia sottratta
agli obblighi della direttiva 2004/18, i quali sono dettati
dall’intento di tutelare una concorrenza che, in tal caso,
non ha più ragion d’essere;
b) qualsiasi attività dell’ente affidatario che sia
rivolta a persone diverse da quelle che lo controllano
(anche se pp.aa.), deve essere considerata come svolta a
favore di terzi;
c) al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga
l’attività prevalente per gli enti territoriali che siano
suoi soci e che lo controllino, non si deve ricomprendere in
tale attività quella imposta a detto ente da
un’amministrazione pubblica, non sua socia, a favore di enti
territoriali a loro volta non soci di detto ente e che non
esercitino su di esso alcun controllo; tale ultima attività
deve essere considerata come un’attività svolta a favore di
terzi;
d) per valutare il requisito dello svolgimento
dell’attività prevalente, il giudice nazionale deve prendere
in considerazione tutte le circostanze del caso di specie,
sia qualitative sia quantitative.
III. – Nell’ambito di una vasta casistica, nazionale e comunitario,
sull’in house si segnalano le seguenti recenti pronunce
della Corte del Lussemburgo:
a) sez. V, 19.06.2014, C-574/12, Centro Hospitalar, in
Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2014, 1373, con nota di
FERRARI, secondo cui: <<Qualora l’aggiudicatario di un
appalto pubblico sia un’associazione di pubblica utilità
senza scopo di lucro che, al momento dell’affidamento di
tale appalto, comprende tra i suoi membri non solo enti che
fanno parte del settore pubblico, ma anche istituzioni
caritative private che svolgono attività senza scopo di
lucro, la condizione relativa al «controllo analogo»,
dettata dalla giurisprudenza della corte affinché
l’affidamento di un appalto pubblico possa essere
considerato come un’operazione in house non è soddisfatta e
pertanto la direttiva 2004/18/Ce del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento
delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi, è applicabile>>;
b) sez. V, 08.05.C-15713, Technische, in Foro it.,
2015, IV, 40, con nota M. CASORIA, ivi ogni ulteriore
riferimento di dottrina e giurisprudenza anche relativo alla
nuove direttive del 2014, che si è soffermata sulla
disciplina del c.d. in house orizzontale, stabilendo che: <<L’art.
1, par. 2, lett. a), direttiva 2004/18/Ce del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al
coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, deve
essere interpretato nel senso che un contratto avente ad
oggetto la fornitura di prodotti, concluso tra, da un lato,
un’università che è un’amministrazione aggiudicatrice ed è
controllata nel settore delle sue acquisizioni di prodotti e
servizi da uno stato federale tedesco e, dall’altro,
un’impresa di diritto privato detenuta dallo stato federale
e dagli sati federali tedeschi, compreso detto stato
federale, costituisce un appalto pubblico ai sensi della
medesima disposizione e, pertanto, deve essere assoggettato
alle norme di aggiudicazione di appalti pubblici previste da
detta direttiva>>;
c) sez. III, 29.11.2012, C-182/ e C-183/11, Soc.
Econord, in Urbanistica e appalti, 2013, 307, con nota di F.
LEGGIADRO, che ha delineato in modo puntuale le
caratteristiche del controllo analogo, chiarendo che tale
condizione sussiste quando l’affidatario è assoggettato al
controllo effettivo, strutturale e funzionale,
dell’amministrazione aggiudicatrice, la quale deve essere in
grado di influenzarne in maniera determinante sia gli
obiettivi strategici, sia le decisioni maggiormente
rilevanti; si è anche puntualizzato che, nell’eventualità in
cui l’aggiudicatario sia un ente posseduto in comune da più
autorità pubbliche, il controllo analogo può essere
esercitato anche congiuntamente (Corte
giust. comm. ue, Sez. IV,
sentenza 08.12.2016 C-553/15 -
commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ambito di applicazione del nuovo rito appalti e rito
applicabile in caso di cumulo di domande di annullamento ex
commi 6 e 6-bis dell’art. 120 c.p.a..
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Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n.
50 del 2016 – Sospensione feriale – Applicabilità.
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50
del 2016 – Impugnazione congiunta ammissione concorrente e
aggiudicazione – Possibilità - Condizione.
Gara – Rito appalti introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50
del 2016 – Impugnazione soggette ai diversi riti ex commi 6
e 6-bis dell’art. 120 c.p.a. – Rito applicabile –
Individuazione.
In mancanza di espressa previsione
contraria anche il nuovo rito superaccelerato appalti,
previsto dai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a.,
soggiace alla sospensione feriale dei termini processuali,
secondo la regola generale esplicitata dall’art. 54 c.p.a.,
pacificamente applicabile anche ai giudizi di cui al titolo
V, libro IV c.p.a..
Ove la successione temporale degli atti della procedura di
gara pubblica lo consenta è ammissibile l'impugnativa
congiunta ovvero con motivi aggiunti dei provvedimenti di
ammissione e di aggiudicazione definitiva (1).
In presenza di domande di annullamento di provvedimenti
afferenti la medesima materia “appalti”, assoggettate a riti
caratterizzati da un diverso grado di specialità (commi 6 e
6 bis dell’art. 120 c.p.a.) si applica all’intera
controversia il rito disciplinato dal comma 6 e non quello
“superaccelerato” introdotto dal successivo comma 6-bis (2).
---------------
(1) Il Tar ha motivato tale conclusione richiamando sia l’art. 32,
comma 1 c.p.a. (a mente del quale “È sempre possibile
nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte
in via principale o incidentale. Se le azioni sono soggette
a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto
previsto dal Titolo V del Libro IV”) che l’art. 43
c.p.a. (che stabilisce, tra l’altro, che “1. I
ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con
motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già
proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già
proposte. (……). 3. Se la domanda nuova di cui al comma 1 è
stata proposta con ricorso separato davanti allo stesso
tribunale, il giudice provvede alla riunione dei ricorsi ai
sensi dell'art. 70”).
Ha aggiunto che in senso contrario non è invocabile la
modifica da ultimo disposta al comma 7 dell’art. 120 c.p.a.
ad opera dell’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, che, nel
chiarire che i nuovi atti attinenti la stessa procedura di
gara devono essere gravati nella via dei motivi aggiunti,
ha, con la novella del 2016, fatto espressa esclusione per i
casi “previsti dal comma 2-bis”, dovendo tale
disposizione essere interpretata nel senso di riconoscere
alla parte ricorrente la facoltà (e non l’obbligo) di
proporre autonoma impugnativa avverso il provvedimento di
aggiudicazione della gara, ove questo sia sopraggiunto
successivamente all’introduzione del giudizio ex art. 120,
comma 6-bis, senza escludere né la possibilità di
un’impugnativa congiunta, né la proposizione successiva di
motivi aggiunti.
Le conclusioni cui il Tar è pervenuto risultano suffragate:
1) dalla espressa facoltà riconosciuta al controinteressato
(art. 120, comma 2-bis, u.p.), nell’ambito del giudizio
promosso ex art. 120, comma 6-bis, di far valere
l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure
di affidamento (tra cui l’aggiudicazione), anche con ricorso
incidentale, sia pure solamente ove abbia tempestivamente
impugnato il provvedimento che determina le esclusioni e le
ammissioni: di qui, dunque, l’insussistenza di preclusioni
in astratto all’introduzione nell’ambito del giudizio “superaccelerato”
appalti di domande nuove, diversamente amministrate con le
regole procedurali proprie del rito “ordinario”
appalti (salvo quanto si dirà in ordine al rito
unitariamente applicabile);
2) dal richiamo al principio di parità delle parti che
suggerisce di ritenere estesa anche al ricorrente, la
facoltà –riconosciuta al controinteressato- di ampliare il
thema decidendum attraverso l’impugnativa di
ulteriori e successivi provvedimenti (in primis il
provvedimento di aggiudicazione, in uno alla presupposta
graduatoria) benché ciò comporti il cumulo di domande
assoggettate a diversa disciplina e termini processuali. Ne
consegue che, ove siano rispettati i termini processuali,
parte ricorrente non è privata della possibilità di
presentare un unico ricorso, avverso entrambi i
provvedimenti (aggiudicazione definitiva e ammissione
dell’aggiudicatario – oltre che di eventuali altri
concorrenti che lo precedono in graduatoria) essendo
chiaramente evincibili indubbi profili di connessione
oggettiva e soggettiva che ne giustificano la trattazione
congiunta.
(2) Il Tar ha ritenuto desumibile dall’art. 32 c.p.a. un principio
di prevalenza del rito che si presti a fornire maggiori
garanzie per tutte le parti coinvolte nell’unica vicenda
processuale, in ragione della necessità di individuare tra
più discipline confliggenti quella che fissi regole e
termini processuali in grado di offrire una maggiore
salvaguardia del diritto di difesa. Deve dunque farsi
applicazione del rito appalti disciplinato dal comma 6
dell’art. 120 c.p.a., che ormai in maniera consolidata e “ordinariamente”
si applica all’impugnativa di provvedimenti concernenti le
procedure di affidamento relative a pubblici lavori, servizi
o forniture, tanto da prevalere anche sul rito ordinario
(come ad es. in caso di proposizione congiunta di domanda di
annullamento di atti della procedura e domanda
risarcitoria).
Diversamente, ci sarebbe un’eccessiva compromissione del
diritto delle parti di difendersi e contraddire, in ragione
dalla iper brevità dei termini processuali di cui al più
volte richiamato comma 6-bis, di per sé (discutibilmente)
giustificati nell’ottica di una straordinaria anticipazione
della tutela giurisdizionale, funzionale all’esigenza di
pervenire all’aggiudicazione avendo già chiaro chi sono i
soggetti che legittimamente hanno titolo a partecipare alla
selezione, e, dunque, più in vista dell’esigenza di
garantire una stabilità a gradi progressivi della procedura
di gara che non a tutela di un interesse attuale del
ricorrente: solo potenzialmente pregiudicato dall’ammissione
di altro concorrente (solo probabile aggiudicatario della
gara), non essendo noto né se il primo (in ragione della
definitiva collocazione in graduatoria) avrà interesse a
proporre impugnazione avverso il conclusivo provvedimento di
aggiudicazione, né se il controinteressato conseguirà il
bene della vita agognato con la definitiva aggiudicazione
dell’appalto.
L’applicazione del nuovo rito introdotto dal comma 6 bis
dell’art. 120 c.p.a. va pertanto necessariamente e
tassativamente limitata, avendo l’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato 03.06.2011, n. 10 chiarito che le norme
che introducono riti speciali costituiscono eccezioni
tassative, sono di stretta interpretazione e insuscettibili
di interpretazione analogica (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 07.12.2016 n. 1367
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’Adunanza plenaria pronuncia sull’applicabilità delle
sanzioni pecuniarie per tardivo pagamento dei contributi di
costruzione anche in caso di tardiva escussione della
garanzia fideiussoria.
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Edilizia – Permesso di costruire – Contributo di
concessione – Tardivo pagamento – Conseguenza – Sanzione –
Tardiva escussione della garanzia fideiussoria –
Irrilevanza.
L’amministrazione comunale ha il
pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario
di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta
dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso
pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione
anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto
contributo, abbia omesso di escutere la garanzia
fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli
ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere
attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore
principale (1).
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(1) La questione sulla quale ha pronunciato l’Adunanza plenaria era
stata rimessa dalla sez. IV del Consiglio di Stato con
ordinanza 22.06.2016, n. 2766, che aveva dato
atto di diversi orientamenti giurisprudenziali formatisi in
ordine all’applicabilità della sanzione pecuniaria per
tardivo pagamento dei contributi di costruzione anche in
caso di tardiva escussione della garanzia fideiussoria.
Secondo un primo, risalente orientamento (Cons. St.,
sez. V, n. 1001 del 1995;
id. n. 32 del 2003;
id. n. 571 del 2003) allorché il credito vantato
dal comune per il contributo di costruzione nei confronti
del titolare di una concessione edilizia sia assistito da
garanzia fideiussoria, una siffatta obbligazione di
garanzia, priva di beneficium excussionis ed al di là
della solidarietà tra debitore principale e fideiussore,
esclude che il comune stesso possa far legittimamente
ricorso alle sanzioni ai sensi dell’art. 42, d.P.R
06.06.2001, n. 380 (e, prima, dell’art. 3, l. 28.02.1985 n.
47), salvo che l’amministrazione creditrice abbia
previamente escusso infruttuosamente il fideiussore.
Solo in tal modo il comune conseguirebbe il pronto
soddisfacimento del proprio credito salvaguardando, ad un
tempo, l’interesse del debitore al contenimento delle somme
da corrispondere a quel titolo (in sostanza, escludendo le
maggiorazioni a titolo di sanzione).
Un secondo indirizzo, seguito dalla giurisprudenza
maggioritaria (Cons. St., sez. IV, n. 5818 del 2012;
id. n. 4320 del 2012; id., sez. VI,
n. 5884 del 2014; id., sez. V,
n. 777 del 2016), inquadra la fattispecie in
esame in una prospettiva asseritamente pubblicistica,
significativamente caratterizzata dalla presenza di
strumenti –le sanzioni e la riscossione coattiva– tipici di
un procedimento autoritativo e non paritetico.
Secondo tale orientamento, la fideiussione –che il comune
può richieder in caso di rateizzazione del versamento- non
avrebbe affatto la finalità di agevolare l'adempimento del
soggetto obbligato al pagamento, bensì costituirebbe una
garanzia personale prestata unicamente nell'interesse
dell'amministrazione, sulla quale non graverebbe pertanto
alcun obbligo giuridico di preventiva escussione del
fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria servirebbe a
scongiurare che il comune possa irrimediabilmente perdere
una entrata di diritto pubblico, ma non varrebbe ad
alleggerire la posizione del soggetto tenuto al pagamento,
né attenuerebbe le conseguenze previste nel caso di un
eventuale suo inadempimento, conseguenze appunto
riconducibili all’applicazione delle sanzioni e alla
riscossione coattiva dell’intera somma dovuta.
Un terzo, più recente indirizzo giurisprudenziale
(sez. V,
n. 5734 del 2014; id.
n. 5287 del 2015), intermedio rispetto ai
precedenti due, ha affermato che sussiste un preciso onere
collaborativo a carico dell’ente locale, desumibile dal
principio di leale collaborazione tra cittadino e comune,
avente valenza pubblicistica e rientrante nell'ambito dei
principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.; secondo
tale indirizzo, il ritardo con cui il comune agisce per
riscuotere le somme a titolo di contributi dovuti, se non
può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso
il carattere automatico delle sanzioni, scaturenti
direttamente dalla legge, impedisce tuttavia l'applicazione
delle sanzioni massime.
E’ dunque compatibile con l'interesse pubblico azionato, con
il tenore delle disposizioni applicabili e con i principi
costituzionali che ispirano i rapporti tra cittadino e
pubblica amministrazione che l’ente locale provveda alla
riscossione della sanzione ma soltanto nella misura minima,
conseguente all’accertamento del ritardo protrattosi per i
primi 120 giorni (ai sensi dell’ art. 42, comma 2, lett. a),
d.P.R. n. 380 del 2001).
Per converso, sarebbero inapplicabili le maggiori sanzioni
previste per ritardi superiori nella misura in cui
l’amministrazione, con un comportamento improntato a
diligenza e buona fede avrebbe potuto evitare, a mezzo della
tempestiva escussione della garanzia fideiussoria, di
aggravare la posizione debitoria dell’intestatario del
titolo edilizio.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto
condivisibile il secondo, maggioritario orientamento
giurisprudenziale.
Ha affermato che non sussiste alcuna base normativa che
correli il potere sanzionatorio del comune al previo
esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso
il debitore principale ovvero presso il fideiussore. Ed
invero, il sistema di pagamento del contributo di
costruzione è caratterizzato dalla presenza solo eventuale
di una garanzia prestata per l’adempimento del debito
principale e di un parallelo strumento a sanzioni crescenti,
con chiara funzione di deterrenza dell’inadempimento, che
trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi
dell’inadempimento dell’obbligato principale.
In tale sistema, l’amministrazione comunale, allo scadere
del termine originario di pagamento della rata ha solo la
facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde
ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non
accada, l’amministrazione avrà comunque il dovere/potere di
sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del
contributo a percentuali crescenti all’aumentare del
ritardo. Peraltro, solo alla scadenza di tutti termini
fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver
applicato le massime maggiorazioni di legge),
l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della
riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore
principale (art. 43, d.P.R. n. 380 del 2001).
La portata di tale ultima disposizione è peraltro tale da
ritenere che l’amministrazione, se pure non è impedita dallo
svolgere attività sollecitatoria dei pagamenti (senza
attingere al rimedio straordinario della riscossione
coattiva) in occasione delle scadenze dei termini intermedi
cui sono correlati gli aumenti percentuali del contributo
secondo il già indicato modello, è certo facultata ad
attendere il volontario pagamento da parte del debitore (e
eventualmente del suo fideiussore), salvo in ogni caso
restando il suo potere-dovere di applicare le sanzioni di
legge per il ritardato pagamento.
La legge è dunque chiara nell’assegnare all’amministrazione
il potere/dovere di applicare le sanzioni al verificarsi di
un unico presupposto fattuale, e cioè il ritardo nel
pagamento da parte dell’intestatario del titolo edilizio (o
di chi gli sia subentrato secundum legem).
La stretta osservanza del principio di legalità, imposta
dalla rigorosa applicazione del canone
interpretativo-letterale delle disposizioni richiamate,
comporta pertanto che va ritenuta legittima l’applicazione
delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di
pagamento che siano potute venire all’interessato o al suo
fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo
edilizio (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 07.12.2016 n. 24 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Offerta al minor prezzo e offerta economicamente più
vantaggiosa negli appalti servizi di natura intellettuale
sotto soglia comunitaria.
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Gara – Appalto sotto soglia comunitaria
– Servizi di natura intellettuale – Criterio di
aggiudicazione – Sistema del minor prezzo – Art. 95, d.lgs.
n. 50 del 2016 – Illegittimità.
Ai sensi dell’art. 95, commi 3 e 4, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, è illegittima la scelta dell’Amministrazione di
aggiudicare con il sistema del minor prezzo, anziché con
quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, una
procedura aperta ex art. 60 dello stesso d.lgs. n. 50, sotto
soglia di rilevanza comunitaria, per l’appalto del servizio
di sorveglianza sanitaria, avente natura intellettuale (1).
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(1) Ha chiarito il Tar Reggio Calabria che il comma 4 dell’art. 95
prevede le ipotesi tassative nelle quali è ancora
consentito, secondo la discrezionale e motivata scelta della
stazione appaltante, l’utilizzo del massimo ribasso;
dall’altro, deve considerarsi che il comma 3 dell’art. 95
stabilisce, in termini imperativi ed in via di specialità,
che “sono aggiudicati esclusivamente sulla base del
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
individuata sulla base del miglio rapporto qualità/prezzo: …
b) i contratti relativi all’affidamento … degli altri
servizi di natura tecnica e intellettuale di importo
superiore a 40.000 euro”.
Il servizio di sorveglianza sanitaria è riconducibile alla
categoria dei servizi di natura intellettuale. La specialità
ed inderogabilità del divieto sancito dal comma 3 dell’art.
95, per i servizi intellettuali di importo superiore a
40.000 euro, rende irrilevante stabilire se l’appalto per la
sorveglianza sanitaria sia standardizzato o ripetitivo. Il
Codice, infatti, non consente in alcun modo l’utilizzo del
criterio del prezzo più basso per l’affidamento dei servizi
di natura intellettuale, quand’anche questi presentino uno
dei caratteri alternativamente indicati dal comma 4 (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 30.11.2016 n. 1186 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2.1. E’ fondata l’impugnativa dell’esclusione del
ricorrente, dal che deriva la sua legittimazione ad
impugnare l’ammissione della Gi.Se..
Egli è stato escluso per la sola ragione di aver fatto
ricorso all’avvalimento, in relazione al requisito relativo
al fatturato globale, così incorrendo nel divieto della lex
specialis di gara.
Dalla dichiarazione versata agli atti di gara, risulta
inequivocabilmente che il fatturato specifico dichiarato dal
ricorrente per l’esecuzione di servizi analoghi presso la
medesima ATAM era pari, alla data di pubblicazione del
bando, ad euro 60.705,90 per l’anno 2015 e ad euro 59.417,27
per il successivo anno. Risulta altresì comprovato il
possesso del requisito relativo al fatturato globale medio,
richiesto dalla lex specialis nella misura di euro
58.522,10.
Tale circostanza, peraltro, è lealmente confermata dalla
stessa parte resistente (cfr. memoria dell’ATAM del 19.07.2016) che, dunque, avrebbe dovuto ammettere in gara
il dott. Gentile, non ricorrendo, nel caso di specie, una
integrazione aliunde del requisito di qualificazione.
Il possesso del fatturato globale e specifico in capo al
dott. Ge. è incontestato.
La Difesa del ricorrente richiama il condivisibile
orientamento della giurisprudenza, su fattispecie analoga:
“…La ratio generale che connota l’istituto dell’avvalimento
(anche di garanzia) è quella per cui, ai fini della
partecipazione alle procedure di gara, il concorrente può
dimostrare le capacità tecniche, finanziarie ed economiche
(nonché il possesso dei mezzi necessari all'esecuzione
dell’appalto) esibendo la capacità e gli strumenti di uno o
più soggetti diversi, vincolati da uno specifico contratto
(Consiglio di Stato, sez. V, 22.01.2015 n. 257 e la
giurisprudenza ivi richiamata).
Dunque lo scopo dell’istituto è quello di permettere agli
operatori, che aspirano all’affidamento di una commessa
pubblica, di raggiungere il livello di qualificazione
preteso dall’Ente aggiudicatore, grazie al sostegno di
imprese terze.
Tale descrizione evidenzia i caratteri di un istituto per
nulla assimilabile ad altre forme di aggregazione tipiche
ammesse dal legislatore (ATI, Consorzio), per cui è del
tutto ragionevole ritenere che, ove per qualsiasi motivo
l’offerente riesca (nel corso della procedura o al termine
della medesima) ad integrare in proprio il requisito di
partecipazione, possa giovarsene senza ledere i principi
cardine dell’evidenza pubblica, ossia la par condicio e
l’imparzialità.
Un requisito soggettivo introdotto dalla lex specialis può
essere certamente dimostrato mediante l’avvalimento di una
Società terza, ma ben può essere raggiunto dall’aspirante
aggiudicatario in proprio, senza che sia configurabile un
mutamento della domanda di partecipazione né
un’inammissibile contraddizione con quanto dichiarato
nell’istanza, dal momento che l’impresa ausiliaria era
chiamata a supplire la carenza di un requisito che si è poi
oggettivamente accertato presso l’ausiliata.
In conclusione, l’avvalimento si configura come un quid
pluris rispetto alla capacità tecnica dell’impresa che
ritiene di farvi ricorso, che perde rilevanza qualora la
stessa dimostri autonomamente di vantare il bagaglio
tecnico-professionale prescritto dalla lex specialis, senza
che siano alterate le modalità di partecipazione alla gara
non determinandosi la creazione di una nuova compagine, come
avverrebbe con la modificazione di un’ATI o di un Consorzio”
(TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 22.03.2016, n. 434).
Il possesso del requisito in capo al ricorrente, effettivo e
pacifico (in quanto esplicitamente ammesso dalla Difesa
dell’ATAM in corso di giudizio), determina l’illegittimità
del provvedimento di esclusione, per violazione dei principi
del favor partecipationis e del buon andamento, considerato
che, come correttamente osservato dalla Difesa del
ricorrente, l’ampliamento della platea degli offerenti è
funzionale all’elevazione dei livelli qualitativi e/o a
possibili risparmi di spesa.
Le dichiarazioni versate agli atti di gara, viepiù nel caso
di specie (caratterizzato dalla piena consapevolezza della
stazione appaltante circa la sussistenza del requisito di
capacità economica, in ragione dei pregressi rapporti
contrattuali), vanno dunque interpretate alla luce dei
predetti principi, i quali impongono di considerare tamquam
non esset una “inutile” dichiarazione di avvalimento,
altrimenti idonea a comportare l’esclusione tout court.
L’esclusione, pertanto, è illegittima.
2.2. Ne deriva la carenza d’interesse all’esame delle
censure proposte, con il ricorso principale, avverso il
bando di gara, sia nella parte in cui vieta il ricorso all’avvalimento,
sia nella parte in cui non indica le ragioni per cui è stato
richiesto ai concorrenti un fatturato minimo annuo, ai sensi
dell’art. 83, V comma, del nuovo Codice.
2.3. L’impugnativa dell’ammissione della controinteressata,
invece, non è suscettibile di favorevole apprezzamento.
Il ricorrente deduce la violazione del paragrafo 3.5.b. del
bando, in quanto la Gi.Se. sarebbe priva del
requisito di capacità tecnica –almeno un servizio “nel
settore oggetto di gara” per un importo complessivo non
inferiore ad euro 29.261,05 nell’ultimo triennio– avendo
allegato, a tal fine, l’attività di sorveglianza sanitaria
resa in favore dei dipendenti dell’Agenzia delle Entrate:
nel caso di specie, invece, l’appalto ha ad oggetto la
sorveglianza sanitaria nei confronti dei conducenti di
autobus, vale a dire un settore oggettivamente diverso, in
quanto caratterizzato dai peculiari bisogni e rischi
professionali dei dipendenti operanti nel comparto dei
trasporti.
La censura è infondata.
E’ sufficiente richiamare i principi che, secondo un
indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, dal quale non
si ravvisano ragioni per discostarsi, devono governare le
valutazioni relative al possesso del requisito di
partecipazione attinente allo svolgimento di servizi
analoghi a quelli oggetto dell’appalto.
E’ stato innanzitutto chiarito che,
nel caso in cui con il
bando venga richiesto ai partecipanti di documentare il
pregresso svolgimento di servizi analoghi, la stazione
appaltante non è legittimata ad escludere i concorrenti che
non abbiano svolto tutte le attività oggetto dell’appalto,
né ad assimilare impropriamente il concetto di servizi
analoghi con quello di servizi identici, atteso che la ratio
del requisito va individuata nel contemperamento tra
l’esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il
principio della massima partecipazione alle gare pubbliche
(in tal senso, Consiglio di Stato, Sez. V, 25.06.2014,
n. 3220).
Si è, inoltre, precisato che “la richiesta di documentare il
pregresso svolgimento di servizi non identici, ma solo
analoghi a quelli oggetto dell'appalto, deve intendersi
giustificata dall'esigenza di acquisire conoscenza della
precedente attività dell'impresa e, quindi, di accertare la
sua specifica attitudine a realizzare le prestazioni oggetto
della gara, con la duplice conseguenza che quest’ultima va
riconosciuta nell’attestazione di esperienze
sufficientemente simili, almeno negli aspetti essenziali e
caratterizzanti, e che dev’essere, viceversa, negata solo a
fronte della dichiarazione di attività neanche assimilabili
a quella oggetto dell'appalto” (Consiglio di Stato, Sez. III,
25.06.2013, n. 3437; Id., Sez. III, 05.12.2014, n.
6035).
Ad avviso del Collegio, la Gi.Se. ha senz’altro
dimostrato di aver svolto un servizio analogo “nel settore
oggetto di gara”, tale dovendo considerarsi l’attività di
sorveglianza sanitaria nei confronti dei dipendenti di altra
amministrazione pubblica, ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008.
Ne discende l’infondatezza della censura.
3. Dall’infondatezza della suddetta domanda principale
deriva la scrutinabilità della domanda di annullamento
dell’intera procedura di gara, proposta in via subordinata.
3.1. Quanto all’asserita illegittimità del criterio di
aggiudicazione del prezzo più basso (rispetto alla quale vi
è senz’altro interesse a ricorrere, atteso che il ribasso
offerto dal ricorrente è inferiore rispetto a quello,
giudicato congruo, dalla controinteressata, unica ammessa),
si osserva quanto segue.
La gara controversa, indetta dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, riguarda un appalto:
- di importo complessivo pari euro 58.522,10 oltre I.V.A.,
inferiore alla soglia comunitaria, ai sensi dell’art. 35 del
Codice vigente;
- attratto all’ambito dei settori speciali, in quanto
strumentale al servizio di trasporto di cui all’art. 118 del
Codice, secondo i principi elaborati dalla più recente
giurisprudenza con riferimento all’abrogato D.Lgs. n.
163/2006; si è infatti condivisibilmente affermato, su
fattispecie pressoché identica a quella qui in esame, che
“… l’attività svolta da ATAC Spa rientra nell’ambito dei
cc.dd. settori speciali e, specificamente, in quello dei
servizi di trasporto di cui all’art. 210 del d.lgs. n. 163
del 2006…
L’assoggettabilità dell’affidamento di un servizio alla
disciplina dettata per i settori speciali, quindi, non può
essere desunta sulla base di un criterio solo soggettivo,
relativo al fatto che ad affidare l’appalto sia un ente
operante nei settori speciali, ma deve tener conto anche di
un parametro di tipo oggettivo, relativo alla riferibilità
del servizio all’attività speciale.
L’oggetto dell’appalto di cui al lotto 1 è costituito dalle
prestazioni sanitarie previste dal D.M. n. 88 del 1999 e
dalle altre normative vigenti in materia di rapporto di
lavoro. In particolare, le società concorrenti sono state
invitate a presentare un’offerta relativamente alle
prestazioni sanitarie inerenti le visite mediche di
revisione del personale di movimento previste dal protocollo
sanitario punto 9 del D.M. n. 88 del 1999 …
Il Collegio ritiene che l’aggiudicazione dell’appalto sia
strumentale, ponendosi in rapporto di mezzo a fine,
all’esercizio dell’attività istituzionale di trasporto
svolto dell’Azienda, per cui rientra, sia pure
indirettamente, tra gli scopi propri (core business) dello
stesso.
L’aggiudicazione dell’appalto, quindi, è avvenuta per uno
scopo omogeneo, e non diverso, rispetto all’esercizio
dell’attività istituzionale, con conseguente inapplicabilità
dell’art. 217 d.lgs. n. 163 del 2006 ed applicabilità della
parte III del codice dei contratti pubblici" (TAR Lazio,
Sez. II-ter, 18.02.2013, n. 1778);
- rientrante nell’Allegato IX al Codice, trattandosi di
servizio sanitario (CPV 85147000 – 1);
- soggetto all’applicazione dei principi e dei divieti posti
dall’art. 95 del Codice, in tema di scelta del criterio di
selezione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in
virtù dell’esplicito rinvio operato, per tutti gli appalti
dei settori speciali, dall’art. 133, I comma, dello stesso
Codice (applicabile anche ai servizi specifici di cui
all’Allegato IX, per effetto della previsione dell’art. 114,
I comma, il quale estende in via generale l’applicabilità
della disciplina del Titolo VI – Capo I del Codice, ivi
compreso l’art. 133 e le norme da quest’ultimo richiamate,
anche ai servizi elencati nell’Allegato IX e menzionati
nell’art. 140, I comma).
Ne consegue che la stazione appaltante ha illegittimamente
optato per l’aggiudicazione al prezzo più basso, in
violazione della regola desumibile dal combinato disposto
dei commi III e IV dell’art. 95 del Codice.
Da un lato, il comma IV dell’art. 95 prevede le ipotesi
tassative nelle quali è ancora consentito, secondo la
discrezionale e motivata scelta della stazione appaltante,
l’utilizzo del massimo ribasso: e tra queste verrebbe in
rilievo, secondo la difesa di ATAM, la lett. b) per i
servizi “con caratteristiche standardizzate”, ovvero la
lett. c) per i servizi “caratterizzati da elevata
ripetitività”.
Dall’altro, deve considerarsi che il comma III dell’art. 95
stabilisce, in termini imperativi ed in via di specialità,
che “sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata
sulla base del miglio rapporto qualità/prezzo:
… b) i contratti relativi all’affidamento … degli altri
servizi di natura tecnica e intellettuale di importo
superiore a 40.000 euro”.
Il servizio di sorveglianza sanitaria è riconducibile alla
categoria dei servizi di natura intellettuale.
La specialità ed inderogabilità del divieto sancito dal
comma III dell’art. 95, per i servizi intellettuali di
importo superiore a 40.000 euro, rende irrilevante stabilire
se l’appalto per la sorveglianza sanitaria sia, nelle
concrete modalità prefigurate dall’ATAM, standardizzato o
ripetitivo.
Il Codice, infatti, non consente in alcun modo l’utilizzo
del criterio del prezzo più basso per l’affidamento dei
servizi di natura intellettuale, quand’anche questi
presentino uno dei caratteri alternativamente indicati dal
comma IV.
Per quanto detto, il bando di gara è illegittimo, nella
parte in cui ha previsto l’aggiudicazione al massimo ribasso
sull’importo a base d’asta, e va annullato.
3.2. E’ conseguentemente improcedibile, per difetto
d’interesse, il motivo attinente all’asserita violazione
dell’obbligo di comunicare la data della seduta pubblica di
gara. |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Caldaia
non disattivata? Omicidio colposo. Il manutentore che rileva
un rischio deve mettere fuori servizio l’impianto.
Rischia l’omicidio colposo il
tecnico che controlla la caldaia e non chiude l’impianto,
anche se verifica che non è idoneo.
La Corte di
Cassazione (Sez. feriale penale,
sentenza 26.10.2016 n. 44968) sottolinea la posizione
di garanzia rivestita dal tecnico che lavorava per una ditta
con la quale il proprietario aveva sottoscritto un contratto
di manutenzione.
Il ricorrente aveva effettuato un paio di controlli a
distanza di tempo, dichiarando in un caso la conformità
dell’impianto e in un altro segnalando le disfunzioni, a
iniziare dalla collocazione in un ambiente non adatto al
tipo di caldaia. Per lui, dopo la morte del proprietario
della casa dovuta a intossicazione da monossido di carbonio,
era scattata la condanna.
Il ricorrente aveva fatto presente
che altri dopo di lui avevano verificato l’impianto,
sottolineando anche l’inerzia di comune e concessionaria del
gas. La Cassazione precisa però che quando l’obbligo di
impedire un evento ricade su più soggetti che devono
intervenire in tempi diversi, il nesso di causalità tra la
condotta omissiva e l’evento non viene meno per effetto del
mancato intervento da parte di un altro soggetto anche lui
destinatario dell’obbligo di impedire il fatto.
La presenza
di coimputati in procedimenti connessi, non impedisce dunque
ai giudici di affermare la responsabilità di chi per primo
aveva visto la caldaia. Secondo il tecnico poi non esisteva
una fonte giuridica che gli attribuisse l’autorità di
interdire l’uso dell’impianto a un privato: poteri che
dovevano, a suo avviso, essere individuati in capo a un
soggetto pubblico.
Per la cassazione non è così. La fonte
normativa è nel Dpr 412/1993 (allegato h) secondo il quale
il tecnico deve, nello spazio del rapporto indicato come
“prescrizioni”, chiarire che, non avendo eliminato i
problemi che compromettono la sicurezza, ha messo fuori uso
l’apparecchio e diffidato l’occupante dal suo utilizzo.
Fatto questo deve anche indicare le operazioni necessarie
per ripristinare le condizioni di sicurezza. Per i giudici
la dizione “messa fuori servizio” indica chiaramente che
questa dove essere effettuata dal tecnico che fa la
verifica (articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Aste
con aggiudicazione «rafforzata». Cassazione. Resta l’obbligo
di pagare anche se l’ordinanza di vendita non dà notizia di
un ordine di demolizione parziale.
Chi si aggiudica un immobile all’asta non può rifiutarsi di
pagarlo solo perché né l’ordinanza di vendita né la
pubblicità davano notizia dell’ordine di demolizione
parziale del bene acquistato, se la notizia si «scopre»
nella relazione di stima.
La Corte di
Cassazione (Sez. III civile -
sentenza
25.10.2016 n. 21480) respinge il ricorso
dell’acquirente che non avendo versato il prezzo nel termine
fissato, era stato dichiarato decaduto dall’aggiudicazione.
Il giudice dell’esecuzione aveva inoltre disposto
l’incameramento di 140 mila euro di cauzione.
Una condanna
ingiustificata per il compratore, il quale sosteneva che le
era stato venduto un bene diverso (aliud pro alio) rispetto
a quello pubblicizzato su carta e web e difforme anche da
quanto scritto nell’ordinanza di vendita nella quale non si
faceva cenno alla sentenza che condannava il debitore a
demolire parte della casa. Informazione evidenziata nella
relazione di stima, richiamata dall’ordinanza di vendita,
inoltre una copia della sentenza era stata depositata agli
atti del procedimento esecutivo.
Per la Cassazione la
vendita era regolarmente pubblicizzata. I giudici precisano,
infatti, che non tutte le circostanze rilevanti per
individuare le caratteristiche del bene offerto, compresa
l’esistenza di eventuali oneri o diritti di terzi o le
informazioni per determinare il valore, devono essere
esposte nell’ordinanza di vendita o nella pubblicità.
L’importante per la Suprema corte è che le indicazioni utili
siano comunque ricavabili dall’esame della relazione di
stima e del fascicolo processuale, che l’interessato
all’acquisto ha il dovere e il diritto di consultare prima
di fare la sua offerta.
Ma a prescindere dalla conoscibilità
della sentenza la Cassazione precisa che non sarebbe
comunque stato possibile, nel caso esaminato, rifiutare il
pagamento eccependo «l’aliud pro alio». Un’ipotesi
configurabile solo se il bene aggiudicato appartiene a un
genere del tutto diverso da quello indicato nell’ordinanza
di vendita, se non possiede le qualità necessarie «per
assolvere la sua naturale funzione economico-sociale» o se è
compromessa la destinazione del bene ad un uso considerato
determinante per l’offerta di acquisto. Per la Cassazione
non si poteva ritenere che l’immobile non fosse idoneo alla
destinazione.
La sentenza emessa contro il debitore
comportava solo la necessità di fare dei lavori, procedere a
una parziale demolizione e richiedere la concessione in
sanatoria. Anche se il ricorrente non fosse stato informato
della situazione, si sarebbe potuta al massimo ipotizzare
una differenza quantitativa ma non qualitativa tra il bene
da trasferire e quello descritto nell’ordinanza di vendita.
Né, per finire, il ricorrente ha dimostrato che non avrebbe
comprato l’immobile senza la parte da demolire o che aveva
chiesto una riduzione di prezzo, ma si era limitato a
chiedere indietro la cauzione, omettendo del tutto il
pagamento (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Ok a opere superspecialistiche. Previsti nuovi limiti
inerenti i lavori subappaltabili. Il Consiglio di stato sullo schema di decreto del ministero
delle infrastrutture.
Via libera del Consiglio di stato al decreto ministeriale
sulla disciplina delle opere superspecialistiche; aggiunte
due tipologie di opere non subappaltabili se superano il
dieci per cento del totale dei lavori.
È questo l'effetto
del
parere
21.10.2016 n. 2189 sullo schema di
decreto (del ministero delle infrastrutture) attuativo
dell'art. 89, comma 11, del nuovo codice dei contratti
pubblici (decreto 50/2016) sulla disciplina delle opere
cosiddette superspecialistiche ("Schema
di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti
recante individuazione delle opere per le quali sono
necessari lavori o componenti di notevole contenuto
tecnologico o di rilevante complessità tecnica e dei
requisiti di specializzazione richiesti per la loro
esecuzione, ai sensi dell’articolo 89, comma 11, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50”).
Il Codice prevede che per le
opere individuate dal dm non sia ammesso l'avvalimento,
qualora il loro valore superi il 10% dell'importo totale dei
lavori e per le quali l'eventuale subappalto non possa
superare il 30% di tali lavorazioni.
Il provvedimento ha una
sua rilevanza, dal momento che serve anche a superare, in
attesa della definizione da parte dell'Anac, del sistema
unico di qualificazione degli operatori economici previsto
dall'art. 84 del Codice degli appalti, il regime transitorio
previsto dall'art. 216, comma 15, del Codice, il quale,
comunque, fa salvo l'articolo 12 del decreto 47/2014 in base
al quale fino a quando non sarà pubblicato in G.U. il
decreto oggetto del parere, continuerà ad applicarsi la
disciplina del 2014.
Proprio con riferimento a questa ultima
disciplina il decreto ministeriale ne ha sostanzialmente
conferma la disciplina con le sole aggiunte delle categorie
OS12-B (barriere paramassi, fermaneve e simili) e OS32
(strutture in legno).
Su questa linea il Consiglio di stato
si è pronunciato favorevolmente: «La scelta
dell'amministrazione di ribadire l'elenco delle opere
superspecialistiche già recato dalle previgenti disposizioni
non può che essere condivisa, e ciò in considerazione del
fatto che in attesa della predisposizione da parte dell'Anac
del sistema unico di qualificazione di cui all'art. 84 del
Codice non sarebbe utile provocare disallineamenti e
disfunzioni rispetto al vigente sistema di qualificazione».
La sezione consultiva ha avvertito, però, che il
bilanciamento degli interessi fra imprese generali e
specialistiche, incolumità pubblica e concorrenza, così come
gli effetti della presente disciplina sulle imprese, «potranno
essere valutati, a seguito della concreta applicazione del
decreto in esame, tramite l'analisi di alcuni specifici
indicatori quali il numero dei contratti stipulati
concernenti le opere superspecialistiche, ricavabile dalla
banca dati nazionale dei contratti pubblici, ed il numero
degli eventuali contenziosi che scaturiranno
dall'applicazione della normativa».
Tutto da verificare, quindi, entro i prossimi mesi
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: La pizzeria è in appartamento. Ammessa l'apertura se non è espressamente vietato.
La Cassazione: stop alle interpretazioni estensive dei
regolamenti condominiali.
Sì all'apertura di una pizzeria al primo piano di un
condominio, qualora il regolamento non lo vieti
espressamente. Quindi, stop a interpretazioni estensive dei
divieti regolamentari. Nell'applicare le limitazioni poste
dal regolamento condominiale al libero utilizzo delle
proprietà private occorre, infatti, procedere a
un'applicazione rigorosa del significato letterale delle
singole clausole, confrontandole con le tutte le altre
disposizioni.
I predetti divieti vanno infatti configurati
come eccezioni al principio della libera estrinsecazione
delle facoltà di godimento contenute nel diritto di
proprietà e, come tali, possono essere applicati soltanto
ove espressamente e chiaramente risultanti dal regolamento
contrattuale.
Lo ha chiarito la
Corte di Cassazione -Sez. II civile- nella recente
sentenza 20.10.2016 n. 21307.
Il caso. Nella specie il condomino proprietario di un
appartamento aveva citato in giudizio il condomino
confinante, a sua volta proprietario di un locale a piano
terra e del soprastante appartamento. Detto locale era stato
da tempo adibito a pizzeria e in un secondo momento,
mediante l'apertura di un collegamento interno tra di esso e
l'appartamento soprastante, anche quest'ultimo era stato
utilizzato per lo svolgimento dell'attività commerciale.
Il
primo condomino aveva quindi denunciato a più riprese i
rumori derivanti da tale unità immobiliare e si era risolto
a rivolgersi al tribunale. Occorre però evidenziare come il
regolamento in questione ponesse dei vincoli di destinazione
per le sole unità immobiliari poste al piano terreno e per
le cantine. Il tribunale aveva per tale motivo respinto
integralmente le domande svolte dal condomino, mentre la
Corte di appello, successivamente interessata della
questione, le aveva viceversa accolte sulla base di una
lettura più ampia del predetto divieto regolamentare.
Secondo i giudici del gravame il fatto che le predette
limitazioni riguardassero soltanto i piani terranei e cantinati non doveva portare alla conclusione che invece
qualsiasi utilizzo fosse possibile per le unità immobiliari
dei piani superiori. Infatti, poiché il regolamento era
stato redatto sul principio dell'espressa elencazione delle
destinazioni consentite, in mancanza di indicazioni per i
piani superiori, doveva ritenersi che gli stessi potessero
essere adibiti soltanto a uso abitativo.
La decisione della Suprema corte. La Suprema corte ha
ritenuto che, nel caso di specie i giudici di merito
avessero errato nell'applicazione dei criteri di
interpretazione del contratto individuati dagli artt. 1362
ss. c.c. In base alla consolidata giurisprudenza di
legittimità il regolamento contrattuale può imporre
limitazioni alle facoltà di godimento dei condomini sulle
proprietà esclusive sia mediante elencazione di attività
vietate (tecnica di redazione indicata come preferibile
dalla Suprema corte) sia con riferimento ai pregiudizi che
si intendono evitare.
In questo secondo caso, tuttavia,
proprio per meglio circoscrivere l'ambito applicativo di
tali limitazioni, i divieti devono risultare da disposizioni
chiare e specifiche, che facciano riferimento alle attività
e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare
intende evitare, in modo da consentire una verifica a
posteriori sulla meritevolezza dell'interesse al quale si
intende sacrificare la compressione del diritto di
proprietà. Di conseguenza, nell'interpretazione di tali
divieti, deve in primo luogo farsi riferimento al tenore
letterale delle singole disposizioni regolamentari, evitando
interpretazioni estensive, e verificare la chiarezza e
specificità, dunque l'effettiva applicabilità, delle singole
clausole.
Nella specie la disposizione regolamentare
invocata faceva inequivoco riferimento ai soli piani
terranei e cantinati, consentendone tra l'altro un ampio
utilizzo in relazione a diverse attività commerciali. Già da
questo punto di vista risultava quindi contrario ai canoni
ermeneutici sopra ricordati ritenere che il mancato
riferimento ai piani superiori potesse ritenersi sintomo di
una volontà implicita della collettività condominiale di
vietarne qualsiasi altro utilizzo. Inoltre, da una lettura
complessiva del predetto regolamento, emergevano anche degli
specifici divieti per le unità immobiliari dei predetti
piani superiori, prova evidente del fatto che la
collettività condominiale, nei casi in cui lo aveva ritenuto
necessario, aveva espressamente provveduto.
Di conseguenza i Supremi giudici hanno censurato l'attività
interpretativa svolta nella specie dalla Corte di appello in
relazione al contenuto del regolamento e volta a ricostruire
una presunta volontà implicita della collettività
condominiale poiché, al contrario, come detto, occorre
invece attenersi alla volontà esplicitata dalle norme
contenenti le limitazioni al diritto di proprietà esclusiva
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Pizzeria
al primo piano? Sì, se il regolamento tace.
Condominio. Per la Cassazione va dato peso soprattutto alle
espressioni letterali della «legge» interna dello stabile
Una pizzeria al
primo piano? E perché no? La Corte di Cassazione - Sez. II
civile (sentenza 20.10.2016 n. 21307)
ha riconosciuto il diritto del condòmino di svolgere
serenamente la sua attività di ristorazione, con buona pace
del vicino esasperato dal trambusto. Tutto perché il
regolamento condominiale non è sufficientemente preciso al
riguardo.
La sorprendente vicenda prende le mosse nel 2008, quando
inizia il contenzioso promosso dagli sfortunati vicini per
impedire lo svolgimento dell’attività commerciale della
porta accanto, che era collegata al piano terra da una scala
interna dalla quale salivano e scendevano i clienti (senza
quindi usare beni o aree comuni) ma che produceva immissioni
moleste. Il tutto in presenza di un regolamento condominiale
contrattuale (predisposto dal costruttore) che tra l’altro
disponeva che «i locali cantinati e i terranei potranno
essere destinati a (...) esercizio di qualunque attività
commerciale, industriale, artistica e professionale (...)
senza alcuna limitazione». Proprio basandosi su questa
clausola, i vicini disturbati sostenevano che, con la sola
esclusione del piano terra, tutte quelle attività non
potessero svolgersi. E avevano ottenuto ragione dalla Corte
d’appello.
I condòmini pizzaioli, però, che evidentemente non volevano
rinunciare ai tavoli in più disponibili per la loro
attività, avevano fatto ricorso in Cassazione. Che ha dato
loro ragione a prescindere da qualsiasi considerazione circa
le immissioni moleste (sulle quali peraltro la Corte
d’appello aveva anch’essa dato torto ai vicini, dato che non
ne era stata adeguatamente provata l’intollerabillità).
La Cassazione, infatti, ribaltando il ragionamento della
Corte d’appello, ha affermato che il tenore letterale del
regolamento condominiale contrattuale è determinante in
situazioni come questa. E quindi, non avendo il regolamento
espressamente disciplinato l’esercizio di queste attività in
piani diversi da quello terreno, la ristorazione (in quanto
esercizio commerciale) ben poteva essere svolta anche al
primo piano.
Per la Corte, «il senso letterale delle parole», anche se
«le singole clausole vanno lette in correlazione tra loro»,
è il «principale strumento» per capire le intenzioni di ha
sottoscritto il regolamento. E, dato che in questo caso il
supposto divieto per il primo piano è il risultato di
«un’esegesi ancorata alla ricostruzione di una volontà
implicita» e non esplicita, la Cassazione ha cassato la
sentenza reinviandola alla Corte d’appello per un nuovo
esame (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016).
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MASSIMA
4. Passando alla disamina del primo motivo di ricorso,
deve premettersi che costituisce
orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza
della Corte quello secondo cui
(cfr. da ultimo Cassazione civile, sez. II, 08/01/2016, n.
138) non è censurabile in Cassazione
l'interpretazione del regolamento di condominio compiuta dai
giudici di merito salvo che per violazione dei canoni
ermeneutici o per vizi di motivazione
(conf. Cassazione civile, sez. 11, 23/05/2012, n. 8174;
Cassazione civile, sez. Il, 04/04/2011, n. 7633).
Inoltre, e proprio in relazione all'interpretazione del
regolamento condominiale di origine contrattuale, si è
ribadito che (cfr. Cassazione civile, sez. II, 19/10/2012,
n. 18052 ) ai fini della ricerca della
comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è
rappresentato dal senso letterale delle parole e delle
espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve
essere verificato alla luce dell'intero contesto
contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate
in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro
coordinamento a norma dell'art. 1363 c.c. e dovendosi
intendere per "senso letterale delle parole" tutta la
formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in
ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già
in una parte soltanto, quale una singola clausola di un
contratto composto di più clausole, dovendo il giudice
collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di
chiarirne il significato.
Una volta ribadita la necessità di fare applicazione delle
regole legali di interpretazione in materia di contratti
anche al caso in esame, va altresì ricordato che
costituisce principio di diritto del tutto
consolidato presso questa Corte di legittimità, quello
secondo il quale, con riguardo all'interpretazione del
contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice
di merito, l'invocato sindacato di legittimità non può
investire il risultato interpretativo in se, che appartiene
all'ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel
giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato)
rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal
legislatore agli arti. 1362 e ss, cod. civ., e sulla (in)
coerenza e (il)logicità della motivazione addotta
(cosi, tra le tante, Cass., Sez. 3, 10.02.2015, n. 2465):
l'indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata
esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata
in sede di legittimità solo per inadeguatezza della
motivazione o per violazione delle relative regole di
interpretazione, con la conseguenza che non può trovare
ingresso la critica della ricostruzione della volontà
negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella
prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva
degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a
quo.
Orbene, pur a fronte di tali doverose premesse, reputa il
Collegio che l'interpretazione che della clausola
regolamentare di cui sopra è stata offerta dalla Corte
distrettuale, non possa essere condivisa, ponendosi la
stessa in contrasto con i principi che debbono presiedere
l'interpretazione, tenuto conto in particolare dei
consolidati principi espressi da questa Corte in tema di
limitazioni convenzionali al diritto di proprietà,
scaturenti per l'appunto da un regolamento condominiale di
natura contrattuale.
Ed, infatti, anche di recente si è ribadito che (cfr. Cass.
n. 19229/2014) il regolamento condominiale
di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di
destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle
unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante
elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai
pregiudizi che si intende evitare.
In quest'ultimo caso, peraltro, per evitare
ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà
dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono
risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che
alla clausola in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi
che la previsione regolamentare intende impedire, così
consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà
inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un
interesse meritevole di tutela. Si è infatti ribadito che la
compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà
esclusive dei singoli condomini, deve risultare da
espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento
chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze
(cfr. Cass. un. 20237/2009 non massimata, Cass. n.
16832/2009 non massimata, Cass. n. 9564/1997, Cass. n.
1560/1995; Cass. n. 11126/1994; Cass. n. 23/2004 e Cass, n.
10523/2003).
Ciò implica che nella ricerca della comune
intenzione, o come
nella fattispecie, nell'individuazione
della regola dettata dal regolamento contrattuale, non possa
prescindersi dall'univocità delle espressioni letterali
utilizzate, dovendosi in linea di principio rifuggire da
interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto
attiene all'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà
individuale, ma ancor più per quanto concerne la corretta
individuazione dei beni effettivamente assoggettati alla
limitazione circa le facoltà di destinazione di norma
spettanti al proprietario. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Parametri,
confine al primo grado. L’impugnazione è un’eventualità:
attività professionale chiusa con la sentenza.
Avvocati. Lo spartiacque per l’applicazione delle nuove
«tariffe» è la data in cui è compiuta la prestazione.
L’attività professionale dell’avvocato,
ai fini dell’individuazione della tariffa applicabile, può
dirsi conclusa quando c’è la sentenza di primo grado.
L’impugnazione della pronuncia è, infatti, solo
un’eventualità.
La Corte di Cassazione - Sez. III civile, con la
sentenza 20.10.2016 n. 21256,
torna sui criteri di applicazione di nuovi parametri
professionali, dettati dal decreto ministeriale 140/2012, in
base ai quali vanno commisurati anche i compensi forensi.
L’occasione arriva da un ricorso nel quale, fra le altre
eccezioni, si puntava il dito contro la decisione del
giudice d’appello che aveva fatto lievitare il compenso del
legale applicando i nuovi parametri mentre il tribunale
aveva fatto ricorso nel liquidare le spese di lite al
precedente decreto ministeriale del 2004 (n. 127). Lo
scostamento era il risultato di un diverso punto di vista
sul momento in cui si considerava conclusa la prestazione
del legale.
Ferma restando l’irretroattività dei parametri del 2012, per
la liquidazione resta il criterio della data in cui è
completata la prestazione professionale. Per il Tribunale
questa poteva dirsi conclusa con la sentenza di primo grado,
emessa quando erano ancora vigenti i vecchi criteri. Una
scelta dalla quale aveva preso le distanze la Corte
d’Appello che, investita del ricorso, riteneva l’attività
ancora in essere, con la conseguente applicabilità delle
nuove tariffe perché «entrate in vigore medio tempore».
La conseguenza della lettura era stata quella di porre
rimedio alla drastica riduzione degli onorari fatta dal
giudice di primo grado, rivedendoli verso l’alto. Una scelta
contestata, con successo, in Cassazione.
I giudici della terza sezione ricordano che i nuovi
parametri, sui quali vanno tarati i compensi forensi al
posto delle abrogate tariffe professionali, si applicano in
tutti i casi in cui la liquidazione giudiziale intervenga
dopo l’entrata in vigore del decreto. La condizione è che a
tale data la prestazione professionale non sia ancora stata
completata. Per questo è necessario escludere che si possa
far ricorso al Dm 140 nel caso di una prestazione svolta in
un grado di giudizio terminato prima dell’entrata in vigore
«atteso che in tal caso la prestazione professionale deve
ritenersi completata sia pure limitatamente a quella fase
processuale».
La Suprema corte ribadisce dunque che se il giudizio di
primo grado si è chiuso sotto la vigenza del Dm 127/2004 è
questo che governa la liquidazione. Per la Cassazione la
lettura è in linea con i principi generali della successione
delle leggi nel tempo.
A sbagliare è stato il giudice d’appello che, applicando il
Dm 140/2012, ha ritenuto l’attività ancora in essere. Per la
Cassazione, invece, «il giudizio di primo grado sfocia in
una sentenza idonea a concludere ogni accertamento
processuale passando in giudicato, essendo sotto il profilo
del rito una mera eventualità l’impugnazione della pronuncia»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Doppio
reato edilizio senza tenuità. Solo contravvenzione se il
soppalco abusivo è di dimensioni contenute.
Cassazione. La violazione di due norme penali della stessa
specie esclude la non punibilità.
Esclusa la particolare tenuità del
fatto per chi costruisce un soppalco, alzando il tetto, e
apre due punti luce sulla facciata esterna di un palazzo
situato in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico. Il
tutto senza la Dia e senza il permesso di costruire. La
violazione contemporanea di due disposizioni di legge
relative a reati della stessa specie sbarra la strada alla
non punibilità, prevista dall’articolo 131-bis del Codice
penale, nei casi in cui l’offesa al bene tutelato sia lieve.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 19.10.2016 n. 44319
respinge tutte le giustificazioni dell’autore degli abusi,
che aveva di fatto creato all’interno del suo palazzo un
vero e proprio piano ammezzato, con una scala interna che
portava al soppalco “intermedio” alto 2 metri e 30, dotato
di due bagni e di un paio finestre “lucifere” prive di
affaccio ma visibili dall’esterno dell’immobile.
Per fare il soppalco i solai di copertura erano stati alzati
di almeno mezzo metro, una circostanza che aveva indotto il
vicino a costituirsi parte civile per i danni. Malgrado il
ricorrente abbia avuto torto su tutti i punti, la Cassazione
annulla la sentenza impugnata per quanto riguarda la
sanzione. Un “benefico” effetto della sentenza della Corte
costituzionale (56/2016) in virtù della quale il delitto
paesaggistico, se con l’abuso non si verifica un aumento
volumetrico superiore a quanto indicato dalla norma
(articolo 181, comma 1-bis, del Dlgs 42/2004) é
“derubricato” a semplice contravvenzione.
Ma, anche se la pena è abbattuta, la condotta non può
restare impunita, come sarebbe accaduto se i giudici
avessero accolto la richiesta di applicazione dell’articolo
131-bis del Codice penale.
Per la Cassazione, correttamente, la Corte di merito aveva
escluso che nel caso di creazione di un nuovo piano
abitabile, si possa parlare di offesa di particolare
tenuità. Sul punto i giudici di merito avevano respinto la
tesi della difesa secondo la quale l’altezza di 2,30 metri
avrebbe escluso l’abitabilità, a fronte di una previsione di
legge che fissa la soglia minima a 2 metri e 70. Secondo la
Cassazione, infatti, i 40 centimetri in meno sono certamente
di ostacolo all’agibilità, ma non impediscono al
proprietario dell’immobile di vivere comodamente nel suo
ammezzato con doppi servizi.
La tenuità del fatto, abitabilità a parte, non avrebbe
comunque potuto essere riconosciuta, perché erano state
violate in contemporanea più disposizioni della legge
penale: il Codice sui beni paesaggistici (articolo 181, Dlgs
42/2004) e il Testo unico sull’edilizia (articolo 44,
lettera c, Dpr 380/2001). L’articolo 131-bis del Codice
penale non può essere applicato, quando l’imputato commette
più reati della stessa indole, o infrange più volte «la
stessa o diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima
“ratio punendi”». Per la Suprema corte è la stessa norma a
considerare il fatto nella sua dimensione “plurima”: una
valutazione d’insieme che rende irrilevante l’eventuale
particolare tenuità dei singoli segmenti in cui questo si
articola.
Non passa neppure la questione sollevata dalla difesa sulla
legittimazione del vicino, che non aveva provato alcun
danno, a costituirsi parte civile. La Suprema corte spiega,
infatti, che non è necessario fornire la dimostrazione del
pregiudizio subìto. Nel caso di abusi edilizi il
proprietario confinante può costituirsi parte civile non
solo se vengono violate le norme civili che regolano le
distanze tra le costruzioni, ma anche nel caso di
inosservanza di queste indipendentemente dalle distanze.
Trasferendo il principio al caso esaminato, l’innalzamento
del solaio con conseguente aumento della volumetria
abitabile e del carico urbanistico, fatto violando le norme
sulle costruzioni, era potenzialmente idoneo a produrre un
danno al vicino. Tanto basta per affermare il diritto al
risarcimento (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Aspiratori
alternativi alle canne fumarie. Locali pubblici. Tar Lazio.
Le canne fumarie dei
pubblici esercizi con cucina e somministrazione di alimenti
possono essere sostituite da altri sistemi di abbattimento
dei fumi.
Lo ha stabilito il
TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la
sentenza 17.10.2016 n. 10337
che riconosce le innovazioni tecniche.
Il problema delle canne fumarie è molto sentito nei centri
storici. Esse sono ritenute obbligatorie per i locali che
somministrano alimenti e bevande e poco gradite dai
condòmini. I Comuni seguono regole diverse tra loro. Più
norme statali e locali hanno preso genericamente atto che,
in centri storici e aree di particolare pregio
architettonico, si possono consentire anche apparati moderni
ed ecologicamente idonei.
Il Tar ne prende atto, “sdoganando” alternative come
strumenti aspiranti filtranti, se c’è un’idoneità accertata
secondo la normativa vigente. I giudici richiamano princìpi
di matrice comunitaria, quali quelli di precauzione e
prevenzione, svincolando in parte le previsioni del
commercio da quelle urbanistico-edilizie e dei regolamenti
igienico sanitari comunali, a favore di carboni magri e
apparecchi fumivori. Specie se ne è certificata
l’eguaglianza alle canne fumarie sulla neutralizzazione di
fumi e vapori.
Grazie alla spinta del decreto Bersani (223/2006) sulla
concorrenza, del Dl 138/2011 che abolisce restrizioni su
attività economiche e ai Dl 201/2011, 1/2012 e 90/2013 su
esercizi commerciali e impianti termici, si introducono
elementi di elasticità, almeno nei centri storici: se ci
sono test favorevoli, le canne fumarie nei centri storici si
possono superare, facendo leva su concorrenza, trasparenza,
pari opportunità e non discriminazione (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Canne fumarie dei pubblici esercizi: ok del Tar a
vie di fumo alternative.
La normativa consente anche il ricorso a vie di fumo
alternative che dovranno essere valutate caso per caso.
In tutti i casi di scarico non collocabili nella categoria
EHA 1 è obbligatorio dotare gli impianti dei locali di
cottura all’interno dei locali di ristorazione di sistemi di
scarico dei fumi posti sulla cima del tetto ovvero sulla
sezione più alta dell’edificio.
Lo precisa il TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la
sentenza 17.10.2016 n. 10337.
OK AI SISTEMI ALTERNATIVI.
I giudici amministrativi di Roma chiariscono che, fermo
restando l’impiego ordinario delle vie di fumo tradizionali,
la normativa consente anche il ricorso a vie di fumo
alternative che dovranno essere valutate caso per caso.
Tale
disciplina è da considerarsi tuttora vigente in quanto non
in contrasto con l’art. 12 del Reg. reg. 1 del 2009 che
prescrive l’accertamento dell’idoneità della via di fumo
alternativa “secondo la normativa vigente in materia” (e
dunque non pregiudica l’operatività di detta norma
regolamentare).
LE NORME TECNICHE.
Il Tar Lazio richiama più normative tecniche a livello
comunitario: UNI EN 15251:2008, recante “Criteri per la
progettazione dell’ambiente interno e per la valutazione
della prestazione energetica degli edifici, in relazione
alla qualità dell’aria interna, all’ambiente termico,
all’illuminazione e all’acustica” e applicabile ad
abitazioni individuali, condomini, uffici, scuole, ospedali,
alberghi e ristoranti, impianti sportivi, edifici ad uso
commerciale all’ingrosso e al dettaglio; UNI EN 15239:2008 e
UNI EN 15240:2008 entrambe descriventi una metodologia per
l’ispezione degli impianti.
In particolare, la normativa UNI EN 13779:2008 (Requisiti
prestazionali dei sistemi per l’edilizia non residenziale)
prevede dettagliate classificazioni di aria nell’ambiente,
in particolare l’aria esterna (ODA) e l’aria interna (IDA) e
classifica quest’ultima in quattro categorie collocando
all’interno di quella più dannosa per la salute umana (“aria
estratta con altissimo livello di inquinamento”), l’aria
proveniente, fra l’altro, da “cappe aspiranti per uso
professionale, piani cottura e scarichi locali di cucine” in
quanto contenente odori ed impurità dannosi per la salute in
concentrazioni sensibilmente più elevate di quelle permesse
per l’aria interna nelle zone occupate.
Le norme UNI EN, elaborate dal CEN (Comité Européen de
Normalisation), sono preordinate ad uniformare la normativa
tecnica in tutta Europa e devono ritenersi non solo regole
di buona tecnica ma, altresì norme vincolanti in presenza di
leggi o di regolamenti di recepimento.
Il Tar Lazio osserva che la normativa tecnica “UNI EN 13779
Ventilazione degli edifici non residenziali - Requisiti di
prestazione per i sistemi di ventilazione e di
climatizzazione” è espressamente richiamata nell’All. B al d.m. 26.06.2009 (vedasi altresì, in precedenza, art. 7
dell’abrogata legge n. 46 del 1990 nonché, per quanto
riguarda le attività di installazione degli impianti
all'interno degli edifici, il d.m. n. 38 del 2007,
all’art. 5, comma 3 e all’art. 6, comma 1) e quindi trova
applicazione nel vigente Ordinamento.
La norma tecnica che
essa indica in tutti i casi di scarico dell’aria esausta
diversa da quella della cat. EHA 1 (che è nella
catalogazione sopra richiamata quella considerata la meno
dannosa per la salute ed è qualificata come “aria estratta
con basso livello di inquinamento” da ambienti come uffici,
classi scolastiche, scalinate, corridoi ecc.) è data dalla
seguente prescrizione: “In tutti gli altri casi lo scarico
dovrebbe essere posto sulla cima del tetto. Come regola,
l’aria esausta è condotta sopra la sezione più alta
dell’edificio e scaricata verso l’alto” (commento tratto da
www.casaeclima.com).
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MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensiva, della
determinazione dirigenziale prot. CA/122467/2015 del
30.07.2015 avente ad oggetto: ordine di cessazione
dell’attività di cucina nell’esercizio di somministrazione
al pubblico di alimenti e bevande svolta nel locale sito in
via Sistina n. 9 dalla società ricorrente.
...
2. La questione sottoposta all’esame del Collegio, riguardante la
cessazione dell’attività di cottura esercitata
nell’esercizio che concerne -come dichiarato nel ricorso
introduttivo dall’originaria ricorrente e confermato
nell’atto proposto dalla società “La Ta. del
Pe. srl”, che ha reintestato l’autorizzazione
dell’esercizio- la preparazione di cibi caldi, per attività
di ristorante, vede investita questa Sezione, competente
alla trattazione, di una crescita esponenziale dei relativi
contenziosi che in parte sono stati definiti e alle
decisioni già assunte si rinvia (n. 7973/2016, n. 8289/2016,
n. 9164/2016).
2.1. Preliminarmente, ai fini dell’inquadramento della
normativa applicabile nella specie, si rileva che
la vigente
normativa in materia di criteri di realizzazione e di
utilizzo delle canne fumarie attiene alla tutela della
salute e pubblica igiene (cfr. sul principio Cons. Stato,
sez. VI, n. 1 del 2015) e quindi è ripartita tra la
competenza non esclusiva dello Stato e quella concorrente
delle Regioni. E’ tuttora vigente il D.M. 05.09.1994
che fissa l’elenco delle industrie insalubri di prima e
seconda classe, includendo nell’elenco di seconda classe le
“friggitorie”.
In particolare la l.r. Lazio n. 21 del 2006,
concernente la “disciplina dello svolgimento delle attività
di somministrazione di alimenti e bevande” demanda, per la
sua attuazione, ad un regolamento regionale (art. 7) “le
previsioni di salvaguardia per gli esercizi di
somministrazione di alimenti e bevande, con riferimento alle
norme in materia di destinazione d'uso e ai regolamenti
urbanistici ed edilizi, nell'ambito di contesti urbani di
particolare pregio artistico ed architettonico”; mentre
rimette alla regolamentazione comunale “l'utilizzo, da parte
dei locali in cui si svolge attività di somministrazione di
alimenti e bevande, di più moderni ed ecologicamente idonei
strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei
fumi, di preferenza senza immissione in atmosfera, e per la
diminuzione dell'inquinamento acustico, con particolare
riferimento ai centri storici”.
L’art. 12 del Reg. Reg. n. 1 del 2009 dispone che i Comuni,
nell'ambito degli strumenti urbanistici e dei regolamenti
edilizi garantiscono l'equilibrio tra le esigenze di tutela
dei contesti urbani di particolare pregio
artistico-architettonico e quelle di tutela della libera
iniziativa economica e dei diritti acquisiti dagli esercizi
già operanti all'interno dei contesti stessi; ulteriormente
prevedendo che gli esercizi di cui al comma 1 (e cioè quelli
che operano all’interno dei contesti urbani di particolare
pregio artistico-architettonico) “possono utilizzare, in
alternativa alle canne fumarie, altri strumenti o apparati
tecnologici aspiranti e/o filtranti per lo smaltimento dei
fumi, la cui idoneità è accertata secondo la normativa
vigente in materia” implicitamente, dunque, riconoscendo la
possibilità del ricorso all’impiego di sistemi alternativi (e cioè di “di più moderni ed ecologicamente idonei strumenti
o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi”) alla
via di fumo tradizionale (id est: canna fumaria), ma
subordinandolo alla circostanza (da accertarsi, dunque, in
concreto) che esso assicuri un’efficienza di rendimento pari
o superiore all’impiego della canna fumaria: esegesi questa
che del resto si impone anche alla luce dei principi di
derivazione comunitaria di precauzione e prevenzione (sulla
conferma di una tale interpretazione in fattispecie del
tutto simile a quella in trattazione, vedi Cons. Stato, sez.
V, n. 4428 del 2008); e tanto fermo restando che:
1- gli esercizi autorizzati, in linea di principio, ad
avvalersi di vie di fumo diverse da quelle tradizionali sono
solamente quelli siti in determinati contesti urbani di
particolare pregio (e si rammenta a tal riguardo che, per le
zone di pregio artistico, storico, architettonico e
ambientale sottoposte a tutela, l'apertura o il
trasferimento di sede degli esercizi di somministrazione di
alimenti e bevande al pubblico, comprese quelle alcooliche
di qualsiasi gradazione, di cui alla l. n. 287 del 1991, sono
soggetti ad autorizzazione e non a Scia: vedi art. 64, commi 1
e 3, del d.lgs. n. 59 del 2010, come sostituito dall’art. 2 del
d.lgs. n.147 del 2012); ne consegue che gli esercizi esterni
a tali contesti non beneficiano di analoga alternativa e
sono tenuti, inevitabilmente, a dotarsi di canne fumarie (e
tanto anche a mente del comma 6 dell’art. 64 citato che
subordina l'avvio e l'esercizio dell'attività di
somministrazione di alimenti e bevande “al rispetto delle
norme urbanistiche, edilizie, igienico-sanitarie e di
sicurezza nei luoghi di lavoro”);
2 - l’idoneità degli impianti alternativi va accertata in
concreto e secondo la normativa vigente in materia, che
include tanto la normativa comunitaria quanto quella
regolamentare (posto che la prescrizione in esame si limita
a richiamare la normativa vigente, senza altre
specificazioni); d’altro canto un’interpretazione
costituzionalmente orientata delle predette norme regionali
secondo ragionevolezza non può prescindere nella sua
applicazione dal considerare le locali norme regolamentari,
che, secondo i consueti principi di sussidiarietà e
prossimità dei livelli di governo, assicurano l’effettività
di tutela delle concrete esigenze dello specifico contesto
territoriale, così evitando le conseguenze abnormi di
un’applicazione del dato legislativo uguale per tutte le
realtà urbane (come sarebbe, si immagini, la situazione in
cui ci si troverebbe laddove, applicando acriticamente ed in
maniera generalizzata il principio secondo il quale la canna
fumaria deve sovrastare di una certa distanza il colmo del
palazzo vicino, si dovesse pretendere un’altezza superiore a
quella anche del più alto grattacielo confinante: cfr., sul
principio, Cons. Stato, sez. V n. 1 del 2015 cit.; idem, sez.
V, 17.06.2014, n. 3081 ove si afferma che <<ai sensi
dell'art. 272, comma 1, del D.L.vo 03.04.2006 n. 152 e
successive modifiche, la canna fumaria in questione è
considerata scarsamente inquinante, con conseguente suo
assoggettamento ai "piani e programmi di qualità dell'aria
previsti dalla vigente normativa" di fonte locale, ovvero ad
una disciplina di fonte regionale à sensi dell'art. 271,
comma 3, dello stesso T.U. e successive modifiche>>:
disciplina che nella Regione Lazio tuttavia non risulta a
tutt'oggi emanata se non nei termini sopra indicati);
Va aggiunto inoltre che a livello regolamentare locale
l’art. 59 del Reg. Ed. dispone quanto ai “Condotti di fumo”
che “Ferme restando le disposizioni contenute nel
Regolamento di igiene, è vietato di far esalare il fumo
inferiormente al tetto o stabilire condotti di fumo con tubi
esterni ai muri prospettanti sul suolo pubblico" (per quanto
attiene alla correlazione tra la disciplina del commercio e
quella urbanistico-edilizia, e tra queste ed il regolamento
igienico-sanitario comunale, cfr. Tar Lazio, sez. II-ter, n.
11129 del 2015; Cons. Stato, sez. V, n. 3262 del 2009; Tar
Campania, Napoli, n. 10058 del 2008 e n. 556 del 2010);
mentre, sempre al medesimo livello normativo, l’art. 64 del
Reg. Igiene non impone necessariamente l’utilizzo della
canna fumaria; esso difatti, all’ultimo periodo dispone che
“L'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per caso,
quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei carboni
magri o di apparecchi fumivori”.
Pertanto, e fermo restando l’impiego ordinario delle vie di
fumo tradizionali, la normativa consente anche il ricorso a
vie di fumo alternative che dovranno essere valutate caso
per caso. Tale disciplina è da considerarsi tuttora vigente
in quanto non in contrasto con l’art. 12 del Reg.reg. 1 del
2009 che prescrive l’accertamento dell’idoneità della via di
fumo alternativa “secondo la normativa vigente in materia”
(e dunque non pregiudica l’operatività di detta norma
regolamentare).
Né l’implicita abrogazione dell’art. 64 può
derivare dall’art. 15 del Reg. reg. citato: e ciò in quanto
tale previsione nulla dispone con riguardo alle conseguenze
della mancata adozione, entro il termine di 90 giorni
prescritto, della normativa regolamentare locale di
adeguamento (che può essere sollecitata da chi vi abbia
interesse con il ricorso ai normali strumenti processuali);
va solo meglio chiarito che un adeguamento si impone
allorché la norma locale pre-esistente sia incompatibile con
la superiore previsione regionale, ma ciò è da escludersi
nel caso di specie, non vietando il locale Regolamento
d’Igiene il ricorso a “più moderni ed ecologicamente idonei
strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei
fumi”, ma limitandosi ad imporne, a tutela di un interesse
primario quale, come dianzi ricordato, quello della salute,
il preventivo accertamento); al che accede la chiara
infondatezza delle censure che poggiano sulla violazione
della citata normativa regionale nonché sull’interpretazione
di tali disposizioni così come dedotto in gravame.
2.2. Inoltre va rilevato che a livello comunitario vengono in
considerazione più normative tecniche (vedi UNI EN
15251:2008, recante “Criteri per la progettazione
dell’ambiente interno e per la valutazione della prestazione
energetica degli edifici, in relazione alla qualità
dell’aria interna, all’ambiente termico, all’illuminazione e
all’acustica” e applicabile ad abitazioni individuali,
condomini, uffici, scuole, ospedali, alberghi e ristoranti,
impianti sportivi, edifici ad uso commerciale all’ingrosso e
al dettaglio; UNI EN 15239:2008 e UNI EN 15240:2008 entrambe
descriventi una metodologia per l’ispezione degli impianti);
e fra queste in particolare la normativa UNI EN 13779:2008
(Requisiti prestazionali dei sistemi per l’edilizia non
residenziale) che prevede dettagliate classificazioni di
aria nell’ambiente, in particolare l’aria esterna (ODA) e
l’aria interna (IDA) e che classifica quest’ultima in
quattro categorie collocando all’interno di quella più
dannosa per la salute umana (“aria estratta con altissimo
livello di inquinamento”), l’aria proveniente, fra l’altro,
da “cappe aspiranti per uso professionale, piani cottura e
scarichi locali di cucine” in quanto contenente odori ed
impurità dannosi per la salute in concentrazioni
sensibilmente più elevate di quelle permesse per l’aria
interna nelle zone occupate.
Le norme UNI EN, elaborate dal CEN (Comité Européen de
Normalisation), sono preordinate ad uniformare la normativa
tecnica in tutta Europa e devono ritenersi (non solo regole
di buona tecnica ma, altresì) norme vincolanti in presenza
di leggi o di regolamenti di recepimento (cfr. sul
principio, Corte Cost., 18.06.2015, n. 113 nonché Corte
Cass., seconda sezione civile, 15.12.2008, n. 29333;
vedi anche Cons. Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3081 cit.
laddove con riguardo alle modalità di intubamento della
canna fumaria asservita ad una pizzeria con forno a legna
sottolinea la necessità di renderla sicuramente conforme
alla tuttora vigente norma UNI 10683 Ed. marzo 1998
"Generatori di calore a legna. Requisiti di installazione",
nonché l'ulteriore disciplina tecnica successivamente
intervenuta).
La normativa tecnica “UNI EN 13779 Ventilazione degli
edifici non residenziali - Requisiti di prestazione per i
sistemi di ventilazione e di climatizzazione” è
espressamente richiamata nell’All. B al d.m. 26.06.2009 (vedi
altresì, in precedenza, art. 7 dell’abrogata legge n. 46 del
1990 nonché, per quanto riguarda le attività di
installazione degli impianti all'interno degli edifici, il d.m. n. 38 del 2007, all’art. 5, comma 3 e all’art. 6, comma 1)
e quindi trova applicazione nel vigente Ordinamento; e preso
atto che la norma tecnica che essa indica in tutti i casi di
scarico dell’aria esausta diversa da quella della cat. EHA 1
(che è nella catalogazione sopra richiamata quella
considerata la meno dannosa per la salute ed è qualificata
come “aria estratta con basso livello di inquinamento” da
ambienti come uffici, classi scolastiche, scalinate,
corridoi ecc.) è data dalla seguente prescrizione: “In tutti
gli altri casi lo scarico dovrebbe essere posto sulla cima
del tetto. Come regola, l’aria esausta è condotta sopra la
sezione più alta dell’edificio e scaricata verso l’alto”.
2.3. Sulla base di quanto sin qui esposto, deriva (in tutti
i casi di scarico non collocabili nella predetta cat. EHA 1)
l’obbligo di dotare gli impianti dei locali di cottura
all’interno dei locali di ristorazione di sistemi di scarico
posti sulla cima del tetto ovvero sulla sezione più alta
dell’edificio: vincolo questo che rende inapplicabile alla
fattispecie il disposto dell’art. 19, comma 1, della legge
n. 241 del 1990, a norma del quale sono esclusi dall’ambito
dell’applicazione della segnalazione ivi meglio disciplinata
i casi in cui sussistano (i) “vincoli” ivi individuati tra i
quali quelli imposti dalla normativa comunitaria.
Conseguentemente, al fine di superare tale vincolo,
il
Collegio, rimeditando precedenti orientamenti,
ritiene che
non può considerarsi sufficiente la produzione in giudizio
di una consulenza tecnica di parte (asseverazione di
conformità, come allegata, con cui si dichiara che la
tipologia del sistema di filtrazione attualmente in uso,
unitamente al suo regolare stato di manutenzione, fanno si
che il sistema riesca ad abbattere la maggior parte delle
sostanze prodotte dalla normale attività di cucina [odori di
cucinato, fritture, ecc.] circa l’idoneità dell’impianto
alternativo a sostituire le vie di fumo tradizionali (nella
specie, tra l’altro, dovendosi esigere che l’accertamento –da parte di professionisti che possiedono le conoscenze
tecnico scientifiche idonee per effettuare, con i necessari
strumenti, le misurazioni dei fumi e vapori evacuati dalla
via di fumo alternativa utilizzata– che il sistema di
scarico sia, concretamente, di efficienza e funzionalità
tale da garantire (nel tempo e/o anche tramite gli
interventi manutentivi da debitamente documentare e
comprovare) una resa di livello pari o maggiore di quello
assicurato da una via di fumo tradizionale e che tale
accertamento, in sintonia con quanto previsto dall’art. 64
citato (“L'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per
caso, quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei
carboni magri o di apparecchi fumivori”) sia condotto nel
procedimento amministrativo con le competenti autorità e
concluso prima dell’avvio dell’attività imprenditoriale;
considerazione cui accede l’infondatezza della doglianza
imperniata sul convincimento che la ricorrente possa
considerarsi autorizzata, in forza di Scia sanitaria,
all’utilizzo di via di fumo alternativa (in fattispecie del
tutto assimilabile a quella in trattazione, il Cons. Stato,
sez. V, sent. cit. n. 4428 del 2008, ha testualmente
affermato: “In altri termini, il tecnico ha dichiarato che
le emissioni non sono nocive o lesive e non limitano i
diritti dei terzi, ma non che l’impianto sia idoneo sotto il
peculiare aspetto della uguaglianza dei suoi effetti di
neutralizzazione di fumi, vapori ed odori di cucina a quelli
del sistema tradizionale. Né tanto è attestato nelle altre
relazioni, che anzi non si basano neppure su prove
effettuate in concreto, bensì su un “plausibile” valore
complessivo di abbattimento delle emissioni”).
Nel caso in esame, non risulta effettuato detto accertamento
preventivo da parte dell’autorità amministrativa né
rilasciato alcun provvedimento espresso di autorizzazione ex
art. 64 citato all’uso di impianti alternativi alla canna
fumaria, per cui deve escludersi che possa essersi formato
il titolo abilitativo a seguito di presentazione della Scia
c.d. “sanitaria”.
La praticabilità della Scia (sanitaria) in subiecta materia
neppure potrebbe essere predicata in forza del regime di
liberalizzazione delle attività economiche, tenuto conto
delle espresse deroghe contemplate nella relativa
legislazione a tutela del bene “salute” e della “sicurezza
dei lavoratori”; e difatti se si esamina attentamente la normazione vigente al riguardo si può notare che:
a) il d.l. n. 223 del 2006 (c.d. decreto c.d. Bersani)
laddove, all’art. 3 (Regole di tutela della concorrenza nel
settore della distribuzione commerciale), consente (in
applicazione delle disposizioni dell'ordinamento comunitario
in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione
delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la libertà
di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e il
corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di
assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed
uniforme di condizioni di accessibilità all'acquisto di
prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi
dell'art. 117, comma secondo, lettere e) ed m), della
Costituzione) che le attività commerciali, come individuate
dal d.lgs. n. 114 del 1998, e di somministrazione di alimenti
e bevande, siano svolte senza i limiti e prescrizioni ivi
individuati, eccettua da tali limiti e prescrizioni le
ipotesi che riguardano, fra l’altro, sia l'iscrizione a
registri abilitanti ovvero il possesso di requisiti
professionali soggettivi per l'esercizio di attività
commerciali (ove sono fatti salvi quelli riguardanti il
settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e
delle bevande), che (lett. “f-bis) l'ottenimento di
autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei
prodotti di gastronomia presso l'esercizio di vicinato,
utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con
l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e
con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie;
b) il d.l. n. 138 del 2011 all’art. 3 (Abrogazione delle
indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle
professioni e delle attività economiche) pur impegnando
Comuni, Province, Regioni e Stato ad adeguare i rispettivi
ordinamenti agli introdotti principi, ammette dei limiti
alla liberalizzazione delle attività economiche nei soli
casi ivi individuati fra i quali annovera la presenza di
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e le
disposizioni indispensabili per la protezione della salute
umana, la conservazione delle specie animali e vegetali,
dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;
ulteriormente consentendo la sopravvivenza di quelle
disposizioni normative statali che, in quanto dettate a
tutela e protezione della salute umana (e degli ulteriori
valori sopra richiamati), prevedono regimi autorizzatori
differenti dalla Scia;
c) il d.l. 06/12/2011, n. 201, all’art. 31 (relativo agli
esercizi commerciali), ribadisce il noto principio di
liberalizzazione, ma consente a Regioni ed enti locali la
possibilità di prevedere senza discriminazioni tra gli
operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali,
ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività
produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità
di garantire la tutela della salute, dei lavoratori,
dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni
culturali;
d) il d.l. 24/2/2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la
concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività), all’art. 1 (Liberalizzazione delle attività
economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle
imprese) comma 2, dopo aver richiamato il principio della
libertà dell’iniziativa economico privata e l’esigenza che
le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o
condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività
economiche si interpretino in senso tassativo, ha ribadito
che il principio costituzionale di libertà predetto ammette
solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad
evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al
paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili
contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con
il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed
internazionali della Repubblica (cfr. sul punto anche sent.
Corte Cost. 23.01.2013, n. 8);
e) in tal senso, la Corte Costituzionale, investita della
verifica di legittimità in ordine alla disposizione di cui
all’art. 3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2011, conv.
con mod. dalla legge n. 148 del 2011, ha rilevato (sentenza
20.07.2012, n. 200) che <<il Legislatore ha inteso
stabilire alcuni principi in materia economica orientati
allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all'interno
della cornice delineata dai principi costituzionali. Così,
dopo l'affermazione di principio secondo cui in ambito
economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge», segue l'indicazione che il legislatore
statale o regionale può mantenere forme di regolazione
dell'attività economica volte a garantire, tra l'altro –oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e
comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali
legati alla tutela della salute, dell'ambiente, del
patrimonio culturale e della finanza pubblica– in
particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della
dignità umana, a presidio dell'utilità sociale di ogni
attività economica, ai sensi l'art. 41 Cost.. La
disposizione impugnata afferma il principio generale della
liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che
eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa
economica debbano trovare puntuale giustificazione in
interessi di rango costituzionale o negli ulteriori
interessi che il legislatore statale ha elencato all'art. 3,
comma 1>>; ulteriormente osservando, con considerazione che
si dimostra pienamente espandibile anche alle previsioni di
cui ai decreti legge n. 201 del 2011 e n. 1 del 2012, che
“il principio della liberalizzazione prelude a una
razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un
lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività
economica che si rivelino inutili o sproporzionati e,
dall'altro, mantenga le normative necessarie a garantire che
le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con
l'utilità sociale” (cfr. anche Corte Cost. n. 8 del 2013
citata);
f) quale logico corollario, va esclusa la presenza di
profili di inconciliabilità della regolamentazione comunale
all’esame rispetto al quadro normativo di rango primario
sopra declinato; e va –ancora una volta– ribadita la piena esercitabilità di un potere di regolamentazione, in ragione
della tutela degli interessi precedentemente illustrati,
delle caratteristiche e/o modalità da osservare
nell’esercizio delle attività di cottura funzionale alla
somministrazione di alimenti e bevande “nell’ambito di
contesti urbani di particolare pregio artistico ed
architettonico”.
Va altresì rilevato che anche in un settore (pur parallelo,
ma) diverso da quello degli impianti di scarico utilizzati
dagli esercizi di ristorazione, la normativa più recente
(Legge n. 90 del 2013, entrata in vigore il 04.08.2013) ha
stabilito nuove disposizioni riguardanti l'evacuazione dei
prodotti della combustione degli impianti termici.
In
particolare, l'art. 17-bis "Requisiti degli impianti
termici", al comma 9 e ss., privilegia espressamente il
ricorso alle canne fumarie ammettendo lo scarico a parete
solo in tre casi specifici (sostituzione dell'impianto con
uno già esistente prima del 01.09.2013 che scaricava a
parete o era allacciato a canna collettiva ramificata; se lo
scarico a tetto risulta incompatibile con norme di tutela
degli edifici; se si dimostra, con un'asseverazione del
progettista, che è impossibile tecnicamente realizzare uno
sbocco a tetto) ed a condizione che gli impianti siano di
classe 4 e 5 stelle nel rispetto delle norme UNI EN 297, UNI
EN 483 e UNI EN 15502 e delle prescrizioni della UNI
7129:2008.
Pertanto, il potere di controllo esercitato nella
circostanza dall’intimata Amministrazione trova titolo nello
svolgimento di una attività economica (somministrazione
alimenti: cottura cibi) in assenza di requisiti oggettivi,
ovvero di canna fumaria, ed in carenza di autorizzazione
all’uso di impianto alternativo che asseveri l’idoneità
dell’impianto medesimo sotto il profilo della sua
“equipollenza” alla via di fumo tradizionale.
2.4. Considerato ancora che la più accreditata
giurisprudenza, allorquando ha affrontato la tematica in
argomento, non ha mai dubitato della legittimità delle norme
e dei conseguenti provvedimenti amministrativi che
imponevano l’impiego di canne fumarie:
- cfr. Cons. Stato,
sez. V, 17.06.2014, n. 3081 che ha ritenuto legittima
l’ordinanza, adottata ai sensi degli artt. 50 e 54 del
D.L.vo 18.08.2000, n. 267, che prescriveva "di
sospendere l'utilizzo del forno a legna fino a quando non
sia provveduto all'esecuzione delle opere necessarie alla
risoluzione dell'inconveniente, quali una accurata pulizia
della canna fumaria e l'eventuale installazione di
dispositivi atti a trattenere le particelle di fuliggine,
nonché una periodica manutenzione della stessa”;
- Cons.
Stato, sez. III, n. 304 del 2013: che ha ritenuto legittima
la prescrizione del regolamento locale di Igiene impositiva
dell’utilizzo di canna fumaria anche nel caso di impiego di
forni elettrici;
- Cons. St., sez. III, 05.10.2011, n. 5474
che ha ritenuto legittima, in applicazione dell’art. 64 del
Reg. Igiene del Comune di Roma, la prescrizione che le canne
fumarie debbono innalzarsi oltre l'ultimo piano al fine di
evitare immissioni nocive a terzi;
- Cons. Stato, sez. V, n.
4428 del 2008, che riguarda fattispecie ampiamente
assimilabile a quella qui in trattazione, in cui l’esercente
si era avvalso di un (contestato) sistema di scarico
alternativo alla canna fumaria, ha dato risalto alle carenze
della relazione peritale evidenziando che il tecnico si è
limitato ad attestare ad attestare che <<dalle rilevazioni
effettuate emerge il ridottissimo impatto delle emissioni
sull’ambiente esterno che non solo non mostrano
caratteristiche di nocività, ma anche non possono essere
ritenute lesive della qualità ambientale e/o limitative dei
diritti dei terzi. In altri termini, il tecnico ha
dichiarato che le emissioni non sono nocive o lesive e non
limitano i diritti dei terzi, ma non che l’impianto sia
“idoneo sotto il peculiare aspetto della uguaglianza dei
suoi effetti di neutralizzazione di fumi, vapori ed odori di
cucina a quelli del sistema tradizionale. Né tanto è
attestato nelle altre relazioni, che anzi non si basano
neppure su prove effettuate in concreto, bensì su un
“plausibile” valore complessivo di abbattimento delle
emissioni>>.
- Ancora il Supremo Consesso ha avuta cura di
precisare che è “evidente che la norma regolamentare imponga
al privato una siffatta dimostrazione, e non
all’Amministrazione di comprovare il contrario”.
3. Sulla base di quanto premesso le censure in premessa
sintetizzate non sono meritevoli di accoglimento, anche se
va dato atto alla parte ricorrente che appare opportuno
sollecitare un intervento regolamentare della resistente
Amministrazione al fine di fornire agli operatori del
settore (già appartenenti allo stesso ovvero che intendono
accedervi) indicazioni normative specifiche e puntuali e,
nel contempo, rispettose dei principi di piena concorrenza,
trasparenza, pari opportunità e non discriminazione.
Conclusivamente il ricorso è infondato con riguardo a tutti
i mezzi di gravame azionati e va respinto e che le spese di
lite, attesa la significativa peculiarità della questione
trattata, possono essere compensate tra le parti in lite
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 17.10.2016 n. 10337 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
L'occupazione d'urgenza neutra ai fini dell'Imu.
Ai fini della soggezione ad Ici (e poi Imu), l'occupazione
d'urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il
proprietario del possesso dell'immobile, in quanto il bene,
finché non interviene il decreto di esproprio, continua ad
appartenere a lui (che percepisce infatti un'indennità per
l'occupazione), mentre l'occupante è un mero detentore.
Solo nel caso in cui il proprietario del terreno abbia perso
la disponibilità dell'area, con l'irreversibile
trasformazione del fondo a seguito della realizzazione
dell'opera pubblica, si verifica lo spossessamento del bene.
Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V
civile, con la
sentenza 14.10.2016 n. 20796.
La questione concerneva l'obbligo del pagamento dell'Ici a
seguito di occupazione d'urgenza, con perdita di possesso
per effetto del decreto di occupazione, antecedente alla
stipula del rogito di cessione volontaria del terreno.
La Commissione tributaria regionale rigettava l'appello del
contribuente, evidenziando che la cessione dei terreni era
avvenuta nel 2006, non rilevando che la società espropriante
ne avesse la disponibilità fin dal 2002. La contribuente
impugnava la sentenza, deducendo che la Commissione
tributaria regionale aveva erroneamente ritenuto che
l'obbligo relativo all'Ici fosse connesso alla titolarità
del diritto di proprietà e prescindesse dal possesso
dell'immobile.
La Corte, respingendo il ricorso, conclude dunque che in
tali casi il proprietario resta soggetto passivo Ici, con
obbligo di presentare la relativa dichiarazione, anche se
l'immobile è detenuto da terzi
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Somme
anticipate da restituire. Anche all'avvocato che non sia
difensore della parte. Lo ha
chiarito la Cassazione in un caso di mancato conferimento
effettivo dell'incarico.
Restituzione delle somme anticipate anche per il legale che
non sia difensore della parte: lo ha chiarito la Corte di Cassazione,
Sez. III civile,
nella
sentenza
13.10.2016
n. 20649.
Nel caso di specie era accaduto che l'avvocato aveva
avanzato la propria pretesa di recupero delle spese da lui
anticipate sulla premessa di essere stato il difensore della
parte, mentre la collega di studio figurava come semplice
prestanome; tuttavia dagli atti risultava che il
conferimento dell'incarico di difensore era stato dato ad
altro professionista, per cui l'appellante avrebbe dovuto
almeno dimostrare la simulazione, cosa che non aveva fatto
essendosi limitato ad una «generica domanda di
restituzione».
Intervenuta sul ricorso mosso avverso la sentenza di merito,
che aveva visto l'appellante soccombente in entrambi i gradi
di giudizio, la III sezione civile ha confutato le
conclusioni cui si era pervenuti in secondo grado,
contestando sia il fatto che, rispetto al valore della
causa, si sarebbe dovuta correttamente dichiarare
l'inammissibilità dell'appello, come proposto e definendo
per tale ragione il suddetto modo di fare «curioso»; sia il
fatto che l'organo giudicante non aveva ritenuto opportuno
ammettere le prove orali richieste «in quanto prive di
connotazione decisoria» dal momento che avrebbero solo
potuto dimostrare che il professionista aveva materialmente
anticipato le somme in questione, cosa che non era mai stata
messa in discussione.
L'ulteriore circostanza, continuano gli ermellini, che non
era stata dimostrata l'effettiva sussistenza di un rapporto
professionale tra le parti non aveva assunto rilievo
decisivo ai fini della risoluzione della causa visto che lo
stesso tribunale aveva finito con il dichiarare «non
essere in contestazione che la somma oggetto di causa era
stata anticipata dal professionista».
Hanno quindi dichiarato fondato il ricorso e rimesso la
causa al giudice del rinvio il quale dovrà chiarire «in
modo coerente» quali siano stati i rapporti intercorsi
tra le parti e stabilire se il difensore avesse diritto alla
restituzione delle somme richieste «anche se versate a
titolo di mera anticipazione e quindi a prescindere
dall'esistenza di un rapporto professionale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016). |
VARI: Copia
privata cedibile solo se originale. Corte Ue. L’acquirente
di un programma per pc può disporne ma con limiti.
La copia di un programma
informatico con la relativa licenza d’uso può essere
rivenduta dall’acquirente iniziale - anche se il titolare
del diritto d’autore non lo consente - ma solo se è ancora
sul suo supporto originale. Divieto assoluto, invece, di
commercializzazione della copia di riserva (la copia
“salvata” dall’acquirente sul suo pc) in assenza
dell’autorizzazione del titolare.
La Corte di giustizia dell’Unione europea -
sentenza 12.10.2016 C-166/15 -
fissa i limiti di circolazione delle copie dei programmi di
back-up e delle applicazioni più diffuse, intervenendo su
una questione rimessale dalla Corte regionale penale di
Riga, in Lettonia.
Lì una coppia di coniugi risultava indagata per un
artigianale quanto florido commercio di programmi
informatici della Microsoft -in particolare Windows e
Microsoft Office- rivenduti in oltre tremila copie per un
guadagno (e corrispettivo danno alla casa di software) di
oltre 265mila euro.
Secondo la difesa della coppia, un’applicazione estensiva
dell’esaurimento del diritto di distribuzione -direttiva
91/250/Cee- renderebbe del tutto lecita l’attività di
duplicazione del programma per elaboratore informatico,
esercitata in ogni caso da chi (l’acquirente iniziale) aveva
acquistato con il programma anche la licenza d’uso
illimitato.
Nell’analizzare la questione, la Corte ha focalizzato il
raggio del ragionamento non tanto sulla duplicazione seriale
dell’opera protetta da copyright -evidentemente non
consentita- quanto sul diritto dell’acquirente in relazione
alla copia originale del programma acquistato.
Secondo la Corte Ue, il potere di veto posto dal titolare
del diritto (nel caso specifico Microsoft) non è dirimente,
cioè è inefficace anche se contrattualmente posto, quindi il
titolare del copyright non può opporsi alle vendite
successive della copia originale da parte dell’acquirente
iniziale. Il potere del primo acquirente però è strettamente
legato proprio al supporto «originale». Fermo il
diritto di chi compra dal legittimo titolare di duplicare il
programma, per ragioni di prudenza, sicurezza eccetera,
questa copia “non originale” e per uso personale non
può essere più commercializzata, se non con il consenso di
chi detiene il copyright.
La realizzazione di una copia di riserva di un programma per
computer è quindi subordinata, secondo la Corte di giustizia
Ue, a due condizioni: tale copia deve, da un lato, essere
realizzata da una persona avente il diritto di usare il
programma e, dall’altro, deve essere finalizzata all’uso del
medesimo.
A giudizio della Corte, la norma che stabilisce un’eccezione
al diritto esclusivo di riproduzione del titolare del
diritto d’autore su un programma informatico, deve quindi
essere oggetto d’interpretazione restrittiva
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2016).
----------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
Gli articoli 4, lettere a) e c), e 5,
paragrafi 1 e 2, della direttiva 91/250/CEE, del Consiglio,
del 14.05.1991, relativa alla tutela giuridica dei programmi
per elaboratore, devono essere interpretati nel senso che,
sebbene l’acquirente iniziale della copia di un programma
per elaboratore accompagnata da una licenza d’uso illimitata
abbia il diritto di vendere d’occasione tale copia e la sua
licenza a un subacquirente, egli non può, per contro,
allorché il supporto fisico originale della copia che gli è
stata inizialmente consegnata è deteriorato, distrutto o
smarrito, fornire a tale subacquirente la sua copia di
riserva senza l’autorizzazione del titolare del diritto. |
APPALTI: Impresa
fuori gara solo se si prova che l’offerta è concordata.
Appalti. Non basta il collegamento.
Il collegamento tra due società che
partecipano a una gara per aggiudicarsi un appalto pubblico
non basta per configurare il reato di turbata libertà degli
incanti. Perché scatti tale illecito occorre la prova che,
dietro la costituzione di imprese apparentemente distinte,
si nasconda un unico centro decisionale di offerte
coordinate o che le imprese, utilizzando il collegamento
abbiano presentato offerte concordate.
Del principio, affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI
penale, con la
sentenza 11.10.2016 n.
42965, beneficiano gli amministratori di due società
che avevano partecipato ad una gara, indetta dall’Anas, per
vincere l’appalto di lavori stradali.
I due manager erano stati condannati sia in primo grado sia
in appello, con un risarcimento ridotto rispetto al primo
grado, per turbata libertà degli incanti. Secondo i
ricorrenti, la Corte d’appello, preso atto del provvedimento
di esclusione, si era allineata al giudizio espresso
dall’organo amministrativo, senza fare valutazioni autonome.
Gli amministratori contestavano la decisione raggiunta dalla
Corte territoriale, che aveva presunto la collusione e la
turbativa della gara d’appalto basandosi sul semplice
collegamento tra le due società e sul rapporto di amicizia
tra i loro responsabili. Il tutto in assenza di condotte
relative ad accordi fraudolenti o in contrasto con le
indicazioni fornite in materia dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza C-538/07).
Per la Cassazione, i ricorrenti hanno ragione. Se è vero che
il collegamento tra due società, rappresenta per gli
amministratori una condizione propizia per stringere
rapporti e consumare il reato previsto dall’articolo 353 del
Codice penale, è altrettanto vero che non si può prescindere
dalla verifiche nel concreto. E, visto che un abisso separa
la supposizione di un fatto dalla prova della questo sia
avvenuto, la Cassazione taglia la strada a qualunque
possibilità di presunzione, affermando che per la turbativa
d’asta è necessaria l’esistenza di collusioni o di altri
mezzi fraudolenti.
I giudici precisano inoltre che la turbata libertà degli
incanti è un reato di pericolo che si configura a
prescindere dal risultato raggiunto, essendo sufficiente la
sola idoneità degli atti. Se c’è collusione, il reato si
consuma nel momento in cui viene presentata l’ultima delle
offerte illecitamente concordate. Dunque, il collegamento in
sé, anche quando non consentito, è solo un indice di
irregolarità che assume rilievo penale quando c’è la prova
di un accordo sulle offerte.
La conclusione raggiunta è in linea con la Corte Ue, secondo
la quale la disciplina nazionale che imponga un divieto
assoluto di partecipazione simultanea ad imprese collegate è
contraria al diritto comunitario se manca la dimostrazione
che il “legame” ha influito sui comportamenti nella gara.
Sbaglia dunque la Corte d’appello a valorizzare quanto
evidenziato dalla commissione esaminatrice che ha escluso i
ricorrenti dalla gara, presumendo, dalla veste esteriore dei
plichi che contenevano le offerte e dai precedenti rapporti
personali e commerciali, che le offerte facessero capo a un
unico centro di interessi e fossero il frutto di manovre
clandestine intraprese violando i princìpi di libera
concorrenza (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2016).
---------------
MASSIMA
2. La fattispecie presa in esame dai Giudici di merito è
stata già considerata nella giurisprudenza di questa Suprema
Corte, che ha stabilito il principio secondo cui
il collegamento, formale o sostanziale, tra società
partecipanti alla gara per l'aggiudicazione di un appalto
pubblico non è di per sé sufficiente a configurare il
delitto di turbata libertà degli incanti, occorrendo la
prova che, dietro la costituzione di imprese apparentemente
distinte, si celi un unico centro decisionale di offerte
coordinate o che le imprese, utilizzando il rapporto di
collegamento, abbiano presentato offerte concordate
(Sez. 6, n. 28517 del 01/04/2014, Vessa, Rv. 259824).
In tal senso, in particolare, nella motivazione della
pronunzia or ora citata questa Corte ha precisato che
il rapporto di controllo o collegamento tra società
rappresenta senza dubbio, per i rispettivi amministratori,
una condizione propizia per stringere accordi clandestini
diretti a battere la concorrenza e, quindi, può ben
alimentare il sospetto che le società concorrenti,
profittando di tale condizione favorevole, possano
concordare le rispettive offerte, consumando il reato
previsto dall'art. 353 cod. pen., mediante la forma tipica
della frode o della collusione.
Ma, come testualmente affermato, "un abisso separa la
supposizione di un fatto dalla prova della sua effettiva
verificazione".
Deve pertanto ritenersi inammissibile qualsiasi presunzione
assoluta di turbativa del corretto svolgimento della gara,
fondata sulla scoperta dell'esistenza di rapporti di
collegamento o controllo, formale o sostanziale, tra società
che vi prendano parte, richiedendo la norma incriminatrice
in esame che la turbativa d'asta sia commessa "con
collusioni o altri mezzi fraudolenti".
Questa Corte ha inoltre stabilito il principio secondo cui
il reato di turbata libertà degli incanti è un reato
di pericolo che si configura non solo nel caso di danno
effettivo, ma anche nel caso di danno mediato e potenziale,
non occorrendo l'effettivo conseguimento del risultato
perseguito dagli autori dell'illecito, ma la semplice
idoneità degli atti ad influenzare l'andamento della gara
(Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami, Rv. 254906).
Se realizzato con la condotta di
collusione, il reato si consuma nel momento in cui è stata
presentata l'ultima delle offerte illecitamente concordate
(Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, cit., Rv. 254904)
e può avere ad oggetto tutti gli accordi preventivi
intervenuti tra i partecipanti sui contenuti specifici delle
rispettive offerte, diretti ad alterare il principio della
libera concorrenza tra i singoli soggetti giuridici che
partecipano in via autonoma alla gara
(Sez. 6, n. 16333 del 23/03/2011, Cardinale, Rv. 250042).
Ciò che rileva, dunque, non è il mero dato
del collegamento, sia esso formale o sostanziale, ma il
fatto che esso in concreto abbia portato le imprese a
presentare offerte coordinate, nei loro specifici ed
effettivi contenuti, in modo da assicurare la vittoria della
gara, o, quanto meno, aumentarne le relative probabilità
(v., in motivazione, Sez. 6, n. 16333 del 23/03/2011, cit.).
Il collegamento, in sé considerato, ed
anche quando non sia consentito, va apprezzato solo come un
indice di irregolarità suscettibile di acquisire rilevanza
penale quando si provi, avvalendosi ovviamente di tutti i
possibili criteri di valutazione indicati dall'art. 192 cod.
proc. pen., che in concreto vi è poi stato un accordo sugli
specifici contenuti delle singole e formalmente autonome
offerte. Accordo preventivo, per sé idoneo ad influire
sull'esito della gara rispetto ai beni giuridici tutelati
dalla norma incriminatrice, che sono quelli della libertà di
partecipazione e della libertà dei singoli partecipanti di
influenzarne l'esito secondo le regole di una libera ed
effettiva concorrenza, funzionale all'ottenimento del "giusto
prezzo" rispetto ai vari parametri stabiliti dal singolo
bando (arg. ex
Sez. 6, n. 16333 del 23/03/2011, cit.).
Nella medesima prospettiva ermeneutica, inoltre, deve
richiamarsi la linea interpretativa seguita dalla Corte di
Giustizia dell'Unione europea (Sez. IV, 19.05.2009,
C-538/07), che, pur soffermandosi sulla corretta esegesi del
disposto di cui all'art. 29 della direttiva del Consiglio
18.06.1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, ha
affermato il principio secondo cui, in base
all'ordinamento comunitario, due imprese, anche se
collegate, possono partecipare alla medesima procedura
qualora dimostrino che il loro rapporto non ha influito sul
loro rispettivo comportamento nell'ambito di tale gara.
Secondo la Corte lussemburghese, dunque, il
diritto comunitario osta ad una disposizione nazionale che,
pur perseguendo gli obiettivi legittimi di parità di
trattamento degli offerenti e di trasparenza nell'ambito
delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici,
stabilisca un divieto assoluto (a carico delle imprese tra
le quali sussista un rapporto di controllo o che siano tra
loro collegate) di partecipare in modo simultaneo, senza
poter dimostrare che il rapporto suddetto non ha influito
sul loro rispettivo comportamento nell'ambito di tale gara.
Non è sufficiente, in altri termini, la constatazione di un
rapporto di collegamento fra imprese, ma occorre verificare
se tale rapporto abbia avuto un impatto concreto nell'ambito
della relativa procedura. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Società
pubbliche, segreti pareri ma non i contratti.
Nelle società a partecipazione pubblica devono essere
coperti da segreto professionale, al fine di salvaguardare
la strategia processuale dell'ente, i pareri resi dagli
avvocati, ma non anche gli atti e i contratti che
l'amministrazione ha eventualmente adottato sulla scorta
degli stessi pareri.
Così il TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 11.10.2016 n. 1193.
I giudici hanno, così, riconosciuto il diritto di alcuni
lavoratori dipendenti di una società pubblica di accedere
agli atti di transazione stipulati dalla medesima società
con altri lavoratori dipendenti in analoga posizione
lavorativa, relativi a procedimenti contenziosi, dal momento
che tali documenti potevano contenere informazioni utili
alla tutela delle proprie pretese nell'ambito dei giudizi
ancora pendenti con la società.
Per quanto concerne, invece,
il diritto di accesso ai pareri legali resi al fine di
stipulare gli atti transattivi sopra citati, occorre
distinguere tra attività legale, anche esterna, che si
inserisce in un procedimento e quella che invece viene
svolta nell'ambito del contenzioso.
E mentre nel primo caso
il documento in cui si concreta l'attività legale si
inserisce nell'ambito di una istruttoria endoprocedimentale
e, fermi restando i rapporti di riservatezza tra l'autore
del parere e l'amministrazione che se ne serve, è soggetto
all'accesso, nel secondo caso no: la p.a. deve poter
esercitare il proprio diritto di difesa protetto
costituzionalmente e deve poter usufruire di una tutela non
inferiore a quella di un qualsiasi altro soggetto
dell'ordinamento, con la conseguente esclusione dall'accesso
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016). |
APPALTI: Pa
senza responsabilità solidale. Semaforo rosso per i periodi
precedenti l’entrata in vigore del Dl 76/2013.
Appalti. La Cassazione ribadisce l’esonero dalla solidarietà
per i debiti retributivi e contributivi degli appaltatori.
Verso le pubbliche amministrazioni non
si applica il regime di responsabilità solidale per i
crediti retributivi e contributivi che regola i rapporti tra
committenti e appaltatori nell’ambito degli appalti di
servizio.
La Corte di Cassazione (Sez. lavoro,
sentenza 10.10.2016 n. 20327),
confermando una precedente pronuncia sullo stesso tema,
esonera le amministrazioni pubbliche dai rischi connessi
agli appalti di servizi anche per i periodi antecedenti
all’entrata in vigore del decreto legge 76/2013 (che ha reso
esplicito tale principio).
La legge (articolo 29 del decreto legislativo 276/2003, la
riforma Biagi), stabilisce che i committenti di tali
contratti rispondono, in solido con gli appaltatori, per i
debiti retributivi e contributivi eventualmente maturati nei
confronti del personale impiegato nell’esecuzione del
servizio, per un periodo massimo di due anni dalla
cessazione del contratto.
La responsabilità del committente ha natura oggettiva, nel
senso che prescinde da una colpa o responsabilità, ma deriva
dal semplice fatto di aver stipulato il contratto.
Questo regime, chiaramente finalizzato a stimolare
atteggiamenti virtuosi dei committenti, si applica con
certezza alle imprese private, mentre è discussa la sua
vigenza verso le pubbliche amministrazioni, quanto meno fino
alla riforma del 2013.
Secondo una corrente di pensiero -cui ha aderito anche il
Tribunale di Torino, chiamato a giudicare il primo grado la
vicenda poi decisa dalla Cassazione con la sentenza
20327/16- la responsabilità solidale si applica nei periodi
antecedenti al 2013 anche verso il committente pubblica
amministrazione, in quanto il Dlgs 276/2003 sarebbe
disapplicabile solo nei confronti del rapporto di pubblico
impiego.
Questa lettura non è condivisa dalla Cassazione, che -con
orientamento costante- esclude la possibilità di applicare
le norme dell’articolo 29 ai contratti di appalto stipulati
dalle amministrazioni pubbliche.
Questa esclusione, secondo la Corte, è ricavabile
dall’articolo 1 del Dlgs 276/2003, nella parte in cui
prevede che il decreto «non trova applicazione per le
pubbliche amministrazioni e per il loro personale». Tale
frase esclude l’applicabilità di tutto il decreto verso le
amministrazioni pubbliche.
La Corte di legittimità, per rafforzare questa lettura,
evidenzia che l’articolo 29 riguarda soltanto gli appalti
suscettibili di essere disciplinati dai contratti collettivi
di lavoro di natura privatistica; questa circostanza
confermerebbe l’inapplicabilità delle regole sulla
responsabilità solidale ai soggetti pubblici.
La sentenza, infine, chiarisce la portata dell’articolo 9
del Dl 76/2013, la norma che ha affermato in maniera chiara
l’inapplicabilità della responsabilità solidale verso i
contratti di appalto stipulati dalle pubbliche
amministrazioni.
Questa norma, secondo la Cassazione, non ha carattere
interpretativo o retroattivo e quindi non può essere
utilizzata per ricostruire il significato delle regole
preesistenti; ma non ha neanche carattere innovativo
rispetto alle regole preesistenti, in quanto si limita a
formulare in maniera più chiara e appropriata una regola che
già esisteva (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2016).
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MASSIMA
2- il ricorso è fondato.
Questa Corte ha già affermato,
con la sentenza richiamata dal ricorrente,
la inapplicabilità dell'art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276
del 2003 ai contratti di appalto stipulati dalle Pubbliche
Amministrazioni ed il principio di diritto è stato poi
ribadito, in motivazione, dalle recenti sentenze 23.05.2016
n. 10664 e 24.05.2016 n. 10731, con le quali, peraltro, si è
escluso che detto principio potesse essere esteso anche alle
società di diritto privato tenute al rispetto della
procedura di evidenza pubblica e si è precisato che la
inapplicabilità agli enti pubblici della responsabilità
solidale discende direttamente dalla espressa previsione
contenuta nell'art. 1, comma 2, del richiamato decreto e non
dalla assoggettabilità dell'appalto alla disciplina dettata
dal d.lgs. 163/2006 e dal d.p.r. 207/2010 (oggi sostituiti
dal d.lgs. 18.04.2016 n. 50), di per sé non incompatibile
con quanto disposto dall'art. 29 del d.lgs. 276/2003.
Il Collegio intende dare continuità a detto orientamento,
poiché gli argomenti utilizzati dalla Corte territoriale a
sostegno della diversa opzione esegetica non sono
condivisibili.
2.1 - L'art. 1 del d.lgs. n. 276 del 2003, nel prevedere che
"il presente decreto non trova applicazione per le
pubbliche amministrazioni e per il loro personale" è
chiaro nell'individuare il destinatario della esclusione,
riferita all'intero decreto, innanzitutto nell'ente
pubblico.
Non si può sostenere, come si legge nella sentenza
impugnata, che i due termini distinti inseriti nel comma 2
dell'art. 1 costituirebbero "un'endiadi" in quanto il
legislatore delegato, conformandosi a quanto previsto
dall'art. 6 della legge n. 30 del 2003, avrebbe solo voluto
impedire "al personale delle pubbliche amministrazioni"
l'utilizzo delle nuove tipologie contrattuali.
La esegesi prospettata contrasta con il chiaro tenore
letterale della norma che, nell'affermare la inapplicabilità
della normativa dettata dal decreto, sia alle pubbliche
amministrazioni che al loro personale, non fa altro che
recepire e rendere più esplicita la indicazione data dal
legislatore delegante, il quale aveva previsto con il
richiamato art. 6 che "le disposizioni degli articoli da
1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche
amministrazioni ove non siano espressamente richiamate'.
Se si scorrono i principi dettati dagli articoli richiamati
nella disposizione ci sì avvede che solo alcuni di essi
possono essere propriamente riferiti al "personale",
perché attinenti a rapporti di lavoro già instaurati, mentre
per quelli relativi alle tipologie di lavoro flessibile,
alla loro disciplina, agli obblighi posti a carico del
datore di lavoro (effettivo o apparente) la esclusione deve
necessariamente essere riferita al soggetto non legittimato
alla conclusione del contratto, che precede la instaurazione
del rapporto di dipendenza o di collaborazione, o al
contraente a carico del quale l'obbligo viene posto ed è,
quindi, improprio esprimere la stessa facendo riferimento al
"personale".
Non sussiste, pertanto, alcun contrasto fra l'art. 1, comma
2, del decreto legislativo e la legge delega, perché il
primo, in realtà, si limita ad esplicitare ciò che era già
contenuto nell'art. 6 della legge n. 30 del 2003.
2.2 - Osserva, inoltre, il Collegio che il richiamo alla
legge delega può orientare l'interprete nella esegesi di una
norma che sia formulata in termini non chiari, ma non
consente di attribuire alla stessa un significato che si
ponga in aperto contrasto con il tenore letterale della
disposizione da interpretare.
In tal caso, infatti, la non coincidenza fra la legge delega
ed il decreto legislativo delegato deve essere denunciata
dinanzi alla Corte Costituzionale per violazione dell'art.
76 Cost., violazione che, peraltro, il Collegio ritiene non
ravvisabile nella fattispecie, sia per le ragioni esposte al
punto che precede, sia sulla base degli argomenti già
indicati da questa Corte nella sentenza n. 15432 del 2014.
Con la richiamata pronuncia si è osservato che il vizio di
eccesso di delega riguarda esclusivamente i rapporti fra
legge delegante e decreto legislativo delegato, sicché viene
meno nei casi in cui il legislatore, intervenendo nuovamente
sul testo normativo, trasformi la natura della norma da
legge in senso materiale a legge in senso formale,
affrancandola dal vizio di eccesso di delega.
Si è, quindi, precisato, attraverso il richiamo alla
ordinanza della Corte Costituzionale n. 5 del 2013, che la
disciplina della responsabilità solidale del committente,
dettata dall'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, è stata
oggetto di plurimi interventi del legislatore, successivi ed
estranei al rapporto di delegazione, che hanno fatto venire
meno, in relazione alla disciplina applicabile ratione
temporls alla fattispecie, ogni rilevanza dell'eventuale
vizio originario.
La sentenza impugnata non è condivisibile nella parte in
cui, dissentendo dal principio, afferma che, in realtà,
detti interventi non hanno mai riguardato la norma che qui
viene in rilievo, ossia il comma 2 dell'art. 1, bensì l'art.
29 ed altre disposizioni del decreto legislativo.
In merito osserva il Collegio che l'art. 1, in quanto norma
generale di esclusione della applicabilità alla pubblica
amministrazione dell'intera disciplina contenuta nel
decreto, salve le espresse eccezioni, è parte integrante
della normativa di ogni singolo istituto, sicché
l'intervento legislativo che riguardi una determinata
tipologia contrattuale, lasciando inalterata la predetta
esclusione, determina anche rispetto a quest'ultima gli
effetti sopra indicati in relazione al rapporto di
delegazione.
2.3 - Una volta escluso che il comma 2 dell'art. 1 del
decreto legislativo possa essere interpretato nei termini
indicati dalla Corte territoriale, è sufficiente il richiamo
alla norma generale per affermare la inapplicabilità alle
pubbliche amministrazioni della responsabilità solidale del
committente prevista dal comma 2 dell'art. 29.
Alle medesime conclusioni, comunque, si giunge esaminando la
disciplina dettata dalla norma in commento, non essendo
condivisibile la sentenza impugnata nella parte in cui, per
affermare la applicabilità alla fattispecie del comma 2
dell'art. 29, valorizza l'assenza nel comma in parola di
qualsivoglia richiamo alla natura privata dell'appalto,
dalla quale fa discendere la riferibilità della dizione "committente
imprenditore o datare di lavoro" anche alla pubblica
amministrazione.
L'argomento è privo di decisività poiché la stessa Corte
territoriale riconosce che il comma 1 richiama con chiarezza
il contratto di appalto, come disciplinato dal codice
civile, e che il comma 3-bis, relativo alla costituzione del
rapporto di lavoro alle dipendenze del committente, non è
applicabile agli enti pubblici.
Orbene anche la disposizione da ultimo richiamata, di sicuro
non invocabile nei confronti della pubblica amministrazione,
si riferisce genericamente al "contratto di appalto"
e ciò priva di spessore la valorizzazione dell'elemento
letterale nella interpretazione del comma 2, posto che nella
esegesi di una disciplina normativa unitaria non è corretto
estrapolare dall'intero contesto una parte della
disposizione, valutandola senza tener conto del tenore degli
altri commi che compongono la norma oggetto di
interpretazione.
2.4 - La Corte territoriale, inoltre, non ha considerato che
nella formulazione applicabile ratione temporis alla
fattispecie, risultante all'esito delle modifiche apportate
dall'art. 4, comma 31, della legge 28.06.2012 n. 92, il
comma 2 si apre facendo salva la "diversa disposizione
dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da
associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori
comparativamente più rappresentative del settore....",
il che rende evidente l'intenzione del legislatore di
riferirsi ai soli appalti posti in essere da soggetti che,
tramite le loro associazioni, sottoscrivono i contratti
collettivi nazionali di lavoro.
All'intervento normativa sopra richiamato ha, poi, fatto
seguito l'art. 9 del di. 28.06.2013 n. 76, convertito dalla
legge 09.08.2013 n. 99, con il quale si è previsto che "Le
disposizioni di cui all'articolo 29, comma 2, del decreto
legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive modificazioni,
trovano applicazione anche in relazione ai compensi e agli
obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei
confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo.
Le medesime disposizioni non trovano applicazione in
relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165. Le disposizioni dei
contratti collettivi di cui all'articolo 29, comma 2, del
decreto legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive
modificazioni, hanno effetto esclusivamente in relazione ai
trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati
nell'appalto con esclusione di qualsiasi effetto in
relazione ai contributi previdenziali e assicurativi.".
La Corte territoriale ha escluso la natura interpretativa e
la retroattività della norma in commento e per ciò solo ha
ritenuto il carattere innovativo della stessa, dal quale ha
tratto conferma della esattezza della esegesi data al testo
normativa vigente in epoca antecedente alla entrata in
vigore della nuova disposizione.
Anche dette conclusioni non sono, ad avviso del Collegio,
condivisibili.
E' noto che la legge può essere qualificata di
interpretazione autentica, a prescindere dai lavori
preparatori e dal titolo del testo normativo, quando la
legge medesima sia rivolta ad imporre con efficacia
retroattiva una data interpretazione di una precedente
norma, sicché la stessa non può essere suscettibile di
applicazione autonoma, dovendosi necessariamente integrare
con la norma interpretata, nel senso che la disciplina da
applicarsi ai singoli casi concreti deve essere desunta da
quest'ultima e dalla norma interpretativa.
Il carattere interpretativo autentico può essere
riconosciuto solo qualora, analizzando il contenuto della
norma, si individuino: da un lato l'indicazione di una data
esegesi di una disposizione antecedente cui la norma si
ricollega; dall'altro un precetto con il quale il
legislatore impone la interpretazione, escludendone ogni
altra, non solo per il futuro ma anche per il passato, e
privando, in tal modo, l'interprete della possibilità di
pervenire ad una diversa conclusione quanto al significato
da attribuire alla norma interpretata.
Non vi è dubbio che nella fattispecie non ricorrano detti
indispensabili requisiti, poiché il tenore della nuova
disposizione, con la quale il legislatore ha espressamente
previsto la inapplicabilità dell'art. 29 agli appalti
stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1
del d.lgs. n. 165/2001, non consente di affermare che
l'intervento sia stato finalizzato anche ad imporre una
interpretazione della normativa previgente, con efficacia
retroattiva.
Tuttavia non può per ciò solo affermarsi il carattere
innovativo della disposizione giacché il legislatore può
anche formulare in modo più chiaro ed appropriato una norma
preesistente, dettando una nuova disciplina che provveda a
regolare per il futuro la materia attraverso precetti non
dissimili da quelli previgenti. Parimenti non è impedita al
legislatore la produzione di una norma che, sia pure senza
vincolare per il passato l'interprete e senza fare esplicito
riferimento alla esegesi di una data disposizione, "produca
fra le sue conseguenze, in virtù dell'unità ed organicità
dell'ordinamento giuridico, anche quella di chiarire il
significato di detta disposizione" Cass. 29.07.1974 n.
2289).
In altri termini il legislatore, a fronte di incertezze
interpretative, può emanare una nuova normativa che abbia la
finalità di rendere esplicito il precetto già desumibile
dalla disciplina previgente, senza, però, imporre la
interpretazione per il passato e, quindi, senza conferire
retroattività alla norma.
Una disposizione siffatta, in quanto destinata ad essere
vincolante solo per il futuro, non esclude la possibilità
per l'interprete di dare alla norma previgente una diversa
interpretazione e, quindi, risulta senz'altro rispettosa del
precetto dettato dall'art. 6 della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo, perché "non interferisce nella
amministrazione della giustizia con il proposito di
influenzare la determinazione giudiziaria di una
controversia" e, quindi, fa salvi il principio della
preminenza del diritto e la nozione di equo processo.
Peraltro la disposizione medesima, proprio per le finalità
che l'hanno ispirata, desumibili nella specie anche dai
lavori preparatori, ben può essere valutata dall'interprete,
che dalla stessa può trarre la conferma della correttezza
della esegesi data alla normativa, a condizione che detta
esegesi riposi innanzitutto sul dato normativa previgente.
In sintesi, ferma restando la irretroattività della
normativa, non è impedito all'interprete, all'esito di una
comparazione fra il quadro normativa previgente e quello
modificato, escludere il carattere innovativo della
disposizione e ritenere che il precetto, reso esplicito,
fosse già desumibile dalla norma preesistente.
2.6 - Infine
la estensione anche agli appalti stipulati
dalla pubblica amministrazione della responsabilità solidale
del committente non può essere affermata facendo leva sulla
necessità di assicurare al lavoratore impegnato nella
esecuzione di un appalto pubblico la medesima tutela
riconosciuta per gli appalti privati.
La Corte territoriale così argomentando non ha considerato
le peculiarità proprie delle due situazioni a confronto che
giustificano senz'altro la diversità delle discipline,
dettate al fine di contemperare, in ciascun ambito, i
diversi interessi che vengono in rilievo.
Invero,
mentre nell'appalto privato il committente non
incontra alcun limite nella scelta del contraente e, quindi,
potrebbe essere indotto ad affidare i lavori all'impresa che
richieda il corrispettivo più basso e che perciò non offra
alcuna garanzia dell'esatto adempimento delle obbligazioni
assunte con le maestranze impegnate nell'appalto, nelle
procedure di evidenza pubblica la tutela dei lavoratori è
assicurata sin dal momento della scelta del contraente,
poiché nella valutazione delle offerte "gli enti
aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico
sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro ed
al costo relativo alla sicurezza..." (art. 86 del d.lgs.
163/2006) e ad effettuare controlli preventivi volti ad
accertare non solo la solidità del concorrente ma anche il
rispetto da parte dello stesso della normativa in materia di
sicurezza, degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro,
degli adempimenti previdenziali ed assistenziali (art. 38
del d.lgs. 163/2006).
Inoltre, come già evidenziato da questa Corte nella sentenza
n. 15432/2014, alla cui motivazione si fa rinvio per la
trattazione analitica di detti aspetti,
anche nel corso
della esecuzione dell'appalto la stazione appaltante è
tenuta a verificare l'esattezza dell'adempimento degli
obblighi assunti dall'appaltatore nei confronti dei
prestatori e, in caso di esito negativo della verifica, può
attivare l'intervento sostitutivo, detraendo il relativo
importo dalle somme dovute all'esecutore del contratto.
Si tratta, quindi, di un complesso articolato di tutele
volte tutte ad assicurare il rispetto dei diritti dei
lavoratori, tutele che difettano nell'appalto privato, e che
compensano la mancata previsione per gli appalti pubblici
della responsabilità solidale prevista dall'art. 29 del
d.lgs. n. 276 del 2003, non applicabile alla pubblica
amministrazione perché in contrasto con il principio
generale
(oggi rafforzato dal nuovo testo dell'art. 81 Cost.
che affida alla legge ordinaria il compito di fissare "i
criteri volti ad assicurare l'equilibrio fra le entrate e le
spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del
complesso delle pubbliche amministrazioni")
in forza del
quale gli enti pubblici sono tenuti a predeterminare la
spesa e, quindi, non possono sottoscrivere contratti che li
espongano ad esborsi non previamente preventivati e
deliberati.
Mentre l'intervento sostitutivo di cui al d.lgs. 163/2006,
al pari della responsabilità prevista dall'art. 1676 c.c.,
applicabile anche alle pubbliche amministrazioni, opera nei
limiti di quanto è dovuto dal committente all'appaltatore,
l'art. 29, nel testo applicabile alla fattispecie ratione
temporis, consente solo al committente di avvalersi del
beneficio della preventiva escussione ma, ove questa si
riveli infruttuosa, comporta la responsabilità
dell'appaltante anche nella ipotesi in cui lo stesso abbia
già adempiuto per intero la sua obbligazione nei confronti
dell'appaltatore.
E' evidente che detta responsabilità non possa essere estesa
alle pubbliche amministrazioni in relazione alle quali
vengono in rilievo interessi di carattere generale che
sarebbero frustrati ove si consentisse la lievitazione del
costo dell'opera pubblica quale conseguenza
dell'inadempimento dell'appaltatore.
La diversità delle situazioni a confronto e degli interessi
che in ciascuna vengono in rilievo giustifica, quindi, la
diversa disciplina e rende manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 29 del
d.lgs. 276 del 2003, prospettata dalla difesa del
controricorrente in relazione all'art. 3 Cost.. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Legittima
l’antenna sulla facciata. Supercondominio. Anche se il
regolamento contrattuale afferma che occorre il sì
dell’assemblea per ogni modifica.
Un’interpretazione “elastica” del regolamento del condominio
può escludere che l’installazione della parabola sulle
facciate pregiudichi il decoro architettonico del
condominio.
Un condominio citava in giudizio il proprietario di una
villetta bifamiliare a schiera, per farlo condannare a
rimuovere una pensilina e una antenna satellitare installate
sulla facciata del complesso condominiale. Sostenendo che i
muri perimetrali erano annoverabili tra i beni comuni e
l’installazione contravveniva al regolamento di condominio
che assoggettava ad autorizzazione dell’assemblea ogni
modifica e innovazione delle facciate e pregiudicava il
decoro architettonico del complesso.
Il tribunale aveva dato ragione al condominio che aveva
fatto causa ma il giudizio veniva ribaltato dalla Corte
d’appello, che aveva invece affermato che , nella
fattispecie in esame (villette bifamiliari a schiera), non
trovava applicazione l’articolo 1117 del Codice civile
(riguardante soltanto gli edifici divisi orizzontalmente per
piani), i muri perimetrali non erano assimilabili ai muri
maestri avendo soltanto la funzione di delimitare le unità
immobiliari e di sorreggere la copertura, anche privata o in
comune con le abitazioni affiancate e, come tali, non
rientranti nelle parti comuni (muri maestri) indicate nel
regolamento di condominio.
Inoltre, la stessa Corte d’appello, adottando
un’interpretazione elastica del regolamento di condominio,
escludeva che qualsiasi intervento, anche minino, eseguito,
da ciascun condòmino, sulle pareti esterne della propria
villetta, potesse considerarsi illecito solo perché non
autorizzato dall’assemblea. L’intervento, sulla scorta della
documentazione fotografia in atti -una tettoia, di piccole
dimensioni, con colorazione neutra- si inseriva infatti
armonicamente nel complesso senza alterare le linee e la
fisionomia estetica. Ugualmente, l’antenna era di dimensioni
contenute, collocata sulla facciata posteriore, non
dissimile da quella scelta dagli occupanti di altre villette
a schiera. Per questo la Corte d’appello aveva escluso che i
manufatti potessero pregiudicare il decoro architettonico
del complesso immobiliare.
Il condominio ricorreva in Cassazione, sostenendo la falsa
applicazione dell’articolo 1117 e che la descrizione delle
opere eseguite,nulla diceva circa l’incidenza sul decoro
architettonico dell’edificio.
Ma la Suprema corte (Sez. II civile -
sentenza 07.10.2016 n. 20248) precisava che, pur
riconoscendo che la nozione di condominio va applicata anche
alle villette a schiera, era da respingere l’altro motivo
del ricorso, sia perché le valutazioni della Corte d’appello
costituivano apprezzamenti adeguatamente motivati non
sindacabili in sede di legittimità sia perché il condominio
avrebbe dovuto impugnare l’interpretazione data al contenuto
dell’articolo 5 del regolamento di condominio «con uno
specifico motivo di ricorso sotto il profilo della
violazione delle norme di ermeneutica contrattuale (articolo
1362 e seguenti del Codice civile) oppure di illogicità
della motivazione» (articolo Il Sole 24 Ore del 25.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Niente
«tenuità» per il locale della movida. Cassazione.
L’applicazione di una pena vicina al masssimo per il
disturbo della quiete pubblica esclude la non punibilità.
Niente particolare tenuità del fatto
per il legale rappresentante di un locale nel quale la
musica viene “sparata” a tutto volume, in modo da impedire
il sonno di chi abita nelle vicinanze.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 06.10.2016 n. 42063,
respinge un ricorso contro la condanna per il reato previsto
dall’articolo 659 del Codice penale, che tutela le
occupazioni o il riposo delle persone.
Al ricorrente (un locale della movida dell’hinterland
milanese) era contestata la violazione del comma che punisce
indistintamente chi con gli schiamazzi o con la musica,
nell’ambito di uno spettacolo o di un luogo di ritrovo o nel
corso di un intrattenimento pubblico, turba la “quiete”
del vicinato.
Secondo il ricorrente, al più la sua condotta poteva essere
inquadrata come illecito amministrativo che scatta quando i
limiti di emissione sonori vengono superati esercitando
un’attività o un mestiere rumoroso (articolo 10, comma 2,
legge 447/1995).
Per la Cassazione però non è così. I giudici pur consapevoli
di indirizzi contrastanti sul tema, affermano che è
configurabile la violazione sanzionata dal comma 1
dell’articolo 659 del Codice penale, quando l’attività viene
svolta andando oltre le normali modalità di esercizio, tanto
da turbare la pubblica quiete. E che questo sia avvenuto nel
caso esaminato emerge da una fitta serie di testimonianze e
di esposti alle autorità. Atti dai quali risulta addirittura
che alcuni abitanti esasperati avevano venduto la casa pur
di trovare un po’ di pace.
Inutile per il ricorrente affermare il diritto alla non
punibilità, previsto dall’articolo 131-bis. Per la
Cassazione correttamente il giudice di merito ha escluso
l’accesso alla norma “di favore”, in virtù
dell’intensità del dolo e della gravità dell’offesa. La
Suprema corte precisa che il giudizio sulla tenuità richiede
una valutazione «complessiva e congiunta di tutte le
peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto
della modalità della condotta, del grado di colpevolezza da
esse desumibile e del danno o del pericolo».
Nel caso esaminato a “deporre” contro il ricorrente
c’erano la negazione delle circostanze attenuanti e
l’applicazione di una pena molto vicina al massimo edittale,
proprio in considerazione della gravità del reato (articolo
133, comma 1, del Codice penale).
Per i giudici della Terza sezione penale, l’articolo 131-bis
può essere applicato solo quando, in virtù del principio di
proporzionalità, «la pena in concreto applicabile
risulterebbe inferiore al minimo edittale, determinato
tenendo conto delle eventuali circostanze attenuanti»
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2016).
---------------
MASSIMA
5.2. Palesemente inconferenti sono poi le deduzioni
difensive articolate nel secondo motivo di ricorso, così
come integrato dalla memoria del 10/06/2016.
Giova, preliminarmente, porre in luce come l'art. 659,
inserito nel codice penale tra le contravvenzioni
concernenti l'ordine pubblico e la tranquillità pubblica,
preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui
al primo comma, la quale punisce il comportamento di
colui il quale "mediante schiamazzi o rumori, ovvero
abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche
ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali,
disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero
gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici";
nonché quella di cui al secondo comma, che invece
punisce il fatto di "chi esercita una professione o un
mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le
prescrizioni dell'Autorità".
Dunque, mentre la prima fattispecie,
contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica
quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità
espressamente e tassativamente determinate, la seconda,
disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose,
industriali o professionali, esercitate in difformità dalle
prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell'autorità
(Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez, Rv. 259194).
Controverso è il rapporto tra le due ipotesi di reato, così
come quello tra le stesse e la disciplina dettata dall'art.
10, comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447 (cd. legge
quadro sull'inquinamento acustico), la quale prevede
un'ipotesi di illecito amministrativo nel caso in cui "nell'esercizio
o nell'impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni
sonore" si superino "i valori limite di emissione o
di immissione" fissati in conformità al disposto
dell'art. 3, comma 1, lettera a) della stessa legge.
5.2.1. Secondo un primo indirizzo, "il
mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore
stabiliti dal D.P.C.M. 01.03.1991 può integrare la
fattispecie di reato prevista dall'art. 659, comma secondo,
cod. pen., allorquando l'inquinamento acustico è
concretamente idoneo a recare disturbo al riposo e alle
occupazioni di una pluralità indeterminata di persone, non
essendo in tal caso applicabile il principio di specialità
di cui all'art. 9 della legge n. 689 del 1981 in relazione
all'illecito amministrativo previsto dall'art. 10, comma
secondo, della legge n. 447 del 1995"
(Sez. 3, n. 15919 in data 08/04/2015, CO.NA.VAR. S.r.l., Rv.
266627; Sez. 3 n. 37184 del 03/07/2014, Torricella, non
massimata; Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013, Giovanelli e
altro, Rv. 259156; Sez. 1, n. 33413 del 07/06/2012,
Girolimetti, Rv. 253483; Sez. 1, n. 1561 del 05/12/2006, Rey
ed altro, Rv. 235883; Sez. 1, n. 25103 del 16/04/2004,
Amato, Rv. 228244, relativa ad un caso di superamento dei
valori-limite di rumorosità prodotta nell'attività di
esercizio di una discoteca).
Ciò in quanto le due disposizioni sarebbero
poste a protezione di beni giuridici diversi: mentre le
fattispecie previste dall'art. 659 cod. pen. tutelerebbero
la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il
riposo delle persone possano venire disturbate con
schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad
interferire nel normale svolgimento della vita privata di un
numero indeterminato di persone, con conseguente messa in
pericolo del bene della pubblica tranquillità, viceversa, la
fattispecie contemplata dall'art. 10, comma 2, della legge
n. 447 del 1995, tutelerebbe genericamente la salubrità
ambientale e la salute umana, limitandosi a stabilire i
limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali
debba ritenersi sussistente l'inquinamento acustico,
sanzionato in via amministrativa in considerazione dei danni
che il rumore può produrre sia sul fisico che sulla psiche
delle persone.
Secondo un opposto orientamento, il
superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore
derivanti dall'esercizio di mestieri rumorosi configurerebbe
l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, legge
n. 447 del 1995
(cfr. Sez. 1, n. 530 del 03/12/2004, P.M. in proc. Termini e
altro, Rv. 230890; Sez. 3, n. 2875 del 21/12/2006, Roma, Rv.
236091; Sez. 1, n. 48309 del 13/01/2012, Carrozzo e altro,
Rv. 254088; Sez. 3, n. 13015 del 31/01/2014, Vazzana, Rv.
258702), atteso che a seguito dell'entrata
in vigore della cd. legge quadro sull'inquinamento acustico
il comma 2 dell'art. 659 cod. pen. sarebbe stato
sostanzialmente abrogato, in applicazione del principio di
specialità contenuto nell'art. 9 della legge 24.11.1981, n.
689, data la perfetta identità dell'ambito delineato dalla
norma codicistica e di quello, di contenuto più ampio,
sanzionato, solo in via amministrativa, in forza dell'altra
disposizione.
Secondo un indirizzo intermedio, infine,
è configurabile l'illecito amministrativo di cui
all'art. 10, comma 2, della legge n. 447/1995 ove si
verifichi soltanto il superamento dei limiti differenziali
di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in
materia; la contravvenzione di cui al comma 1 dell'art. 659,
cod. pen., ove il fatto costituivo dell'illecito sia
rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento
dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del
mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca
un uso smodato; quella di cui al comma 2 dell'art. 659 cod.
pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni
legali o della Autorità, attinenti all'esercizio del
mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di
immissioni acustiche
(Sez. 3, n. 25424 del 05/06/2015, Pastore, non massimata;
Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885; Sez. 3,
n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658; Sez. 1, n.
25601 del 19/04/2013, Casella, non massimata; Sez. 1, n.
39852 del 12/06/2012, Minetti, Rv. 253475; Sez. 1, n. 48309
del 13/11/2012, Carrozzo, Rv. 254088; Sez. 1, n. 44167 del
27/10/2009, Fiumara, Rv. 245563; Sez. 1, n. 23866 del
09/06/2009, Valvassore, Rv. 243807).
A favore di questo indirizzo si è rilevato,
infatti, come l'affermazione secondo cui l'illecito
amministrativo tuteli genericamente la salubrità ambientale
sia smentito dal tenore letterale delle disposizioni
contenute nella legge n. 447/1995, le quali, secondo l'art.
1, sono dettate per la "tutela dell'ambiente esterno e
dell'ambiente abitativo dall'inquinamento acustico".
Tali disposizioni, all'art. 2, comma 1, lett. a),
identificano l'inquinamento acustico nella "introduzione
di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno
tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle
attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento
degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti,
dell'ambiente abitativo o dell'ambiente esterno o tale da
interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi";
e ancora, alla lettera b) del medesimo comma, identificano
l'ambiente abitativo con "ogni ambiente interno ad un
edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità
ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione
per gli ambienti destinati ad attività produttive per i
quali resta ferma la disciplina di cui al D.Lgs. 15.08.1991,
n. 277, salvo per quanto concerne l'immissione di rumore da
sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le
attività produttive".
In questa prospettiva, il bene giuridico
tutelato dalla "legge-quadro [deve considerarsi] ben più
ampio, in quanto il legislatore non si è limitato a prendere
in esame esclusivamente la tutela dei singoli individui,
perché la sua attenzione risulta focalizzata verso un ben
più ampio contesto, valutando ogni possibile effetto
negativo del rumore, inteso, appunto, come fenomeno
"inquinante", tale cioè, da avere effetti negativi
sull'ambiente, alterandone l'equilibrio ed incidendo non
soltanto sulle persone, sulla loro salute e sulle loro
condizioni di vita, facendo la norma riferimento, come si è
detto, anche agli ecosistemi, ai beni materiali ed ai
monumenti".
Pertanto, secondo questo indirizzo, una
piena sovrapponibilità tra le due fattispecie dell'art. 659,
comma 2, e dell'art. 10 citato, deve aversi soltanto nel
caso in cui l'attività rumorosa si sia concretata nel mero
superamento dei valori limite di emissione specificamente
stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro,
causato mediante l'esercizio o l'impiego delle sorgenti
individuate dalla legge medesima.
Ed in tali casi,
sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n.
1963/2011 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722,
il concorso tra disposizione penale incriminatrice e
disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento
allo stesso fatto, deve essere risolto a favore della
disposizione speciale, costituita dalla fattispecie
amministrativa.
Viceversa, restano esclusi dall'ambito
comune delle due ipotesi di illecito sia il superamento di
soglie di rumore diversamente individuate o generate da
altre fonti, sia l'insieme delle condotte che si
estrinsecano nell'esercizio di attività rumorose svolte in
violazione di altre disposizioni di legge o delle
prescrizioni dell'autorità, trovando pacifica applicazione,
in tali casi, l'art. 659, comma 2, cod. pen..
Quando poi le attività di cui sopra vengano
svolte eccedendo dalle normali modalità di esercizio,
rivelandosi idonee a turbare la pubblica quiete, sarà invece
configurabile la violazione sanzionata dall'art. 659, comma
1, cod. pen. (per
questo indirizzo si vedano: Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015,
Pastore, non massimata; e, soprattutto, Sez. 3, n. 5735 del
21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pa,
niente risarcimento alternativo alla reintegra.
Cassazione. Prevale la tutela dell’interesse
collettivo per il buon funzionamento dell’amministrazione.
Ad avviso della
Corte di Cassazione (Sez. lavoro -
sentenza 06.10.2016 n. 20056) ai licenziamenti di cui
sia stata dichiarata l’illegittimità nell’ambito di un
rapporto di lavoro pubblico si applica il regime di tutela
reale previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970 nella
sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla
legge 92/2012.
È di pochi giorni fa una sentenza di segno opposto della
stessa Corte (si veda «Il Sole 24 Ore» del 5 ottobre), nella
quale è stato affermato che anche ai dipendenti della
pubblica amministrazione si applica il regime di tutela
introdotto dall’articolo 1 della legge 92/2012 di riforma
dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in forza del
quale la tutela reintegratoria, a seconda che il giudice
abbia accertato la sussistenza o la insussistenza del fatto
alla base del licenziamento, può risultare alternativa alla
tutela risarcitoria in ipotesi di recesso datoriale
illegittimo.
Prosegue, dunque, il contrasto della giurisprudenza di
legittimità sulla applicabilità al pubblico impiego
contrattualizzato delle modifiche introdotte dalla legge
Fornero con riferimento agli effetti sanzionatori del
licenziamento invalido.
Con la sentenza di ieri, la Cassazione ritorna sulle
argomentazioni sviluppate in un proprio recente indirizzo,
secondo il quale le modifiche apportate dalla legge 92/2012
non potranno automaticamente essere estese ai dipendenti
della pubblica amministrazione sino a un intervento di
armonizzazione del ministero per le Semplificazione e la
Pubblica amministrazione, così come previsto dall’articolo
1, commi 7 e 8, della medesima legge Fornero.
I fautori dell’indirizzo contrario hanno fondato
l’estensione dell’articolo 18 post Fornero, tra gli altri
rilievi, sul presupposto che l’articolo 51, comma 2, del
Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego) prevede
espressamente l’applicazione della legge 300/1970, e
successive modificazioni e integrazioni, ragion per cui
esisterebbe un preciso riferimento nella legislazione
primaria circa l’immediata precettività dell’articolo 18
nella versione dopo le modifiche della legge 92/2012.
Con la sentenza depositata ieri, la Cassazione dichiara di
non condividere questa lettura, ritenendo che il riferimento
dell’articolo 51, comma 2, del Testo unico alla legge
300/1970 sia da interpretare non come rinvio mobile, ovvero
alla disciplina statutaria tempo per tempo vigente, bensì
come rinvio fisso a una fonte di legge cristallizzata alla
data in cui è stata introdotta.
La Corte riconosce che tale interpretazione comporta il
permanere di una duplicità di normative, ciascuna
applicabile in relazione alla diversa natura, privata o
pubblica, dei rapporti di lavoro coinvolti, ma respinge con
nettezza ogni sospetto di incostituzionalità. Rileva la
Corte, a questo proposito, che il lavoro privato e il lavoro
pubblico, sebbene contrattualizzato, sono caratterizzati da
una obiettiva diversità, in quanto nel comparto pubblico è
presente, diversamente dal privato, la necessità di far
prevalere la tutela dell’interesse collettivo al buon
funzionamento e all’imparzialità della pubblica
amministrazione.
Rispetto a questa esigenza, ad avviso della Cassazione, la
sanzione reintegratoria è l’unico strumento di rimedio a
fronte di un licenziamento illegittimo, laddove la sola
tutela risarcitoria mediante riconoscimento di un indennizzo
economico non è idonea a rimuovere il pregiudizio arrecato
all’interesse collettivo (articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Sottotetto
parte comune fino a prova contraria. Presunzioni. Contano le
caratteristiche funzionali.
Il sottotetto è parte comune fino a
prova contraria.
Con la
sentenza 06.10.2016 n. 20038
la Corte di Cassazione, Sez. II civile, ha
sottolineato un importante principio giuridico in tema di
diritto condominiale.
La questione verteva sull’appropriazione del sottotetto
condominiale da parte dell’originario proprietario del
palazzo e del tentativo di un condomino di ottenere dal
giudice l’attestazione di condominialità della parte in
oggetto.
La Corte ha, infine, sancito definitivamente la natura
condominiale del sottotetto in oggetto operando il seguente
ragionamento giuridico: non è possibile affermare a priori
la natura comune o privata di un sottotetto in quanto, per
definizione, la parte può essere entrambe, a seconda delle
caratteristiche strutturali o funzionali.
L’articolo 1117 del Codice civile dispone, infatti, una
presunzione di condominialità del sottotetto ma questa può
essere superata da chi si afferma esclusivo proprietario
mediante la presentazione di un titolo o per l’assenza di
concreta funzione di utilità o servizio per lo stabile.
Secondo la Suprema Corte inoltre tale presunzione «è in
ogni caso applicabile nel caso in cui il vano, per le sue
caratteristiche strutturali e funzionali, risulti
oggettivamente destinato all’uso comune oppure all’esercizio
di un servizio di interesse condominiale, quando tale
presunzione non sia superata dalla proprietà esclusiva».
In conclusione, quindi, il sottotetto è sempre parte comune
fino a prova contraria, data da un titolo certo di proprietà
o dall’assenza di funzione per il condominio (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2016).
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MASSIMA
3) Il primo motivo è infondato.
Secondo i principi affermati dalla giurisprudenza,
l'appartenenza del sottotetto di un edificio va
determinata in base al titolo, in mancanza o nel silenzio
del quale, non essendo esso compreso nel novero delle parti
comuni dell'edificio essenziali per la sua esistenza o
necessarie all'uso comune, la presunzione di comunione ex
art. 1117 c.c. è, in ogni caso, applicabile nel caso in cui
il vano, per le sue caratteristiche strutturali e
funzionati, risulti oggettivamente destinato all'uso comune
oppure all'esercizio di un servizio di interesse
condominiale, quando tale presunzione non sia superata dalla
prova della proprietà esclusiva
(Cass. 11.01.2016 n. 233; Cass. 19.02.2013 n. 4083; Cass.
29.12.2004 n. 24147; Cass. 19.12.2002 n. 18091).
Più in particolare, è stato precisato che,
in tema di condominio, per accertare la natura condominiale
o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza
del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche
strutturali e funzionali, sicché, quando il sottotetto sia
oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all'uso
comune o all'esercizio di un servizio di interesse comune,
può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117,
comma 1, c.c.; viceversa, allorché il sottotetto assolva
all'esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo,
dal freddo e dall'umidità l'appartamento dell'ultimo piano,
e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da
consentirne l'utilizzazione come vano autonomo, va
considerato pertinenza di tale appartamento
(Cass. 30.03.2016 n. 6143; (Cass. 12.08.2011 n. 17249). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Parcella
senza valore di prova. Il legale deve dimostrare
puntualmente il lavoro fatto.
AVVOCATI/ Sentenza della Corte di cassazione sulla valenza
probatoria della fattura.
Nel giudizio di opposizione la parcella dell'avvocato non
assume valore di prova.
Il professionista che intende riscuotere la propria parcella
deve riuscire a provare specificamente l'attività svolta.
Difatti, secondo il parere della Corte di Cassazione - Sez.
II civile,
contenuto nella
sentenza 04.10.2016 n.
19800, la fattura del legale non assume valore
probatorio nel giudizio di opposizione poiché costituisce
una semplice dichiarazione unilaterale del medesimo
professionista.
Questo anche se in materia di opposizione a
decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di
prestazioni professionali, la parcella corredata di relativo
parere da parte del competente Consiglio dell'Ordine, abbia
valore di prova privilegiata e carattere vincolante ai fini
della pronuncia dell'ingiunzione.
La Suprema corte ha, così, respinto il ricorso di un
avvocato, che aveva prima ottenuto il decreto ingiuntivo per
il pagamento del compenso per prestazioni professionali,
come indicato nella parcella corredata di parere del
relativo Ordine forense.
Tuttavia, il cliente debitore aveva impugnato il suddetto
decreto ingiuntivo, con opposizione accolta in appello.
Dunque, l'opponente aveva eccepito non solo l'avvenuto
pagamento di parte del compenso di spettanza del proprio
difensore, ma aveva anche contestato l'effettivo svolgimento
delle attività richiamate in parcella, negando qualunque
valore probatorio a quest'ultimo documento.
In particolare, sulla base del proprio consolidato
orientamento, il giudice di legittimità afferma che in tema
di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il
pagamento di prestazioni professionali, la parcella
corredata dal parere del competente Consiglio dell'Ordine
forense, «mentre ha valore di prova privilegiata e
carattere vincolante per il giudice ai fini della pronuncia
dell'ingiunzione, non ha -costituendo semplice dichiarazione
unilaterale del professionista- valore probatorio nel
successivo giudizio di opposizione».
Per determinare detto onere probatorio a carico del
professionista, è sufficiente anche una contestazione di
carattere generico. Per cui il ricorso dell'Avvocato è stato
rigettato e ha pure dovuto pagare le relative spese legali
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: «Pa»,
inabilità con licenziamento. Applicabile il regime
sanzionatorio dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Cassazione. Anche nel pubblico con l’impossibilità assoluta
al lavoro non si configura un’ipotesi di risoluzione
automatica.
Il recesso datoriale intervenuto
nell'ambito di un rapporto di pubblico impiego a seguito di
accertamento medico di inabilità assoluta e permanente alle
mansioni non costituisce ipotesi di risoluzione automatica
del contratto di lavoro, ma integra gli estremi di un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a cui si
applica il regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18
della legge 300/1970.
La Corte di Cassazione -Sez. lavoro- ha reso questo
principio con la
sentenza 04.10.2016
n. 19774, affermando che anche nel lavoro alle
dipendenze della pubblica amministrazione la forma tipica di
recesso del datore di lavoro, in difetto di norme speciali,
è costituita unicamente dall’atto di licenziamento, senza
che, in contrario avviso, possa avere alcuno spazio una
fattispecie di recesso assimilabile alla risoluzione
automatica del rapporto di lavoro.
Il caso su cui è intervenuta la Cassazione era relativo al
provvedimento di dispensa dal servizio adottato con effetto
immediato dalla Regione Lombardia nei confronti di un
proprio dipendente, il quale, a seguito di accertamento
medico, era stato ritenuto inabile in modo assoluto e
permanente a qualsiasi attività lavorativa. La Corte di
appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale di
primo grado, aveva dichiarato la illegittimità del
provvedimento datoriale di risoluzione del rapporto di
lavoro, disattendendo la tesi per cui le ragioni sullo stato
di salute alla base del recesso potessero integrare
un’ipotesi di risoluzione automatica del rapporto ed
esulare, quindi, dallo specifico regime di tutela contro i
licenziamenti illegittimi.
La Cassazione condivide la tesi coltivata dalla Corte
territoriale e conferma che la risoluzione del rapporto di
lavoro per sopravvenuta inidoneità psicofisica del
dipendente alle mansioni, anche se adottata all’esito del
giudizio espresso dalla Commissione medica nel contesto di
specifiche disposizioni previste per il pubblico impiego,
costituisce licenziamento per giustificato motivo oggettivo
e ricade nel regime sanzionatorio di cui all’articolo dello
18 Statuto dei lavoratori, nella versione successiva alla
riforma introdotta dalla Legge 92/2012 (Legge Fornero).
Il comma 7 dell’articolo 18, a cui espressamente si
riferisce la Corte di cassazione, recita che si applica la
reintegrazione in servizio, con ulteriore indennità fino ad
un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale
di fatto, in ipotesi di difetto di giustificazione del
licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente
nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
A questa specifica disposizione la corte di legittimità
riconduce, nel contesto del pubblico impiego privatizzato,
il licenziamento intimato ai sensi dell’articolo 55 del
Decreto legislativo 165/2001 in un caso di «permanente
inidoneità psicofisica del lavoratore», evidenziando che
anche in questa ipotesi il recesso datoriale non costituisce
un effetto automatico, bensì una tra le opzioni cui la
pubblica amministrazione è legittimata a ricorrere.
Merita rilevare come con questa pronuncia la Cassazione
ritorni sulla vexata quaestio della applicabilità al
pubblico impiego dell’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori nella sua versione precedente o successiva alla
riforma introdotta dalla Legge Fornero, sposando quella tesi
più avanzata che è stata, invece, rigettata da un diverso
orientamento maturato in seno alla Suprema corte (articolo Il Sole 24 Ore del 05.10.2016).
---------------
MASSIMA
Il secondo motivo è infondato.
Al riguardo, si osserva, in primo luogo, che il decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, nel determinare all'art. 2
le fonti del rapporto di pubblico impiego privatizzato,
indica le "disposizioni del capo I, titolo H, del libro V
del codice civile" (artt. 2082-2134 c.c.) ed inoltre le
"leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa",
fatte salve le diverse disposizioni contenute nello stesso
decreto n. 165/2001 "che costituiscono disposizioni a
carattere imperativo".
Ne consegue che, in linea generale, la
forma tipica del recesso del datore di lavoro è, anche per
l'impiego privatizzato, quella del licenziamento, senza che,
in difetto di norme speciali, possano trovare ingresso cause
di risoluzione automatica del rapporto.
In coerenza con tale premessa, di ordine generale e
sistematico, l'art. 55-octies d.lgs. n.
165/2001, prevede, per il caso di "permanente inidoneità
psicofisica" del dipendente, che l'amministrazione di
appartenenza "può risolvere il rapporto di lavoro",
in tal modo confermando lo schema della sussistenza di un
diritto potestativo di recesso in capo alla medesima, cui si
contrappone, peraltro con le previste garanzie sostanziali e
processuali, la posizione di soggezione del lavoratore.
Né può consentirsi una diversa lettura della norma primaria
sul rilievo che il regolamento di attuazione, di cui al
D.P.R. 27.07.2011, n. 171, adotti una diversa formulazione
normativa, nel senso che, in caso di
accertata permanente inidoneità psicofisica assoluta ai
servizio del dipendente, l'amministrazione "risolve il
rapporto di lavoro", posto che, al di là di ogni pur
assorbente considerazione sul rapporto gerarchico tra le
fonti del caso concreto, resta che, anche di fronte ad una
inidoneità "assoluta" (ovvero, più esattamente,
presentata o emergente come tale), l'amministrazione
conserva il diritto di esercitare o meno, senza vincoli di
automatismo, il potere che le è attribuito, vagliando, a
tutela del proprio interesse, se il procedimento, attraverso
il quale la valutazione medica è stata acquisita,
corrisponda alle previsioni che presiedono al suo regolare
svolgimento, se le sue conclusioni siano adeguatamente
motivate o se, invece, non pongano dubbi sulla loro
effettiva plausibilità, se non debba ritenersi opportuno un
qualche momento di integrazione e di ulteriore
approfondimento.
D'altra parte, è consolidato l'orientamento, secondo il
quale "ai fini dell'accertamento dell'idoneità al
servizio dei dipendenti di aziende locali di trasporto
pubblico, il parere della Commissione medica di cui all'art.
1 del decreto del 23.02.1999, n. 88, concernente il
controllo dell'idoneità fisica e psicoattitudinale del
personale addetto ai servizi pubblici di trasporto, non è
vincolante per il giudice di merito adito per l'accertamento
della illegittimità del licenziamento disposto a seguito di
detto accertamento, avendo egli -anche in riferimento ai
principi costituzionali di tutela processuale- il potere di
controllare l'attendibilità degli esami sanitari effettuati
dalla predetta Commissione, sicché il datore di lavoro, nel
momento in cui opera il licenziamento, agisce, come già
argomentato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 420
del 1998, accollandosi il rischio di impresa avente ad
oggetto la possibilità che l'Organo giudicante possa
giudicare in modo contrario l'idoneità del dipendente"
(Cass. 08.02.2008 n. 3095; conforme Cass. n. 16195/2011). |
APPALTI: Soccorso istruttorio, deciderà la Corte Ue.
Compatibilità in materia di concorrenza.
La disciplina del soccorso istruttorio, con presenza di una
sanzione pecuniaria, potrebbe essere in violazione delle
direttive europee sugli appalti e del principio di
concorrenza.
È quanto ha affermato il TAR Lazio-Roma con
l'ordinanza 03.10.2016 n. 10012 della
Sez. III
che rimette alla Corte di giustizia della Ue la questione
interpretativa
pregiudiziale attinente l'articolo 38, comma 2-bis del vecchio codice dei contratti pubblici. Si tratta di
vicenda
che mantiene un suo interesse anche con riferimento al nuovo
codice dei contratti (dlgs 50/2016) che disciplina il
soccorso
istruttorio all'articolo 83, pur con la differenza che la
sanzione
pecuniaria è dovuta solo in caso di regolarizzazione.
In particolare ï giudici romani hanno chiesto alla
Corte europea di verificare, in rapporto alla disciplina
prevista
dagli artt. 45 e 51 della Direttiva 2004/18/Ce e ai principi
di
massima concorrenza, proporzionalità, parità di trattamento
e
non discriminazione in materia di procedure per
l'affidamento
li appalti pubblici, se uno Stato, pur potendo imporre il
carattere
oneroso del soccorso istruttorio con efficacia sanante, finisca comunque a violare il diritto comunitario.
La tesi del Tar del Lazio è che il pagamento di una
sanzione pecuniaria, nella misura che deve essere fissata
dalla stazione appaltante («non inferiore all'uno per mille
e
non superiore all'1% del valore della gara e comunque non
superiore a 50 mila euro, il cui versamento è garantito
dalla
cauzione provvisoria», limiti che anche oggi sono presenti
nel
nuovo codice dei contratti pubblici), potrebbe essere
illegittimo
il profilo dell'importo eccessivamente elevato e del
carattere
predeterminato della sanzione stessa; inoltre la sanzione
sarebbe
illegittima in quanto non graduabile in rapporto alla
situazione concreta da disciplinare o alla gravità
dell'irregolarità
sanabile.
In secondo luogo i giudici hanno chiesto alla Corte
europea di verificare se la stessa norma sia contrastante
con il diritto comunitario, in quanto la stessa onerosità
del
soccorso istruttorio può ritenersi in contrasto con i
principi di
massima apertura dei mercato alla concorrenza
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti,
nelle gare telematiche niente deroghe alle procedure.
Consiglio di Stato. Firma elettronica da
fissare prima dei termini per la partecipazione.
La firma digitale rappresenta l’elemento
di certezza del firmatario dell’offerta nelle gare
interamente gestite telematicamente, che prevedono una serie
di attività in sequenza volte a garantire la sicurezza delle
fasi di invio e di ricezione dei documenti.
Con la
sentenza 03.10.2016 n. 4050
il Consiglio di Stato, Sez. III, evidenzia l’importanza
delle operazioni che devono essere sviluppare dagli
operatori economici nelle procedure nei mercati elettronici
e su altre piattaforme informatiche.
La pronuncia evidenzia come ciò che caratterizza le gare
telematiche rispetto a una tradizionale gara d’appalto sia
l’utilizzo di una piattaforma on-line di e-procurement
e di strumenti di comunicazione digitali (firma digitale e
Pec), che di fatto rendono l’iter più efficiente, veloce e
sicuro rispetto a quello tradizionale, basato sull’invio
cartaceo della documentazione e delle offerte.
Le fasi di gara seguono una successione temporale che offre
garanzia di corretta partecipazione, inviolabilità e
segretezza delle offerte: la firma digitale garantisce
infatti la certezza del firmatario dell’offerta e la
marcatura temporale (prevista in varie piattaforme
telematiche) ne garantisce la data certa di firma e
l’univocità della stessa.
Il Consiglio di Stato rileva che attraverso l’apposizione
della firma, da effettuare inderogabilmente prima del
termine fissato per la partecipazione, e la trasmissione
delle offerte esclusivamente durante la successiva fase di
finestra temporale, si garantisce la corretta partecipazione
e inviolabilità delle offerte.
I sistemi provvedono, infatti, alla verifica della validità
dei certificati e della data e ora di marcatura:
l’affidabilità degli algoritmi di firma digitale
garantiscono la sicurezza delle fasi di invio e di ricezione
delle offerte in busta chiusa.
Nella sentenza si pone in rilievo un aspetto peculiare:
nella gara telematica la conservazione dell’offerta è
affidata allo stesso concorrente, garantendo che questa non
venga, nelle more, modificata proprio attraverso
l’imposizione dell’obbligo di firma nel termine fissato per
la presentazione delle offerte.
La firma digitale (e l’eventuale marcatura temporale)
corrispondono quindi alla chiusura della busta nella
procedura tradizionale, mentre
Alla chiusura del periodo di upload, le offerte sono
disponibili nel sistema in forma “chiusa”: al momento
della loro apertura mediante le funzionalità del sistema, lo
stesso redige in automatico la graduatoria, tenendo conto
anche dei punteggi tecnici attribuiti dalla commissione
giudicatrice.
Proprio l’intervento dell’organo valutatore nelle procedure
con l’offerta economicamente più vantaggiosa è uno dei
profili di maggiore complessità, in quanto si sviluppa
offline e si traduce nel riversamento dei punteggi
attribuiti nella procedura telematica. Molte piattaforme si
stanno evolvendo, con la definizione di funzioni che
consentono di registrare le attività della commissione, come
quelle di recente introdotte nel Mepa.
L’importanza dell’utilizzo delle procedure telematiche è
sancita non solo dall’obbligo di utilizzo per l’acquisizione
di beni e servizi di valore inferiore alla soglia
comunitaria stabilito dall’articolo 1, comma 450, della
legge 296/2006, ma anche dal rafforzamento determinato dal
comma 2 dell’articolo 37 del nuovo Codice dei contratti, che
lo individua come strumento necessario per le stazioni
appaltanti per operare entro la fascia di valore tra 40mila
euro e le soglie comunitarie (e un milione di euro per i
lavori di manutenzione ordinaria).
Qualora, infatti, l’amministrazione non avesse modo di
utilizzare il mercato elettronico o la piattaforma
telematica, dovrebbe rivolgersi a una centrale di
committenza (obbligo per i Comuni capoluogo) o sviluppare
una procedura ordinaria, a evidenza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2016).
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MASSIMA
3.1. - Non può condividersi la doglianza
dell’appellante.
La tesi sostenuta si incentra sostanzialmente su una
interpretazione letterale distorta, da cui si intende
desumere la diversità dei files concernenti, l’uno,
l’offerta economica telematica, e, l’altro, il dettaglio
dell’offerta economica, da presentare in due fasi diverse,
con distinti termini di scadenza.
Ma la tesi trascura che i files, pur distinti, sono
complementari e rappresentano entrambi la predisposizione
dell’offerta economica in busta chiusa.
3.2. -Va precisato che ciò che caratterizza
le gare telematiche rispetto ad una tradizionale gara
d'appalto è l'utilizzo di una piattaforma on-line di
e-procurement e di strumenti di comunicazione digitali
(firma digitale e PEC), che di fatto rendono l’iter più
efficiente, veloce e sicuro rispetto a quello tradizionale,
basato sull'invio cartaceo della documentazione e delle
offerte.
Le fasi di gara seguono una successione
temporale che offre garanzia di corretta partecipazione,
inviolabilità e segretezza delle offerte: la firma digitale
garantisce infatti la certezza del firmatario dell’offerta e
la marcatura temporale ne garantisce la data certa di firma
e l'univocità della stessa.
Attraverso l’apposizione della firma e marcatura temporale,
da effettuare inderogabilmente prima del termine perentorio
fissato per la partecipazione, e la trasmissione delle
offerte esclusivamente durante la successiva fase di
finestra temporale, si garantisce la corretta partecipazione
e inviolabilità delle offerte.
I sistemi provvedono, infatti, alla verifica della validità
dei certificati e della data e ora di marcatura:
l’affidabilità degli algoritmi di firma digitale e marca
temporale garantiscono la sicurezza della fase di
invio/ricezione delle offerte in busta chiusa.
Nella gara telematica la conservazione dell’offerta è
affidata allo stesso concorrente, garantendo che questa non
venga, nelle more, modificata proprio attraverso
l’imposizione dell’obbligo di firma e marcatura nel termine
fissato per la presentazione delle offerte.
Firma e marcatura corrispondono alla “chiusura della
busta”.
Il Timing di gara indica all’impresa non solo il termine
ultimo perentorio di “chiusura della busta”, ma anche
il periodo e relativo termine ultimo di upload
(trasferimento dei dati sul server dell’Azienda appaltante).
Alla chiusura del periodo di upload, le offerte in busta
chiusa sono disponibili nel sistema; al momento
dell’apertura delle offerte il sistema redige in automatico
la graduatoria, tenendo conto anche dei punteggi tecnici
attribuiti dalla Commissione, graduatoria che viene
pubblicata con l’indicazione delle offerte pervenute, del
punteggio tecnico ed economico complessivo attribuito e del
miglior prezzo.
Inoltre, nessuno degli addetti alla gestione della gara
potrà accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla data
ed all'ora di seduta della gara, specificata in fase di
creazione della procedura. |
APPALTI: Appalti,
il nuovo rito al futuro. Applicazione sui bandi pubblicati
dopo il 19.04.2016. Il Tar Toscana
si è espresso sul contenzioso alla luce del decreto
legislativo 50/2016.
Nel contenzioso sugli appalti il nuovo rito «anticipato e in
prevenzione» non è immediatamente applicabile ai giudizi
pendenti, ma solo ai bandi pubblicati successivamente
all'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti (dlgs
50/2016), cioè il 19.04.2016.
Lo ha stabilito il
TAR Toscana, Sez. I, con la
sentenza 03.10.2016
n. 1415.
La vicenda ha preso
le mosse dall'impugnazione
del provvedimento di ammissione
di una cooperativa a
una gara d'appalto di servizi.
L'azione era stata proposta da
un'altra cooperativa che aveva
utilizzato il congegno dell'art.
120, comma 2-bis, del codice
del processo amministrativo,
in base al quale le esclusioni e
le ammissioni sono aggredibili
entro trenta giorni.
In primo
luogo il collegio ha richiamato
il tradizionale principio secondo
cui «il concorrente, mentre
ha interesse a dolersi della
propria esclusione dalla gara
ovvero di clausole impeditive
della partecipazione, non è titolare
di un'analoga posizione nel
caso intenda contestare l'ammissione
di altro partecipante
dal momento che tale atto, di
natura endoprocedimentale,
non possiede un'autonoma lesività». In secondo luogo i giudici
fiorentini hanno però evocato
il problema dell'inammissibilità
anche sotto un altro e più
pregnante profilo, e cioè con riferimento
alla non immediata
applicabilità del predetto art.
120.
Infatti, argomentazioni di
natura letterale e sistematica
ostano -secondo un'opinione
opposta a quella espressa dal
Tar Reggio Calabria n. 829
del 2016 e nonostante la natura
processuale della norma- all'immediata applicabilità
del rito introdotto dall'art. 204
del decreto legislativo n. 50 del
2016, riguardando esso solo i
nuovi bandi.
L'impossibilità di dare immediata applicazione al meccanismo
traspare significativamente anche dalle rigide (e oggi
difficilmente applicabili) norme di trasparenza richieste
dall'art. 29 del nuovo codice degli appalti, cioè per
esempio il pubblicare sul profilo del committente e in tempi
rapidissimi i provvedimenti di esclusione e di ammissione.
In sintonia con la dottrina, il Tar ha infine affermato che
il nuovo e speciale sottosistema processuale è legato al
riassetto complessivo del sistema della contrattualistica
pubblica
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Liti,
chi rilascia procura non sempre deve pagare.
Obbligato a corrispondere il compenso professionale
all'avvocato per l'opera professionale richiesta non è
necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla
lite.
È quanto sostenuto dai giudici della III Sez. civile
della Corte di Cassazione con
sentenza
30.09.2016 n. 19416.
I giudici hanno anche evidenziato che il compenso può anche
essere corrisposto da colui che abbia affidato al legale il
mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e
si sia svolto nell'interesse di un terzo. Infatti, è questa
l'ipotesi nella quale verrà a instaurarsi un altro distinto
rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di
un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del
cliente verrà assunta non dal patrocinato, ma dal soggetto
che ha richiesto per lui l'opera professionale.
Gli
Ermellini si sono quindi interrogati, in concreto, se il
mandato di patrocinio provenga dalla stessa parte
rappresentata in giudizio, o invece da un altro soggetto che
abbia perciò assunto a proprio carico l'obbligo del
compenso. Anche perché non è infrequente che una parte, la
quale debba essere rappresentata e difesa in un giudizio
destinato a svolgersi in una città diversa da quella della
propria residenza, non conoscendo legali di quel foro, si
rivolga a un professionista della propria città, e che sia
poi quest'ultimo a metterla in corrispondenza con un legale
del foro ove deve aver luogo il processo, al quale la parte
conferisce il mandato ad litem.
Pertanto, secondo i giudici di piazza Cavour sarà possibile
che «la parte abbia inteso intrattenere un rapporto di
clientela unicamente con il professionista che già
conosceva, ed abbia conferito al legale dell'altro foro
soltanto la procura tecnicamente necessaria all'espletamento
della rappresentanza giudiziaria: sicché il mandato di
patrocinio in favore di quest'ultimo non proviene dalla
parte medesima, bensì dal primo professionista, che ha
individuato e contattato il legale del foro della causa e
sul quale graverà perciò l'obbligo di corrispondere il
compenso»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari,
nuovo round sui diritti di rogito.
Nuovo round sui diritti di rogito dei segretari comunali. Il
Tribunale di Milano smentisce ancora la Corte dei conti,
riaffermando che l'emolumento deve essere riconosciuto a
tutti coloro che operano in enti privi di dirigenza,
indipendentemente dalla fascia professionale. Secondo i
giudici contabili, invece, ad averne diritto sono solo i
segretari di fascia C, sulla base di una lettura che strizza
l'occhio alle esigenze di contenimento della spesa pubblica
e che quindi è condivisa anche dalla Ragioneria generale
dello Stato.
Come noto (si veda ItaliaOggi del 22.04.2016), la questione
nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014: esso
dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti locali
privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a
tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica
dirigenziale», in misura comunque non superiore a un quinto
dello stipendio in godimento.
Tale norma ha dato luogo a due
interpretazioni diverse: da un lato, si è affermato che
l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di
enti di piccole dimensioni collocati in fascia C, dall'altro
lato si è argomentato che negli enti privi di personale con
qualifica dirigenziale i diritti spettano a prescindere
dalla fascia professionale in cui è inquadrato il
segretario.
Sul primo fronte si è schierata compatta la
Corte dei conti, anche perché in tal senso si è espressa la
sezione delle autonomie con la deliberazione n. 21/2015. Di
recente, tale restrittiva lettura è stata confermata dalla
Sezione regionale di controllo per l'Emilia-Romagna
(deliberazione n. 74/2016).
Sul fronte opposto, troviamo, invece, il TRIBUNALE del
lavoro di Milano, che nei giorni scorsi è tornato a
pronunciarsi in modo netto sul tema con la
sentenza 29.09.2016 n. 2516.
In tale pronuncia, si afferma che «le considerazioni svolte
dalla Corte dei Conti, potrebbero, in linea di principio,
essere condivisibili laddove attribuiscono un rilievo
preminente all'interesse pubblico rispetto all'interesse del
singolo segretario, tuttavia paiono offrire
un'interpretazione della norma che mal si concilia con il
dettato normativo. In sostanza, nell'intento di
salvaguardare beni pur meritevoli di tutela, finisce per
restringere il campo di applicazione della norma compiendo
un'operazione di chirurgia giuridica non consentito nemmeno
in nome della res pubblica».
Insomma, un vero caos che a
questo punto può essere risolto solo dal legislatore
(articolo ItaliaOggi del 06.10.2016). |
CONDOMINIO: Condomini, regolamenti sacri.
Non è fatto rilevante che sia avvenuta la trascrizione.
Secondo la Cassazione basta la menzione perché l'atto sia
vincolante tra le parti.
Regolamento di condominio «sacro» anche senza l'avvenuta
trascrizione. Chi acquista un locale (in un contesto di
immobili adibiti esclusivamente allo svolgimento di libere
attività professionali) e poi non vuole avere «cattive»
sorprese dal proprietario vicino (che intende dare in
affitto l'ufficio ad una società che, invece, svolge
attività commerciale) può fruire delle norme favorevoli
contenute nel regolamento condominiale soltanto
menzionandone le relative clausole nel contratto di
acquisto. Non occorre a tal fine l'avvenuta trascrizione del
regolamento.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. II civile, con
sentenza 28.09.2016 n. 19212, secondo cui basta che il
regolamento condominiale sia solo menzionato per essere
vincolante tra le parti.
Per conseguenza, negli appartamenti adibiti a studi
professionali non è possibile esercitare l'attività di
centri estetici (essendone prevista, nel caso di specie, dal
regolamento condominiale solo a piano terra). Le clausole
del regolamento condominiale vanno, quindi, rispettate e a
ciò non influisce la mancata trascrizione a cura del Notaio
rogante.
Difatti, la Suprema corte ritiene che tali clausole (che
impongono limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai
condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà) sono
vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti, per
il semplice fatto che risultano menzionate nel contratto. La
Cassazione ha, così, accolto il ricorso di due avvocati
proprietari di due studi legali adiacenti ad un centro
estetico condotto da una società. Respinta, quindi, la tesi
della Corte d'appello che riteneva necessaria la
trascrizione del regolamento condominiale.
Nel caso di specie, il regolamento condominiale
dell'edificio prevedeva che i singoli appartamenti dovessero
essere adibiti esclusivamente allo svolgimento di libere
attività professionali, la vicina aveva, invece, locato il
suo appartamento a una società che lo aveva destinato a
centro estetico; attività che aveva comportato la diffusione
di musica ad alto volume e l'utilizzo «in maniera smodata»
delle strutture dell'edificio. Per cui i ricorrenti hanno
chiesto e hanno ottenuto la condanna all'immediata
cessazione delle predette attività
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016).
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MASSIMA
Con il secondo ed ultimo motivo il ricorrente nel
denunciare omessa e contraddittoria motivazione circa un
fatto decisivo, oltre a violazione dell'art. 112 c.p.c. e
degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 1341 e 1372
c.c., lamenta che la decisione abbia interpretato in modo
irragionevole la clausola contrattuale, debitamente
trascritta -relativa all'accettazione del Regolamento
condominiale-, che diversamente rientrava per relationem
nel testo della compravendita.
Né -diversamente da quanto affermato dalla corte
territoriale- vi era la necessità di un ulteriore requisito,
quale l'avvenuta trascrizione del Regolamento, per la sua
efficacia, una volta intervenuta l'accettazione. Aggiunge il
ricorrente che la corte di merito avrebbe dovuto, inoltre,
tenere conto del documento prodotto attestante l'avvenuta
trascrizione del Regolamento.
Il motivo è fondato.
La Corte d'appello ha accertato, in fatto, che nell'atto di
acquisto dell'unità immobile sita nell'edificio in questione
vi era un riconoscimento, seppure generico, del regolamento
condominiale, che comprende diritti ed obblighi da esso
derivanti, tra i quali il divieto di adibizione
dell'appartamento ad uso diverso da studio professionale. Da
ciò ha desunto, in diritto, la inopponibilità della clausola
in questione, comportante una obbligazione propter rem,
che era inefficace per l'acquirente, anche in mancanza della
trascrizione dell'atto che lo imponeva.
La decisione non è in linea con la giurisprudenza di questa
Corte (Casa. 03.07.2003 n. 10523; Casa. 14.01.1993 n. 395;
Cass. 26.05.1990 n. 4905) secondo cui "le
clausole del regolamento condominiale di natura
contrattuale, che può imporre limitazioni ai poteri e alle
facoltà spettanti ai condomini sulle parti, di loro
esclusiva proprietà purché siano enunciate in modo chiaro ed
esplicito, sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli
appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione
nell'atto di acquisto, si sia fatto riferimento al
regolamento di condominio, che -seppure non inserito
materialmente- deve ritenersi conosciuto o accettato in base
al richiamo o alla menzione di esso nel contratto".
L'assunto del ricorrente è, dunque, condivisibile.
La trascrizione, salvo i casi in cui le
sono attribuite particolari funzioni soltanto notiziali
oppure costitutive, è destinata normalmente a risolvere i
conflitti tra diritti reciprocamente incompatibili, facendo
prevalere quello il cui atto di acquisto è stato inserito
prioritariamente nel registro immobiliare. Presupposto
indefettibile dell'operatività dell'istituto è quindi la
concorrenza di situazioni giuridiche soggettive che
risultino in concreto inconciliabili, alla stregua dei
titoli da cui rispettivamente derivano.
Una tale situazione di conflitto non si verifica però quando
una proprietà viene espressamente acquistata come limitata
da altrui diritti, per i quali una precedente trascrizione
non è quindi indispensabile, in quanto il bene non è stato
trasferito come libero, né l'acquirente può pretendere che
lo diventi a posteriori, per il meccanismo della "inopponibilità".
In questo senso è univocamente orientata la giurisprudenza
di legittimità
(cfr. Casa. n, 17886 del 2009).
La Corte d'appello ha perciò errato decidendo nel senso
della necessità della trascrizione del regolamento
condominiale e della inopponibilità della clausola de qua,
essendo nell'atto di acquisto della Ma. richiamato il
Regolamento. |
PUBBLICO IMPIEGO: Uffici
legali insopprimibili. Tar: garantire l'autonomia degli
avvocati.
È illegittimo sopprimere gli uffici legali degli enti
pubblici e sostituirli con una struttura destinata a curare
gli affari legali insieme ad altre attività.
Questo è quanto ha sancito il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I
con la
sentenza 28.09.2016 n. 1879.
Secondo i giudici amministrativi, infatti, ai fini
dell'esercizio dell'attività forense da parte di avvocati
dipendenti da enti pubblici, l'esistenza di un'autonoma
articolazione organica dell'ufficio legale dell'ente risulta
indispensabile affinché l'attività professionale, sebbene
svolta in forma di lavoro dipendente, possa essere svolta
con modalità che assicurino, oltre alla libertà
dell'esercizio dell'attività di difesa, propria della figura
professionale, anche l'autonomia del professionista.
Lo stesso art. 23 legge 31.12.2012, n. 247, stabilisce
che agli avvocati degli uffici legali specificamente
istituiti presso gli enti pubblici deve venire assicurata la
piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva
e stabile degli affari legali dell'ente e un trattamento
economico adeguato alla funzione professionale svolta, oltre
ad essere iscritti in un elenco speciale annesso all'albo.
L'autonomia dell'ufficio legale, quindi, è pretesa dalla
stessa legge.
Alla luce di queste considerazioni, nel caso in rassegna, il
collegio afferma che non può che ritenersi illegittimo il
decreto (nella specie del commissario ad acta per
l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi nel settore
sanitario della regione Calabria) nella parte in cui non
prevede più l'esistenza autonoma di un ufficio legale e la
sua sostituzione con una struttura denominata «Affari
generali, legali ed assicurativi» destinata a curare gli
affari legali delle aziende insieme ad altre attività
estranee al ministero professionale dell'avvocato (curare la
corrispondenza dell'ente, gestire il protocollo e
collaborare alle attività di risk management).
Tale previsione si pone in stridente contrasto con la legge,
e comporta la cancellazione degli avvocati dipendenti delle
aziende dall'albo professionale e la conseguente necessità
di attribuire ad avvocati del libero foro il compito di
rappresentare e difendere l'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
8. – Nel merito, i motivi aggiunti sono fondati.
La giurisprudenza (cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 14.01.2008,
n. 7; TAR Lazio-Latina, 30.03.2009, n. 255) ha già da tempo
chiarito che la peculiarità dell'attività
forense, che vuole l'avvocato libero di esercitare la difesa
del proprio patrocinato, mal si presta ad essere inquadrata
in una struttura di tipo gerarchico; al contrario,
l'esistenza di un'autonoma articolazione organica
dell'ufficio legale dell'ente risulta indispensabile
affinché l'attività professionale, ancorché svolta in forma
di lavoro dipendente, possa essere svolta con modalità che
assicurino, oltre alla libertà dell'esercizio dell'attività
di difesa -propria della figura professionale- anche
l'autonomia del professionista.
Anche la Corte di Cassazione, pronunziandosi a Sezioni
Unite, ha affermato che al fine
dell'iscrizione negli elenchi speciali annessi all'albo
degli avvocati è richiesto che presso l'ente pubblico esista
un ufficio legale costituente un'unità organica autonoma e
che coloro i quali sono ad esso addetti esercitino con
libertà ed autonomia le loro funzioni di competenza, con
sostanziale estraneità all'apparato amministrativo, in
posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in
organico e con esclusione di ogni attività di gestione
(Cass. Civ., Sez. Un., 18.04.2002, n. 5559).
Di recente, l’intervento del legislatore ha ribadito tali
principi.
Infatti, l’art. 23 l. 31.12.2012, n. 247, stabilisce che
gli avvocati degli uffici legali specificamente
istituiti presso gli enti pubblici, ai quali venga
assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella
trattazione esclusiva e stabile degli affari legali
dell'ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione
professionale svolta, sono iscritti in un elenco speciale
annesso all'albo.
Per l'iscrizione nell'elenco gli interessati presentano la
deliberazione dell'ente dalla quale risulti la stabile
costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione
della trattazione degli affari legali dell'ente stesso e
l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato
in forma esclusiva di tali funzioni; la responsabilità
dell'ufficio è affidata ad un avvocato iscritto nell'elenco
speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i
principi della legge professionale.
L’autonomia dell’ufficio legale, quindi, è pretesa dalla
stessa legge.
9. – Nel caso di specie, al contrario, viene prevista la
creazione di un'unica struttura, destinata a curare gli
affari legali delle aziende insieme ad altre attività
estranee al ministero professionale dell’avvocato (curare la
corrispondenza dell’Ente, gestire il protocollo, collaborare
alle attività di risk managment).
Tale previsione si pone in stridente contrasto con la legge,
e comporta, come denunciato dal ricorrente, la cancellazione
degli avvocati dipendenti delle aziende dall’albo
professionale e la conseguente necessità di attribuire ad
avvocati del libero foro il compito di rappresentare e
difendere l’amministrazione. Ciò in violazione delle
finalità che il decreto commissariale impugnato persegue.
10. – In conclusione, i motivi aggiunti debbono essere
accolti, con annullamento in parte qua del provvedimento
impugnato. |
TRIBUTI: Occupazioni
d'urgenza, Ici dovuta al comune.
Se il comune occupa un terreno, con decreto di occupazione
d'urgenza, lo stesso comune è legittimato a richiedere al
proprietario il pagamento dell'imposta comunale.
L'occupazione, infatti, ha carattere coattivo e non priva il
proprietario del possesso dell'immobile poiché il bene, sino
a esproprio o ablazione, continua ad appartenere a costui,
qualificandosi l'occupante quale un mero detentore.
L'imposta, dunque, continua a gravare sul proprietario.
È quanto si legge nell'ordinanza
27.09.2016 n. 19041 della Corte di Cassazione, Sez.
VI civile, con cui è stato rigettato il ricorso proposto dal
contribuente contro una sentenza della Ctr di Napoli,
favorevole all'amministrazione comunale.
Un comune della provincia campana aveva emesso un
provvedimento di occupazione d'urgenza, in relazione a un
terreno soggetto successivamente a procedura d'esproprio.
L'occupazione d'urgenza è l'istituto in base a cui
l'amministrazione ha la possibilità di anticipare gli
effetti di un procedimento d'espropriazione per pubblica
utilità: ciò allo scopo di ottenere subito la disponibilità
dell'area, senza attendere i tempi, di solito abbastanza
lunghi, della procedura di espropriazione.
In relazione a quello stesso terreno occupato, il comune
(occupante) richiedeva il pagamento dell'Ici per gli anni
dal 2005 al 2008. Contro tale provvedimento, il contribuente
proponeva ricorso in Commissione tributaria, ma gli esiti
dei giudizi di merito lo vedevano soccombente sia in primo
che in secondo grado. La decisione è stata confermata dalla
Cassazione, a cui si era rivolto, in ultima istanza, il
contribuente.
L'occupazione d'urgenza, per il suo carattere
coattivo, non priva il proprietario del possesso
dell'immobile in quanto il bene, finché non interviene il
decreto di esproprio o comunque l'ablazione, continua ad
appartenere a lui, tanto che per tal motivo gli si riconosce
un'indennità per l'occupazione, mentre nell'occupante, che
riconosce la proprietà in capo all'espropriando, manca
«l'animus rem sibi habendi», onde lo stesso è un mero
detentore
In definitiva, il proprietario (rimasto possessore) è da
ritenersi soggetto passivo dell'Ici, anche se l'immobile è
detenuto da terzi.
Oltre all'occupazione del terreno e al pagamento dell'Ici,
il contribuente è stato anche condannato al versamento
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato,
pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi dell'articolo
13 del dpr 115/2002.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Con il primo motivo si deduce, ex art. 360, I comma, n.
3 c.p.c. la violazione dell'art. del dlgs 504 del 1992,
dell'art. 1140 c.c. nonché dell'art. 22-bis del dpr n.
327/2001, laddove la Commissione regionale aveva ritenuto il
contribuente tenuto alla dichiarazione Ici, malgrado lo
stesso fosse stato, sin dall'anno 2004, privato del possesso
e della disponibilità del proprio appezzamento di terreno, a
seguito dell'occupazione di urgenza disposta dallo stesso
comune.
La censura è infondata essendo, all'uopo,
sufficiente richiamare il consolidato orientamento di questa
Corte (al quale si è espressamente riportato il giudice di
appello) secondo cui, in tema di espropriazioni,
l'occupazione d'urgenza, per il suo carattere coattivo, non
priva il proprietario del possesso dell'immobile in quanto
il bene, finché non interviene il decreto di esproprio o
comunque l'ablazione, continua ad appartenere a lui, tanto
che per tal motivo gli si riconosce un'indennità per
l'occupazione, mentre nell'occupante, che riconosce la
proprietà in capo all'espropriando, manca «l'animus rem sibi
habendi», onde lo stesso è un mero detentore.
Ne consegue
che il proprietario è soggetto passivo dell'Ici ed è,
quindi, obbligato a presentare la relativa dichiarazione,
anche se l'immobile è detenuto da terzi (Cass. n.
21433/2007; id. n. 4753/2010).
Con il secondo motivo, rubricato art. 360, cpc 3 in
redazione all'art. 2909 all'art.111, al giudicato esterno
relativo agli immobili della coniuge comproprietaria
formatosi con decisioni n. 523 Cfr Salerno, sez. 8, del
17/12/2012 e n. 9138 Ctr Napoli sez. n. 12, del 24/10/2014,
il ricorrente deduce come la sentenza impugnata si ponga in
contrasto con il giudicato esterno, formatosi in relazione
ai giudizi promossi, per la stessa annualità, dal coniuge
comproprietario ( ).
Il motivo non è meritevole di accoglimento alla luce del
consolidato principio per cui in terna di giudicato, qualora
due giudizi facciano riferimento a uno stesso rapporto
giuridico e uno dei due si sia concluso con sentenza
definitiva, il principio, secondo il quale l'accertamento
così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero
alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative a
un punto fondamentale comune a entrambe le cause preclude il
riesame dello stesso punto, non trova applicazione allorché
tra i due giudizi non vi sia identità di parti, essendo
l'efficacia soggettiva del giudicato circoscritta, ai sensi
dell'art. 2909 cod. civ., ai soggetti posti in condizione di
intervenire nel processo (cfr. ex multis, di recente, Cass.
n. 3187/2015)
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016). |
APPALTI: Offerte,
quando scatta l'obbligo di riparametrare. Per evitare limiti
alla concorrenza.
Obbligatoria la riparametrazione dei punteggi assegnati alle
offerte in una gara di appalto pubblico se si prevede una
soglia minima per il punteggio tecnico; il divieto di
commistione fra requisiti soggettivi e oggettivi non si
applica all'esperienza dei dipendenti o del team di lavoro.
Sono questi i principi affermati dal Consiglio di Stato,
Sez. III, con la
sentenza 27.09.2016 n.
3970 che ha trattato il tema della riparametrazione dei
punteggi quando nel bando di gara è previsto che si aprano
le buste contenenti l'offerta economica soltanto per le
offerte tecniche che abbiano raggiunto un prefissato
punteggio minimo.
Sul punto, oggetto di attenzione anche nelle linee guida
2/2016 emesse dall'Anac, i giudici chiariscono innanzitutto
che la riparametrazione è indispensabile per evitare anomale
restrizioni alla concorrenza ed al principio di massima
partecipazione.
Non è questione e quindi non rileva, dice la sentenza, la
differenza tra requisiti qualitativi chiesti ai fini
dell'ammissione e requisiti richiesti ai fini della
selezione. La fissazione di una soglia minima di punteggio
per l'offerta tecnica opera su un altro piano perché non è
un requisito di ammissione ma semplicemente una valore al di
sotto del quale l'amministrazione non ritiene l'offerta
accettabile quale che sia la proposta economica.
È proprio
in tali casi che la giurisprudenza ha tuttavia predicato il
carattere «indispensabile» della riparametrazione di cui
alla lettera a), punto 5, dell'allegato P del vecchio
regolamento ormai abrogato (dpr 207/2010), così da
ripristinare, anche in funzione proconcorrenziale, un
equilibrio tra i fattori di valutazione delle offerte.
La sentenza coglie l'occasione per precisare come debba
intendersi la distinzione fra requisiti di ammissione e
elementi di valutazione delle offerte: «solo i riferimenti
all'impresa, e non quelli all'esperienza di singoli
dipendenti o del team di lavoro, sono in contrasto con il
principio del divieto di commistione tra requisiti
soggettivi dell'offerente e requisiti oggettivi
dell'offerta».
Un chiarimento che prende atto di quanto le
direttive (la n. 24/2014) ammettono all'articolo 67 (criteri
di aggiudicazione) in rapporto all'art. 58, comma 4
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
deposito della sentenza basta ai fini del tempo.
Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione è
sufficiente il deposito mero della sentenza attestato dal
cancelliere, ben potendo ogni ulteriore adempimento
intervenire successivamente, considerata la larghezza del
termine all'uopo previsto, senza necessità che il termine
suddetto cominci a decorrere da quando la parte abbia
effettiva possibilità di conoscenza dell'avvenuto deposito.
È quanto osservato dai giudici delle Sezz. unite civili
della Corte di Cassazione con la
sentenza 22.09.2016 n. 18569.
I giudici hanno altresì osservato che l'unico correttivo
potrebbe essere costituito dalla possibilità di ricorso,
anche d'ufficio, alla rimessione in termini solo qualora il
giudice dell'impugnazione ravvisi «grave difficoltà» per
l'esercizio del diritto di difesa determinato dall'avere il
cancelliere non reso conoscibile la data di deposito della
sentenza prima della successiva data attestante la
«pubblicazione» della medesima, avvenuta a notevole distanza
di tempo e in prossimità del termine di decadenza per
l'impugnazione.
Altra questione sulla quale i giudici delle
sezioni unite si sono soffermati nella sentenza in commento
è quella circa l'apposizione di una doppia data alle
sentenze civili, con le conseguenti problematiche giuridiche
anche sul piano costituzionale. Osservano gli Ermellini che
tale questione è stata riproposta frequentemente nel tempo,
dando origine a una copiosa e non univoca giurisprudenza di
legittimità nonché a sospetti d'illegittimità
costituzionale.
Più recentemente però il continuo riproporsi della «sciagurata
consuetudine» di apporre una doppia data in calce alle
sentenze civili ha determinato un articolato intrecciarsi e
sovrapporsi di interventi giurisdizionali che, osservano i
supremi giudici, «non risulta ancora sopito e spesso si è
osservato come le ripetute pronunce sulla questione
riguardano tutte ipotesi in cui in calce alla sentenza sono
state apposte dal cancelliere due date (individuate
rispettivamente come di deposito e di pubblicazione), con un
comportamento definito dalla Consulta (non mera irregolarità
bensì) «patologia procedimentale grave», ancor più grave se
si pensa che tutte le pronunce in argomento, pur divergenti
tra loro su aspetti anche non secondari, sono da sempre
concordi nello stigmatizzare incondizionatamente tale
comportamento non solo per la sua determinante influenza
sulle posizioni giuridiche degli interessati ma perché,
ancor prima, introduce dubbi e ambiguità in un momento
processuale di massimo rilievo, inducendo il fondato
sospetto che non sia sufficiente una stigmatizzazione in
sede processuale di tale deprecabile consuetudine, ma si
rendano forse necessari interventi ulteriori, quanto meno di
carattere disciplinare»
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2016). |
APPALTI: L'aggiudicazione cristallizza
l'anomalia.
Nelle gare
d'appalto il momento in cui la
soglia di anomalia viene cristallizzata in
modo intangibile coincide con l'aggiudicazione
definitiva.
Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. I,
con la
sentenza n. 1372 del 19.09.2016.
La controversia era nata perché la stazione
appaltante, dopo la riammissione in gara
di alcune ditte inizialmente espulse, aveva
proceduto al ricalcolo della soglia di
anomalia. Ciò aveva portato all'esclusione
dell'offerta della ricorrente, giudicata anomala.
Per determinare il momento in cui
la soglia di anomalia viene fissata in modo
irreversibile, il Collegio ha puntato l'attenzione
sull'esegesi della locuzione usata
dal legislatore nell'ultima parte dell'art.
38, comma 2-bis del dlgs n. 16312006. Il
confine invalicabile previsto dalla norma
fa riferimento a «ogni variazione che intervenga
(...) successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione
delle offerte (...)».
Ai fini della soluzione
ermeneutica va preliminarmente tenuto a
mente che in questo contenzioso non si era
proceduto né all'aggiudicazione definitiva,
né a quella provvisoria. Partendo anche da
tale presupposto, il consesso fiorentino ha
rimeditato il proprio orientamento.
Col richiamo
a «ragioni di carattere sistematico
e logico», l'organo giudicante ha prescelto
la soluzione che esclude il potere della stazione
appaltante di agire in autotutela solo
dopo l'adozione dell'atto di aggiudicazione
definitiva, rimanendo quindi possibile prima
di tale momento. Da notare in sentenza
la precisazione che è anche vero che la norma
citata potrebbe legittimare una diversa
interpretazione maggiormente restrittiva
circa i poteri d'intervento dell'amministrazione.
In pratica l'interprete deve ritenere
che il divieto di ricalcolo delle soglie e delle
medie operi solo dopo la conclusione di una
«fase effettiva» della procedura di evidenza
pubblica
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Premesso che:
- la Città metropolitana di Firenze indiceva, per i lavori
di completamento del lotto VI della variante S.R. 429,
tratto Empoli-Castelfiorentino, una procedura aperta, ai
sensi degli artt. 54 e 55 del d.lgs. n. 163/2006, da
aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso, inferiore
a quello posto a base di gara, determinato mediante offerta
a prezzi unitari, con l'esclusione automatica, ai sensi del
combinato disposto dagli artt. 122, comma 9, e 253, comma
20-bis, delle offerte che presentavano un ribasso pari o
superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi
dell'art. 86, comma 1;
- la procedura di gara veniva espletata con modalità
interamente telematica sul Sistema Telematico Acquisti
Regionale della Toscana - Città Metropolitana di Firenze
(START);
- nella fase di qualificazione la Stazione appaltante
escludeva dalla gara n. 28 operatori economici, tra i quali
i concorrenti Bo. S.r.l. e C. S.r.l. in quanto ritenuti
privi dei requisiti di partecipazione richiesti dal bando;
- a seguito dell'apertura delle offerte economiche delle
ditte ammesse, il sistema telematico determinava la soglia
di anomalia e stilava in automatico la graduatoria
provvisoria dalla quale risultava, quale migliore offerta,
quella della ditta En.;
- prima che intervenisse ogni forma di aggiudicazione, anche
provvisoria, con provvedimento in autotutela n. 1273 del
29.06.2016 l'amministrazione, alla luce del più recente
orientamento giurisprudenziale in tema di avvalimento
frazionato (motivo che aveva determinato l’esclusione delle
due concorrenti sopra menzionate), riammetteva in gara le
due ditte precedentemente escluse;
- a seguito della riammissione delle due ditte, esaminate
anche le loro offerte economiche, si determinava
automaticamente una nuova soglia di anomalia e,
conseguentemente, una nuova graduatoria nella quale si
collocava al primo posto la ditta Es., evocata in giudizio
come controinteressata, mentre l’offerta di En. risultava
tra le offerte anomale;
considerato che:
- la società ricorrente ha proposto ricorso contestando il
provvedimento di aggiudicazione per avere la stazione
appaltante, in violazione dell'art. 38, co. 2-bis, d.lgs. n.
163/2006, dopo la riammissione in gara delle due ditte
inizialmente escluse, illegittimamente proceduto al
ricalcolo della soglia di anomalia;
- in tal senso si sarebbe espressa finora la giurisprudenza
(ex multis, Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2609;
TAR Lazio, Latina, 16.03.2016, n. 150) la stessa ANAC (con
il parere n. 130 del 22.07.2015), nonché questa Sezione con
la sentenza n. 1516/2015;
- in particolare, con tale ultima pronuncia si è ritenuto
che “Nel sistema delineato dalla norma, l’individuazione
della soglia di anomalia è quindi rivelatrice
dell’intenzione dell’amministrazione procedente di ritenere
esaurita la fase di ammissione, regolarizzazione o
esclusione per addivenire a quella di formazione della
graduatoria, e segna il momento oltre il quale divengono
irrilevanti le sopravvenienze dovute non soltanto a pronunce
giurisdizionali, ma anche all’iniziativa della stessa
amministrazione, come inequivocabilmente si ricava dalle
espressioni utilizzate dal legislatore. Il riferimento a
ogni variazione intervenuta “anche” (e non solo) in
conseguenza di una pronuncia giurisdizionale indica infatti,
a contrario, l’irrilevanza di qualsiasi variazione, a
partire da quelle derivanti dall’esercizio dei poteri di
autotutela dell’amministrazione” (TAR Toscana, sez. I,
09.11.2015, n. 1516);
ritenuto che:
- la tesi appena riportata, merita, ad avviso del Collegio,
di essere rimeditata alla luce del più recente orientamento
espresso in particolare dal Giudice di appello;
- la norma di legge invocata (introdotta dall'art. 39, co.
1, d.l. n. 90/2014) stabilisce che “ogni
variazione che intervenga, anche in conseguenza di una
pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non
rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte”;
- la sentenza di questo Tribunale invocata dalla ricorrente
attiene ad una fattispecie non del tutto sovrapponibile a
quella oggetto di esame concernendo, infatti, un caso in cui
la stazione appaltante aveva già proceduto
all’aggiudicazione provvisoria della gara sulla base della
prima soglia di anomalia, poi modificata con effetti anche
sull’aggiudicazione;
- nello stesso senso la pronuncia del Consiglio di Stato n.
2609/2015 si sofferma su una fattispecie in cui già era
intervenuta l’aggiudicazione definitiva della gara, mentre
nel caso che ne occupa l’Amministrazione non aveva proceduto
né all’aggiudicazione definitiva, né a quella provvisoria;
- lo snodo cruciale del ragionamento sul
quale occorre puntare l’attenzione sta appunto nell’esegesi
della locuzione usata dal Legislatore per determinate il
momento in cui la soglia di anomalia viene fissata in modo
intangibile perciò rendendosi impermeabile a “ogni
variazione che intervenga…successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte…”;
- la stessa sentenza di questo TAR, più volte citata, reca
uno snodo argomentativo in tal senso significativo,
affermando che “Sul piano operativo,
l’interpretazione testuale non lascia adito a dubbi: il
periodo finale del comma 2-bis scandisce le fasi della
procedura di gara che precedono la determinazione della
soglia di anomalia e la cui durata è di volta in volta
rimessa al discrezionale apprezzamento della stazione
appaltante, alla quale compete stabilire quando esse possano
reputarsi esaurite, tenuto conto di ogni esigenza
procedimentale, ivi comprese quelle dipendenti dal doveroso
esercizio del potere di soccorso istruttorio”;
- partendo da questo presupposto il C.G.A. Reg. Siciliana ha
ritenuto che “A giudizio di questo
Consiglio deve prevalere una diversa, e più coerente,
interpretazione della norma che porta a limitare, per
effetto della disposizione più volte richiamata, il potere
dell’amministrazione di agire in autotutela solo dopo che la
stazione appaltante ha adottato il provvedimento di
aggiudicazione definitiva. In altri termini, nonostante il
fatto che la norma possa legittimare una diversa
interpretazione (maggiormente restrittiva del potere
dell’amministrazione di agire in autotutela, escludendo tale
possibilità sin dall’atto di ammissione o di esclusione),
per il Consiglio, ragioni di carattere sistematico e logico
impongono la soluzione che esclude il potere della stazione
appaltante di agire in autotutela solo dopo l’adozione
dell’atto di aggiudicazione definitiva, rimanendo possibile
prima di tale momento”
(C.G.A. Reg. Sic., 22.12.2015, n. 740; nello stesso senso,
Cons. Stato, sez. V, n. 1052/2016; TAR Sicilia, Palermo,
sez. I n. 583/2015);
- tali conclusioni sono supportate sul piano sistematico dal
rilievo che “l’articolo 11 cod.
contratti individua le diverse fasi della procedura di
evidenza pubblica –decreto o determina a contrarre,
selezione dei contraenti, selezione dell’offerta,
aggiudicazione definitiva, stipulazione del contratto– e tra
queste non contempla la c.d. “fase di ammissione,
regolarizzazione o esclusione delle offerte”;
conseguentemente l’interprete deve ritenere che il divieto
di ricalcolo delle soglie e delle medie operi solo dopo la
conclusione di una “fase effettiva” della procedura
di evidenza pubblica, fase questa individuabile proprio con
il provvedimento di aggiudicazione definitiva
(C.G.A. Reg. Sic., 22.12.2015, n. 740);
- a più forte ragione tali conclusioni si impongono nel caso
in cui il procedimento si sia arrestato alla fase
dell’aggiudicazione provvisoria atto che, pur essendo
autonomamente impugnabile, non è individuabile come
provvedimento conclusivo della procedura di evidenza
pubblica, conseguendone che sarebbe incoerente escludere la
possibilità di rivedere le determinazioni già assunte;
- “se non si consentisse anche dopo la
novella del 2014, alla stazione appaltante di rivedere gli
esiti delle preliminari decisioni assunte durante la gara,
purché prima dell’aggiudicazione definitiva, difficilmente
si comprenderebbe quale attività di controllo l’organo
competente ad adottare l’atto di aggiudicazione definitiva
deve effettuare sugli atti compiuti dal seggio di gara sino
all’aggiudicazione provvisoria”
(C.G.A. Reg. n. 740/2015 cit.);
- “sotto un profilo logico, permettendo
all’amministrazione di ravvedersi prima dell’aggiudicazione
definitiva –senza frustrare le esigenze di celerità
perseguite dalla norma (mentre diversa sarebbe la
conclusione se fosse consentito all’amministrazione di
ravvedersi dopo l’aggiudicazione definitiva)– si evita che
l’amministrazione, pur essendosi accorta dell’errore, debba
mantenere ferma l’aggiudicazione in favore di un operatore
che non lo merita, esponendosi conseguentemente all’azione
risarcitoria avanzata da chi, se la gara fosse stata
condotta legittimamente, sarebbe risultato aggiudicatario”
(C.G.A. Reg. Sic., n. 740/2015 cit.);
- per tali ragioni deve ritenersi
legittimo, da parte della stazione appaltante, l’esercizio
del potere di modificare la soglia di anomalia, riammettendo
in gara concorrenti esclusi nelle precedenti fasi del
procedimento, purché ciò avvenga prima del provvedimento di
aggiudicazione definitiva; |
ENTI
LOCALI: Organismi di diritto pubblico ad ampio raggio.
Il consiglio di stato sulla nozione di derivazione
comunitaria.
La nozione di «organismo di diritto pubblico», figura
soggettiva di derivazione comunitaria, rileva nel settore
degli appalti ed è tesa, in chiave pro-concorrenziale, ad
applicare le regole di evidenza pubblica anche ai soggetti
che, pur non essendo formalmente pubblici, soggiacciono a
una dominante influenza pubblica.
È quanto affermato dai
giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 16.09.2016 n. 3892.
A parere dei
supremi giudici amministrativi tale regola non potrà
applicarsi traslandola anche alle procedure selettive per
l'assunzione di personale, essendo diverse le esigenze, e
mancando, del resto, quell'aggancio sul versante comunitario
che ne ha giustificato l'inserimento nel codice appalti.
In
assenza di espresse previsioni di legge in tal senso, i
soggetti formalmente privati non sono titolari di poteri
pubblicistici, anche se ad altri e specifici fini siano
considerati organismi di diritto pubblico. I giudici di
palazzo Spada hanno, altresì aggiunto che anche nel caso in
cui scelgano di applicare regole di trasparenza ed equità
proprie dei concorsi pubblici, «i soggetti privati lo fanno
ponendo 'autovincoli' alla propria autonomia negoziale, la
cui violazione ben può essere sindacata dal giudice civile,
trattandosi di atti finalizzati all'instaurazione di un
rapporto lavorativo di natura privatistica».
Inoltre, nella
sentenza in commento, è stato osservato come la fondazione
di diritto privato non possa ritenersi -per il solo fatto
di svolgere, sulla base di intese ed accordi attuativi con
la Regione e l'Asl competente, attività riconducibili al
servizio sanitario nazionale– un «ente» del Ssn, poiché a
tal fine è necessaria una previsione di legge che qualifichi
l'ente nel quadro del Ssn sottoponendolo alle regole
pubblicistiche (in proposito si veda anche Ss.Uu.,
25.11.2013, n. 26283)
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016).
---------------
MASSIMA
9. Come correttamente rilevato dal Giudice di prime
cure, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1,
comma 2, e 63, comma 4, D.Lg.vo n. 165 del 2001 «spettano
alla cognizione del Giudice Amministrativo soltanto le
controversie, relative ai concorsi indetti dalle
Amministrazioni dello Stato, compresi gli istituti e le
scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative,
dalle aziende e dalle Amministrazioni dello Stato ad
ordinamento autonomo, dalle Regioni, dalle Province, dai
Comuni, dalle Comunità Montane, dai Consorzi e/o dalle
associazioni di Enti Locali, dalle Università, dagli
Istituti autonomi case popolari, dalle Camere di Commercio e
loro associazioni, da tutti gli Enti Pubblici non economici
nazionali, regionali e locali, dalle amministrazioni e
aziende ed Enti del Servizio Sanitario Nazionale, dall’ARAN
e da tutte le altre Agenzie previste dal D.Lg.vo n. 300/1999».
9.2. La fondazione di diritto privato non
può ritenersi -per il sol fatto di svolgere, sulla base di
intese ed accordi attuativi con la Regione e l’ASL
competente, attività riconducibili al SSN– un ‘ente’
del SSN, poiché a tal fine è necessaria una previsione di
legge che qualifichi l’ente nel quadro del S.S.N.
sottoponendolo alle regole pubblicistiche
(in proposito cfr SSUU, 25.11.2013, n. 26283).
9.3. Né può applicarsi quella
giurisprudenza riguardante l’individuazione della nozione di
«organismo di diritto pubblico»,
poiché tale figura soggettiva, di derivazione comunitaria,
rileva nel settore degli appalti ed è tesa, in chiave
pro-concorrenziale, ad applicare le regole di evidenza
pubblica anche ai soggetti che, pur non essendo formalmente
pubblici, soggiacciono ad una dominante influenza pubblica.
La regola non può de plano essere
traslata anche alle procedure selettive per l’assunzione di
personale, essendo diverse le esigenze, e mancando, del
resto, quell’aggancio sul versante comunitario che ne ha
giustificato l’inserimento nel codice appalti.
In assenza di espresse previsioni di legge
in tal senso, i soggetti formalmente privati
(come la ‘nuova’ Fondazione Stella Maris Mediterraneo
ONLUS) non sono titolari di poteri
pubblicistici, anche se ad altri e specifici fini siano
considerati organismi di diritto pubblico.
9.4.
Anche ove scelgano di applicare regole di
trasparenza ed equità proprie dei concorsi pubblici, i
soggetti privati lo fanno ponendo ‘autovincoli’ alla
propria autonomia negoziale, la cui violazione ben può
essere sindacata dal giudice civile, trattandosi di atti
finalizzati all’instaurazione di un rapporto lavorativo di
natura privatistica.
10. In conclusione, l’appello va respinto. |
APPALTI: Se
la gara è saltata l’impresa va risarcita. Tar Napoli.
La Pa che ritarda la gara fino a
perdere i finanziamenti deve risarcire l’impresa
aggiudicataria provvisoria in caso di revoca del bando: è il
cosiddetto danno da «contatto sociale», la lesione
dell’obiettiva possibilità di stipula pur in assenza di un
obbligo di prestazione. La tutela deve però tener conto
della posizione di tale soggetto, non più «mero
concorrente».
Lo chiarisce il TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza
14.09.2016 n. 4300, accogliendo il ricorso di un
consorzio stabile, aggiudicatario provvisorio di alcuni
lavori di riqualificazione banditi da un Comune secondo
l’offerta economicamente più vantaggiosa.
L’ente aveva revocato la gara poiché, per carenza di
personale, aveva fatto slittare la pubblicazione del bando,
i termini per parteciparvi e i tempi esaminare le offerte,
non riuscendo così ad avviare i lavori entro la scadenza
fissata per ottenere i fondi regionali.
Inoltre, il progetto non era finanziabile con risorse
interne (se non con debiti a bilancio) e aveva
«macroscopiche anomalie, tali da sconsigliare la
realizzazione». Secondo i giudici, causando tali
«incontestate criticità e ritardi», per la Pa vi è
«un’ipotesi di responsabilità da contatto qualificato,
attualmente ricadente nella figura generale di cui
all’articolo 2043 del codice civile, specificamente come
paradigma di cattiva gestione dei tempi e
dell’organizzazione del procedimento», posto il «nesso di
causalità» tra la mancata conclusione della gara e la
perdita della possibilità di stipula.
In questi casi però è
«peculiare e necessario» valutare il risarcimento del danno
patrimoniale in base alla maggior rilevanza
dell’aggiudicatario provvisorio rispetto agli altri
concorrenti, rivestendo «una posizione procedimentale di
aspettativa più prossima al bene della vita, costituito
dall’utilità finale che dal punto di vista del lato interno
dell’interesse legittimo è data dal divenire aggiudicatario
definitivo» (articolo Il Sole 24 Ore del 26.10.2016).
---------------
MASSIMA
Con riferimento al quarto motivo di ricorso, afferente
alla validità della clausola di esonero dei responsabilità
di cui agli artt. 4 e 10 del bando di gara, osserva il
Collegio che la questione non investe la legittimità del
provvedimento impugnato, limitandosi, stando alla espressa
formulazione delle disposizioni coinvolte, a costituire
un’autonoma causa di invalidità della lex specialis
sotto il profilo dell’inibitoria all’accesso alla tutela
giurisdizionale di tipo risarcitorio,
Ebbene, nel solco di precedente giurisprudenza della
Sezione, ritiene il Collegio che la
clausola con la quale l'Amministrazione si ritiene esonerata
da ogni responsabilità contrattuale o anche precontrattuale,
non può dispiegare alcuna efficacia nei confronti dei
partecipanti ad una procedura di evidenza pubblica; questa
deve essere interpretata alla stregua del riconoscimento
all'Ente pubblico di un potere di implicita revoca
dell'aggiudicazione, con obbligo di congrua motivazione che
illustri la corretta ed esauriente ponderazione degli
interessi pubblici e privati coinvolti; infatti, qualsiasi
interpretazione che tenda a sostenere l'insindacabile natura
di tale facoltà e, per questa via, l'irresponsabilità civile
dell'Amministrazione, comporterebbe la nullità della
clausola ex art. 1335 c.c., in quanto si configurerebbe come
condizione meramente potestativa
(TAR Campania Napoli Sezione I 03.05.2011 n. 2433).
Entro questi limiti la censura non è meritevole di
accoglimento, non assumendo connotazioni di concreta
lesività del diritto della società ricorrente di proporre in
giudizio azione di responsabilità nei confronti del Comune
di Ischia.
Risolte le questioni di tipo impugnatorio, deve ora essere
esaminata la domanda risarcitoria che si rivela meritevole
di accoglimento nella parte in cui la società ricorrente
lamenta una lesione del proprio legittimo affidamento ad una
conclusione del procedimento di gara che fosse utile ad
assicurarle la qualità di aggiudicatario definitivo e,
quindi, di contraente del Comune di Ischia.
Non è dubitabile, infatti, che la lesione della posizione
della ricorrente non trova fondamento giuridico nel
provvedimento di ritiro degli atti di gara, momento di
sostanziale accertamento da parte della stazione appaltante
della ormai oggettiva impossibilità di concludere il
procedimento in tempo utile per l’aggiudicazione definitiva
e la stipulazione in favore del concorrente a tanto
legittimato.
Il vulnus alla posizione del
consorzio stabile Eg. scarl è piuttosto riconducibile alla
colpevole condotta assunta dalla stazione appaltante nel
corso della gestione del procedimento di gara, alla fine
risoltosi in un inutile coinvolgimento della società
ricorrente in una vicenda ed in un rapporto pervenuto ad un
punto di sostanziale ed irreversibile arresto, senza alcuna
possibilità di soluzione, con evidente lesione del legittimo
affidamento di chi invece era titolare di una legittima
aspettativa rispetto alla stipulazione di un contratto
pubblico.
La condotta colpevole dell’ente resistente
va individuata nelle incontestate criticità e ritardi
registrati durante la fase di pubblicazione della lex
specialis e nel consequenziale slittamento dei termini
di partecipazione, nonché nella confessata lenta
celebrazione delle attività di esame delle offerte,
dichiaratamente ricondotta a problemi di tipo organizzativo
interno. Si è dunque in presenza di un’ipotesi di
responsabilità da contatto qualificato, attualmente
ricadente nella figura generale di cui all’art. 2043 c.c.,
specificamente come paradigma di cattiva gestione dei tempi
e dell’organizzazione del procedimento.
Sussiste il nesso di causalità, da individuarsi nella
relazione causa effetto tra colpevole mancata conclusione
del procedimento e perdita della possibilità di stipulazione
del contratto.
Quanto al danno risarcibile, è opinione del
Collegio che, rispetto al modello generale del procedimento
amministrativo, nell’ambito di quelli ad evidenza pubblica,
sia peculiare e necessario tenere conto, ai fini della
concreta individuazione del legittimo affidamento oggetto di
lesione, che la posizione dell’aggiudicatario provvisorio
sia distinta da quella di chi sia ancora titolare di una
posizione di mero concorrente.
Non può, invero, non tenersi conto che il divenire della
funzione amministrativa nell’ambito del procedimento
determini un consolidamento, in senso rafforzativo o di
indebolimento, della posizione partecipativa del
destinatario dell’azione autoritativa, nel caso del
procedimento di gara maggiormente percepibile e
giuridicamente rilevante; non a caso, costituisce nuovo
approdo anche da parte del legislatore, la differenziazione
tra partecipazione al procedimento di gara riferibile alla
fase di qualificazione, attualmente considerata autonoma
anche dal punto di vista della tutela processuale
d’impugnazione, e presenza del concorrente alla fase,
successiva, di apprezzamento delle offerte, costituente una
stadiazione progressiva l’ingresso nella quale origina una
posizione procedimentale di aspettativa più prossima al bene
della vita, costituito dall’utilità finale che dal punto di
vista del lato interno dell’interesse legittimo è data dal
divenire aggiudicatario definitivo.
Ebbene, per quanto concerne la tutela
risarcitoria del legittimo affidamento, proprio la
qualificazione in termini di bene patrimoniale di tale
condizione soggettiva impone di dare rilievo
all’oggettivamente apprezzabile progressivo rafforzamento
del convincimento del suo titolare di essere sempre più
vicino al conseguimento di un’utilità ragionevolmente
spettante.
Ne discende che, pur imponendo la mancata
adozione di un provvedimento di aggiudicazione definitiva
l’esclusione dei principi generali propri del risarcimento
dei danni da lesione dell’interesse contrattuale negativo,
ossia ascrivibili alla mancata stipulazione, essendosi il
procedimento di gara arrestatosi prima di tale momento, sarà
invece risarcibile, in termini di lucro cessante,
proprio il danno da mancato conseguimento
dell’aggiudicazione definitiva per fatto colpevole della
stazione appaltante; danno che il Collegio stima nella
misura del 3% della base d’asta, oltre alla maggiore somma
tra interessi e rivalutazione monetaria dal 01.01.2015, data
di verificazione del danno, al soddisfo.
Nulla spetta invece in termini di danno
emergente, essendo state quelle di partecipazione alla
gara sostenute dalla società ricorrente spese necessarie per
l’acquisizione della posizione di aggiudicatario
provvisorio, né quelle per danno curriculare, rimesse invece
alla condizione di mancata stipulazione del contratto.
In questi termini, ai sensi dell’art. 34, quarto comma
c.p.a. il Comune di Ischia entro trenta giorni dalla
comunicazione della presente decisione, o notificazione, se
anteriore, presenterà al consorzio ricorrente una proposta
di risarcimento danni, secondo i criteri indicati nella
presente motivazione. |
APPALTI:
Ati, lo stop porta alla black list. Sciolto il
contratto per inadempimento c'è segnalazione. Sentenza del
Tar Lazio: impresa nel casellario dell'Anac dopo la
contestazione sui lavori.
Dopo che il comune ha risolto per grave inadempimento il
contratto con l'associazione temporanea d'imprese la società
partecipante finisce sul casellario informatico dei
«cattivi» gestito dall'Anac, l'authority che vigila sugli
appalti pubblici: è legittima l'iscrizione ex articolo 8,
comma 2, lettera p) del dpr 207/2010 sulla black list laddove
anche sui lavori assegnati alla singola azienda sono state
rilevate negligenze, a partire dal degrado riscontrato sul
cantiere alla data di scadenza dei lavori.
È quanto emerge dalla
sentenza 12.09.2016
n. 9654,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Niente da fare per l'impresa di costruzioni: resterà sulla
«lista nera» gestita dall'Anac creata per tutelare le
stazioni appaltanti dei lavori pubblici. Fa bene il comune a
chiedere via Pec all'autorità di estendere all'azienda
«incriminata» il procedimento avviato nei confronti di
un'altra società. E ciò perché l'amministrazione locale si è
vista costretta a risolvere il contratto dopo le
contestazioni del direttore dei lavori nel parco
archeologico.
La società non può chiamarsi fuori perché è
stata informata degli inadempimenti contrattuali di sua
specifica responsabilità: non sono state realizzate le
strutture di copertura degli scavi e si segnalano la
sparizione di suppellettili e addirittura la presenza di
scavi abusivi, dovuti all'omessa custodia. Insomma: è in
base a documentali che l'autorità nazionale anticorruzione
procede ad annotare l'intervenuta risoluzione del contratto
nel casellario informatico. Spese di giudizio compensate.
E si può finire sulla lista dei cattivi anche per la
violazione delle norme antinfortunistiche. Resta la
«macchia» sulla «fedina» dell'impresa appaltatrice che sta
costruendo la cittadella della cultura nel territorio del
comune quando il coordinatore della sicurezza rileva
irregolarità tali da sospendere i lavori: su segnalazione
dell'ente che ha messo a gara quel lotto, infatti,
l'authority di settore, ieri Avcp oggi Anac, deve dar conto
del fatto nel casellario informatico delle imprese
qualificate a svolgere lavori pubblici. L'annotazione è un
atto dovuto senza obbligo di una particolare motivazione
perché l'impresa deve ritenersi al corrente delle proprie
inadempienze.
È quanto emerge dalla sentenza 6522/16,
pubblicata dalla prima sezione del Tar Lazio. Decisivo il
sopralluogo del coordinatore che blocca i lavori: nel
cantiere vede lavorare operai su vani scala senza parapetto
a più di due metri dal piano inferiore e accerta altre
omissioni in termini di protezione dei lavoratori; lo stop
alle operazioni scatta dunque per un «pericolo imminente».
Ecco allora che è inevitabile l'annotazione nel casellario
informatico: la segnalazione della stazione appaltante non
ha margini discrezionali perché è «grave» la violazione
riscontrata rispetto alle norme antinfortunistiche. E dunque
non c'è bisogno di coinvolgere l'impresa nel procedimento
amministrativo: deve ritenersi che l'appaltatore sia al
corrente degli illeciti che gli sono contestati dopo che gli
è trasmesso il verbale del coordinatore per la sicurezza.
Inutile in particolare per l'impresa lamentare che non è
stato comunicato l'avvio del procedimento in base alla legge
sulla trasparenza dell'attività amministrativa (legge
241/1990). Il punto è che la segnalazione all'autorità
vigilante costituisce un provvedimento a carattere vincolato
per la stazione appaltante, il che consente di comprimere il
diritto del privato a partecipare al procedimento
amministrativo
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
piano idrogeologico prevale sugli altri.
Il Pai (Piano assetto idrogeologico) è un piano generale, ma
settoriale, in quanto relativo alla sola disciplina
dell'assetto idrogeologico, che si interseca con la
pianificazione regionale, provinciale e comunale.
È quanto ribadito dai giudici della I Sez. del TAR Piemonte
con la
sentenza 07.09.2016 n. 1135.
I giudici amministrativi torinesi nella sentenza in commento
hanno evidenziato come il Pai quale piano territoriale di
settore prevale sui piani e programmi di livello regionale
provinciale e comunale in quanto finalizzato alla
salvaguardia di persone, beni, e attività dai pericoli e dai
rischi idrogeologici; tuttavia una variante potrebbe non
operare alcun «adeguamento al Pai», né effettuarne un
recepimento di disposizioni del Pai relative alla zona de
qua. Il ricorso sottoposto all'attenzione dei giudici
piemontesi, era stato proposto avverso gli atti della
variante al Prg di adeguamento al Pai del comune.
Dopo l'approvazione del Pai da parte della regione, il
comune aveva ritenuto, pur non essendovi obbligato, in
quanto incluso tra le amministrazioni già dotate di carta di
sintesi della pericolosità geomorfologica e
dell'utilizzabilità urbanistica, di avviare una variante di
compatibilità di cui al comma 3 art. 18 delle norme tecniche
di attuazione (Nta) del Pai, al fine di definire il nuovo
quadro del dissesto.
La circostanza che il comune fosse tra
le amministrazioni «esonerate dalla suddetta verifica», ma
abbia in ogni caso proceduto ad avviare il procedimento, non
costituisce un vizio di illegittimità del procedimento
stesso, in quanto l'inserimento nell'elenco dei «non
obbligati» non privava l'amministrazione comunale della
facoltà di adottare una variante, al fine di verificare la
congruenza del piano vigente al Pai. L'art. 18 della Nta del
Pai prevede che le regioni provvedano all'indicazione dei
comuni esonerati in quanto già dotati di strumenti
urbanistici compatibili con le condizioni di dissesto
presente o potenziale, anche sulla base di quanto
individuato nel Piano.
Ma dal comma 2 dell'art. 18 si deduce che ogni comune ha la
facoltà di verificare la compatibilità idraulica e
idrogeologica delle previsioni degli strumenti urbanistici
vigenti con le condizioni di dissesto presenti o potenziali
rilevate nella cartografia di Piano, avvalendosi, tra
l'altro, di analisi di maggior dettaglio eventualmente
disponibili in sede regionale, provinciale o della comunità
montana di appartenenza.
Pertanto, al fine di garantire il coordinamento tra i
diversi livelli pianificatori e assicurare una
pianificazione del territorio come azione unitaria, era
facoltà dell'amministrazione adottare una variante di
adeguamento al Pai
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Falso del manager non frena la gara.
Il rilascio di una falsa dichiarazione di non avere commesso
violazioni tributarie (peraltro, definitivamente accertate)
non fa sì che l'imprenditore non possa partecipare a una
gara pubblica. Tale increscioso evento viene a essere sanato
nel momento in cui il manager, prima della partecipazione
alla procedura, sia stato ammesso alla rateazione del debito
tributario dall'Amministrazione finanziaria e non risulti
inadempiente nel pagamento della rate. In tale circostanza,
l'imprenditore non commette il reato di falsa dichiarazione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V
penale, con la
sentenza 05.09.2016 n. 36821, che ha
ribaltato le decisioni sottostanti che, invece, vedevano
condannare l'imprenditore nei due gradi di giudizio.
La
Suprema corte ha prima ricordato che le false dichiarazioni
contenute nell'istanza di partecipazione a una gara
d'appalto, rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del dpr
445/2000, danno origine al reato di falsità ideologica. Le
dichiarazioni sostitutive di certificazioni si considerano,
infatti, come rese a un pubblico ufficiale.
Ma poi,
prendendo atto della tesi difensiva proposta
dall'imprenditore che sosteneva che, a seguito della
rateizzazione del debito disposta su richiesta del debitore,
si fosse realizzata una novazione oggettiva
dell'obbligazione di cui agli artt. 1230 e ss. c.c., ha
stabilito che le «violazioni definitivamente accertate» non
contano e per conseguenza l'imprenditore non ha commesso
reato.
Al contrario, i giudici di merito erano del parere
che l'ammissione al beneficio da parte dell'ente creditore
non potesse incidere sugli inadempimenti precedenti e, in
particolare, sulle irregolarità definitivamente accertate.
Per cui, l'ammissione al pagamento rateizzato non avrebbe
potuto far cadere l'illecito commesso prima.
Come premesso, la Cassazione ha dato torto ai giudici di
merito (tribunale e corte d'appello) rovesciando le loro
decisioni e, quindi, accogliendo le istanze difensive
portate avanti dal presunto reo che ha cosi vinto il ricorso
e ha pertanto potuto partecipare alla gara pubblica (articolo ItaliaOggi del 04.10.2016). |
TRIBUTI: Box, paga chi produce rifiuti.
Garage esonerati da Tarsu/Tari. Ai contribuenti la prova.
Un'ordinanza della Cassazione che mette in discussione il
principio sugli immobili vuoti
Garage, autorimesse e box esonerati dal pagamento della
Tarsu se gli occupanti dimostrano di non produrre rifiuti.
La
Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l'ordinanza
05.09.2016 n. 17623, smentisce quanto
sostenuto in passato per questi immobili e, soprattutto,
mette in discussione il principio affermato da tempo sugli
immobili vuoti, che sono stati ritenuti soggetti al prelievo
anche se inutilizzati, purché oggettivamente utilizzabili.
Dunque, i contribuenti non sono soggetti al pagamento della
Tarsu, ma la stessa regola vale per la Tari, se provano che
garage, autorimesse e box non producono rifiuti. Infatti,
incombe sul contribuente l'onere di dimostrare la
sussistenza delle condizioni per beneficiare delle esenzioni
e, allo stesso modo, di segnalare al comune che alcune aree
detenute od occupate aventi specifiche caratteristiche
strutturali e di destinazione sono «inidonee alla produzione
di rifiuti». Non basta la peculiare destinazione funzionale
dell'immobile ad autorimessa. Va escluso che «un locale
adibito a garage non possa che ritenersi, di per sé,
improduttivo di rifiuti solidi urbani».
Tuttavia, è da chiedersi come può l'interessato dimostrare
di non produrre rifiuti, se proprio la Cassazione ha
ripetutamente affermato da oltre un decennio che il mancato
uso dell'immobile non è un motivo valido per chiedere la
detassazione. E ha inoltre precisato che la mancata
attivazione delle utenze idriche e elettriche non dà
comunque luogo all'esonero dal pagamento.
Anche con questa
pronuncia, però, la Cassazione dà una mano ai comuni,
considerato il gettito che deriva da questi immobili, e va
oltre le pronunce dei giudici di merito che hanno ritenuto
non tassabili i garage e non applicabili le norme contenute
nella disciplina della tassa rifiuti (decreto legislativo
507/1993) perché non in linea con la normativa comunitaria e
con il principio «chi inquina paga». Del resto, pone a
carico dei contribuenti l'onere della prova sulla mancata
produzione di rifiuti.
Le tesi dei giudici. La giurisprudenza di merito in alcuni
casi ha escluso che i garage possano essere assoggettati al
pagamento della tassa rifiuti. Per esempio, la Commissione
tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di
Catania (XXXIV), con la sentenza 483/2011, ha sostenuto che
secondo la comune esperienza il garage di uso privato è
luogo adibito al ricovero di uno o più veicoli, e,
quand'anche la persona vi si trattenga per tempi non brevi,
non è plausibile ipotizzare che ne derivino rifiuti.
Mentre, i giudici di legittimità hanno sempre posto dei
limiti rigidi per l'esonero dal pagamento della tassa
rifiuti, precisando che è dovuta a prescindere dal fatto che
il contribuente utilizzi l'immobile (sentenza 22770/2009).
Ex lege, vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili
non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati).
Il presupposto è l'occupazione o la detenzione di locali e
aree scoperte a qualsiasi uso adibiti. È sufficiente che il
servizio di smaltimento rifiuti sia istituito per imporre ai
contribuenti il pagamento della tassa. Quindi, il tributo è
dovuto per la detenzione di locali e aree e non per il fatto
che venga utilizzato il servizio fornito dall'ente
(Cassazione, sentenza 12035/2015).
La stessa regola vale
oggi per la Tari, considerato che anche la nuova disciplina
non collega il pagamento alla effettiva fruizione del
servizio di smaltimento rifiuti. Sono state ritenute
infondate le pronunce dei giudici tributari che hanno
escluso il pagamento per i contribuenti che hanno
documentato di non aver potuto fruire del servizio pubblico
per la mancanza di collegamento stradale tra le loro
abitazioni e il punto di raccolta dei rifiuti.
Secondo la
Cassazione non si può condizionare l'obbligo tributario alla
materiale fruizione del servizio, in quanto i criteri di
ripartizione del costo sostenuto dal comune non sono
collegati al suo concreto utilizzo, ma si basano su indici
presuntivi. È pacifico che la ragione istitutiva della tassa
sia quella di porre le amministrazioni locali nelle
condizioni di soddisfare interessi generali della
collettività e non di fornire delle prestazioni riferibili
ai singoli cittadini.
In effetti, ex lege, anche il mancato
svolgimento del servizio di raccolta da parte del comune non
comporta l'esenzione, ma il pagamento del tributo in misura
ridotta. L'articolo 59, comma 4, del decreto legislativo
507/1993 disponeva per la Tarsu la riduzione anche se il
servizio di raccolta, sebbene istituito, non venisse svolto
nella zona di residenza, di dimora o dove esercitava
l'attività il contribuente. La riduzione spettava, inoltre,
se il servizio era effettuato in grave violazione delle
prescrizioni del regolamento comunale di nettezza urbana.
Nel regolamento comunale, infatti, devono essere indicati i
limiti della zona di raccolta obbligatoria e dell'eventuale
estensione del servizio a zone con insediamenti sparsi, le
modalità di effettuazione del servizio, con l'individuazione
degli ambiti e delle zone, nonché delle distanze massime di
collocazione dei contenitori. È il contribuente che deve
dare la prova delle condizioni per usufruire eventualmente
della riduzione della tassa.
E le stesse regole valgono oggi
per la Tari. I commi 656 e 657 della legge di Stabilità 2014
(147/2013) prevedono che il tributo è dovuto nella misura
del 20% in caso di mancato svolgimento del servizio e in
misura non superiore al 40% nelle zone in cui non è
effettuata la raccolta, da graduare in relazione alla
distanza dal più vicino punto di raccolta.
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Chi è sottratto all'imposizione.
Non sono soggetti alla tassa rifiuti i locali e le aree che
non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il
particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell'anno, sempre che queste circostanze siano
indicate nella denuncia originaria o di variazione. Tra i
locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la
natura delle loro superfici rientrano quelli situati in
luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono.
Pertanto, la legge prevede una presunzione relativa di
produzione dei rifiuti che ammette la prova contraria. La
sussistenza delle condizioni che fanno venir meno la
presunzione di legge della potenziale produzione di rifiuti
devono essere provate dal contribuente e riscontrabili da
parte dell'amministrazione.
Sono sottratti all'imposizione i locali e le aree che sono
oggettivamente inutilizzabili o insuscettibili di produrre
rifiuti, e non quelli lasciati in concreto inutilizzati. Per
la Cassazione, anche la scelta soggettiva del titolare di
non usare l'immobile non assume alcuna rilevanza
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Capannoni,
pubblicità più leggera.
Marchi e numeri di telefono apposti sui capannoni e sugli
automezzi non sono messaggi pubblicitari. È quindi
illegittima la pretesa comunale di tassare scritte, targhe e
vetrofanie esposte da una società nella propria sede, poiché
esse «non risultano identificative o coincidenti con il
servizio reso o con il bene venduto dall'impresa».
Così si è espressa la Ctp Milano con sentenza 05.09.2016 n. 6675/36/2016.
Il caso vedeva contrapposta un'azienda di
logistica e un'amministrazione comunale del Milanese,
secondo cui gli elementi di riconoscibilità dell'impresa
presenti sui veicoli e sulle attrezzature strumentali
costituivano in realtà mezzi pubblicitari abusivi.
Diverso
il parere del collegio meneghino, che ricorda come, ai sensi
dell'articolo 5 del dlgs n. 507/1993, il presupposto
impositivo scatta in presenza di «diffusione di messaggi
pubblicitari nell'esercizio di un'attività economica, allo
scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero
finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto
pubblicizzato».
La questione centrale, osservano i giudici,
è quindi stabilire se l'esposizione di cartelli, loghi o
recapiti integri il presupposto dell'imposta e, in caso
affermativo, se essi rientrino nelle esenzioni previste
dall'articolo 17 del citato dlgs (che esclude dal prelievo
alcune pubblicità di dimensioni contenute entro specifiche
soglie). A giudizio della Ctp, tuttavia, non è neanche
necessario entrare nel merito della superficie dei «mezzi»
contestati, in quanto nel caso di specie questi «non
assolvono al compito principale ed esclusivo dei messaggi
pubblicitari», ossia la promozione dei servizi offerti
dall'azienda.
Le scritte e i loghi finiti sotto la lente dell'ente
impositore, infatti, «rivestono portata generica, senza
alcun richiamo alla attività svolta o al servizio reso dalla
ricorrente» e sono semmai da considerare come «segnaletica
identificativa della sede dell'azienda».
I recapiti societari e gli orari di apertura al pubblico non
sono sufficienti a far considerare il messaggio
pubblicitario, tanto più alla luce della collocazione in una
strada privata
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2016). |
APPALTI: Appalti
senza discriminazioni. No ai bandi che avvantaggiano sono i
grandi gruppi. Sentenza del Tar
Lazio che ha annullato una gara Consip per i servizi di
vigilanza.
Stop alle gare d'appalto solo per i grandi gruppi grazie al
nuovo codice dei contratti pubblici. Con l'entrata in vigore
del decreto legislativo 50/2016, infatti, la necessità di
garantire la libera concorrenza fra le imprese è divenuta il
«baricentro del sistema» delle procedure a evidenza
pubblica. E la regola vale anche per la centrale di
committenza che pure ha il compito di garantire economie di
scala negli acquisti della pubblica amministrazione.
Deve
dunque essere annullato il bando della Consip per la
vigilanza negli edifici pubblici che suddivide il territorio
nazionale in tredici lotti, che non si rivelano ambiti
ottimali: in base ai requisiti di fatturato richiesti,
infatti, possono candidarsi all'affidamento del servizio
soltanto ventiquattro imprese per lotto, mentre restano
escluse tutte le altre piccole e medie imprese.
È quanto emerge dalla
sentenza 30.08.2016 n. 9441,
pubblicata dalla II Sez. del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso l'istituto di vigilanza che rischia di
trovarsi fuori da un appalto di fondamentale importanza
strategica per il settore: vale 540 milioni di euro e può
condizionare il mercato dei servizi di sicurezza per i
prossimi tre anni. A dire della Consip, la gara è stata
indetta rispettando i dettami della legge 488/1999 che impone
tagli alla spesa pubblica evitando negli acquisti della
pubblica amministrazione i costi che derivano da procedure
parcellizzate.
È vero, nel bando per i servizi di
sorveglianza degli immobili pubblici le imprese possono
associarsi in raggruppamenti temporanei senza che l'impresa
mandante debba essere in possesso di percentuali minime del
requisito di fatturato specifico. Ma l'ingresso in una Rti o
il ricorso all'avvalimento sono frutto di scelte
discrezionali delle imprese interessate e non basta
l'astratta possibilità di queste opzioni per garantire la
partecipazione al bando anche dei più piccoli. Il punto
della controversia, poi, non è tanto la soglia richiesta per
partecipare alla gara, che di per sé non può ritenersi
irragionevole: risulta pari al valore annualizzato del
massimale del lotto per il quale si presenta l'offerta.
Il fatto è, invece, che così come sono strutturati i lotti
l'offerta può essere presentata soltanto dai big player del
mercato e ciò impedisce alle imprese più piccole di
incrementare le proprie qualificazioni e professionalità; il
tutto mentre con l'entrata in vigore del nuovo codice degli
appalti la funzione pro-concorrenziale delle regole di
evidenza pubblica ha assunto ancora maggiore rilievo, senza
in alcun modo ledere l'interesse dell'amministrazione alla
scelta del miglior contraente. All'esigenza di tutelare gli
interessi pubblici si è infatti aggiunta negli anni la
necessità di evitare la discriminazione fra le imprese,
sotto la spinta dei principi e delle direttive eurounitarie.
La concentrazione del bando, nella specie, risulta estrema
mentre dovrebbe invece essere bilanciata da una ripartizione
in lotti tale da favorire condizioni di efficienza del
mercato dal punto di vista dell'offerta. Insomma:
bisognerebbe far crescere le piccole imprese, e non
escluderle. E l'individuazione di un ambito ottimale, specie
in una gara d'appalto pesante, impone un'istruttoria
adeguata e l'obbligo di una motivazione articolata. Se non è
garantita la libera competizione sul mercato si configura la
violazione del nuovo codice degli appalti perché la
concorrenza ne è «il centro di gravità». Spese del giudizio
compensate per la complessità e la novità delle questioni.
Novella decisiva.
E negli ultimi giorni è sopraggiunta un'altra pronuncia dei
giudici amministrativi a favore della libera competizione
sul mercato degli appalti pubblici. Non si può impedire alle
piccole e medie imprese di accreditarsi a Spid, il servizio
pubblico di identificazione che dà a ogni cittadino il suo
pin per interagire con gli enti pubblici e dunque pagare il
bollo auto, cambiare il medico di base o verificare la
propria situazione contributiva per la pensione.
Arriva,
infatti, un nuovo stop per il regolamento varato a suo tempo
dall'Agenzia per l'Italia digitale. E ciò perché risultano
ingiustificati i paletti posti per la partecipazione al
bando su capitale sociale minimo e polizze assicurative. È
quanto emerge dalla sentenza 10214/2016, pubblicata il 13.10.2016 dalla terza sezione del Tar Lazio, che si innesta
sulla falsariga di un provvedimento pronunciato nel 2015.
Accolto di nuovo il ricorso proposto da Assoprovider e
Assintel Confcommercio, le associazioni che riuniscono gli
operatori del settore. Non c'è ragione né normativa
superiore che imponga la previsione di un capitale minimo
per la partecipazione pari a 5 milioni di euro: il paletto
posto per l'accreditamento non risulta richiesto per gli
operatori pubblici e ha l'effetto di distorcere il mercato,
ostacolando la concorrenza nel comparto.
Sproporzionati
anche gli importi per le polizze assicurative disposte: non
sono commisurati ai rischi di danni a terzi connessi allo
svolgimento dell'attività digitale che risultano già coperti
dalla disciplina di settore: pesa in ultimo l'articolo 25
del decreto legislativo 179/2016, di modifica dell'articolo
29, comma 3, del decreto legislativo 82/2005, che introduce
per l'avvenire significativi elementi di flessibilità. Anche
in questo caso le spese di giudizio sono compensate
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Condoni,
rigetto senza sorprese. Diniego illegittimo per motivi non
indicati nel preavviso. Sentenza del
Tar Campania: non si può impedire al privato di esporre le
controdeduzioni.
Il provvedimento conclusivo del comune non può bocciare il
condono edilizio del privato per l'opera contro legge per
motivi che non sono indicati nel preavviso di rigetto. E ciò
perché così facendo si vanifica lo scopo dell'istituto di
cui alla legge 10-bis della legge sulla trasparenza, la
241/1990, che prevede la partecipazione dell'interessato al
procedimento: quando le motivazioni dello stop non
coincidono con quelle annunciate si finisce per rendere
inutili le memorie difensive presentate in precedenza dal
proprietario del manufatto.
È quanto emerge dalla
sentenza
27.08.2016 n.
4111 della III Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso del titolare del manufatto, che pure è
stato sequestrato.
Il punto è che il parere dell'ufficio condono del comune
spiega come la sanatoria possa essere concessa per le
porzioni di immobile oggetto dell'istanza originaria e non
per la parte restante, che si ritiene realizzata soltanto
dopo la presentazione della domanda: si traccia dunque una
netta linea di demarcazione, dalla quale tuttavia si
discosta del tutto il dirigente che pronuncia il no
definitivo al colpo di spugna.
Ed è proprio questo che fa
sorgere dubbi sull'istruttoria condotta
dall'amministrazione. Risulta evidente, osservano i giudici
amministrativi, la violazione del principio del
contraddittorio perché chi ha realizzato i lavori si vede
privato da una fondamentale garanzia tipica del giusto
procedimento: articolare valide controdeduzioni ai motivi
che secondo il comune impediscono il condono.
L'istituto del
preavviso di rigetto, infatti, ha lo scopo di far conoscere
alla pubblica amministrazione, in contraddittorio rispetto
alle motivazioni da essa assunte in base agli esiti
dell'istruttoria espletata, le ragioni fattuali e giuridiche
dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere
agli organi competenti una diversa determinazione finale
derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli
interessi in campo.
Con la conseguente illegittimità del
provvedimento di diniego la cui motivazione sia arricchita
di ragioni giustificative diverse e ulteriori rispetto a
quelle preventivamente sottoposte al contraddittorio
procedimentale attraverso la comunicazione dei motivi
ostativi all'accoglimento dell'istanza del privato. Dato che
altrimenti l'interessato non potrebbe interloquire con
l'amministrazione anche su detti profili differenziali né
presentare le proprie controdeduzioni prima della
determinazione conclusiva dell'ufficio.
E salvo che il provvedimento finale si discosti dalla
motivazione contenuta nel preavviso solo in funzione
dell'esigenza di replicare alle osservazioni presentate dal
privato.
I limiti all'azione dell'amministrazione locale sono un tema
molto dibattuto nella giurisprudenza. Il comune, per
esempio, non può acquisire gratis al suo patrimonio il
manufatto abusivo e ciò benché i proprietari non abbiano
adempiuto al provvedimento di demolizione emesso. Perché
l'ordinanza di demolizione non risulta notificata a tutti i
comproprietari dell'opera e l'amministrazione, a sua volta,
non adempie all'ordine istruttorio di depositare in giudizio
una copia del provvedimento così come notificato.
Risultato: l'abuso edilizio resta dov'è e forse non sarà
comunque abbattuto, dal momento che risulta presentata nelle
more la domanda di condono. È quanto emerge dalla sentenza
5876/2015, pubblicata dalla III Sez. sezione del Tar Campania.
Accolto il ricorso del marito: l'ordinanza di demolizione,
spiega, è stata notificata soltanto alla moglie e il comune
non riesce a dimostrare il contrario.
Si configura dunque una patente violazione del diritto di
difesa della parte privata: solo l'inottemperanza
all'ordinanza di demolizione può far scattare l'acquisizione
gratuita del manufatto abusivo al patrimonio comunale ma
nella specie uno dei comproprietari non ha potuto
partecipare al procedimento amministrativo in corso per la
mancanza di una regolare comunicazione. Pesa contro
l'amministrazione anche l'inerzia di fronte all'ordine
istruttorio.
E in ogni caso l'amministrazione locale non avrebbe comunque
potuto dare l'ordine di demolire il manufatto perché nel
frattempo era stata proposta la domanda di condono e,
dunque, si doveva prima esaminare l'istanza e soltanto dopo
procedere con le misure repressive
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
L’ordine di idee di parte ricorrente è condivisibile.
L’impugnato del provvedimento prot. n. 15170 adottato in
data 28.03.2014 con cui veniva rigettata l’istanza di
sanatoria degli abusi edilizi di cui all’art. 39, L. n.
724/1994 in ditta De Cr.Ge. - prot. n. 52969 del 16.11.1994
- fascicolo n. 22-bis è stato emanato richiamandosi <<il
parere tecnico-amministrativo espresso in data 26.11.2012
dall’Ufficio Condono Edilizio, reso dal tecnico incaricato
dall’Amministrazione Comunale con il quale è emerso che
l’istanza di condono edilizio prot. n. 52969 del 16.11.1994
- Fascicolo n. 22-bis è accoglibile solo per le porzioni di
immobili di cui all’originaria istanza, mentre per le opere,
aggiuntiva e successiva l’istanza sono da adottare i
consequenziali provvedimenti repressivi. Precisamente
saranno oggetto di repressione edilizia le seguenti opere:
“collegamento di tutta la struttura con muratura e copertura
di esse con ampliamento volumetrico. Inoltre, un corpo di
fabbrica raffigurato nei progetti con la lettera “A”
modificato nella copertura rispetto all’originaria istanza
di condono>>.
Pertanto con il suddetto parere si poneva una precisa e
netta linea di demarcazione tra le opere per le quali era
stata presentata la domanda di condono e quelle realizzate
-sul presupposto della loro autonoma seperabilità ed
individualità- successivamente, riservandosi alle prime
opere la possibilità di un provvedimento di accoglimento
della istanza di condono e preannunciando per quelle
successive l’adozione dei consequenziali provvedimenti
repressivi.
Impostazione e criterio siffatti sono stati seguiti anche in
occasione dell’invio della “comunicazione di avvio del
procedimento - artt. 7, 8 e 10 bis, Legge 241/90 -
Finalizzato all’adozione di provvedimenti repressivi opere
abusive”, di cui alla nota prot. n. 14970 del
05.04.2013, versata agli atti del giudizio ed avente ad
oggetto: “Istanza di sanatoria per abusi edilizi di cui
all’art. 39 legge 724/94 - prot. n. 52969 del 16.11.1994 -
Fascicolo n. 22-bis”, con la quale, dopo avere “Ritenuto
di potere esprimere parere di procedibilità tecnica
limitatamente alle opere oggetto della originaria istanza di
condono edilizio e parere di improcedibilità per le opere
aggiuntive e successive l’istanza come sopra descritte”,
si comunicava, ai sensi dell’art. 10-bis della legge
07.08.1990, n. 241, l’avvio del procedimento finalizzato
alla demolizione delle opere abusive realizzate
successivamente alla presentazione dell’istanza di condono,
consistenti in: “collegamento di tutta la struttura con
muratura e copertura di esse con ampliamento volumetrico.
Inoltre un corpo di fabbrica distinto nei progetti con la
lettera “A” modificato nella copertura rispetto
all’originaria all’atto dell’istanza di condono”,
avvertendosi che l’iter amministrativo della pratica di
condono prot. n. 52969 del 16.11.1994 - Fascicolo n. 22-bis,
risulta improcedibile soltanto nelle more dell’ottemperanza
ai provvedimenti repressivi che saranno emessi da questo
Ente.
Invece,
in assenza di alcun elemento di valutazione innovativo e/o
sopravvenuto, inspiegabilmente, in sede di determinazione
finale, il dirigente ha ritenuto di rigettare in toto
l’istanza di condono edilizio, individuando quale motivo di
rigetto la circostanza (mai in precedenza ostentata) che,
dal confronto di non meglio precisate risultanze istruttorie
emergerebbe che detti interventi sono “stati realizzati
successivamente alla presentazione della domanda di condono”.
Né alla circostanza che il provvedimento finale risulta,
all’evidenza, adottato in modo non del tutto coerente con
gli esiti istruttori, può ovviarsi affermando nell’impugnato
provvedimento che “il preavviso di diniego, previsto
dall’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241 costituisce
un atto privo di contenuto provvedimentale con cui
l’Amministrazione rende noto all’interessato il suo
intendimento del tutto provvisorio, di procedere al diniego
della sua domanda”, atteso che, pur non avendo contenuto
provvedimentale, il preavviso di diniego è un atto che ha
una sua rilevanza nell’ambito della formazione progressiva
della decisione istruttoria procedimentale, nell’ottica
segnata dall’art. 6, co. 1, lett. e), della legge n. 241 del
1990, il dirigente competente non può discostarsi dalle
risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del
procedimento se non indicandone la motivazione nel
provvedimento finale.
Ne deriva altresì che in presenza di
elementi di contraddittorietà e di perplessità emersi nel
corso dell’istruttoria esperita, non può non risultarne
inficiata anche la motivazione della determinazione finale
di rigetto integrale della domanda di condono.
Nota il Collegio che
il contrasto logico o, comunque, la disconnessione
riscontrata nel provvedimento finale rispetto ad atti e
circostanze emerse nel corso del procedimento è
particolarmente grave allorquando il predetto contrasto si
appalesa nella non perfetta coincidenza della determinazione
finale con la comunicazione preventiva dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza, ai sensi dell’art. 10-bis L.
n. 241/1990.
In tale caso è evidente lesione dei principi del
contraddittorio e della partecipazione al procedimento, in
quanto l’inserimento, nel provvedimento conclusivo di
motivi, assenti o, comunque, non integralmente esplicitati,
nel c.d. preavviso di rigetto, finisce con il frustrare, sul
piano della effettività, lo scopo partecipativo
dell’istituto, facendo venire a mancare nell’interessato una
fondamentale garanzia, tipica del giusto procedimento,
costituita dalla possibilità di articolare valide
controdeduzioni alle argomentazioni ostative.
Il rubricato art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241,
prevede che: <<Nei procedimenti ad istanza di parte il
responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima
della formale adozione di un provvedimento negativo,
comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all’accoglimento della domanda>> ed, indubbiamente,
l’ampio raggio d’azione di un siffatto obbligo deriva da una
legge, che se non costituzionale, è, indubbiamente da
considerare di “sostanza costituzionale” in quanto
tesa a dare attuazione ai principi di imparzialità e buon
andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
Infatti con una siffatta previsione, superando le
perplessità sorte anche in giurisprudenza circa la necessità
o meno della comunicazione di avvio del procedimento anche
nei procedimenti ad istanza di parte, il Legislatore,
esaltando la partecipazione dell’interessato ai processi
decisionali che lo riguardano e con evidente finalità di
deflazione del contenzioso giudiziario, ha inteso garantire
un proficuo contraddittorio proprio allorquando il
procedimento sta per concludersi con l’emanazione di un
provvedimento sfavorevole all’interessato.
Secondo condivisa giurisprudenza: <<La
violazione da parte della P.A. dell’art. 10-bis L. n.
241/1990, relativo all’obbligo di inoltrare all’interessato
la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza ha carattere assorbente e comporta
l’annullamento del provvedimento conclusivo del procedimento
in quanto è risultata preclusa -per la parte interessata- la
partecipazione al procedimento>>
(TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 08.09.2005, n. 6618 e TAR
Lazio, sez. II, 18.05.2005, n. 3921).
Tuttavia,
al fine di non frustrare la funzione garantistica cui sopra
si accennava e perché l’istituto del c.d. preavviso di
diniego possa assolvere alla finalità di assicurare la
partecipazione sul piano della effettività e non si risolva
in un mero formalismo fine a se stesso prestandosi ad abusi
o elusioni, necessita che i motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza, come comunicati nel c.d. preavviso si
ritrovino o, comunque, si presentino in linea di coerenza
logica con la parte motiva del provvedimento negativo, che
magari potrà anche risultarne arricchito con l’aggiunta di
ulteriori rilievi conseguenti alle osservazioni presentate
dall’interessato, ma non potrà contenere una motivazione del
tutto estranea ai motivi in precedenza comunicati ex art.
10-bis.
Secondo condivisa giurisprudenza <<L'istituto
del preavviso di rigetto, di cui all'art. 10-bis, l.
07.08.1990 n. 241, ha lo scopo di far conoscere alla P.A.,
in contraddittorio rispetto alle motivazioni da essa assunte
in base agli esiti dell'istruttoria espletata, le ragioni
fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero
contribuire a far assumere agli organi competenti una
diversa determinazione finale derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo; con la
conseguente illegittimità del provvedimento di diniego la
cui motivazione sia arricchita di ragioni giustificative
diverse e ulteriori rispetto a quelle preventivamente
sottoposte al contraddittorio procedimentale attraverso la
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza del privato, dato che altrimenti l'interessato
non potrebbe interloquire con l'amministrazione anche su
detti profili differenziali né presentare le proprie
controdeduzioni prima della determinazione conclusiva
dell'ufficio. E salvo che il provvedimento finale si
discosti dalla motivazione contenuta nel preavviso solo in
funzione dell'esigenza di replicare alle osservazioni
presentate dal privato>>
(TAR Catania sez. I, 30/07/2015, n. 2103).
Nella fattispecie, come agevolmente percepibile dal
raffronto fra la nota n. prot. 14970 del 05.04.2013, recante
il preavviso di diniego ex art. 10-bis citato ed il
provvedimento prot. n. 15170 adottato in data 28.03.2014,
contenente il definitivo provvedimento di diniego totale,
si rileva una evidente e rilevante asimmetria motivazionale,
nel senso che in tale ultimo provvedimento si rinvengono
motivazioni ulteriori e, comunque, non pienamente collimanti
rispetto a quelle preannunciate nel preavviso di diniego, in
tal modo vanificandosi del tutto le osservazioni e le
memorie difensive presentate dall’interessato.
Né in contrario rileva che -come riferito nel medesimo
provvedimento impugnato- in concreto “avverso il
preavviso non sono pervenute osservazioni da giustificare la
legittimità delle opere contestate nell’avvio del
procedimento prot. 14970 del 05.04.2013, atteso che ciò che
rileva, ai fini della illegittimità del provvedimento
impugnato, è che l’interessato, in ogni caso, non è stato
messo in grado di presentare, a ragion veduta, osservazioni
difensive in ordine alle effettive ragioni (in particolare
sulla circostanza che gli interventi in discussione “sono
stati realizzati successivamente alla presentazione della
domanda di condono”) per le quali l’istanza non sarebbe
stata, poi, accolta.
In definitiva, ogni altra censura assorbita, il ricorso è
fondato e deve essere accolto con il conseguente
annullamento del provvedimento prot. n. 15170 del 28.03.2014
e con salvezza per quelli ulteriori. |
INCARICHI PROGETTUALI: Associazione
temporanea rafforzata.
L'associazione temporanea
d'imprese conserva l'attribuzione
dell'appalto anche se
uno dei tecnici delle società,
partecipanti si è già occupato
del palazzo storico dove devono
essere svolti i lavori messi
a gara.
E ciò perché la norma
dettata a tutela della concorrenza
nei servizi di ingegneria
e architettura punta soltanto
a impedire che lo stesso
soggetto che a suo tempo ha
redatto il progetto possa poi
aggiudicarsi appalto perché
si trova nella condizione di
vantaggio di conoscere già
la situazione dell'immobile.
É quanto emerge dalla
sentenza
12.08.2016
n.
777 del TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I.
Un ingegnere
dello studio aderente all'Ati
ha firmato a suo tempo uno
studio diagnostico sulla staticità
dell'antico fabbricato
che ospita l'amministrazione
comunale.
Non si configura,
però, la dedotta violazione
dell'art. 90, comma 8, del codice
dei contratti pubblici,
che vieta soltanto una commistione
tra il soggetto che
effettua la progettazione di
un'opera e colui che gli darà
materiale esecuzione: si tratta
invero di una norma che
limita la libertà economica e
dunque non è possibile interpretarla
in modo estensivo o
peggio per analogia.
Gli studi
«incriminati» dell'ingegnere,
in effetti, sono pubblici: si limitano
a verificare il rischio
sismico per il fabbricato e
non sono stati considerati in
sede di valutazione dell'offerta
tecnica
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
----------------
MASSIMA
Il primo motivo di ricorso si duole del fatto che
il pregresso incarico svolto dall’ing. Gi.To. relativo allo
“studio diagnostico sulla staticità del Palazzo Comunale"
ed alle "verifiche tecniche di rilevamento della
vulnerabilità sismica” avrebbe consentito al
raggruppamento aggiudicatario di avere un indebito vantaggio
competitivo per la conoscenza che da tali incarichi è
scaturita circa le soluzioni da adottare per eseguire la
progettazione oggetto di gara.
A sostegno della doglianza viene richiamato il contenuto
dell’art. 90, comma 8, D.lgs. 163/2016 che così dispone: “Gli
affidatari di incarichi di progettazione non possono essere
affidatari degli appalti o delle concessioni di lavori
pubblici, nonché degli eventuali subappalti o cottimi, per i
quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione;
ai medesimi appalti, concessioni di lavori pubblici,
subappalti e cottimi non può partecipare un soggetto
controllato, controllante o collegato all'affidatario di
incarichi di progettazione. Le situazioni di controllo e di
collegamento si determinano con riferimento a quanto
previsto dall'articolo 2359 del codice civile. I divieti di
cui al presente comma sono estesi ai dipendenti
dell'affidatario dell'incarico di progettazione, ai suoi
collaboratori nello svolgimento dell'incarico e ai loro
dipendenti, nonché agli affidatari di attività di supporto
alla progettazione e ai loro dipendenti.”.
La norma non sembra riguardare il caso di specie poiché non
si tratta di eseguire appalti che derivino da una
progettazione realizzata dallo stesso soggetto.
La ratio della norma è chiara si vuole
evitare una commistione tra il soggetto che effettua la
progettazione di un’opera e colui che gli darà materiale
esecuzione anche perché potrebbe essere necessario che il
progettista esegua anche compiti di ausilio della stazione
appaltante quale la direzione lavori.
Peraltro trattandosi di una norma limitativa della libertà
economica non è possibile interpretarla estensivamente o
peggio per analogia.
Vi è da dire, inoltre, che gli studi effettuati in passato
dall’ing. To. non sono documenti riservati, ma liberamente
consultabili e addirittura, a norma del bando, vi era
l’obbligo da parte dei concorrenti di prenderne visione.
Inoltre gli incarichi precedentemente svolti per il Palazzo
comunale non sono stati considerati in sede di valutazione
dell’offerta tecnica.
Non vi è stata, pertanto, alcuna lesione dei principi
richiamati nel motivo di ricorso che risulta in conclusione
infondato. |
TRIBUTI: Ici,
decadenza in 5 anni e conta la ricezione.
Il termine quinquennale di decadenza per l'accertamento
dell'imposta comunale sugli immobili si conta avendo
riguardo al momento in cui il contribuente riceve l'atto,
senza che sia possibile invocare il principio di scissione
soggettiva tra notificante e destinatario (ove per il primo
conta la spedizione, per il secondo la ricezione).
Solo alla
ricezione, infatti, la notifica si perfeziona, così che
essa, per rispettare i termini di decadenza e prescrizione,
deve raggiungere il proprio scopo (e quindi giungere al
destinatario) entro i tempi prestabiliti.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza 20.07.2016 n. 6384/01/2016
della Ctp di Milano - Sez. I.
Il collegio meneghino ha annullato un avviso di accertamento
Ici relativo all'annualità 2009 e pervenuto al contribuente,
per via postale, nei primi giorni del 2015. Il comune
resistente sosteneva di aver consegnato il plico al servizio
postale prima che fosse spirato il termine di decadenza,
ovvero entro il 31/12/2014.
Il contribuente manifestava
invece la propria ricezione dell'atto, avvenuta in data 16.01.2015 e l'inapplicabilità del principio di scissione
della notifica. Tale principio, derivante dalla nota
sentenza della Corte cost. n. 477/2002, considera avvenuta
la notifica per il notificante al momento della consegna
dell'atto all'ufficio notificante, e per il destinatario al
momento della ricezione dell'atto, salvaguardando entrambe
le ragioni di tempestività dell'esercizio del diritto e di
conoscenza dell'atto.
Ma il principio, secondo parte della
giurisprudenza, vale solo per gli atti processuali e non per
quelli sostanziali diretti a una persona determinata, per i
quali vi è lo sbarramento dell'art. 1334 che ne ricollega
l'efficacia alla conoscenza del destinatario («Gli atti
unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono
a conoscenza della persona alla quale sono destinati»).
La Ctp ha accolto il ricorso, ritenendo che, ai fini del
rispetto del termine di decadenza, non possa valere il
principio di scissione soggettiva della notifica, dovendo
l'atto pervenire al destinatario entro lo spirare del
predetto termine: unico momento in cui, secondo il collegio,
può ritenersi perfezionato l'iter notificatorio.
Il termine di decadenza, poi, aggiunge la Ctp, è un termine
perentorio e, come tale, non prorogabile ai sensi
dell'articolo 153 del codice di procedura civile, il quale
recita che «I termini perentori non possono essere
abbreviati o prorogati ( )».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Sezione giudicante così decide. Il ricorso
viene accolto alle stregua delle seguenti motivazioni e
argomentazioni. II tributo in esame era relativo
all'annualità 2009, il cui termine di decadenza
dell'amministrazione, per la notifica dell'atto, spirava il
31.12.2014, in quanto quest'ultima può esigere il
pagamento del tributo Ici entro cinque anni da quando il
diritto alla esazione è sorto.
Nel caso in esame, risulta
allegata al ricorso la copia fotostatica racc. n.
614195962604, con la quale Posteitaliane certifica che la
data di accettazione del plico raccomandato è del 07.01.2015. La notifica, essendo atto di natura recettizia si è
perfezionata il giorno 16.01.2015, così come risulta
dalla certificazione di Posteitaliane sopra citata, ovvero
nel giorno in cui la contribuente è venuta a conoscenza, per
il tramite del ricevimento dell'avviso di accertamento della
pretesa comunale.
Il termine quinquennale di cui sopra, è un
termine perentorio e, quindi, improrogabile, ex art. 153 cpc
e questo Giudice condivide l'interpretazione fornita dalla
ricorrente, laddove afferma che non è possibile invocare il
principio di scissione soggettiva, tra notificante e
destinatario dell'atto attraverso il quale, per il primo si
intende perfezionata la notifica dal momento di spedizione
e, quindi, consegna della stessa e, per il secondo, dal
momento di ricevimento della notifica.
Piace ricordare come,
ai sensi dell'articolo 1, commi 161-167, della legge
finanziaria per il 2007 ovvero, la legge 296/2006, il
termine perentorio, non suscettibile di proroghe o modifiche
ai sensi dell'articolo 153 cpc, di anni cinque, è quello
applicabile ai tributi esatti dalle amministrazioni locali,
tributi nel cui ambito rientra certamente quello ora in
esame.
Più precisamente, il secondo periodo del comma 161
della legge da ultimo richiamata, testualmente recita: «Gli
avvisi di accertamento in rettifica e d'ufficio devono
essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre
del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione
o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere
effettuati». La questione di diritto assurge a fattispecie
pregiudiziale e, per l'effetto, il merito, è da questa
assorbito. Sono queste le ragioni per le quali il ricorso
viene accolto e annullato in toto l'atto impugnato. Le spese
di giudizio seguono la soccombenza, come da dispositivo.
Il Collegio giudicante
PQM annulla l'atto impugnato. Condanna parte soccombente
alla rifusione delle spese liquidate in complessivi 150,00
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.10.2016). |
TRIBUTI: Sul
verde niente imposta comunale.
Un'area ricompresa in una zona destinata a verde pubblico
attrezzato dal piano regolatore generale non è soggetta al
pagamento dell'imposta comunale. Il vincolo di destinazione,
infatti, non consente di considerare l'area come edificabile
poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi
trasformazione del bene.
È quanto si legge nella
sentenza
15.07.2016 n. 4226/06/2016 della Ctr di Milano.
Il giudice tributario della Lombardia ha confermato la
decisione dei colleghi provinciali, impugnata dal comune di
Varedo, pronunciandosi a favore del contribuente, per il
quale sono state disposte anche le spese del grado di
giudizio, quantificate in euro ottocento, oltre accessori di
legge.
La questione controversa trattata nella sentenza in commento
concerne il fatto che il vincolo di destinazione urbanistica
a «verde pubblico» sottragga, o meno, l'area al regime
fiscale dei suoli edificabili, ai fini dell'Ici. La Ctr di
Milano ha ritenuto che, in tal caso, l'area sia esente
dall'imposta poiché sottoposta a un vincolo che preclude
tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili
alla nozione di edificazione.
Infatti, se il piano regolatore generale del comune
stabilisce che un'area sia destinata a verde pubblico
attrezzato, tale disposizione urbanistica impedisce
l'edificazione. Dunque, l'area non è soggetta al pagamento
dell'Ici anche se inclusa in zona indicata come edificabile
nello strumento urbanistico.
Pertanto, quando, come nella fattispecie, la zona sia stata
concretamente vincolata a un utilizzo meramente
pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche ecc.),
la classificazione apporta un vincolo di destinazione che
preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del
suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di
edificazione.
Sulla stessa linea della Ctr di Milano, si può segnalare la
sentenza n. 5992/2015 della Corte di cassazione, con cui
Piazza Cavour respingeva ricorso presentato da un comune
abruzzese, che aveva impugnato una sentenza della Ctr
Abruzzo favorevole al contribuente.
Non sempre tuttavia, la Suprema corte è stata univoca su
questioni del genere, per esempio essendosi espressa anche
in senso contrario al contribuente, affermando la debenza
dell'Ici per un'area edificabile, anche se sottoposta a
vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata (Cass.
n. 9131/2007).
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Commissione tributaria provinciale accoglieva
il ricorso proposto da Brianza Srl avverso avviso di
accertamento Ici anno 2010 sul presupposto che le aree con
destinazione a verde pubblico non sono assoggettabili a Ici
in quanto sottoposti a vincoli che di fatto ne impediscono
l'edificabilità.
Appella il comune di Varedo censurando la sentenza impugnata
e ribadendo in via preliminare la inammissibilità del
ricorso introduttivo perché proposto oltre il termine
perentorio stabilito dalla normativa vigente e, nel merito,
asserendo la correttezza del proprio operato in quanto
l'area in questione deve considerarsi edificabile ai sensi
dell'art. 2, comma 1, lettera b), del dlgs 504/1992 ove
stabilito che un terreno deve essere considerato edificabile
sia nel caso in cui per lo stesso terreno esistono
possibilità effettive di costruzioni. Fa presente che la
norma delinea una nozione di area edificabile ampia ispirata
alla mera potenzialità edificatoria.
Tale possibilità non può essere esclusa da vincoli o
destinazioni urbanistiche che possono incidere solo sul
valore venale del terreno. La potenzialità attribuita a
un'area mediante lo strumento perequativo rappresenta un
riconoscimento implicito di edificabilità che non può essere
assoggettato a Ici. (...)
La Commissione tributaria regionale ritiene di dover
confermare la sentenza impugnata in quanto, in tema di
Imposta comunale sugli immobili (Ici) un'area, come quella
in questione, compresa in una zona destinata in base al
piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato è
esente dell'imposta perché sottoposta ad un vincolo di
destinazione che preclude ai privati tutte quelle
trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione
tecnica di edificazione, sicché non può essere qualificata
come fabbricabile, ai sensi dell'art. 1, comma 2 del dlgs
30/12/1992, n. 504 e resta sottratta al regime fiscale dei
suoli edificabili.
Ogni altra questione rimane assorbita.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in
dispositivo.
PQM
La Commissione conferma la sentenza impugnata e condanna
il comune alla rifusione delle spese del grado che liquida
in complessivi 800.00 oltre gli accessori di legge
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.10.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifica,
un dovere a 360 gradi. Proprietari tenuti a smaltire i
rifiuti depositati da terzi. Il Tar
Piemonte: è la titolarità che impone di vigilare contro i
rischi per la salute.
Il proprietario deve smaltire i rifiuti abbandonati sul suo
terreno anche se a depositarli sono i terzi, per esempio
l'azienda che conduce il fondo in affitto. E ciò perché è il
diritto dominicale sul cespite, così come inquadrato dalla
Costituzione, a imporre al titolare di attivarsi, vigilando
su ciò che è suo contro i pericoli per l'igiene e la salute
pubblica.
Ancora: un primo ordine di bonifica, sospeso dal comune e
poi seguito da un altro provvedimento, ben può fungere da
comunicazione di avvio del procedimento in base alla legge
sulla trasparenza degli atti amministrativi.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.07.2016
n. 994,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Piemonte.
Proroga inconferente.
Deve rassegnarsi, la società proprietaria del fondo. Sul
terreno ora affittato a terzi si trovano rottami e rifiuti
di ogni genere. Senza dimenticare l'amianto. E alcune
carcasse di elettrodomestici risultano riconducibili proprio
all'attività svolta un tempo in loco dalla stessa azienda,
che riceve l'ordine di bonifica in solido con l'impresa
conduttrice.
Ma il punto è che anche se i rifiuti fossero
stati abbandonati tutti da terzi il proprietario non
potrebbe comunque chiamarsi fuori dallo smaltimento: la
colpa nell'omissione del titolare dell'area, infatti, si
configura in ogni caso di negligenza, che va interpretata
come «mancata diligenza» e dunque «incuria e trascuratezza»
nella gestione del bene.
Tra lo stop alla prima ordinanza e
il secondo ordine di liberare il fondo dai rifiuti la
società ben avrebbe potuto chiedere l'accertamento in
contraddittorio dopo il sopralluogo dell'Arpa, l'agenzia
regionale di protezione ambientale. Non l'ha fatto: si è
limitata a domandare una proroga. E quindi ora deve
provvedere e anche pagare le spese di giudizio.
I limiti al potere del comune in materia di igiene rispetto
alla proprietà altrui sono una questione molto dibattuta
nella giurisprudenza amministrativa. Per esempio: chi deve
raccogliere i rifiuti abbandonati lungo la strada statale?
Spetta all'ente proprietario dell'infrastruttura di
collegamento, cioè l'unico che può e sa operare sulla
carreggiata ostacolando il meno possibile il traffico dei
veicoli. È così che il sindaco del comune nel cui territorio
rientra il deposito di materiale inquinante ben può ordinare
all'Anas di provvedere a rimuoverlo.
È quanto emerge dalla
sentenza 51/2016, pubblicato dalla seconda sezione del Tar
Campania.
In dettaglio: niente da fare per l'ente nazionale
delle strade, non giova invocare violazione e falsa
applicazione del testo unico sull'ambiente e del principio eurounitario «chi inquina paga», di cui alla direttiva
2004/35/Cee.
Si applica l'articolo 14 del codice della
strada che impone obblighi ben precisi in materia di «poteri
e compiti degli enti proprietari» delle infrastrutture: si
tratta di una norma speciale di settore che, dunque, non può
essere derogata se non da un'altra disposizione dello stesso
tenore che la privi di efficacia; il decreto legislativo
152/06, invece, non contiene previsioni ad hoc in materia di
sicurezza stradale e non viene quindi in rilievo la
giurisprudenza relativa a ordinanze di rimozione di rifiuti
urbani da luoghi diversi dalla sede stradale e dalle sue
pertinenze.
Sarebbe illogico, concludono i giudici, imporre
al Comune di rimuovere i rifiuti abbandonati nel
sottopassaggio della statale: i mezzi dell'amministrazione
locale con gli operatori ecologici finirebbero per
intralciare il flusso dei veicoli, mentre deve ritenersi che
le squadre dell'Anas siano abituate a operare lungo le
strade di competenza. L'ente paga le spese di giudizio.
Passando a quanto attiene ai condomini, l'edificio deve
avere locali ad hoc dove smaltire i rifiuti prodotti dai
residenti, anche se non è di recente costruzione: il
regolamento edilizio e quello di igiene, infatti, consentono
al comune di ordinare all'ente di gestione di dotarsi di
strutture adeguate quando l'immondizia risulta ammassata
negli spazi comuni del complesso residenziale, in modo da
poter nuocere alla salute degli stessi condomini.
È quanto
emerge dalla sentenza 399/2015, pubblicata dalla quarta
sezione del Tar Lombardia.
Niente da fare per il ricorso del condominio: risulta
legittimo il provvedimento del Comune di Milano che ingiunge
all'ente di gestione di trovare un locale adeguato dove
stoccare la spazzatura, preferibilmente lontano da dove
abita qualcuno. Decisivo il sopralluogo dell'Asl, inutile
fare i furbi: spariscono i sacchetti dell'immondizia
ammassati su trespoli a tre metri dalle finestre, ma
ricompaiono pochi lontano, nei pressi dei box auto, in un
altro luogo che gli ispettori ritengono inadeguato per lo
smaltimento dei rifiuti.
L'immondizia risulta stoccata
direttamente a terra, non lontana dagli appartamenti, in
attesa del conferimento al servizio pubblico di raccolta:
una situazione incompatibile con ogni elementare regola di
pulizia. Ecco allora che superiori ragioni di igiene
impongono all'amministratore del caseggiato di attrezzarsi
secondo le istruzioni dell'amministrazione locale. Al
condominio non resta che pagare le spese di giudizio.
Resta da capire che cosa succede se il deposito
incontrollato di rifiuti avviene su di un terreno occupato
abusivamente. E non è il proprietario che deve ripulire,
mettere in sicurezza e recintare l'area. O almeno: non è il
comune che glielo può imporre con un'ordinanza se manca la
prova del dolo o della colpa da parte del titolare del
fondo.
È quanto emerge dalla sentenza 1482/2015, pubblicata
dalla terza sezione del Tar Lombardia.
Annullato perché illegittimo il provvedimento adottato da un
comune in provincia di Milano dopo l'incendio che ha
interessato l'area occupata dai nomadi. In origine c'era una
comunità di giostrai in affitto ma in seguito si sono
aggiunti insediamenti di abusivi che oggi non pagano alcun
canone e si attaccano ai contatori per rubare l'energia
elettrica: si sospetta che proprio dall'allacciamento non
autorizzato si sia sviluppato il rogo.
Il punto è che l'amministrazione locale sa che nel campo ci sono occupanti
senza titolo e non può imporre al proprietario un'attività
che si risolverebbe nel farsi giustizia da sé: nessun
privato può infatti procedere in proprio a sgomberare un
terreno e a portare via i beni presenti senza il consenso
degli interessati.
E per le questioni di ordine pubblico serve sempre
l'intervento delle autorità. Infine: soltanto chi è
corresponsabile dell'abbandono incontrollato dei rifiuti può
essere costretto alla rimessione in pristino dal
provvedimento amministrativo: manca la prova della
responsabilità in capo al proprietario del terreno. Al
comune non resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Comuni,
sì alla gestione interna.
Sì alla raccolta dei rifiuti in città
gestita in house. Il comune ben può scegliere la soluzione
interna per affidare il servizio di igiene ambientale perché
l'ordinamento giuridico non predilige in assoluto né il
privato né il pubblico né il partenariato misto: la scelta è
affidata alla singola amministrazione a patto che sia
conveniente per la comunità e deve dunque emergere da costi
per abitante che siano trasparenti rispetto alle attività
svolte.
È quanto emerge dalla
sentenza 17.05.2016 n. 691, pubblicata dalla II
Sez. della sede staccata di Brescia del TAR Lombardia: alla
pronuncia non risulta applicabile le norme sopravvenute
rappresentate dal nuovo codice appalti ma i principi
affermati risultano in linea con la novella.
«Ampiamente discrezionale».
Così è la scelta rimessa al Comune fra esternalizzare il
servizio o provvedere in house. E nella specie la
soluzione interna garantisce le attività essenziali nei
servizi di igiene ambientale mentre la comunità amministrata
ne ricava un vantaggio come emerge dalla comparazione del
costo unitario praticato.
La gestione in house, peraltro, offre servizi
accessori e s'impegna a tenere aperto un front office
in favore degli utenti che possa portare a termine al meglio
il passaggio delle consegne fra la vecchia e la nuova
gestione, garantendo la continuità.
La soluzione interna risulta in grado di portare a termine
la scelta politica dell'amministrazione locale che punta a
incrementare la raccolta differenziata. Non resta che pagare
le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del
10.10.2016).
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MASSIMA
1. Passando all’esame del merito, la prima censura è
priva di pregio.
1.1 Premette il Collegio che il modello in house costituisce
un modo di gestione ordinario dei servizi pubblici locali,
alternativo rispetto all’affidamento mediante selezione
pubblica, per cui non costituisce un’eccezione alla regola
(cfr. TAR Liguria, sez. II – 08/02/2016 n. 120).
Il quinto considerando della direttiva U.E. 24/2014 sugli
appalti pubblici, stabilisce sul punto che “È
opportuno rammentare che nessuna disposizione della presente
direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a
esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano
prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi
dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
1.2 Recentemente il Consiglio di Stato (cfr. sez. V –
15/03/2016 n. 1034) ha evocato l'orientamento comunitario
secondo cui un'autorità pubblica può
adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa
incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata
a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri
servizi e può farlo altresì in collaborazione con altre
autorità pubbliche
(in tal senso: CGUE, sentenza 06.04.2006 in causa C-410/14 (ANAV),
e ha richiamato la propria precedente giurisprudenza la
quale ha <<a propria volta stabilito che,
stante l'abrogazione referendaria dell'articolo
23-bis del D.L. n. 112 del 2008 e la declaratoria di
incostituzionalità dell' articolo 4 del D.L. n. 138 del 2011
e le ragioni del quesito referendario
(lasciare maggiore scelta agli enti locali sulle forme di
gestione dei servizi pubblici locali, anche mediante
internalizzazione e società in house), è
venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito,
della eccezionalità del modello in house per la gestione dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica
(Cons. Stato, VI, 11.02.2013, n. 762)>>.
1.3 Anche questo TAR ha statuito (cfr. sentenza sez. II –
22/03/2016 n. 431) che “l'ordinamento
non predilige né l'in house, né la piena espansione della
concorrenza nel mercato e per il mercato e neppure il
partenariato pubblico-privato, ma rimette la scelta concreta
al singolo Ente affidante …In definitiva, i servizi pubblici
locali di rilevanza economica possono essere gestiti
indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando,
all'esito di una gara ad evidenza pubblica, il soggetto
affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato
pubblico-privato (ossia per mezzo di una Società mista e
quindi con una "gara a doppio oggetto" per la scelta del
socio e per la gestione del servizio), ovvero attraverso
l'affidamento diretto, in house …”.
In particolare, devono essere osservate le modalità
stabilite all’art. 34, comma 20, del D.L. 18/10/2012 n. 179
conv. in L. 17/12/2012 n. 221, per cui «per
i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di
assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità
tra gli operatori, l'economicità della gestione e di
garantire adeguata informazione alla collettività di
riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla
base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet
dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della
sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo
per la forma di affidamento prescelta e che definisce i
contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e
servizio universale, indicando le compensazioni economiche
se previste».
Da ultimo questa Sezione (cfr. sentenza 09/05/2016 n. 639)
ha osservato come “la scelta, espressa
da un ente locale, nella specie da un Comune, nel senso di
rendere un dato servizio alla cittadinanza con una certa
modalità organizzativa piuttosto di un’un'altra, ovvero in
questo caso di ricorrere allo in house e non esternalizzare,
è ampiamente discrezionale, e quindi, secondo giurisprudenza
assolutamente costante e pacifica, è sindacabile nella
presente sede giurisdizionale nei soli casi di illogicità
manifesta ovvero di altrettanto manifesto travisamento dei
fatti: nella materia dei servizi pubblici, affermano ad
esempio il principio in generale C.d.S. sez. V 06.05.2011 n.
2713 e nel caso specifico della scelta di una gestione in
house TAR Liguria sez. II 08.02.2016 n. 120 e TAR Puglia
Bari sez. I 12.04.2006 n. 1318”.
1.4 Sotto altro punto di vista, la
relazione che supporta la scelta comunale di operare
mediante affidamento in house
(cfr. art. 34, comma 20, del D.L. 179/2012)
è finalizzata a rendere trasparenti e conoscibili
agli interessati tanto le operazioni di riscontro delle
caratteristiche che fanno dell'affidataria una società in
house, quanto il processo d’individuazione del modello
più efficiente ed economico alla luce di una valutazione
comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati
coinvolti (TAR
Friuli Venezia Giulia – 26/10/2015 n. 468; TAR Abruzzo
Pescara – 14/08/2015 n. 349).
Anche il recente D.Lgs. 18/04/2016 n. 50, non applicabile
ratione temporis alla fattispecie in esame, statuisce
all’art. 192, comma 2, che “Ai fini
dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto
servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le
stazioni appaltanti effettuano preventivamente la
valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei
soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore
della prestazione, dando conto nella motivazione del
provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato
ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività
della forma di gestione prescelta, anche con riferimento
agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza,
di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale
impiego delle risorse pubbliche”.
1.5 Nel caso in oggetto, l’esame della relazione tecnico
economica predisposta dal Comune induce il Collegio a
ritenere la scelta immune dai vizi dedotti. La stessa
risulta infatti esaustiva per le ragioni che seguono:
- racchiude una comparazione tra i costi del servizio per
abitante, dalla quale affiora la convenienza del prezzo
unitario offerto dalla controinteressata (79,97 €) rispetto
al valore medio calcolato in 7 Comuni (compreso Cologno al
Serio) di dimensioni e territorio analoghi (94,71 €) e alle
condizioni praticate all’Ente resistente dal precedente
gestore (94,11 €); al riguardo, le rimostranze
sull’eterogeneità dei territori e dei dati demografici sono
state affermate in modo apodittico dalla ricorrente, senza
insinuare dubbi con riscontri oggettivi ed elementi
concreti;
- garantisce le prestazioni essenziali del servizio di
igiene ambientale, oltre a interventi di carattere
accessorio e complementare, tra le quali si possono citare
la sensibilizzazione nel progetto di riduzione dei rifiuti
da avviare a discarica o inceneritore, mediante laboratori
didattici presso le scuole e incontri di aggiornamento della
popolazione; ricerca, progettazione e realizzazione di
sistemi alternativi di riutilizzo/recupero dei rifiuti;
incontri periodici con l’utenza;
- racchiude l’impegno a mantenere attivo l’attuale Sportello
front-office per l’intero 2016 (per facilitare i
rapporti tra utenti e nuova Società – art. 17 lett. a –
allegato A del disciplinare);
- con riguardo al problema della disomogeneità dei dati
esibiti, la controinteressata ha sottolineato che la spesa
prevista comprende tutte le attività correlate alla gestione
del ciclo integrato dei rifiuti, incluse quelle di gestione
della TARI;
- Servizi comunali garantisce per 5 anni (quale costo
massimo) quello sostenuto dal Comune di Cologno al Serio
durante la precedente gestione (art. 17 lett. b – allegato A
del disciplinare).
In altra causa recentemente affrontata da questa Sezione
(cfr. sentenza 09/05/2016 n. 639, già citata) si è osservato
come la relazione sia esaustiva qualora
dimostri l’efficienza e la convenienza economica
dell’affidamento, sottolineando che un’esposizione che
illustri la scelta politica di spingere verso la raccolta
differenziata
(adottando nel Comune il metodo della cd. raccolta “porta
a porta” ovvero la “differenziata spinta”)
e raffronti i costi del servizio con quelli di
alcuni Comuni ritenuti equivalenti non riveli illogicità, le
quali <<secondo la giurisprudenza
–in generale ad esempio C.d.S. sez. V 11.12.2015 n. 5655 e
sez. III 23.11.2015 n. 5306- devono essere
“abnormi” ovvero “macroscopiche”>>.
1.6 Per le ragioni illustrate, la scelta
dell’amministrazione è adeguatamente motivata.
A fronte di un’ampia discrezionalità, il
Comune ha rispettato le prescrizioni di cui all’art. 34,
comma 20, del D.L. 179/2012. La relazione esplicita in modo
sufficientemente esaustivo le ragioni dell’affidamento,
definendo gli obblighi di servizio pubblico in capo alla
Società affidataria. L’economicità della gestione è
avvalorata dai dati esibiti in giudizio, anche mediante il
confronto con realtà territoriali simili.
In disparte ogni ulteriore approfondimento
sull’attendibilità della proposta economica formulata da
G.ECO (contestata dalle parti resistenti, in particolare
dalla controinteressata con la produzione del costo esibito
da G.ECO presso il Comune di Ponte San Pietro),
è opinione del Collegio che una modesta differenza
sui costi complessivi non interferisca sulla bontà
complessiva dell’opzione per il modello in house.
Quest’ultimo, infatti, deve obbedire a
canoni di economicità, e tuttavia si differenzia dal sistema
della gara pubblica, per cui anche un prezzo
complessivamente (e moderatamente) superiore non compromette
(necessariamente) gli obiettivi di interesse pubblico
perseguiti dall’amministrazione procedente, in presenza di
indicatori positivi rinvenibili nel disciplinare e nel
contratto di servizio.
1.7 Non appare persuasiva la lamentata violazione dell’art.
3-bis, comma 1-bis, del D.L. 138/2011, dal momento che
il Piano economico-finanziario asseverato è
correlato alla necessità di realizzare “interventi
infrastrutturali” da parte del soggetto affidatario.
Infatti la disposizione invocata statuisce che “Al fine
di assicurare la realizzazione degli interventi
infrastrutturali necessari da parte del soggetto
affidatario, la relazione deve comprendere un piano
economico-finanziario che, fatte salve le disposizioni di
settore, contenga anche la proiezione, per il periodo di
durata dell'affidamento, dei costi e dei ricavi, degli
investimenti e dei relativi finanziamenti, con la
specificazione, nell'ipotesi di affidamento in house,
dell'assetto economico-patrimoniale della società, del
capitale proprio investito e dell'ammontare
dell'indebitamento da aggiornare ogni triennio”. Non
affiorano dagli atti di causa specifiche tipologie di
investimento da effettuare per “interventi
infrastrutturali”.
2. Anche il secondo motivo è infondato.
2.1 E’ noto che, secondo la giurisprudenza della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, nel caso in
cui il capitale della Società in house sia suddiviso
tra una pluralità di soci pubblici, il controllo analogo può
essere esercitato congiuntamente da tali autorità, non
richiedendosi che lo stesso venga esercitato singolarmente
per ciascuna di esse
(così Corte di Giustizia U.E., sez. III – 29/11/2012 n.
182/11): ciò che rileva non è infatti la
configurabilità di un controllo totale ed assoluto di
ciascun ente pubblico sull’intera società, ma che, in forza
di idonei strumenti giuridici, ciascun ente sia in grado di
assumere il ruolo di dominus nelle decisioni operative
rilevanti circa il frammento di gestione relativo al proprio
territorio (in tal
senso cfr. TAR Brescia, sez. II – 23/09/2013 n. 780).
In buona sostanza, sono noti gli approdi
cui –nella definizione del requisito del “controllo
analogo”– la giurisprudenza europea ed interna si è
ormai assestata, essendo sul punto sufficiente richiamare le
più recenti pronunce dell’organo di appello, che ha ribadito
la necessità che l’ente societario partecipato sia soggetto
ad un controllo di stampo sostanzialmente organico, tale da
rendere irrilevante l’alterità soggettiva con l’autorità
pubblica partecipante. In virtù di un simile atteggiarsi dei
rapporti, spetta quindi a quest’ultima nominare i vertici
direttivi e di controllo, approvare gli indirizzi strategici
ed i principali atti di gestione, svuotando conseguentemente
l’autonomia decisionale dell’organo amministrativo invece
riconosciuta dal codice civile alle società di capitali
(Consiglio di Stato, sez. V – 28/07/2015 n. 3716, che
richiama le proprie precedenti sentenze 14/10/2014 n. 5080 e
1373/2014 n. 1181).
2.2 A proposito nell’in house
pluripartecipato, il Consiglio di Stato
(cfr. sez. III – 27/04/2015 n. 2154) ha
affermato che le amministrazioni pubbliche in possesso di
partecipazioni di minoranza possono esercitare il controllo
analogo in modo congiunto con le altre, a condizione che:
a) gli organi decisionali dell’organismo controllato siano composti
da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipanti,
ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare
più o tutti i soci pubblici partecipanti;
b) i soci pubblici siano in grado di esercitare congiuntamente
un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle
decisioni significative dell’organismo controllato;
c) l’organismo controllato non persegua interessi contrari a quelli
di tutti i soci pubblici partecipanti.
2.3 Anche la recente direttiva appalti n. 24/2014 stabilisce
all’art. 12, comma 3, che “Un’amministrazione
aggiudicatrice che non eserciti su una persona giuridica di
diritto privato o pubblico un controllo ai sensi del
paragrafo [ossia un controllo analogo] può nondimeno
aggiudicare un appalto pubblico a tale persona giuridica
senza applicare la presente direttiva quando sono
soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita congiuntamente con
altre amministrazioni aggiudicatrici un controllo sulla
persona giuridica di cui trattasi analogo a quello da esse
esercitato sui propri servizi;
b) oltre l’80 % delle attività di tale persona giuridica sono
effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati
dalle amministrazioni aggiudicatrici controllanti o da altre
persone giuridiche controllate dalle amministrazioni
aggiudicatrici di cui trattasi;
c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna
partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di
forme di partecipazione di capitali privati che non
comportano controllo o potere di veto prescritte dalle
disposizioni legislative nazionali, in conformità dei
trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla
persona giuridica controllata”.
2.4 Dall’esame dello Statuto di Servizi comunali (cfr. doc.
8 ricorrente), le predette condizioni risultano soddisfatte.
L’art. 9 infatti, in aggiunta a quanto previsto dai singoli
contratti/disciplinari di servizio, stabilisce che i Comuni
soci “esercitano congiuntamente i più ampi poteri di
direzione, coordinamento e supervisione sugli organi ed
organismi societari”. Il Comitato unitario per il
controllo analogo può impartire direttive vincolanti
all’organo amministrativo sulla politica aziendale (con
particolare riferimento alla qualità dei servizi prodotti e
alle caratteristiche da assicurare per il perseguimento
dell’interesse pubblico), può porre il veto sulle operazioni
ritenute non congrue o non compatibili con gli interessi
pubblici della collettività e del territorio; propone
inoltre all’Assemblea una rosa di candidati tra i quali
scegliere i membri del Consiglio di amministrazione e del
Collegio sindacale. L’art. 14 garantisce l’effettiva
partecipazione dei soci minoritari (il genere meno
rappresentato deve ottenere almeno 1/3 dei componenti del
Consiglio di amministrazione). La disposizione enuclea poi
ulteriori meccanismi di tutela dei Comuni soci (cfr. commi
1, 5 lettere e, f, g, h).
2.5 In definitiva, sono riscontrabili i
requisiti individuati dalla giurisprudenza comunitaria e
nazionale perché possa legittimamente disporsi l’affidamento
in house. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Legali,
parcella dimezzata anche senza spiegazione.
La parcella dell'avvocato è dimezzata senza spiegazione.
Possibile? Sì, perché anche per i nuovi parametri forensi il
parere di congruità dell'Ordine forense resta un atto nel
quale il Consiglio conserva un'ampia discrezionalità e non
richiede motivazione ad hoc: spetta allora al legale
interessato dimostrare che nel determinare la cifra dovuta
l'organismo professionale abbia deciso prescindendo del
tutto dall'effettiva realtà delle prestazioni professionali
rese.
È quanto emerge dalla
sentenza
10.05.2016
n. 395, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Umbria.
L'avvocato ha chiesto al cliente oltre 34 mila euro, ma ne
riceverà meno della metà, cioè 16 mila, in base ha quanto ha
deciso l'Ordine.
Il giudice civile ha compensato le spese nonostante abbia
accolto la domanda dell'assistito del legale nell'ambito di
una controversia sul rispetto delle distanze legali tra i
fabbricati: ha tuttavia ragione il Consiglio forense a
ritenere indeterminabile il valore della lite come avviene
sempre in quel tipo di controversie, mentre non ha valore il
promemoria esplicativo della causa che ipotizza anche un
intervento di demolizione e consolidamento dell'edificio:
anche a voler prescindere dall'attendibilità, attiene
soltanto alla fase di esecuzione della sentenza; d'altronde
è stato lo stesso avvocato a ritenere la causa di valore
indeterminato quando si è trattato di pagare il contributo
unificato.
Decisiva in proposito è la segnalazione dell'Ordine che
evidenzia all'avvocato come «le valutazioni di merito
sono da ritenersi incorporate nelle annotazioni e nei
depennamenti posti a margine» della nota dello stesso
professionista, che «prevedeva uno scaglione di
riferimento differente rispetto a quanto dichiarato negli
atti di causa». Nessun dubbio, poi, che si applichino i
nuovi parametri forensi alla controversia: la notula risulta
successiva alla sentenza depositata dopo l'entrata in vigore
del decreto ministeriale 55/2014.
E il parere richiesto all'Ordine sulla congruità della
parcella non può essere ridotto a una mera certificazione
della rispondenza del credito agli standard del regolamento.
Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
1.- I primi due motivi di ricorso, essendo in rapporto
di complementarietà, e comunque incentrati sul vizio
motivazionale, possono essere esaminati congiuntamente, e
sono infondati.
Occorre anzitutto premettere come la parcella professionale
del ricorrente debba seguire, ad avviso del Collegio, la
disciplina contenente la determinazione dei parametri per la
liquidazione dei compensi per la professione forense di cui
al d.m. 10.03.2014, n. 55, e non già quella di cui al d.m.
20.07.2012, n. 140.
Ed infatti la notula è successiva alla conclusione della
causa, nella quale la sentenza è stata depositata il
14.11.2014, con conseguente applicabilità del d.m. n. 55 del
2014 (la cui entrata in vigore, a termini dell’art. 29,
avviene il giorno successivo alla data della pubblicazione
nella G.U., risalente al 02.04.2014).
Ciò precisato, va ricordato che secondo il costante
indirizzo giurisprudenziale, il parere di
congruità sulle parcelle professionali reso dal Consiglio
dell’Ordine degli avvocati è atto soggettivamente ed
oggettivamente amministrativo, che non si esaurisce in una
mera certificazione della rispondenza del credito alla
tariffa professionale, ma implica una valutazione di
congruità della prestazione.
Non esaurendosi dunque siffatta valutazione
di congruità in un mero riscontro di conformità alla tariffa
delle prestazioni professionali degli avvocati, la
liquidazione così effettuata interviene nell’esercizio di un
potere ampiamente discrezionale e, se contenuta tra i minimi
ed i massimi tariffari
(il che non è contestato nella fattispecie),
non richiede specifica motivazione, spettando al
contrario al professionista che lo contesti dedurre e
provare che il giudizio stesso si sia tradotto in una
determinazione, che finisce con il prescindere dal
considerare l’effettiva realtà delle prestazioni
professionali rese
(in termini Cons. Stato, Sez. IV, 23.12.2010, n. 9352; Sez.
IV, 24.12.2009, n. 8749).
La liquidazione della parcella del ricorrente non è dunque
inficiata da vizio motivazionale, tanto più che, nella
vicenda in esame, vi è stata la nota dell’Ordine degli
Avvocati di Perugia in data 11.05.2015 che ha esplicitato al
ricorrente come «le valutazioni di merito sono […] da
ritenersi incorporate nelle annotazioni e nei depennamenti
posti a margine della Sua nota, che prevedeva uno scaglione
di riferimento differente rispetto a quanto dichiarato negli
atti di causa».
Piuttosto, esaminando le censure del ricorrente, il
Consiglio ha legittimamente preso a parametro lo scaglione
di valore indeterminabile (alto), mentre il ricorrente aveva
applicato quello del valore tra euro 500.000,00 ed euro
1.500.000,00; ed invero la domanda di accertamento della
realizzazione di un edificio in violazione delle norme sulle
distanze tra le costruzioni non consente di individuare il
valore effettivo della controversia, e, del resto, lo stesso
ricorrente aveva indicato un valore indeterminato ai fini
del contributo unificato.
Il “pro-memoria” esplicativo del valore della causa,
ipotizzante un intervento di demolizione e di
consolidamento, anche a prescindere dalla sua attendibilità,
non ha valore, in quanto attiene alla fase di esecuzione
della sentenza.
2. - Con il terzo mezzo si deduce poi la contraddittorietà
dell’operato dell’Ordine, che, nelle annotazioni apposte a
margine della notula dal Consigliere delegato, ha
individuato un importo pari ad euro 21.387,00, per poi
successivamente liquidare, come si evince dall’elenco
allegato al verbale dell’adunanza del Consiglio in data
10.04.2015, euro 16.000,00 di parcella professionale.
Anche tale censura non coglie nel segno, in quanto
l’annotazione del Consigliere responsabile del procedimento
ha il solo valore di proposta, mentre la liquidazione viene
effettuata dal Consiglio dell’Ordine in tutti i casi in cui
la parcella sia superiore ad euro 20.000,00, come da prassi
poi trasfusa nel regolamento dell’Ordine degli Avvocati di
Perugia 27.03.2015, n. 2 (art. 6).
3. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto, il
ricorso deve essere respinto. |
AGGIORNAMENTO AL 09.12.2016 |
ã |
SANZIONI RITARDATO VERSAMENTO
(rateizzato)
CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE: |
l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha
risolto la questione
"se una volta
costituita, ai sensi dell’art. 16, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (t.u. edilizia), una garanzia
per il pagamento del contributo per il rilascio del
permesso di costruire, il comune, avendo omesso di
escutere la garanzia, possa, oltre che chiedere il
pagamento del dovuto al debitore principale,
infliggere comunque la sanzione pecuniaria
(nella misura massima) prevista dalla disciplina
regionale e comunale per i casi di mancato
versamento del contributo". |
La querelle è stata rimessa dalla Sez. IV con
l’ordinanza
22.06.2016 n. 2766 essendosi sul punto
formati tre diversi orientamenti.
Secondo il primo orientamento
giurisprudenziale,
minoritario, occorre fare applicazione dei principi
civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti
quello che impone al creditore in buona fede di
collaborare con il debitore ai fini del puntuale
adempimento dell’obbligazione.
A supporto di tale tesi è il rilievo che l’ente locale,
ove il suo credito sia assistito da garanzia
incondizionata, ha uno specifico dovere, ai sensi
degli artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ.,
di richiedere quanto dovutogli al garante, con la
conseguenza che l’ente stesso –omettendo tale ben
esigibile adempimento- viola appunto l’obbligo per
il creditore di non aggravare inutilmente la
posizione del debitore.
Parallelamente, sul piano funzionale, si rileva che la
previsione legislativa delle sanzioni per il mancato
pagamento degli oneri concessori trova ragione nella
necessità per l'amministrazione di disporre
tempestivamente delle somme dovute dai privati onde
poter procedere alla realizzazione delle necessarie
infrastrutture di urbanizzazione: in tale contesto,
un ente locale che sceglie di non incamerare subito
la fideiussione non persegue la finalità di
interesse pubblico per cui la sanzione è appunto
predisposta (assicurare la tempestiva disponibilità
delle somme per l’urbanizzazione), bensì altro
scopo, ossia far lievitare la somma dovuta dal
privato anche a rischio di un consistente
differimento nell’incasso.
Il secondo orientamento
giurisprudenziale,
maggioritario, al quale l’ordinanza di rimessione
aderisce, inquadra la fattispecie in una prospettiva
pubblicistica, significativamente caratterizzata
dalla presenza di strumenti –le sanzioni e la
riscossione coattiva– tipici di un procedimento
autoritativo e non paritetico.
In questa prospettiva la fideiussione –che il comune è
facoltizzato a richiedere in caso di rateizzazione
del versamento- non ha affatto la finalità di
agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al
pagamento, bensì costituisce una garanzia personale
prestata unicamente nell'interesse
dell'amministrazione, sulla quale non incombe alcun
obbligo di preventiva escussione del fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria serve a
scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente
perdere una entrata di diritto pubblico, ma non
alleggerisce affatto la posizione del soggetto
tenuto al pagamento, né attenua le conseguenze
previste nel caso di un eventuale suo inadempimento,
conseguenze appunto riconducibili all’applicazione
delle sanzioni e alla riscossione coattiva
dell’intera somma dovuta.
Né sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227, comma
2, cod. civ. -che riguarda l'esonero di
responsabilità per i danni che il creditore avrebbe
potuto evitare usando l'ordinaria diligenza– in
primo luogo perché l'obbligazione relativa alle
sanzioni pecuniarie ex art. 3, l. 28.02.1985 n. 47
non ha, certo, natura risarcitoria configurandosi
come obbligazione legale, con finalità chiaramente e
univocamente "sanzionatorie".
In secondo luogo, l'onere di diligenza che
l’art. 1227, comma 2, cod. civ. fa gravare sul
creditore non si estende alla sollecitudine
nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare
maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare
esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al
tempestivo adempimento della sua obbligazione (v.
Corte cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione
delle sanzioni amministrative per ritardato
pagamento).
Un terzo orientamento
giurisprudenziale,
pur tenendo conto della cogenza della previsione
legale relativa all’applicazione delle sanzioni in
caso di ritardato pagamento, ritiene però
illegittima l’applicazione delle sanzioni in misura
massima.
E’ stato infatti rilevato -valorizzando il principio di
leale collaborazione tra cittadino e comune, che ha
valenza pubblicistica e rientra nell'ambito dei
principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.-
che il ritardo con cui l’ente locale procede alla
richiesta di pagamento e l'assenza di qualsivoglia
tentativo di escussione della fideiussione,
comportano, all'evidenza, una violazione del dovere
di correttezza che dovrebbe improntare il
comportamento dell'Amministrazione comunale, in
considerazione del fatto che l'Amministrazione non è
un soggetto che agisce per massimizzare il suo
profitto ma è un soggetto che agisce per realizzare
nel modo migliore possibile un interesse pubblico
che le è stato affidato dalla legge e che consiste,
appunto, nella celere realizzazione delle opere di
urbanizzazione (e, quindi, nella pronta
disponibilità delle somme ad esse relative).
Pertanto, secondo il richiamato indirizzo, il ritardo
con cui il comune agisce per riscuotere le somme a
titolo di oneri di urbanizzazione dovuti, se non può
impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni,
atteso il loro carattere automatico, scaturente dal
disposto di legge, impedisce tuttavia l'applicazione
delle sanzioni massime.
Ne consegue che l’ente locale –una volta decorsi 120
giorni dallo scadere del termine originario di
pagamento– deve valersi della garanzia (per
riscuotere quanto dovuto per oneri) e
contestualmente irrogare al debitore inadempiente la
sanzione minima normativamente prevista (commento
tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
E
l'Adunanza Plenaria si è espressa sposando il
suddetto secondo orientamento
giurisprudenziale
(maggioritario): |
EDILIZIA PRIVATA: Un’amministrazione
comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti
dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione
pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo
ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al
contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento
dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la
garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei
singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di
svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il
debitore principale.
---------------
... per la riforma della
sentenza 02.11.2011 n. 71 del TAR VALLE D'AOSTA-AOSTA,
resa tra le parti, concernente applicazione di sanzioni
pecuniarie per mancato pagamento di oneri concessori;
...
1. LA PROCEDURA OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1 Il giudizio verte sulla legittimità dell’atto sindacale
15.01.2011 n. 60 col quale il Comune di Ayas ha ingiunto
alla qui appellante società Le Re. s.a.s. il pagamento della
complessiva somma di euro 51.089,41 a seguito
dell’accertamento dell’omesso e del ritardato pagamento
delle rate relative ai contributi per oneri di
urbanizzazione e per costi di costruzione dovuti in forza di
due distinti tioli edilizi, rilasciati dallo stesso Comune
il 28.08.1996 ed il 22.11.2003, per la realizzazione nella
frazione di Champoluc di un fabbricato a civile abitazione e
di un fabbricato ad uso commerciale.
In relazione alla concessione edilizia del 1996, il Comune
di Ayas ha determinato gli oneri concessori, prevedendone il
versamento in parte al rilascio del titolo edilizio (come di
fatto avvenuto) e, per la residua parte, in quattro rate,
con scadenza rispettivamente alla data di inizio dei lavori,
della ultimazione della copertura, della fine dei lavori e
del rilascio del certificato di agibilità. Anche in
occasione del rilascio del secondo titolo edilizio in
variante del 2003, il Comune ha concesso al richiedente il
beneficio della rateizzazione dei pagamenti relativi al
contributo di costruzione.
In entrambi i casi, al beneficiario del titolo edilizio è
stato richiesto di costituire una polizza fideiussoria in
favore del Comune di Ayas, a garanzia del puntuale pagamento
delle singole rate dei distinti contributi di costruzione,
determinati in relazione alla stima degli oneri di
urbanizzazione e dei costi di costruzione.
1.2 La questione principale che la
controversia pone è se, alla scadenza dei termini previsti
per il pagamento rateale del contributo di costruzione, sia
individuabile un onere collaborativo in capo alla
Amministrazione concedente, desumibile dai principi generali
in tema di buona fede e correttezza nei rapporti obbligatori
di matrice civilistica ovvero dal principio di leale
collaborazione proprio dei rapporti intersoggettivi di
diritto pubblico, che si spinga fino al punto di ritenere
che l’Amministrazione sia obbligata alla sollecita
escussione della garanzia fideiussoria, al fine di non
aggravare la posizione del soggetto obbligato, tenuto
altrimenti al pagamento (oltre che delle rate non
corrisposte) delle sanzioni di legge per omesso o ritardato
pagamento.
La soluzione della questione incide direttamente sul tema
della legittimità dell’atto sindacale impugnato in primo
grado, posto che con tale atto l’Amministrazione comunale
qui appellata ha richiesto alla società Le Re. s.a.s. il
pagamento dei contributi ancora dovuti con la maggiorazione
delle sanzioni per omesso o ritardato pagamento, pur non
avendo mai provveduto all’escussione della garanzia
fideiussoria né altrimenti sollecitato il debitore al
pagamento di quanto ancora dovuto.
1.3 La causa impone la soluzione di due ulteriori questioni
(che tuttavia esulano dall’ambito cognitorio proprio di
questa Adunanza plenaria delineato nell’ordinanza di
rimessione e che in ogni caso necessitano di approfondimenti
istruttori) riguardanti:
a) l’avvenuta ultimazione ( o meno) dei lavori assentiti con il
primo titolo edilizio, posto che –come si è detto- al
compimento dei lavori era stata cadenzato il pagamento della
terza rata di contributo;
b) la corretta imputazione dei pagamenti parziali eseguiti dal
soggetto obbligato nel corso del tempo, imputazione che
l’Amministrazione comunale (nel provvedimento impugnato in
primo grado) ha compiuto ascrivendo quei pagamenti parziali
prima a tacitazione del credito relativo alle sanzioni
(applicate con lo stesso provvedimento ingiuntivo) e,
soltanto per la residua parte, a parziale adempimento del
debito relativo ai contributi ancora non versati.
Entrambe le questioni sono controverse in quanto la società
appellante assume che in realtà i lavori non siano mai stati
completati (donde l’insussistenza di un suo inadempimento
–quantomeno in relazione alle rate di pagamento ancorate a
detta scadenza- suscettibile di essere sanzionato). Quanto
alla questione della imputazione dei pagamenti, la società
appellante assume che l’Amministrazione avrebbe dovuto
imputare i pagamenti parziali al debito per contributi e non
al debito per sanzioni, in quanto il primo sarebbe più
oneroso per il debitore.
2. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.
2.1 Con ricorso proposto dinanzi al TAR della Valle d’Aosta
la società Le Re. s.a.s. ha impugnato il suindicato
provvedimento ingiuntivo del sindaco del Comune di Ayas
articolando sei motivi di censura e deducendo i seguenti
argomenti difensivi a supporto della illegittimità del
gravato provvedimento:
a) che i lavori non erano stati in realtà ancora ultimati, in
quanto l’edificio difettava di accesso alla viabilità
pubblica, e che quindi la rata di pagamento correlata alla
fine dei lavori avrebbe dovuto ritenersi come non ancora
scaduta ( al pari, a fortiori, delle rate successive);
b) che in generale il Comune di Ayas avrebbe dovuto escutere
tempestivamente la garanzia fideiussoria, senza attendere
inutilmente la decorrenza dei termini di pagamento e le
ulteriori scansioni temporali previste dalla legge per la
gradazione delle sanzioni pecuniarie in relazione al
ritardo;
c) che il Comune, erroneamente, aveva imputato taluni pagamenti
parziali eseguiti nel corso del tempo dalla società Le
Residence a copertura delle sanzioni già maturate invece che
a copertura delle rate dei contributi già scadute.
Con sentenza 02.11.2011 n. 71 il Tar ha respinto il gravame,
giudicando infondate tutte le censure dedotte.
In particolare, il giudice di primo grado ha ritenuto
infondati i motivi di ricorso con i quali si contestava
l’accertamento relativo alla fine dei lavori (propedeutico
all’applicazione della sanzione per ritardo nel pagamento
della rata collegata a tale evento) ritenendo incensurabili
gli accertamenti istruttori dell’Amministrazione, che
correttamente aveva fissato la data di ultimazione dei
lavori in epoca ben anteriore all’applicazione della
sanzione per il ritardo.
In ordine al tema della legittimità delle sanzioni applicate
per il ritardo nel pagamento delle rate relative ai suddetti
contributi il Tar, pur dando atto della esistenza di diversi
orientamenti giurisprudenziali in materia, ha respinto la
pretesa della ricorrente volta ad individuare un onere
collaborativo a carico della Amministrazione comunale
funzionale, anche a mezzo della escussione della garanzia
fideiussoria, all’attuazione del rapporto obbligatorio ed ha
conseguentemente ritenuto legittimo il provvedimento
sindacale, anche nella parte applicativa delle maggiorazioni
a titolo di sanzioni per il ritardo.
Il giudice di primo grado ha infine respinto anche il motivo
di ricorso con il quale si contestava la corretta
imputazione dei pagamenti parziali eseguiti dalla società
ricorrente nel corso degli anni, essendo stata ritenuta
incensurabile la scelta dell’Amministrazione di imputare
detti pagamenti prima alle somme dovute per sanzioni e poi a
quelle dovute per i contributi originariamente determinati,
e tanto in applicazione analogica del principio di diritto
desumibile dall’art. 1194 c.c. (secondo cui il pagamento
fatto in conto di capitali e di interessi deve essere
imputato prima agli interessi) essendo state le sanzioni
qualificate alla stregua di accessori del credito, al pari
degli interessi.
3. IL GIUDIZIO DI APPELLO DAVANTI ALLA IV SEZIONE DEL
CONSIGLIO DI STATO.
3.1 Con ricorso in appello r.g. n. 3468/12, la società Le
Re. s.a.s. ha criticato la impugnata sentenza tornando a
riproporre in secondo grado le censure già disattese dal
Tar.
In particolare, la società appellante ha diffusamente
contestato le conclusioni raggiunge dai primi giudici,
insistendo sul rilievo secondo cui il Comune non avrebbe
potuto legittimamente applicare le sanzioni previste per il
ritardato pagamento di contributi concessori avendo omesso
di sollecitare, in violazione dei doveri di correttezza e
buona fede, il pagamento del dovuto alla scadenza delle
singole rate e non avendo mai portato ad escussione la
garanzia fideiussoria.
3.2 La società appellante ha richiamato a tal proposito gli
orientamenti della giurisprudenza amministrativa favorevoli
alla propria tesi difensiva (Cons. St., V, sentenze
05.02.2003 n. 585 e 03.07.1995 n. 1001), lamentando che il
giudice di primo grado abbia omesso di tener conto degli
argomenti utilizzati nelle citate pronunce, addivenendo alla
reiezione del ricorso sulla base di un’acritica o comunque
non sufficientemente motivata adesione all’orientamento
giurisprudenziale contrario.
A parere della società appellante, poiché era stata
prestata, a garanzia del puntuale pagamento del contributo
di costruzione, apposita garanzia fideiussoria (priva del
beneficio di preventiva escussione del debitore principale,
ai sensi dell’art. 1944, comma 2, cod. civ.) il Comune di
Ayas ben avrebbe potuto riscuotere per tempo direttamente
dal garante le rate dei contributi ancora dovuti, evitando
in tal modo la maggiorazione degli importi per effetto
dell’applicazione delle sanzioni per omesso o ritardato
pagamento.
Nella prospettazione dell’appellante, sarebbe viepiù
ravvisabile un obbligo (e non una mera facoltà) per
l’Amministrazione creditrice di escutere il garante nel caso
di ritardato versamento dei contributi concessori, obbligo
desumibile dai principi di buona fede e correttezza nei
rapporti contrattuali oltre che dal principio, compendiato
nell’art. 1227, comma 2, del cod. civ., di non aggravamento
della posizione del debitore.
A diversamente opinare, ha osservato la società appellante,
deriverebbe la paradossale conseguenza che l’Amministrazione
comunale trarrebbe giovamento dal proprio comportamento
illecito (o quantomeno non diligente), nella misura in cui
la sua inerzia sarebbe produttiva dei maggiori introiti
relativi agli importi delle sanzioni dovute per il ritardo.
In sostanza, secondo l’appellante, il Comune di Ayas , una
volta accertato il mancato pagamento delle rate relative
agli oneri concessori (oggi contributi di costruzione)
avrebbe potuto e dovuto, senza particolari difficoltà,
escutere il fideiussore, così evitando di aggravare la
posizione della parte debitrice. Non avendolo fatto,
l’Amministrazione dovrebbe ritenersi senz’altro decaduta
dalla potestà di imporre sanzioni pecuniarie, donde la
sicura illegittimità dell’atto avversato in primo grado.
La società appellante ha poi distintamente censurato i capi
decisori della gravata sentenza che hanno affrontato,
rigettandoli, gli ulteriori motivi inerenti all’epoca della
ultimazione dei lavori nonché l’ulteriore questione della
corretta imputazione dei pagamenti parziali eseguiti.
L’appellante ha quindi concluso per l’accoglimento, con
l’appello, del ricorso di primo grado, con consequenziale
annullamento, in riforma della impugnata sentenza, dell’atto
in primo grado gravato.
Si è costituito in appello il Comune di Ayas per resistere
all’appello e chiederne la reiezione. In particolare,
l’Amministrazione comunale ha dedotto che, a suo avviso, la
prestazione della garanzia fideiussoria da un lato non
libererebbe il debitore dall’obbligo di adempiere nel
rispetto dei termini di pagamento, dall’altro non porrebbe a
carico della Amministrazione comunale alcun onere di
sollecitare il pagamento ovvero di escutere la garanzia
fideiussoria (pena altrimenti la ipotizzata decadenza dalla
potestà sanzionatoria).
All’udienza pubblica del 21.04.2016, fissata per la
trattazione dinanzi alla Sezione quarta del Consiglio di
Stato, la causa è stata trattenuta per la decisione.
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA
PLENARIA.
4.1 Con ordinanza 22.06.2016 n. 2766, la Sezione quarta del
Consiglio di Stato, investita del ricorso in appello r.g. n.
3468/12, ha ritenuto di rimettere la decisione della causa a
questa Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1,
del cod. proc. amm..
Nella parte in fatto della citata ordinanza la Sezione
rimettente ha dato atto che, nell’ambito del ricorso
originario, le deduzioni di parte appellante avevano
riguardato tre distinti profili di gravame, avendo in
particolare la ricorrente prospettato:
a) che i lavori non erano stati ancora ultimati in quanto, secondo
la prospettazione della società Le Re. s.a.s., l’edificio
difettava di accesso alla via pubblica donde non poteva
ritenersi venuta a scadenza la rata di pagamento del
contributo di costruzione fissata alla data della fine dei
lavori (e, per conseguenza, anche la rata successiva);
b) che, in ogni caso, il Comune qui appellato avrebbe dovuto
escutere tempestivamente il garante senza attendere la
decorrenza dei termini di pagamento per l’irrogazione delle
sanzioni;
c) che, infine, il Comune aveva imputato erroneamente taluni
pagamento parziali a copertura delle sanzioni già maturate
invece che a copertura delle rate relative agli oneri
scaduti.
Ciò premesso la Sezione rimettente ha
osservato come la questione centrale del giudizio fosse
quella compendiata nella suindicata lett. b): e cioè se
l’Amministrazione comunale sia legittimata a sanzionare il
ritardo nel pagamento dei contributi di costruzione una
volta che la stessa non si sia resa parte attiva nel
richiedere al debitore principale ovvero al fideiussore,
alle scadenze prestabilite, il pagamento delle rate scadute.
Su tale centrale questione del giudizio (in sé non
esaustiva, posto che con l’appello sono state riproposte le
ulteriori questioni di cui ai punti a) e c) che precedono)
l’ordinanza di rimessione si è diffusamente soffermata,
dando conto della esistenza di orientamenti non univoci
nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, per il
che ha ritenuto necessario un intervento chiarificatore di
questa Adunanza plenaria al fine di risolvere la suindicata
questione interpretativa.
4.2 L’ordinanza ha richiamato anzitutto l’art. 1 della legge
n. 10 del 1977, che ha introdotto nell’ordinamento italiano
il principio secondo cui ogni attività comportante
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio partecipa
agli oneri da essa derivanti.
Ha rilevato il giudice rimettente come tale principio
dell’onerosità del permesso di costruire sia oggi confermato
dall’art. 11, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (recante
il Testo unico in materia edilizia), il quale precisa (art.
16, comma 1) che il relativo contributo è costituito da due
quote, commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese
di urbanizzazione e al costo di costruzione dell’edificio
assentito. La quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è di norma (salvo eventuale rateizzazione a
richiesta dell’interessato) corrisposta all’atto del
rilascio del permesso (ai sensi dell’ art. 16, comma 2)
mentre la quota relativa al costo di costruzione è
corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni
all’ultimazione della costruzione.
A completamento del quadro normativo applicabile alla
fattispecie, il giudice rimettente ha osservato come, ai
sensi dell’art. 16, comma 3, d.P.R. cit., al momento della
quantificazione e della rateizzazione del contributo di
costruzione gli enti locali richiedano all’intestatario del
titolo edilizio la prestazione di una garanzia, nei modi
indicati dall’art. 2 della legge n. 348 del 1982; e che, nel
caso di ritardato od omesso pagamento del contributo di
costruzione, l’art. 42 del d.P.R. cit. (il quale riproduce
sostanzialmente le previsioni già contenute nell’art. 3
della legge n. 47 del 1985) prevede che siano applicate
delle sanzioni pecuniarie, la cui determinazione in concreto
è rimessa, sia pur nel rispetto di alcune soglie minime e
massime fissate dalla legislazione nazionale, alla
legislazione regionale.
4.3 Ciò premesso in ordine alle disposizioni normative
applicabili alla fattispecie, l’ordinanza di rimessione dà
conto della esistenza di un risalente orientamento
giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato, radicatosi
con una prima sentenza della V Sezione (n. 1001 del 1995)
secondo cui, allorché il credito vantato dal comune per il
contributo di costruzione nei confronti del titolare di una
concessione edilizia sia assistito da garanzia fideiussoria,
una siffatta obbligazione di garanzia, priva di
beneficium excussionis ed al di là della solidarietà tra
debitore principale e fideiussore, esclude che il comune
stesso possa far legittimamente ricorso alle sanzioni ai
sensi dell’art. 3 l. 28.02.1985 n. 47 (oggi art. 42 d.P.R
cit.), salvo che l’amministrazione creditrice abbia
previamente escusso infruttuosamente il fideiussore. Solo in
tal modo il comune conseguirebbe il pronto soddisfacimento
del proprio credito salvaguardando, ad un tempo, l’interesse
del debitore al contenimento delle somme da corrispondere a
quel titolo (in sostanza, escludendo le maggiorazioni a
titolo di sanzione).
4.4 Seguendo la stessa linea interpretativa, in epoca più
recente (Cons. St., V , n. 32 del 2003, V, n. 571 del 2003 e
I, parere 17.05.2013 n. 11663) è stato affermato che qualora
il titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a
garanzia del versamento dei contributi, una polizza
fideiussoria, non possono essere applicate le sanzioni
previste dall'art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47, per il caso
di omesso o ritardato versamento dei contributi, ove
l'amministrazione creditrice, violando i doveri di
correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel
chiedere al garante il pagamento delle somme dovute.
A sostegno di tale indirizzo è stato tra l’altro addotto il
rilievo che l’ente locale, ove il suo credito sia assistito
da garanzia incondizionata, avrebbe uno specifico dovere, ai
sensi degli artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ., di
richiedere quanto dovutogli al garante, con la conseguenza
che, ove l’ente stesso ometta tale (ben esigibile)
adempimento, violerebbe appunto l’obbligo per il creditore
di non aggravare inutilmente la posizione del debitore.
Osserva la Sezione rimettente come, sul piano funzionale,
tale orientamento giurisprudenziale faccia leva
sull’ulteriore argomento secondo cui la previsione
legislativa delle sanzioni per il mancato pagamento degli
oneri concessori trovi ragione nella necessità per
l'amministrazione di disporre tempestivamente delle somme
dovute dai privati, onde poter procedere alla realizzazione
delle necessarie infrastrutture di urbanizzazione: in tale
contesto, un ente locale che sceglie di non incamerare
subito la fideiussione non persegue la finalità di interesse
pubblico per cui la sanzione è appunto predisposta (e cioè
assicurare la tempestiva disponibilità delle somme per
l’urbanizzazione) bensì altro scopo, ossia attendere che per
effetto della scadenza dei termini di pagamento possano
essere applicate le sanzioni con conseguente maggiorazione
degli introiti.
4.5 La Sezione rimettente richiama poi altro indirizzo,
seguito dalla giurisprudenza maggioritaria, che inquadra la
fattispecie in esame in una prospettiva asseritamente
pubblicistica, significativamente caratterizzata dalla
presenza di strumenti –le sanzioni e la riscossione
coattiva– tipici di un procedimento autoritativo e non
paritetico. Secondo tale orientamento, la fideiussione –che
il comune può richieder in caso di rateizzazione del
versamento- non avrebbe affatto la finalità di agevolare
l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì
costituirebbe una garanzia personale prestata unicamente
nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non
graverebbe pertanto alcun obbligo giuridico di preventiva
escussione del fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria servirebbe a
scongiurare che il comune possa irrimediabilmente perdere
una entrata di diritto pubblico, ma non varrebbe ad
alleggerire la posizione del soggetto tenuto al pagamento,
né attenuerebbe le conseguenze previste nel caso di un
eventuale suo inadempimento, conseguenze appunto
riconducibili all’applicazione delle sanzioni e alla
riscossione coattiva dell’intera somma dovuta (ex multis
IV Sez. n. 5818 del 2012).
Tale maggioritario orientamento (IV n. 4320 del 2012, VI n.
5884 del 2014 e V n. 777 del 2016) si sarebbe peraltro fatto
carico di precisare che la soluzione non cambierebbe
quand’anche si volessero applicare alla fattispecie i
principi desumibili dal diritto delle obbligazioni tra
privati; ed invero, in materia di obbligazione "portable",
quale appunto quella pecuniaria, e con termine di
adempimento che esonera dalla costituzione in mora del
debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la
solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa
invece ritenersi tenuto ad escutere la fideiussione
piuttosto che attendere il pagamento -ancorché tardivo-
dell’obbligato principale, salva l'esistenza di apposita
clausola in tal senso accettata dal creditore stesso.
Sempre secondo tale orientamento, non sarebbe pertinente il
richiamo all'art. 1227, comma 2, cod. civ. -che riguarda
l'esonero di responsabilità per i danni che il creditore
avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza– in
primo luogo perché l'obbligazione relativa alle sanzioni
pecuniarie di cui all’art. 3 della legge 28 febbraio 1985 n.
47 non avrebbe natura risarcitoria, configurandosi come
obbligazione legale, con finalità chiaramente e univocamente
"sanzionatorie". In secondo luogo, in ragione del
fatto che l'onere di diligenza che l’art. 1227, comma 2, fa
gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine
nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare
maggiori danni, i quali sono viceversa da imputare
esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al
tempestivo adempimento della sua obbligazione (in tal senso,
Corte cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione delle
sanzioni amministrative per ritardato pagamento).
Dopo aver esposto le ragioni sottese ai distinti
orientamenti giurisprudenziali il giudice
rimettente esprime la sua netta preferenza per
l’orientamento maggioritario, ritenuto più coerente con la
disciplina applicabile alla fattispecie.
E tuttavia, nell’ordinanza di rimessione, dà conto di un
ulteriore e più recente indirizzo giurisprudenziale, che
potrebbe definirsi intermedio rispetto ai precedenti.
4.6 In particolare, secondo tale ulteriore approccio
interpretativo della Sezione quinta di questo Consiglio di
Stato (n. 5734 del 2014 e n. 5287 del 2015) nella
fattispecie oggetto di causa sussisterebbe un preciso onere
collaborativo a carico dell’ente locale, desumibile dal
principio di leale collaborazione tra cittadino e comune,
avente valenza pubblicistica e rientrante nell'ambito dei
principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.; secondo
tale indirizzo, il ritardo con cui il comune agisce per
riscuotere le somme a titolo di contributi dovuti, se non
può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso
il carattere automatico delle sanzioni, scaturenti
direttamente dalla legge, impedisce tuttavia l'applicazione
delle sanzioni massime.
In sostanza, secondo tale innovativo orientamento,
risulterebbe compatibile con l'interesse pubblico azionato,
con il tenore delle disposizioni applicabili e con i
principi costituzionali che ispirano i rapporti tra
cittadino e pubblica amministrazione che l’ente locale
provveda alla riscossione della sanzione ma soltanto nella
misura minima, conseguente all’accertamento del ritardo
protrattosi per i primi 120 giorni (ai sensi dell’ art. 42,
comma 2, lett. a) del d.P.R. n. 380 del 2001). Per converso,
sarebbero inapplicabili le maggiori sanzioni previste per
ritardi superiori nella misura in cui l’amministrazione, con
un comportamento improntato a diligenza e buona fede avrebbe
potuto evitare, a mezzo della tempestiva escussione della
garanzia fideiussoria, di aggravare la posizione debitoria
dell’intestatario del titolo edilizio .
Proprio in ragione della eterogeneità delle posizioni che si
riscontrano nella giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato il giudice rimettente, senza nascondere la sua già
manifestata preferenza per l’orientamento espresso dalla
giurisprudenza maggioritaria, ha ritenuto di rimettere la
risoluzione della questione interpretativa a questa
all’Adunanza plenaria, che è stata così investita della
decisione del ricorso a norma dell’art. 99, comma 1, cod.
proc. amm..
4.7 Per effetto del rinvio della causa dinanzi a questa
Adunanza plenaria è stata fissata l’udienza pubblica del
05.10.2016 alla quale il ricorso è stato trattenuto per la
sentenza.
5. CONSIDERAZIONI DELLA ADUNANZA PLENARIA.
5.1 Ritiene l’Adunanza plenaria che,
nell’ambito dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali
di cui ha riferito il giudice rimettente, sia senz’altro
condivisibile l’orientamento maggioritario maturato
in seno a questo Consiglio di Stato.
La soluzione si impone alla luce delle chiare previsioni
delle disposizioni normative applicabili alla fattispecie
nonché alla luce dei principi generali dell’ordinamento.
Per vero, può fin d’ora anticiparsi come il quadro delle
diposizioni normative applicabili al caso in esame non
consenta di individuare, a carico della Amministrazione
comunale qui appellata, un onere di collaborazione con il
debitore nella finalizzazione del pagamento del contributo
di costruzione tale per cui la sua violazione possa tradursi
in una decadenza della stessa Amministrazione dal potere di
sanzionare il ritardo nel pagamento.
Peraltro, la soluzione non muta a seconda che la questione
controversa sia affrontata sulla base dei principi
desumibili dal sistema normativo applicabile ai rapporti
intersoggettivi di diritto amministrativo, al cui novero la
fattispecie andrebbe ascritta (quantomeno in relazione al
rapporto debitore principale-pubblica amministrazione)
ovvero attingendo ai canoni interpretativi di matrice
civilistica.
Ed infatti, quale che sia l’approccio interpretativo che si
voglia seguire, si deve ritenere che resti in ogni caso
integro il potere-dovere della amministrazione comunale di
applicare le sanzioni pecuniarie per il ritardo nel
pagamento dei contributi di costruzione al semplice
verificarsi delle condizioni previste dalla legge, dovendosi
per contro escludere la sussistenza di un obbligo di
preventiva escussione della garanzia fideiussoria.
5.2 Giova premettere, riguardo alla natura del contributo di
costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda
un’iniziativa edificatoria, che detto contributivo
rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa
pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione.
In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto
nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a
costruire (art. 1 della legge n. 10 del 1977), la ragione
della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da
ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere
di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad
affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del
richiedente il titolo edilizio.
Il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha
natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non
tributario, ed ha carattere generale, prescindendo
totalmente delle singole opere di urbanizzazione che devono
in concreto eseguirsi, venendo altresì determinato
indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario
ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese
effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
In sostanza, le opere di urbanizzazione (per la cui
remunerazione il contributo viene imposto) hanno spesso
portata più ampia rispetto a quelle strettamente necessarie
ad urbanizzare il nuovo insediamento edilizio posto in
essere da chi abbia ottenuto il titolo edilizio ed hanno
quindi sovente natura indivisibile, nel senso che non sono
frazionabili in porzioni funzionali al soddisfacimento delle
esigenze dei singoli nuovi insediati. In ragione di tanto,
per l’esecuzione di dette opere, da realizzare in
conseguenza del fatto edificatorio in sé considerato,
l’amministrazione comunale attinge normalmente alla
fiscalità generale, senza necessariamente attendere il
pagamento del contributo da parte dell’obbligato, e quindi a
prescindere dal suo puntuale adempimento.
Per tale motivo, quand’anche risultino trasfuse in apposita
convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da
parte dell’amministrazione comunale e del privato
intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in
posizione sinallagmatica. Come si è detto, infatti,
l’amministrazione è tenuta ad eseguire le opere di
urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il
comparto ove viene allocato il nuovo insediamento edilizio a
prescindere dal puntuale pagamento del contributo di
costruzione da parte del soggetto che abbia ottenuto il
titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento
del contributo senza poter pretendere la previa
realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Da ciò discende che il soggetto obbligato sia tenuto a
corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei
termini convenuti e che l’amministrazione comunale deve
eseguire le opere di urbanizzazione in coerenza, anche sul
piano temporale, allo sviluppo edilizio del territorio.
5.3 Vale altresì osservare, ancora in via preliminare, come
il contributo di costruzione, quale prestazione patrimoniale
imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere
pubbliche, si collochi pacificamente nell’alveo dei rapporti
di diritto pubblico. Ne è ulteriore riprova il fatto che ,
come si dirà meglio in seguito, il suo mancato pagamento
legittima l’amministrazione all’applicazione di sanzioni
pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo
(art. 42 d.P.R. cit.) e, in caso di persistenza
dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle
sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione
coattiva delle entrate (art. 43 d.P.R. cit.).
5.4 Tali preliminari affermazioni di principio, ad avviso di
questa Adunanza plenaria, non sono senza conseguenze, per le
ragioni che saranno via via esplicitate più avanti, nella
risoluzione nei sensi già indicati del quesito
interpretativo qui all’esame.
5.5 In tale direzione conduce anzitutto l’argomento, di per
sé dirimente, di natura esegetico-letterale,
desumibile dal contenuto delle specifiche disposizioni
normative applicabili alla fattispecie.
Il riferimento è qui sia alla disposizione (art. 16 d.P.R.
cit.) che prevede il meccanismo della prestazione della
garanzia per il caso di pagamento rateale del contributo di
costruzione, sia alla disposizione (art. 42 d.P.R. cit.) che
disciplina le sanzioni per l’omesso o ritardato pagamento.
Orbene, nessuna di tali disposizioni
consente di enucleare elementi letterali da cui desumere,
anche indirettamente, la sussistenza di un onere
collaborativo, o soltanto sollecitatorio dell’adempimento, a
carico della amministrazione creditrice del contributo, una
volta che siano venuti a scadenza i termini per il
pagamento.
In particolare, l’art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380 del
2001, la cui rubrica reca contributo di costruzione prevede
-per quel che qui rileva- che il Comune possa rateizzare, su
richiesta dell’interessato, la quota di contributo relativa
agli oneri di urbanizzazione mentre, per ciò che attiene
alla quota di contributo relativa al costo di costruzione,
la norma (art. 16, comma 3) dispone che la stessa sia
corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie
previste dal Comune.
Pertanto, la fonte normativa che
attribuisce al Comune la facoltà richiedere garanzia
all’intestatario di un titolo edilizio cui sia stato
accordato il beneficio della rateizzazione del contributo di
costruzione (nelle due componenti suindicate) nulla prevede
riguardo all’ipotizzato dovere dell’amministrazione di
attivarsi al più presto per la escussione della garanzia
fideiussoria.
Pertanto, già in base a tale rilievo, appare evidente come
la costruzione interpretativa che enuclea dal sistema
giuridico il suddetto dovere collaborativo in capo
all’amministrazione risulti sfornita di una sicura base
legale.
Ancor più significativo in tal senso il dettato letterale
della disposizione che regola l’applicazione delle sanzioni.
L’art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001 (che riproduce il
contenuto dell’art. 47 della legge 28.02.1985 n. 47) prevede
che “le regioni determinano le sanzioni per il ritardato
o mancato versamento del contributo di costruzione in misura
non inferiore a quanto previsto nel presente articolo e non
superiore al doppio". Dispone più nel dettaglio la norma
che il mancato versamento, nei termini stabiliti, del
contributo di costruzione di cui all'articolo 16 comporta:
a) l'aumento del contributo in misura pari al 10 per cento qualora
il versamento del contributo sia effettuato nei successivi
centoventi giorni;
b) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento quando,
superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si
protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
c) l'aumento del contributo in misura pari al 40 per cento quando,
superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si
protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
Recita ancora la disposizione che le misure di cui alle
lettere precedenti non si cumulano e che, nel caso di
pagamento rateizzato, le norme di cui al secondo comma si
applicano ai ritardi nei pagamenti delle singole rate.
Infine, la norma stabilisce che decorso inutilmente il
termine di cui alla lettera c) del comma 2, il comune
provvede alla riscossione coattiva del complessivo credito
nei modi previsti dall'articolo 43. E che, in mancanza di
leggi regionali che determinino la misura delle sanzioni di
cui al presente articolo, queste saranno applicate nelle
misure indicate nel comma 2.
Di contenuto sostanzialmente analogo la legge regionale
della Valle d’Aosta 06.04.1998 n. 11 (adottata sulla base
della legge 28.02.1985, n. 47 art. 3), applicabile alla
fattispecie di causa, che tuttavia ha graduato diversamente
(in misura più consistente) gli aumenti del contributo
dovuti in relazione al ritardo nel pagamento, determinandoli
nella misura minima del 20% (per il caso di ritardo
contenuto entro il termine di 120 gg. dalla scadenza del
primo termine), nella misura intermedia del 40% (per il caso
di ritardo contenuto entro gli ulteriori 60 gg.) fino a
giungere al 100% del contributo (per ritardi ancora
superiori).
Orbene, anche dalla portata letterale
delle disposizioni che integrano il regime sanzionatorio, si
evince come l’applicazione dell’aumento di contributo sia
correlata al fatto in sé del suo mancato o non puntuale
pagamento da parte dell’obbligato, senza distinzione alcuna,
sul piano delle conseguenze del meccanismo sanzionatorio,
tra l’ipotesi dell’obbligazione del solo debitore e quella
in cui sia stata prestata una garanzia fideiussoria
accessoria per il pagamento del suddetto contributo.
E soprattutto, ciò che appare davvero
dirimente, è che la norma sanzionatoria (nazionale o
regionale) non riconnette rilevanza alcuna ai comportamenti
delle parti diverse dal debitore principale (e cioè della
amministrazione e del fideiussore) antecedenti al
fatto-inadempimento. Ciò che unicamente rileva, nella logica
della norma sanzionatoria, è il semplice mancato pagamento
della rata di contributo imputabile al debitore principale.
L’argomento esegetico-letterale
depone pertanto per l’insussistenza di un dovere di “soccorso”
dell’amministrazione comunale nei confronti del beneficiario
di un titolo edilizio in ritardo nel pagamento del
contributo di costruzione.
Per contro, sempre sulla base del tenore letterale delle
richiamate disposizioni, l’amministrazione
è tenuta, trattandosi di attività vincolata prevista
direttamente dalla fonte normativa di rango primario
(che trova applicazione ove la regione non abbia
diversamente articolato l’entità delle sanzioni nel rispetto
dei parametri fissati dalla legge nazionale),
all’applicazione delle sanzioni alla scadenza dei
termini di pagamento, senza potersi sottrarre al
potere-dovere di aumentare, in funzione sanzionatoria,
l’importo del contributo dovuto.
5.6 Da quanto appena detto discende che
risulta sfornita di base normativa ogni opzione
interpretativa che correli il potere sanzionatorio del
comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del
pagamento presso il debitore principale ovvero presso il
fideiussore.
Ed invero il sistema di pagamento del
contributo di costruzione è caratterizzato dalla presenza
solo eventuale di una garanzia prestata per l’adempimento
del debito principale e di un parallelo strumento a sanzioni
crescenti, con chiara funzione di deterrenza
dell’inadempimento, che trova applicazione, in base alla
legge, al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligato
principale.
In tale sistema, l’amministrazione
comunale, allo scadere del termine originario di pagamento
della rata ha solo la facoltà di escutere immediatamente il
fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo
credito; ma ove ciò non accada, l’amministrazione avrà
comunque il dovere/potere di sanzionare il ritardo nel
pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali
crescenti all’aumentare del ritardo.
Peraltro, solo alla scadenza di tutti
termini fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo
aver applicato le massime maggiorazioni di legge),
l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della
riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore
principale (art. 43 d.P.R. n. 380 del 2001).
La portata di tale ultima disposizione è peraltro tale da
ritenere che l’amministrazione, se pure non
è impedita dallo svolgere attività sollecitatoria dei
pagamenti (senza attingere al rimedio straordinario della
riscossione coattiva) in occasione delle scadenze dei
termini intermedi cui sono correlati gli aumenti percentuali
del contributo secondo il già indicato modello, è certo
facultata ad attendere il volontario pagamento da parte del
debitore (e eventualmente del suo fideiussore), salvo in
ogni caso restando il suo potere-dovere di applicare le
sanzioni di legge per il ritardato pagamento.
Per quanto su evidenziato, deve convenirsi
sul fatto che la lettera della legge sia chiara
nell’assegnare all’amministrazione il potere/dovere di
applicare le sanzioni al verificarsi di un unico presupposto
fattuale, e cioè il ritardo nel pagamento da parte
dell’intestatario del titolo edilizio (o di chi gli sia
subentrato secundum legem).
La stretta osservanza del principio di legalità, imposta
dalla rigorosa applicazione del canone interpretativo-
letterale delle disposizioni richiamate, comporta pertanto
che va ritenuta legittima l’applicazione
delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di
pagamento che siano potute venire all’interessato o al suo
fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo
edilizio.
In definitiva, la facoltà per
l’amministrazione di escutere direttamente il fideiussore
(nei casi, quali quello di specie, in cui non è stato
convenuto il beneficium excussionis)
non può tradursi, in difetto di espressa previsione
normativa, in una decadenza dell’amministrazione dal potere
di sanzionare il pagamento tardivo dell’obbligato, essendo
tale potere incondizionatamente previsto
(allo stato attuale della legislazione)
dall’art. 42 d.P.R. cit.
e dall’art. 72 della legge 06.04.1998 n. 11 della Regione
Valle d’Aosta .
Tali conclusioni risultano coerenti con l’affermazione
secondo cui il principio di legalità che connota l’azione
dei pubblici poteri va letto in una duplice declinazione:
in senso proprio, secondo cui non può darsi esercizio
legittimo di potere senza che sussista una specifica fonte
legislativa legittimante; ma anche nel senso che, ove detta
fonte legislativa sussista e, come nella fattispecie oggetto
di causa, l’esercizio del potere (sanzionatorio) sia
vincolato al verificarsi di taluni presupposti fattuali,
l’amministrazione non potrebbe, dopo aver riscontrato la
ricorrenza delle condizioni previste dalla legge, sottrarsi
legittimamente al suo esercizio.
Ora, in applicazione di tali chiari principi normativi,
il soggetto che abbia omesso o ritardato il
pagamento del contributo di costruzione incorre nelle
sanzioni per ritardato pagamento. Peraltro, il regime
giuridico che connota la genesi e le modalità di riscossione
del contributo de quo esclude che possano essere
configurate ipotesi di non debenza della specifica
prestazione patrimoniale diverse da quelle individuate dal
legislatore (v. in
tal senso, Cons. Stato, sez. V, 20.04.2009, n. 2359).
5.7 Tali considerazioni sarebbero già sufficienti a ritenere
che la corretta soluzione della questione interpretativa sia
quella già individuata dalla giurisprudenza prevalente di
questo Consiglio di Stato (ex multis IV n. 5818 del
2012, IV n. 4320 del 2012 e V n. 777 del 2016), senza che la
soluzione al quesito possa mutare nei casi in cui –quale
quello oggetto di causa- al debitore principale si aggiunga
un ulteriore obbligato (il fideiussore) in funzione di un
rafforzamento della garanzia patrimoniale.
Ove sia costituita a richiesta della amministrazione, la
garanzia fideiussoria, quale obbligazione accessoria di
quella principale, è prestata nell’interesse esclusivo
dell’ente locale, al fine di offrire maggiori garanzie di
soddisfacimento del gettito relativo alla speciale entrata
di diritto pubblico di che trattasi (i.e. il
pagamento del contributo di costruzione) e rappresenta,
ex latere debitoris, l’onere correlato al beneficio
della rateizzazione del pagamento.
Sarebbe paradossale se, in tale situazione
giuridico-fattuale, per effetto del rilascio di una garanzia
fideiussoria in suo favore, l’amministrazione risultasse
privata del potere di sanzionare il ritardo o l’omesso
pagamento del debitore principale se solo abbia mancato di
escutere il fideiussore alla scadenza del termine di
pagamento; altrettanto illogico sarebbe che,
correlativamente, con la stipula della polizza fideiussoria,
il debitore principale possa conseguire un’esimente
speciale, non prevista dalla legge, rispetto
all’applicazione a suo carico delle sanzioni per omesso o
ritardato pagamento (nella misura in cui, così ragionando,
alla scadenza del termine di pagamento, o l’amministrazione
provvede ad escutere tempestivamente il fideiussore o perde
il diritto di applicare le sanzioni di legge).
Si aggiunga che, come correttamente rilevato nella
richiamata sentenza di questo Consiglio di Stato n. 777 del
2016, nei casi –quali quello in esame- di fideiussione con
clausola a prima richiesta non alterante il tipo normativo
di garanzia fideiussoria in senso stretto (e quindi non
assimilabile al cd. contratto autonomo di garanzia),
troverebbe comunque applicazione, sul piano dei principi
generali, l’art. 1942 cod.civ.: a mente del quale la
fideiussione si estende “a tutti gli accessori del debito
principale”, con esclusione tuttavia delle somme dovute
ad altro titolo (quali certamente le sanzioni amministrative
dovute ex lege per il ritardato versamento dei ratei
del contributo di urbanizzazione. In tal senso, Cass.
12.06.2001 n. 7885).
Nel caso di specie, peraltro, l’esclusione della
responsabilità del fideiussore per il pagamento delle
sanzioni risulta poi espressamente esclusa dal tenore
testuale della polizza fideiussoria versata in atti.
Da ciò conseguirebbero difficoltà ulteriori per
l’amministrazione comunale nella riscossione del credito,
ove dovesse predicarsi la sussistenza di una regola
praeter legem che condizionasse la legittimità delle
sanzioni alla previa escussione del fideiussore.
Ed infatti, prima della scadenza del termine di pagamento,
il comune non potrebbe azionare la garanzia; una volta
scaduto il termine, l’ente non potrebbe richiedere al
fideiussore (il quale, per quanto detto, sarebbe tenuto solo
nei limiti del contributo omesso) le maggiorazioni del
contributo dovute a titolo sanzionatorio. Con il risultato
che, ove dovesse accedersi alla tesi del necessario
coinvolgimento del fideiussore, l’amministrazione dovrebbe
indirizzare in senso bidirezionale l’azione esecutiva, non
utilizzando lo strumento normativo ben più rapido ed
efficace che la legge le affida (art. 43 d.P.R. cit),
rappresentato dalla riscossione coattiva di diritto pubblico
nei confronti del solo debitore principale, per tutte le
somme derivanti da contributi omessi o pagati in ritardo e
dalle maggiorazioni dovute ex lege a titolo di
sanzioni pecuniarie.
Tale ulteriore contraddizione dimostra come
debba essere senz’altro preferita la soluzione che esclude
che l’applicazione delle sanzioni di legge possa essere
correlata alla previa escussione della garanzia e come non
sia ragionevolmente esigibile richiedere alla
amministrazione comunale una tale attività supplementare
nell’attuazione del rapporto obbligatorio.
5.8 D’altra parte, gli argomenti utilizzati dalla
giurisprudenza minoritaria di questo Consiglio di Stato,
pur se non scevri di qualche aspetto suggestivo, risultano
tuttavia non utili, ad un più approfondito esame, a
ricostruire la sussistenza del predetto onere collaborativo
a carico della Amministrazione anche sulla base dei principi
desumibili dal diritto civile.
Si è detto che, secondo l’indirizzo giurisprudenziale
minoritario, il problema interpretativo all’esame non può
che risolversi facendo coerente applicazione dei principi
civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti quello
che impone al creditore in buona fede di collaborare con il
debitore ai fini del puntuale adempimento dell’obbligazione.
Osserva l’Adunanza plenaria che, nella fattispecie in esame,
l’applicazione dei canoni civilistici della correttezza e
della buona fede nell’adempimento delle obbligazioni ed in
sede di esecuzione contrattuale (artt. 1175 e 1375 cod.
civ.), ove anche applicati allo speciale rapporto che lega
-in posizione non paritetica- l’Amministrazione che rilascia
il titolo edilizio ed il privato cittadino (cui viene
imposto il pagamento dei relativi oneri) non potrebbe
condurre a conclusioni diverse da quelle fin qui esposte.
Ed invero, anche nei rapporti interprivati, il mancato
pagamento, alla scadenza del termine convenuto, di
un’obbligazione portable da eseguirsi al domicilio
del creditore (nel cui genus rientra pacificamente
l’obbligazione pecuniaria ai sensi dell’art. 1182, comma 2,
cod. civ.) determina ipso facto l’inadempimento del
debitore, il quale è costituito in mora senza necessità di
intimazione o richiesta fatta per iscritto (cfr. art. 1219
cod. civ.).
Non è pertanto esigibile, neanche secondo i canoni del
diritto civile, un onere collaborativo a carico
dell’amministrazione creditrice tale per cui la stessa possa
essere giuridicamente tenuta a sollecitare il pagamento del
credito alla scadenza del termine ovvero ad escutere
tempestivamente (e necessariamente) l’obbligazione
fideiussoria prestata in suo favore. E, d’altra parte, anche
secondo i canoni civilistici, il creditore non è onerato, e
ancor meno obbligato, ad escutere preventivamente il
fideiussore prima di agire nei confronti del debitore (salvo
che non si rinvenga una clausola contrattuale in tal senso).
Per tutte le ragioni già enunciate è da escludere che un
siffatto onere sussista ed è del pari escluso che la sua
ipotizzata genesi possa ricondursi al dovere di correttezza
(art. 1175 cod. civ.) cui devono ispirare il comportamento
il debitore ed il creditore nello svolgimento del rapporto
obbligatorio. Anche il principio relativo all’esecuzione del
contratto secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.) non
risulta correttamente evocato nella fattispecie posto che,
se il debitore è inadempiente alla scadenza del termine
fissato per il pagamento e se, sul piano civilistico, egli
subisce tutte le conseguenze negative derivanti dalla mora
ex re a prescindere dall’eventuale inerzia del
creditore,non sarebbe giuridicamente corretto assimilare
tale semplice inerzia della amministrazione ad un
atteggiamento addirittura contrario a buona fede, in quanto
funzionale all’arricchimento derivante dalle maggiorazioni
del contributo dovuto in applicazione delle sanzioni.
Anche il richiamo al capoverso dell'art. 1227 cod. civ. è
fuorviante e non vale a costituire una valida base giuridica
per l’individuazione di un onere collaborativo della
amministrazione comunale nell’immediata attuazione del
rapporto obbligatorio onde non aggravare la posizione del
debitore.
Ed invero viene qui facile osservare come la maggiorazione
del contributo di costruzione in ragione del ritardo nel
pagamento prevista dal richiamato art. 42 d.P.R. n. 380 del
2001 (e dalle analoghe disposizioni normative precedenti)
non ha natura risarcitoria o corrispettiva, bensì di
sanzione pecuniaria nascente al momento in cui diviene
esigibile la sanzione principale.
Orbene, l'onere di diligenza che la appena richiamata
disposizione del codice civile, ispirata a principi di
solidarietà sociale, fa gravare sul creditore si inscrive
nella ben distinta fattispecie del concorso del fatto
colposo del creditore nella causazione di un danno.
Nel caso in esame, non sarebbe corretto sul piano giuridico
configurare alla stregua di un fatto colposo la mancanza di
sollecitudine della amministrazione creditrice nell’agire a
tutela del proprio credito (in senso non diverso, Corte
cost. n. 308 del 1999). Del pari non corretta sarebbe
l’assimilazione delle sanzioni pecuniarie derivanti ex
lege dal mancato pagamento imputabile esclusivamente al
debitore ai danni che il creditore avrebbe potuto evitare
usando l’ordinaria diligenza.
5.9 Per ragioni non dissimili da quelle fin qui enunciate
non merita condivisione, a parere di questa Adunanza
plenaria, l’orientamento giurisprudenziale che potrebbe
definirsi intermedio e di cui ha dato conto l’ordinanza
di rimessione.
Secondo tale approccio interpretativo, la sanzione per il
ritardo potrebbe essere applicata nella misura minima
soltanto in relazione al mancato pagamento della rata di
contributo entro i primi 120 giorni dalla data di scadenza
(secondo quanto dispone l’art. 42, comma 2, lett. a), del
d.P.R. n. 380 del 2001).
Solo a seguito dello spirare di tale prima scansione
temporale (nel cui ambito soltanto sarebbe legittima
l’applicazione della sanzione nella percentuale minima
prevista dalla legge nazionale e, ove esistente, dalla legge
regionale) diverrebbe esigibile l’onere per
l’amministrazione di escutere il fideiussore con la
conseguenza che, in difetto, la stessa amministrazione non
avrebbe titolo per sanzionare l’ulteriore ritardo nel
pagamento da parte del debitore principale.
L’Adunanza rileva come anche tale soluzione interpretativa
non sia condivisibile atteso che la stessa:
- non risulta fondata su salde basi normative ed anzi si risolve in
un’inammissibile disapplicazione delle disposizioni
normative nazionali e regionali che, come si è detto,
correlano l’applicazione delle sanzioni al manifestarsi del
semplice ritardo ovvero dell’omesso pagamento del contributo
di costruzione (quali unici presupposti fattuali);
- è in sé non ragionevole, posto che sterilizza il potere
sanzionatorio dell’amministrazione proprio in relazione ai
ritardi più significativi, cui il legislatore riserva un
trattamento sanzionatorio più severo;
- individua un onere di soccorso a carico della Amministrazione,
sia pure allo scadere del primo periodo di inadempimento
protrattosi per 120 giorni, che non solo non è nella legge
ma che, per quanto già detto, non sarebbe neppure
correttamente desumibile in applicazione dei principi di
buona fede e correttezza che governano le obbligazioni ed i
contratti di diritto civile ovvero, per analoghe ragioni,
del principio di leale collaborazione proprio dei rapporti
intersoggettivi di diritto amministrativo.
Peraltro, anche l’argomento della strumentalità della pronta
escussione del fideiussore in funzione della rapida
acquisizione nelle casse comunali del contributo di
costruzione per l’esecuzione delle opere pubbliche è
smentito dalla già evidenziata natura non sinallagmatica
delle distinte prestazioni della parte pubblica e di quella
privata (sul punto v. supra, par. 5.2).
Anche in ragione di tanto, e cioè del rapporto non
corrispettivo delle prestazioni delle parti, non sarebbe
esigibile a carico dell’amministrazione un onere di verifica
riguardo al puntuale pagamento, nel rispetto delle scadenze
fissate per le singole rate, del contributo di costruzione
(nelle suindicate sue componenti), né sarebbe esigibile la
tempestiva escussione della garanzia fideiussoria pena,
altrimenti, la decadenza dal potere sanzionatorio.
Un’opzione interpretativa di tale portata si porrebbe
infatti in contrasto, oltre che con il principio di legalità
(nei sensi dianzi indicati), anche con il principio
costituzionale del buon andamento, attese le difficoltà
oggettive cui andrebbero incontro i comuni (specie quelli di
grandi dimensioni) nell’attivare tempestivamente le attività
propedeutiche alla sollecitazione dei pagamenti dei
contributi di costruzione alla scadenza delle singole rate.
5.10 In definitiva, per tutte le suesposte ragioni,
l’Adunanza plenaria ritiene di poter concludere, per quanto
di sua competenza, con l’affermazione del seguente principio
di diritto: <<Un’amministrazione
comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti
dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione
pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo
ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al
contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento
dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la
garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei
singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di
svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il
debitore principale>>.
Ai fini della risoluzione delle ulteriori questioni
controverse (i.e., determinazione della fine dei
lavori e corretta imputazione dei pagamenti eseguiti),
anch’esse incidenti sulla legittimità dell’atto oggetto del
ricorso di primo grado, nonché ai fini della definizione
dell’intero giudizio alla luce del principio di diritto in
questa sede espresso dalla Adunanza plenaria, le parti sono
rimesse dinanzi alla Sezione quarta del Consiglio di Stato,
cui vanno restituiti gli atti per ogni ulteriore
statuizione, in rito, nel merito e sulle spese anche di
questa fase di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza
Plenaria) non definitivamente pronunciando sul ricorso, come
in epigrafe proposto:
a) formula il principio di diritto di cui in motivazione;
b) restituisce gli atti alla Sezione IV del Consiglio di Stato per
ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese
del giudizio (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 07.12.2016 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
09.12.2016
- LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Per il nuovo codice il patrocinio legale è un
appalto di servizi.
Le attività di rappresentanza legale in giudizio sono
appalti di servizi, compresi tra quelli esclusi
dall'applicazione del codice dei contratti ma assoggettati
al rispetto dei principi dell'ordinamento comunitario.
L'Autorità nazionale anticorruzione fornisce con il
Parere
sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP
una prima indicazione interpretativa sulla qualificazione
del patrocinio legale alla luce delle previsioni contenute
nel Dlgs 50/2016.
Tra vecchie e nuove regole
L'Anac ricostruisce il quadro formatosi nell'ordinamento
previgente, che aveva condotto alla qualificazione del
patrocinio come contratto di prestazione d'opera
intellettuale, pertanto interamente sottratto alle regole
del Dlgs 163/2006, quindi delinea l'impatto delle nuove
disposizioni.
Rilevando come il nuovo codice dei contratti abbia mantenuto
i servizi legali tra quelli (elencati nell'Allegato IX) cui
si applica il regime alleggerito delineato dagli articoli
140 e seguenti, l'Autorità evidenzia come l'articolo 17 del
Dlgs 50/2016, recependo l'articolo 10 della direttiva
2014/24/Ue, abbia annoverato tra gli appalti esclusi
dall'applicazione del Codice gli appalti di servizi
concernenti cinque tipologie di servizi legali.
In questa classificazione, definita dalla lettera d) dello
stesso articolo 17, rientrano infatti la rappresentanza
legale di un cliente da parte di un avvocato in un arbitrato
o in una conciliazione nonché in procedimenti giudiziari
dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche.
I princìpi applicabili
Secondo l'Anac, la disposizione del Dlgs 50/2016, pur volta
a sottrarre dall'ambito oggettivo di applicazione del codice
alcuni servizi legali, vale tuttavia a qualificare il
patrocinio legale come un appalto di servizi.
La riconducibilità del patrocinio legale tra gli appalti di
servizi (benché esclusi dall'ambito di applicazione del
nuovo codice) comporta il necessario rispetto dei principi
generali che informano l'affidamento degli appalti pubblici,
esplicitati nell'articolo 4 del Dlgs 50/2016, e la
conseguente impossibilità di procedere attraverso
affidamenti fiduciari.
Per l'applicazione dei principi dell'ordinamento comunitario
l'Anac richiama la
Comunicazione interpretativa della
Commissione Ue 2006/C-179/02, nella quale si stabilisce che
la stazione appaltante deve garantire una procedura di
aggiudicazione equa e imparziale, nonché con adeguata
pubblicizzazione.
La comunicazione interpretativa richiede che siano garantiti
l'uguaglianza di accesso per gli operatori economici di
tutti gli Stati membri, termini adeguati per la
presentazione della manifestazione d'interesse o
dell'offerta e un approccio trasparente e oggettivo, in modo
che tutti i concorrenti conoscano in anticipo le regole
applicabili e abbiano la certezza che tali regole saranno
applicate nello stesso modo a tutti gli operatori.
L'Anac, rilevando come la finalità perseguita con
l'applicazione dei principi dell'ordinamento comunitario sia
l'apertura del mercato alla concorrenza, evidenzia come la
Commissione ammetta espressamente che le amministrazioni
aggiudicatrici possono prevedere di applicare sistemi di
qualificazione, come la redazione di un elenco di operatori
qualificati mediante una procedura trasparente e aperta
oggetto di adeguata pubblicità da cui selezionare, su una
base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati
a presentare offerta.
L'iscrizione all'elenco
Rispetto a questo quadro l'Autorità precisa (richiamando le
proprie linee-guida sugli affidamenti sottosoglia) che
l'iscrizione all'elenco dei soggetti interessati provvisti
dei requisiti richiesti dovrebbe essere consentita senza
limitazioni temporali e di numero (massimo) degli avvocati,
in quanto incidenti sulla concorrenza.
In relazione ai requisiti per l'iscrizione al sistema di
qualificazione, l'Anac evidenzia come in capo ai soggetti
interessati non debbano sussistere i motivi di esclusione
previsti dall'articolo 80 del codice, nonché distingue
nettamente tra il potenziale conflitto di interessi regolato
dall'articolo 42 del Dlgs 50/2016 (che deve essere
verificato caso per caso e non impedisce l'iscrizione) e
quello disciplinato dall'articolo 24 del Codice deontologico
forense, in quanto si tratta di una causa di esclusione che
recepisce il principio di prevenzione dei conflitti tra
interessi contrapposti.
Tale disposizione, infatti, impone all'avvocato di astenersi
dal prestare attività professionale quando questa possa
determinare un conflitto con gli interessi della parte
assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di
altro incarico anche non professionale, risultando quindi
ostativa, quando sussistente, all'iscrizione in un elenco
dell'amministrazione (articolo Quotidiano Enti Locali &
PA dell'08.12.2016).
---------------
MASSIMA
Servizi legali – patrocinio legale – appalto di
servizi – esclusione dall’ambito oggettivo di applicazione
del Codice – rispetto dei principi generali dell’art. 4 del
d.lgs. n. 50/2016 – elenco di professionisti per
l’affidamento di incarichi di rappresentanza e difesa in
giudizio.
Il patrocinio legale è un appalto di servizi escluso
dall’ambito di applicazione del Codice e va affidato nel
rispetto dei principi di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 50 del
2016.
Non è conforme ai richiamati principi l’affidamento tramite
elenco di professionisti per il quale è congiuntamente
previsto un numero massimo di iscritti, un termine di 60 gg.
per la presentazione delle richieste di iscrizione e la
durata triennale dell’iscrizione.
Articoli 4 e 17 del d.lgs. 50/2016.
---------------
Considerato in fatto
Con nota acquisita al prot. n. 108546 del 14.07.2016,
Equitalia S.p.A. ha chiesto all’Autorità di esprimere il
proprio avviso su alcuni profili dell’adottando sistema di
affidamento di incarichi di rappresentanza e difesa in
giudizio tramite costituzione di elenco di professionisti,
al fine di verificarne il rispetto dei principi fondamentali
della normativa europea in materia di appalti, ai sensi
dell’art. 41 del d.lgs. n. 50 del 2016, in quanto servizi
esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del Codice.
Il “Regolamento per la costituzione dell’elenco dei
professionisti per l’affidamento di incarichi di
rappresentanza e difesa in giudizio da parte delle società
del gruppo Equitalia", che l’istante è in procinto di
emanare, disciplina la costituzione dell’elenco e ne
stabilisce i requisiti e i criteri per l’iscrizione, le
modalità di utilizzo e di eventuale aggiornamento.
In estrema sintesi, il sistema prevede la formazione di un
elenco, di durata triennale -strutturato in sei sezioni,
ciascuna con un numero massimo di iscritti- tramite
l’iscrizione dei soggetti in possesso dei requisiti
richiesti (paragrafo 6) «fino al raggiungimento del
numero massimo dei soggetti iscrivibili per ciascuna
sezione/area geografica dell’Elenco» ed, eventualmente,
tramite sorteggio pubblico, nel caso in cui il numero delle
domande ammesse sia superiore al numero massimo dei soggetti
iscrivibili per ciascuna sezione/area geografica (paragrafi
4 e 5).
Il Regolamento dispone che l’affidamento degli incarichi
agli iscritti nell’Elenco, cui si può ricorrere solo dopo «l’avvenuto
accertamento preliminare dell’impossibilità oggettiva di
utilizzare dipendenti interni» (paragrafo 3), avvenga
sulla base del criterio di rotazione, derogabile solo in
alcune ipotesi predefinite, di modo che «i professionisti
potranno essere destinatari di un nuovo affidamento solo una
volta che sia stato completato il giro di rotazione»
(paragrafo 7).
Più in dettaglio, il paragrafo 5 dedicato alla struttura
dell’Elenco, dopo avere chiarito che «l’inserimento
nell’Elenco non comporta l’attribuzione di alcun diritto e/o
interesse del professionista in ordine a eventuali
conferimenti di incarichi né conseguentemente, l’assunzione
di alcun obbligo da parte delle Società del Gruppo»,
precisa che, con esclusivo riferimento alla sezione V.a
(contenzioso della riscossione che include tutte le Autorità
Giudiziarie competenti in materia di contenzioso della
riscossione con esclusione della Corte di Cassazione), «si
stima che ad ogni professionista potranno essere affidati un
numero annuo di incarichi pari a circa centocinquanta per un
compenso stimato pari a circa 35.000 euro oltre accessori»,
con l’ulteriore precisazione che, «trattandosi di una
stima, il numero degli incarichi e l’importo dei compensi
potrà variare a seconda delle effettive esigenze del Gruppo
Equitalia».
Il primo quesito verte sulla conformità ai principi
di cui all’art. 4 del Codice, con particolare riferimento ai
principi di proporzionalità, economicità, imparzialità e
parità di trattamento, della previsione di un numero annuo
medio di incarichi e di un compenso minimo.
Il paragrafo 4 del Regolamento prevede che sia pubblicato un
avviso sul profilo del committente per 60 giorni, termine
entro il quale gli interessati devono presentare le domande
di iscrizione all’Elenco. Il paragrafo 5 individua le
sezioni in cui è articolato l’Elenco, una delle quali è
ulteriormente suddivisa in sottosezioni geografiche, e il
numero massimo di iscritti per ogni sezione e sottosezione.
Con il secondo quesito, l’istante chiede se la
previsione di un elenco aperto solo per un periodo
predeterminato, unitamente alla previsione di un numero
massimo di iscritti per ciascuna sezione (che l’istante
valuta proporzionato all’entità del contenzioso e al numero
di incarichi tale da assicurare la remuneratività dei
servizi legali affidati), risponda ai principi di cui
all’art. 4 del Codice.
Il paragrafo 6 elenca i requisiti di carattere generale e
speciale che devono essere posseduti ai fini dell’iscrizione
nell’Elenco. Tra questi,
(a) inesistenza di cause di incompatibilità con lo svolgimento
dell’incarico professionale affidato e di situazioni anche
potenziale di conflitti di interesse (è vietato
l’affidamento dell’incarico a familiari, entro il secondo
grado, di dipendenti del Gruppo Equitalia assegnati alle
strutture del contenzioso);
(b) non avere in corso, in qualità di difensore di altre parti, il
patrocinio per cause promosse contro le Società del Gruppo,
Agenzia delle Entrate e INPS;
(c) avere conseguito negli ultimi tre anni solari un volume di
affari pari ad almeno 120.000 euro di cui la quota
costituita da servizi resi al Gruppo Equitalia non potrà
essere superiore al 30% del volume d’affari complessivo;
(d) avere conseguito negli ultimi tre anni solari un fatturato
specifico in attività analoghe a quelle oggetto della
specifica sezione per la quale si chiede l’iscrizione pari
ad almeno 50.000,00 euro, ovvero, ai soli fini
dell’iscrizione nelle sezioni V.a (contenzioso della
riscossione che include tutte le Autorità Giudiziarie
competenti in materia di contenzioso della riscossione con
esclusione della Corte di Cassazione) e V.b (contenzioso
della riscossione davanti alla Corte di Cassazione), avere
svolto almeno 50 incarichi in attività analoghe;
(e) avere svolto nell’ultimo anno solare almeno tre incarichi in
attività analoghe a quelle oggetto della specifica sezione
per la quale si chiede l’iscrizione:
(f) possesso di adeguata polizza assicurativa a copertura dei
rischi derivanti dall’attività professionale con impegno del
professionista ad adeguare il massimale ove richiesto, o, in
alternativa, possesso di una polizza di “responsabilità
professionale” con massimale non inferiore a 2 milioni
di euro.
Il terzo quesito verte sulla conformità ai principi
di cui all’art. 4 del Codice dei requisiti sopra indicati
e,con particolare riferimento al requisito di cui alla
lettera (a) –cause di incompatibilità e conflitti di
interesse– è volto a verificare se esso non introduca una
restrizione della libertà di iniziativa economica
incompatibile con i principi di proporzionalità, efficacia,
imparzialità e parità di trattamento. Viene inoltre chiesto
se l’eventuale previsione di una polizza assicurativa con
massimale non inferiore a 2 milioni di euro sia
proporzionale al compenso minimo stimato di 35.000,00 euro.
Il paragrafo 7 prevede che non saranno conferiti incarichi
ai professionisti iscritti nell’Elenco per i quali dovessero
risultare cartelle di pagamento complessivamente di importo
superiore a 1.000,00 euro per le quali risulti morosità.
Con il quarto quesito l’istante chiede l’avviso
dell’Autorità in ordine al rispetto dei principi di cui
all’art. 4 del Codice della richiamata previsione, tenuto
conto che essa introduce una disciplina più stringente
rispetto alla specifica causa di esclusione di cui all’art.
80, comma 4, del Codice.
Ritenuto in diritto
L’analisi dei singoli quesiti presuppone la sintetica
ricostruzione del quadro normativo di riferimento inerente
l’affidamento dei servizi legali e, in particolare, del
patrocinio legale, che, con l’entrata in vigore del nuovo
Codice, appare significativamente mutato.
Sotto la vigenza del d.lgs. n. 163/2006, i servizi legali,
in quanto ricompresi nell’Allegato IIB, erano sottratti alla
disciplina puntuale del Codice, se non per gli articoli 65,
68 e 225, ed erano soggetti al regime di affidamento
semplificato risultante dal combinato disposto dell’art. 20
e dell’art. 27.
Tuttavia, parte della giurisprudenza distingueva dalla
categoria generale dei servizi legali l’incarico di
patrocinio legale conferito singolarmente, ritenendo
sussistente una differenza ontologica tra l’attività di
assistenza e consulenza giuridica, caratterizzata dalla
presenza di una specifica organizzazione -riconducibile ad
un servizio oggetto di appalto affidabile tramite procedura
ad evidenza pubblica- e il conferimento del singolo incarico
di patrocinio legale, ritenuto integrante un contratto
d’opera intellettuale e quindi non rientrante nell’ambito
oggettivo di applicazione della disciplina codicistica in
materia di appalti.
Veniva conseguentemente ritenuto che la scelta fiduciaria
del patrocinatore legale fosse esclusivamente soggetta ai
principi generali dell’azione amministrativa in materia di
imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V,
sentenza 11.05.2012 n. 2730).
La stessa Autorità, nella
determinazione
07.07.2011 n. 4, aveva
ritenuto che il patrocinio legale, cioè il contratto volto a
soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa
giudiziale del cliente, fosse inquadrabile nell’ambito della
prestazione d’opera intellettuale, in base alla
considerazione per cui il servizio legale, per essere
oggetto di appalto, richieda qualcosa in più, “un quid
pluris per prestazione o modalità organizzativa” (cfr.
Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la
Basilicata, deliberazione n. 19/2009/PAR).
Il nuovo Codice dei contratti ha mantenuto i “servizi
legali” tra quelli - elencati nell’Allegato IX - cui si
applica il regime alleggerito delineato dagli artt. 140 e
ss.
L’art. 17 del d.lgs. n. 50/2016,
tuttavia, recependo l’art. 10 della dir. 2014/24/UE, ha
annoverato tra gli appalti esclusi dall’applicazione del
Codice gli appalti di servizi concernenti cinque tipologie
di servizi legali, tra cui, alla lettera d), n. 1), la
rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato
ai sensi dell’art. 1 della legge 09.02.1982, n. 31, (1.1 in
un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato
membro dell’Unione europea, un paese terzo o dinanzi a
un’istanza arbitrale o conciliativa internazionale; 1.2 in
procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o
autorità pubbliche di uno Stato membro dell’Unione europea o
un Paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o
istituzioni internazionali).
La richiamata disposizione, volta a sottrarre dall’ambito
oggettivo di applicazione del Codice taluni servizi legali,
vale tuttavia a qualificare il patrocinio legale
(sicuramente identificabile nella richiamata lettera d), n.
1), dell’art. 17, comma 1), come un appalto di servizi. La
riconducibilità del patrocinio legale tra gli appalti di
servizi (benché esclusi dall’ambito di applicazione del
Codice) comporta il necessario rispetto dei principi
generali che informano l’affidamento degli appalti pubblici,
esplicitati nell’art. 4 del d.lgs. n. 50/2016, e la
conseguente impossibilità di procedere attraverso
affidamenti fiduciari.
I principi generali che presiedono all’affidamento dei
contratti pubblici sono richiamati nel considerando n. (1)
della direttiva 2014/24/UE che sancisce la necessità che
l’aggiudicazione degli appalti pubblici da o per conto di
autorità degli Stati membri rispetti i principi del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea e in particolare la
libera circolazione delle merci, la libertà di stabilimento
e la libera prestazione di servizi, nonché i principi che ne
derivano, come la parità di trattamento, la non
discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità
e la trasparenza.
L’assunto è recepito dal legislatore nazionale nel combinato
disposto dell’art. 30, comma 1, e dell’art. 4 del d.lgs. n.
50/2016 dove, con riferimento agli appalti e alle
concessioni soggette al Codice (art. 30) e ai contratti
esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione
oggettiva del Codice (art. 4), sono fissati i principi
discendenti dal TFUE che devono presiedere all’affidamento.
Fondamentali indicazioni, anche operative, circa
l’applicazione dei richiamati principi nel caso di
affidamento di contratti esclusi dall’applicazione delle
direttive sono stati fornite dalla Commissione europea nella
Comunicazione interpretativa 2006/C 179/02.
Con specifico riferimento alle procedure di aggiudicazione
dell’appalto, cui si riferiscono i primi due quesiti, la
Commissione ha chiarito che, a corollario dell’obbligo di
garantire una pubblicità trasparente, la stazione appaltante
deve garantire una procedura di aggiudicazione equa e
imparziale. Nella specie, secondo le indicazioni della
Commissione, occorre garantire, tra le altre, l’uguaglianza
di accesso per gli operatori economici di tutti gli Stati
membri, termini adeguati per la presentazione della
manifestazione d’interesse o dell’offerta e un approccio
trasparente e oggettivo, di modo che tutti i concorrenti
conoscano in anticipo le regole applicabili e abbiano la
certezza che tali regole saranno applicate nello stesso modo
a tutti gli operatori. La finalità perseguita è l’apertura
del mercato alla concorrenza.
Circa le modalità pratiche attraverso cui dare attuazione ai
richiamati principi, la Commissione ammette espressamente
che le amministrazioni aggiudicatrici possono prevedere di
applicare sistemi di qualificazione, ovvero «la redazione di
un elenco di operatori qualificati mediante una procedura
trasparente e aperta oggetto di adeguata pubblicità» da cui
selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori
che saranno invitati a presentare offerta.
Rientra nella descritta tipologia il sistema di selezione
che l’istante ha deliberato di adottare.
La peculiarità dell’elenco in esame risiede nel fatto che
Equitalia ha fissato per ciascuna sezione dell’elenco un
numero massimo di iscritti. Tale numero massimo, nel caso
della sezione V.a, risulta calcolato, sulla base dei dati
storici, in modo da garantire tendenzialmente l’affidamento
di un numero annuo di incarichi pari a circa centocinquanta
per un compenso stimato pari a circa 35.000 euro oltre
accessori. A corollario del sistema, il regolamento prevede
che le richieste di iscrizione all’elenco possano essere
presentate solo nell’arco dei 60 giorni durante i quali
l’avviso è pubblicato sul profilo del committente e che
l’elenco ha durata triennale.
Al riguardo, si osserva che la combinazione delle richiamate
disposizioni (numero massimo degli iscritti, termine di 60
gg. per la presentazione dell’istanza e durata triennale
dell’iscrizione) determina un indubbio effetto restrittivo
della concorrenza finendo per comprimere l’effettiva
contendibilità dell’affidamento del servizio di patrocinio
legale da parte dei soggetti potenzialmente interessati.
L’iscrizione dei soggetti interessati provvisti dei
requisiti richiesti dovrebbe essere consentita senza
limitazioni temporali (cfr. proposta di Linee guida
Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di
importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria,
indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di
operatori economici). Qualora le difficoltà gestionali
paventate dall’istante legate al rilevante numero di domande
che verosimilmente potrebbero essere ricevute si rivelassero
non superabili attraverso l’adozione di opportune misure
organizzative, l’effetto restrittivo derivante dalla
limitazione temporale della presentazione delle istanze
dovrebbe essere contemperato dalla riduzione del termine di
validità dell’iscrizione, che potrebbe essere portata a un
anno, in modo da rendere più frequenti le finestre temporali
entro le quali i soggetti qualificati possono manifestare
l’interesse all’iscrizione nell’elenco (60 giorni ogni anno
e non 60 giorni ogni tre anni).
Quanto alla limitazione del numero dei soggetti che possono
iscriversi a ciascuna sezione dell’Elenco, si tratta di una
misura tendenzialmente contraria all’interesse
dell’amministrazione che dovrebbe, in linea di principio,
tendere a poter disporre della platea più ampia possibile di
soggetti qualificati tra cui selezionare, in questo caso
sulla base del criterio di rotazione, gli affidatari del
servizio.
L’imposizione di un numero massimo di iscritti, inoltre, è
di fatto limitativa della concorrenza perché equivale a
contingentare il numero dei soggetti che possono accedere ad
un sistema di qualificazione prodromico all’affidamento di
servizi. Non pare neppure sostenibile che la misura in esame
possa essere legittimata dall’intento di “garantire”
a ciascun professionista qualificato un certo numero di
incarichi annuo, trattandosi di una logica estranea (e
contraria) ai principi informatori –concorrenza e par
condicio su tutti– dell’affidamento dei contratti pubblici.
Il terzo e il quarto quesito riguardano i
requisiti generali e speciali richiesti ai fini
dell’iscrizione nell’Elenco.
Al riguardo, si evidenzia che costituisce ius receptum il
principio secondo cui tutti i soggetti che a qualunque
titolo concorrono all’esecuzione di appalti pubblici devono
essere in possesso dei requisiti di moralità previsti dal
Codice dei contratti. Il possesso di inderogabili requisiti
di moralità rappresenta un fondamentale principio di ordine
pubblico economico che trova applicazione anche nelle gare
riguardanti appalti in tutto o in parte esclusi
dall’applicazione del Codice (Parere
sulla Normativa 11.07.2012 - rif. AG 10/12,
Parere sulla Normativa 03.07.2013 - rif. AG 8/13,
Parere di Precontenzioso 17.07.2013 n. 128 - rif. PREC
119/13/F,
Parere di Precontenzioso 29.07.2014 n. 14 - rif. PREC
56/14/S).
Vi è infatti l’imprescindibile esigenza che il soggetto che
contratta con la pubblica amministrazione sia affidabile e
quindi in possesso dei requisiti di carattere generale
attualmente tipizzati dall’art. 80 del d.lgs n. 50/2016. Se
dunque, nell’ambito delle richiamate procedure, la stazione
appaltante può non esigere il medesimo rigore formale di cui
all’art. 80 e gli stessi vincoli procedurali, essa ha
comunque l’obbligo di verificare in concreto il possesso da
parte dei concorrenti dei requisiti di moralità indicati
nell’art. 80.
Si rileva, inoltre, che la giurisprudenza ha precisato, con
riferimento al previgente Codice ma sulla base di principi
applicabili anche alla vigente normativa, «che nessuna
delle norme del codice dei contratti pubblici (…) sembra
impedire alle Amministrazioni che, come nel caso in esame,
intendono predisporre un elenco di operatori economici da
interpellare per procedure negoziate per l’affidamento di
lavori di subordinare l’inserimento dei candidati
nell'elenco stesso al possesso dei requisiti soggettivi di
cui all’art. 38, comma 1, del predetto codice( …); un
anticipato accertamento (rispetto alle singole procedure)
del possesso dei requisiti in questione non solo non è
espressamente vietato, ma anzi può risultare utile a
prevenire il rischio per le Amministrazioni pubbliche di
intrattenere rapporti o comunque di entrare in contatto con
soggetti nei cui confronti sussistono cause ostative alla
partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica e alla
stipulazione dei relativi contratti; ferma comunque la
necessità di operare puntuali verifiche nei confronti dei
soggetti inclusi nell’elenco in occasione delle specifiche
procedure per cui siano interpellati» (TAR Toscana, Sez.
I,
sentenza 24.03.2011 n. 498).
Se dunque appare corretta la richiesta dell’insussistenza
dei motivi di esclusione di cui all’art. 80, la richiesta di
ulteriori requisiti va vagliata alla luce del principio
generale di tassatività della cause di esclusione.
Con riferimento al requisito dell’insussistenza di cause di
incompatibilità con lo svolgimento dell’incarico
professionale affidato e di situazioni anche potenziali di
conflitto di interesse (di cui alla lettera (a) del
richiamato elenco), si rappresenta che il comma 5, lett. d),
dell’art. 80 reca già la disciplina delle indicate
fattispecie prevedendo il divieto di partecipazione alla
gara dell’operatore economico qualora determini una
situazione di conflitto di interesse ai sensi dell’art. 42,
comma 2, non sia diversamente risolvibile.
L’art. 42, comma 2, definisce il conflitto di interesse come
la situazione in cui il personale di una stazione appaltante
che interviene nello svolgimento della procedura di
aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può
influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha,
direttamente o indirettamente, un interesse finanziario,
economico o altro interesse personale che può essere
percepito come una minaccia alla sua imparzialità e
indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di
concessione.
In particolare, costituiscono situazione di conflitto di
interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione
previste dall’art.
7 del d.P.R. 16.04.2013, n. 62, ovvero i casi in
cui l’adozione di decisioni o ad attività possono
coinvolgere interessi del dipendente, ovvero di suoi
parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di
conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di
frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od
organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa
pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito
significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui
sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti,
associazioni anche non riconosciute, comitati, società o
stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o
dirigente.
Qualora ciò si verifica, l’art. 42, comma 3, impone
l’obbligo di astensione del personale dalla partecipazione
alla procedura di aggiudicazione.
Pertanto l’operatività
della causa di esclusione di cui al comma 5, lett. d),
dell’art. 80 scatta unicamente quando la situazione di
conflitto di interessi non sia risolvibile o non sia risolta
tramite la misura prevista dall’art. 42 di astensione del
personale della stazione appaltante coinvolto in tale
situazione.
Ritenuto dunque che, alla luce della disciplina dell’art.
80, peraltro richiamata dal Regolamento in esame, il
conflitto di interessi porta all’esclusione del concorrente
solo come extrema ratio, si reputa che la clausola
del Regolamento che sancisce il divieto di partecipazione
nei casi di conflitto di interesse anche potenziale, oltre a
contrastare con il comma 5, lett. d), dell’art. 80, violi i
principi di proporzionalità e parità di trattamento di cui
all’art. 4 del Codice.
Diverso è il caso del requisito di cui alla lettera (b) del
richiamato elenco (non avere in corso, in qualità di
difensore di altre parti, il patrocinio per cause promosse
contro le Società del Gruppo, Agenzia delle Entrate e INPS),
trattandosi di causa di esclusione che recepisce il
principio di prevenzione dei conflitti tra interessi
contrapposti sancito dal Codice deontologico forense -che
impone all’avvocato di astenersi dal prestare attività
professionale quando questa possa determinare un conflitto
con gli interessi della parte assistita e del cliente o
interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non
professionale (art. 24)- e che dunque è connaturato alla
peculiare qualifica professionale degli operatori economici
interessati alla procedura di selezione in esame.
Quanto al requisito dell’insussistenza di cartelle di
pagamento complessivamente di importo superiore a 1.000,00
euro per le quali risulti morosità (dove per morosità si
intende la sussistenza di cartella di pagamento o avviso di
accertamento esecutivo o avviso di addebito scaduto ed
impagato per debiti complessivi superiori a 1.000,00 euro),
si rappresenta che il “livello di moralità” che il
contraente con la pubblica amministrazione deve possedere è
già stato stabilito dal legislatore, per ciò che concerne la
regolarità contributiva, con i parametri di cui al
comma 4
dell’art. 80. Richieste più stringenti, se non previste da
altre disposizioni di legge vigenti, sono da ritenersi
sproporzionate e lesive della par condicio.
Infine, per ciò che concerne i requisiti speciali, si
evidenzia che le stazioni appaltanti, anche nel caso di
appalti esclusi, hanno facoltà di richiedere, nel rispetto
dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, requisiti
minimi di idoneità tecnica ed economica, anche diversi da
quelli previsti dal Codice, al fine di garantire un
determinato livello di affidabilità dell’aggiudicatario sul
piano economico-finanziario e tecnico-organizzativo (Parere
sulla Normativa 27.05.2015 - rif. AG 37/2015/AP).
Deve ovviamente trattarsi di requisiti individuati «tenendo
conto della natura del contratto ed in modo proporzionato al
valore dello stesso; in ogni caso, detti requisiti non
devono essere manifestamente irragionevoli, irrazionali,
sproporzionati, illogici ovvero lesivi della concorrenza»
(determinazione
10.10.2012 n. 4). Alla stregua dei richiamati
parametri, il requisito di cui alla lettera (c) del
richiamato elenco (volume di affari negli ultimi tre anni di
120.000,00 euro) potrebbe apparire sproporzionato e
potenzialmente discriminatorio nei confronti di soggetti che
abbiano maturato una esperienza specifica nel settore del
contenzioso della riscossione che, per stessa ammissione
dell’istante, è caratterizzato da elevata numerosità degli
incarichi con compensi non rilevanti.
Il Consiglio
ritiene, nei limiti di cui in motivazione, che:
●
il patrocinio legale è un appalto di servizi escluso
dall’ambito di applicazione del Codice e va affidato nel
rispetto dei principi di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 50 del
2016.
Non è conforme ai richiamati principi l’affidamento tramite
elenco di professionisti per il quale è congiuntamente
previsto un numero massimo di iscritti, un termine di 60 gg.
per la presentazione delle richieste di iscrizione e la
durata triennale dell’iscrizione
(Parere
sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP
- link a www.anticorruzione.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Codice
appalti, due strade per i servizi degli avvocati. Alcuni
dicono che serve una mini gara, altri sostengono
l'affidamento diretto dell'incarico.
La nuova disciplina dei contratti pubblici sulla
rappresentanza e difesa in giudizio della p.a..
Pasticciaccio sugli incarichi agli avvocati da parte delle
p.a. dopo il nuovo codice degli appalti. C'è chi dice che
bisogna fare una mini gara perché sono contratti di appalto,
anche se si escludono le procedure più pesanti (gara
pubblica) e c'è chi dice che è un contratto d'opera,
assolutamente estraneo al campo di applicazione del codice
dei contratti pubblici (dlgs 50/2016).
Tutto sta nel fatto che proprio il nuovo codice dei
contratti pubblici indica la rappresentanza e difesa in
giudizio come «servizio escluso». Con questa
classificazione, però, si apre la strada alla applicazione
delle mini gare: se siamo di fronte a un contratto escluso
dall'applicazione dei procedimenti ordinari, è pur vero che
questo presupporrebbe che siamo nel campo della normativa
sui contratto di appalto. Per stare al di fuori di questa
logica, bisogna qualificare il contratto con l'avvocato
incaricato della difesa in giudizio non come contratto di
appalto di servizi, ma come contratto d'opera intellettuale.
Ma analizziamo le due impostazioni, mentre le p.a. vanno a
tentoni e aspettano un chiarimento dalla giurisprudenza.
Appalto.
Una tesi sostiene che gli incarichi ad avvocati sono appalto
di servizio, per cui è escluso l'affidamento diretto su basi
fiduciarie (in latino «intuitu personae»).
Questa tesi si appoggia sull'art. 17 del codice dei
contratti, che inserisce, tra i contratti cosiddetti
esclusi, i servizi legali, anche quelli concernenti la
rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato
in un arbitrato o conciliazione, nei procedimenti
giudiziari.
Secondo questa impostazione l'esclusione non significa che
le amministrazioni hanno mano libera. Anzi è nuova la
classificazione di queste attività come servizi ed è quindi
preclusa la strada dell'affidamento dell'incarico ai sensi
del codice civile, che vale solo per i committenti privati.
Il risultato di questa impostazione è che bisogna applicare
i principi generali degli appalti, tra cui l'economicità, la
trasparenza, la par condicio tra i concorrenti.
Ci vorrebbe un avviso pubblico, precisando le
caratteristiche del servizio, magari richiedendo particolari
esperienze o specializzazioni. Si può acquisire le
manifestazioni di interesse e poi passare a un confronto
concorrenziale. Non si esclude la possibilità di una scelta
diretta, ma solo se motivata da urgenza delle procedure.
Opera intellettuale.
La tesi diametralmente opposta fa leva sull'articolo 4 del
codice degli appalti. Questo articolo definisce l'ambito di
applicazione dei dlgs 50/2016 ai soli contratti di appalto,
tra cui non può essere inserito il mandato difensivo.
L'appalto, infatti, è un contratto con cui l'appaltatore si
assume il rischio connesso al compimento dell'opera o del
servizio; nel mandato difensivo manca questa caratteristica,
anzi l'articolo 2230 del codice civile esprime una regola
del tutto diversa (tanto che si parla di obbligazione di
mezzi e non di risultato).
Peraltro sarebbe opinabile una norma che impedisse a un
soggetto giuridico di scegliersi il difensore, prerogativa
certamente connaturata al diritto di difesa
costituzionalmente garantito.
E non si potrebbe dire che il codice dei contratti del 2016
abbia abrogato implicitamente le disposizioni del codice
civile sull'attività professionale. Infine viene ricordata
la giurisprudenza del consiglio di stato che si era
pronunciata nel senso di escludere le gare per gli
affidamenti ai legali in vigenza del vecchio codice dei
contratti pubblici (dlgs 163/2006).
Secondo il Consiglio di stato, Sez. V, 11.05.2012
n. 2730 la scelta dell'avvocato per la difesa in giudizio
dell'amministrazione costituisce prestazione intellettuale,
estranea all'applicazione dell'obbligo di gara per i servizi
legali.
Da ultimo ci si chiede come si possa fare a imbastire le
procedure di mini gara quando scadono i termini processuali
e si rischia di incaricare l'avvocato a ridosso delle
scadenze. Ci si chiede altresì come possa sostenersi la
necessità di rispettare il principio di economicità
(prendere l'avvocato che offre il prezzo più basso) quando
in giudizio vale la regola dell'accollo delle spese in base
alla soccombenza in giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
IN EVIDENZA |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Visita medica in orario di reperibilità: quando l’assenza è
ingiustificata.
La Corte di Cassazione sottolinea che, nel
caso l’assenza del lavoratore sia da giustificare con
l‘effettuazione di una visita specialistica, non sarà
sufficiente produrre il relativo certificato medico, ma
anche dimostrare quali necessità non abbiano consentito al
lavoratore di svolgere la visita al di fuori delle fasce
orarie di reperibilità.
La Corte sancisce così la legittimità del licenziamento per
giusta causa intimato ad un lavoratore per via del mancato
rispetto delle fasce di reperibilità previste in caso di
malattia. In particolare la Cassazione ribadisce l’assoluto
rilievo, in termini di legge, del rispetto delle fasce
orarie che, va ricordato, decorrono dal primo giorno di
malattia.
Può essere legittimamente licenziato il
dipendente che, essendo in malattia, viene trovato più volte
assente alla visita fiscale:
è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con
la
sentenza 02.12.2016 n. 24681.
La Suprema Corte ribadisce così l’assoluto rilievo, in
termini di legge, del rispetto delle fasce orarie che, va
ricordato, decorrono dal primo giorno di malattia.
Il caso: comportamento omissivo, sanzioni,
ruolo del lavoratore
La sentenza emessa dalla Corte riguarda la questione sorta
in seguito al licenziamento intimato ad un lavoratore
dipendente che era risultato assente per ben 5 volte alla
visita fiscale di controllo della malattia, senza mai aver
fornito adeguate giustificazioni al riguardo.
E il comportamento omissivo del lavoratore era stato
ripetuto nonostante allo stesso, in relazione alla
precedenti assenze, fossero state comminate, da parte del
datore di lavoro, una multa e la sospensione, crescente in
termini di tempo, dal servizio.
Tale circostanza risultava ulteriormente aggravata in
considerazione della ruolo ricoperto dal lavoratore, che era
direttore di un ufficio postale, e come tale responsabile
del coordinamento e del controllo di altri dipendenti.
Insufficiente il certificato di visita
medica in orario di reperibilità
La Corte di Cassazione precisato, come anche già in passato,
l’obbligo di reperibilità alle visite di controllo imposto
al lavoratore dipendente rappresenta un onere all’interno
del rapporto assicurativo ma anche un obbligo accessorio
alla prestazione principale del rapporto di lavoro.
Ne deriva che, con riferimento al caso esaminato,
l’irrogazione della sanzione può essere evitata solamente
qualora il lavoratore possa provare un ragionevole
impedimento all’osservanza di tale comportamento.
Non rileva l’effettività della malattia, poiché ciò che
rileva è lo scopo che la legge intende perseguire attraverso
i controlli che vengono effettuati dagli uffici pubblici
competenti.
A tal fine, nel caso l’assenza del lavoratore sia da
giustificare con l‘effettuazione di una visita
specialistica, non sarà sufficiente produrre il relativo
certificato medico, ma anche dimostrare quali necessità non
abbiano consentito al lavoratore di svolgere la visita al di
fuori delle fasce orarie di reperibilità (commento tratto da
www.ipsoa.it).
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MASSIMA
Il primo motivo è infondato.
Nel fissare i limiti dell'obbligo di
reperibilità del lavoratore alle visite di controllo questa
Corte ha infatti
precisato,
con orientamento risalente e consolidato,
che, mediante la previsione di cui all'art. 5 l. n.
638/1983, si è imposto al lavoratore un comportamento (e
cioè la reperibilità nel domicilio durante prestabilite ore
della giornata) che è, ad un tempo, un onere all'interno del
rapporto assicurativo ed un obbligo accessorio alla
prestazione principale del rapporto di lavoro, ma il cui
contenuto resta, in ogni caso, la "reperibilità" in
sé; con la conseguenza che l'irrogazione della sanzione può
essere evitata soltanto con la prova, il cui onere grava sul
lavoratore, di un ragionevole impedimento all'osservanza del
comportamento dovuto e non anche con quella della
effettività della malattia, la quale resta irrilevante
rispetto allo scopo, che la legge ha inteso concretamente
assicurare, dell'assolvimento tempestivo ed efficace dei
controlli della stessa da parte delle strutture pubbliche
competenti, siano esse attivate dall'ente di previdenza
ovvero dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 legge
20.05.1970 n. 300.
In particolare, a dimostrazione che il
giudizio sull'osservanza dell'obbligo di reperibilità non
dipende dal fatto dell'esistenza della malattia (nel senso
della necessità di ritenere il lavoratore assolto da tale
obbligo soltanto perché effettivamente malato), è stato
precisato che -in presenza di una contrattazione collettiva
contenente (quale
anche il CCNL per il personale non dirigente di Poste
Italiane: cfr. art. 43, commi 8 e 9) detto
obbligo di reperibilità a carico del lavoratore- che il
dipendente non può limitarsi a produrre il certificato
medico attestante l'effettuazione di una visita
specialistica, ma deve dare dimostrazione delle "comprovate
necessità" che impediscono l'osservanza delle fasce
orarie, e cioè che la visita non poteva essere effettuata in
altro orario al di fuori delle predette fasce, "ovvero
che la necessità della visita era sorta negli orari di
reperibilità, tenuto conto che il giustificato motivo di
assenza del lavoratore ammalato dal proprio domicilio
durante le fasce orarie di reperibilità, di cui all'art. 5
della normativa sopra indicata, si identifica in una
situazione sopravvenuta che comporti la necessità assoluta
ed indifferibile di allontanarsi dal luogo nel quale il
controllo deve essere esercitato"
(cfr. Cass. n. 2756/1995; conforme Cass. n. 13982/1991).
Tale principio di diritto è stato ancora e più di recente
ribadito da Cass. n. 3226/2008 (già citata nella sentenza
impugnata), per la quale "in tema di
controlli sulle assenze per malattia dei lavoratori
dipendenti, volti a contrastare il fenomeno dell'assenteismo
e basati sull'introduzione di fasce orarie entro le quali
devono essere operati dai servizi competenti accessi presso
le abitazioni dei dipendenti assenti dal lavoro, ai sensi
dell'art. 5, co. 14°, d.l. 12.09.1983 n. 496, convertito con
modificazioni dalla legge n. 638 del 1983, la violazione da
parte del lavoratore dell'obbligo di rendersi disponibile
per l'espletamento della visita domiciliare di controllo
entro tali fasce assume rilevanza di per sé, a prescindere
dalla presenza o meno dello stato di malattia, e può anche
costituire giusta causa di licenziamento".
Nel caso di specie, la Corte, con motivazione adeguata e
comunque non oggetto di censure, ha accertato come
l'appellante non solo non avesse mai documentato, neppure
ex post, alcuna causa di giustificazione in relazione
all'assenza dal domicilio del 29/02/2008, ma avesse, per le
quattro assenze precedenti (in data 25/10/2007, 10/12/2007,
18/12/2007 e 18/01/2008), prodotto certificati medici,
oggetto di specifico esame, inidonei a provare un serio e
fondato motivo che giustificasse l'assenza alle visite
domiciliari di controllo (cfr. sentenza, p. 5).
La Corte territoriale risulta altresì avere esaminato la
relazione di consulenza medicolegale depositata dal
ricorrente, traendone il convincimento che neppure da essa
fosse possibile ritenere provata la sussistenza di un
giustificato motivo di assenza, atteso che -come
riconosciuto dallo specialista che l'aveva redatta- la cura
praticata dal Mi. si attua secondo appuntamenti concordati
con il centro terapeutico (p. 6).
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
La Corte ha, infatti, accertato come il
lavoratore fosse stato rinvenuto ripetutamente assente alle
visite domiciliari di controllo della malattia e come avesse
reiterato il medesimo comportamento rilevante sul piano
disciplinare, pur dopo l'applicazione della prima sanzione
(della multa) e di quelle (sospensione dal servizio) in
seguito, e secondo una progressione crescente (un giorno,
cinque e dieci giorni), adottate dal datore di lavoro:
comportamento, questo, per la cui valutazione, ai fini del
giudizio di proporzionalità in rapporto alla più grave
misura espulsiva da ultimo inflitta, non poteva restare
indifferente il contenuto delle mansioni assegnate, e cioè
di preposto ad un ufficio, tali da comportare compiti di
coordinamento e di controllo di altri dipendenti.
Su tali premesse, la sentenza impugnata si sottrae alle
censure che le sono state rivolte.
L'art. 43, comma 9, CCNL per il personale non dirigente di
Poste Italiane S.p.A. prevede esplicitamente che il "constatato
mancato rispetto da parte del lavoratore degli obblighi"
indicati al precedente co. 8 (e cioè l'obbligo del
lavoratore in malattia di trovarsi fin dal primo giorno di
assenza dal lavoro nel domicilio comunicato al datore "in
ciascun giorno, anche se domenicale o festivo, dalle ore 10
alle 12 e dalle ore 17 alle 19" nonché l'obbligo di dare
"preventiva comunicazione alla Società" nel caso in
cui, durante tali fasce orarie, egli debba assentarsi dal
proprio domicilio "per visite, prestazioni o accertamenti
specialistici o per altri giustificati motivi"), "comporta
la perdita del trattamento di malattia, ai sensi delle
vigenti disposizioni di legge, ed è sanzionabile con
l'applicazione di provvedimento disciplinare".
Non rileva, d'altra parte, che l'applicazione di una
sanzione sia configurata come una "possibilità"
(laddove risulta affermato che il mancato rispetto degli
obblighi a carico del lavoratore è sanzionabile) e non come
"effetto automatico" dell'infrazione, posto che
l'esercizio del potere disciplinare da parte del datore di
lavoro rientra comunque, su di un piano generale, nella
sfera della sua discrezionalità e che la previsione della "possibilità"
di tale esercizio, quale delineata dalle parti collettive
con la norma in esame, assicura di per sé della rispondenza
della decisione datoriale di farvi eventuale ricorso alla
comune volontà dei contraenti.
La sentenza si sottrae altresì alle censure del ricorrente
con riguardo alle disposizioni di cui ai commi 4 e 5
dell'art. 55 CCNL di riferimento.
In particolare, e diversamente da quanto
sembra sostenere il lavoratore, che imputa alla sentenza di
non avere tenuto in debito conto l'assenza di
intenzionalità/mala fede nel comportamento sanzionato, il co.
4 prevede esplicitamente che nella valutazione dell'entità
afflittiva del provvedimento disciplinare si debba avere
riguardo non solo alla intenzionalità del comportamento ma
anche al "grado di negligenza" dimostrato da esso,
elemento soggettivo rispetto al quale la Corte territoriale
ha correttamente evidenziato la reiterazione in un contenuto
periodo di tempo della identica condotta e la sua costante
riproduzione pur a fronte della relativa e conseguente
progressione sanzionatoria, consumatasi a partire
dall'ottobre 2007.
Né, sulla scorta di tali valutazioni, può ritenersi che la
Corte abbia trascurato l'ulteriore previsione del comma 4,
là dove è stabilito che la verifica dell'osservanza del
principio di "gradualità e proporzionalità"
nell'applicazione delle sanzioni debba volgersi anche a
comprendere la valutazione del "comportamento complessivo
del lavoratore", avendo le parti collettive
espressamente precisato sul punto che tale valutazione debba
avere "particolare riguardo ai precedenti disciplinari
nell'ambito del biennio"; o la previsione di cui al
comma 5 dello stesso art. 55, che per "mancanze della
stessa natura già sanzionate nel biennio" (come nella
fattispecie) consente l'irrogazione, a seconda della gravità
del caso e delle circostanze, di una sanzione di livello più
elevato rispetto a quella già inflitta: profilo che la Corte
risulta aver preso in considerazione attraverso gli elementi
già posti in evidenza e il rilievo della mancanza di alcuna
giustificazione, neppure ex post, a proposito
dell'assenza all'ultima visita domiciliare di controllo, nel
quadro di un codice disciplinare (art. 56) che vede la "recidiva
plurima, nell'anno, delle mancanze previste nel precedente
gruppo" sanzionata proprio con la misura (recesso con
preavviso) da ultimo adottata da Poste Italiane e oggetto di
impugnazione.
Il ricorso deve conseguentemente essere respinto. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 09.12.2016, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 30.11.2016, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 01.12.2016 n. 157). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 09.12.2016, "Adozione
delle misure di conservazione relative ai 9 siti Rete Natura
2000 compresi nel territorio del Parco Nazionale dello
Stelvio e trasmissione delle stesse al Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai
sensi del d.p.r. 357/97 e s.m.i. e del d.m. 184/2007 e
s.m.i." (deliberazione
G.R. 30.11.2016 n. 5928). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Palazzo Madama chiude i lavori: sì definitivo alla legge di
bilancio. Prorogati gli incentivi per gli interventi di
recupero edilizio, la riqualificazione energetica e
antisismica, l’acquisto di mobili e elettrodomestici
destinati a immobili ristrutturati (07.12.2016 -
link a www.fiscooggi.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Azienda pubblica servizi alla persona. Presidenza
commissione selezione incarico di Direttore generale.
Qualora un soggetto sia chiamato a
svolgere le funzioni di Presidente di una commissione di
concorso e partecipi, in qualità di aspirante, alla
procedura medesima, si verifica l'esistenza di quella
comunanza di interessi idonea a far insorgere un sospetto
consistente di violazione dei principi di imparzialità,
trasparenza e parità di trattamento, comunque inquadrabile
nell'art. 51, comma 2, c.p.c. (ricusazione).
Pertanto, è necessario procedere alla sostituzione del
Presidente stesso, in quanto palesemente incompatibile.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine ad alcuni dubbi emersi
in relazione alla presidenza della commissione deputata ad
esaminare i curricula degli aspiranti al conferimento
dell'incarico di Direttore generale presso l'Azienda
medesima. In particolare l'Amministrazione precisa che lo
statuto aziendale contempla la previsione in base alla quale
il Direttore generale ha il compito di presiedere le
commissioni di concorso.
Nella fattispecie concreta si evidenzia che ha presentato il
proprio curriculum, in qualità di aspirante, anche la
persona che attualmente ricopre l'incarico temporaneo (fino
al 31.12.2016) di Direttore generale presso l'Ente. Premesso
un tanto, l'Amministrazione istante chiede se:
- vi sono motivi per non ritenere che l'interessata abbia
legittimamente inviato il proprio curriculum, in relazione
al bando descritto;
- nell'ipotesi in cui il curriculum dell'interessata
debba essere vagliato come tutti gli altri, la scrivente
manifesta dubbi sull'imparzialità della presidenza della
commissione, che non dovrebbe essere attribuita ad un
soggetto che è direttamente interessato alla procedura, in
quanto aspirante.
Preliminarmente si osserva che le procedure selettive
bandite dalle pubbliche amministrazioni hanno lo scopo di
selezionare i candidati che risultino in possesso di
requisiti atti a garantire la professionalità e l'esperienza
ritenute necessarie per lo svolgimento delle specifiche
funzioni richieste [1].
A quanto sopra esposto si ricollega il principio del
favor partecipationis, emanazione della trasparenza
dell'attività amministrativa, volta a garantire comunque la
massima partecipazione e parità di trattamento fra tutti i
partecipanti alla procedura.
La finalità precipua di ogni selezione concorsuale pubblica
è infatti quella di scegliere il candidato migliore nel
numero più ampio di partecipanti in possesso dei requisiti
ritenuti necessari per la copertura del posto messo a
concorso. Qualsiasi clausola del bando che limiti la
partecipazione viola infatti i principi costituzionali
desumibili dall'art. 97 della Costituzione
[2].
Ne consegue che ogni candidato in possesso dei requisiti
prescritti dal bando ha pieno diritto di partecipare alla
selezione indetta.
Premesso un tanto, bisogna però esaminare la questione
relativa all'interessato che, nella fattispecie prospettata,
si troverebbe a presiedere la commissione di concorso e a
valutare, esprimendo un giudizio, il curriculum presentato
da sé medesimo.
A tal proposito si rappresenta che, per le commissioni
giudicatrici di concorsi pubblici, trova applicazione
l'obbligo di astensione, per incompatibilità, dei componenti
un organo collegiale. Ciò si verifica per il solo fatto che
questi siano portatori di interessi personali, atti ad
inverare una posizione di conflittualità o anche di
divergenza rispetto a quello, generale, affidato alle cure
della P.A., e ciò indipendentemente dalla circostanza che,
nel corso del procedimento l'organo abbia proceduto in modo
imparziale, o che non vi sia prova di condizionamento per
effetto del potenziale conflitto d'interessi.
Sussiste pertanto, per evitare l'uso strumentale
dell'obbligo d'astensione e della correlata ricusazione, la
necessità d'una lettura stringente delle norme ex art. 51
c.p.c. [3].
L'incompatibilità tra esaminatore e concorrente (nella
fattispecie di cui si discute sono la medesima persona)
implica senza dubbio l'esistenza di quella comunanza di
interessi idonea a far insorgere un sospetto consistente di
violazione dei principi di imparzialità, trasparenza e
parità di trattamento comunque inquadrabile nell'art. 51,
comma 2, del c.p.c..
Conseguentemente, in applicazione dei suddetti principi, cui
si aggiunge quello della buona amministrazione,
l'Amministrazione deve provvedere a sostituire il Presidente
di commissione, in quanto palesemente incompatibile.
Ad ogni buon conto, proprio per preservare l'Ente istante da
possibili situazioni di carenza/assenza del vertice
amministrativo, si suggerisce di stipulare una convenzione
con amministrazione analoga, al fine di fornire,
eventualmente in condizione di reciprocità, adeguato
supporto in tutti i possibili casi di assenza o impedimento
del Direttore generale, allo scopo di consentire l'ordinario
e corretto andamento dell'azione amministrativa.
---------------
[1] Cfr. Cons. di Stato, sez. v, sentenza n. 1622 del
2012.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. III, sentenza n. 965/2016.
[3] Cfr. Cons. di Stato, sez. III, sentenza n. 1577 del 2014
(07.12.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CORTE DEI CONTI |
APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: Parere
in merito a questioni che riguardano il valore di vendita
delle reti e degli impianti di proprietà alla distribuzione
del gas.
La cessione delle reti e degli impianti
si inquadra, in termini generali, nella disciplina di
diritto comune concernente il patrimonio indisponibile
(articolo 826 c.c.), tali dovendo considerarsi i beni in
questione, ove di proprietà di enti pubblici e strumentali
all'espletamento di un servizio pubblico.
La disciplina codicistica prevede che i beni patrimoniali
indisponibili possano essere ceduti esclusivamente a
condizione che ne venga mantenuta la destinazione al
servizio nel quale sono stati impiegati (articolo 828, comma
2, c.c.); pertanto, essi possono essere oggetto di negozi
traslativi di diritto privato (nel rispetto della condizione
suesposta), ma è escluso ogni acquisto che si ponga, di per
sé, in contrasto con la funzione pubblica cui sono destinati
(es. usucapione, pignoramento, esecuzione forzata).
---------------
Per gli enti locali alla scadenza delle concessioni possono
di fatto porsi le seguenti tre opzioni:
a) l’ente non riscatta l’impianto ma affida al
nuovo concessionario il servizio trasferendogli il diritto
di riscatto che lo stesso eserciterà corrispondendo il VIR
al gestore uscente e la RAB ai successivi;
b) l’ente riscatta, se non può beneficiare della
devoluzione gratuita, il relativo impianto e, nell’affidare
ad altro soggetto il relativo servizio, mantiene la
titolarità degli impianti di rete per la cui messa a
disposizione riceverà comunque una remunerazione che al fine
di non essere ricaricata eccessivamente sulle tariffe
praticate all’utenza viene determinata sulla RAB (anziché
sul valore industriale) salvo eventuale adeguamento
(autorizzato dall’AEEGSI) in caso di notevole scostamento
rispetto al VIR;
c) l’ente riscatta l’impianto (sempre se
non è prevista la devoluzione a titolo gratuito) e ne cede
la proprietà, con destinazione al servizio di rete, al
concessionario vincitore della gara.
---------------
E’ proprio in materia di vendita da parte dell’Ente locale
al nuovo gestore della proprietà dell’impianto, che è
intervenuto il MiSE laddove chiarisce che “il
valore di trasferimento è pari al valore delle
immobilizzazioni nette di località del servizio di
distribuzione e misura, relativo agli impianti che vengono
alienati, al netto dei contributi pubblici in conto capitale
e dei contributi privati relativi ai cespiti di località
(c.d. RAB), come riconosciuto dall’Autorità nella tariffa
valida per la gestione d’ambito e come già spettante
all’ente locale in quanto titolare della rete. Pertanto, la
decisione dell’ente locale di alienare o meno la rete di
proprietà pubblica non deve creare nuovi oneri a carico dei
clienti finali del servizio in termini di aumento delle
tariffe di distribuzione gas”.
Tale impostazione conferma sostanzialmente quanto già
rappresentato, a fini puramente regolatori, dall’AEEGSI.
Consegue dunque da tale lettura che
in caso della peraltro obbligatoria cessione della proprietà
delle reti da parte del gestore uscente, quest’ultimo si
vedrà riconosciuto il VIR mentre laddove l’alienazione degli
impianti avviene da parte del comune (in sede di affidamento
del servizio) il valore del trasferimento andrà determinato
sulla base della RAB.
---------------
Va qui ribadito che sono le norme di
contabilità pubblica a disciplinare il valore di iscrizione,
nello stato patrimoniale, dei beni del demanio e del
patrimonio (allegato 4/3 al decreto legislativo 23.06.2011,
n. 118).
In particolare, i principi contabili dispongono che “(…)
le immobilizzazioni materiali sono distinte in beni
demaniali e beni patrimoniali disponibili e indisponibili.
(…). Le immobilizzazioni sono iscritte nello stato
patrimoniale al costo di acquisizione dei beni o di
produzione, se realizzato in economia (inclusivo di
eventuali oneri accessori d'acquisto, quali le spese
notarili, le tasse di registrazione dell'atto, gli onorari
per la progettazione, ecc.), al netto delle quote di
ammortamento. Qualora, alla data di chiusura dell'esercizio,
il valore sia durevolmente inferiore al costo iscritto, tale
costo è rettificato nell'ambito delle scritture di
assestamento mediante apposita svalutazione. Le
rivalutazioni sono ammesse solo in presenza di specifiche
normative che le prevedano e con le modalità ed i limiti in
esse indicati. Per quanto non previsto nei presenti principi
contabili, i criteri relativi all'iscrizione nello stato
patrimoniale, alla valutazione, all'ammortamento ed al
calcolo di eventuali svalutazioni per perdite durevoli di
valore si fa riferimento al documento OIC n. 16".
Va peraltro rimarcato (cfr. Lombardia n. 277/2016/PAR) come
tale indicazione specifica debba comunque essere
accompagnata dal principio di prudenza
(allegato 1 relativo ai principi contabili generali e
applicati di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto
legislativo 23.06.2011, n. 118),
secondo cui “Nel bilancio di previsione (…) devono essere
iscritte solo le componenti positive che ragionevolmente
saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato”.
Di conseguenza, al di là di ogni considerazione circa le
indicazioni del MiSE e dell’AEEGSI, qui non può che
ribadirsi come i criteri di iscrizione
nello stato patrimoniale dei beni di proprietà degli Enti
locali restino disciplinati dalle norme di contabilità
pubblica e che tali disposizioni tendono a privilegiare il
criterio del costo storico, da rettificare solo nel caso di
eventi che determinino un decremento effettivo del valore
del bene.
Resta fermo, peraltro, che nell’ambito
della predisposizione del bilancio preventivo, la
valutazione delle entrate potrà tenere conto della prevista
cessione a titolo oneroso (se la stessa è divenuta concreta
e attuale) i cui effetti dovranno essere stimati da parte
dell’ente secondo criteri prudenziali che tengano conto di
tutte le eventuali e complessive circostanze capaci di
influire sulle effettive possibilità di realizzare i
proventi derivanti dalla cessione del bene.
---------------
I Comuni richiedenti riferiscono che, stretti dai vincoli
di bilancio e considerata la remunerazione che otterrebbero
dal Gestore dell’Ambito Territoriale Minimo (ATEM) negli
anni di gestione della rete gas di cui sono comproprietari,
stanno valutando l’opzione di cederne la proprietà ed
incassare il relativo valore, operazione che, in linea
con le indicazioni del Ministero per lo Sviluppo Economico (MiSE),
avverrebbe nel contesto della gara d'ATEM.
I Comuni sottolineano come le Autorità di regolazione (MiSE
e Autorità per l'Energia Elettrica, il Gas e il Sistema
Idrico – AEEGSI) abbiano sostenuto che nell’ipotesi di
alienazione a nuovo gestore il valore di trasferimento in
favore dell’aggiudicatario non deve essere il cosiddetto
valore industriale residuo – VIR – ma la RAB (Regulatory
Asset Base) ossia il valore corrispondente al capitale
investito riconosciuto ai fini tariffari.
I Comuni rimarcano quindi che a loro avviso:
a) la valorizzazione tramite il metodo RAB (in luogo del VIR)
comporterebbe un danno per gli equilibri di bilancio atteso
che il primo è in inferiore al secondo;
b) l’utilizzazione di distinti criteri di valorizzazione
configurerebbe disparità di trattamento tra Gestori privati
proprietari di reti e Comuni proprietari di reti, “in
contrasto con l'articolo 3 della Costituzione” e
spingerebbe gli enti a comportamenti non in linea con “l'articolo
97 della Costituzione che impone all'amministrazione
pubblica di valorizzare i propri beni e a ricavarne il
massimo importo percepibile”.
Tutto ciò premesso, i Comuni istanti chiedono:
1) “Può l'Amministrazione Comunale attribuire ad uno stesso
cespite un valore diverso in funzione del proprietario, e
per quelle di proprietà dell’Ente Locale una valorizzazione
inferiore, senza incorrere in un possibile “Danno Erariale”
per gli Amministratori che lo hanno deliberato?
2) Può l'Amministrazione Comunale mettere in vendita nella gara
d’Ambito, le sue proprietà ad un importo che non corrisponde
al reale valore, consapevole che le proprietà del Gestore
hanno avuto un trattamento diverso, di molto superiore a
quelle di proprietà dell'Ente Locale. Infatti ha dovuto
approvare con Delibera Comunale le valorizzazioni dei
cespiti di proprietà del Gestore Uscente a VIR, mentre dovrà
approvare per le sue proprietà un valore di molto inferire a
quello che è stato riconosciuto al Gestore, in quanto
dovranno essere valorizzati a RAB?
3) Deve l'Amministrazione comunale mettere in gara anche i suoi
impianti a valore di VIR per non far incorrere i suoi
Amministratori in un possibile addebito di Danno Erariale?
4) Può l'Amministrazione Comunale mettere in vendita i suoi
Asset a RAB consapevole che la fac del MISE non ha tenuto
nella giusta considerazione che la sottovalutazione dei
cespiti di proprietà dell'Ente Locale a favore del Gestore
subentrante può essere considerata dalla Comunità Europea un
Aiuto di stato alla ditta che si aggiudicherà la gara
d'Ambito?”.
...
Quanto al secondo aspetto (generalità ed astrattezza),
l’effettiva formulazione dei quesiti è da un lato tale da
risultare eccessivamente puntuale e concreta fino ad
involgere precise scelte gestionali e dall’altro richiede un
anticipato parere sulla responsabilità erariale (quesiti 1,
3 e 4) il che interferisce con le funzioni giurisdizionali
attribuite alle competenti sezioni della Corte e risulta
dunque inammissibile in forza di consolidata giurisprudenza
(cfr. da ultimo deliberazione del 06.09.2016, n. 229 della
Sezione di controllo Lombardia) ed in base a un costante
orientamento (cfr. ex multis deliberazione delle
Sezione delle Autonomie del 10.03.2006, n. 5/AUT/2006)
secondo cui non possono ritenersi procedibili i quesiti che
possano formare oggetto di esame in sede giurisdizionale da
parte di altri organi a ciò deputati dalla legge.
In definitiva, è da ritenere che i quesiti 1), 3) e 4)
non possano essere considerati ammissibili mentre il
2) è scrutinabile ma solo nel senso che questa Sezione può
qui riportare taluni principi generali relativi al regime
proprietario dei beni in questione, il tutto nell'ambito
dell’articolata disciplina, legislativa e regolamentare,
della gestione e titolarità delle reti di gas.
...
MERITO
Va in primo luogo rimarcato che la
cessione delle reti e degli impianti si inquadra, in termini
generali, nella disciplina di diritto comune concernente il
patrimonio indisponibile (articolo 826 c.c.), tali dovendo
considerarsi i beni in questione, ove di proprietà di enti
pubblici e strumentali all'espletamento di un servizio
pubblico.
La disciplina codicistica prevede che i beni patrimoniali
indisponibili possano essere ceduti esclusivamente a
condizione che ne venga mantenuta la destinazione al
servizio nel quale sono stati impiegati (articolo 828, comma
2, c.c.); pertanto, essi possono essere oggetto di negozi
traslativi di diritto privato (nel rispetto della condizione
suesposta), ma è escluso ogni acquisto che si ponga, di per
sé, in contrasto con la funzione pubblica cui sono destinati
(es. usucapione, pignoramento, esecuzione forzata).
Con riguardo agli aspetti più specifici, dal punto di vista
microeconomico il servizio di distribuzione
del gas configura un “monopolio naturale”, forma di
mercato che se non adeguatamente regolata è portatrice di
svantaggi per i clienti finali in termini di rapporto tra
qualità e prezzo del servizio erogato.
La normativa di riferimento, proprio al fine di creare le
migliori condizioni per la clientela, si è nel tempo evoluta
nel senso dell’abolizione del regime di monopolio (articolo
1, comma 1, del decreto legislativo 23.05.2000, n. 164 –cd
Decreto Letta– “Attuazione della direttiva n. 98/30/CE
recante norme comuni per il mercato interno del gas
naturale, a norma dell'articolo 41 della legge 17.05.1999,
n. 144”).
Le norme hanno dunque disposto la tendenziale
liberalizzazione delle “attività di importazione,
esportazione, trasporto e dispacciamento, distribuzione e
vendita di gas naturale, in qualunque sua forma e comunque
utilizzato” e con specifico riguardo all’attività di
distribuzione, la liberalizzazione si è concretizzata da un
lato nella separazione funzionale tra proprietà degli
impianti e gestione degli stessi e dall’altro
nell’affidamento del servizio in via esclusiva ma ben
limitata nel tempo (massimo 12 anni), il tutto in un quadro
che ha avuto ed ha tuttora ad obiettivo anche la riduzione
del numero delle reti presenti in ogni ambito territoriale.
L’articolo 14, comma 4 del citato Decreto Letta, dispone
che: "Alla scadenza del periodo di affidamento del
servizio, le reti, nonché gli impianti e dotazioni
dichiarati reversibili, rientrano nella piena disponibilità
dell'ente locale. Gli stessi beni, se realizzati durante il
periodo di affidamento, sono trasferiti all'ente locale alle
condizioni stabilite nel bando di gara e nel contratto di
servizio".
La norma in parola distingue i beni
preesistenti all'affidamento del servizio, i quali, al
termine del medesimo, dovranno rientrare nella disponibilità
dell'ente locale, da quelli realizzati nel corso
dell'affidamento (di proprietà di privati, dunque) che,
secondo quanto previsto dal comma 8, sono trasferiti da un
gestore all'altro per effetto del succedersi della gare
d'ambito, circolando unitamente alla gestione del servizio
di distribuzione.
Nella fase del processo di liberalizzazione la disciplina
primaria sopra menzionata è stata ulteriormente integrata
(articolo 46-bis del decreto legge 01.10.2007, n. 159,
convertito dalla legge 29.11.2007, n. 222) prevedendo la
emanazione di un decreto interministeriale finalizzato a
disciplinare, in concreto, i criteri per l’affidamento del
servizio “tenendo conto in maniera adeguata, oltre che
delle condizioni economiche offerte, e in particolare di
quelle a vantaggio dei consumatori, degli standard
qualitativi e di sicurezza del servizio, dei piani di
investimento e di sviluppo delle reti e degli impianti”.
Il risultante DM 12.11.2011, n. 226, definisce, tra l’altro,
le condizioni economiche dei trasferimenti, secondo
i seguenti criteri:
a) il valore di rimborso degli impianti nella fase
transitoria è definito dalle parti convenzionalmente o, in
mancanza di accordo, in base al valore industriale della
parte di impianto di proprietà del gestore uscente secondo
il costo di costruzione a nuovo (VIR);
b) il valore di rimborso degli impianti nella fase
“a regime”, ai sensi dell’articolo 14, comma 8, del
D.Lgs. n. 164/2000, riformulato dall’articolo 24, comma 1,
del decreto legislativo 01.06.2011, n. 93, è pari “al
valore delle immobilizzazioni nette di località del servizio
di distribuzione e misura, relativo agli impianti la cui
proprietà viene trasferita dal distributore uscente al nuovo
gestore, incluse le immobilizzazioni in corso di
realizzazione, al netto dei contributi pubblici in conto
capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti di
località, calcolato secondo la metodologia della regolazione
tariffaria vigente e sulla base della consistenza degli
impianti al momento del trasferimento della proprietà” (RAB).
All’articolo 8, comma 3, lo stesso DM specifica l’obbligo,
da parte del nuovo gestore, di corrispondere “annualmente
agli Enti locali e alle società patrimoniali delle reti che
risultino proprietarie di una parte degli impianti
dell’ambito” la remunerazione della RAB.
Come osservato a proposito di questione analoga a quella in
trattazione dalla Sezione di controllo della Lombardia (n.
277/2016/PAR), la differenza tra i due
criteri trova la sua ragion d’essere nel fatto che nel
periodo transitorio il costruttore e proprietario
dell’impianto (in precedenza gestore del servizio) subisce,
in seguito alla cessazione ope legis della
concessione, una sostanziale ablazione del proprio diritto
dominicale e deve essere ristorato della stessa utilità
perduta mentre “a regime” l’attribuzione delle
proprietà (o della mera disponibilità) degli impianti a rete
è definita dall’ente contestualmente all’affidamento del
servizio e sorge la più limitata esigenza di remunerare il
gestore precedente esclusivamente delle somme investite
nell’impianto.
In via eccezionale, tuttavia, il legislatore (sempre nel
decreto legislativo n. 93/2011) ha consentito ai primi
concessionari del periodo a regime l'ammortamento della
differenza tra il valore di rimborso e il valore delle
immobilizzazioni nette, al netto dei contributi pubblici in
conto capitale e dei contributi privati relativi ai cespiti
di località. Tale adeguamento è operato tramite il
riconoscimento nella tariffa da parte della AEEGSI, nel caso
lo scostamento tra i due criteri sia superiore al
venticinque per cento (deliberazione AEEGSI del 26.06.2014,
n. 310).
In definitiva, per gli enti locali alla
scadenza delle concessioni possono di fatto porsi le
seguenti tre opzioni:
a) l’ente non riscatta l’impianto ma affida al
nuovo concessionario il servizio trasferendogli il diritto
di riscatto che lo stesso eserciterà corrispondendo il VIR
al gestore uscente e la RAB ai successivi;
b) l’ente riscatta, se non può beneficiare della
devoluzione gratuita, il relativo impianto e, nell’affidare
ad altro soggetto il relativo servizio, mantiene la
titolarità degli impianti di rete per la cui messa a
disposizione riceverà comunque una remunerazione che al fine
di non essere ricaricata eccessivamente sulle tariffe
praticate all’utenza viene determinata sulla RAB (anziché
sul valore industriale) salvo eventuale adeguamento
(autorizzato dall’AEEGSI) in caso di notevole scostamento
rispetto al VIR;
c) l’ente riscatta l’impianto (sempre se non è
prevista la devoluzione a titolo gratuito) e ne cede la
proprietà, con destinazione al servizio di rete, al
concessionario vincitore della gara.
E’ proprio in materia di vendita da parte dell’Ente locale
al nuovo gestore della proprietà dell’impianto, che è
intervenuto il MiSE con un “Chiarimento circa la
possibilità per gli Enti locali di alienare il proprio asset,
costituito dalla rete e dagli impianti di distribuzione del
gas naturale” nel quale dopo aver premesso che “non
spetta a questo Ministero fornire l’interpretazione di
normative primarie riguardanti il regime di gestione dei
servizi pubblici locali, nonché il regime di circolazione
dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello
Stato (…)” chiarisce che “il valore
di trasferimento è pari al valore delle immobilizzazioni
nette di località del servizio di distribuzione e misura,
relativo agli impianti che vengono alienati, al netto dei
contributi pubblici in conto capitale e dei contributi
privati relativi ai cespiti di località (c.d. RAB), come
riconosciuto dall’Autorità nella tariffa valida per la
gestione d’ambito e come già spettante all’ente locale in
quanto titolare della rete. Pertanto, la decisione dell’ente
locale di alienare o meno la rete di proprietà pubblica non
deve creare nuovi oneri a carico dei clienti finali del
servizio in termini di aumento delle tariffe di
distribuzione gas”.
Tale impostazione conferma sostanzialmente quanto già
rappresentato, a fini puramente regolatori, dall’AEEGSI.
Consegue dunque da tale lettura che in caso
della peraltro obbligatoria cessione della proprietà delle
reti da parte del gestore uscente, quest’ultimo si vedrà
riconosciuto il VIR mentre laddove l’alienazione degli
impianti avviene da parte del comune (in sede di affidamento
del servizio) il valore del trasferimento andrà determinato
sulla base della RAB.
In punto di economia e regolamentazione vanno in definitiva
rimarcati due elementi:
●
da un lato
come, in termini generali, possano ben sussistere contesti
caratterizzati da regolazione non simmetrica e ciò proprio
al fine di stimolare l’entrata di più competitori sul
mercato e quindi maggiore utilità per i
consumatori/contribuenti finali;
●
dall’altro come sussistendo una chiara e definita
relazione diretta tra valore riconosciuto al (peculiare)
bene-rete in sede di cessione e livello delle tariffe che i
consumatori pagheranno a fronte dei servizi erogati (più
alto il primo, più alte le seconde), ciò che viene a
determinarsi, nel caso del riconoscimento della RAB in luogo
del VIR, è il trasferimento di un valore a beneficio
dell’ente che è si inferiore nel momento in cui si realizza
la cessione, ma non se valutato lungo l’intera durata della
concessione, dal momento che il più basso valore è a fronte
di benefici futuri per i consumatori in termini di più
contenuti livelli delle tariffe.
Comunque, al di là delle potenziali disarmonie nel regime
transitorio sulle quali questa Sezione non può esprimersi e
al di là dell’eventuale incongruenza delle norme esistenti e
della presunta disparità di trattamento delle quali i Comuni
possono eventualmente lamentarsi nelle sedi appropriate,
presso le quali far valore eventuali presunti diritti,
va qui ribadito che sono le norme di contabilità
pubblica a disciplinare il valore di iscrizione, nello stato
patrimoniale, dei beni del demanio e del patrimonio
(allegato 4/3 al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118).
In particolare, i principi contabili dispongono che “(…)
le immobilizzazioni materiali sono distinte in beni
demaniali e beni patrimoniali disponibili e indisponibili.
(…). Le immobilizzazioni sono iscritte nello stato
patrimoniale al costo di acquisizione dei beni o di
produzione, se realizzato in economia (inclusivo di
eventuali oneri accessori d'acquisto, quali le spese
notarili, le tasse di registrazione dell'atto, gli onorari
per la progettazione, ecc.), al netto delle quote di
ammortamento. Qualora, alla data di chiusura dell'esercizio,
il valore sia durevolmente inferiore al costo iscritto, tale
costo è rettificato nell'ambito delle scritture di
assestamento mediante apposita svalutazione. Le
rivalutazioni sono ammesse solo in presenza di specifiche
normative che le prevedano e con le modalità ed i limiti in
esse indicati. Per quanto non previsto nei presenti principi
contabili, i criteri relativi all'iscrizione nello stato
patrimoniale, alla valutazione, all'ammortamento ed al
calcolo di eventuali svalutazioni per perdite durevoli di
valore si fa riferimento al documento OIC n. 16".
Va peraltro rimarcato (cfr. Lombardia n. 277/2016/PAR) come
tale indicazione specifica debba comunque essere
accompagnata dal principio di prudenza
(allegato 1 relativo ai principi contabili generali e
applicati di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto
legislativo 23.06.2011, n. 118), secondo
cui “Nel bilancio di previsione (…) devono essere
iscritte solo le componenti positive che ragionevolmente
saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato”.
Di conseguenza, al di là di ogni considerazione circa le
indicazioni del MiSE e dell’AEEGSI, qui non può che
ribadirsi come i criteri di iscrizione
nello stato patrimoniale dei beni di proprietà degli Enti
locali restino disciplinati dalle norme di contabilità
pubblica e che tali disposizioni tendono a privilegiare il
criterio del costo storico, da rettificare solo nel caso di
eventi che determinino un decremento effettivo del valore
del bene.
Resta fermo, peraltro, che nell’ambito
della predisposizione del bilancio preventivo, la
valutazione delle entrate potrà tenere conto della prevista
cessione a titolo oneroso (se la stessa è divenuta concreta
e attuale) i cui effetti dovranno essere stimati da parte
dell’ente secondo criteri prudenziali che tengano conto di
tutte le eventuali e complessive circostanze capaci di
influire sulle effettive possibilità di realizzare i
proventi derivanti dalla cessione del bene
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 01.12.2016 n. 234). |
PUBBLICO IMPIEGO: E'
illegittimo conferire un incarico "gratuito" all'ex
responsabile UTC in pensione.
La disciplina generale in merito alla gestione del personale
pubblico è informata e plasmata da principi sistematici tali
che non consentono l’utilizzo di personale a titolo gratuito,
legati alla tutela della dignità del lavoro e al
rispetto della normativa generale in materia, oltre che alla
necessità di evitare l’esposizione degli enti pubblici a
rischi legali e di contenzioso e, quindi, finanziari per le
ricadute sul bilancio in caso di soccombenza.
In definitiva, il rapporto di una pubblica
amministrazione con qualsiasi soggetto non può che essere di
tipo oneroso e comunque inquadrabile in uno degli schemi
giuridici previsti dal codice civile e dalle leggi speciali
in materia di lavoro, anche in ragione del fatto che
l’inserimento di un soggetto nell’organizzazione pubblica
non può non comportare la soggezione al potere di controllo
e di indirizzo necessario alla realizzazione delle sue
finalità istituzionali, con le conseguenze di legge che si
ricollegano alla instaurazione di un rapporto di servizio,
incompatibile con una logica di precarietà giuridica
conseguente alla gratuità delle prestazioni.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte ricordato che
il lavoro gratuito è ammesso nei soli casi
espressamente disciplinati dalla legge,
ipotesi fra cui rileva il lavoro prestato
gratuitamente nelle organizzazioni di volontariato. Nella
prospettiva di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini
sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale, la
legge n. 91/266 ha, infatti, introdotto nell’ordinamento la
figura soggettiva delle organizzazioni di volontariato, che
persegue finalità di carattere sociale, civile e culturale
per il tramite degli aderenti.
Costoro devono prestare la propria
opera in modo personale, spontaneo e gratuito, senza scopo
di lucro neppure indiretto, esclusivamente per fini di
solidarietà. Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 266/1991
“Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i
propri aderenti, che prestano attività di volontariato,
contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento
dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile
verso i terzi".
---------------
Con la nota richiamata in epigrafe il Sindaco del comune
di Grottaminarda (AV) ha chiesto alla Sezione un
parere con riguardo alla possibilità di conferire un
incarico di collaborazione, in forma gratuita, ad un
funzionario collocato in quiescenza per raggiunti limiti di
età, ex responsabile dell’ufficio tecnico comunale con
funzioni dirigenziali e, in particolare:
- se l’incarico di collaborazione possa ricomprendere la
conservazione della funzione di RUP per gli interventi
iniziati in costanza del rapporto di lavoro,
- se la gratuità della collaborazione possa confliggere
con il riconoscimento della quota dell’incentivo ex art. 93
d.lgs. n. 163/2006 e/o art. 113 d.lgs. n. 50/2016
(commisurato alla responsabilità connessa alle specifiche
prestazioni da svolgere) e
- se sia consentito, in via generale, fornire copertura
assicurativa a carico dell’amministrazione, per le
prestazioni svolte dal funzionario destinatario
dell’incarico in forma gratuita.
...
Ciò premesso, questa Sezione rileva come al lavoro alle
dipendenze della pubblica amministrazione inerisca la
generale previsione di accesso tramite concorso, passibile
di essere superata solo in forza di una disposizione di
legge (art. 97, comma 4).
La modalità di ingresso agli impieghi pubblici tramite
concorso costituisce, da un lato, uno strumento al
servizio del buon andamento dell’agire pubblico (art. 97
Cost.), in quanto volto ad individuare il miglior candidato
per la posizione bandita e, dall’altro lato, presidia
il diritto di tutti i cittadini ad accedere agli uffici
pubblici (art. 51 Cost.) quale strumento per promuovere
l’uguaglianza e rimuovere gli ostacoli che di fatto la
limitano (art. 3 Cost.).
Il rapporto di lavoro subordinato riveste un carattere
necessariamente oneroso in aderenza al dettato dell’art. 36
della Costituzione, in forza del quale “Il lavoratore ha
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e
qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e
dignitosa”.
L’art. 2094 c.c. qualifica come prestatore di lavoro
subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a prestare
il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione del
datore di lavoro.
L’onerosità è garantita dall’art. 2126 c.c., anche nel caso
di nullità o annullamento del contratto di lavoro non
derivante da illiceità dell’oggetto o della causa,
allorquando è riconosciuto il diritto al trattamento
retributivo per la prestazione di fatto svolta dal
lavoratore.
Il carattere necessariamente oneroso del rapporto di lavoro
subordinato discende, con riferimento agli enti locali,
dall’art. 90, comma 2, TUEL, ai sensi del quale “al
personale assunto con contratto di lavoro subordinato a
tempo determinato si applica il contratto collettivo
nazionale di lavoro del personale degli enti locali”.
(Sezione Campania
parere 05.06.2014 n. 155).
Dunque, pur comprendendo le istanze dell’Ente (che
riterrebbe auspicabile la continuità dell’azione
amministrativa intrapresa e il mantenimento di un elevato
livello qualitativo delle attività di competenza del RUP),
deve ribadirsi che la disciplina generale
in merito alla gestione del personale pubblico è informata e
plasmata da principi sistematici tali che non consentono
l’utilizzo di personale a titolo gratuito,
quali quelli sopra espressi, legati alla
tutela della dignità del lavoro e al rispetto della
normativa generale in materia, oltre che alla necessità di
evitare l’esposizione degli enti pubblici a rischi legali e
di contenzioso e, quindi, finanziari per le ricadute sul
bilancio in caso di soccombenza
(cfr. SRC Campania
parere 23.09.2015 n. 213).
In definitiva, il rapporto di una pubblica
amministrazione con qualsiasi soggetto non può che essere di
tipo oneroso e comunque inquadrabile in uno degli schemi
giuridici previsti dal codice civile e dalle leggi speciali
in materia di lavoro, anche in ragione del fatto che
l’inserimento di un soggetto nell’organizzazione pubblica
non può non comportare la soggezione al potere di controllo
e di indirizzo necessario alla realizzazione delle sue
finalità istituzionali, con le conseguenze di legge che si
ricollegano alla instaurazione di un rapporto di servizio,
incompatibile con una logica di precarietà giuridica
conseguente alla gratuità delle prestazioni.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte ricordato che
il lavoro gratuito è ammesso nei soli casi
espressamente disciplinati dalla legge
(cfr. anche SRC Lombardia
parere 11.05.2015 n. 192),
ipotesi fra cui rileva il lavoro prestato gratuitamente
nelle organizzazioni di volontariato. Nella prospettiva di
favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini sulla base del
principio di sussidiarietà orizzontale, la legge n. 91/266
ha, infatti, introdotto nell’ordinamento la figura
soggettiva delle organizzazioni di volontariato, che
persegue finalità di carattere sociale, civile e culturale
per il tramite degli aderenti.
Costoro devono prestare la propria opera in
modo personale, spontaneo e gratuito, senza scopo di lucro
neppure indiretto, esclusivamente per fini di solidarietà.
Ai sensi dell’art. 4 della legge n. 266/1991 “Le
organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri
aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli
infortuni e le malattie connessi allo svolgimento
dell'attività stessa, nonché per la responsabilità civile
verso i terzi".
L’ipotesi prospettata appare, in ogni caso, in aperta
contraddizione con le indicazioni fornite dall’Autorità
nazionale anticorruzione e dalla giurisprudenza di questa
Corte, volte a valorizzare il criterio di rotazione del
personale nell’ambito delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, nello schema di Piano nazionale
anticorruzione 2016, (datato 20.05.2016), si auspica la
rotazione del personale, quale misura organizzativa
preventiva, finalizzata a limitare il consolidarsi di
relazioni che possano alimentare dinamiche improprie nella
gestione, contribuendo, inoltre, in tal modo, alla
formazione del personale, accrescendo le conoscenze e la
preparazione professionale del lavoratore, anche attraverso
appositi percorsi di formazione.
La Corte dei conti, Sezione Centrale del controllo di
legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni
dello Stato, con deliberazione 28.04.2016, n. 7, da parte
sua, occupandosi della richiesta di rinnovo
di un incarico dirigenziale che si prolungava dal 2005, ha
negato il visto di legittimità evidenziando come l’ulteriore
proroga dell’incarico per altri tre anni, in assenza di
selezione comparativa, superasse i criteri di ragionevolezza
rappresentando, il rinnovo, infatti, sempre secondo il
Collegio, un istituto eccezionale a carattere derogatorio.
Anche in questo caso,
quindi, viene in evidenza l’esigenza di
assicurare discontinuità nell’attribuzione degli incarichi
dirigenziali
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 23.11.2016 n. 344). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il noto principio per cui "ai fini della decorrenza del
termine per l'impugnazione di una concessione edilizia da
parte di un proprietario di immobile limitrofo occorre la
piena conoscenza della stessa, che si verifica con la
consapevolezza del contenuto specifico della concessione o
del progetto edilizio ovvero quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali
caratteristiche dell'opera" va letto all'interno della singola controversia e
alla luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal
ricorrente.
Laddove lo stesso impugni un titolo edilizio
sulla base dell'asserita divergenza dell'intervento
realizzato (o in corso di realizzazione) con quello
astrattamente autorizzabile in base alla disciplina
urbanistica vigente, il termine per la proposizione del
ricorso (correttamente) non potrà che decorrere dal momento
-anche successivo all'avvio dell'attività di cantiere e
all'apposizione dell'apposito cartello di inizio lavori- in
cui il soggetto acquisisca piena coscienza e cognizione
degli elementi essenziali dell'opera, in base ai quali si
renda evidente l'incompatibilità della stessa con i
parametri urbanistici vigenti.
Pertanto, deve essere ribadita, quale regola generale,
quella secondo cui, ai fini della decorrenza dei termini per
l’impugnazione di una concessione edilizia (oggi permesso di
costruire), occorre che le opere rivelino, in modo certo ed
univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l’entità delle
violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente
derivante dal provvedimento e che, di conseguenza, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre con il
completamento dei lavori, a meno che, tuttavia, non venga
provata una conoscenza anticipata oppure -come nel caso di
specie- si deducano censure di assoluta inedificabilità
dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulta
sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso.
---------------
Come può agevolmente evincersi da quanto testé specificato,
tutti i motivi di impugnazione miravano sostanzialmente a
confermare la permanenza del vincolo di rispetto stradale
asseritamente sussistente sul terreno di proprietà del
controinteressato, sig. Ga.Ni., e la relativa inedificabilità dell'area oggetto dei provvedimenti
impugnati.
Ebbene, stanti tali premesse, non può sorgere dubbio che
l'odierno appellante ben poteva essere pienamente cosciente
della lesività dei provvedimenti -e in particolar modo
della concessione edilizia rilasciata in favore del Ga.- a far data dall'inizio dei lavori di cantiere, che in base
alle risultanze del primo grado di lite deve essere
individuata nel 13.11.2002.
Il noto principio per cui "ai fini della decorrenza del
termine per l'impugnazione di una concessione edilizia da
parte di un proprietario di immobile limitrofo occorre la
piena conoscenza della stessa, che si verifica con la
consapevolezza del contenuto specifico della concessione o
del progetto edilizio ovvero quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali
caratteristiche dell'opera" (C.G.A.R.S. Sez. I, 28.05.2007 n. 421; Cons. Stato Sez. V, 23.09.2005 n. 5033),
difatti, va letto all'interno della singola controversia e
alla luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal
ricorrente.
Laddove lo stesso impugni un titolo edilizio
sulla base dell'asserita divergenza dell'intervento
realizzato (o in corso di realizzazione) con quello
astrattamente autorizzabile in base alla disciplina
urbanistica vigente, il termine per la proposizione del
ricorso (correttamente) non potrà che decorrere dal momento
-anche successivo all'avvio dell'attività di cantiere e
all'apposizione dell'apposito cartello di inizio lavori- in
cui il soggetto acquisisca piena coscienza e cognizione
degli elementi essenziali dell'opera, in base ai quali si
renda evidente l'incompatibilità della stessa con i
parametri urbanistici vigenti.
Pertanto, deve essere ribadita, quale regola generale,
quella secondo cui, ai fini della decorrenza dei termini per
l’impugnazione di una concessione edilizia (oggi permesso di
costruire), occorre che le opere rivelino, in modo certo ed
univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l’entità delle
violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente
derivante dal provvedimento (cfr. Cons. Stato, IV, 23.07.2009,
n. 4616) e che, di conseguenza, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre con il
completamento dei lavori, a meno che, tuttavia, non venga
provata una conoscenza anticipata oppure -come nel caso di
specie- si deducano censure di assoluta inedificabilità
dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulta
sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso (cfr.
Cons. Stato, IV, 10.12.2007, n. 6342).
Dunque, nel caso in cui, come nella fattispecie, il
ricorrente affermi l'inedificabilità assoluta dell'area, già
la prima forma di intervento sul fondo rende lo stesso
perfettamente cosciente dell'incompatibilità dell'opera con
la disciplina applicabile. Ne deriva che, in quest'ultimo
caso, il termine decadenziale per la proposizione
dell'azione deve ritenersi decorrente dal giorno in cui il
soggetto abbia conoscenza dell’attività edilizia in corso.
A tale fine, va ulteriormente specificato che, al di là di
qualsiasi questione circa l'avvenuta apposizione del
cartello di inizio lavori sul cantiere, il sig. Sa., in
quanto fornitore dell'apporto idrico necessario per
l'attività cantieristica e in quanto frontista del fondo del Ga., non poteva che essere venuto a conoscenza
dell'attività edilizia fin dai primi momenti della sua
realizzazione.
Ne deriva che lo stesso avrebbe potuto (e dovuto) proporre
la propria domanda di annullamento entro il termine
decadenziale di 60 giorni dalla data di inizio lavori (13.11.2002) e pertanto non oltre il 12.01.2003.
Avendo il sig. Sa. notificato il ricorso di primo grado
in data 10.03.2003, appare evidente come lo stesso fosse
oramai irrimediabilmente decaduto dalla relativa azione.
Bene, quindi, ha fatto il Tar campano nel dichiarare il
ricorso irricevibile per tardività, pronuncia che deve
essere pertanto confermata anche in sede di appello.
Le considerazioni sopra svolte, tra l'altro, prescindono,
per evidenti ragioni di ordine logico-giuridico, da
qualsiasi valutazione circa l'inammissibilità dell'atto di
appello con il quale, dopo aver puntualmente contestato
l'erroneità della pronuncia di primo grado in rito di
irricevibilità del ricorso di primo grado, ci si rimette in
modo del tutto generico, per quanto attiene ai motivi di
merito dell'impugnazione, alle doglianze già presentate in
primo grado, nonostante l'insegnamento di questo Giudice,
secondo cui "un rinvio indeterminato agli atti di primo
grado, senza alcuna ulteriore precisazione del loro
contenuto, è inidoneo ad introdurre giudizio di appello
motivi in tal modo dedotti, trattandosi di formula di stile
insufficiente a soddisfare l'onere di espressa
riproposizione (Cons. Stato, V, 28.12.2012 n. 6684;
id., 16.08.2010, n. 5702, e giur. ivi. cit.)" (Cons.
Stato Sez. V, 01.12.2014 n. 5939)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.12.2016 n. 5125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
manufatti di cui si ingiunge la
demolizione sono stati edificati nel 1948 e nel 1963, dunque
quando l’obbligo della previa acquisizione della licenza
edilizia vigeva solo per i fabbricati ricompresi nelle zone
urbanizzate, ai sensi dell'art. 31 l. 1150/1942 in combinato
disposto con gli artt. 4 e 5 del Regolamento edilizio
comunale, mentre il centro sportivo oggetto della presente
controversia si trovava in zona agricola, al di fuori del
centro urbano.
Ne risulta l’illegittimità del riferimento alla legge n.
47/1985 e al d.P.R. n. 380/2001 contenuto nel provvedimento
impugnato, in considerazione del tempo di realizzazione
delle opere medesime.
----------------
Per il fatto che il centro sportivo occupa un’area di
proprietà dello Stato prima demaniale e ora appartenente al
patrimonio del medesimo in seguito a decreto di sdemanializzazione,
anche la censura con la quale l’istante ha dedotto la
violazione dell’art. 35, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001
è fondata, in considerazione della mancata previa
comunicazione all’Agenzia del Demanio dell’avvio del
procedimento teso all’emanazione dell’ordinanza di
demolizione, in relazione al potere di autotutela dell’ente
proprietario.
Ed invero, ai sensi della suddetta disposizione normativa:
“Resta fermo il potere di autotutela dello Stato e degli
enti pubblici territoriali, nonché quello di altri enti
pubblici, previsto dalla normativa vigente”.
Ne risulta, dunque, l’illegittimità dell’ordine di
demolizione, adottato omettendo il concerto con l’Agenzia
del Demanio, che avrebbe potuto determinarsi in senso
diverso mediante l’esercizio del proprio potere di
autotutela.
----------------
Coglie nel segno anche la doglianza concernente la
violazione del principio dell’affidamento, la
contraddittorietà e la carenza di motivazione del
provvedimento di demolizione, adottato dopo circa
cinquant’anni dalla realizzazione dei manufatti, che
insistono su area ove è ammessa la destinazione sportiva per
le prescrizioni dello strumento urbanistico vigente al
momento dell’adozione dell’atto impugnato.
E’ stato, invero, affermato che: “L'ingiunzione di
demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della
constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo
abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di
principio sufficientemente motivata con l'affermazione
dell´accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi
fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi
dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza,
si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato;
ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere
di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato. Pertanto, qualora le
difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso
un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo
un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca
alcuna adeguata motivazione sull'esigenza della demolizione
nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento
ingeneratosi in capo al privato”.
----------------
... per l'annullamento:
- dell’ordinanza del Comune di Voghera n. 559/05 del
19.09.2005, con la quale si diffida la Presidente della
Cooperativa ricorrente a demolire i seguenti manufatti:
spogliatoi, servizi e piscine interrate; nonché per la
condanna al risarcimento dei danni;
- con motivi aggiunti: dell’ordinanza n. 79 del 17.02.2006
con la quale si ingiunge la Presidente della Cooperativa
ricorrente a demolire i seguenti manufatti: spogliatoi,
servizi e piscine interrate; nonché per la condanna al
risarcimento dei danni.
...
Con il presente ricorso la Cooperativa istante, che gestisce
in concessione un centro sportivo che occupa un’area di
proprietà dello Stato prima demaniale e ora appartenente al
patrimonio del medesimo in seguito a decreto di
sdemanializzazione, ha impugnato l’ordinanza indicata in
epigrafe, con la quale il Comune di Voghera l’ha diffidata a
demolire gli spogliatoi, i servizi e le piscine interrate
del tennis club sull’assunta abusività dei medesimi
manufatti.
...
Il collegio ritiene che il ricorso sia fondato.
Ed invero, riguardo al primo motivo, con il quale l’istante
ha dedotto la violazione dell’art. 31 della legge n. 1150
del 1942 in combinato disposto con gli artt. 4 e 5 del
Regolamento edilizio comunale, deve osservarsi che,
effettivamente, non è contestato che i manufatti di cui si
ingiunge la demolizione siano stati edificati nel 1948 e nel
1963, dunque quando l’obbligo della previa acquisizione
della licenza edilizia vigeva solo per i fabbricati
ricompresi nelle zone urbanizzate, ai sensi delle
disposizioni normative succitate, mentre il centro sportivo
oggetto della presente controversia si trovava in zona
agricola, al di fuori del centro urbano.
Ne risulta
l’illegittimità del riferimento alla legge n. 47/1985 e al d.P.R. n. 380/2001 contenuto nel provvedimento impugnato, in
considerazione del tempo di realizzazione delle opere
medesime.
Anche la censura con la quale l’istante ha dedotto la
violazione dell’art. 35, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001
è fondata, in considerazione della mancata previa
comunicazione all’Agenzia del Demanio dell’avvio del
procedimento teso all’emanazione dell’ordinanza di
demolizione, in relazione al potere di autotutela dell’ente
proprietario.
Ed invero, ai sensi della suddetta disposizione normativa:
“Resta fermo il potere di autotutela dello Stato e degli
enti pubblici territoriali, nonché quello di altri enti
pubblici, previsto dalla normativa vigente”.
Ne risulta, dunque, l’illegittimità dell’ordine di
demolizione, adottato omettendo il concerto con l’Agenzia
del Demanio, che avrebbe potuto determinarsi in senso
diverso mediante l’esercizio del proprio potere di
autotutela.
Infine, coglie nel segno anche la doglianza concernente la
violazione del principio dell’affidamento, la
contraddittorietà e la carenza di motivazione del
provvedimento di demolizione, adottato dopo circa
cinquant’anni dalla realizzazione dei manufatti, che
insistono su area ove è ammessa la destinazione sportiva per
le prescrizioni dello strumento urbanistico vigente al
momento dell’adozione dell’atto impugnato.
E’ stato, invero, affermato che: “L'ingiunzione di
demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della
constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo
abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di
principio sufficientemente motivata con l'affermazione
dell´accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi
fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi
dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza,
si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato;
ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere
di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato. Pertanto, qualora le
difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso
un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo
un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca
alcuna adeguata motivazione sull'esigenza della demolizione
nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento
ingeneratosi in capo al privato” (Cons. Stato, sez. IV,
08.04.2016, n. 1393).
E tale adeguata motivazione, nei
sensi di cui sopra, non si rinviene affatto nel
provvedimento oggetto della presente impugnazione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi le
ulteriori censure dedotte, il ricorso principale e il
ricorso per motivi aggiunti vanno accolti e per l’effetto,
va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo, mentre sussistono giusti motivi per
compensarle tra la società ricorrente e l’Agenzia del
Demanio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 06.12.2016 n. 2307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il diniego paesaggistico con
motivazione del tipo "l’intervento edilizio non può essere
autorizzato in quanto l’architettura che ne deriva risulta
molto impattante nel contesto paesaggistico, poiché
fortemente percepito dal Paesaggio naturale nelle immediate
vicinanze”.
Invero, il provvedimento impugnato è totalmente carente di
motivazione, limitandosi ad affermare quanto sopra riportato
in maniera apodittica e, di fatto, tautologica.
Al di là del generico richiamo al forte impatto (e alla
forte percezione da parte del “Paesaggio Naturale”) non vi
è, tuttavia, l’indicazione di alcun concreto elemento volto
a supportare tale giudizio negativo o ad esplicitare sotto
quale profilo, in che misura, per quale specifica ragione si
afferma l’esistenza di un “forte impatto” preclusivo
dell’intervento.
Per pacifica giurisprudenza, l’Amministrazione non può
limitarsi ad esprimere valutazioni apodittiche e
stereotipate, ma deve specificare le ragioni del diniego
ovvero esplicitare i motivi del contrasto tale opere da
realizzarsi e le ragioni di tutela dell’area interessata
dall’apposizione del vincolo.
Non è sufficiente, quindi, la motivazione del diniego
all’istanza di autorizzazione fondata su una generica
incompatibilità, non potendo l’Amministrazione limitate la
sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio
ambientale, utilizzando espressioni vaghe e formule
stereotipate.
---------------
10.2. Le conclusioni cui è giunta la sentenza appellata,
peraltro, oltre che supportate da una adeguata motivazione,
sono, per quel che più rileva in questa sede, pienamente
condivisibili nel merito.
Il provvedimento impugnato è totalmente carente di
motivazione, limitandosi ad affermare, in maniera apodittica
e, di fatto, tautologica, che l’intervento edilizio non può
essere autorizzato in quanto “l’architettura che ne
deriva risulta molto impattante nel contesto paesaggistico,
poiché fortemente percepito dal Paesaggio naturale nelle
immediate vicinanze”.
Al di là del generico richiamo al forte impatto (e alla
forte percezione da parte del “Paesaggio Naturale”)
non vi è, tuttavia, l’indicazione di alcun concreto elemento
volto a supportare tale giudizio negativo o ad esplicitare
sotto quale profilo, in che misura, per quale specifica
ragione si afferma l’esistenza di un “forte impatto”
preclusivo dell’intervento.
Per pacifica giurisprudenza (cfr., tra le tante, Con. Stato,
sez. VI, 24.03.2014, n. 1418; Cons. Stato, sez. VI,
21.02.2008, n. 653), l’Amministrazione non può limitarsi ad
esprimere valutazioni apodittiche e stereotipate, ma deve
specificare le ragioni del diniego ovvero esplicitare i
motivi del contrasto tale opere da realizzarsi e le ragioni
di tutela dell’area interessata dall’apposizione del
vincolo.
Non è sufficiente, quindi, la motivazione del diniego
all’istanza di autorizzazione fondata su una generica
incompatibilità, non potendo l’Amministrazione limitate la
sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio
ambientale, utilizzando espressioni vaghe e formule
stereotipate.
Il difetto motivazione emerge in maniera ancora più evidente
se si considera che rispetto al PTP n. 2 Litorale Nord,
l’area su cui insiste il predetto immobile è classificata
C2, e la relativa disciplina prevede che “gli esiti
formali e fisici del regime urbanistico vigente sono
considerati sostanzialmente coerenti con le vocazioni del
territorio e non in rilevante contrasto con i valori
ambientali e paesistici vigenti. Pertanto, il PTP, per
quanto di sua pertinenza, assume le norme dei vigenti
strumenti urbanistici come sue proprie […]” (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.12.2016 n. 5108 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La ristrutturazione edilizia presuppone come
elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella
consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed
architettoniche proprie del manufatto che si vuole
ricostruire.
Non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte
poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si
dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta
consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede
la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un
sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli
elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur
non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa
essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali,
come identità strutturale, in relazione anche alla sua
destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso
che l’immobile esista quanto meno in quelle strutture
essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza,
possano farlo giudicare presente nella realtà materiale).
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, la c.d.
demo-ricostruzione –ovvero un’incisiva forma di recupero di
preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione
edilizia– tradizionalmente pretende la pressoché fedele
ricostruzione di un fabbricato identico a quello già
esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come
organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture
orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso,
prescindere.
L'attività di ricostruzione di ruderi è stata invece
concordemente considerata, a tutti gli effetti,
realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi
perduto i caratteri dell’entità urbanisitco-edilizia
originaria sia in termini strutturali che funzionali.
Sicché, nulla rileva che, attraverso complesso attività
tecniche, si riesca a risalire all’originaria consistenza
dell’edificio, considerato che quest’ultimo non esista più
come entità edilizia nell’attualità e dunque la sua
ricostruzione si configura, comunque, come una nuova
costruzione.
---------------
11. Infondato, infine, il motivo di appello diretto a
sostenere che la ricostruzione del rudere sia intervento
qualificabile come ristrutturazione edilizia tutte le volte
in cui sia possibile risalire comunque alla originaria
consistenza del manufatto.
La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento
indispensabile la preesistenza del fabbricato nella
consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed
architettoniche proprie del manufatto che si vuole
ricostruire (Cons. Stato Sez. IV 15.09.2006 n. 5375).
Non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte
poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si
dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè
l’esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si
chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un
sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli
elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur
non necessariamente “abitato” o “abitabile”,
esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati
essenziali, come identità strutturale, in relazione anche
alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha
preteso che l’immobile esista quanto meno in quelle
strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di
consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà
materiale: Cons. Stato, sez. V, 21.10.2014, n. 5174; Cons.
Stato, V, 15.03.1990, n. 293 e 20.12.1985, n. 485).
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, la c.d.
demo-ricostruzione –ovvero un’incisiva forma di recupero di
preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione
edilizia– tradizionalmente pretende la pressoché fedele
ricostruzione di un fabbricato identico a quello già
esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come
organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture
orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso,
prescindere (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 475).
L'attività di ricostruzione di ruderi è stata invece
concordemente considerata, a tutti gli effetti,
realizzazione di una nuova costruzione (cfr. Cass. pen.
20.02.2001, n. 13982; Cons. Stato, V, 01.12.1999, n. 2021),
avendo questi perduto i caratteri dell’entità
urbanisitco-edilizia originaria sia in termini strutturali
che funzionali.
Sicché, come correttamente ha rilevato la sentenza
appellata, a nulla rileva che, attraverso complesso attività
tecniche, si riesca a risalire all’originaria consistenza
dell’edificio, considerato che quest’ultimo non esista più
come entità edilizia nell’attualità e dunque la sua
ricostruzione si configura, comunque, come una nuova
costruzione.
Non risulta dirimente, in senso contrario il richiamo fatto
dall’appellante all’art. 7, comma 8-bis, della legge
regionale Campania n. 19 del 2009, ai sensi del quale “E’
consentito il recupero edilizio […] in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti, mediante intervento di ricostruzione in
sito, di edifici diruti e ruderi, purché sia comprovata la
preesistenza […] nonché la consistenza e l’autonomia
funzionale, con obbligo di destinazione del manufatto ad
edilizia residenziale […]”.
La norma non è applicabile al caso di specie, in quanto
l’immobile oggetto della presente controversia non viene
ricostruito in sito (ma è delocalizzato rispetto
all’originaria aria di sedime) ed inoltre non è destinato ad
edilizia residenza ma a bar gelateria. In relazione a tale
circostanza ostativa all’applicazione della norma peraltro
l’appello non contiene specifiche censure.
12. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello
deve, pertanto, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.12.2016 n. 5106 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Taglio delle ali – Art. 97 d.lgs. n. 50/2016 –
Offerte rientranti nelle cd. ali - Calcolo della media e
determinazione dello scarto medio aritmetico –
Interpretazione.
In tema di taglio delle ali, l’art. 97 del nuovo codice
appalti (d.lgs. n. 50/2016) non ha voluto escludere le
offerte delle c.d. ali sia dal calcolo della media che dalla
determinazione dello scarto medio aritmetico: altrimenti, un
legislatore tecnico e consapevole degli orientamenti della
giurisprudenza, come quello che redige il testo di decreti
legislativi per conto del governo, avrebbe formulato la
norma in modo da eliminare possibili interpretazioni
alternative, precisando che i ribassi percentuali che
superano la media da confrontare dovevano essere solo quelli
precedentemente utilizzati per calcolare la media dei
ribassi.
Il fatto che le offerte con ribassi estremi in un senso o
nell’altro siano escluse dal primo calcolo, è quindi dovuto
alla sola necessità di evitare che offerte anomale incidano
eccessivamente nel calcolare una media: l’individuazione
dello scarto medio aritmetico serve a correggere detta media
tenendo conto di tutte le offerte più alte presentate, così
da rendere più vicina la media alla realtà delle offerte
presentate alzando la soglia di anomalia e da ricomprendere
qualche concorrente che resterebbe oltre la soglia in caso
di mero riferimento ad uno scarto calcolato sulle sole
offerte che hanno partecipato al calcolo sulla media (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 05.12.2016 n. 983
- link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Il Tar Bologna pronuncia in tema di taglio delle ali ex art.
97, d.lgs. n. 50 del 2016.
---------------
Gara – Offerta – Anomalia – Verifica – Taglio delle ali
ex art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio.
L’art. 97, d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
nel dettare il criterio del c.d. taglio delle ali,
necessario per individuare la soglia di anomalia delle
offerte, non ha escluso le offerte delle c.d. ali dal
calcolo della media e dalla determinazione dello scarto
medio.
Diversamente, infatti, il legislatore del Codice avrebbe
chiarito che i ribassi percentuali che superano la media da
confrontare dovevano essere solo quelli precedentemente
utilizzati per calcolare la media dei ribassi (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il fatto che le offerte con ribassi
estremi in un senso o nell’altro siano esclude dal primo
calcolo, è dovuto alla necessità di evitare che offerte
anomale incidano eccessivamente nel calcolare una media.
Ma l’individuazione dello scarto medio aritmetico serve a
correggere detta media tenendo conto di tutte le offerte più
alte presentate, così da rendere più vicina la media alla
realtà delle offerte presentate alzando la soglia di
anomalia così da ricomprendere qualche concorrente che
resterebbe oltre la soglia in caso di mero riferimento ad
uno scarto calcolato sulle sole offerte che hanno
partecipato al calcolo sulla media.
Il tutto per favorire un maggior risparmio
dell’Amministrazione (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 05.12.2016 n. 983
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
La società ricorrente ha partecipato alla procedura
negoziata per l’affidamento di un appalto di lavori per
l’adeguamento impiantistico della sala F che deve contenere
una parte del supercalcolatore Marconi; l’aggiudicazione
sarebbe avvenuta con il criterio del prezzo più basso di cui
all’art. 95, comma 4 lett. A), D.lgs. 50/2016.
La ricorrente giungeva seconda ma contestava che vi era
stato un errore nel calcolare il c.d. “scarto aritmetico“;
l’errore era stato segnalato alla stazione appaltante che
però, in uno scambio di missive, confermava il provvedimento
di aggiudicazione assunto.
Da ciò il ricorso che si fonda su un unico motivo.
Quando si sceglie il metodo di aggiudicazione del prezzo più
basso vi deve essere la previa individuazione della soglia
di anomalia.
Mediante tale soglia si eliminano le offerte meno
attendibili perché un eccesso di ribasso può non garantire
una seria esecuzione della prestazione.
Il meccanismo per giungere a questo risultato prevede
innanzitutto il taglio delle ali che è stato effettuato, in
virtù di sorteggio, secondo il metodo previsto dall’art. 97,
comma 2, lett. E), D.lgs. 50/2016 “e) media aritmetica
dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con
esclusione del dieci per cento, arrotondato all'unità
superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso
e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto
medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la
predetta media, moltiplicato per un coefficiente sorteggiato
dalla commissione giudicatrice all'atto del suo insediamento
tra i seguenti valori: 0,6; 0,8; 1; 1,2; 1,4.”.
Pertanto si è proceduto all’eliminazione del 10% delle
offerte più alte e più basse con calcolo della media
aritmetica di quelle rimaste. La successiva operazione è
stata quella di individuazione dello scarto medio aritmetico
ovvero lo scarto medio tra i ribassi superiori alla media
aritmetica e quest’ultima. Va precisato che nell’effettuare
questo calcolo non vanno inserite le offerte scartate nel
taglio delle ali.
Successivamente lo scarto medio aritmetico deve essere
moltiplicato per uno dei parametri indicati dalla norma
sopra richiamata, oggetto anche esso di sorteggio: nel caso
di specie fu sorteggiato il parametro 1. Poi lo stesso viene
sommato alla media aritmetica individuata nella prima fase
del procedimento.
L’errore commesso dalla Commissione aggiudicatrice consiste
nell’aver inserito anche le offerte tagliate nella prima
fase nel calcolo dello scarto medio aritmetico.
Se non si fosse operato questo illegittimo modo di calcolare
lo scarto medio aritmetico, il parametro finale sul quale
verificare quale offerta fosse più vicina, avrebbe visto
quale prima classificata la ricorrente e non la
controinteressata.
Si costituiva in giudizio CI. chiedendo il rigetto del
ricorso.
La questione posta dalla presente
controversia è una pura questione di diritto che già con il
precedente Codice degli Appalti ha dato luogo ad una
giurisprudenza non uniforme.
La norma applicabile precedentemente era l'art. 86, comma 1,
D.Lgs.163/2006, che prevede: "Nei contratti di cui al
presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è
quello del prezzo più basso, le stazioni appaltanti valutano
la congruità delle offerte che presentano un ribasso pari o
superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per
cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente
delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor
ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei
ribassi percentuali che superano la predetta media".
Secondo un indirizzo favorevole al metodo usato dalla
resistente, il cosiddetto "taglio delle ali",
previsto dall'art. 86, comma, 1 del D.Lgs.163/2006, ha la
finalità, unitamente ad altri elementi, solo di individuare
la soglia di anomalia delle offerte e non di escludere
automaticamente dalla gara le imprese che abbiano presentato
offerte ricadenti nel detto taglio; ne consegue che le
offerte che si situano oltre la fissata soglia di anomalia
devono essere esclusivamente assoggettate al vaglio di
congruità ai fini dell'aggiudicazione (vedasi ex multis
TAR Napoli 2800/2016, TAR Abruzzo 370/2015, TAR Lombardia
1312/2011, TAR Puglia Lecce 2629/2010 ).
A favore dell’ipotesi contraria: Consiglio di Stato
3953/2012 la cui massima così si esprime: “In base
all'art. 122, comma 9, del d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli
appalti), al fine dell'esclusione automatica delle offerte
cd. anomale, sono considerate tali tutte quelle che
presentino un ribasso pari o superiore alla media aritmetica
dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con
esclusione (cd. taglio delle ali) del dieci per cento,
arrotondato all'unità superiore, rispettivamente, delle
offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso,
incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi
percentuali che superano la predetta media. Pertanto, dopo
l'ammissione delle offerte, sono previste le seguenti fasi:
- taglio delle ali, vale dire l'esclusione dal calcolo del
dieci per cento, arrotondato all'unità superiore,
rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle
di minor ribasso;
- calcolo della media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le residue offerte;
- calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi
percentuali che in tali offerte superano la predetta media;
- somma dei dati relativi alla media aritmetica e allo
scarto medio aritmetico, con la conseguente determinazione
della soglia di anomalia” ( vedasi anche Consiglio di
Stato 818/2016 ).
A fronte di una disciplina che aveva dato origine a tale
contrasto giurisprudenziale, si deve ritenere che
un legislatore tecnico e consapevole degli
orientamenti della giurisprudenza, come quello che redige il
testo di decreti legislativi per conto del governo, abbia
formulato la norma in modo da eliminare possibilmente
interpretazioni alternative.
Ed allora dobbiamo rifarci al testo della
legge: se l’art. 97 citato avesse voluto escludere le
offerte delle c.d. ali sia dal calcolo della media sia dalla
determinazione dello scarto medio aritmetico, lo avrebbe
detto esplicitamente precisando che i ribassi percentuali
che superano la media da confrontare dovevano essere solo
quelli precedentemente utilizzati per calcolare la media dei
ribassi.
L’ANAC in un comunicato del 05.10.2016 ha sottolineato come
l’accantonamento delle ali costituisca una mera
operazione matematica, distinta dall’effettiva esclusione di
concorrenti che superano la soglia di anomalia.
Il fatto che le offerte con ribassi estremi
in un senso o nell’altro siano esclude dal primo calcolo, è
dovuto alla necessità di evitare che offerte anomale
incidano eccessivamente nel calcolare una media. Ma
l’individuazione dello scarto medio aritmetico serve a
correggere detta media tenendo conto di tutte le offerte più
alte presentate, così da rendere più vicina la media alla
realtà delle offerte presentate alzando la soglia di
anomalia così da ricomprendere qualche concorrente che
resterebbe oltre la soglia in caso di mero riferimento ad
uno scarto calcolato sulle sole offerte che hanno
partecipato al calcolo sulla media. Il tutto per favorire un
maggior risparmio dell’Amministrazione.
Pertanto il ricorso va respinto, ma, considerata l’esistenza
di un notevole contrasto sul punto in giurisprudenza
nell’interpretazione dell’art. 86 D.lgs. 163/2006 e la
mancanza di un orientamento univoco sulla nuova norma appena
entrata in vigore, appare equo compensar le spese di
giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA: Sia
prima che dopo la l. n. 124 del 2015, le regole cui è
assoggettato il potere amministrativo di controllo e di
inibizione-conformazione, decorsi sessanta (o trenta, in
materia edilizia) giorni dalla presentazione della s.c.i.a.,
sono sempre e comunque quelle di cui al primo comma
dell'art. 21-nonies; ciò in quanto il potere inibitorio
originario è comunque esaurito per decorso del termine di
legge, sicché detto potere —che riviva per effetto
dell'autonoma iniziativa dell'Amministrazione o per effetto
dell'azione sollecitatoria del terzo e, quindi, del giudice
amministrativo— resta nella sfera di disponibilità
dell'Amministrazione solo a particolari condizioni.
Si veda anche altra giurisprudenza:
- Cons. St., sez. IV, 16.04.2014 n. 1880, che, con
riferimento all'autotutela, parla di potere residuale, che
presuppone un'attenta ponderazione comparativa degli
interessi dei soggetti coinvolti, mentre il ripristino della
legalità non è motivo di per sé solo sufficiente per
l'annullamento del precedente atto; nello stesso senso anche
Cons. St., sez. VI, 22.09.2014 n. 4780 e 04.02.2014, n. 532,
ove si afferma che è riconosciuto, in ogni caso,
l'affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi
garantistici dell'autotutela, anche a prescindere da un vero
e proprio annullamento dell'assenso tacito, che si ritenesse
in precedenza formato.
- TAR Lazio, sez. II Roma, 13/01/2014, n. 350, secondo il
quale ai sensi degli art. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241
del 1990, il provvedimento amministrativo con cui
l'amministrazione comunica l'inefficacia della s.c.i.a.,
siccome equivalente ad un provvedimento di revoca e/o
annullamento, deve scontare i limiti e i presupposti propri
che perimetrano l'esercizio del relativo potere, mediante
esplicitazione delle sottese ragioni di interesse pubblico e
tenendo conto degli interessi del destinatario.
---------------
Nel caso specifico, l'esercizio dell'autotutela è certamente
illegittimo, poiché nell’atto impugnato non si ravvisa alcun
cenno circa la sussistenza delle ragioni di interesse
pubblico concreto ed attuale all'intervento in autotutela,
prevalente sull'interesse del privato alla conservazione del
titolo illegittimo; e manca altresì la necessaria
considerazione degli interessi dei destinatari e
ponderazione tra interessi pubblici e privati.
---------------
... per l'annullamento del provedimento del Dirigente dell'U.T.C.
emesso il 05.12.2014 con il quale si ordina al
ricorrente la sospensione e la riduzione in pristino dei
lavori realizzati all'interno della particella n. 12 del
foglio di mappa n. 18 ed identificati con i fabbricati
censiti in catasto al foglio di mappa 18, particelle nn. 631
e 632, in quanto eseguiti in difformità essenziale rispetto
all'originaria concessione edilizia 03/2011.
...
III. Il quarto motivo di ricorso è fondato.
Occorre premettere che con il Decreto Legge 13/05/2011, n.
70 (convertito con legge n. 106 del 12.07.2011), sono
state apportate modifiche al Testo Unico dell'edilizia
(D.P.R. 380/2001) ed alla Legge 241/1990, ed è stata normata
la SCIA in materia edilizia (art. 5, comma 2, punto b, del DL
70/2011 che modifica l'art. 19 L. 241/1990).
Le disposizioni in questione sono state oggetto di varie
modifiche nel corso degli anni, in particolare con la legge
07.08.2015 n. 124 , che tuttavia non trova applicazione
al caso oggetto di questo giudizio, svoltosi anteriormente
alla sua entrata in vigore.
La disciplina relativa alla SCIA è stata recepita in Sicilia
con l’art. 6 della L.R. n. 5/2011, che ha sostituito l'art. 22
della LR 10/1991 sulla base di quanto introdotto
nell’ordinamento nazionale dalla Legge 98/2013.
Sulle questioni prospettate da parte ricorrente con il
citato motivo di ricorso (illegittimità dell’atto impugnato
perché carente della necessaria espressa e congrua
motivazione circa l’interesse pubblico concreto ed attuale)
si è recentemente espressa la giurisprudenza, ed in
particolare TAR Campania, sez. IV Napoli, il quale, con
sent. 05/04/2016, n. 1658, dopo accurata ricostruzione del
quadro normativo (cui per brevità si fa rinvio), conclude
nel senso che, sia prima che dopo la l. n. 124 del 2015, le
regole cui è assoggettato il potere amministrativo di
controllo e di inibizione-conformazione, decorsi sessanta
(o trenta, in materia edilizia) giorni dalla presentazione
della s.c.i.a., sono sempre e comunque quelle di cui al
primo comma dell'art. 21-nonies; ciò in quanto il potere
inibitorio originario è comunque esaurito per decorso del
termine di legge, sicché detto potere —che riviva per
effetto dell'autonoma iniziativa dell'Amministrazione o per
effetto dell'azione sollecitatoria del terzo e, quindi, del
giudice amministrativo— resta nella sfera di disponibilità
dell'Amministrazione solo a particolari condizioni.
Si veda anche la giurisprudenza citata in detta sentenza:
Cons. St., sez. IV, 16.04.2014 n. 1880, che, con
riferimento all'autotutela, parla di potere residuale, che
presuppone un'attenta ponderazione comparativa degli
interessi dei soggetti coinvolti, mentre il ripristino della
legalità non è motivo di per sé solo sufficiente per
l'annullamento del precedente atto; nello stesso senso anche
Cons. St., sez. VI, 22.09.2014 n. 4780 e 04.02.2014, n. 532, ove si afferma che è riconosciuto, in ogni
caso, l'affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell'autotutela, anche a prescindere
da un vero e proprio annullamento dell'assenso tacito, che
si ritenesse in precedenza formato.
Si veda altresì TAR Lazio, sez. II Roma, 13/01/2014, n.
350, secondo il quale ai sensi degli art. 21-quinquies e
21-nonies l. n. 241 del 1990, il provvedimento
amministrativo con cui l'amministrazione comunica
l'inefficacia della s.c.i.a., siccome equivalente ad un
provvedimento di revoca e/o annullamento, deve scontare i
limiti e i presupposti propri che perimetrano l'esercizio
del relativo potere, mediante esplicitazione delle sottese
ragioni di interesse pubblico e tenendo conto degli
interessi del destinatario.
Nel caso specifico, l'esercizio dell'autotutela è certamente
illegittimo, poiché nell’atto impugnato non si ravvisa alcun
cenno circa la sussistenza delle ragioni di interesse
pubblico concreto ed attuale all'intervento in autotutela,
prevalente sull'interesse del privato alla conservazione del
titolo illegittimo; e manca altresì la necessaria
considerazione degli interessi dei destinatari e
ponderazione tra interessi pubblici e privati.
Tanto basta a determinare l’illegittimità del provvedimento
impugnato, che, in accoglimento del ricorso, e previo
assorbimento degli ulteriori profili, al cui esame parte
ricorrente non mantiene alcun interesse, viene accolto
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 30.11.2016 n. 3112 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto attiene alle distanze fra costruzioni
o di queste con i confini, vige il regime della c.d.
doppia tutela per cui il soggetto, che assume di essere
stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia di
distanze, è titolare, da un lato, del diritto
soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in
pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia
illecita (con competenza del giudice ordinario) e,
dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del
provvedimento invalido dell'Amministrazione.
---------------
8.1 Eccepisce innanzitutto quest’ultimo il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi a suo
dire di controversia che riguardando questioni di
distanze e, dunque, involgenti diritti soggettivi– avrebbe
dovuto essere dedotta dinanzi al giudice ordinario.
Ritiene il Collegio che l’eccezione sia infondata per le
ragioni di seguito esposte.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, nel
nostro ordinamento, “…per quanto attiene alle distanze
fra costruzioni o di queste con i confini, vige il regime
della c.d. doppia tutela per cui il soggetto, che
assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle
norme in materia di distanze, è titolare, da un lato,
del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla
riduzione in pristino nei confronti dell'autore
dell'attività edilizia illecita (con competenza del giudice
ordinario) e, dall'altra, dell'interesse legittimo
alla rimozione del provvedimento invalido
dell'Amministrazione…” (Cons. Stato, Sez. IV,
31.03.2015, n. 1692) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.11.2016 n. 2274 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla tempistica da osservare, da parte del terzo, per
inibire l'esecuzione dei lavori edilizi con DIA/SCIA.
Vi è un orientamento, seguito dal giudice d’appello, secondo
cui l’istanza di esercizio del potere inibitorio riguardante
una denuncia di inizio attività deve essere inoltrata
all’amministrazione –pena la tardività del giudizio
istaurato avverso il provvedimento che dà ad essa riscontro–
non oltre il termine di sessanta giorni decorrente dalla
conoscenza della denuncia stessa.
Il Collegio tuttavia non condivide questo orientamento in
quanto non aderente al dato normativo. Non vi è infatti
alcuna norma che ponga un termine entro il quale il terzo
deve formulare la predetta istanza, non contenendo
l’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 alcuna
prescrizione in proposito.
Si deve peraltro osservare che, con specifico riferimento
alla DIA/SCIA in materia edilizia, la Sezione, in alcune
recenti pronunce, ha avuto modo di affermare i seguenti
principi:
a) il terzo può sollecitare in qualsiasi momento l’esercizio del
potere inibitorio;
b) se la relativa istanza viene inoltrata entro il termine di
sessanta giorni decorrente dalla piena conoscenza della
DIA/SCIA, l’amministrazione deve esercitare il suddetto
potere paralizzando l’attività del denunciante sulla base
del mero riscontro dell’illegittimità di quest’ultima
(potere inibitorio puro);
c) se invece l’istanza del terzo viene depositata dopo il decorso
del suddetto termine, l’amministrazione può intervenire
unicamente qualora sussistano i presupposti per l’esercizio
del potere di autotutela;
d) il terzo può sempre impugnare l’atto con cui l’amministrazione
si pronuncia sulla sua istanza.
Il rispetto del termine di sessanta giorni rileva dunque al
solo fine di stabilire quale tipo di potere
l’amministrazione potrà esercitare, giacché, se il terzo
interviene tempestivamente, gli deve essere assicurata, ai
sensi degli artt. 3 e 24 Cost., una tutela non inferiore a
quella di cui avrebbe goduto qualora avesse tempestivamente
impugnato un permesso di costruire (e siccome in questo
caso, il giudice avrebbe annullato l’atto sulla base del
mero riscontro della sua illegittimità, allo stesso modo
l’amministrazione deve privare la DIA/SCIA dei propri
effetti abilitativi sulla base del mero riscontro della non
conformità della stessa alla vigente normativa).
---------------
Il
controinteressato eccepisce ancora la tardività del ricorso
rilevando che, nella sostanza, la ricorrente intende
paralizzare gli effetti della DIA del 30.01.2014 e che, per
questo motivo, l’istanza di esercizio del potere inibitorio
avrebbe dovuto essere depositata non oltre il termine di
sessanta giorni decorrente dalla sua conoscenza.
Con altra eccezione, lo stesso controinteressato rileva che,
nel caso specifico, sono ormai decorsi i termini per
l’esercizio del potere inibitorio e che, quindi, l’istanza
della ricorrente non potrebbe aver l’effetto di rimettere in
termini l’Amministrazione. Potrebbe dunque esercitarsi il
solo potere di autotutela del quale, comunque, non
sussisterebbero i presupposti, non avendo la medesima
Amministrazione effettuato l’attività di comparazione degli
interessi a tal fine necessaria. La ricorrente non avrebbe,
quindi, secondo il controinteressato, alcun interesse alla
proposizione del ricorso.
In proposito si osserva quanto segue.
Si deve dare atto che, effettivamente, vi è un orientamento,
seguito dal giudice d’appello, secondo cui l’istanza di
esercizio del potere inibitorio riguardante una denuncia di
inizio attività deve essere inoltrata all’amministrazione
–pena la tardività del giudizio istaurato avverso il
provvedimento che dà ad essa riscontro– non oltre il termine
di sessanta giorni decorrente dalla conoscenza della
denuncia stessa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015, n.
5161).
Il Collegio tuttavia non condivide questo orientamento in
quanto non aderente al dato normativo. Non vi è infatti
alcuna norma che ponga un termine entro il quale il terzo
deve formulare la predetta istanza, non contenendo
l’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 alcuna
prescrizione in proposito (cfr. sul punto TAR Piemonte, Sez.
II, 01.07.2015, n. 1114).
Si deve peraltro osservare che, con specifico riferimento
alla DIA/SCIA in materia edilizia, la Sezione, in alcune
recenti pronunce, ha avuto modo di affermare i seguenti
principi:
a) il terzo può sollecitare in qualsiasi momento l’esercizio del
potere inibitorio;
b) se la relativa istanza viene inoltrata entro il termine di
sessanta giorni decorrente dalla piena conoscenza della
DIA/SCIA, l’amministrazione deve esercitare il suddetto
potere paralizzando l’attività del denunciante sulla base
del mero riscontro dell’illegittimità di quest’ultima
(potere inibitorio puro);
c) se invece l’istanza del terzo viene depositata dopo il decorso
del suddetto termine, l’amministrazione può intervenire
unicamente qualora sussistano i presupposti per l’esercizio
del potere di autotutela;
d) il terzo può sempre impugnare l’atto con cui l’amministrazione
si pronuncia sulla sua istanza (cfr. TAR Lombardia, Milano,
Sez. II, 15.04.2016, n. 735).
Il rispetto del termine di sessanta giorni rileva dunque al
solo fine di stabilire quale tipo di potere
l’amministrazione potrà esercitare, giacché, se il terzo
interviene tempestivamente, gli deve essere assicurata, ai
sensi degli artt. 3 e 24 Cost., una tutela non inferiore a
quella di cui avrebbe goduto qualora avesse tempestivamente
impugnato un permesso di costruire (e siccome in questo
caso, il giudice avrebbe annullato l’atto sulla base del
mero riscontro della sua illegittimità, allo stesso modo
l’amministrazione deve privare la DIA/SCIA dei propri
effetti abilitativi sulla base del mero riscontro della non
conformità della stessa alla vigente normativa).
Non è dunque rilevante, ai fini della valutazione della
tempestività del ricorso in esame, il fatto che, nel caso
concreto, l’istanza della ricorrente sia stata inoltrata
all’Amministrazione dopo il decorso del termine di sessanta
giorni dal momento di piena conoscenza della DIA presentata
dal controinteressato, essendo unicamente rilevante il fatto
che sia stato tempestivamente impugnato l’atto che ha dato
riscontro all’istanza di sollecitazione all’esercizio del
potere inibitorio.
Né tale ritardo rileva ai fini della valutazione
dell’interesse alla proposizione del gravame, posto che
l’Amministrazione conserva comunque la possibilità di
effettuare un intervento subordinato al riscontro dei
presupposti dell’autotutela.
Neppure è decisivo il fatto che l’Amministrazione, in
occasione dell’adozione degli atti impugnati, non abbia
effettuato l’attività di comparazione degli interessi
coinvolti.
L’accoglimento del ricorso costringerebbe infatti la stessa
Amministrazione ad aprire nuovamente il procedimento, nel
corso del quale ben potrà essere effettuata l’attività di
comparazione degli interessi coinvolti; attività considerata
in prima battuta non necessaria stante la ritenuta
insussistenza dei profili di illegittimità denunciati dalla
ricorrente.
Vi è dunque, quantomeno, un interesse strumentale alla
proposizione del ricorso, posto che, in esito al nuovo
procedimento, potrebbe essere adottato un atto favorevole
alla ricorrente stessa.
Per tutte queste ragioni, le eccezioni in esame risultano
infondate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.11.2016 n. 2274 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Stabilisce l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R.
n. 380 del 2001 che rientrano nell'ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli
consistenti nella demolizione e, successiva, ricostruzione,
con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta
dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge
21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge
09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che,
per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli
interventi di demolizione e ricostruzione dovevano
rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a
differenza della precedente, non fa più menzione della
sagoma; sicché deve ritenersi che, attualmente, possono
considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che
si limitano al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, l’ultimo periodo della disposizione specifica a
sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento agli
immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione […]
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Come si vede, questa norma prevede un’eccezione alla regola
generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione
che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree
sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali
e del paesaggio. Per questi immobili, dunque, continua a
permanere il vincolo della sagoma; pertanto, qualora
l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area
vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà
qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione
edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova
costruzione.
E’ opinione del Collegio che, vista la genericità della
previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della
fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si
applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della
Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio,
nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di
inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.
---------------
Nella fattispecie, proprio perché trattasi intervento di
nuova costruzione, e non di intervento di
ristrutturazione edilizia, esso avrebbe dovuto
rispettare le norme sulle distanze.
In realtà, la qualificazione giuridica dell’intervento non
sempre è decisiva per stabilire quando si imponga il
rispetto delle succitate norme.
Va difatti evidenziato che la giurisprudenza sembra più che
altro far riferimento al grado di innovatività della nuova
opera rispetto alla precedente: la deroga è, in particolare,
ammessa quando si tratti di interventi che comportino il
recupero di un bene esistente già collocato a distanza
inferiore a quella legale.
Quando invece l’intervento, in ragione dell'entità delle
modifiche apportate al fabbricato, renda l'opera realizzata
nel suo complesso oggettivamente diversa da quella
preesistente, l’osservanza delle disposizioni sulle distanze
recate dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 si rende
comunque necessaria, e ciò in ragione dell’interesse
protetto da dette disposizioni volte alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, che potrebbero
venire irrimediabilmente compromesse dalla creazione di
malsane intercapedini.
In base a questo orientamento, dunque, anche gli interventi
ristrutturazione edilizia che determinano la
creazione di un fabbricato del tutto diverso debbono essere
realizzati nel rispetto delle norme dettate in materia di
distanze.
---------------
Il nuovo fabbricato (demolizione con successiva
ricostruzione) è del tutto diverso dal precedente. Da ciò
discende che, in applicazione dei principi sopra illustrati,
la sua realizzazione avrebbe dovuto effettuarsi nel rispetto
delle distanze legali imposte dall'articolo 9 del d.m. n.
1444 del 1968.
Nel caso concreto, tali prescrizioni non sono state
rispettate, in quanto è pacifico che l’immobile ricostruito
è collocato ad una distanza inferiore a dieci metri dalla
parete finestrata dell’edificio di proprietà della
ricorrente e a meno di cinque metri dal confine.
A contrario non vale dedurre che è solo la parte
dell’immobile ricostruita sulla sagoma preesistente (quella
collocata al piano terra) a non rispettare le norme sulle
distanze, mentre la parte che si discosta dalla preesistente
sagoma è stata realizzata nello scrupoloso rispetto delle
predette norme.
Va difatti osservato che, una volta stabilito che l’opera
realizzata è completamente diversa da quella preesistente,
essa deve rispettare nella sua interezza le suddette
disposizioni, non potendosi, a parere del Collegio,
effettuare valutazioni parcellizzate riguardanti le singole
porzioni.
---------------
9. Esaurita la trattazione delle questioni preliminari, può
ora passarsi all’esame del merito del ricorso.
10. Con il primo motivo, la ricorrente sostiene che
l’intervento oggetto della DIA del 30.01.2014 andrebbe
qualificato non già come ristrutturazione edilizia, ma come
intervento di nuova costruzione. E ciò sia in applicazione
dell’articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del
2001, in quanto trattasi di intervento di demolizione e
ricostruzione, con sagoma diversa, di un immobile situato in
area vincolata ai sensi del decreto legislativo n. 42 del
2004; sia perché trattasi di intervento di sostituzione
edilizia da ricondurre, ai sensi dell’articolo 27, comma 1,
lett. e), punto 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005,
proprio alla categoria della nuova costruzione.
L’Amministrazione –che ha invece qualificato l’intervento
come ristrutturazione edilizia– sarebbe dunque incorsa in un
evidente errore che determinerebbe l’illegittimità degli
atti impugnati.
Questa censura viene ripresa e sviluppata nel primo motivo
dei motivi aggiunti (rubricato sub 5), nel quale la
ricorrente ribadisce che l’intervento di cui è causa
andrebbe correttamente ascritto alla categoria della nuova
costruzione.
La parte evidenzia che nessun rilievo, ai fini della
qualificazione, potrebbe avere la circostanza –evidenziata
nella nota del Commissario prefettizio del Comune di
Sant’Angelo Lodigiano– che l’area in cui è collocato
l’immobile non rientra fra quelle previste e disciplinate
dalla Parte I (rectius: nella Parte II, dedicata ai “Beni
culturali”) del Codice dei beni culturali e del
paesaggio, così come nessun rilievo potrebbe avere la
circostanza che non trattasi di vincolo assoluto ma
relativo. Secondo la ricorrente, infatti, l’articolo 3,
comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 escluderebbe
genericamente la possibilità di ascrivere alla categoria
della ristrutturazione edilizia tutti gli interventi che
consistono nella demolizione e nella successiva
ricostruzione di immobili ricadenti in aree sottoposte a
vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del
paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004,
senza operare distinzione alcuna in ordine alla fonte ed
alla natura del vincolo.
Né a dire della parte potrebbe avere rilievo il fatto che il
Soprintendente abbia espresso parere positivo alla
realizzazione dell’intervento, giacché non è compito di tale
organo operare la qualificazione dell’intervento stesso
sotto il profilo prettamente urbanistico.
Le censure appena illustrate sono strettamente connesse con
quelle contenute nel terzo motivo del ricorso introduttivo e
nei motivi sub 6) e 7) dei motivi aggiunti, per mezzo delle
quali la ricorrente deduce che la non corretta
qualificazione dell’intervento ha indotto il Comune a non
ritenere violate le norme sulle distanze fra pareti
finestrate e quelle sulle distanze dai confini sancite
dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 e dall’art. 24
delle NTA del PGT.
Secondo la parte, infatti, una volta ascritto l’intervento
di cui è causa alla categoria della nuova costruzione,
imprescindibile sarebbe il dovuto rispetto delle suindicate
norme, derogabili solo per gli interventi di recupero del
patrimonio edilizio esistente. Rileva in subordine la
ricorrente che, anche se si dovesse ascrivere l’intervento
di cui è causa alla categoria della ristrutturazione
edilizia, cionondimeno le norme sulle distanze di cui al
citato articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 andrebbero, nel
caso concreto, comunque rispettate.
10.1 In proposito il Collegio osserva quanto segue.
Stabilisce l’articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n.
380 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia) che rientrano nell'ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli
consistenti nella demolizione e, successiva, ricostruzione,
con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta
dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge
21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge
09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che,
per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli
interventi di demolizione e ricostruzione dovevano
rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a
differenza della precedente, non fa più menzione della
sagoma; sicché deve ritenersi che, attualmente, possono
considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che
si limitano al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, l’ultimo periodo della disposizione specifica a
sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento agli
immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione […]
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Come si vede, questa norma prevede un’eccezione alla regola
generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione
che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree
sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali
e del paesaggio. Per questi immobili, dunque, continua a
permanere il vincolo della sagoma; pertanto, qualora
l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area
vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà
qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione
edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova
costruzione.
E’ opinione del Collegio che, vista la genericità della
previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della
fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si
applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della
Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio,
nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di
inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.
L’interpretazione della norma in esame, condotta sulla base
della sua lettera, porta dunque a ritenere che l’intervento
di cui è causa –che incide su un’area soggetta a vincolo
paesaggistico (cfr. doc. 8 di parte ricorrente) e che
pacificamente non rispetta il limite della sagoma
preesistente– va correttamente qualificato come intervento
di nuova costruzione.
10.2 A questo punto, va però evidenziato che la non corretta
qualificazione dell’intervento non è di per sé rilevante ai
fini della valutazione della legittimità del provvedimento
impugnato, in quanto ciò che rileva sono le conseguenze che
da tale qualificazione si traggono in termini di disciplina
applicabile.
Potrebbe dunque rilevare il fatto che, proprio
perché trattasi intervento di nuova costruzione, e non di
intervento di ristrutturazione edilizia, esso avrebbe dovuto
rispettare le norme sulle distanze.
Il Collegio deve tuttavia osservare che, in realtà, la
qualificazione giuridica dell’intervento non sempre è
decisiva per stabilire quando si imponga il rispetto delle
succitate norme.
Va difatti evidenziato che la giurisprudenza sembra più che
altro far riferimento al grado di innovatività della nuova
opera rispetto alla precedente: la deroga è, in particolare,
ammessa quando si tratti di interventi che comportino il
recupero di un bene esistente già collocato a distanza
inferiore a quella legale. Quando invece l’intervento, in
ragione dell'entità delle modifiche apportate al fabbricato,
renda l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente
diversa da quella preesistente, l’osservanza delle
disposizioni sulle distanze recate dall’articolo 9 del d.m.
n. 1444 del 1968 si rende comunque necessaria, e ciò in
ragione dell’interesse protetto da dette disposizioni volte
alla salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, che potrebbero venire irrimediabilmente
compromesse dalla creazione di malsane intercapedini. In
base a questo orientamento, dunque, anche gli interventi
ristrutturazione edilizia che determinano la creazione di un
fabbricato del tutto diverso debbono essere realizzati nel
rispetto delle norme dettate in materia di distanze (cfr.
Cass. civ., Sez. II, 03.03.2008, n. 5741; Cons. Stato, Sez.
IV, 12.06.2014, n. 2995; Id. 12.07.2002, n. 3929; TAR
Sardegna, Sez. II, 05.07.2016, n. 566).
10.3 Per dare soluzione alla presente controversia si può
pertanto prescindere dalla qualificazione giuridica
dell’intervento; e ciò anche perché, nel caso concreto, si
potrebbe discutere se –una volta appurato che l’intervento
di cui è causa rientra senz’altro nella categoria della
nuova costruzione– sia giustificato riservare ad esso un
trattamento differenziato in materia di norme sulle distanze
rispetto agli interventi del tutto analoghi che ricadono in
aree non vincolate (e che per questo unico motivo sono
ascrivibili alla categoria della ristrutturazione edilizia),
tenuto conto che, come si è detto, le predette norme hanno
una finalità (quella di preservare la salubrità dei luoghi)
che appare del tutto neutra in rapporto all’interesse volto
alla tutela paesaggistica.
10.4 Ciò premesso si deve rilevare che, nel caso specifico,
non è contestato (cfr. docc. 9, 13, 14, 15 e 16 di parte
ricorrente) che l’intervento oggetto della DIA del
30.01.2014 ha comportato:
a) la demolizione di un edificio che –seppur, a seguito del
rilascio del permesso di costruire del 18.12.2012, risultava
destinato a funzioni residenziali– conservava ancora nel
concreto le caratteristiche strutturali di un immobile
adibito a deposito e fienile (il suddetto permesso di
costruire ha infatti assentito un mutamento di destinazione
d’uso meramente funzionale);
b) la conseguente ricostruzione di un fabbricato, con sagoma
diversa, avente funzione residenziale ed ospitante ben
cinque unità abitative.
Il nuovo fabbricato è, quindi, del tutto diverso dal
precedente. Da ciò discende che, in applicazione dei
principi sopra illustrati, la sua realizzazione avrebbe
dovuto effettuarsi nel rispetto delle distanze legali
imposte dall'articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968.
Nel caso concreto, tali prescrizioni non sono state
rispettate, in quanto è pacifico che l’immobile ricostruito
è collocato ad una distanza inferiore a dieci metri dalla
parete finestrata dell’edificio di proprietà della
ricorrente e a meno di cinque metri dal confine.
A contrario non vale dedurre che è solo la parte
dell’immobile ricostruita sulla sagoma preesistente (quella
collocata al piano terra) a non rispettare le norme sulle
distanze, mentre la parte che si discosta dalla preesistente
sagoma è stata realizzata nello scrupoloso rispetto delle
predette norme.
Va difatti osservato che, una volta stabilito che l’opera
realizzata è completamente diversa da quella preesistente,
essa deve rispettare nella sua interezza le suddette
disposizioni, non potendosi, a parere del Collegio,
effettuare valutazioni parcellizzate riguardanti le singole
porzioni (cfr., sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.2013,
n. 844).
10.5 Per tutte queste ragioni, le censure in esame meritano
condivisione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.11.2016 n. 2274 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
deferita al G.O., e non al G.A.,
la domanda
di annullamento degli atti ispettivi e dell’ordinanza di
ingiunzione con la quale il Comune ha irrogato (al
ricorrente) la sanzione pecuniaria di euro 516,00 per il
rifiuto opposto -dallo stesso- all’accesso ai luoghi da parte dei
funzionari comunali, per verificare la regolarità edilizia
dei lavori in corso d'opera.
---------------
... per l'annullamento:
1. del provvedimento privo di data e di forma scritta e mai
comunicato al ricorrente, con il quale il Comune di Cafasse
disponeva il sopralluogo presso la proprietà del ricorrente
(sulla base di un esposto della cui esistenza si è appresa
nel corso del procedimento);
2. del provvedimento del 24.10.2014, ad oggetto "diniego di accesso
a proprietà privata per verifiche edilizie", contenente la
relazione dell’accesso del 24.10.2014 e la disposizione
della trasmissione dell’informativa alla Procura della
Repubblica di Ivrea per l’accesso forzoso;
3. dell’ordinanza ingiunzione n. 75/2014 del 29.10.2014, con la
quale il Comune di Cafasse irrogava al ricorrente la
sanzione pecuniaria di euro 516,00;
4. del provvedimento di diniego dell’accesso agli atti
amministrativi del 10.12.2014 prot. n. 6000, con il quale il
Comune di Cafasse rigettava la richiesta del ricorrente di
accesso all’esposto che aveva originato il sopralluogo del
24.10.2014;
5. del provvedimento di accoglimento (parziale) dell’istanza di
accesso agli atti amministrativi dell’11.12.2014 prot. n.
6011, con il quale il Comune accoglieva l’istanza di
accesso alla relazione di sopralluogo del 24.10.2014,
escludendone però l’esposto che ad essa risultava allegato;
...
- Vista la sentenza parziale di questa Sezione n. 547/2015,
con la quale è stata respinta la domanda del ricorrente
relativa al diniego di accesso agli atti ed ai documenti
indicati in epigrafe;
- Ritenuto di poter decidere con sentenza in forma
semplificata in ordine alla domanda di annullamento degli
atti ispettivi e dell’ordinanza ingiunzione n. 75/2014 del
29.10.2014, con la quale il Comune di Cafasse ha irrogato al
ricorrente la sanzione pecuniaria di euro 516,00 per il
rifiuto opposto dal ricorrente Ma.Ai.Se., titolare
della Ditta Ec., all’accesso ai luoghi da parte dei
funzionari comunali, per verificare la regolarità edilizia
dei capannoni e della centrale idroelettrica in via Roma n.
148;
- Ritenuto di dover dichiarare il difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo in ordine all’impugnativa
dell’ingiunzione e degli atti presupposti;
- Richiamati, a tal fine:
●
l’art. 59 della legge regionale piemontese n. 56 del 1977,
rubricato “Vigilanza sulle trasformazioni”, ai cui sensi:
“1. Il comune esercita la vigilanza sulle trasformazioni
urbanistiche ed edilizie del territorio in applicazione
della normativa vigente. 2. Per l'esercizio delle funzioni
di cui al presente articolo, il responsabile del servizio
competente si avvale dei funzionari e agenti comunali e
dispone le forme di controllo ritenute più efficienti. 3. I
funzionari, agenti o incaricati dei controlli, per
esercitare le funzioni di vigilanza e verifica, devono poter
accedere ai cantieri, alle costruzioni e ai fondi muniti di
mandato del responsabile del servizio competente. 4. Salvo
quanto stabilito dalle leggi statali e dalle leggi regionali
di settore e senza pregiudizio delle sanzioni penali, la
violazione per chi si sottrae all'obbligo di consentire
l'accesso previsto al comma 3, comporta la sanzione
pecuniaria pari a 516,00 euro”;
●
l’art. 133, primo comma – lett. f), cod. proc. amm., che
attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie “aventi ad oggetto gli atti e
i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia
urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti
dell’uso del territorio”;
- Ritenuto che la sanzione pecuniaria irrogata dal Comune,
ai sensi della richiamata norma regionale, per la violazione
del dovere di soggiacere all’attività di vigilanza, non
possa ricondursi al novero degli atti in materia edilizia,
bensì alla differente e generale materia della funzione
ispettiva dell’amministrazione, che è ordinariamente
presidiata da sanzioni afflittive accessorie con lo scopo di
assicurare l’effettività e la speditezza dei controlli da
parte degli organi di polizia locale;
- Ritenuto, in conclusione, di dover dichiarare il difetto
di giurisdizione sulla domanda di annullamento degli atti
ispettivi (ignoti) e dell’ordinanza ingiunzione n. 75/2014
del 29.10.2014, in favore del giudice ordinario, ai sensi
dell’art. 11 cod. proc. amm.
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 29.11.2016 n. 1464 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Area sottoposta a
vincolo paesaggistico - Realizzazione di una piscina -
Permesso di costruire - Nulla osta.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Predisposizione degli
impianti tecnologici ed idraulici - Prescrizione del reato -
Revoca dell'ordine di demolizione e quello di rimessione in
pristino - Artt. 6, 44 d.P.R. n. 380/2001 - Codice dei beni
culturali del paesaggio - Art. 181, comma 1, d.lgs. 42/2004
- Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause
di non punibilità - Art. 129 cod. proc. pen..
L'attuale
formulazione dell'art. 181 Codice dei beni culturali è la
seguente: "1. Chiunque, senza la prescritta
autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di
qualsiasi genere su beni paesaggistici e' punito con le pene
previste dall'articolo 44, lettera e), del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.".
1-bis. La pena è della reclusione da uno a quattro anni
qualora i lavori di cui al comma 1 abbiano comportato un
aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della
volumetria della costruzione originaria o, in alternativa,
un ampliamento della medesima superiore a
settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano
comportato una nuova costruzione con una volumetria
superiore ai mille metri cubi.".
Nel caso in specie realizzazione, in area sottoposta a
vincolo paesaggistico, una struttura per piscina occupante
una superficie in pianta di circa 45 mq. e profonda
mediamente 1,5 m., con predisposizione degli impianti
tecnologici ed idraulici, necessitava il permesso di
costruire.
Tuttavia, poiché non ricorrono cause di proscioglimento ai
sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., stante la manifesta
infondatezza della deduzione relativa alla non necessarietà
del permesso di costruire per la realizzazione della piscina
in questione, di dimensioni non trascurabili e suscettibile
di autonoma utilizzazione, che non risulta neppure posta a
servizio esclusivo di una residenza privata legittimamente
edificata (cfr. Sez. 3, n. 39067 del 21/05/2009, Vitti; Sez.
3, n. 37257 del 11/06/2008, Alexander; nonché Sez. 3, n.
25669 del 30/05/2012, Zeno), la sentenza impugnata è stata
annullata senza rinvio, per essere il residuo reato di cui
al capo d), qualificato come contravvenzione ai sensi
dell'art. 181, comma 1, d.lgs. 42/2004, estinto per
prescrizione.
Devono, di conseguenza, essere revocati l'ordine di
demolizione e quello di rimessione in pristino (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.11.2016 n. 50331
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La d.i.a. presentata concerneva lavori di manutenzione straordinaria che, successivamente ad essa, sono state
intraprese una serie di opere che hanno modificato in
maniera rilevante la consistenza dell’immobile.
Invero, il professionista
incaricato ha evidenziato di aver “trovato uno stato dei
luoghi variato rispetto a quando era stata redatta la
D.I.A.” con
costruzione di nuove parti consistenti in:
- realizzazione di una scala esterna che conduce al lastrico
solare;
- modifica della quota del solaio di calpestio del suppenno,
coprendo il locale prospiciente Via Pentelete;
- realizzazione di una balconata in sostituzione dell’aia,
di un balcone al primo livello su Via Pentelete e di un
terrazzo a quota terreno, con masso rinforzato e
sistemazioni esterne, compresa la muratura in tufo
delimitante i confini.
Trattasi in tutta evidenza di opere (sanzionate con il
provvedimento impugnato) innovative dell’assetto
preesistente del manufatto edilizio ed in alcun modo
descrivibili quali interventi preordinati all’utilizzazione
e fruizione ottimale degli interventi compresi nella d.i.a.
presentata (come addotto dalla ricorrente).
Essi concernono, piuttosto, l’alterazione dei volumi
esistenti all’interno (con l’abbassamento del piano di
calpestio del solaio) e l’introduzione di elementi
tipologici nuovi, che modificano la sagoma dell’edificio
(scala esterna e balconate).
Non è dubitabile che gli stessi sono annoverabili nella
nozione di nuova costruzione e che, pertanto, per essi fosse
richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10
del D.P.R. n. 380/2001 in relazione al precedente art. 3.
Sotto tale profilo, questa Sezione ha già avuto modo di
rilevare che ricorre l’ipotesi di nuova costruzione anche
se le opere sono state intraprese su un preesistente
immobile:
- <<il
concetto di “nuova costruzione”, rilevante al fine di
potersi ritenere avverata una “trasformazione del
territorio”, è pacificamente ravvisabile non solo in caso di
interventi ricadenti su “aree libere”, ma anche qualora essi
si presentino in aggiunta a strutture preesistenti, pur
legittimamente edificate>>;
- <<nella fattispecie si è trattato di un
intervento di trasformazione edilizia del territorio con
creazione di nuove superfici e volumi, per il quale
indubbiamente necessitava del previo rilascio del permesso
di costruire, trattandosi di un intervento di “nuova
costruzione” di cui all’art. 3, co. 1, lett. e), del d.P.R.
n. 380 del 2001, concetto comprensivo di qualunque manufatto
autonomo ovvero modificativo di altro preesistente…>>.
---------------
... per l'annullamento:
-
(quanto al ricorso)
dell'ordinanza del Responsabile VII Settore del Comune di
Ottaviano n. 64/VII prot. 22523/GEN del 24/11/2009, con la
quale è stata ingiunta la demolizione delle opere
abusivamente realizzate alla Via Pentelete, in difformità
sostanziali dalla d.i.a. prot. 19019 del 21/11/2007; del
provvedimento prot. 1006744/09 del 18/12/2009 del Dirigente
del Settore provinciale del Genio Civile della Regione
Campania - Area Generale di Coordinamento LL.PP., con cui è
ordinata la sospensione immediata dei lavori; di ogni altro
atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in
quanto lesivo;
-
(quanto ai motivi aggiunti)
del provvedimento del Responsabile del VII Settore del
Comune di Ottaviano prot. gen. n. 2791 del 02/02/2010, recante
il diniego della d.i.a. in sanatoria prot. 1089 del
15/01/2010; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o
comunque connesso, se e in quanto lesivo.
...
1- Il ricorso e i motivi aggiunti sono infondati.
1.1- Vanno innanzitutto esaminati il secondo e terzo motivo
di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente.
Con essi si sostiene che le opere non costituiscono
variazione essenziale alla d.i.a. prot. 19019 presentata il
21/11/2007 e che per le stesse (a loro volta assentibili con
d.i.a.) era irrogabile una sanzione pecuniaria.
Le censure sono prive di fondamento.
Benché non sia stata esibita la suindicata d.i.a.
(riguardante, secondo la ricorrente, il completamento del
fabbricato), risulta che questa concerneva lavori di
manutenzione straordinaria (come indicato nel diniego di
sanatoria) e che, successivamente ad essa, sono state
intraprese una serie di opere che hanno modificato in
maniera rilevante la consistenza dell’immobile.
Invero, nella stessa relazione tecnica che accompagna la
d.i.a. in sanatoria del 15/01/2010, il professionista
incaricato ha evidenziato di aver “trovato uno stato dei
luoghi variato rispetto a quando era stata redatta la
D.I.A.” (cfr. doc. 4 della produzione della ricorrente), con
costruzione di nuove parti consistenti in:
- realizzazione di una scala esterna che conduce al lastrico
solare;
- modifica della quota del solaio di calpestio del suppenno,
coprendo il locale prospiciente Via Pentelete;
- realizzazione di una balconata in sostituzione dell’aia,
di un balcone al primo livello su Via Pentelete e di un
terrazzo a quota terreno, con masso rinforzato e
sistemazioni esterne, compresa la muratura in tufo
delimitante i confini.
Trattasi in tutta evidenza di opere (sanzionate con il
provvedimento impugnato) innovative dell’assetto
preesistente del manufatto edilizio ed in alcun modo
descrivibili quali interventi preordinati all’utilizzazione
e fruizione ottimale degli interventi compresi nella d.i.a.
presentata (come addotto dalla ricorrente).
Essi concernono, piuttosto, l’alterazione dei volumi
esistenti all’interno (con l’abbassamento del piano di
calpestio del solaio) e l’introduzione di elementi
tipologici nuovi, che modificano la sagoma dell’edificio
(scala esterna e balconate).
Non è dubitabile che gli stessi sono annoverabili nella
nozione di nuova costruzione e che, pertanto, per essi fosse
richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10
del D.P.R. n. 380/2001 in relazione al precedente art. 3.
Sotto tale profilo, questa Sezione ha già avuto modo di
rilevare che ricorre l’ipotesi di nuova costruzione anche
se le opere sono state intraprese su un preesistente
immobile (cfr. la sentenza del 07/06/2016 n. 3367: <<il
concetto di “nuova costruzione”, rilevante al fine di
potersi ritenere avverata una “trasformazione del
territorio”, è pacificamente ravvisabile non solo in caso di
interventi ricadenti su “aree libere”, ma anche qualora essi
si presentino in aggiunta a strutture preesistenti, pur
legittimamente edificate>>; cfr., altresì, la sentenza del
19/07/2016 n. 4109: <<nella fattispecie si è trattato di un
intervento di trasformazione edilizia del territorio con
creazione di nuove superfici e volumi, per il quale
indubbiamente necessitava del previo rilascio del permesso
di costruire, trattandosi di un intervento di “nuova
costruzione” di cui all’art. 3, co. 1, lett. e), del d.P.R.
n. 380 del 2001, concetto comprensivo di qualunque manufatto
autonomo ovvero modificativo di altro preesistente…>>).
Consegue da tutto ciò che il Comune di Ottaviano ha
correttamente fatto ricorso al potere repressivo degli abusi
edilizi, dettato dall’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 per le
opere prive del permesso di costruire (realizzate, peraltro,
in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, che vieta la
modificazione dello stato esteriore dei luoghi)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.11.2016 n. 5522 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
- la presentazione dell’istanza di sanatoria dopo
l’emanazione dell’ordine di demolizione non incide su
quest’ultimo (se non producendo una temporanea quiescenza,
sino alla scadenza del termine di sessanta giorni, ex art.
36 del D.P.R. n. 380/2001, per la formazione del
silenzio-rifiuto; nel caso in esame, l’istanza di sanatoria
è stata espressamente rigettata con il provvedimento
impugnato con i motivi aggiunti);
- è univocamente affermato che il potere repressivo degli
abusi edilizi sorge, con carattere vincolato,
dall’accertamento della realizzazione di opere prive del
prescritto titolo abilitativo e sull’unico presupposto della
mancanza di esso, ed è sufficientemente motivato con
riferimento alla descrizione dell’abuso, fondandosi su un
interesse pubblico che è in re ipsa, coincidente con
l’esigenza di ripristino della situazione compromessa
dall’illecita attività edilizia [cfr., da ultimo: <<L’ordinanza
di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente
motivata con riferimento all’oggettivo riscontro
dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità
di queste al regime concessorio>>];
- è altresì escluso che l’ordinanza di demolizione debba
contenere l’indicazione dell’area che verrà acquisita di
diritto al patrimonio del Comune, come anche in tal caso a
più riprese statuito da questa Sezione (cfr. la sentenza del
15/07/2016 n. 3549, con richiami, secondo cui
“l’individuazione specifica dell’area da acquisire non è un
elemento essenziale dell’ordine di demolizione, dovendo
piuttosto essere contenuta nell’atto che opera
l’acquisizione”);
- non è richiesta la previa comunicazione di avvio del
procedimento (cfr., per tutte, la citata sentenza del
27/8/2016 n. 4110: “Invero per giurisprudenza, assolutamente
prevalente e condivisa dal Collegio: <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto
vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
(…)>>).
---------------
... per l'annullamento:
-
(quanto al ricorso)
dell'ordinanza del Responsabile VII Settore del Comune di
Ottaviano n. 64/VII prot. 22523/GEN del 24/11/2009, con la
quale è stata ingiunta la demolizione delle opere
abusivamente realizzate alla Via Pentelete, in difformità
sostanziali dalla d.i.a. prot. 19019 del 21/11/2007; del
provvedimento prot. 1006744/09 del 18/12/2009 del Dirigente
del Settore provinciale del Genio Civile della Regione
Campania - Area Generale di Coordinamento LL.PP., con cui è
ordinata la sospensione immediata dei lavori; di ogni altro
atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in
quanto lesivo;
-
(quanto ai motivi aggiunti)
del provvedimento del Responsabile del VII Settore del
Comune di Ottaviano prot. gen. n. 2791 del 02/02/2010, recante
il diniego della d.i.a. in sanatoria prot. 1089 del
15/01/2010; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o
comunque connesso, se e in quanto lesivo.
...
1.2- Le ulteriori censure vanno disattese, in quanto:
- la presentazione dell’istanza di sanatoria dopo
l’emanazione dell’ordine di demolizione non incide su
quest’ultimo (se non producendo una temporanea quiescenza,
sino alla scadenza del termine di sessanta giorni, ex art.
36 del D.P.R. n. 380/2001, per la formazione del
silenzio-rifiuto; nel caso in esame, l’istanza di sanatoria
è stata espressamente rigettata con il provvedimento
impugnato con i motivi aggiunti);
- è univocamente affermato che il potere repressivo degli
abusi edilizi sorge, con carattere vincolato,
dall’accertamento della realizzazione di opere prive del
prescritto titolo abilitativo e sull’unico presupposto della
mancanza di esso, ed è sufficientemente motivato con
riferimento alla descrizione dell’abuso, fondandosi su un
interesse pubblico che è in re ipsa, coincidente con
l’esigenza di ripristino della situazione compromessa
dall’illecita attività edilizia [cfr., da ultimo, la
sentenza della Sezione del 27/08/2016 n. 4110: <<L’ordinanza
di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente
motivata con riferimento all’oggettivo riscontro
dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità
di queste al regime concessorio>> (TAR Campania, sez. II,
30.01.2015, n. 601)];
- è altresì escluso che l’ordinanza di demolizione debba
contenere l’indicazione dell’area che verrà acquisita di
diritto al patrimonio del Comune, come anche in tal caso a
più riprese statuito da questa Sezione (cfr. la sentenza del
15/07/2016 n. 3549, con richiami, secondo cui
“l’individuazione specifica dell’area da acquisire non è un
elemento essenziale dell’ordine di demolizione, dovendo
piuttosto essere contenuta nell’atto che opera
l’acquisizione”);
- non è richiesta la previa comunicazione di avvio del
procedimento (cfr, per tutte, la citata sentenza del
27/8/2016 n. 4110: “Invero per giurisprudenza, assolutamente
prevalente e condivisa dal Collegio: <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto
vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
(…)>>)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.11.2016 n. 5522 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento che nega la richiesta di
concessione in sanatoria è atto vincolato: pertanto, la
mancata comunicazione del preavviso di diniego non produce,
in base al principio di cui all’art 21-octies, effetti
vizianti, ove il Comune non avrebbe potuto emanare
provvedimenti diversi.
---------------
... per l'annullamento:
-
(quanto al ricorso)
dell'ordinanza del Responsabile VII Settore del Comune di
Ottaviano n. 64/VII prot. 22523/GEN del 24/11/2009, con la
quale è stata ingiunta la demolizione delle opere
abusivamente realizzate alla Via Pentelete, in difformità
sostanziali dalla d.i.a. prot. 19019 del 21/11/2007; del
provvedimento prot. 1006744/09 del 18/12/2009 del Dirigente
del Settore provinciale del Genio Civile della Regione
Campania - Area Generale di Coordinamento LL.PP., con cui è
ordinata la sospensione immediata dei lavori; di ogni altro
atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in
quanto lesivo;
-
(quanto ai motivi aggiunti)
del provvedimento del Responsabile del VII Settore del
Comune di Ottaviano prot. gen. n. 2791 del 02/02/2010, recante
il diniego della d.i.a. in sanatoria prot. 1089 del
15/01/2010; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o
comunque connesso, se e in quanto lesivo.
...
2- I motivi aggiunti investono il provvedimento di diniego
della d.i.a. in sanatoria, formulato dal Comune argomentando
che:
- a prescindere dall’integrazione della pratica (tra
l’altro, con la documentazione fotografica dello stato
preesistente), la difformità più rilevante si configura
nell’utilizzazione residenziale del tetto-suppenno e, per
essa, è necessario ripristinare l’originario stato dei
luoghi;
- è rinvenibile un aumento di volumetria urbanistica,
insuscettibile di conseguire l’autorizzazione paesaggistica
postuma, e non può essere accordata la d.i.a. in sanatoria
per interventi di ripristino della conformità urbanistica.
Al di là dell’involuta formulazione del provvedimento (messa
in rilievo dalla ricorrente), esso si fonda su un
presupposto legittimo ed assorbente, resistendo quindi alle
censure svolte con i motivi aggiunti, che vanno
conseguentemente respinti.
2.1- Quanto alla denunciata violazione dell’art. 10-bis
della legge n. 241/1990, va osservato che il diniego di
sanatoria si fonda sull’inconciliabilità paesaggistica
cosicché, stante il suo carattere vincolato, esso non è
invalidato dall’omissione del preavviso di cui alla norma
invocata (cfr., in tema, Cons. Stato, sez. IV, 25/09/2014 n.
4809: “E’ sufficiente ricordare, in proposito,
l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa, a mente
della quale il provvedimento che nega la richiesta di
concessione in sanatoria è atto vincolato: pertanto, la
mancata comunicazione del preavviso di diniego non produce,
in base al principio di cui all’art 21-octies, effetti
vizianti, ove il Comune non avrebbe potuto emanare
provvedimenti diversi (Cons. St., Sez. IV, 10.05.2012,
n. 2714)”; conf., tra le altre, con ulteriori richiami,
la sentenza di questa Sezione del 17/09/2015 n. 4564)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.11.2016 n. 5522 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'indubbia realtà dei
fatti manifesta l’esecuzione di un complesso di nuove
opere (-
realizzazione di una scala esterna che conduce al lastrico
solare;
- modifica della quota del solaio di calpestio del suppenno,
coprendo il locale prospiciente Via ...;
- realizzazione di una balconata in sostituzione dell’aia,
di un balcone al primo livello su Via ... e di un terrazzo a
quota terreno, con masso rinforzato e sistemazioni esterne,
compresa la muratura in tufo delimitante i confini) per le quali è
esclusa la compatibilità paesaggistica, come rappresentato
nel provvedimento.
La richiesta di sanatoria contrasta difatti con quanto
previsto dall’art. 167, quarto comma, lett. a), del d.lgs.
n. 42 del 2004, a tenore del quale la compatibilità
paesaggistica può essere accertata, sempre che "i lavori,
realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, (...) non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati".
La sanabilità postuma dell’opera sotto l’aspetto
paesaggistico è dunque esclusa in presenza di nuove
superfici o volumi, per l’evidente finalità di preservazione
posta alla base della tutela paesaggistica, che impedisce di
mantenere nuovi ingombri in zona ove è vietata
l’edificazione in assenza di autorizzazione paesaggistica.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la norma
riguarda qualsiasi incremento volumetrico, finanche
interrato, aggiungendosi che esulano dal concetto
solo le opere aventi funzione servente e prive di
funzionalità autonoma (cfr. per il comune e generale
principio, benché espresso in diversa fattispecie, Cons.
Stato n. 1272/2014: “integra la nozione di
volume tecnico, non computabile nella volumetria della
costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze
legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a
contenere impianti serventi di una costruzione principale
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima"
e tale non può
considerarsi il balcone che non si connoti per una mera
funzionalità decorativa).
Nel caso in esame, si è quindi in presenza di un intervento
concretatosi nella realizzazione di volumi e superfici utili
prima non esistenti e che non può conseguire l’assenso per
la compatibilità paesaggistica, atto necessario presupposto
al rilascio del titolo edilizio in sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. n. 380/2001.
---------------
... per l'annullamento:
-
(quanto al ricorso)
dell'ordinanza del Responsabile VII Settore del Comune di
Ottaviano n. 64/VII prot. 22523/GEN del 24/11/2009, con la
quale è stata ingiunta la demolizione delle opere
abusivamente realizzate alla Via Pentelete, in difformità
sostanziali dalla d.i.a. prot. 19019 del 21/11/2007; del
provvedimento prot. 1006744/09 del 18/12/2009 del Dirigente
del Settore provinciale del Genio Civile della Regione
Campania - Area Generale di Coordinamento LL.PP., con cui è
ordinata la sospensione immediata dei lavori; di ogni altro
atto, presupposto, conseguente o comunque connesso, se e in
quanto lesivo;
-
(quanto ai motivi aggiunti)
del provvedimento del Responsabile del VII Settore del
Comune di Ottaviano prot. gen. n. 2791 del 02/02/2010, recante
il diniego della d.i.a. in sanatoria prot. 1089 del
15/01/2010; di ogni altro atto, presupposto, conseguente o
comunque connesso, se e in quanto lesivo.
...
2.2- Le altre censure sono principalmente accomunate dalla
denuncia del deficit di istruttoria, mirando a sostenere che
l’intervento non ha natura residenziale e non comporta
aumento di volumetria urbanistica, per cui può conseguire
l’autorizzazione paesaggistica postuma (secondo, quinto e
sesto motivo).
Le affermazioni sono smentite dall’indubbia realtà dei
fatti, che manifesta l’esecuzione di un complesso di nuove
opere (come sopra descritte e analizzate), per le quali è
esclusa la compatibilità paesaggistica, come rappresentato
nel provvedimento.
La richiesta di sanatoria contrasta difatti con quanto
previsto dall’art. 167, quarto comma, lett. a), del d.lgs.
n. 42 del 2004, a tenore del quale la compatibilità
paesaggistica può essere accertata, sempre che "i lavori,
realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, (...) non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati".
La sanabilità postuma dell’opera sotto l’aspetto
paesaggistico è dunque esclusa in presenza di nuove
superfici o volumi, per l’evidente finalità di preservazione
posta alla base della tutela paesaggistica, che impedisce di
mantenere nuovi ingombri in zona ove è vietata
l’edificazione in assenza di autorizzazione paesaggistica.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la norma
riguarda qualsiasi incremento volumetrico, finanche
interrato (cfr., di recente, la sentenza della Sezione del
30/08/2016 n. 4124), aggiungendosi che esulano dal concetto
solo le opere aventi funzione servente e prive di
funzionalità autonoma (cfr. per il comune e generale
principio, benché espresso in diversa fattispecie, Cons.
Stato, sez. V, 13/03/2014 n. 1272: “integra la nozione di
volume tecnico, non computabile nella volumetria della
costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze
legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a
contenere impianti serventi di una costruzione principale
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima"
(Cons. St., Sez. IV, 15.01.2013, n. 223) e tale non può
considerarsi il balcone che non si connoti per una mera
funzionalità decorativa).
Nel caso in esame, si è quindi in presenza di un intervento
concretatosi nella realizzazione di volumi e superfici utili
prima non esistenti e che non può conseguire l’assenso per
la compatibilità paesaggistica, atto necessario presupposto
al rilascio del titolo edilizio in sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. n. 380/2001.
A ciò consegue l’infondatezza delle censure, essendo stato
il diniego di sanatoria legittimamente adottato sulla base
dell’impossibilità di rilascio del nulla osta paesaggistico
in via postuma.
2.3- Quanto alla mancata indicazione delle norme
urbanistiche che disciplinano la realizzazione degli
interventi edilizi nella zona, occorre precisare che il
diniego è adeguatamente sorretto dalla enunciata preclusione
alla compatibilità paesaggistica, che assorbe ogni altra
valutazione di ordine strettamente urbanistico.
Inoltre, il diniego è fondato sull’insanabilità delle opere,
per cui assolve alla funzione tipica dell’accertamento di
conformità (negando la sanatoria richiesta), mentre le
affermazioni sulla necessità di ripristinare lo stato dei
luoghi rafforzano il concetto e non comportano sviamento
dalla funzione tipica.
3- Conclusivamente, alla stregua delle osservazioni che
precedono, vanno respinti il ricorso e i motivi aggiunti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.11.2016 n. 5522 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto al primo aspetto, ritiene il Collegio
che il
proprietario di un immobile sia legittimato ad impugnare
titoli edificatori da altri richiesti su beni di sua
proprietà, ove ritenga che le opere autorizzate non siano
conformi alla normativa urbanistica disciplinante la zona di
intervento.
In tal senso, l’utilitas sperata da una
decisione favorevole del giudice attiene alla conformità
dell'immobile alla disciplina urbanistica vigente e, dunque,
alla sua liceità sotto l'aspetto urbanistico-edilizio, non
potendosi, di poi, non rilevare che il titolare del diritto
dominicale ha piena facoltà di opporsi a modificazioni del
bene con le quali egli non concordi.
Quanto al secondo aspetto, va qui
richiamato l’ampio orientamento giurisprudenziale in forza
del quale la “vicinitas”, intesa come situazione di stabile
collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell’intervento costruttivo autorizzato, costituisce
criterio di per sé sufficiente a rappresentare l’interesse
al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza
che, in sua presenza, non è necessario accertare
concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente, rilevandosi peraltro come, nel caso di
specie, la ricorrente deduca la lesione delle potenzialità
di utilizzazione della sua proprietà.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensiva dell’efficacia:
- del permesso di costruire rilasciato dal Comune di Matera
in favore della controinteressata prot. n. 50987 Rif. Prot.
30433/ 49376/2014 — Prat. N. A/7/2013;
- di ogni altro titolo abilitativo, ove esistente, che
consenta la realizzazione alla società contro interessata
dei capannoni artigianali nell’area 2° ampliamento Paip;
- di ogni atto presupposto, conseguente, attuativo dei
precedenti atti impugnati, nonché degli atti
dell'istruttoria, pareri, espressioni consultive.
...
1.2. Con una seconda eccezione, formulata in termini similari da
parte resistente e dalla società controinteressata, si è
sostenuto che la deducente difetterebbe di interesse a
ricorrere, in quanto «pur ammettendo che la sottoscrizione
della convenzione di lottizzazione (ai fini attuativi del P.d.L.) costituisca presupposto indefettibile per il
rilascio del permesso a costruire in oggetto, con
l'individuazione e realizzazione delle opere di
urbanizzazione, appare di tutta evidenza che l'interesse a
ricorrere per il mantenimento e l'attuazione del Piano di
Lottizzazione sarebbe evidentemente sorto sin dal momento
del rilascio della prima concessione edilizia e di quelle
successive, poiché già in tale momento è stata
irrimediabilmente pregiudicata la possibilità di attuazione
del P.d.L. nel Progetto presentato all'epoca dai privati.
Peraltro, quand’anche il permesso a costruire impugnato
fosse dichiarato illegittimo (e così non è) sarebbe
ugualmente impossibile attuare il Piano di Lottizzazione
così come approvato con D.C.C. n. 623/1997».
1.2.1. L’eccezione va disattesa. Emerge dagli atti di causa
che la ricorrente è comproprietaria del lotto 17, in parte
oggetto del titolo edilizio in contestazione, ed è
confinante col lotto 18, pure oggetto di quest’ultimo.
Ebbene, quanto al primo aspetto, ritiene il Collegio
che il
proprietario di un immobile sia legittimato ad impugnare
titoli edificatori da altri richiesti su beni di sua
proprietà, ove ritenga che le opere autorizzate non siano
conformi alla normativa urbanistica disciplinante la zona di
intervento.
In tal senso, l’utilitas sperata da una
decisione favorevole del giudice attiene alla conformità
dell'immobile alla disciplina urbanistica vigente e, dunque,
alla sua liceità sotto l'aspetto urbanistico-edilizio, non
potendosi, di poi, non rilevare che il titolare del diritto
dominicale ha piena facoltà di opporsi a modificazioni del
bene con le quali egli non concordi (Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2015, n. 4176).
Quanto al secondo aspetto, va qui
richiamato l’ampio orientamento giurisprudenziale in forza
del quale la “vicinitas”, intesa come situazione di stabile
collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell’intervento costruttivo autorizzato, costituisce
criterio di per sé sufficiente a rappresentare l’interesse
al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza
che, in sua presenza, non è necessario accertare
concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente (Cons.
Stato, sez. IV, 18.11.2014, n. 5662; id., 05.03.2015, n. 1116; id., 12.03.2015, n. 1315; id., 16.03.2010,
n. 1535), rilevandosi peraltro come, nel caso di specie, la
ricorrente deduca la lesione delle potenzialità di
utilizzazione della sua proprietà (TAR Basilicata,
sentenza 28.11.2016 n. 1071 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La sottoscrizione della convenzione urbanistica
costituisce presupposto necessario per il rilascio del
permesso di costruire.
Solo dopo la stipula della convenzione di lottizzazione,
infatti, si perfeziona lo strumento urbanistico attuativo, e
l’area interessata riceve una disciplina urbanistica che
consente di procedere all’edificazione, in concorso con la
dotazione dell’area delle necessarie opere di
urbanizzazione; il rilascio delle singole concessioni
edilizie, infatti, è espressamente subordinato dal
legislatore, ai sensi dell’art. 28, quinto comma, della
legge n. 1150 del 1942, all’impegno a realizzare,
contemporaneamente ai fabbricati, le opere di
urbanizzazione.
In effetti, all’approvazione del piano deve seguire la
stipula della convenzione di lottizzazione, che, a sua
volta, costituisce il presupposto per l’autorizzazione a
lottizzare da parte del Comune. Pertanto, la stipula della
convenzione e la successiva trascrizione a cura del privato
sono condizioni di efficacia della delibera di approvazione
della lottizzazione.
In altri termini, il piano di lottizzazione convenzionata
acquista efficacia non per effetto dell'approvazione del
relativo progetto da parte del Consiglio comunale, ma con le
successive stipulazioni e trascrizioni della convenzione.
Del resto, la convenzione di lottizzazione conclusa
dalla P.A. col privato interessato al rilascio di una
concessione edilizia, «non assume valenza privatistica ed
autonoma rispetto all’atto autoritativo di concessione, ma
si inserisce nel procedimento amministrativo finalizzato al
rilascio di essa, essendo imposto dalla P.A. come momento
necessario di tale procedimento e condizionando l’adozione
del provvedimento».
---------------
Come si è visto innanzi, il piano di lottizzazione non ha
mai acquisito efficacia, per la mancata sottoscrizione della
convenzione ad esso accessiva.
Da ciò consegue, quindi, l’applicazione dell’art. 9, n. 2,
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo cui nelle aree nelle
quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici
attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come
presupposto per l’edificazione, sono consentiti soltanto gli
interventi previsti dalle lettere a), b), c) e d) del n. 1
dell’art. 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti
di esse, consentendo solo attività di manutenzione
ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento
conservativo, ed inibendo tutti gli interventi di nuova
costruzione.
In tal senso, come osservato da condivisibile
giurisprudenza, con tale disposizione: «il legislatore
delegato:
- ha enunciato il principio della indefettibilità del piano
attuativo prescritto dallo strumento generale (già
desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come
affermato da questo Consiglio);
- ha rimarcato la rilevanza nel sistema del piano attuativo,
in quanto strumento indispensabile per l'affermazione
dell'ordinato assetto del territorio;
- ha reso irrilevante ogni indagine di fatto sulla
sussistenza o meno 'nei pressi' o 'nella zona' delle opere
di urbanizzazione, anche se, in precedenza,
l’amministrazione abbia violato le previsioni dello
strumento generale, rilasciando permessi di costruire in
assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del
"piccolo" lotto intercluso, da intendere quale area di
limitata estensione, circondata da edifici all'interno di un
tessuto completamente edificato;
- non ha ammesso equipollenti al piano attuativo, nel senso
che in sede amministrativa -per l'esame di una istanza di
permesso- o in quella giurisdizionale non possono essere
effettuate le indagini spettanti all'autorità competente ad
approvare il medesimo piano (sulla base del relativo
procedimento), in assenza delle quali il legislatore
considera lesa l'assoluta esigenza che vi sia un razionale
assetto del territorio».
---------------
Nel caso di specie neppure ricorrono le condizioni cui gli
arresti giurisprudenziali richiamati dalla controinteressata
subordinano il rilascio del titolo edilizio.
In particolare, secondo tale ultimo indirizzo «una
concessione edilizia può essere rilasciata in assenza del
piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore
solo quando in sede istruttoria l’Amministrazione abbia
accertato che il lotto del richiedente sia l'unico a non
essere stato ancora edificato (vi sia già stata, cioè, una
pressoché completa edificazione dell'area, come nell'ipotesi
del lotto residuale ed intercluso), e si trovi in una zona
che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, sia
anche dotata delle opere di urbanizzazione.
Pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione
convenzionata prescritta dalle norme di piano solo, in
pratica, nei casi eccezionali in cui nel comprensorio
interessato sussista una situazione di fatto corrispondente
a quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione
stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi
prescritti».
---------------
... per l’annullamento, previa sospensiva dell’efficacia:
- del permesso di costruire rilasciato dal Comune di Matera
in favore della controinteressata prot. n. 50987 Rif. Prot.
30433/ 49376/2014 — Prat. N. A/7/2013;
- di ogni altro titolo abilitativo, ove esistente, che
consenta la realizzazione alla società contro interessata
dei capannoni artigianali nell’area 2° ampliamento Paip;
- di ogni atto presupposto, conseguente, attuativo dei
precedenti atti impugnati, nonché degli atti
dell'istruttoria, pareri, espressioni consultive.
...
2. Nel merito, il ricorso è fondato, alla stregua della
motivazione che segue.
2.1. Col primo motivo, si è lamentata la realizzazione delle
opere in questione su di «un’area per cui è prevista
l’adozione di piano di lottizzazione senza che sia mai stata
firmata la convenzione di lottizzazione, condizione,
quest’ultima, di efficacia del piano», nonché
l’indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo
strumento generale.
2.1.1. La doglianza va condivisa. Occorre subito rilevare
come sia la stessa Amministrazione comunale a riconoscere la
necessità di uno strumento urbanistico attuativo per il
corretto e ordinato sviluppo del territorio e per l’uso più
adeguato di quest’ultimo. Si legge, infatti, nella relazione
allegata agli scritti difensivi di parte resistente che «la
normativa di p.r.g. nel definire i parametri urbanistici ha
imposto l’attuazione mediante il ricorso ad un piano
particolareggiato di iniziativa pubblica o, in alternativa,
ad un piano di lottizzazione convenzionata ad iniziativa
privata».
2.1.2. Si legge, ancora, nella predetta relazione tecnica
che «in mancanza di iniziativa dell'Amministrazione pubblica
i privati proprietari delle aree interessate, così come più
approfonditamente descritto nella relazione di p.d.l. (all.
doc. n. 2), hanno deciso di presentare mi piano di
lottizzazione convenzionato sottoscrivendo tutti gli
elaborati di progetto del piano. Con deliberazione di
Consiglio comunale n. 623 del 24/06/1997 l'Amministrazione
comunale ha approvato il p.d.l. su indicato con il relativo
schema di convenzione, ma i privati, per il completamento
dell'iter procedimentale non hanno mai, di comune accordo,
sollecitato la stipula della convenzione per presumibile
modifica della loro volontà contrattuale».
2.1.3. E’ dunque incontroverso che nell’area di cui è
questione non sono in vigore strumenti urbanistici
attuativi, essendosi l’Amministrazione comunale limitata
all’approvazione del piano di lottizzazione di iniziativa
privata su cui si controverte. E’, altresì, incontestato che
la convenzione accessiva al piano di lottizzazione approvato
nel 1997 non è stata sottoscritta.
Ora, la sottoscrizione
della convenzione urbanistica costituisce presupposto
necessario per il rilascio del permesso di costruire. Solo
dopo la stipula della convenzione di lottizzazione, infatti,
si perfeziona lo strumento urbanistico attuativo, e l’area
interessata riceve una disciplina urbanistica che consente
di procedere all’edificazione, in concorso con la dotazione
dell’area delle necessarie opere di urbanizzazione; il
rilascio delle singole concessioni edilizie, infatti, è
espressamente subordinato dal legislatore, ai sensi
dell’art. 28, quinto comma, della legge n. 1150 del 1942,
all’impegno a realizzare, contemporaneamente ai fabbricati,
le opere di urbanizzazione. In effetti, all’approvazione del
piano deve seguire la stipula della convenzione di
lottizzazione, che, a sua volta, costituisce il presupposto
per l’autorizzazione a lottizzare da parte del Comune.
Pertanto, la stipula della convenzione e la successiva
trascrizione a cura del privato sono condizioni di efficacia
della delibera di approvazione della lottizzazione (TAR
Lazio, sez. I, 04.09.2001, n. 7110).
In altri termini,
il piano di lottizzazione convenzionata acquista efficacia
non per effetto dell'approvazione del relativo progetto da
parte del Consiglio comunale, ma con le successive
stipulazioni e trascrizioni della convenzione (TAR
Campania, 28.10.1997, n. 2648; TAR Lazio, Latina, 17.07.1995, n. 592; Cons. Stato, sez. IV,
06.10.1984,
n. 744).
Del resto, la convenzione di lottizzazione conclusa
dalla P.A. col privato interessato al rilascio di una
concessione edilizia, «non assume valenza privatistica ed
autonoma rispetto all’atto autoritativo di concessione, ma
si inserisce nel procedimento amministrativo finalizzato al
rilascio di essa, essendo imposto dalla P.A. come momento
necessario di tale procedimento e condizionando l’adozione
del provvedimento» (Cass. civ., SS.UU., ord. 07.02.2002, n. 1763).
2.1.4. Ne consegue che, allo stato, l’area interessata
risulta sprovvista di piani particolareggiati di attuazione,
in relazione ai quali rilasciare i relativi titoli edilizi.
2.1.5. L’Amministrazione resistente e la società
controinteressata hanno sostenuto, a tal riguardo, che «dal
punto di vista legislativo non esiste alcuna norma in
materia, che obbliga l’Amministrazione comunale, all'esito
dell'approvazione di un piano di lottizzazione ed in carenza
della volontà dei privati alla stipula della convenzione, a
coartare in maniera autoritaria gli stessi proponenti alla
sottoscrizione dell'atto negoziale», invocando in tal senso
quanto affermato dalla decisione del Consiglio di Stato,
sez. V, n. 3217 del 21.05.2010. L’argomento, tuttavia, è inconferente, in quanto il punto centrale della questione è
piuttosto quello dell’attuale disciplina urbanistica delle
aree interessate, come si è visto innanzi, allo stato
carente.
2.1.6. Sempre secondo parte resistente e la società
controinteressata, la situazione in essere nel caso di
specie, essendo ormai trascorso oltre un decennio dalla
relativa approvazione, sarebbe assimilabile a quella di
decadenza dei piani attuativi, nella quale sarebbe «comunque
consentita la costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto
della normativa edilizia di zona che resta ultrattiva a
tempo indeterminato soprattutto nelle ipotesi in cui è
sufficientemente determinata la disciplina di edificazione
nelle sue linee fondamentali ed essenziali».
2.1.7. La tesi è, ancora una volta, inconferente, posto che,
come si è visto innanzi, il piano di lottizzazione non ha
mai acquisito efficacia, per la mancata sottoscrizione della
convenzione ad esso accessiva. Da ciò consegue, quindi,
l’applicazione dell’art. 9, n. 2, del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, secondo cui nelle aree nelle quali non siano stati
approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli
strumenti urbanistici generali come presupposto per
l’edificazione, sono consentiti soltanto gli interventi
previsti dalle lettere a), b), c) e d) del n. 1 dell’art. 3
che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse,
consentendo solo attività di manutenzione ordinaria,
straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, ed
inibendo tutti gli interventi di nuova costruzione.
In tal
senso, come osservato da condivisibile giurisprudenza, con
tale disposizione: «il legislatore delegato:
- ha enunciato
il principio della indefettibilità del piano attuativo
prescritto dallo strumento generale (già desumibile dalla
legge urbanistica n. 1150 del 1942, come affermato da questo
Consiglio con le decisioni Sez. V, 23.03.2000, n. 1594;
Sez. V, 08.07.1997, n. 772; Sez. V, 16.06.1997, n.
640; Sez. V, 30.04.1997, n. 412; Sez. V, 22.03.1995,
n. 451);
- ha rimarcato la rilevanza nel sistema del piano
attuativo, in quanto strumento indispensabile per
l'affermazione dell'ordinato assetto del territorio (Sez. IV,
05.03.2008, n. 940; Sez. V, 03.03.2004, n. 1013; Sez. IV,
25.08.2003, n. 4812);
- ha reso irrilevante ogni
indagine di fatto sulla sussistenza o meno 'nei pressi' o
'nella zona' delle opere di urbanizzazione, anche se, in
precedenza, l’amministrazione abbia violato le previsioni
dello strumento generale, rilasciando permessi di costruire
in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso
del "piccolo" lotto intercluso (Sez. IV, decc. 6625 e 2674
del 2008; Sez. IV, 05.03.2008, n. 940), da intendere quale
area di limitata estensione, circondata da edifici
all'interno di un tessuto completamente edificato;
- non ha
ammesso equipollenti al piano attuativo (Sez. IV, decc. 6625
e 2674 del 2008; Sez. IV, 08.06.2007, n. 3007), nel senso
che in sede amministrativa -per l'esame di una istanza di
permesso- o in quella giurisdizionale non possono essere
effettuate le indagini spettanti all'autorità competente ad
approvare il medesimo piano (sulla base del relativo
procedimento), in assenza delle quali il legislatore
considera lesa l'assoluta esigenza che vi sia un razionale
assetto del territorio» (Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2009, n. 8531).
D’altro canto, l’Amministrazione impugnata,
come dimostra in fatto l’intervenuta approvazione del piano
di lottizzazione, ha ritenuto di non poter prescindere dal
piano attuativo. In tal senso, suscita perplessità l’aver
dapprima approvato tale atto, ritenendone in tutta evidenza
la necessità, anche in aderenza a specifiche previsioni
dello strumento urbanistico generale, per poi affermarne la
sostanziale irrilevanza.
2.1.8. Peraltro, nel caso di specie neppure ricorrono le
condizioni cui gli arresti giurisprudenziali richiamati
dalla controinteressata subordinano il rilascio del titolo
edilizio.
In particolare, secondo tale ultimo indirizzo «una
concessione edilizia può essere rilasciata in assenza del
piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore
solo quando in sede istruttoria l’Amministrazione abbia
accertato che il lotto del richiedente sia l'unico a non
essere stato ancora edificato (vi sia già stata, cioè, una
pressoché completa edificazione dell'area, come nell'ipotesi
del lotto residuale ed intercluso), e si trovi in una zona
che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, sia
anche dotata delle opere di urbanizzazione; pertanto, si può
prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta
dalle norme di piano solo, in pratica, nei casi eccezionali
in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione
di fatto corrispondente a quella che deriverebbe
dall’attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
pari agli standard urbanistici minimi prescritti (C.d.S., IV,
01.08.2007, n. 4276; IV, 21.12.2006, n. 7769; V, 03.03.2004, n. 1013)» (Cons. Stato, sez. V,
05.10.2011,
n. 5450).
Ebbene, di tale compiuta attività istruttoria non è dato
rinvenire alcuna traccia nell’impugnato permesso di
costruire, che nulla riporta in relazione a tali profili. Né
tali carenze istruttorie non possono essere superate dal
riferimento, fatto nella documentazione di parte resistente,
ai contenuti della «relazione tecnica della richiesta del
sig. Tonta per la concessione edilizia rilasciata nell'anno
2000», o dall’elaborato peritale versato in atti da parte controinteressata.
Invero, in primo luogo il Collegio
ritiene di dare continuità all’ampio orientamento che
afferma l’inammissibilità della motivazione postuma del
provvedimento lesivo, addotta dall’Amministrazione emanante
soltanto in sede giudiziale (ex multis, TAR Basilicata,
18.01.2016, n. 30, e la giurisprudenza ivi richiamata).
Inoltre, si tratta pur sempre di atti provenienti da parti
private, mentre difetta comunque l’indicazione di quella
attività istruttoria mediante cui «l'Amministrazione accerti
che la zona in cui si inserisce il suolo destinato alla realizzanda costruzione sia pressoché completamente
edificata, tale da rendere superflua un'opera di
lottizzazione» (Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2012, n.
26).
A ben vedere, anzi, l’Amministrazione comunale assume a
presupposto del proprio operato proprio la vigenza del piano
di lottizzazione, e la necessità di realizzare le opere
urbanistiche ivi contemplate, avendo acquisito dalla società
richiedente un «atto unilaterale d’impegno a rispettare
comunque le previsioni di piano di lottizzazione laddove
fosse stipulata apposita convenzione».
Neppure ricorre,
infine, l’ulteriore presupposto costituito dall’essere, il
lotto del richiedente, l’unico non edificato, posto che
soltanto «la maggior parte dei lotti del piano di
lottizzazione sono stati realizzati ovvero sono in corso di
realizzazione». Del resto, l'interessato all’edificazione
ben può stimolare, con gli strumenti consentiti dal sistema,
l’approvazione del piano attuativo considerato indefettibile
dallo strumento generale (Cons. Stato n. 8531 del 2009
cit.).
3. Dalle considerazioni che precedono discende
l’accoglimento del ricorso, con assorbimento di ogni
ulteriore censura e, per l’effetto, l’annullamento degli
atti impugnati (TAR Basilicata,
sentenza 28.11.2016 n. 1071 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
mancanza del certificato di agibilità non comporta quale
necessaria ed inderogabile conseguenza l’obbligo per il
Comune di adottare l’ordine di sgombero dell’immobile.
In tale materia è opportuno distinguere tra
la mancanza dell’agibilità, e la mancanza
del certificato di agibilità, che operano su piani
diversi, sostanziale l’uno, e formale l’altro.
L’ordinanza di sgombero si giustifica senz’altro, ai sensi
dell’art. 222, del RD 27.07.1934, n. 1265, per la
mancanza dei requisiti sostanziali prescritti dalle norme
tecniche in materia di sicurezza, salubrità ed igiene, e
prescinde dalla presenza o meno del certificato, che ha la
funzione solo di attestare il possesso di tali requisiti, ma
che, anche se presente, non è ostativo all’adozione di
un’ordinanza di sgombero come chiarito dall’art. 26 del DPR
06.06.2001, n. 280, secondo il quale “il rilascio del
certificato di agibilità non impedisce l’esercizio del
potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di
parte di esso ai sensi dell’articolo 222 del regio decreto
27.07.1934, n. 1265”.
Va pertanto valutato quando la mancanza del certificato è
dovuta a motivi formali o quando è dovuta alla carenza
sostanziale dei requisiti di agibilità, perché solo nel
secondo caso è sempre giustificata un’ordinanza di sgombero.
---------------
Nella fattispecie, non vi è alcuna contestazione circa la
mancanza dei requisiti sostanziali di agibilità
dell’immobile, ma è contestato quale unico elemento ostativo
al rilascio del certificato la previsione dello strumento
urbanistico che lo subordina al recupero della torre colombara che non è stato ancora effettuato dai ricorrenti.
Ritiene il Collegio che fino a che sarà vigente tale
previsione dello strumento urbanistico non possa
effettivamente essere legittimamente rilasciato il
certificato di agibilità, ma che al contempo, nel caso di
occupazione dell’immobile legittimamente costruito in
conformità a quanto previsto dal piano regolatore, nel caso
di specie ciò non giustifichi di per sé l’adozione di
un’ordinanza di sgombero in presenza dei presupposti
sostanziali di agibilità.
Deve infatti essere considerato che allo stato attuale non
vi è una norma che disciplini espressamente le conseguenze
della mancanza, sul piano formale, del certificato di
agibilità, posto che l’art. 221, secondo comma, del regio
decreto 27.07.1934, n. 1265, che puniva con una sanzione
pecuniaria il mancato possesso del certificato, è stato
abrogato a decorrere dal 30.06.2003, dall’articolo 136,
comma 2, lettera a), del DPR 06.06.2001, n. 380, senza
essere sostituito da una norma dello stesso tenore (l’art.
24, comma 3, del DPR 06.06.2001, n. 380, sanziona la
mancata presentazione dell’istanza), ed anche il primo
comma, il quale dispone che gli edifici o le parti di essi
di nuova costruzione non possono essere abitati senza la
previa autorizzazione dell'Autorità comunale, a giudizio del
Collegio, deve essere interpretato tenendo conto della
finalità che gli è propria di tutela, in senso sostanziale,
della salute e dell'incolumità della collettività.
Ne discende che nel caso di specie il Comune non può
ordinare lo sgombero dell’abitazione in presenza dei
presupposti sostanziali di agibilità, perché le peculiarità
della fattispecie la fanno ritenere maggiormente
assimilabile a quegli edifici privi di certificato già
esistenti alla data di entrata in vigore del DPR 06.06.2001, n. 380, per i quali non siano state eseguite le
tipologie di interventi edilizi indicate all’art. 24, comma
2, che comportano l’obbligo di acquisire il certificato, o a
quegli edifici per i quali, pur essendo obbligatorio il
possesso del certificato, questo manchi per inerzia degli
interessati, che non lo hanno chiesto, o per il diniego del
Comune motivato con riferimento ad incompletezze di
carattere istruttorio, ma che in ogni caso sono in possesso
dei requisiti sostanziali di agibilità; poiché si tratta, in
questi casi, di ipotesi regolarizzabili sul piano formale,
un’ordinanza di sgombero risulterebbe non giustificata.
E’ evidente che in tal modo il Comune rimane privo di un
efficace strumento per ottenere dai ricorrenti l’adempimento
dell’obbligo di recuperare la torre colombara previsto dallo
strumento urbanistico, che è l’interesse primario dallo
stesso perseguito con l’adozione della variante al piano
regolatore, ma tale conseguenza è addebitabile alla condotta
non sufficientemente prudente della stessa Amministrazione
comunale che non ha predisposto gli strumenti giuridici
necessari da utilizzare in caso di inadempimento, omettendo
di trasfondere la previsione dello strumento urbanistico in
un atto convenzionale di cui poter chiedere eventualmente
l’adempimento, omettendo di prevedere una penale o una
polizza fiudeiussoria a garanzia dell’adempimento, ritenendo
successivamente di poter sostituire lo stesso divieto di
rilascio del certificato previsto dallo strumento
urbanistico mediante la previsione di una polizza
fideiussoria che non è stata stipulata dai ricorrenti, ed
infine lasciando trascorrere diversi anni tollerando di
fatto sia l’inadempimento che l’utilizzo dell’immobile, con
la conseguenza che non appare legittimo ora ovviare a tali
mancanze utilizzando l’ordine di sgombero dell’immobile e di
rimozione dei collegamenti dei servizi pubblici alla rete
come una sanzione indiretta di carattere afflittivo volta a
perseguire non la mancanza dei requisiti sostanziali di
agibilità, ma l’inadempimento di un obbligo.
---------------
Conseguentemente, deve
essere annullata l’ordinanza di sgombero e deve essere annullata anche l’ordinanza che
ha disposto la rimozione dei collegamenti, perché è motivata
con riferimento al DM 22.01.2008, n. 37, che prevede
che l’agibilità venga rilasciata sulla base della
dichiarazione di conformità degli impianti resa dall’impresa
installatrice, e con riferimento all’art. 48 del DPR 06.06.2001,
n. 380, che ha uno specifico ambito di applicazione riferito
alle aziende erogatrici dei servizi pubblici ponendo
obblighi sulle stesse, atteso che si tratta di norme che non
prevedono un potere in capo al Comune di ordinare la
rimozione dei collegamenti.
---------------
FATTO
I ricorrenti con concessione edilizia n. 01P14441 prot. n.
17310 del 30.08.2001, hanno ottenuto dal Comune la
possibilità di realizzare in zona agricola un edificio
unifamiliare di circa 600 mc.
Tale facoltà edificatoria è stata ammessa dal piano
regolatore mediante un’apposita previsione nella quale era
previsto un intervento unitario che comprendeva anche il
necessario recupero di un’antica torre colombara denominata
“Lettra”, con l’indicazione che “il rilascio del certificato
di abitabilità per i nuovi volumi è subordinato alla
verifica da parte degli uffici comunali, dell’avvenuto
recupero e risanamento degli antichi edifici”.
I ricorrenti hanno realizzato la nuova unità abitativa, per
la quale hanno chiesto il rilascio del certificato di
abitabilità in data 29.12.2003, e non hanno realizzato
il recupero della torre colombara.
In merito alla richiesta di rilascio del certificato di
agibilità il Comune con nota prot. n. 1306 del 21.01.2004, pervenuta ai ricorrenti il 23.01.2004, ha
dapprima chiesto delle integrazioni documentali
relativamente al nulla osta del gestore del servizio idrico
integrato per l’allaccio al sistema fognario e alla
regolarità dell’impianto radiotelevisivo, che sono state
fornite dai ricorrenti il 04.02.2004.
Infine il Comune, con provvedimento prot. n. 3029 del 12.02.2004, ha comunicato di non poter rilasciare il
certificato di agibilità in quanto non risultava ottemperata
la prescrizione contenuta nello strumento urbanistico che
subordinava il rilascio del certificato all’avvenuto
recupero e risanamento della torre colombara Lettra.
I ricorrenti con istanza del 16.02.2004, hanno
nuovamente chiesto il rilascio del certificato di agibilità,
rappresentando delle ragioni di urgenza e dichiarandosi
disponibili a sottoscrivere una polizza fideiussoria a
garanzia del completamento dei lavori della torre colombara.
Il Comune con nota prot. n. 4584 del 04.03.2004, ha
accolto quest’istanza assegnando un termine di due anni per
il completamento dei lavori e disponendo la necessità di una
polizza fideiussoria per l’importo di € 100.000,00, da
riscuotere in caso di inadempimento.
Tali impegni tuttavia non hanno avuto seguito.
A distanza di alcuni anni, a seguito di un sopralluogo
svolto il 22.02.2010, il Comune ha accertato che
l’edificio risultava utilizzato come abitazione.
Con ordinanze nn. 67 e 68 del 23.03.2010, ha ordinato di
rimuovere gli allacciamenti e di sgomberare i locali per la
mancanza del certificato di agibilità.
Con il ricorso in epigrafe tali ordinanze, unitamente al
diniego di rilascio dell’agibilità, sono impugnate per le
seguenti censure:
I) violazione dell’art. 4 del DPR 22.04.1994, n. 425,
nonché degli artt. 221 e 222 del RD 27.07.1934, n. 1265,
nonché dell’art. 26 del DPR 06.06.2001, n. 380,
travisamento e difetto di motivazione perché il Comune non
ha tenuto conto che il certificato di agibilità deve
ritenersi rilasciato per silenzio assenso, in quanto sono
decorsi i termini di legge tra la data di presentazione
dell’istanza ed il diniego, e comunque perché il Comune non
può negare il rilascio del certificato in presenza dei
requisiti di agibilità;
II) violazione degli artt. 24, 25 e 26 del DPR 06.06.2001, n. 380, nonché degli artt. 221 e 222 del RD 27.07.1934, n. 1265, difetto di motivazione e carenza di
istruttoria perché lo sgombero può essere disposto solo per
la carenza dei requisiti sostanziali di igiene, salubrità e
sicurezza che nel caso all’esame sussistono;
III) erronea applicazione dell’art. 24 del DPR 06.06.2001, n. 380, e dell’art. 222 del RD 27.07.1934, n.
1265, difetto di istruttoria e travisamento perché lo
sgombero dell’edificio non può essere impropriamente
utilizzato per una finalità sanzionatoria;
IV) sviamento, difetto di motivazione e difetto di
presupposto perché l’ordine non è rivolto a tutti gli
occupanti dell’immobile, ma solo all’intestatario del titolo
edilizio;
V) difetto di motivazione e violazione del principio
dell’affidamento per il lunghissimo lasso di tempo
intercorso e per la circostanza che, a seguito di un
precedente sopralluogo del 2007, l’Amministrazione non ha
assunto alcun provvedimento;
VI) contraddittorietà, perché l’Amministrazione
successivamente al diniego del certificato di agibilità ha
manifestato la disponibilità a rilasciarlo;
VII) difetto di istruttoria e di motivazione perché non
risulta svolto un accertamento circa l’avvenuto recupero o
meno della torre colombara;
VII) travisamento, contraddittorietà, perplessità e carenza
di istruttoria perché dal verbale del sopralluogo del 2010,
non emerge con chiarezza né se la situazione sia o meno
cambiata rispetto al sopralluogo del 2007, né se l’edificio
sia effettivamente abitato, in quanto risulta solo che la
taverna è occupata;
IX) violazione, relativamente all’ordinanza che ha disposto
il distacco dei collegamenti, dell’art. 48 del DPR 06.06.2001, n. 380, e dell’art. 9 del DM 22.01.2008, n. 37,
perché tali norme non ammettono l’adozione di un ordine di
sgombero, ma adempimenti a carico di soggetti diversi dal
Comune;
X) violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241,
perché, ove si ammetta che il certificato di agibilità si è
formato per silenzio assenso, l’atto impugnato deve essere
qualificato come un provvedimento in autotutela, adottato in
mancanza della previa acquisizione dell’apporto
procedimentale dell’interessato.
Si è costituito in giudizio il comune di Malo concludendo
per la reiezione del ricorso.
Con ordinanza n. 426 del 01.07.2010, è stata accolta la
domanda cautelare.
Alla pubblica udienza del 26.10.2016, in prossimità
della quale le parti hanno depositato memorie a sostegno
delle proprie difese, la causa è stata trattenuta in
decisone.
DIRITTO
1. Preliminarmente deve essere dichiarata l’irricevibilità
delle censure contenute nell’ambito del primo motivo volte a
contestare il provvedimento prot. n. 3029 del 12.02.2004, con il quale è stato negato il rilascio del
certificato di agibilità, perché proposte tardivamente per
la prima volta a distanza di anni con il ricorso in
epigrafe.
Le censure contenute nel primo motivo e nel decimo motivo,
con le quali i ricorrenti sostengono che il certificato di
agibilità deve ritenersi rilasciato per silenzio-assenso,
sono infondate e devono essere respinte.
Infatti, come è chiarito dalla documentazione versata in
atti, il termine per la formazione del silenzio-assenso è
stato interrotto a seguito della richiesta di integrazione
documentale effettuata con nota prot. n. 1306 del 21.01.2004, pervenuta ai ricorrenti il 23.01.2004, e alla
quale gli stessi hanno risposto il 04.02.2004, e ciò
impedisce il decorso del termine necessario per la
formazione del silenzio-assenso.
2. Tenuto conto dell’assoluta peculiarità della fattispecie
all’esame, si rivelano fondate le assorbenti censure di cui
al secondo, terzo e nono motivo.
I provvedimenti del Comune muovono dal presupposto secondo
il quale la mancanza del certificato di agibilità comporta
quale necessaria ed inderogabile conseguenza l’obbligo per
il Comune di adottare l’ordine di sgombero dell’immobile.
Tale premessa non può essere condivisa e la giurisprudenza
alla quale si richiama il Comune nelle memorie e in sede di
trattazione orale è inconferente, perché riguarda
fattispecie nelle quali era impugnato il diniego di rilascio
del certificato di agibilità e non, come nel caso all’esame,
un’ordinanza di sgombero di un’abitazione, o fattispecie
nelle quali gli obblighi assunti dal privato il cui
adempimento era condizione per il rilascio del certificato
di agibilità, erano stati assunti nell’ambito di una
convenzione che invece nel caso all’esame non è stata
stipulata, o ancora fattispecie nelle quali la mancanza del
certificato di agibilità si accompagnava alla carenza dei
requisiti sostanziali per il suo rilascio, che nel caso
all’esame non sono contestati dal Comune.
Come dedotto nel ricorso, in tale materia è opportuno
distinguere tra la mancanza dell’agibilità, e la mancanza
del certificato di agibilità, che operano su piani diversi,
sostanziale l’uno, e formale l’altro (cfr. Tar Campania,
Napoli, Sez. III, 18.01.2011, n. 275).
L’ordinanza di sgombero si giustifica senz’altro, ai sensi
dell’art. 222, del RD 27.07.1934, n. 1265, per la
mancanza dei requisiti sostanziali prescritti dalle norme
tecniche in materia di sicurezza, salubrità ed igiene, e
prescinde dalla presenza o meno del certificato, che ha la
funzione solo di attestare il possesso di tali requisiti, ma
che, anche se presente, non è ostativo all’adozione di
un’ordinanza di sgombero come chiarito dall’art. 26 del DPR
06.06.2001, n. 280, secondo il quale “il rilascio del
certificato di agibilità non impedisce l’esercizio del
potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di
parte di esso ai sensi dell’articolo 222 del regio decreto
27.07.1934, n. 1265”.
Va pertanto valutato quando la mancanza del certificato è
dovuta a motivi formali o quando è dovuta alla carenza
sostanziale dei requisiti di agibilità, perché solo nel
secondo caso è sempre giustificata un’ordinanza di sgombero.
La peculiarità della controversia all’esame è dovuta alla
circostanza che non vi è alcuna contestazione circa la
mancanza dei requisiti sostanziali di agibilità
dell’immobile, ma è contestato quale unico elemento ostativo
al rilascio del certificato la previsione dello strumento
urbanistico che lo subordina al recupero della torre
colombara che non è stato ancora effettuato dai ricorrenti.
Ritiene il Collegio che fino a che sarà vigente tale
previsione dello strumento urbanistico non possa
effettivamente essere legittimamente rilasciato il
certificato di agibilità, ma che al contempo, nel caso di
occupazione dell’immobile legittimamente costruito in
conformità a quanto previsto dal piano regolatore, nel caso
di specie ciò non giustifichi di per sé l’adozione di
un’ordinanza di sgombero in presenza dei presupposti
sostanziali di agibilità.
Deve infatti essere considerato che allo stato attuale non
vi è una norma che disciplini espressamente le conseguenze
della mancanza, sul piano formale, del certificato di
agibilità, posto che l’art. 221, secondo comma, del regio
decreto 27.07.1934, n. 1265, che puniva con una sanzione
pecuniaria il mancato possesso del certificato, è stato
abrogato a decorrere dal 30.06.2003, dall’articolo 136,
comma 2, lettera a), del DPR 06.06.2001, n. 380, senza
essere sostituito da una norma dello stesso tenore (l’art.
24, comma 3, del DPR 06.06.2001, n. 380, sanziona la
mancata presentazione dell’istanza), ed anche il primo
comma, il quale dispone che gli edifici o le parti di essi
di nuova costruzione non possono essere abitati senza la
previa autorizzazione dell'Autorità comunale, a giudizio del
Collegio, deve essere interpretato tenendo conto della
finalità che gli è propria di tutela, in senso sostanziale,
della salute e dell'incolumità della collettività.
Ne discende che nel caso di specie il Comune non può
ordinare lo sgombero dell’abitazione in presenza dei
presupposti sostanziali di agibilità, perché le peculiarità
della fattispecie la fanno ritenere maggiormente
assimilabile a quegli edifici privi di certificato già
esistenti alla data di entrata in vigore del DPR 06.06.2001, n. 380, per i quali non siano state eseguite le
tipologie di interventi edilizi indicate all’art. 24, comma
2, che comportano l’obbligo di acquisire il certificato, o a
quegli edifici per i quali, pur essendo obbligatorio il
possesso del certificato, questo manchi per inerzia degli
interessati, che non lo hanno chiesto, o per il diniego del
Comune motivato con riferimento ad incompletezze di
carattere istruttorio, ma che in ogni caso sono in possesso
dei requisiti sostanziali di agibilità; poiché si tratta, in
questi casi, di ipotesi regolarizzabili sul piano formale,
un’ordinanza di sgombero risulterebbe non giustificata.
E’ evidente che in tal modo il Comune rimane privo di un
efficace strumento per ottenere dai ricorrenti l’adempimento
dell’obbligo di recuperare la torre colombara previsto dallo
strumento urbanistico, che è l’interesse primario dallo
stesso perseguito con l’adozione della variante al piano
regolatore, ma tale conseguenza è addebitabile alla condotta
non sufficientemente prudente della stessa Amministrazione
comunale che non ha predisposto gli strumenti giuridici
necessari da utilizzare in caso di inadempimento, omettendo
di trasfondere la previsione dello strumento urbanistico in
un atto convenzionale di cui poter chiedere eventualmente
l’adempimento, omettendo di prevedere una penale o una
polizza fiudeiussoria a garanzia dell’adempimento, ritenendo
successivamente di poter sostituire lo stesso divieto di
rilascio del certificato previsto dallo strumento
urbanistico mediante la previsione di una polizza
fideiussoria che non è stata stipulata dai ricorrenti, ed
infine lasciando trascorrere diversi anni tollerando di
fatto sia l’inadempimento che l’utilizzo dell’immobile, con
la conseguenza che non appare legittimo ora ovviare a tali
mancanze utilizzando l’ordine di sgombero dell’immobile e di
rimozione dei collegamenti dei servizi pubblici alla rete
come una sanzione indiretta di carattere afflittivo volta a
perseguire non la mancanza dei requisiti sostanziali di
agibilità, ma l’inadempimento di un obbligo.
Ne consegue che per le censure di cui al secondo e terzo
motivo del ricorso, che hanno carattere assorbente, deve
essere annullata l’ordinanza di sgombero e, in accoglimento
del nono motivo, deve essere annullata anche l’ordinanza che
ha disposto la rimozione dei collegamenti, perché è motivata
con riferimento al DM 22.01.2008, n. 37, che prevede
che l’agibilità venga rilasciata sulla base della
dichiarazione di conformità degli impianti resa dall’impresa
installatrice, e con riferimento all’art. 48 del DPR 06.06.2001, n. 380, che ha uno specifico ambito di
applicazione riferito alle aziende erogatrici dei servizi
pubblici ponendo obblighi sulle stesse, atteso che si tratta
di norme che non prevedono un potere in capo al Comune di
ordinare la rimozione dei collegamenti
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.11.2016 n. 1299 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
le serre, se con determinate caratteristiche (ad esempio,
estesa pavimentazione e con ambiente chiuso e destinato a
perdurare nel tempo), è necessario il permesso di costruire.
---------------
5. Il ricorso è fondato e deve accogliersi, e il
provvedimento impugnato deve annullarsi con rinvio al
tribunale di Torre Annunziata, per nuovo esame.
Il ricorrente è stato condannato con la sentenza del
Tribunale di Torre Annunziata del 23.01.2006, che disponeva
anche la demolizione delle opere e la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi, per il reato di cui alla lettera c)
dell'art. 20 legge n. 47 del 1985 e art. 81 cod. pen. per
avere in esecuzione del medesimo disegno criminoso,
iniziato, continuato ed eseguito, in assenza della
concessione edilizia in area e/o su bene soggetto a tutela
ex art. 139-146 d.lgs. 490 /1999 le seguenti opere:
struttura metallica composta da profilati e tubolari con
tipologia a tunnel occupante una superficie di mq 2300 allo
stato prive di copertura e tamponamenti (capo A
dell'imputazione).
Dalla descrizione dell'opera contenuta nell'imputazione
emerge che si tratta di un impianto-serra, di discrete
dimensioni, ma senza opere murarie (struttura metallica
composta da profilati e tubolari con tipologia a tunnel).
L'accertamento della presenza o no di opere murarie è
accertamento di merito, che però risulta del tutto assente
nell'ordinanza impugnata. L'accertamento risulta, invece,
essenziale e determinante per la valutazione della
possibilità di sanatoria con D.I.A. -già presentata dal
ricorrente-, e quindi della revoca o no dell'ordine di
demolizione.
In tema di reati edilizi, il giudice
dell'esecuzione investito della richiesta di revoca o di
sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive
di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 in conseguenza
della presentazione di una istanza di condono o sanatoria
successiva al passaggio in giudicato della sentenza di
condanna, è tenuto a esaminare i possibili esiti ed i tempi
di conclusione del procedimento amministrativo e, in
particolare:
a) il prevedibile risultato dell'istanza e la sussistenza di
eventuali cause ostative al suo accoglimento;
b) la durata necessaria per la definizione della procedura, che può
determinare la sospensione dell'esecuzione solo nel caso di
un suo rapido esaurimento
(Sez. 3, n. 47263 del 25/09/2014 - dep. 17/11/2014, Russo,
Rv. 261212; Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep.
04/03/2016, Manna, Rv. 266763).
5.1. Questa Suprema Corte di Cassazione ha
ritenuto che per le serre, se con determinate
caratteristiche (ad esempio, estesa pavimentazione e con
ambiente chiuso e destinato a perdurare nel tempo), è
necessario il permesso di costruire,
vedi Cassazione Sez. 3, n. 37139 del 10/04/2013 - dep.
10/09/2013, Di Benedetto, Rv. 257679, e Sez. 3, n. 36594 del
17/05/2012 - dep. 21/09/2012, Giuffrida, Rv. 253572.
Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lettera e), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (come modificato dal d.l. 25.03.2010, n.
40) "le serre mobili stagionali, sprovviste di strutture
in muratura, funzionali allo svolgimento dell'attività
agricola" possono eseguirsi senza alcun titolo
abilitativo.
E' necessaria quindi una valutazione di merito, non compiuta
dal provvedimento impugnato, sulla natura della serra in
oggetto; ovvero se la stessa sia o no con opere murarie
rilevanti, in relazione alla citata disposizione (art. 6,
d.P.R. 380/2001).
Sul punto, è opportuno ricordare anche la normativa
regionale della Campania, che espressamente disciplina la
costruzione delle serre (leggi regionali 24.03.1995, n. 8,
21.03.1996, n. 7, 22.11.2010, n. 13, 18.12.2012, n. 33 e
06.05.2013, n. 5; vedi anche regolamento di attuazione delle
norme per la realizzazione di impianti serricoli funzionali
allo sviluppo delle attività agricole, del 06.12.2013, n. 8;
e la legge regionale n. 19 del 2001).
In particolare la legge regionale n. 8 del 24.03.1995,
all'art. 3, prevede: "1. Nella realizzazione degli
impianti serricoli, di cui alla presente legge, è vietato il
ricorso ad opere murarie eccedenti il piano di campagna o
l'utilizzazione di pannelli prefabbricati che richiedono,
per il relativo assemblaggio, l'esecuzione di opere murarie
ovvero di altre tecniche di posa in opera che non ne
consentono l'immediato e semplice smontaggio. Sono
consentite solo opere murarie, non continue, entroterra
strettamente necessarie all'ancoraggio dei detti impianti.
2. Le chiusure laterali degli impianti serricoli, così come
la copertura, devono essere realizzate con materiali che
consentono, dall'esterno, la visione ed il controllo delle
colture. Sono, comunque, vietate soluzioni compositive
compatte suscettibili, anche in assenza di opere, di
mutamento di destinazione d'uso, ovvero soluzioni che
richiedono, all'atto della dismissione dell'impianto,
attività di demolizione e non di semplice smontaggio".
Per queste opere non necessita la concessione ma è
sufficiente la D.I.A., vedi legge Regione Campania n. 19 del
2001, art. 2, comma 1, lettera G: "Possono essere
realizzati in base a semplice denuncia di inizio attività:
... g) la realizzazione di impianti serricoli funzionali
allo sviluppo delle attività agricole, di cui alla legge
regionale 24.03.1995, n. 8".
L'analisi della normativa nazionale, art. 6 comma 1, lettera
e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (come modificato dal d.l.
25.03.2010 n. 40), e della normativa regionale, nei limiti
della rilevanza penale di quest'ultima (vedi Cassazione Sez.
3, n. 8086 del 26/01/2011 - dep. 02/03/2011, Lin, Rv.
249540, per la legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n.
12; vedi anche Sez. 3, n. 1428 del 05/05/1994 - dep.
21/06/1994, Menietti, Rv. 198174, per la legge 15.06.1978,
n. 14 della Regione Val d'Aosta), non risulta compiuta
nell'ordinanza impugnata, che deve annullarsi quindi con
rinvio per analisi sul punto -trattandosi anche di
accertamenti di fatto, non compatibili con il giudizio di
legittimità-
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.11.2016 n. 49602). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tettoia e necessità del permesso di costruire.
Non rientrando la tettoia nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una
propria individualità fisica e strutturale, e costituendo
dunque parte integrante dell'edificio sul quale viene
realizzata, per la edificazione della stessa è necessario il
permesso a costruire.
---------------
3. Il ricorso, come proposto, e fatto salvo quanto oltre, è
manifestamente infondato.
Quanto in primo luogo alla pretesa sufficienza, quale titolo
abilitativo alla realizzazione del manufatto, della d.i.a.,
va infatti ribadito che, non rientrando la tettoia nella
nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di
una propria individualità fisica e strutturale, e
costituendo dunque parte integrante dell'edificio sul quale
viene realizzata, per la edificazione della stessa è
necessario il permesso a costruire (tra le altre, da ultimo,
Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro e altro, Rv.
257290); e ciò tanto più considerando che la sentenza
impugnata ha posto in evidenza che il manufatto cui tale
tettoia accedeva era già ab origine abusivo. Né, già
solo in ragione di tale ultimo dato, può farsi alcuna seria
questione di buona fede del ricorrente in (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.11.2016 n. 48300 - tratto da
www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'Anac non ha il potere di dichiarare la nullità
di un incarico ritenuto inconferibile.
Nessuna disposizione, tanto della legge delega n. 190/2012
quanto del d.lgs. n. 39/2013, attribuisce all'Anac il potere
di ordinare ai soggetti vigilati dall'Autorità l'adozione di
determinati atti in relazione al conferimento di incarichi
e, soprattutto, di predeterminarne il contenuto.
Il principio di legalità dell'azione amministrativa, di
rilevanza costituzionale (artt. 1, 23, 97 e 113 Cost.),
impone che sia la legge a individuare lo scopo pubblico da
perseguire e i presupposti essenziali, di ordine
procedimentale e sostanziale, per l'esercizio in concreto
dell'attività amministrativa.
Ne discende che il contenuto dei poteri spettanti
all'Autorità nell'ambito dei procedimenti per il
conferimento di incarichi va ricercato, quanto meno per i
suoi profili essenziali, nel dato normativo primario, non
essendo consentito il ricorso ad atti regolatori diversi,
quali le linee guida o altri strumenti di cd. soft law,
per prevedere l'esercizio di poteri nuovi e ulteriori, non
immediatamente percepibili dall'analisi della fonte
legislativa.
L'art. 16 del d.lgs. n. 39/2013 attribuisce all'Anac un
potere di vigilanza sul rispetto delle disposizioni del
decreto. La norma delinea chiaramente il ruolo e i compiti
dell'Anac in materia di inconferibilità di incarichi e li
descrive nei termini dell'esercizio di un generale potere di
vigilanza, rafforzato attraverso il riconoscimento di forme
di dissuasione e di indirizzo dell'ente vigilato, che
possono financo condurre alla sospensione di un procedimento
di conferimento ancora in fieri ma che non possono comunque
mai portare alla sostituzione delle proprie determinazioni a
quelle che solo l'ente vigilato è competente ad assumere.
Pertanto, solo ed esclusivamente ai Responsabili Prevenzione
Corruzione (RPC) dell'ente, e non anche all'Anac, spetta il
potere di dichiarare la nullità di un incarico ritenuto
inconferibile ed assumere le conseguenti determinazioni (TAR
Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 14.11.2016 n. 11270 - tratto da
www.documentazione.ancitel.it). |
APPALTI SERVIZI:
In house: obbligo di dismissione se non sussiste
possibilità di indirizzo verso finalità di interesse
pubblico.
Il discrimine posto per dar corso all'obbligo di dismissioni
di cui all'art. 3, c. 27, l. n. 244 del 2007, è non tanto
l'oggetto sociale, quanto l'entità concreta della
partecipazione o dei particolari poteri e diritti, vale a
dire la capacità per l'ente di assicurarsi un'incidenza
determinante sul governo della società partecipata: in
particolare se questa partecipazione -eventualmente insieme
o in alternativa a speciali diritti di socio o riserve di
amministratore, ovvero a particolari rapporti contrattuali
tra la società e l'amministrazione pubblica partecipante
-sia tale da consentire all'ente pubblico di governare verso
quei fini la società partecipata o meglio la sua attività,
in ipotesi anche sulla base di caratterizzazioni esterne di
matrice pubblicistica e derogatorie degli ordinari
dispositivi di funzionamento propri del modello societario
definito dal Codice civile.
Laddove questo governo non sia possibile, la partecipazione
dell'ente pubblico assume nei fatti le incongrue ed elusive
caratteristiche di un mero sostegno finanziario a
un'attività di impresa, che si realizza attraverso la
sottoscrizione di parte del capitale ma che non si
accompagna alla possibilità di indirizzarla verso finalità
di interesse pubblico. Viene meno, dunque, la ragion
d'essere di quella stessa partecipazione, che resta del
tutto passiva.
In questo caso la partecipazione assume dunque le
caratteristiche effettive di un investimento con scopo di
lucro, che norme quali l'art. 3, c. 27, l. n. 244 del 2007
hanno ormai inteso contrastare. L'evoluzione dei criteri che
connotano lo schema dell'affidamento in house -ma anche la
configurazione statutaria o legale, della riserva di
speciali poteri pubblici per ragioni di interesse pubblico
(c.d. golden share)- segna al fondo questa linea di
definizione dei rapporti propri di un ente pubblico in
partecipazione societaria.
Nella complessità di queste combinazioni tra forme
giuridiche eterogenee e di originaria diversa finalità, al
centro sta il tema dell'ampiezza delle deroghe per esigenze
pubblicistiche alle forme di controllo societario di diritto
comune.
La complessità della tematica indica comunque che per
un'autorità amministrativa ciò che rileva e che giustifica
una sua partecipazione al capitale di una società è la
funzionalizzazione dello strumento societario alle proprie
ragioni d'ufficio: sicché ciò che conta è soprattutto il
tipo di indirizzo o di influenza che sulla società l'ente
pubblico può davvero esercitare per assicurarne l'irrinunziabile
coerenza con le proprie finalità istituzionali
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2016 n. 4688 - tratto da
www.documentazione.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO: Deve
risarcire i danni causati ai vicini, insieme all’impresa di
costruzione, chi ristruttura la casa senza affidare al
direttore dei lavori abilitato la direzione delle opere che
invece segue personalmente.
Se hai intenzione di fare lavori in casa
e, per risparmiare sui costi, non nomini un direttore dei
lavori che –in quanto professionista abilitato, controlli
l’esecuzione delle opere con assunzione di responsabilità a
proprio carico– rischi grosso: infatti, in caso di danni
provocati ai vicini dovrà risponderne con i propri soldi
insieme alla ditta di costruzioni.
È quanto chiarito dalla Cassazione con una sentenza
pubblicata ieri [1].
Lavori edili anche senza direttori dei
lavori.
È possibile eseguire lavori in casa senza nominare un
direttore dei lavori, ma solo se si tratta di interventi di
modesta portata: in questo caso, il proprietario
dell’immobile, se esperto in materia, potrà seguire
personalmente la ditta che effettua le opere. Ma egli deve
sapere che, nel caso in cui qualcosa vada storto e vengano
commessi degli errori, con conseguenti danni alle proprietà
confinanti, a risponderne sarà egli stesso, in solido con la
ditta edile.
«In solido» significa che il soggetto danneggiato
potrà chiedere il pagamento dell’intero indennizzo all’uno
o, indifferentemente, all’altro.
Nel caso invece di interventi edili di portata più ampia,
intervenendo su strutture o con utilizzo del cemento armato,
le norme edilizie impongono la nomina di un direttore dei
lavori, figura necessaria insieme a quella del progettista e
del professionista che segue i calcoli.
Può quindi costare caro eseguire lavori edili senza un
direttore dei lavori, cioè senza un professionista abilitato
che segua l’impresa man mano che procede l’esecuzione
dell’opera data in appalto. Una scelta di tale tipo,
infatti, se può portare a un risparmio sui costi, dall’altro
lato però accresce le responsabilità del committente per i
lavori affidati direttamente all’impresa, confidando nelle
capacità di quest’ultima. Infatti, l’intera responsabilità
della corretta esecuzione dell’opera non ricade solo
sull’impresa appaltatrice, ma anche sul proprietario
dell’immobile.
Secondo la sentenza in commento, in caso di mancata nomina
del direttore dei lavori si desume che i lavori stessi siano
stati eseguiti sotto la direzione e responsabilità diretta e
concorrente dello stesso committente (ossia il proprietario
dell’appartamento, del terreno, dell’immobile). Con la
conseguenza –di non poco conto– che tutti i danni causati ai
vicini di casa per via degli errori esecutivi saranno quindi
risarciti sia dall’impresa edile che dal committente.
Diverso il caso in cui il proprietario di casa nomini sì un
direttore dei lavori, ma questo sia privo di sufficienti
competenze per controllare in dettaglio la correttezza
dell’esecuzione dell’opera: in tal caso, anche se il
direttore diventa solo un “parafulmine”, al solo
scopo di eludere le norme sulla sicurezza e sulla
responsabilità, resta ugualmente responsabile.
Secondo infatti la Cassazione [2],
il direttore dei lavori deve garantire al committente di
possedere tutte le competenze necessarie a controllare la
corretta esecuzione delle opere da parte dell’appaltatore e
dei suoi ausiliari; diversamente, è tenuto ad astenersi
dall’accettare l’incarico o a delimitare, sin dall’origine,
le prestazioni promesse. Pertanto il direttore incapace è
responsabile nei confronti del committente se non rileva in
corso d’opera l’inadeguatezza delle opere strutturali,
sebbene affidate ad altro professionista, salvo che dimostri
che i vizi potevano essere verificati solo a costruzione
ultimata.
In parole povere, anche un tecnico che non è in grado di
progettare è responsabile se non è in grado di controllare.
La Cassazione ha chiarito che compito del direttore dei
lavori è di individuare la perfetta corrispondenza delle
opere al progetto e che l’addebito assegnato dalla corte
territoriale mette in evidenza proprio condotte imperfette
rispetto all’attività professionale di controllo di
conformità al progetto.
Il responsabile dei lavori, è persona di fiducia del
committente, ha il compito di sorvegliare i lavori, di
garantire che le opere vengano eseguite in conformità al
progetto con potere/dovere di intervento tempestivo con
ordine di sospensione dei lavori ove rilevi delle difformità
(11.11.2016 - commento tratto da
www.laleggepertutti.it).
...
[1] Cass. sent. n. 22884 del 10.11.2016.
[2] Cass. sent. n. 7370/2015
---------------
MASSIMA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Ga.Ma. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova
Co. e Al.Ga. chiedendone la condanna al risarcimento dei
danni subiti dall'appartamento di sua proprietà sito in
Genova-Nervi, consistititi in lesioni murarie, a causa dei
lavori di ristrutturazione eseguiti nell'appartamento
sottostante dai convenuti senza l'adozione delle necessarie
adeguate cautele.
Si costituirono i Ga. contestando la domanda e chiedendo e
ottenendo di chiamare in causa in manleva l'impresa Ni.,
appaltatrice dei lavori. Questa, costituitasi in giudizio,
dedusse di aver eseguito i lavori sotto la direzione dei
tecnici preposti dai committenti.
Il Tribunale rigettò la domanda proposta nei confronti dei
Ga. e condannò l'impresa Ni. al risarcimento dei danni
patiti dalla Ma., stimati in € 16.010,16.
La sentenza venne appellata dalla Ma., la quale chiese la
condanna dei Ga., in solido con l'impresa appaltatrice, al
risarcimento dei danni, da quantificarsi in misura superiore
a quella stimata dal Tribunale.
La Corte d'appello di Genova, con sentenza del 09.12.2011,
in parziale riforma della sentenza impugnata, ha
riconosciuto la concorrente responsabilità dei committenti,
condannandoli in solido con l'impresa Ni. al risarcimento
dei danni, nella misura stimata dal primo giudice.
Ha dichiarato inammissibile la domanda di manleva proposta
dai Ga. nei confronti dell'impresa appaltatrice. Le spese
del doppio grado di giudizio venivano poste per i due terzi
a carico degli appellati, con compensazione del residuo
terzo.
Avverso la suddetta decisione Co. e Al.Ga. propongono
ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi ed
illustrato da memoria.
Resiste con controricorso Ga.Ma..
L'impresa Ni. non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
...
2. Con il quarto motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 132 n. 4 c.p.c. e 2697 c.c.,
in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione
all'art. 360 n. 5 c.p.c. e all'art. 111, comma 6,
Costituzione.
I ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere
affermato la responsabilità dei committenti
in solido con l'impresa appaltatrice, avendo essi "affidato
all'appaltatore l'esecuzione di interventi di natura
strutturale senza disporre di un progetto e senza nemmeno
affidare ad un professionista abilitato la direzione dei
lavori: che pertanto sono stati eseguiti dall'impresa
appaltatrice sotto la direzione e la responsabilità diretta
-e concorrente- degli stessi committenti".
Sostengono che dal verbale di udienza del 20.06.2000
emergeva che l'impresa Ni. aveva ammesso -con conseguente
rinuncia dei Ga. alla prova- le circostanze relative alla "esecuzione
di tutti i lavori" da parte dell'impresa appaltatrice a
"cura e sotto la propria dichiarata responsabilità",
sicché sarebbe esclusa ogni ingerenza dei committenti,
tenuto altresì conto dell'irrilevanza della mancanza di un
progetto e della figura del direttore dei lavori.
Il motivo è infondato.
I ricorrenti, invero, censurano la complessiva valutazione
delle risultanze processuali contenuta nella sentenza
impugnata, contrapponendovi una propria diversa
interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli
accertamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice
del merito, il quale, nella specie, con adeguata
motivazione, sulla base degli elementi acquisti al processo,
ha riconosciuto la concorrente responsabilità dei
committenti (Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 10.11.2016 n. 22884). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione
circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata
in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di
concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo.
In altri termini, essere titolare di una situazione
giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché
l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto,
concreto e attuale", essendo anche necessario che la
documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il
soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti della P.A..
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere
esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una
lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo
invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio
e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e
a partecipare alla formazione di quelli successivi.
Occorre, infine, soggiungere che in via di principio il
diritto di accesso deve ammettersi anche quando il
richiedente non sia oggettivamente certo che l'istanza abbia
come oggetto l'esibizione di un documento effettivamente
esistente, dovendo in tal caso l'amministrazione rilasciare
una dichiarazione dalla quale risulti, appunto,
l'inesistenza del documento medesimo.
---------------
...
per l'annullamento
del diniego del Comune di -OMISSIS- di accesso agli atti,
afferenti a tutti i documenti posti alla base del rilascio
del certificato di agibilità prot. n. -OMISSIS-, nonché per
l'accertamento del diritto del ricorrente di prendere
visione ed estrarre copia della certificazione suddetta.
...
L’esponente premette di aver acquistato alcune unità
immobiliari site nel Comune di -OMISSIS-, fissando l’obbligo
per la parte venditrice di fargli conseguire nel più breve
tempo possibile e a proprie spese l’agibilità delle unità
immobiliari acquistate.
Nell’ambito del giudizio sorto con
la parte venditrice avente ad oggetto proprio l’effettivo
adempimento della clausola appena menzionata, l’esponente
apprendeva del rilascio dell’agibilità degli immobili in
questione da parte del Comune di -OMISSIS-, sicché egli
proponeva istanza in data 07.03.2016 per ottenere dal
predetto ente territoriale la copia del certificato di
agibilità e di tutti i documenti posti a base del rilascio.
Sennonché con nota del 21.03.2016, prosegue l’esponente,
egli otteneva copia del solo certificato di agibilità, ma
non dei documenti posti alla base del suo rilascio,
nonostante le promesse verbali e gli impegni in tal senso
assunti da parte della dirigenza dell’Ufficio Tecnico del
Comune di -OMISSIS-.
Avverso il diniego tacito maturato sull’istanza di accesso,
il sig.-OMISSIS- ha proposto il ricorso introduttivo del
presente giudizio, notificato in data 4 maggio e depositato
in pari data, chiedendone l’annullamento con la condanna del
Comune all’ostensione dei documenti richiesti, sul
presupposto che tali atti sarebbero rilevanti nell’ambito
del giudizio civile di cui il sig.-OMISSIS- è parte.
Il Comune di -OMISSIS- non si è costituito e alla camera di
consiglio del 20.07.2016 la causa è stata introitata per la
decisione.
Nel merito l’istanza di accesso è certamente fondata e deve
essere condannato il Comune di -OMISSIS- all’ostensione dei
documenti richiesti dal sig.-OMISSIS-.
Occorre premettere che il giudizio sul diritto di accesso
non esime da una valutazione circa l'esistenza di una
posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente,
cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità,
un interesse conoscitivo (cfr. da ultimo Cons. St. Ad. Plen.
7/2012).
In altri termini, essere titolare di una situazione
giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché
l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto,
concreto e attuale", essendo anche necessario che la
documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il
soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti della P.A..
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere
esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una
lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo
invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio
e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e
a partecipare alla formazione di quelli successivi (cfr. TAR
Roma Lazio sez. II, 01.12.2011, n. 9461).
Occorre, infine, soggiungere che in via di principio il
diritto di accesso deve ammettersi anche quando il
richiedente non sia oggettivamente certo che l'istanza abbia
come oggetto l'esibizione di un documento effettivamente
esistente, dovendo in tal caso l'amministrazione rilasciare
una dichiarazione dalla quale risulti, appunto,
l'inesistenza del documento medesimo (cfr., ex multis,
TAR Sardegna, sez. II, 24/11/2015 n. 1142; TAR Catania,
(Sicilia), sez. I, 28/04/2016, n. 1179; Cons. Stato, sez. IV,
31.03.2015, n. 1705).
Orbene, l’istanza attorea si dispiega in coerenza con i
soprarichiamati postulati, normativi e giurisprudenziali,
attesa, anzitutto, l’esistenza di una posizione
legittimante, fatta palese dalla posizione differenziata in
cui versa l’istante in ragione della proprietà dei cespiti
oggetto della contestata agibilità.
Del pari, non può essere revocata in dubbio, nei limiti
suddetti, la sussistenza di un interesse conoscitivo
concreto ed attuale, attesa l’evidente, diretta afferenza
degli atti richiesti al contenzioso già in atto, potendo
essi costituire un utile strumento di difesa ovvero,
comunque, rilevare in vista di una compiuta ricostruzione
dei rapporti di causa ad effetto nella dinamica degli eventi
accertati.
E infatti, per un verso il ricorrente ha dato prova della
pendenza di un procedimento giurisdizionale in cui la
sussistenza dell’agibilità riveste carattere centrale,
mentre il ricorrente in qualità di proprietario dei beni in
questione è certamente titolare di un interesse diretto
all’acquisizione della documentazione richiesta, rispetto
alla quale quindi egli ha obiettivamente un posizione
differenziata.
Né viene in rilievo alcuna esigenza di tutelare la
riservatezza di terzi o la posizione in genere di terzi.
In definitiva, alla luce di quanto fin qui argomentato, il
ricorso deve essere accolto e, per l'effetto,
l'Amministrazione intimata dovrà, di conseguenza, consentire
al ricorrente di prendere visione ed estrarre copia, previo
rimborso del costo di riproduzione e dei diritti di ricerca
e visura, della documentazione richiesta.
A tanto l’Amministrazione suddetta resta tenuta nel termine
di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione o, se a
questa anteriore, dalla notificazione della presente
decisione
(TAR Molise,
sentenza 19.10.2016 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Dopo
l’approvazione di un piano di lottizzazione che vedeva
coinvolti alcuni privati questi ultimi si rifiutavano
successivamente di sottoscrivere la conseguente convenzione,
e nonostante richieste e diffide delle appellanti
l’Amministrazione comunale nessuna iniziativa provvedeva ad
adottare.
Non può non rilevarsi che un’ipotesi di
lottizzazione, presentata da soggetti privati, può essere
presa in considerazione e valutata favorevolmente
dall’Amministrazione comunale soltanto nel caso in cui la
stessa sia idonea a soddisfare interessi pubblici di natura
urbanistica.
Sicché, mentre in presenza dell’accordo di tutte le parti
private ricomprese in un comparto omogeneo lo stesso è
sicuramente valutabile positivamente dall’Amministrazione in
quanto capace di poter compiutamente determinare un assetto
complessivo di una certa area, allorquando questa volontà
privata viene meno in parte sicuramente l’Amministrazione è
titolare del potere di valutare se tale ridotta composizione
possa in qualche modo soddisfare gli interessi pubblici di
natura urbanistica che la originaria lottizzazione era in
grado di portare a compimento.
---------------
L’appello in esame è proposto dai legali rappresentanti
della s.a.s. Sg.Gi. & C. s.a.s. Ma. & C. e si dirige contro
la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il Tribunale
amministrativo regionale dell’Abruzzo ha rigettato un
ricorso ivi proposto per l’annullamento del silenzio serbato
dall’Amministrazione che non ha dato corso ad una
convenzione di lottizzazione, conseguente all’approvazione
di un piano di lottizzazione, precedentemente approvato.
Precisano gli appellanti che, dopo l’approvazione di un
piano di lottizzazione che vedeva coinvolti alcuni privati,
oggi appellati, questi ultimi si rifiutavano successivamente
di sottoscrivere la conseguente convenzione e nonostante
richieste e diffide delle appellanti, l’Amministrazione
nessuna iniziativa provvedeva ad adottare.
...
L’appello non è fondato.
Non può non rilevarsi, infatti, che un’ipotesi di
lottizzazione, presentata da soggetti privati, può essere
presa in considerazione e valutata favorevolmente
dall’Amministrazione comunale soltanto nel caso in cui la
stessa sia idonea a soddisfare interessi pubblici di natura
urbanistica, per cui, mentre in presenza dell’accordo di
tutte le parti private ricomprese in un comparto omogeneo lo
stesso è sicuramente valutabile positivamente
dall’Amministrazione in quanto capace di poter compiutamente
determinare un assetto complessivo di una certa area,
allorquando questa volontà privata viene meno in parte, come
è accaduto nel caso di specie, sicuramente l’Amministrazione
è titolare del potere di valutare se tale ridotta
composizione possa in qualche modo soddisfare gli interessi
pubblici di natura urbanistica che la originaria
lottizzazione era in grado di portare a compimento.
Naturalmente, una corretta valutazione avrebbe potuto
trovare compimento in un annullamento della lottizzazione
(con conseguente impossibilità di sottoscrivere la
successiva convenzione), essendo venuti meno i presupposti
per la sua operatività, ma il fatto che l’Amministrazione
abbia assunto un atteggiamento sostanzialmente inerte di
fronte al venir meno della volontà di alcuni soggetti che
originariamente avevano richiesto la lottizzazione se, da
un lato, può essere censurata in quanto manifestazione
inerte, dall’altro non può certo pretendersi da parte
dell’appellante che l’Amministrazione desse corso ad una
convenzione in mancanza degli originari presupposti né che
addirittura la stessa potesse operare una lottizzazione
d’ufficio, trattandosi in quest’ultimo caso in una diversa
procedura che, al di là dei costi che vi erano connessi,
doveva necessariamente essere collegata a valutazioni
d’ufficio da parte dell’Amministrazione comunale che, non
solo non c’erano, ma che, come si evince dalla memoria di
resistenza, l’Amministrazione non aveva alcun interesse ad
intraprendere.
L’originaria lottizzazione era stata richiesta da alcuni
soggetti, ricomprendenti l’intera area di riferimento; il
fatto che poi alcuni di tali soggetti avevano ritirato il
loro assenso ha determinato il venir meno delle ragioni
stesse che sottostavano all’approvazione della
lottizzazione, per cui il fatto che l’Amministrazione si sia
poi rifiutata di addivenire alla convenzione con la parte
residua dei soggetti che avevano richiesto la lottizzazione
è da ritenersi corretta sostanzialmente, essendo venuti meno
i presupposti che l’avevano originata.
Pertanto, pur in presenza di una procedura che meglio
avrebbe dovuto estrinsecarsi con l’annullamento o la revoca
della precedente lottizzazione, ugualmente non può accedersi
alla tesi della società appellante di un obbligo
dell’Amministrazione di sottoscrivere la convenzione con la
parte dei soggetti residui favorevoli alla lottizzazione, né
la stessa può essere obbligata a procedere ad una
lottizzazione d’ufficio, che, come si è prima evidenziato, è
collegata a diversi presupposti e a una diversa istruttoria,
che non si è ritenuto di porre in essere.
L’appello è, perciò, infondato e va, conseguentemente
rigettato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.05.2010 n. 3217 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.12.2016 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Decreto
SCIA 2 in Gazzetta. Ecco le nuove regole per l’edilizia
(01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Titoli
abilitativi edilizi, ecco la guida definitiva con tutti gli
interventi
(01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Addio
al certificato di agibilità. Ecco la segnalazione
certificata di agibilità
(01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Arrivano
le regole per la CILA. Ecco come procedere
(01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: SCIA
in edilizia, cosa cambia con il decreto SCIA 2
(01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Interventi
in edilizia libera senza titolo: le semplificazioni
introdotte dal decreto SCIA 2
(01.12.2016 - link a http://biblus.acca.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Linee guida per la verifica della relazione sul
contenimento dei consumi energetici (Consiglio Nazionale
degli Ingegneri,
circolare 02.12.2016 n. 837). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2016, "Approvazione
del «Documento programmatico strategia di gestione della
Rete Natura 2000 Regione Lombardia» e del «Prioritised
Action Framework (PAF) for Natura 2000 for the Eu
Multiannual Financing Period 2014-2020»" (deliberazione
G.R. 28.11.2016 n. 5903). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2016, "Adeguamento
delle sanzioni amministrative pecuniarie in materia di danni
alle superfici boschive e ai terreni soggetti a vincolo
idrogeologico (art. 61, comma 14, l.r. n. 31/2008)" (decreto
D.S. 18.11.2016 n. 11847). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2016, "Adeguamento
del «Valore del soprassuolo» stabilito con d.g.r. 675/2005"
(decreto
D.S. 18.11.2016 n. 11846). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 05.12.2016, "Modifica
dell’articolo 33 del regolamento regionale 24.03.2006, n. 2
(Disciplina dell’uso delle acque superficiali e sotterranee,
dell’utilizzo delle acque a uso domestico, del risparmio
idrico e del riutilizzo dell’acqua in attuazione
dell’articolo 52, comma 1, lettera c) della legge regionale
12.12.2003, n. 26). Disposizioni per l’attuazione del
decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e
Forestali del 31.07.2015 (Approvazione delle linee guida per
la regolamentazione da parte delle Regioni delle modalità di
quantificazione dei volumi idrici ad uso irriguo)" (regolamento
regionale 02.12.2016 n. 10). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 05.12.2016 "Criteri
per l’identificazione nei piani di governo del territorio
delle opere edilizie incongrue presenti nel territorio
agricolo e negli ambiti di valore paesaggistico (art. 4,
comma 9, l.r. 31/2014)" (deliberazione
G.R. 18.11.2016 n. 5832). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 05.12.2016, "Modulistica
unificata e standardizzata per la presentazione del permesso
di costruire (PDC): adeguamento della modulistica nazionale
alle normative specifiche e di settore di Regione Lombardia"
(deliberazione
G.R. 28.11.2016 n. 5909). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 02.12.2016, "Approvazione
del piano dei controlli sugli attestati di prestazione
energetica degli edifici, previsto dall’art. 11, della l.r.
24/2014" (deliberazione
G.R. 28.11.2016 n. 5900). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
P. Falletta,
Il freedom of information act italiano e i rischi della
trasparenza digitale (30.11.2016 - tratto
da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Nuovo accesso civico e modello di
FOIA statunitense. 1.1. Premessa. 1.2. Profili essenziali
del FOIA statunitense. 2. Il FOIA italiano: la terza fase
della trasparenza amministrativa. 2.1. La questione
dell’accessibilità universale. 2.2. La questione dei limiti
al nuovo sistema di accesso. 2.3. L’azionabilità del right
to know. 3. I rischi della trasparenza digitale. |
APPALTI:
R. Calzoni,
Autorità nazionale anticorruzione e funzione di vigilanza
collaborativa: le novità del Codice dei contratti pubblici
(30.11.2016 -
tratto da www.federalismi.it).
----------------
Sommario: 1. Aspetti introduttivi. 2. La nuova
Autorità nazionale anticorruzione. 3. Le funzioni attribuite
all’Autorità dal d.l. n. 90 del 2014. 4. Le funzioni
dell’Autorità a recepimento delle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE: il nuovo Codice dei contratti
pubblici. 5. L’attività di vigilanza. 5.1. L’ attività di
vigilanza in materia di contratti pubblici. 5.2. La
vigilanza in materia di prevenzione e contrasto della
corruzione. 5.3. La vigilanza in materia di trasparenza
dell’azione amministrativa. 6. La vigilanza collaborativa.
6.1. L’Esposizione Universale Milano 2015. 6.2. L’ambito
oggettivo di applicazione della vigilanza collaborativa.
6.3. L’ambito soggettivo di applicazione della vigilanza
collaborativa. 6.4. La qualificazione delle stazioni
appaltanti ai sensi del nuovo Codice dei contratti pubblici.
6.5. Il protocollo di azione. 6.6. Il procedimento di
vigilanza collaborativa ed i possibili esiti. 7.
Conclusioni. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
S. Villamena,
Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento
con istituti consimili (30.11.2016 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa; - 2. «Accesso civico» o
«accessi civici»? Necessaria distinzione delle fattispecie
rilevanti; - 3. Tratti distintivi fra accesso civico 2013 e
accesso civico 2016; - 4. Rapporto fra accesso civico 2016 e
diritto di accesso: individuazione di un possibile criterio
sistematico e applicativo; 5. Sintesi conclusiva. |
APPALTI:
R. De Nictolis,
Lo stato dell’arte dei
provvedimenti attuativi del codice. Le linee guida Anac sui
gravi illeciti professionali (30.11.2016 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
Sommario: 1. Introduzione. 2. I sei tipi di linee
guida. 3. I 53 atti attuativi del codice e i regolamenti di
organizzazione dell’ANAC. 4. In particolare i regolamenti di
organizzazione dell’ANAC. - 5. Lo stato di attuazione del
codice (al 30.11.2016). 6. Linee guida “cruciali”, errata
corrige, decreto correttivo. 7. Il grave illecito
professionale ex art. 80, c. 11, e le LG ANAC. 7.1. Profili
generali. 7.2. Le singole ipotesi: la negligenza
professionale. 7.3. Le singole ipotesi: la turbativa di
gara. 7.4. I mezzi di prova. 7.5. Profili transitori. 7.6.
Rilevanza temporale. 7.7. Le linee guida dell’ANAC: ambito e
natura giuridica. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
LAVORI PUBBLICI:
Trasmissione delle varianti in corso d’opera ex art. 106,
co. 14, del d.lgs. 50/2016 (Comunicato
del Presidente 23.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
-----------------
Trasmissione delle varianti in corso d’opera
ex art. 106, co. 14, del d.lgs. 50/2016.
In ragione della nuova disciplina dell’art. 106 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50 rispetto all’art. 132 del d.lgs. 163/2006 e
all’art. 37, d.l. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, si
fornisce in allegato il nuovo Modulo di trasmissione delle
varianti in corso d’opera dei contratti di lavori da
compilarsi a cura del responsabile del procedimento (RdP).
Il nuovo Modulo prevede di fornire anche alcune brevi
informazioni (non documentazione) tese a facilitare il
coordinamento tra le varianti in corso d’opera propriamente
intese e gli altri istituti di modifica del contratto nella
fase di esecuzione.
Restano valide le indicazioni generali già fornite con i
precedenti comunicati (v. Comunicato del 04.03.2016) in ordine
all’accertamento delle cause delle varianti a cura del RdP.
Si richiama infine l’attenzione sull’obbligo di trasmissione
delle varianti in corso d’opera entro trenta giorni
dall’approvazione da parte della stazione appaltante, ex
art. 106, comma 14, d.lgs. 50/2016, e sulle sanzioni
amministrative pecuniarie in caso di ritardo ex art. 213,
comma 13, del codice stesso.
All.:
Modulo di trasmissione delle “varianti in corso
d’opera” dei contratti sopra-soglie di lavori o concessioni
ex art. 106, co. 14, 2° periodo, d.lgs. 50/2016 e dei precedenti
comunicati, nonché alcune informazioni sulle “modifiche”. |
APPALTI:
Indicazioni operative in merito all’esercizio della
funzione consultiva diversa dal precontenzioso svolta
dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (Comunicato
del Presidente 16.11.2016 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Funzione consultiva dell’Autorità -
Indicazioni per le richieste diverse dal precontenzioso.
Con il
Comunicato del Presidente del 16.11.2016 si forniscono nuove
indicazioni operative in merito all’esercizio della funzione
consultiva diversa dal precontenzioso svolta dall’Anac, con
particolare riguardo alle condizioni di ammissibilità per la
trattazione delle richieste.
Il Comunicato ribadisce che i quesiti proposti saranno
oggetto di trattazione solo nel caso in cui rivestano uno
dei caratteri di rilevanza indicati dal Regolamento Anac
sulla funzione consultiva del 20.07.2016.
Novità per quanto riguarda l’ordine di trattazione dei
quesiti che saranno presi in esame secondo l’ordine
cronologico di arrivo, fermo restando che potrà essere data
priorità a quelli, pur pervenuti successivamente, che
soddisfano una o più delle condizioni espresse nel
comunicato.
Non saranno considerate prioritarie richieste di urgenza non
motivate e con motivazione generica. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Regolamento in materia di esercizio del potere
sanzionatorio ai sensi dell’articolo 47 del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, come modificato dal decreto
legislativo 25.05.2016, n. 97 (Regolamento
16.11.2016 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Trasparenza - Nuovo Regolamento in
materia di esercizio del potere sanzionatorio.
Pubblicato il
nuovo Regolamento in materia di esercizio del potere
sanzionatorio ai sensi dell’articolo 47 del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, come modificato dal decreto
legislativo 25.05.2016, n. 97.
Il d.lgs. 97/2016 ha apportato, tra le altre, alcune
significative modifiche all’articolo 47 del d.lgs. n.
33/2013, cd. “decreto trasparenza”, che prevede “sanzioni
per la violazione degli obblighi di trasparenza per casi
specifici”. In particolare, analogamente a quanto
disposto per le sanzioni in materia di anticorruzione, è
previsto che sia l’ANAC ad irrogare le sanzioni, e a
disciplinare con proprio Regolamento il relativo
procedimento. Si è reso pertanto necessario sostituire il
Regolamento del 23.07.2015, che attribuiva all’ANAC la
competenza ad irrogare le sanzioni in misura ridotta, ed al
Prefetto quelle definitive.
Il procedimento disciplinato dal presente Regolamento tende
ad agevolare l’accertamento della violazione, coinvolgendo i
Responsabili per la trasparenza e gli Organismi indipendenti
di valutazione o altri organismi con funzioni analoghe, ed a
semplificare, nel pieno rispetto del contraddittorio,
l’istruttoria volta all’irrogazione della sanzione, in
misura ridotta, conformemente a quanto indicato dalla legge
689/1981, ovvero definita entro i limiti minimo e massimo
edittali, tenuto conto delle circostanze indicate dall’art.
11 della citata legge 689.
Il nuovo regolamento entra in vigore il giorno successivo
alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (pubblicato
nella G.U. 05.12.2016 n. 284). |
CORTE DEI CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI: La necessità di un
preventivo di massima che indichi la misura del compenso,
oltre ad essere oggetto di specifica previsione da parte
della normativa che ha abrogato le tariffe professionali
(art. 9, D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012) e
che attualmente disciplina i compensi, tra l’altro, degli
avvocati, viene espressamente contemplata dal Principio
contabile applicato concernente la contabilità finanziaria
(All. n. 4/2 al D.lgs. n. 118/2011),
il quale, al paragrafo
5.2, lett. g), proprio “al fine di evitare la formazione
di debiti fuori bilancio”, non solo prevede, in deroga
al principio della competenza potenziata, l’imputabilità
dell’impegno assunto con il conferimento dell’incarico
all’esercizio in cui il contratto è firmato, garantendo, in
tal modo, la copertura della spesa, ma impone, altresì,
all’ente di chiedere ogni anno al legale di confermare o
meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato
assunto l’impegno originario (ciò in considerazione della
probabile reimputazione ad altro.
---------------
La carenza iniziale nella stima del costo della
prestazione, che espone l’ente al rischio (o anche certezza)
della formazione di oneri a carico del bilancio privi della
necessaria copertura, in contrasto con i canoni della sana
gestione finanziaria, non può influire sulla esistenza ed
entità dell’obbligazione sorta per effetto dell’espletamento
dell’incarico, che deve trovare, ovviamente nei limiti della
effettiva spettanza e nel rispetto delle norme e dei
principi che regolano il riconoscimento dei debiti fuori
bilancio, la dovuta rappresentazione contabile nelle
scritture dell’ente, allo scopo di consentirne il regolare
adempimento.
Ove la stima non sia stata adeguata ed
effettivamente i compensi maturati dal legale eccedano
l’impegno assunto, l’alternativa è il riconoscimento del
debito, secondo la procedura disciplinata dall’art. 194 TUEL
ovvero, nell’ipotesi di non riconoscibilità del rapporto
obbligatorio per la accertata assenza dei presupposti ivi
previsti, l’imputazione diretta del rapporto medesimo
all’amministratore, funzionario o dipendente che abbiano
consentito l’acquisizione della prestazione in assenza
dell’impegno e della necessaria copertura (art. 191, 4°
comma, TUEL).
---------------
Nella richiesta di parere, il Sindaco del Comune di
Bussolengo (VR) chiede se sia legittimo “liquidare
parcelle di un avvocato relative a cause per le quali lo
stesso era stato incaricato con delibera di Giunta, senza
aver preventivamente acquisito preventivo di spesa” ed,
in caso di risposta affermativa, in che misura,
tenuto conto di quanto affermato, da un canto, dalla Suprema
Corte in merito alla sussistenza, in capo all’ente,
dell’obbligazione, esclusivamente per la somma impegnata in
bilancio e, dall’altro, dalla Corte dei conti (tra l’altro,
nella deliberazione della Sezione regionale di controllo per
la Campania n. 110/2015/PAR) in merito al ricorso alla
procedura del riconoscimento del debito fuori bilancio, ex
art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL.
...
Nel merito, esso ha ad oggetto la possibilità di liquidare,
in favore di professionista formalmente incaricato dall’ente
(nella specie, avvocato) e per la prestazione resa, un
importo maggiore di quello impegnato, ove questo,
determinato in assenza di apposito preventivo di spesa,
risulti “significativamente inferiore rispetto
all’attività svolta e documentata da parcella professionale
per la quale sono stati applicati i tariffari previsti dai
decreti ministeriali in materia di onorari e diritti
professionali”.
In sostanza, l’ente chiede a questa Sezione se l’assunzione
dell’impegno di spesa costituisca un limite rispetto
all’obbligazione civilistica sorta per effetto del
conferimento dell’incarico al professionista ed, in caso di
risposta negativa, quale sia la procedura corretta da
seguire sotto il profilo contabile ai fini della
liquidazione dell’importo eccedente la previsione.
Il problema ovviamente si pone nei casi in cui la “stima”
del valore della prestazione richiesta al professionista sia
inadeguata e determini, quindi, l’insufficienza dell’impegno
assunto al momento del conferimento.
Deve precisarsi, in merito, che
la necessità di un
preventivo di massima che indichi la misura del compenso,
oltre ad essere oggetto di specifica previsione da parte
della normativa che ha abrogato le tariffe professionali
(art. 9, D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012) e
che attualmente disciplina i compensi, tra l’altro, degli
avvocati, viene espressamente contemplata dal Principio
contabile applicato concernente la contabilità finanziaria
(All. n. 4/2 al D.lgs. n. 118/2011),
il quale, al paragrafo
5.2, lett. g), proprio “al fine di evitare la formazione
di debiti fuori bilancio”, non solo prevede, in deroga
al principio della competenza potenziata, l’imputabilità
dell’impegno assunto con il conferimento dell’incarico
all’esercizio in cui il contratto è firmato, garantendo, in
tal modo, la copertura della spesa, ma impone, altresì,
all’ente di chiedere ogni anno al legale di confermare o
meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato
assunto l’impegno originario (ciò in considerazione della
probabile reimputazione ad altro esercizio, ossia quello nel
quale l’obbligazione viene effettivamente a scadenza, del
residuo passivo formatosi proprio per effetto del meccanismo
di imputazione previsto dal principio suddetto).
Analogamente, prima della entrata in vigore della normativa
sull’armonizzazione dei sistemi contabili appena richiamata,
era previsto che i compensi per prestazioni professionali
dovessero trovare copertura in bilancio già dal momento del
conferimento, in base ad una stima del relativo costo, in
modo da evitare il più possibile la formazione di debiti
fuori bilancio (Principio contabile n. 2 per gli enti locali
formulato dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità
degli Enti Locali).
Posto ciò,
la carenza iniziale nella stima del costo della
prestazione, che espone l’ente al rischio (o anche certezza)
della formazione di oneri a carico del bilancio privi della
necessaria copertura, in contrasto con i canoni della sana
gestione finanziaria, non può influire sulla esistenza ed
entità dell’obbligazione sorta per effetto dell’espletamento
dell’incarico, che deve trovare, ovviamente nei limiti della
effettiva spettanza e nel rispetto delle norme e dei
principi che regolano il riconoscimento dei debiti fuori
bilancio, la dovuta rappresentazione contabile nelle
scritture dell’ente, allo scopo di consentirne il regolare
adempimento.
Come correttamente rilevato dalla Sezione regionale di
controllo per la Campania nel
parere 01.04.2015 n. 110), richiamata nella richiesta di parere, infatti,
ove la stima non sia stata adeguata ed
effettivamente i compensi maturati dal legale eccedano
l’impegno assunto, l’alternativa è il riconoscimento del
debito, secondo la procedura disciplinata dall’art. 194 TUEL
ovvero, nell’ipotesi di non riconoscibilità del rapporto
obbligatorio per la accertata assenza dei presupposti ivi
previsti, l’imputazione diretta del rapporto medesimo
all’amministratore, funzionario o dipendente che abbiano
consentito l’acquisizione della prestazione in assenza
dell’impegno e della necessaria copertura (art. 191, 4°
comma, TUEL).
In quest’ottica, deve essere risolto il dubbio manifestato
dall’ente circa la possibilità di limitare il vincolo
derivante dal detto rapporto obbligatorio all’importo
dell’impegno di spesa originario.
In primo luogo, deve rilevarsi che la pronuncia della
Suprema Corte da ultimo richiamata nella richiesta di parere
(SS.UU., sentenza n. 10798/2015) non consente affatto di
ipotizzare, sic et simpliciter, “che sia sorta
un’obbligazione per l’ente solo ed esclusivamente per la
somma impegnata in bilancio”.
Oltre a ribadire il carattere di sussidiarietà dell’azione
di indebito arricchimento (art. 2042 c.c.), la sentenza si
limita ad affermare il principio secondo cui il
riconoscimento, da parte della p.a., dell’utilità della
prestazione o dell’opera non costituisce un requisito
dell’azione di indebito arricchimento e rileva soltanto “in
funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del
riscontro dell’imputabilità dell’arricchimento all’ente
pubblico”, ma non esime la pubblica amministrazione
dall’attivazione della procedura di riconoscimento del
debito, “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità
ed arricchimento”, atteso che la responsabilità diretta
del o dei dipendenti che hanno consentito la fornitura sorge
soltanto per la (e se vi sia una) ”parte non
riconoscibile ai sensi dell’articolo 194, 1° comma, lett. e)”
del TUEL (art. 191, 4° comma, cit.).
La sussidiarietà dell’azione di indebito arricchimento, che
comporta la non esperibilità dell’azione medesima
nell’ipotesi in cui il danneggiato disponga di un altro
rimedio per farsi indennizzare il pregiudizio subito (art.
2042 c.c.), infatti, oltre ad attenere ad un ambito
processuale e di tutela giurisdizionale –del tutto diverso
da quello, di natura contabile, al quale è riconducibile la
problematica della gestione della spesa pubblica, oggetto di
esame– comunque non esclude l’imputabilità dell’obbligazione
direttamente all’ente, qualora si sia verificato un
arricchimento, percepibile come tale e suscettibile di
riconoscimento.
Diversamente, si consentirebbe di riversare indebitamente
sui dipendenti che agiscono in nome e per conto dell’ente
anche il costo di prestazioni dalle quali quest’ultimo abbia
tratto un obiettivo (e consapevole) beneficio e di
arricchirsi, quindi, ingiustamente, a scapito di terzi
(professionista ovvero dipendenti), in violazione del
generale principio secondo cui nemo lucupletari potest
cum aliena iactura
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 29.11.2016 n. 375). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza
di demolizione che assegni al privato un termine per
provvedere inferiore a quello (di 90 giorni) stabilito dal
legislatore non è illegittima, in quanto il destinatario
conserva comunque un termine non inferiore a quello di legge
per procedere all’imposta demolizione.
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La circostanza che l'ordine di demolizione di un manufatto
abusivamente realizzato non descriva l'area da acquisire non
è causa di illegittimità dello stesso, atteso che l'effetto
acquisitivo costituisce una conseguenza eventuale fissata
direttamente dalla legge, per il caso in cui il destinatario
non ottemperi spontaneamente, senza necessità dell'esercizio
di alcun potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto
quello del mero accertamento dell'inottemperanza all'ordine
di demolizione.
Pertanto il provvedimento con cui si ingiunge al
responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla
sua distruzione nel termine fissato, non deve
necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di
sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del
Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di
ingiunzione di demolizione è distinto dal successivo ed
eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece,
è necessario che sia puntualmente specificata la portata
delle sanzioni irrogate.
-----------------
2.2 Quanto, infine, al motivo con cui parte ricorrente
lamenta l'assegnazione di un termine per l'esecuzione
spontanea della demolizione inferiore (60 giorni) a quello
(90 giorni) previsto dalla disciplina di settore, il
Collegio rileva che tale censura deve ritenersi
improcedibile. Ed, invero, il termine legale prescritto
dall'articolo 31 del t.u. sull'edilizia risulta, ad oggi,
abbondantemente decorso senza che la parte ricorrente abbia,
comunque, ottemperato.
D'altro canto, si è già evidenziato in giurisprudenza che
l'ordinanza di demolizione che assegni al privato un termine
per provvedere inferiore a quello (di 90 giorni) stabilito
dal legislatore, non è illegittima, in quanto il
destinatario conserva comunque un termine non inferiore a
quello di legge per procedere all’imposta demolizione (cfr.
TAR Firenze Toscana sez. III, n. 2110 del 20.12.2012).
2.2 Con riferimento all’omessa descrizione dell’area di
sedime è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo
cui la circostanza che l'ordine di demolizione di un
manufatto abusivamente realizzato non descriva l'area da
acquisire non è causa di illegittimità dello stesso, atteso
che l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza
eventuale fissata direttamente dalla legge, per il caso in
cui il destinatario non ottemperi spontaneamente, senza
necessità dell'esercizio di alcun potere valutativo da parte
dell'Autorità eccetto quello del mero accertamento
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione.
Pertanto il provvedimento con cui si ingiunge al
responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla
sua distruzione nel termine fissato, non deve
necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di
sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del
Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di
ingiunzione di demolizione è distinto dal successivo ed
eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece,
è necessario che sia puntualmente specificata la portata
delle sanzioni irrogate (cfr. Consiglio di Stato sez. V n.
3438 del 07.07.2014).
Nel caso in esame difatti il
provvedimento di demolizione non contiene, come non
potrebbe, alcun ordine direttamente acquisitivo, ma si
limita a preannunciare la possibilità di acquisizione
gratuita delle opere abusive al patrimonio comunale, per il
caso di inottemperanza entro il termine assegnato (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 02.12.2016 n. 5567 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Tar Liguria si sofferma sull'istituto dell'avvalimento e
sulla possibilità del soccorso istruttorio in caso di
genericità del relativo contratto.
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Gara – Avvalimento – Art. 89, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Contenuto del contratto – Individuazione.
Gara – Avvalimento – Contratto nullo per genericità –
Soccorso istruttorio ex art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del
2016 – Esclusione.
In tema di contratto di avvalimento
l’art. 89, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 ha recepito la legge
delega 28.01.2016, n. 11 nella parte in cui (art. 1, comma
1, lett. zz) ha specificamente disposto la revisione della
disciplina in materia di avvalimento, imponendo che il
relativo contratto indicasse nel dettaglio le risorse e i
mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui
l'oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di
qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata
organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione
alla gara; il Codice di contratti dispone infatti che
l'operatore economico deve dimostrare alla stazione
appaltante che disporrà dei mezzi necessari mediante
presentazione di una dichiarazione sottoscritta dall'impresa
ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il
concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a
disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse
necessarie di cui è carente il concorrente; è quindi
illegittimo il contratto di avvalimento che si limiti a
prevedere, richiamando quanto richiesto dal disciplinare di
gara, che l’impresa ausiliaria si obbliga a fornire alle
Imprese ausiliate tutti i requisiti di carattere tecnico ma
anche economico, finanziario ed organizzativo previsti dal
bando di gara, risolvendosi l’impegno contrattuale in una
mera riproduzione tautologica del testo del disciplinare di
gara, difettando così della puntuale indicazione dei mezzi
che la ditta ausiliaria dovrebbe fornire alle ausiliate per
rendere effettivo il possesso del requisito di gara (1).
A fronte di un contratto di avvalimento generico non è
possibile fare ricorso al c.d. “soccorso istruttorio”,
atteso che ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 il soccorso istruttorio non è esperibile
per sopperire alle irregolarità che impediscono in maniera
radicale di individuare il contenuto della documentazione
(2).
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(1) Il Tar Liguria ha richiamato il recente arresto
dell’Adunanza plenaria dall’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato 04.11.2016, n. 23, che ha rimarcato la necessità di
indicare nel contratto di avvalimento, con appropriato grado
di determinatezza o determinabilità, i mezzi concreti che
l’impresa ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata,
evidenziando altresì che l'esigenza di una puntuale
individuazione dell'oggetto dell'avvalimento, oltre ad avere
un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico negli artt.
1325, 1346 e 1418 c.c., che configurano quale causa di
nullità del contratto l'indeterminatezza ed
indeterminabilità del relativo oggetto, trova la propria
essenziale giustificazione funzionale nella necessità di non
permettere agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti di
ingresso alle gare pubbliche.
In particolare, è stata ritenuta insufficiente la mera
riproduzione tautologica, nel testo dei contratti di
avvalimento, della formula legislativa della messa a
disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente
il concorrente", o espressioni equivalenti, con
conseguente legittimità dell'esclusione dalla gara pubblica
dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento
producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e
specifica elencazione od indicazione delle risorse e dei
mezzi in concreto prestati (Cons. St., sez. III, 18.04.2011,
n. 2344; id., sez. V, 06.08.2012, n. 4510; id., sez. IV,
16.01.2014, n. 135; 17.10.2012, n. 5340; id., sez. VI,
13.06.2013, n. 3310; id., sez. III, 03.09.2013, n. 4386).
(2) Ad avviso del Tar Liguria la nullità dell’oggetto del
contratto di avvalimento impedisce di individuarne il
contenuto dal momento che, ai sensi dell’art. 89, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, deve escludersi che l’oggetto dell’avvalimento
possa essere costituito dal requisito nella sua natura
cartolare.
Oggetto dell’avvalimento, nella impostazione del nuovo
Codice sono i mezzi e le risorse dal cui possesso il
requisito scaturisce. Così come, esemplificando,
l’avviamento non può essere considerato a prescindere
dall’azienda a cui si riferisce così, del pari, il requisito
non può essere considerato separatamente dalle risorse e
mezzi cui afferisce (TAR
Liguria, Sez. II,
sentenza 02.12.2016 n. 1201 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Avvalimento – Art. 89 d.lgs. n. 50/2016 –
Contratto – Riproduzione tautologica del testo del
disciplinare di gara – Indicazione puntuale dei mezzi
forniti all’ausiliata.
In tema di avvalimento, l’attuale disciplina dettata
dall’art. 89 del D.Lgs. n. 50/2016 prescrive specificamente
che “… L'operatore economico dimostr[i] alla stazione
appaltante che disporrà dei mezzi necessari mediante
presentazione di una dichiarazione sottoscritta dall'impresa
ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il
concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a
disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse
necessarie di cui è carente il concorrente…”.
L’impegno contrattuale non può quindi risolversi in una mera
riproduzione tautologica del testo del disciplinare di gara,
difettando altrimenti della puntuale indicazione dei mezzi
che la ditta ausiliaria dovrebbe fornire alle ausiliate per
rendere effettivo il possesso del requisito di gara.
Requisiti di partecipazione - Possesso
di precedenti esperienze – Requisito di natura tecnica –
Avvalimento – Caratteristiche.
Quando il bando prevede l'ammissione esclusivamente delle
imprese che hanno prodotto negli anni precedenti un
determinato fatturato non globale, ma specificamente
attinente a rapporti identici o analoghi a quello da
instaurare in esito al procedimento...la stazione appaltante
non richiede un requisito di natura finanziaria (per la
quale si provvede, ad esempio, con il richiamo al fatturato
globale), ma un requisito di natura tecnica (consistente nel
possesso di precedenti esperienze che consentono di fare
affidamento sulla capacità dell'imprenditore di svolgere la
prestazione richiesta), sicché l'avvalimento di un tale
requisito di natura tecnica non può essere generico (e cioè
non si può limitare... ad un richiamo 'meramente cartaceo
o dichiarato' allo svolgimento da parte dell'ausiliaria
di attività che evidenzino le sue precedenti esperienze), ma
deve comportare il trasferimento, dall'ausiliario all'ausiliato,
delle competenze tecniche acquisite con le precedenti
esperienze (trasferimento che, per sua natura, implica
l'esclusività di tale trasferimento, ovvero delle relative
risorse per tutto il periodo preso in considerazione dalla
gara) (Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 864).
Avvalimento – Art. 83 d.lgs. n. 50/2016
– Irregolarità che impediscono l’individuazione del
contenuto della documentazione – Ricorso al soccorso
istruttorio – Preclusione.
Se, da un
lato, l’art. 83, comma 9, del D.Lgs. n. 50/2016 si apre
affermando che “Le carenze di qualsiasi elemento formale
della domanda possono essere sanate attraverso la procedura
di soccorso istruttorio”, dall’altro, l’ultimo periodo
della medesima disposizione precisa che “Costituiscono
irregolarità essenziali non sanabili le carenze della
documentazione che non consentono l'individuazione del
contenuto o del soggetto responsabile della stessa.”.
Il nuovo codice dei contratti pubblici detta dunque una
disposizione normativa che sancisce espressamente
l’inutilizzabilità del soccorso istruttorio per sopperire
alle irregolarità che impediscono in maniera radicale di
individuare il contenuto della documentazione (TAR
Liguria, Sez. II,
sentenza 02.12.2016 n. 1201
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art.
15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n.
490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista
per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici
costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non
una forma di risarcimento del danno), che, come tale,
prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno
ambientale.
---------------
E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa
Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del
principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981,
secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le
violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso
dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con
sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in
sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n.
689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in
materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con
sanzione pecuniaria.
---------------
Quanto all'individuazione del dies a quo della
decorrenza della prescrizione, il C.G.A., con decisione n.
123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa
Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso
sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n.
2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A.
(parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo,
ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il
termine in questione deve ritenersi coincidente … con l’atto
che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento
edilizio osservato e cioè quello della intervenuta
concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove
ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti
urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la
permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua
realizzazione”; sicché “…appare conforme ad una più attenta
ricostruzione della disciplina giuridica da adottare
assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione
qui in discussione il momento della intervenuta concessione
edilizia…” .
Questa più recente esegesi deve ritenersi ormai consolidata, posto
che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo
stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole
all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza
dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di
irrogazione della sanzione.
---------------
C. - Il ricorso merita accoglimento, in conformità ai precedenti in
termini della Sezione (vd., da ultimo, TAR Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645).
D. - È fondata l’eccezione di prescrizione ai sensi
dell’art. 28 l. n. 689/1981, sollevata in ricorso.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art.
15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n.
490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista
per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici
costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non
una forma di risarcimento del danno), che, come tale,
prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale
(cfr. Cons. St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
E. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa
Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del
principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981,
secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le
violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima,
applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le
violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie,
anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale
(art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti
amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica
puniti con sanzione pecuniaria (vd. TAR Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id,
02.04.2015, n. 812; 23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vd. anche Tar
Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395; Tar Napoli, VI, 13.02.2015, n. 1092).
F. - Quanto all'individuazione del dies a quo della
decorrenza della prescrizione, il C.G.A., con decisione n.
123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa
Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso
sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n.
2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A.
(parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo,
ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il
termine in questione deve ritenersi coincidente … con l’atto
che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento
edilizio osservato e cioè quello della intervenuta
concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove
ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti
urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la
permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua
realizzazione”; sicché “…appare conforme ad una più attenta
ricostruzione della disciplina giuridica da adottare
assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione
qui in discussione il momento della intervenuta concessione
edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
(ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in
termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015
e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto
che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo
stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole
all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza
dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di
irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 del 19.10.2015 e da ultimo parere 21.02.2012, n.
28/2012; 21.11.2016, n. 1210)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 30.11.2016 n. 2807 - link a
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APPALTI:
Revoca dell’aggiudicazione e recesso – Stipula
del contratto.
Dopo la stipula del contratto d’appalto, la revoca è
impraticabile, dovendo utilizzarsi, in quella fase, il
diverso strumento del recesso (cfr. Cons. Stato, A.P.,
29.06.2014, n. 14); prima del perfezionamento del documento
contrattuale, al contrario, l’aggiudicazione è pacificamente
revocabile (cfr. ex multis Cons. St., sez. III,
13.04.2011, n. 2291).
Revoca dell’aggiudicazione legittima –
Ragioni di interesse pubblico – Legittimo affidamento –
Motivazione – Gare soggette alla disciplina del d.lgs. n.
50/2016.
La revoca di un’aggiudicazione legittima postula la
sopravvenienza di ragioni di interesse pubblico (o una
rinnovata valutazione di quelle originarie) particolarmente
consistenti e preminenti sulle esigenze di tutela del
legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha
partecipato alla gara, ed esige, quindi, una motivazione
particolarmente convincente circa i contenuti e l’esito
della necessaria valutazione comparativa dei predetti
interessi (cfr. Cons. St., sez. V, 19.05.2016, n. 2095).
Tale principio è valido anche per le procedure di
aggiudicazione soggette alla disciplina del d.lgs. n. 50 del
2016, nella misura in cui il paradigma legale di riferimento
resta, anche per queste ultime, l’art. 21-quinquies l. n.
241 del 1990, e non anche la disciplina speciale dei
contratti, che si occupa, infatti, di regolare il recesso e
la risoluzione del contratto, e non anche la revoca
dell’aggiudicazione degli appalti (ma solo delle
concessioni).
Revoca dell’aggiudicazione – Assoluta
inidoneità della prestazione inizialmente richiesta
dall’Amministrazione.
L’aggiudicazione della gara a un’impresa che ha
diligentemente confezionato la sua offerta in conformità
alle prescrizioni della lex specialis può essere
validamente rimossa, con lo strumento della revoca, solo
nell’ipotesi eccezionale in cui una rinnovata (e, comunque,
tardiva) istruttoria ha rivelato l’assoluta inidoneità della
prestazione inizialmente richiesta dalla stessa
Amministrazione a soddisfare i bisogni per i quali si era
determinata a contrarre.
Al contrario, non può in alcun modo giudicarsi idoneo a
giustificare la revoca un ripensamento circa il grado di
satisfattività della prestazione messa a gara.
Revoca dell’aggiudicazione –
Comunicazione di avvio del procedimento – Art. 7 L. n.
241/1990.
L’esercizio dei poteri di autotutela finalizzati al ritiro
dell’aggiudicazione definitiva impone alla stazione
appaltante di assicurare la partecipazione dell’impresa
aggiudicataria, onde consentirle di tutelare adeguatamente,
in sede procedimentale, la posizione qualificata validamente
acquisita, per mezzo della necessaria osservanza della
prescrizione di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990
(cfr. ex multis Cons., St., sez. V, 27.04.2011, n.
2456) (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 29.11.2016 n. 5026 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato approfondisce le condizioni del valido
esercizio della revoca dell’aggiudicazione di una gara
pubblica dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei
contratti.
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Gara – Aggiudicazione – Revoca – Possibilità.
Gara – Aggiudicazione – Revoca – Dopo entrata in vigore
nuovo Codice dei contratti – Possibilità – Ragioni.
Gara – Aggiudicazione – Revoca – Per caratteristiche oggetto
dell’appalto – Limiti.
Nelle procedure di aggiudicazione di
appalti pubblici, mentre la revoca resta impraticabile dopo
la stipula del contratto d’appalto, dovendo utilizzarsi, in
quella fase, il diverso strumento del recesso, prima del
perfezionamento del documento contrattuale, al contrario,
l’aggiudicazione è pacificamente revocabile.
Anche con l’entrata in vigore del nuovo Codice di contratti
pubblici la revoca di un’aggiudicazione legittima postula la
sopravvenienza di ragioni di interesse pubblico (o una
rinnovata valutazione di quelle originarie) particolarmente
consistenti e preminenti sulle esigenze di tutela del
legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha
diligentemente partecipato alla gara, rispettandone le
regole e organizzandosi in modo da vincerla, ed esige,
quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i
contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa
dei predetti interessi; il paradigma legale di riferimento
resta l’art. 21-quinquies, l. 07.08.1990 n. 241, e non anche
la disciplina speciale dei contratti, che si occupa,
infatti, di regolare il recesso e la risoluzione del
contratto, e non anche la revoca dell’aggiudicazione degli
appalti (ma solo delle concessioni) (1).
Allorché la revoca dell’aggiudicazione sia disposta con
riferimento alle caratteristiche dell’oggetto dell’appalto,
il ripensamento dell’Amministrazione, per legittimare il
provvedimento di ritiro dell’aggiudicazione, deve fondarsi
sulla sicura verifica dell’inidoneità della prestazione
descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze
contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura
(2).
---------------
(1) Ha chiarito il Consiglio di Stato che a fronte della
nota strutturazione procedimentale della scelta del
contraente, la definizione regolare della procedura mediante
la selezione di un’offerta (giudicata migliore) conforme
alle esigenze della stazione appaltante (per come
cristallizzate nella lex specialis) consolida in capo
all’impresa aggiudicataria una posizione particolarmente
qualificata ed impone, quindi, all’Amministrazione,
nell’esercizio del potere di revoca, l’onere di una
ponderazione particolarmente rigorosa di tutti gli interessi
coinvolti.
(2) Ad avviso della Sezione le Amministrazioni pubbliche
devono preliminarmente verificare le proprie esigenze, poi
definire, coerentemente con gli esiti dell’anzidetta
analisi, gli elementi essenziali del contratto e, solo
successivamente, indire una procedura di affidamento avente
ad oggetto la prestazione già individuata come necessaria, è
evidente che l’aggiudicazione della gara a un’impresa che ha
diligentemente confezionato la sua offerta in conformità
alle prescrizioni della lex specialis può essere
validamente rimossa, con lo strumento della revoca, solo
nell’ipotesi eccezionale in cui una rinnovata (e, comunque,
tardiva) istruttoria ha rivelato l’assoluta inidoneità della
prestazione inizialmente richiesta dalla stessa
Amministrazione (e, quindi, dovuta dall’aggiudicatario) a
soddisfare i bisogni per i quali si era determinata a
contrarre; al contrario, non può in alcun modo giudicarsi
idoneo a giustificare la revoca un ripensamento circa il
grado di satisfattività della prestazione messa a gara.
Se si ammettesse, infatti, la revocabilità delle
aggiudicazioni sulla sola base di un differente e
sopravvenuto apprezzamento della misura dell’efficacia
dell’obbligazione dedotta a base della procedura, si
finirebbe, inammissibilmente, per consentire l’indebita
alterazione delle regole di imparzialità e di trasparenza
che devono presidiare la corretta amministrazione delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, con
inaccettabile sacrificio dell’affidamento ingenerato nelle
imprese concorrenti circa la serietà e la stabilità della
gara, ma anche con un rischio concreto di inquinamento e di
sviamento dell’operato delle stazioni appaltanti (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 29.11.2016 n. 5026
- commento tratto da e link a
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APPALTI:
L’accertamento della sussistenza di un unico centro
decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a
giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura
selettiva.
Invero, “E' legittimo il provvedimento di esclusione da una
procedura di gara per collegamento sostanziale dedotto da
una pluralità di indici, consistenti in legami parentali dei
rispettivi rappresentanti, nell'analogia nelle modalità di
presentazione delle offerte e nella coincidenza tra sedi o
residenze dei titolari delle due diverse imprese”.
Come, inoltre, di recente statuito, la fattispecie prevista
dall’art. 38, comma 1, lett. m-quater del d.lgs. n. 163/2006
è caratterizzata come un "pericolo presunto" (con una
terminologia di derivazione penalistica), coerentemente con
la sua funzione di garanzia di ordine preventivo rispetto al
superiore interesse alla genuinità della competizione che si
attua mediante le procedure ad evidenza pubblica.
Pertanto, si deve escludere che la concreta incidenza delle
offerte concordate sull'esito della selezione costituisca un
elemento strutturale dell'ipotesi prefigurata dal
legislatore, tant'è vero che la formulazione della norma non
autorizza una simile lettura ed in ogni caso, l'influenza
determinante sull'individuazione della migliore offerta non
è nella disponibilità delle imprese sostanzialmente
collegate, ma dipende da variabili indipendenti rispetto
alla loro volontà, quali in particolare il numero delle
partecipanti e l'entità dei ribassi, comunque non idonee ad
elidere il disvalore della condotta volta ad alterare la
competizione.
Ne consegue che l’accertamento della sussistenza di un unico
centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a
giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura
selettiva, non essendo necessario verificare che la
comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti
alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo
comportamento nell’ambito della gara, determinando la
presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro
decisionale.
Ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e
svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo,
rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale
tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso
debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti.
A giudizio del Collegio, si tratta dell’unica via
percorribile al fine di garantire la giusta tutela ai
principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle
gare pubbliche nonché della parità di trattamento delle
imprese concorrenti, principi che verrebbero
irrimediabilmente violati qualora si aderisse alla tesi
delle controparti e, quindi, demandando l’esclusione dalla
gara di imprese in collegamento sostanziale ad una
posteriore valutazione sul contenuto delle offerte.
---------------
... per l'annullamento:
- della determina dirigenziale n. 326
adottata il 29.04.2016 avente come oggetto l'aggiudicazione
della gara d'appalto inerente i lavori di manutenzione
ordinaria del patrimonio comunale opere elettriche - biennio
2016/2017, in favore della controinteressata, aggiudicazione
di cui la ricorrente ha avuto notizia in data 06.05.2016;
-
in parte qua, di tutti i verbali di gara;
- della nota
assunta dal Dirigente di Settore Lavori Pubblici e
Patrimonio in data 27.04.2016 ed inviata a mezzo PEC il
02.05.2016, con la quale la P.A. ha respinto le
contestazioni sollevate dalla ricorrente in merito
all'aggiudicazione provvisoria intervenuta a favore della controinteressata;
- di ogni altro atto o provvedimento
presupposto e conseguente, nonché per la declaratoria di
nullità/inefficacia del contratto che nelle more dovesse
essere sottoscritto tra le parti.
...
Il Collegio, aderendo all’orientamento giurisprudenziale
ormai consolidato, ritiene che la censura sia fondata.
Ed invero, come affermato anche molto di recente dal
Consiglio di Stato, l’accertamento della sussistenza di un
unico centro decisionale costituisce motivo in sé
sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla
procedura selettiva.
“E' legittimo il provvedimento di esclusione da una
procedura di gara per collegamento sostanziale dedotto da
una pluralità di indici, consistenti in legami parentali dei
rispettivi rappresentanti, nell'analogia nelle modalità di
presentazione delle offerte e nella coincidenza tra sedi o
residenze dei titolari delle due diverse imprese” (cfr., fra
le tante, Con. Stato, sez. V, 11.07.2016, n. 3057; 02.05.2013, n. 2397; sez. VI, 22.02.2013, n. 1091;
08.05.2012, n. 2657).
Come, inoltre, di recente statuito, la fattispecie prevista
dall’art. 38, comma 1, lett. m-quater del d.lgs. n. 163/2006
è caratterizzata come un "pericolo presunto" (con una
terminologia di derivazione penalistica), coerentemente con
la sua funzione di garanzia di ordine preventivo rispetto al
superiore interesse alla genuinità della competizione che si
attua mediante le procedure ad evidenza pubblica. Pertanto,
si deve escludere che la concreta incidenza delle offerte
concordate sull'esito della selezione costituisca un
elemento strutturale dell'ipotesi prefigurata dal
legislatore, tant'è vero che la formulazione della norma non
autorizza una simile lettura ed in ogni caso, l'influenza
determinante sull'individuazione della migliore offerta non
è nella disponibilità delle imprese sostanzialmente
collegate, ma dipende da variabili indipendenti rispetto
alla loro volontà, quali in particolare il numero delle
partecipanti e l'entità dei ribassi, comunque non idonee ad
elidere il disvalore della condotta volta ad alterare la
competizione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.08.2015,
n. 3772; 11.07.2016, n. 3057).
Ne consegue che, al contrario di quanto sostenuto
dall’Amministrazione resistente e dalla società
controinteressata costituita, l’accertamento della
sussistenza di un unico centro decisionale costituisce
motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle
imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario
verificare che la comunanza a livello strutturale delle
imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito
sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara,
determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un
unico centro decisionale.
Ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e
svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo,
rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale
tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso
debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti
(Con. Stato, sez. V, 04.03.2010, n. 1265).
A giudizio del Collegio, si tratta dell’unica via
percorribile al fine di garantire la giusta tutela ai
principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle
gare pubbliche nonché della parità di trattamento delle
imprese concorrenti, principi che verrebbero
irrimediabilmente violati qualora si aderisse alla tesi
delle controparti e, quindi, demandando l’esclusione dalla
gara di imprese in collegamento sostanziale ad una
posteriore valutazione sul contenuto delle offerte.
Nella fattispecie in questione il Collegio ritiene che sia
stata ampiamente documentata dalla ricorrente la presenza di
indizi gravi, precisi e concordanti del collegamento
sostanziale tra le imprese, che si riportano brevemente di
seguito:
- strettissime connessioni parentali tra i soci delle
due società (il capitale della G.R. Du.Im. è
partecipato per il 44% dal signor Li.Ra.Da. e per il
19% dal signor Li.Gi., mentre quello della Li.Im. è partecipato per il 70% da Li.Gi. e per
il 15% da Li.Ra.Da.; Li.Gi. è sia padre di
Ra.Da., Amministratore della G.R. Du.Im. s.r.l.,
sia Amministratore della Li.Im. s.r.l.);
- identità
delle Sedi amministrative, site al medesimo indirizzo di via
G. Pa. n. 43 in Cesana Brianza (Lc);
- identità di
indirizzo del magazzino, posizionato per entrambe in via G.
Pa. n. 6 sempre in Cesana Brianza (Lc);
- presenza, su
svariati siti internet, di pubblicità delle due società
rappresentanti il medesimo ed identico indirizzo di sede: Cesana Brianza (Lc), via G. Pa. n. 43;
- calligrafia di
compilazione delle domande di partecipazione alla gara per
le due società palesemente identica;
- presenza, nell’elenco
fornitori del Comune di Bergamo della sola G.R. Du.Im.
s.r.l., con indicazione però di numero telefono e fax
identici a quelli indicati dalla Li.Im. s.r.l. nella
domanda di partecipazione alla gara;
- segreteria telefonica
che risponde al numero 031.... (che secondo quanto
dichiarato nei documenti di gara dovrebbe essere il telefono
della G.R. Du.Im. s.r.l.), che riferisce che si è in
contatto con la Li.Im. s.r.l.;
- contratti di
locazione di entrambe le sedi delle società stipulati con la
stessa locataria, Im. L&F s.r.l., che ha come
amministratore il signor Li.Gi. e sede legale in Albavilla (Co), via Ca. n. 9/b, che coincide con la sede
legale della G.R. Du.Im. s.r.l.
Quelli appena descritti sono tutti profili dai quali emerge
con estrema evidenza, a giudizio del Collegio, l’esistenza
di un collegamento sostanziale tra la G.R. Du.Im.
s.r.l. e la Li.Im. s.r.l.. Ne consegue, dunque, che
il comune di Cinisello Balsamo avrebbe dovuto procedere
all’esclusione delle due imprese dalla procedura di gara
oggetto della controversia.
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi
l’ulteriore censura dedotta, il ricorso va accolto e per
l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti
impugnati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.11.2016 n. 2248 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Nel
sistema normativo attualmente vigente i piani di
lottizzazione e/o particolareggiati hanno durata decennale,
sicché, decorso infruttuosamente detto termine, essi perdono
efficacia.
Tale limite temporale, specificatamente stabilito dagli
artt. 16, comma 5, e 17 della legge n. 1150 del 1942 per i
piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga
neppure sull’accordo tra le parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di formazione del
piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un
atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere ed il Comune con riferimento agli adempimenti
derivanti dal piano medesimo, ma che, tuttavia, non può
incidere sulla validità massima, prevista dalla legge, del
sovrastante strumento di pianificazione secondaria.
Ne consegue che, scaduto il termine di efficacia stabilito
per l’esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in
cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile portare ad
esecuzione gli espropri preordinati alla realizzazione delle
opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria,
non potendosi, in particolare, procedere all’edificazione
residenziale per assenza di tale fondamentale presupposto.
----------------
6.1. Alcune preliminari considerazioni in punto di diritto
appaiono utili al Collegio ai fini del decidere.
6.2. Nel sistema normativo attualmente vigente i piani di
lottizzazione e/o particolareggiati hanno durata decennale,
sicché, decorso infruttuosamente detto termine, essi perdono
efficacia (cfr., Cons. St., sez. IV, 27.04.2015, n. 2109;
idem, TAR Umbria, sez. I., 07.12.2001, n. 650).
Tale limite temporale, specificatamente stabilito dagli
artt. 16, comma 5, e 17 della legge n. 1150 del 1942 per i
piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga
neppure sull’accordo tra le parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di formazione del
piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un
atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere ed il Comune con riferimento agli adempimenti
derivanti dal piano medesimo, ma che, tuttavia, non può
incidere sulla validità massima, prevista dalla legge, del
sovrastante strumento di pianificazione secondaria (cfr., in
detti termini, Cons. St., sez. VI, 05.12.2013, n. 5807;
Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2013, n. 1574; Cons. St., sez.
IV, 28.12.2012, n. 6703).
6.3. Ne consegue che, scaduto il termine di efficacia
stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato,
nella parte in cui esso è rimasto inattuato, non è più
possibile portare ad esecuzione gli espropri preordinati
alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di
urbanizzazione primaria, non potendosi, in particolare,
procedere all’edificazione residenziale per assenza di tale
fondamentale presupposto (in tal senso, Cons. St., sez. IV,
27.10.2009, n. 6572)
(TAR Umbria,
sentenza 28.11.2016 n. 745 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi e ambientali - Casetta
prefabbricata in legno - Estinzione per prescrizione del
reato di costruzione abusiva - Zona sottoposta a vincolo
paesaggistico - Assenza del permesso di costruire e del
prescritto nulla osta - Reato di costruzione abusiva -
Natura permanente - Condotta, cessazione e prescrizione -
Artt. 44, lett. c), DPR n. 380/2001 e 181 d.Lvo n. 42/2004.
Il reato di costruzione abusiva ha natura permanente per
tutto il tempo in cui continua l'attività edilizia illecita,
ed il suo momento dì cessazione va individuato o nella
sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta ex
auctoritate, o nella ultimazione dei lavori per il
completamento dell'opera o, infine, nella sentenza di primo
grado ove i lavori siano proseguiti dopo l'accertamento e
sino alla data del giudizio.
Si tratta di un principio affermato anche con riferimento al
reato previsto dall'art. 181, comma 1, del d.lgs. 22.01.2004
n. 42, qualora la fattispecie sia realizzata, come nella
specie, attraverso una condotta che si protragga nel tempo,
come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona
sottoposta a vincolo, trattandosi di reato che ha natura
permanente e che si consuma con l'esaurimento totale
dell'attività o con la cessazione della condotta per
qualsiasi motivo.
Sicché, l'estinzione per prescrizione del reato di
costruzione abusiva travolge l'ordine di demolizione delle
opere illecite, in quanto esso presuppone comunque la
pronuncia di una sentenza di condanna (o ad essa
equiparata); non risulta, quindi, sufficiente l'avvenuto
accertamento della commissione dell'abuso come nel caso di
sentenza che rileva l'intervenuta prescrizione del reato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.11.2016 n. 49838
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di
sanatoria, l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita
o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio.
----------------
L’Amministrazione non può effettuare, d’ufficio, una
valutazione di conformità di un intervento edilizio
realizzato senza titolo, in assenza di una istanza di
condono.
----------------
L'attività sanzionatoria della P.A. sull'attività edilizia
abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell'intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione
delle opere abusive, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sull'interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
----------------
... per l'annullamento dell'ordinanza di ripristino dello
stato dei luoghi (prot. n. 1863 reg. ordinanze n. 279)
emessa in data 19.07.2007 dal Responsabile del servizio
tecnico del Comune di Fiorano Canavese nei confronti di
Mi.Ol., notificata in data 25.07.2007;
...
II) La ricorrente ha impugnato l’ordinanza di demolizione di
due distinti manufatti, per uno dei quali ha presentato
domanda di sanatoria nel corso di giudizio.
Si deve ricordare che secondo l’orientamento consolidato, la
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e,
quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, atteso che a seguito dell'istanza di
sanatoria, l'ordinanza di demolizione deve essere sostituita
o dalla concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio.
Pertanto il ricorso va dichiarato improcedibile nella parte
in cui è gravato l’ordine di demolizione della muratura
esterna.
Per il resto è invece infondato.
La stessa ricorrente afferma che le opere sono state
realizzate senza titolo, ma, a fronte dalla loro conformità
alla disciplina edilizia e urbanistica vigente, ritiene che
l’ordinanza sia illegittima, per difetto di istruttoria e di
motivazione.
Il motivo non è fondato, in quanto l’Amministrazione non può
effettuare, d’ufficio, una valutazione di conformità di un
intervento edilizio realizzato senza titolo, in assenza di
una istanza di condono.
Quanto alla motivazione e al decorso del termine, si deve
richiamare l’orientamento prevalente secondo cui l'attività
sanzionatoria della P.A. sull'attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell'intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione
delle opere abusive, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sull'interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
Nella memoria del 09.09.2015 la ricorrente ha rilevato che
l’ordinanza non è stata notificata al marito,
comproprietario dell’immobile: volendo considerare questo
rilievo al pari di una censura, va dichiarata inammissibile
perché introdotta con una memoria non notificata e comunque
tardivamente
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 23.11.2016 n. 1448 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Deve
trovare applicazione la nuova disciplina che impone
l’obbligo di apertura delle offerte tecniche in seduta
pubblica, adempimento che risponde all'esigenza di tutela
non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai
quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni
riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti, ma
anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed
all'imparzialità dell'azione amministrativa.
Trattandosi di un passaggio essenziale della procedura
concorsuale, la mancata pubblicità delle sedute di gara
costituisce non una mera mancanza formale, ma una violazione
sostanziale, che invalida la procedura, senza che occorra la
prova di un'effettiva manipolazione della documentazione
prodotta e le cui conseguenze negative sono difficilmente
apprezzabili ex post, una volta rotti i sigilli e aperti i
plichi.
Si tratta, evidentemente, di un passaggio procedimentale che
non ammette equipollenti, in quanto richiesto ora da una
norma primaria, per cui, in caso di violazione, non può
essere in alcun modo “sanato”, con conseguente impossibilità
di applicare l’art 21-octies comma 2, prima parte, della l.
n. 241/1990, dettato per i soli vizi c.d. formali.
---------------
2.2.2 E’ invece fondata la seconda doglianza relativa alla
violazione dei principi di trasparenza ed imparzialità, in
quanto è incontestato che l’apertura delle buste recanti
l’offerta tecnica si è svolta in seduta riservata.
L’obbligo di apertura delle offerte tecniche in seduta
pubblica discende dall'articolo 12 del decreto legge
07.05.2012, n. 52 che ha modificato l'articolo 283, comma 2,
del d.p.r. n. 207 del 2010 prevedendo espressamente
l'apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti le
offerte tecniche.
La disposizione per le procedure concluse o pendenti alla
data del 09.05.2012, ha previsto la sanatoria del vizio per
il caso in cui i medesimi plichi siano stati aperti in
seduta riservata.
La sentenza citata dalle difese della stazione appaltante e
della controinteressata (Consiglio di Stato n. 275/2016) al
fine di affermare la semplice irregolarità delle operazioni
di gara, attiene ad una fattispecie differente, in cui la
seduta di apertura delle buste tecniche risaliva al 2009,
prima della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 13/2011: in
quel caso la lettera d'invito prevedeva la seduta pubblica
per l'apertura delle buste tecniche, mentre detta operazione
si era svolta in seduta riservata.
I Giudici d’appello hanno ritenuto che sussistesse la
violazione della lex specialis, ma che questa
illegittimità, scaturente dalla violazione di una norma
procedimentale stabilita nella lex specialis in modo
difforme dalla regola normativa, non comportasse
l'annullamento della gara, trovando applicazione l'art.
21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990.
Ritiene però il Collegio di dover sottolineare la diversità
del caso in esame, in cui deve trovare applicazione la nuova
disciplina che impone l’obbligo di apertura delle offerte
tecniche in seduta pubblica, adempimento che risponde
all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento
dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare
gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti
prodotti, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza
ed all'imparzialità dell'azione amministrativa.
Trattandosi di un passaggio essenziale della procedura
concorsuale, la mancata pubblicità delle sedute di gara
costituisce non una mera mancanza formale, ma una violazione
sostanziale, che invalida la procedura, senza che occorra la
prova di un'effettiva manipolazione della documentazione
prodotta e le cui conseguenze negative sono difficilmente
apprezzabili ex post, una volta rotti i sigilli e
aperti i plichi (Cons. St., A.P., 28.07.2011, n. 13; Cons.
St., sez. III, 04.11.2011, n. 5866; Cons. St., sez. V,
07.11.2006, n. 6529).
Si tratta, evidentemente, di un passaggio procedimentale che
non ammette equipollenti, in quanto richiesto ora da una
norma primaria, per cui, in caso di violazione, non può
essere in alcun modo “sanato”, con conseguente
impossibilità di applicare l’art 21-octies comma 2, prima
parte, della l. n. 241/1990, dettato per i soli vizi c.d.
formali
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 23.11.2016 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Come è ampiamente noto, il provvedimento che ingiunge la
demolizione è atto vincolato e, quindi, non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati; presupposto per la sua adozione è,
infatti, soltanto la constatata esecuzione dell'opera in
difformità dalla concessione o in assenza della medesima,
con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i
predetti requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo
in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione né,
trattandosi di atti del tutto vincolati, è necessaria una
comparazione di interessi e una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione.
---------------
6). Infine, con il sesto motivo di ricorso la ricorrente lamenta che
mancherebbe l’interesse pubblico alla rimozione delle opere.
La doglianza è priva di qualsiasi fondamento alla luce del
consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V,
07.09.2009, n. 5229).
Come è ampiamente noto, il provvedimento che ingiunge la
demolizione è atto vincolato e, quindi, non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati; presupposto per la sua adozione è,
infatti, soltanto la constatata esecuzione dell'opera in
difformità dalla concessione o in assenza della medesima,
con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i
predetti requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo
in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione né,
trattandosi di atti del tutto vincolati, è necessaria una
comparazione di interessi e una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione (Consiglio Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5229; TAR Campania Napoli, sez. VI,
07.09.2009, n. 4899; TAR Lazio Roma, sez. I, 16.07.2009 , n.
7036; TAR Lazio Roma, sez. I, 02.04.2009, n. 3579) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. VI,
sentenza 16.11.2016 n. 932 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In tema di distanze tra costruzioni,
l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo
stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto
dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di
legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica.
---------------
Il d.m. 02.04.1968, n. 1444 (emanato in esecuzione della
norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, n. 1150, introdotto dalla legge 06.08.1967, n.
765), ed in particolare l'art. 9 di tale decreto, impone
determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o
nella revisione degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante nei rapporti tra privati.
Ciò significa, però, che i limiti in tema di distanze
prescritti dall'art. 9 del d.m. citato non sono direttamente
applicabili nei rapporti tra privati finché non siano stati
inseriti negli strumenti appositamente formati o
revisionati, mentre l'adozione, da parte degli enti locali,
di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma
fa insorgere l'obbligo per il giudice di merito non
solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio
di applicare immediatamente la disposizione del menzionato
articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte
integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione
della norma illegittima che è stata disapplicata.
---------------
L'invocato art. 9, ultimo comma, del D.M.
04.04.1968 n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra
costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in
un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni
entrambe facenti parte della medesima lottizzazione
convenzionata.
Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo
piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la
disciplina sulle relative distanze non è, quindi, recata
dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
bensì dal primo comma dello stesso art. 9, quale
disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva.
L'ultimo comma dell'art. 9 del d.m.
n. 1444 del 1968 costituisce espressione di una «sintesi
normativa», consentendo che siano fissate distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur
provvista di «efficacia precettiva e inderogabile»,
solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le
deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici
siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio».
---------------
I - Il primo motivo del ricorso di Gr.Am. Di Ma., Em.
D'Al. e Sa. D'Al. deduce la violazione dell'art. 9, comma 3,
d.m. n. 1444/1968 in rapporto all'art. 22 della Norme
tecniche di attuazione del Piano Regolatore Generale del
Comune di Roseto degli Abruzzi, nonché la violazione
dell'art. 27 della legge n. 457/1978. Viene criticata la
sentenza d'appello per non aver condiviso l'assunta
conformità dell'art. 22 della N.T.A. all'art. 9 del d.m. n.
1444/1968, ovvero comunque all'art. 27 della legge n.
457/1978.
I ricorrenti invocano la configurabilità dell'ipotesi di
deroga di cui al comma 3 del citato art. 9, ricorrente per i
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planivolumetriche, in quanto l'art. 22 delle
N.T.A. del P.R.G. del Comune di Roseto si riferiva alla sola
Zona B del territorio comunale, prevedendo la deroga alle
distanze maggiori "in considerazione ... della
particolare tessitura urbana comune a tutte le sottozone, al
fine di conservare il carattere urbanistico ormai
consolidatosi".
Inoltre, la deroga era stabilita per lo più per le
ristrutturazioni in ampliamento o le nuove costruzioni per
le parti non eccedenti i due piani fuori terra e l'altezza
massima di 7,50 ml. Inoltre, l'intervento edilizio della Di
Ma. si collocava nella "Zona di recupero" individuata
agli effetti dell'art. 27, comma 1, legge n. 457/1978,
circostanza non considerata dalla Corte d'Appello e
confermata dalle successive determinazioni comunali del
06.08.2013 e 12.09.2013.
Il secondo motivo del ricorso di Gr.Am. Di Ma., Em.
D'Al. e Sa. D'Al. allega la violazione dell'art.
41-quinquies della legge n. 1150/1942 e dell'art. 42 Cost.
sostenendo che avrebbe errato la Corte d'Appello a ritenere
applicabile l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968 in via diretta
nei rapporti tra privati, avendo tale norma quale
destinatari i soli comuni.
I due motivi di ricorso, che possono trattarsi
congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.
Secondo, infatti, l'ormai consolidato orientamento di questa
Corte, in tema di distanze tra costruzioni,
l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo
stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto
dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di
legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica
(Cass. Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011; Cass. Sez.
2, Sentenza n. 15458 del 26/07/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza
n. 3199 del 11/02/2008).
Ne consegue che correttamente la Corte d'Appello di L'Aquila
ha concluso nel senso che l'art. 22, lettera b, delle Norme
tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Roseto degli
Abruzzi, vigente ratione temporis, (secondo cui "In
caso di ristrutturazioni in ampliamento e/o la costruzione
di nuovi edifici per la parti che non superino i due piani
di altezza fuori terra ed un'altezza massimo di 7,50 mi, ivi
compresi quelli del punto o) del presente articolo ...
l'edificazione può anche avvenire alle stesse distanze dei
confini degli edifici prospicienti ed insistenti sui lotti
limitrofi all'area oggetto di intervento alla data di
adozione del PRG"), essendo in contrasto con le
previsioni del citato art. 9, doveva essere disapplicato dal
giudice ordinario, a norma dell' art. 5, legge 20.03.1865,
n. 2248, all. E.
Quanto, in particolare, alla tesi sostenuta nel secondo
motivo di ricorso, questa Corte ha precisato come
il d.m. 02.04.1968, n. 1444 (emanato in esecuzione della
norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, n. 1150, introdotto dalla legge 06.08.1967, n.
765), ed in particolare l'art. 9 di tale decreto, impone
determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o
nella revisione degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante nei rapporti tra privati.
Ciò significa, però, che i limiti in tema di distanze
prescritti dall'art. 9 del d.m. citato non sono direttamente
applicabili nei rapporti tra privati finché non siano stati
inseriti negli strumenti appositamente formati o
revisionati, mentre l'adozione, da parte degli enti locali,
di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma
(come appunto avvenuto nel caso per cui è in lite, con
l'approvazione il 10.01.1990 del Piano Regolatore generale
del Comune di Roseto degli Abruzzi e delle realtive N.T.A.)
fa insorgere l'obbligo per il giudice di merito non
solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio
di applicare immediatamente la disposizione del menzionato
articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte
integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione
della norma illegittima che è stata disapplicata
(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27558 del 31/12/2014; Cass. Sez.
2, Sentenza n. 7563 del 30/03/2006).
I ricorrenti sostengono, poi, che fosse, tuttavia, integrata
nella specie l'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo
comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che consente
ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle
previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano
incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa
lottizzazione.
Ora, l'invocato art. 9, ultimo comma, del
D.M. 04.04.1968 n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra
costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in
un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni
entrambe facenti parte della medesima lottizzazione
convenzionata
(Cass. Sez. U, Sentenza n. 1486 del 18/02/1997).
Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo
piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la
disciplina sulle relative distanze non è, quindi, recata
dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
bensì dal primo comma dello stesso art. 9, quale
disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 12424 del 20/05/2010).
Come più generalmente affermato da Corte cost. 23.01.2013,
n. 6, l'ultimo comma dell'art. 9 del d.m.
n. 1444 del 1968 costituisce espressione di una «sintesi
normativa», consentendo che siano fissate distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur
provvista di «efficacia precettiva e inderogabile»,
solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le
deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici
siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio».
Nel caso in esame, la Corte d'Appello ha negato che si fosse
in presenza di un gruppo di edifici inclusi in un medesimo
piano particolareggiato, ovvero di costruzioni facenti parte
della medesima lottizzazione convenzionata.
Il primo motivo del ricorso di Gr.Am. Di Ma., Em. D'Al. e
Sa. D'Al., prospettato in rubrica sub specie di violazione
dell'art. 9, comma 3, d.m. n. 1444/1968 e dell'art. 22 della
N.T.A., nella sua esposizione, a ben vedere, non deduce
un'erronea interpretazione o applicazione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata
dalle citate norme di legge, ma allega un'erronea
ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle
risultanze di causa, profilo correlato alla tipica
valutazione del giudice di merito, la cui censura è
possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto
dell'omesso esame di fatto decisivo nella motivazione della
sentenza.
Né può seguirsi il ragionamento dei ricorrenti, secondo cui
la previsione dell'art. 22, lettera b, delle N.T.A. sarebbe
comunque assimilabile alle ipotesi, aventi valida portata
derogatoria, contemplate nel comma 3 dell'art. 9, d.m. n.
1444/1968, diverse essendo le norme tecniche di attuazione
dei piani regolatori, le quali hanno natura regolamentare e
danno luogo ad uno strumento meramente secondario e
subalterno, rispetto ai piani particolareggiati ed alle
lottizzazioni convenzionate, i quali danno luogo ad uno
strumento urbanistico esecutivo
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 14.11.2016 n. 23136). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: La
responsabilità della P.A., ai sensi dell'art. 2043 c.c., per
l'esercizio illegittimo della funzione pubblica, è
configurabile qualora si verifichi un evento dannoso che
incida su un interesse rilevante per l'ordinamento e che sia eziologicamente connesso ad un comportamento della P.A.
caratterizzato da dolo o colpa, non essendo sufficiente la
mera illegittimità dell'atto a determinarne automaticamente
l'illiceità.
Ne consegue che il criterio di imputazione
della responsabilità non è correlato alla sola illegittimità
del provvedimento, ma ad una più complessa valutazione,
estesa all'accertamento dell'elemento soggettivo e della
connotazione dell'azione amministrativa come fonte di danno
ingiusto.
----------------
Quanto all'assunto
della violazione dell'art. 2043 c.c., deve osservarsi come i
ricorrenti abbiano, come visto, prospettato un obbligo
risarcitorio del Comune di Roseto degli Abruzzi e della
Provincia di Teramo per effetto dell'emanazione dell'art.
22, lettera b, delle Norme tecniche di attuazione del P.R.G.
del Comune di Roseto degli Abruzzi (ovvero di disposizioni
di natura regolamentare), norma illegittima perché
contrastante con l'art. 9, d.m. n. 1444/1968, nonché per
effetto del rilascio delle concessioni edilizie in favore
della Di Ma..
Si tratta, pertanto, di ipotesi peculiare, in quanto i
privati qui non lamentano, come accade di frequente,
l'illegittimo diniego di concessioni edilizie da parte della
P.A., ovvero il danno da lesione di interessi legittimi
pretensivi, quanto il rilascio di concessioni edilizie
rivelatesi illegittime, che avevano fatto costruire un
immobile in violazione di norme inderogabili.
La pretesa risarcitoria dei ricorrenti è, allora, non
meritevole di accoglimento, come correttamente deciso in
dispositivo dai giudici del merito, seppure va prescelta una
diversa motivazione di tale statuizione, ai sensi dell'art.
384, comma 4, c.p.c..
Questa Corte afferma costantemente che la
responsabilità della P.A., ai sensi dell'art. 2043 c.c., per
l'esercizio illegittimo della funzione pubblica, è
configurabile qualora si verifichi un evento dannoso che
incida su un interesse rilevante per l'ordinamento e che sia
eziologicamente connesso ad un comportamento della P.A.
caratterizzato da dolo o colpa, non essendo sufficiente la
mera illegittimità dell'atto a determinarne automaticamente
l'illiceità. Ne consegue che il criterio di imputazione
della responsabilità non è correlato alla sola illegittimità
del provvedimento, ma ad una più complessa valutazione,
estesa all'accertamento dell'elemento soggettivo e della
connotazione dell'azione amministrativa come fonte di danno
ingiusto (tra i
precedenti più recenti, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23170 del
31/10/2014; Cass. Sez. 6- 3, Ordinanza n. 4172 del
15/03/2012; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 22508 del 28/10/2011;
Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12282 del 27/05/2009; Cass. Sez.
3, Sentenza n. 6005 del 15/03/2007).
Deve dunque affermarsi che non è ravvisabile fatto illecito,
dal quale sia derivato un danno ingiusto risarcibile, nel
comportamento osservato dal Comune di Roseto degli Abruzzi e
dalla Provincia di Teramo, consistente nell'emanazione
dell'art. 22, lettera b, delle Norme tecniche di attuazione
del P.R.G. del Comune di Roseto degli Abruzzi e nel rilascio
in favore di Gr.Am. De Ma. di concessioni edilizie
rivelatesi illegittime, e perciò disapplicate, in quanto
contrastanti con l'art. 9 d.m. n. 1444/1968 (norma che
prescrive una distanza minima inderogabile immediatamente
operante anche nei confronti dei privati dopo la
predisposizione dello strumento urbanistico locale), non
essendo configurabile un interesse legittimo pretensivo allo
svolgimento di attività edilizia oggettivamente non
consentita dall'ordinamento, né meritando tutela, alla
stregua del diritto positivo, l'interesse al bene della vita
correlato alle spese ed agli investimenti che la De Ma. era
stata indotta a sostenere in conseguenza dell'affidamento
riposto nelle illegittime concessioni edilizie conseguite
(cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7479 del 27/03/2007)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 14.11.2016 n. 23136). |
EDILIZIA PRIVATA:
Disciplina antisismica e ruolo del progettista.
In tema di disciplina antisismica la
sola veste di progettista non consente, di per se, di
ravvisare il concorso nel reato, in quanto la fase di
redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa
vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei
lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la
redazione del progetto e l'attività di attuazione dello
stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed
alla quale il progettista deve avere fornito un apporto
concreto ed ulteriore rispetto alla mera redazione del
progetto.
---------------
Il ricorso è fondato.
Il Tribunale di Messina ha affermato la responsabilità del
ricorrente, in relazione alla violazione degli artt. 93, 94
e 95 d.P.R. 380/2001, a cagione della sua qualifica di
progettista, senza altro aggiungere riguardo alla sua
partecipazione alla realizzazione dell'illecito.
Ora, benché l'art. 95 d.P.R. 380/2001
sanzioni la condotta di chiunque violi le disposizioni del
capo IV del T.u. in materia di edilizia, e l'art. 93 del
medesimo T.u. contempli la condotta di chiunque intenda
procedere a costruzioni ed il successivo art. 94 stabilisca
la necessità della preventiva autorizzazione per chiunque
esegua interventi edilizi in zone sismiche, consentendo,
dunque, il concorso dell'extraneus in tali reati, e
cioè di soggetti ulteriori rispetto al committente ed
all'esecutore materiale dei lavori, è necessario, però, che
vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo
e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel
reato: si deve cioè accertare che l'extraneus abbia
apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo
causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o
della colpa (Sez.
3, n. 16571 del 23/03/2011, Iacono, Rv. 250147; Sez. 3,
Ordinanza n. 7765 del 07/11/2013, Benigni, Rv. 258300).
In assenza di tale accertamento la sola
veste di progettista non è consente, di per se, di ravvisare
il concorso nel reato, in quanto la fase di redazione di un
progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va
tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, e non può
configurarsi un nesso di causalità tra la redazione del
progetto e l'attività di attuazione dello stesso, soltanto
per la quale sussiste rilevanza penale, ed alla quale il
progettista deve avere fornito un apporto concreto ed
ulteriore rispetto alla mera redazione del progetto
(Sez. 3, n. 8420 del 12/12/2002, Ridolfi, Rv. 224166).
Sussiste, di conseguenza, il vizio di motivazione denunciato
in ordine alla partecipazione del ricorrente alla
realizzazione degli illeciti che gli sono stati ascritti,
che comporta la necessità di annullare la sentenza
impugnata, con rinvio al Tribunale di Messina, per nuovo
esame alla stregua dei principi richiamati (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.11.2016 n. 47271 -
tratto da www.lexambiente.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Notifica
al portiere nulla senza ricerche.
La notifica al portiere è nulla, se l'addetto alla
notificazione non dà contezza delle previe ricerche
effettuate per reperire l'effettivo destinatario e delle
altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l'atto:
è necessario che dai documenti di notifica si evincano le
ricerche effettuate dall'agente, prima di consegnare il
plico al portiere.
È quanto afferma la Corte di Cassazione - Sez. VI civile,
nell'ordinanza 08.11.2016 n. 22707
con cui i giudici di Piazza Cavour hanno cassato la sentenza
di seconde cure, sfavorevole al contribuente, e accolto il
ricorso introduttivo, non essendo necessarie ulteriori
indagini fattuali.
Il ricorso originario era stato proposto
contro una cartella di pagamento, non preceduta, secondo il
ricorrente, dal prodromico avviso di accertamento. L'Agenzia
delle entrate, di contro, documentava l'avvenuta notifica di
tale atto, consegnato al portiere dello stabile. Dopo i
giudizi di merito favorevoli all'amministrazione, la
Cassazione ha ribaltato l'esito, censurando la sentenza di
seconde cure, laddove aveva «ritenuto valida la
notificazione dell'avviso di accertamento effettuato nelle
mani del portiere, senza che l'ufficiale giudiziario avesse
adempiuto alla formalità di attestare le avvenute ricerche
delle persone preferenzialmente abilitate alla ricezione
dell'avviso di accertamento».
La notifica al portiere è
contemplata dall'articolo 139, comma 3, del codice di
procedura civile, quale via residuale, ovvero «in mancanza
delle persone indicate nel comma precedente». L'iter va poi
completato con l'invio della comunicazione di avvenuta
notifica. Tuttavia, spiega la Cassazione, la notificazione
può ritenersi valida soltanto ove sussista la prova scritta
delle (vane) ricerche delle persone menzionate dal comma 2
del medesimo articolo 139, ovvero il destinatario, in
primis, o una persona di famiglia o addetta alla casa.
Non
sono necessarie particolari forme sacramentali da
osservarsi, ma è comunque necessario che vi sia una minima
traccia di tali ricerche nei documenti di notifica; soltanto
dopo averle compiute (e attestate), l'agente notificatore
può consegnare il plico al portiere o a un vicino di casa
che accetti di riceverlo. «La particolarità della vicenda
processuale» ha indotto la Corte di cassazione «a compensare
integralmente tra le parti le spese dei gradi di merito e
quelle di questo giudizio».
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA.
(...) ricorre, affidandosi a unico motivo, avverso la
sentenza, indicata in epigrafe, con cui la Commissione
tributaria regionale del Lazio, in controversia relativa a
impugnazione di cartella di pagamento, confermando la
decisione di primo grado, aveva ritenuto ritualmente
notificato al contribuente il prodromico avviso di
accertamento. L'Agenzia delle entrate ha depositato atto di
costituzione mentre Equitalia Gerit s.p.a. non ha svolto
attività difensiva.
A seguito di deposito di relazione ex
art. 380-bis c.p.c. è stata fissata l'adunanza della Corte
in camera di consiglio, con rituale comunicazione alle
parti. Considerato in diritto con l'unico motivo il
ricorrente deduce la violazione di legge perpetrata dal
giudice di appello laddove aveva ritenuto valida la
notificazione dell'avviso di accertamento effettuato nelle
mani del portiere, senza che l'ufficiale giudiziario avesse
adempiuto alla formalità di attestare le avvenute ricerche
delle persone preferenzialmente abilitate alla ricezione
dell'avviso di accertamento. La censura è fondata.
La
giurisprudenza consolidata di questa Corte (ss.uu. n.
8214/2005, n. 24536/2009; n. 22151/2013) statuisce che, in
caso di notifica nelle mani del portiere, l'ufficiale
giudiziario deve dare atto oltre che della assenza del
destinatario, delle vane ricerche delle altre persone
preferenzialmente abilitate a ricevere l'atto, onde il
relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente
tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare
chiaramente l'assenza del destinatario e dei soggetti
rientranti nelle categorie contemplate dall'art. 139 c.p.c.
secondo la successione preferenziale da detta norma
stabilita. È nulla la notificazione nelle mani del portiere
quando la relazione dell'ufficiale giudiziario non contenga
l'attestazione del mancato rinvenimento delle persone
indicate nella norma citata.
Nel caso in esame, il mancato
adempimento della suddetta formalità risulta dalla stessa
sentenza impugnata. Ne deriva, in accoglimento del ricorso,
la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo
necessari ulteriori accertamenti in fatto, la decisione nel
merito della sentenza impugnata, l'accoglimento del ricorso
introduttivo del contribuente. La particolarità della
vicenda processuale induce a compensare integralmente tra le
parti le spese dei gradi di merito e quelle di questo
giudizio.
PQM
La Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza
impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso
introduttivo del contribuente. Compensa integralmente tra le
parti le spese dei gradi di merito e quelle di questo
giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Interventi
edilizi assentibili in mancanza di preventiva approvazione
di Piano Attuativo.
La disamina della questione dev'essere
allora compiuta alla luce dell'art. 9 d.P.R. n. 380/2001, da
reputarsi immediatamente applicabile, secondo il paradigma
operativo descritto dall'art. 2, comma 3, d.P.R. cit., nelle
regioni a statuto ordinario, senza che rivestano alcuna
rilevanza, ai fini che qui interessano, disposizioni
regionali anteriori all'entrata in vigore del testo unico
dell'edilizia.
Orbene, la legittimità della D.i.a. avrebbe dovuto essere
vagliata dall’ente locale alla luce dell’art. 9 del d.P.R.
n. 380/2001, dal quale non si desume l’insussistenza di una
preclusione assoluta all’edificazione per la realizzazione
di insediamenti produttivi in zone bianche e fuori dal
perimetro dei centri abitati, “nelle aree nelle quali
non siano stati approvati gli strumenti urbanistici
attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come
presupposto per l'edificazione”.
L’art. 9 cit. consente, infatti, l’edificabilità diretta
“nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli
strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti
urbanistici generali come presupposto per l'edificazione”,
purché vengano rispettate le condizioni sancite dalla stessa
disposizione:
a) che si tratti di un intervento di nuova edificazione da
realizzarsi fuori dal perimetro dei centri abitati
con il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri
cubi per metro quadro;
b) che, in caso di interventi a destinazione produttiva, la
superficie coperta non superi un decimo dell'area di
proprietà.
Si desume, pertanto, che tutti gli interventi edilizi
realizzati all’esterno del perimetro dei centri abitati,
che determinino la trasformazione del territorio mediante la
realizzazione di un organismo con una volumetria entro il
limite di 0,03 metri cubi per metro quadro e una superficie
coperta contenuta entro il limite di un decimo dell’area di
proprietà avrebbero potuto essere realizzati anche in
assenza del piano attuativo previsto dall’art. 72 delle
N.T.A. del piano regolatore generale.
Nel caso di specie, alla luce di quanto disposto dall’art. 9
del d.p.r. 380 del 2001 è pertanto illegittima la
motivazione assunta a fondamento dell’annullamento d’ufficio
del titolo edilizio fondata sulla inammissibilità
dell’intervento per l’assenza dello strumento urbanistico
attuativo, non avendo il Comune verificato se l’intervento
determinasse la creazione di organismi edilizi con superfici
coperte e volumetrie superiori ai limiti prescritti dalla
stessa disposizione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 26.11.2014, n.
105034, con il quale il dirigente del settore ricostruzione
del Comune dell’Aquila ha disposto l’annullamento della DIA
13.03.2012, n. 254, relativa alla realizzazione di un
impianto per la messe in riserva di rifiuti non pericolosi
(R13) da costruzione e demolizione in L’Aquila sull’area
distinta in catasto al foglio 61, part. 20;
...
6.- Il primo motivo posto a fondamento del provvedimento
impugnato si basa sull'assunto secondo cui la d.i.a. n.
254/2012 violerebbe l’art. 72 delle N.T.A. del piano
regolatore generale, che, nell’area in questione, situata in
“zona artigianale di espansione” impone l’adozione di
un piano urbanistico preventivo per la realizzazione di
interventi edilizi.
Secondo la tesi di parte ricorrente l’intervento oggetto
della dichiarazione di inizio di attività non sarebbe
subordinato alla previa adozione di un piano attuativo, in
quanto non realizza alcuna opera di carattere stabile e
quindi non integra alcuna edificazione, trattandosi di un
impianto dove i rifiuti vengono temporaneamente depositati e
stoccati per poi essere trasferiti nell’impianto principale
e quindi l’intervento realizzato si sarebbe sostanziato
nella mera preparazione del terreno.
La ricorrente peraltro chiarisce la compatibilità
dell’intervento in esame con la destinazione di zona (“artigianale
di espansione”) prevista dal piano regolatore generale e
la compatibilità degli impianti per la messa in riserva di
rifiuti non pericolosi da costruzione e demolizione proprio
in zone con destinazione artigianale o industriale.
Di contro, la difesa comunale ribadisce in giudizio la
illegittimità della D.i.a. alla luce dell’art. 72 della
N.T.A., che non consentiva l’edificabilità diretta, ma
imponeva la previa adozione del piano attuativo preventivo
ai sensi dell’art. 27 della legge 865/1971 e richiama la
giurisprudenza secondo la quale la previsione di piano
regolatore, che assoggetta di regola gli interventi
edificatori alla previa approvazione di un piano
particolareggiato per l’area interessata, è intesa a
garantire un ordinato e armonico sviluppo del territorio
ovvero ad assicurare il raccordo tra la nuova edificazione e
le strutture esistenti.
Di qui il Comune deduce che: non vi sarebbero stati i
presupposti di fatto e di diritto che avrebbero potuto
legittimare l’intervento e quindi la formazione del titolo
edilizio, anche alla luce dell’inesatta dichiarazione di
controparte in ordine alla conformità dell’intervento al PRG,
sottacendo il difetto del pregiudiziale piano attuativo.
6.1.- Al riguardo, il Collegio ritiene innanzitutto
necessario chiarire che il Comune non contesta l’astratta
insediabilità dell’impianto di stoccaggio di rifiuti non
pericolosi nella zona in questione “artigianale di
espansione”, ma lo ritiene illegittimo in quanto
l’intervento è stato realizzato in assenza della preventiva
adozione del piano attuativo.
La disamina della questione dev'essere allora compiuta alla
luce dell'art. 9 d.P.R. n. 380/2001, da reputarsi
immediatamente applicabile, secondo il paradigma operativo
descritto dall'art. 2, comma 3, d.P.R. cit., nelle regioni a
statuto ordinario, senza che rivestano alcuna rilevanza, ai
fini che qui interessano, disposizioni regionali anteriori
all'entrata in vigore del testo unico dell'edilizia.
Orbene, la legittimità della D.i.a. avrebbe dovuto essere
vagliata dall’ente locale alla luce dell’art. 9 del d.P.R.
n. 380/2001, dal quale non si desume l’insussistenza di una
preclusione assoluta all’edificazione per la realizzazione
di insediamenti produttivi in zone bianche e fuori dal
perimetro dei centri abitati, “nelle aree nelle quali
non siano stati approvati gli strumenti urbanistici
attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come
presupposto per l'edificazione”.
L’art. 9 cit. consente, infatti, l’edificabilità diretta “nelle
aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti
urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici
generali come presupposto per l'edificazione”, purché
vengano rispettate le condizioni sancite dalla stessa
disposizione:
a) che si tratti di un intervento di nuova edificazione da
realizzarsi fuori dal perimetro dei centri abitati
con il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri
cubi per metro quadro;
b) che, in caso di interventi a destinazione produttiva, la
superficie coperta non superi un decimo dell'area di
proprietà.
Si desume, pertanto, che tutti gli interventi edilizi
realizzati all’esterno del perimetro dei centri abitati,
che determinino la trasformazione del territorio mediante la
realizzazione di un organismo con una volumetria entro il
limite di 0,03 metri cubi per metro quadro e una superficie
coperta contenuta entro il limite di un decimo dell’area di
proprietà avrebbero potuto essere realizzati anche in
assenza del piano attuativo previsto dall’art. 72 delle
N.T.A. del piano regolatore generale.
Nel caso di specie, alla luce di quanto disposto dall’art. 9
del d.p.r. 380 del 2001 è pertanto illegittima la
motivazione assunta a fondamento dell’annullamento d’ufficio
del titolo edilizio fondata sulla inammissibilità
dell’intervento per l’assenza dello strumento urbanistico
attuativo, non avendo il Comune verificato se l’intervento
determinasse la creazione di organismi edilizi con superfici
coperte e volumetrie superiori ai limiti prescritti dalla
stessa disposizione (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 08.11.2016 n. 705 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Annullamento
di una DIA.
Nel caso di specie, poiché il
provvedimento repressivo (della DIA) è stato adottato dopo
la scadenza del termine perentorio di cui all'art. 23, comma
6, d.P.R. n 380 del 2001, occorre verificare la sussistenza
delle condizioni previste dall'art. 21-nonies legge n. 241
del 1990 per l'esercizio del potere di annullamento
d'ufficio.
L'art. 21-nonies cit. prevede che il provvedimento
amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nella specie, manca sia l'esternazione delle ragioni di
interesse pubblico (al di là del mero ripristino della
legalità violata) sia la valutazione motivata della
posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio sia
l’esame del sopravvenuto parere positivo dell’Autorità di
bacino. Nel caso in esame l’affidamento ingenerato nella
società odierna ricorrente, peraltro, era particolarmente
qualificato in ragione del lungo tempo trascorso
dall'adozione della d.i.a. annullata, risultando trascorsi
ben due anni e mezzo dal suo consolidamento.
Va aggiunto sotto tale profilo che il decreto-legge
12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l'apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa
delle attività produttive), convertito, con modificazioni,
dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha introdotto uno
sbarramento temporale all'esercizio del potere di
autotutela, rappresento da "diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici".
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis al caso
di specie, in quanto entrata in vigore dopo la presentazione
della d.i.a., ogni caso, come il giudice d’appello ha già
avuto modo di chiarire, rileva ai fini interpretativi e
ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 26.11.2014, n.
105034, con il quale il dirigente del settore ricostruzione
del Comune dell’Aquila ha disposto l’annullamento della DIA
13.03.2012, n. 254, relativa alla realizzazione di un
impianto per la messe in riserva di rifiuti non pericolosi
(R13) da costruzione e demolizione in L’Aquila sull’area
distinta in catasto al foglio 61, part. 20;
...
9.- Il parere negativo dell’Autorità di bacino del
18.06.2012 (poi superato, come sopra chiarito, dal
successivo parere con prescrizioni, reso della medesima
Autorità il 31.07.2014), inficiando la validità della d.i.a.,
avrebbe consentito all'Amministrazione di intervenire sul
titolo, adottando un provvedimento inibitorio/ripristinatorio
o entro il termine di decadenza previsto dall'art. 23, comma
6, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, oppure, scaduto
infruttuosamente tale termine, soltanto ricorrendo le
condizioni alle quali l'art. 21-nonies della legge
07.08.1990, n. 241, subordina l'esercizio del potere di
autotutela.
Nel caso di specie, poiché il provvedimento repressivo è
stato adottato dopo la scadenza del termine perentorio di
cui all'art. 23, comma 6, d.P.R. n 380 del 2001, occorre
verificare la sussistenza delle condizioni previste
dall'art. 21-nonies legge n. 241 del 1990 per l'esercizio
del potere di annullamento d'ufficio.
10-. L'art. 21-nonies cit. prevede che il provvedimento
amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nella specie, manca sia l'esternazione delle ragioni di
interesse pubblico (al di là del mero ripristino della
legalità violata) sia la valutazione motivata della
posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio sia
l’esame del sopravvenuto parere positivo dell’Autorità di
bacino. Nel caso in esame l’affidamento ingenerato nella
società odierna ricorrente, peraltro, era particolarmente
qualificato in ragione del lungo tempo trascorso
dall'adozione della d.i.a. annullata, risultando trascorsi
ben due anni e mezzo dal suo consolidamento.
Va aggiunto sotto tale profilo che il decreto-legge
12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l'apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa
delle attività produttive), convertito, con modificazioni,
dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha introdotto uno
sbarramento temporale all'esercizio del potere di
autotutela, rappresento da "diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici".
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis
al caso di specie, in quanto entrata in vigore dopo la
presentazione della d.i.a., ogni caso, come il giudice
d’appello ha già avuto modo di chiarire, rileva ai fini
interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi
rilevanti (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625).
11.- Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso
merita accoglimento (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 08.11.2016 n. 705 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
35, comma 17, della legge n. 47/1985, prevede che <<decorso
il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla
presentazione della domanda di condono edilizio,
quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda
al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a
conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico
erariale della documentazione necessaria
all'accatastamento>>.
Lo stesso art. 35, comma 17 della legge n. 47/1985 fa salve
dall’applicazione della disciplina del silenzio-assenso le
ipotesi (disciplinate dall’art. 40, comma 1, della medesima
legge) di domanda di condono presentata oltre il termine
prescritto, di dichiarazioni dolosamente infedeli e di
domande di condono aventi ad oggetto opere non suscettibili
di sanatoria elencate all'art. 33 della legge n. 47/1985.
Al di fuori delle tipizzate ipotesi di esclusione dalla
disciplina del silenzio-assenso, la giurisprudenza ha
costantemente affermato che il rigetto per mancanza di uno
dei requisiti di legge, deve essere comunque pronunciato dal
Comune entro il perentorio termine biennale ex art. 35,
comma 17, l. 28.02.1985 n. 47, decorso il quale si forma il
c.d. "silenzio-assenso" ed è preclusa a detta
amministrazione la possibilità di emanare legittimamente un
provvedimento di diniego di concessione in sanatoria, senza
prima aver annullato d'ufficio l'assenso così formatosi.
Va però chiarito che la sola presentazione di una domanda di
condono non può rappresentare un titolo abilitativo
edilizio, in quanto il termine per la formazione del
silenzio assenso non decorre:
a) se non sussistono i presupposti previsti dal combinato disposto
di cui all’art. 11 del D.P.R. 380 del 2001 e all’art. 31,
comma 3, L. 28/02/1985, n. 47, per il rilascio del titolo
edilizio, laddove l’istante non dimostra di essere
proprietario o in possesso di altro titolo che lo legittima
a richiederlo o non produce documentazione idonea a
dimostrare di essere legittimamente interessato al
conseguimento della sanatoria medesima;
b) se non è stata pagata l’oblazione nella misura prevista;
c) se alla domanda di condono non è allegata la documentazione
specificamente elencata all’art. 35, comma 3, della legge n.
47 del 1985;
d) se non è acquisito il parere dei competenti organi tecnici;
e) se l’interessato ha presentato dichiarazioni infedeli circa la
consistenza e le caratteristiche dell'opera abusiva.
Anche nel caso di specie, quindi, la sola presentazione
della domanda di condono non è sufficiente a considerare
come rilasciato “per silentium” il titolo edilizio
richiesto, considerata la mancata presentazione, da parte
dell’istante, della documentazione atta a dimostrare il
diritto di proprietà esclusiva sull’area o altro titolo
legittimante, come previsto dal combinato disposto degli
articoli 11 del D.P.R. 380 del 2001 e 31, comma 3, L.
28/02/1985, n. 47.
---------------
Il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere
di verificare la legittimazione del richiedente, accertando
che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria.
Se è vero che il titolo edilizio in sanatoria è rilasciato
facendo salvi i diritti dei terzi e che il Comune non è
tenuto ad effettuare complessi accertamenti in ordine alla
titolarità del bene, è altresì vero che, in caso di dissidio
fra proprietari, perché le opere di cui si chiede il condono
incidono sul diritto di alcuni di essi, è necessario che
l'istruttoria della pratica ed il provvedimento finale diano
conto della verifica della legittimazione del soggetto
richiedente.
La giurisprudenza, infatti, ha considerato inapplicabile
l'istituto del condono, laddove l'abuso sia realizzato dal
singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni
elemento di prova circa la volontà degli altri
comproprietari, atteso che, diversamente opinando,
l'amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale
appropriazione di spazi comuni da parte del singolo
condomino, in presenza di una possibile volontà contraria
degli altri.
---------------
5.- Il ricorso è infondato.
5.1.- L’art. 35, comma 17, della legge n. 47/1985, prevede
che <<decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi
dalla presentazione della domanda, quest'ultima si intende
accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le
somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla
presentazione all'ufficio tecnico erariale della
documentazione necessaria all'accatastamento>>.
Lo stesso art. 35, comma 17 della legge n. 47/1985 fa salve
dall’applicazione della disciplina del silenzio-assenso le
ipotesi (disciplinate dall’art. 40, comma 1, della medesima
legge) di domanda di condono presentata oltre il termine
prescritto, di dichiarazioni dolosamente infedeli e di
domande di condono aventi ad oggetto opere non suscettibili
di sanatoria elencate all'art. 33 della legge n. 47/1985.
Al di fuori delle tipizzate ipotesi di esclusione dalla
disciplina del silenzio-assenso, la giurisprudenza ha
costantemente affermato che il rigetto per mancanza di uno
dei requisiti di legge, deve essere comunque pronunciato dal
Comune entro il perentorio termine biennale ex art. 35,
comma 17, l. 28.02.1985 n. 47, decorso il quale si
forma il c.d. "silenzio-assenso" ed è preclusa a detta
amministrazione la possibilità di emanare legittimamente un
provvedimento di diniego di concessione in sanatoria, senza
prima aver annullato d'ufficio l'assenso così
formatosi (Consiglio di Stato, sez. V, 24/03/1997, n. 286;
Consiglio di Stato, sez. V, 22/01/2003, n. 250).
Va però chiarito che la sola presentazione di una domanda di
condono non può rappresentare un titolo abilitativo
edilizio, in quanto il termine per la formazione del
silenzio assenso non decorre:
a) se non sussistono i presupposti previsti dal combinato
disposto di cui all’art. 11 del D.P.R. 380 del 2001 e
all’art. 31, comma 3, L. 28/02/1985, n. 47, per il rilascio
del titolo edilizio, laddove l’istante non dimostra di
essere proprietario o in possesso di altro titolo che lo
legittima a richiederlo o non produce documentazione idonea
a dimostrare di essere legittimamente interessato al
conseguimento della sanatoria medesima;
b) se non è stata pagata l’oblazione nella misura prevista;
c) se alla domanda di condono non è allegata la
documentazione specificamente elencata all’art. 35, comma 3,
della legge n. 47 del 1985 (Consiglio di Stato, sez. VI,
11/09/2013, n. 4493);
d) se non è acquisito il parere dei
competenti organi tecnici (Consiglio di Stato, sez. VI,
04/10/2013, n. 4907);
e) se l’interessato ha presentato
dichiarazioni infedeli circa la consistenza e le
caratteristiche dell'opera abusiva.
Anche nel caso di specie, quindi, la sola presentazione
della domanda di condono non è sufficiente a considerare
come rilasciato “per silentium” il titolo edilizio
richiesto, considerata la mancata presentazione, da parte
dell’istante, della documentazione atta a dimostrare il
diritto di proprietà esclusiva sull’area o altro titolo
legittimante, come previsto dal combinato disposto degli
articoli 11 del D.P.R. 380 del 2001 e 31, comma 3, L.
28/02/1985, n. 47.
5.2.- Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria. Se è vero che il titolo edilizio in sanatoria
è rilasciato facendo salvi i diritti dei terzi e che il
Comune non è tenuto ad effettuare complessi accertamenti in
ordine alla titolarità del bene (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 04.04.2012 n. 1990), è altresì vero che, in caso di
dissidio fra proprietari, perché le opere di cui si chiede
il condono incidono sul diritto di alcuni di essi, è
necessario che l'istruttoria della pratica ed il
provvedimento finale diano conto della verifica della
legittimazione del soggetto richiedente.
La giurisprudenza, infatti, ha considerato inapplicabile
l'istituto del condono, laddove l'abuso sia realizzato dal
singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni
elemento di prova circa la volontà degli altri
comproprietari, atteso che, diversamente opinando,
l'amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale
appropriazione di spazi comuni da parte del singolo
condomino, in presenza di una possibile volontà contraria
degli altri (Cons. St, sez. V, 08.11.2011, n. 5894).
Traslando i principi esposto al caso di specie, il Comune,
lungi dall’aver condotto un’istruttoria carente, ha
dapprima, con nota 10.03.2010, n. 2712, informato
l’istante della mancanza di un titolo legittimante alla
richiesta di sanatoria e ha poi correttamente respinto la
richiesta di condono a causa della mancata dimostrazione da
parte dell’istante del possesso di un titolo di proprietà
esclusiva sull’area su cui è stata realizzata la tettoia
abusiva.
Invero, in presenza di contestazione da parte dei
proprietari dell’area sulla quale era stato realizzato il
manufatto abusivo, il Comune riteneva inidonea
l’autocertificazione resa ai sensi dell’art. 4 della legge 04.01.1968, n. 15, con la quale la signora Di Agostino
dichiarava di aver “ereditato la proprietà e comunque il
possesso dell’appezzamento di terreno” individuato in
catasto al foglio 39, part. 32.
Peraltro, la domanda di condono non è stata corredata da
alcuna manifestazione di volontà dei comproprietari
dell’area su cui insiste il manufatto abusivo, che avrebbe
avuto carattere autorizzatorio e quindi idoneo a conferire
alla signora Di Ag. la legittimazione a presentare
l’istanza per ottenere il titolo edilizio in sanatoria,
sicché deve ritenersi, conformemente a quanto sostenuto dal
Comune, che la ricorrente fosse priva di legittimazione a
richiedere il titolo edilizio.
In conclusione, il Comune di Campli ha espletato
l'accertamento relativo all'esistenza in capo alla signora
Gi. Di Ag. di un idoneo titolo di disponibilità
giuridica dell'immobile. E tale doveroso accertamento, alla
luce delle risultanze dell’istruttoria, ha coerentemente
indotto il Comune a ritenere la insussistenza dei
presupposti per l’ammissibilità della domanda di condono.
In particolare, come emerge dalla documentazione versata in
atti, i signori Al. Di Em. e Do. Di An.
avevano rappresentato al Comune, con note 06.03.2004 e 24.01.2005 che:
a) la signora Di Ag. non vantasse
alcun diritto sull’area dove era stata realizzata la tettoia
abusiva, in quanto tale area, distinta in catasto al foglio
39, part. 32, costituiva corte comune in comproprietà tra i
signori Di Em., Di An. ed altri comproprietari;
b)
non risultava veritiero quanto dichiarato dalla signora Di
Ag. con l’autocertificazione allegata alla domanda
circa l’acquisto, per eredità, della proprietà e del
possesso del bene, atteso che Fi. D’Ag. (dante
causa della odierna ricorrente), citato in giudizio Al.
Di Em. e Do. Di An. proprio per l’occupazione
della corte comune con la realizzazione della tettoia, in
tale giudizio, all’udienza del 18.07.1995 rinunziava
alla domanda riconvenzionale volta all’accertamento
dell’usucapione, così come risulta, peraltro, dall’ordinanza
del giudice istruttore dell’08.08.1996;
c) comunque tale
giudizio civile era stato dichiarato estinto.
6.- Per quanto sinora evidenziato il ricorso deve essere
respinto in quanto infondato nel merito
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 08.11.2016 n. 698 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Tarsu,
accertamento ko a convenzione scaduta.
L'accertamento per la Tarsu, emesso dall'ente affidatario
del servizio di accertamento e riscossione dei tributi
comunali, è nullo se, prima della sua emissione è scaduta la
convenzione tra il comune e l'ente stesso; sussiste, in tal
caso, un difetto di legittimazione attiva in capo al
concessionario, che abbia agito per conto del comune
scavalcando i termini di vigenza della specifica
convenzione.
È quanto si legge nella
sentenza
27.10.2016 n. 5974/08/2016 della Ctp di Salerno.
La vertenza nasce dal ricorso presentato da una
contribuente, contro un avviso di accertamento Tarsu
relativo alle annualità 2010, 2011 e 2012, per un
appartamento sito nel comune di Sarno (Sa). La maggiore
imposta scaturiva dalla rettifica della superficie accertata
per l'immobile, dai dichiarati 50 a 72 mq. L'atto era stato
emesso dalla società concessionaria del servizio di
accertamento e riscossione dei tributi locali.
La difesa di
parte ricorrente eccepiva, in primis, il difetto di
legittimazione attiva della società concessionaria,
rilevando che la convenzione con il comune di Sarno fosse
scaduta nel maggio del 2015, mentre l'accertamento risultava
notificato a dicembre 2015. Tra le altre doglianze, un
difetto di notifica, il mancato sopralluogo presso
l'immobile e la carenza di motivazione.
La resistente si costituiva in giudizio, depositando un
accordo stragiudiziale di proroga dei servizi, per le
pratiche già in carico.
Il motivo relativo alla carenza di legittimazione del
concessionario ha fatto breccia nel pensiero del collegio
giudicante. La Ctp di Salerno, infatti, ha accolto il
ricorso e annullato l'avviso di accertamento. Dopo la
scadenza della convenzione tra il comune e il
concessionario, quest'ultimo non può più compiere atti
impositivi e recuperare i tributi comunali, venendo meno la
sua legittimazione attiva. Con la conseguenza che tale
difetto si traduce nella nullità degli atti emessi. Sulla
questione della presunta proroga, invece, la commissione ha
rilevato che l'accordo riguardava soltanto l'esaurimento
della fase di riscossione dei tributi in carico: con la
conseguenza che ogni attività accertativa doveva essere
esperita direttamente dall'ente comunale.
La decisione dei giudici campani, favorevole alla parte
contribuente, è stata mitigata dalla compensazione integrale
delle spese di giudizio.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA.
La ricorrente contro la Soget spa avverso l'avviso di
accertamento Tarsu n. 1-065135-15-00007768-73 per gli anni
2010, 2011 e 2012 notificata in data 7/12/2015 con la quale
viene accertata una maggiore superficie Tarsu da mq 50 a mq
72 relativa all'immobile ubicato in Sarno.
La ricorrente eccepisce la legittimità dell'avviso di
accertamento per una serie di motivi, quali: violazione
dell'art. 140 c.p.c. per errata notifica; difetto di
legittimazione attiva della Soget privo dei relativi poteri
accertativi per intervenuta scadenza del contratto di
concessione in gestione del servizio di accertamento tra il
comune di Sarno e la Soget; inesistenza del sopralluogo e
preavviso da parte degli addetti che avrebbero dovuto
rilevare la superficie accertata; errata indicazione degli
importi pagati e conseguente errore sulla differenza tarsu
accertata; errata indicazione della modalità di calcolo
degli interessi; motivazione apparente; carenza del visto di
esecutorietà.
Si conosce in giudizio la Soget con atto di controdeduzione
si riserva di articolare le proprie ragioni avverso
l'eccezioni della parte ricorrente.
Parte ricorrente propone memorie a ulteriore illustrazione
di quanto eccepito nel ricorso introduttivo.
In data 27.09.2016 si è riunita la Commissione per la
trattazione del ricorso che ha così deciso: «L'eccezione del
difetto di legittimazione attiva della Soget spa appare
fondata: dalla documentazione allegata nel ricorso risulta
scaduta in data 16.05.2015 la convenzione del servizio di
accertamento tra il comune di Sarno e la Soget.
Il
successivo accordo stragiudiziale del 21/05/2015 prot.
17839/2015 con il quale viene formalizzato il passaggio
delle consegne al comune di Sarno degli atti prodotti dalla
Soget durante il servizio in convenzione e l'ultimazione in
capo a quest'ultima dell'attività residua di riscossione,
non investe l'attività accertativa che, a partire dal
16/05/2015 doveva ricadere nelle attribuzioni del comune di
Sarno. L'atto impugnato è stato emesso dalla Soget in data
26/11/2015 e notificato alla ricorrente in data 07.12.2015 e
pertanto va annullato.
Assorbite tutte le altre eccezioni.
PQM
La commissione accoglie il ricorso. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
TRIBUTI: Avviso
di ricevimento, fa fede indirizzo giusto.
L'avviso di ricevimento della raccomandata con cui è stata
spedita la cartella di pagamento funge da prova della
notifica, salvo che l'indirizzo indicato sullo stesso sia
quello sbagliato; in tal caso, non è neppure necessario
proporre querela di falso per superare il valore probatorio
di tale documento. Di più. L'indirizzo indicato sulla
dichiarazione dei redditi, diverso da quello di residenza,
può valere come elezione di domicilio, ma non all'infinito;
al limite, ciò può valere per l'anno di presentazione della
dichiarazione, ma non per gli anni a seguire in cui tale
indicazione sia stata omessa.
Sono i principi che si leggono nella
sentenza 17.10.2016 n. 745/02/2016 della Ctp di
Frosinone (presidente Ferrara, relatore Pacetti).
La vertenza nasce dal ricorso proposto da un contribuente
contro dei ruoli esattoriali conosciuti attraverso
l'estratto rilasciato dall'agente della riscossione. La
contestazione principale riguardava la notifica delle
cartelle di pagamento. A tal proposito, venivano depositati
gli avvisi di ricevimento delle cartelle, tutte notificate a
mezzo posta.
Tuttavia, tali raccomandate risultavano spedite a un
indirizzo diverso dalla residenza anagrafica:
l'amministrazione sosteneva di aver appreso tale indirizzo
dalle dichiarazioni presentate dal contribuente negli anni
addietro, indicandolo come domicilio fiscale.
Il giudice tributario, tuttavia, ha rilevato che le
dichiarazioni a cui si riferiva l'ufficio finanziario
risultavano presentate molti anni addietro rispetto alle
notifiche delle cartelle di pagamento: in sostanza, si legge
nella sentenza, un indirizzo indicato sulla dichiarazione
dei redditi del 2005 non può risultare come valido
riferimento per la notifica di una cartella nell'anno 2013.
Di contro, il riferimento principale, ovvero la residenza
anagrafica, è un dato facilmente appurabile, a cui
l'amministrazione può risalire senza particolari sforzi.
Dunque, poiché gli avvisi di ricevimento facevano capo a
questo indirizzo, ritenuto invalido dalla Ctp, nessuna prova
poteva attribuirsi loro, non rendendosi necessaria alcuna
azione di disconoscimento o querela; in linea con quanto
sostenuto dalla Corte di cassazione nella sentenza 879/2016,
secondo cui «perché l'avviso di ricevimento provi, fino a
querela di falso, che l'atto sia stato consegnato al
destinatario è dunque necessario che: a) l'atto sia stato
consegnato all'indirizzo del destinatario».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA.
In premessa, si rileva l'ammissibilità del ricorso proposto
contro le cartelle di pagamento conosciute attraverso
l'estratto di ruolo rilasciato dall'agente della
riscossione, per impugnare cartelle non correttamente
notificate. È ammissibile l'impugnazione della cartella (e/o
del ruolo) che non sia stata validamente notificata e della
quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso
l'estratto di ruolo, senza che a ciò sia di ostacolo il
disposto dell'ultima parte del terzo comma dell'art. 19 del
dlgs n. 546 del 1992, così come disposto dalle sezioni unite
della Corte di cassazione con la sentenza del 02.10.2015, n. 19704. [omissis]
La prova con cui l'amministrazione
sostiene che le notifiche siano state effettuate si rinviene
negli avvisi di ricevimento depositati agli atti che però
possono svolgere tale funzione, e quindi fungere da piena
prova della notifica sino a querela di falso, soltanto se
indirizzati nel luogo ove la stessa notifica doveva essere
eseguita.
Nessun valore ha, invece, un avviso di ricevimento
indirizzato in un luogo diverso dalla residenza o dal
domicilio fiscale eventualmente eletto altrove. Sotto tale
aspetto, poi, non può accogliersi l'eccezione dell'ufficio
secondo cui il contribuente avrebbe indicato altro indirizzo
di domicilio fiscale sulle dichiarazioni dei redditi
presentate negli anni passati. Infatti, l'elezione di
domicilio ai sensi dell'articolo 60, comma 1, lettera d), del
dpr 29.09.1973, n. 600 «deve risultare espressamente
da apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a
mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento
ovvero in via telematica con modalità stabilite con
provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate».
Dunque, l'indicazione di un indirizzo diverso dalla
residenza, su una dichiarazione dei redditi relativa ad
annualità precedenti non può fungere a tale scopo e
soprattutto tale indicazione non può essere a carattere
perpetuo: ovvero, se l'elezione di domicilio può al limite
presumersi per l'anno d'imposta a cui la dichiarazione dei
redditi si riferisce, tale elezione non può valere per gli
anni successivi, ovvero per quelli in cui sono state
notificate le cartelle di pagamento.
Nel caso di specie, per
esempio, l'indicazione di un indirizzo sulla dichiarazione
dei redditi dell'anno 2005 non può giustificare il fatto che
l'amministrazione notifichi a tale indirizzo una cartella
nell'anno 2013. Ciò anche considerando che la residenza del
contribuente è una circostanza facilmente appurabile per
l'amministrazione finanziaria, che ha a disposizione tutti
gli strumenti per risalirvi immediatamente e senza
particolari sforzi.(...)
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
TRIBUTI: No
profit, paletti all'esenzione. Niente imposte quando non
cambia la destinazione. La
Cassazione: il mancato uso dell'immobile non fa perdere il
diritto al regime agevolato.
Un ente no profit ha diritto all'esenzione Ici se l'immobile
è destinato ad attività svolte con modalità non commerciali,
anche se non viene utilizzato. Il mancato utilizzo non fa
perdere il diritto al trattamento agevolato, a meno che non
sia un indizio del mutamento di destinazione del bene o
della cessazione della sua strumentalità. La stessa regola
vale anche per Imu e Tasi.
L'importante principio è stato affermato dalla Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza 12.10.2016 n. 20516.
Secondo la Cassazione, il mancato utilizzo di un immobile
non esclude il diritto al trattamento agevolato. Assume
rilevanza, invece, «solo quello che sia indizio di un
mutamento della destinazione o della cessazione della
strumentalità del bene». L'ente non commerciale ha diritto
all'esenzione da Ici, Imu e Tasi, prevista dall'articolo 7,
comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992, anche
se l'immobile non viene utilizzato, «purché sia stato nella
sua disponibilità».
Nello specifico, «l'esenzione non spetta
qualora l'immobile perda il carattere di strumentalità
all'esercizio delle attività considerate oppure esca dalla
sfera di disponibilità del soggetto non profit». Dunque
prevale la destinazione, «restando irrilevante l'eventuale
impossibilità temporanea di utilizzo effettivo».
Il possesso dell'immobile.
Mentre la Cassazione ritiene non sia causa di esclusione del
beneficio fiscale il mancato uso dell'immobile, gli stessi
giudici di legittimità (sentenza 14913/2016) hanno affermato
che un requisito essenziale per fruire dell'esenzione è il
suo possesso qualificato da parte dell'ente.
Per l'esonero
dalle imposte locali, infatti, non è sufficiente il possesso
di fatto. Altrimenti l'agevolazione si estenderebbe al
soggetto titolare. L'uso indiretto da parte dell'ente che
non ne sia possessore non consente al proprietario di fruire
dell'esenzione.
Il comodato.
Regole rigide anche per il comodato. Se un ente concede in
comodato un immobile a un altro ente, che vi svolge
l'attività con modalità non commerciali, non ha diritto
all'esenzione Imu e Tasi poiché non lo utilizza
direttamente. Nonostante il Ministero dell'economia e delle
finanze (risoluzione 4/2013) si sia espresso fornendo
un'interpretazione diversa, favorevole al mantenimento del
beneficio anche in caso di concessione del bene in comodato.
Del resto, la Cassazione ha chiarito che l'esenzione esige
l'identità soggettiva tra il possessore, ovvero il soggetto
passivo delle imposte locali, e l'utilizzatore
dell'immobile. L'interpretazione del Mef non è in linea con
le pronunce sia della Corte costituzionale (ordinanze
429/2006 e 19/2007) che della Cassazione, secondo cui per
fruire dell'esenzione l'ente non commerciale dovrebbe non
solo possedere, ma anche utilizzare direttamente l'immobile.
Pertanto, per fruire dell'esenzione è richiesta una duplice
condizione: l'utilizzazione diretta degli immobili da parte
dell'ente possessore e l'esclusiva loro destinazione a
attività peculiari che non siano produttive di reddito.
L'agevolazione non può essere riconosciuta nel caso di
utilizzazione indiretta, ancorché eventualmente assistita da
finalità di pubblico interesse.
L'evoluzione normativa.
In seguito alle modifiche normative che sono intervenute
sulla materia, è stata riconosciuta l'esenzione parziale Imu
e Tasi per gli enti no profit. Questo beneficio, però, non
può valere per l'Ici. Per quest'ultimo tributo, in effetti,
era richiesta la destinazione esclusiva dell'immobile per
finalità non commerciali. L'evoluzione della norma che
riconosce i benefici fiscali per una parte dell'immobile non
può avere effetti retroattivi.
Ancorché si tratti della
stessa norma che disciplina l'agevolazione, non può essere
riconosciuta l'esenzione parziale Ici, come avviene per Imu
e Tasi, se parte dell'immobile è stata destinata a
un'attività, tra quelle elencate dal citato articolo 7,
svolta con modalità commerciali.
I giudici di piazza Cavour,
con la sentenza 4342/2015, hanno precisato che il
trattamento agevolato è limitato «all'ipotesi in cui gli
immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento
di una delle attività di religione o di culto» indicate
nella legge 222/1985 e, dunque, non si applica ai fabbricati
di proprietà di enti ecclesiastici nei quali venga
esercitata un'attività sanitaria, non rilevando neppure la
destinazione degli utili eventualmente ricavati al
perseguimento di fini sociali o religiosi, che costituisce
«un momento successivo alla loro produzione e non fa venir
meno il carattere commerciale dell'attività».
Bisogna ricordare che la disciplina Imu, che si applica
anche alla Tasi, dà diritto all'esenzione anche qualora
l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista.
L'agevolazione si applica solo sulla parte nella quale si
svolge l'attività non commerciale, sempre che sia
identificabile. La parte dell'immobile dotata di autonomia
funzionale e reddituale permanente deve essere iscritta in
Catasto e la rendita produce effetti a partire dal 01.01.2013. Nel caso in cui non sia possibile accatastarla
autonomamente, il beneficio fiscale spetta in proporzione
all'utilizzazione non commerciale dell'immobile che deve
risultare da apposita dichiarazione.
---------------
Scuole paritarie, condizioni rigide.
La Cassazione (sentenze 14225 e 14226/2015) ha fissato i
paletti anche per le attività svolte dalle scuole paritarie.
Ha infatti stabilito che se l'attività didattica viene
esercitata da una scuola paritaria e gli utenti pagano un
corrispettivo si perde il diritto all'agevolazione fiscale,
nonostante la gestione operi in perdita. E il fine di lucro
non viene meno se con i ricavi si ha come obbiettivo quello
di raggiungere il pareggio di bilancio. Per i giudici di
legittimità manca il carattere imprenditoriale dell'attività
degli enti no profit solo nel caso in cui sia svolta a
titolo gratuito.
L'esenzione Ici prevista dall'articolo 7,
comma 1, lettera i) del decreto legislativo 504/1992 era
limitata all'ipotesi in cui gli immobili fossero destinati
totalmente allo svolgimento di una delle attività elencate
dalla norma (sanitarie, didattiche, ricettive, ricreative,
sportive e così via) in forma non commerciale. In realtà,
per l'Ici il legislatore non è mai intervenuto per chiarire
quando un'attività può essere definita commerciale.
È stato
sempre demandato ai giudici il compito di prendere
posizione, senza avere dei parametri ai quali fare
riferimento. Per l'Imu, invece, l'articolo 4 del decreto
ministeriale 200/2012 ha enunciato per le varie tipologie di
attività, al fine di definire la loro natura non
commerciale, quali criteri devono essere osservati. Per
esempio, l'attività didattica si ritiene svolta con modalità
non commerciali se è paritaria rispetto a quella statale,
non discrimina gli alunni e accoglie i portatori di
handicap.
Infine, è richiesto che venga esercitata a titolo gratuito o
dietro versamenti di corrispettivi di importo simbolico,
tali da coprire solo una frazione del costo effettivo del
servizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Com’è
noto, lo Sportello unico per l'edilizia (S.u.e.) è un
servizio, disciplinato dal Testo unico dell'edilizia,
all’art. 5 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Esso è stato istituito con l'intento di creare un unico
canale di interfaccia tra Amministrazione pubblica e
cittadino, nel caso di intervento edilizio, non dovendo
occuparsi quest'ultimo di presentare varie istanze in vari
uffici competenti per territorio o per determinati aspetti
(ad esempio, quelli paesaggistico-ambientali).
In particolare, il S.u.e. riceve le istanze edilizie, a
firma del committente proprietario o avente diritto,
sull'immobile e rilascia il provvedimento conseguente, ove
previsto; se occorre, sulla scorta della documentazione
presentata dal privato, interroga le altre Amministrazioni
pubbliche tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento
edilizio, per pareri o assensi. Nel caso di specie, si
tratta proprio di un’istanza edilizia.
---------------
Viceversa, il S.u.a.p. (Sportello unico delle attività
produttive) è previsto dall’art. 2, comma primo, del D.P.R.
n. 160/2010 per la cura dei procedimenti amministrativi
<<che abbiano ad oggetto l’esercizio di attività produttive
e di prestazioni di servizi e quelli relativi alle azioni di
localizzazione, realizzazione, trasformazione,
ristrutturazione, ampliamento, trasferimento, nonché
cessazione o riattazione delle suddette attività>>.
----------------
Invero, la ditta controinteressata non ha chiesto
l’attivazione di alcuno dei procedimenti elencati nel citato
art. 2, comma primo, del D.P.R. n. 160/2010, poiché non ha
avviato né ha dichiarato di voler avviare alcuna attività
produttiva, ma ha soltanto realizzato, previo assenso del
Comune, una nuova ripartizione interna di un preesistente
fabbricato di sua proprietà, modificandone la destinazione
d’uso.
Pertanto, non si può escludere, nella specie, la sussistenza
della competenza dello Sportello unico dell’edilizia ad
adottare l’atto impugnato.
Va rilevato, solo per inciso, che il S.u.e. è soltanto un
ufficio amministrativo del Comune, alla stregua dello
Sportello per le attività produttive, sicché il vizio di
incompetenza non deve essere valutato con riferimento al
momento organizzativo in senso stretto, ma al settore di
attività unitariamente considerato; quindi, se l'organo
asseritamente incompetente riguardo al provvedimento
concretamente emanato, appartiene comunque allo stesso
plesso amministrativo ed ha competenza ad adottare altre
determinazioni nell'ambito del medesimo settore di attività,
si può escludere che sussista il vizio di incompetenza, in
senso assoluto.
---------------
IV – Quanto all’impugnazione del permesso di costruire n. 7
del 20.03.2015, rilasciato alla ditta controinteressata e
avente a oggetto <<completamento fabbricato per diversa
distribuzione degli spazi e cambio di destinazione d’uso dei
locali a piano terra>>, il Collegio ritiene destituite
di fondamento le quattro censure del ricorso, riassumibili
come segue: 1) incompetenza dello Sportello unico per
l’edilizia; 2) mancanza del lotto minimo; 3) illegittimità
dell’accorpamento tra fondi non strettamente contigui; 4)
mancanza, nel progetto, della previsione di un quadro
elettrico.
V – Quello assentito dal S.u.e. del Comune di Trivento (Cb),
con il permesso di costruire impugnato è l’ampliamento, con
cambio di destinazione d’uso per locali commerciali, di un
fabbricato preesistente, in un’area ricadente in zona E
(agricola).
Com’è noto, lo Sportello unico per l'edilizia (S.u.e.) è un
servizio, disciplinato dal Testo unico dell'edilizia,
all’art. 5 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380. Esso è stato
istituito con l'intento di creare un unico canale di
interfaccia tra Amministrazione pubblica e cittadino, nel
caso di intervento edilizio, non dovendo occuparsi
quest'ultimo di presentare varie istanze in vari uffici
competenti per territorio o per determinati aspetti (ad
esempio, quelli paesaggistico-ambientali).
In particolare, il S.u.e. riceve le istanze edilizie, a
firma del committente proprietario o avente diritto,
sull'immobile e rilascia il provvedimento conseguente, ove
previsto; se occorre, sulla scorta della documentazione
presentata dal privato, interroga le altre Amministrazioni
pubbliche tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento
edilizio, per pareri o assensi. Nel caso di specie, si
tratta proprio di un’istanza edilizia.
Viceversa, il S.u.a.p. (Sportello unico delle attività
produttive) è previsto dall’art. 2, comma primo, del D.P.R.
n. 160/2010 per la cura dei procedimenti amministrativi <<che
abbiano ad oggetto l’esercizio di attività produttive e di
prestazioni di servizi e quelli relativi alle azioni di
localizzazione, realizzazione, trasformazione,
ristrutturazione, ampliamento, trasferimento, nonché
cessazione o riattazione delle suddette attività>>.
Invero, la ditta controinteressata non ha chiesto
l’attivazione di alcuno dei procedimenti elencati nel citato
art. 2, comma primo, del D.P.R. n. 160/2010, poiché non ha
avviato né ha dichiarato di voler avviare alcuna attività
produttiva, ma ha soltanto realizzato, previo assenso del
Comune, una nuova ripartizione interna di un preesistente
fabbricato di sua proprietà, modificandone la destinazione
d’uso.
Pertanto, non si può escludere, nella specie, la sussistenza
della competenza dello Sportello unico dell’edilizia ad
adottare l’atto impugnato.
Va rilevato, solo per inciso, che il S.u.e. è soltanto un
ufficio amministrativo del Comune, alla stregua dello
Sportello per le attività produttive, sicché il vizio di
incompetenza non deve essere valutato con riferimento al
momento organizzativo in senso stretto, ma al settore di
attività unitariamente considerato; quindi, se l'organo
asseritamente incompetente riguardo al provvedimento
concretamente emanato, appartiene comunque allo stesso
plesso amministrativo ed ha competenza ad adottare altre
determinazioni nell'ambito del medesimo settore di attività,
si può escludere che sussista il vizio di incompetenza, in
senso assoluto (cfr.: Tar Piemonte Torino I, 03.01.2014 n.
4)
(TAR
Molise,
sentenza 19.05.2016 n. 219 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La natura
edificabile di un suolo non viene meno per effetto delle
ridotte dimensioni o della particolare conformazione del
lotto (salvo che gli strumenti urbanistici le considerino
espressamente significative della non edificabilità),
essendo sempre possibile l'accorpamento tra fondi contigui,
ovvero l'asservimento urbanistico a fondo vicino avente
identica destinazione.
Invero, l'atto di asservimento dei suoli, che comporta la
cessione di cubatura tra fondi vicini, è funzionale ad
accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo
dell'utilizzo della cubatura realizzabile in un’altra
particella della stessa zona e del conseguente computo anche
della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del
rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria.
La cubatura espressa dal terreno (ossia, la possibilità di
edificare un determinato volume edilizio) è oggetto di un
contratto di trasferimento con il quale il proprietario di
un'area trasferisce a titolo oneroso parte delle sue
possibilità edificatorie a un altro soggetto, allo scopo di
consentire a quest'ultimo di realizzare, nell'area di sua
proprietà, una costruzione di maggiore cubatura, nel
rispetto dell'indice di densità fondiaria.
L'area dalla quale la cubatura è stata sottratta diviene,
per quella parte di cubatura alienata, inedificabile: e tale
inedificabilità è una qualità obiettiva del fondo, che
inerisce alla proprietà immobiliare e si trasferisce al
trasferimento di questa (fermo restando che, laddove
necessaria per il negozio in seno al quale la cessione è
pattuita, anche la relativa cessione risulterà dalla
trascrizione).
Inoltre, l'esistenza dell'asservimento deve risultare dal
certificato di destinazione urbanistica dell'area, ex art.
art. 30, comma 2, del T.u.e. (D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il concetto di contiguità o vicinanza tra fondi, asservito e
asservente, va inteso in senso relativo, poiché qui si
tratta non di misurare in modo preciso le distanze, ma
semplicemente di garantire il razionale sfruttamento degli
spazi fabbricabili, nel rispetto delle regole di
programmazione territoriale, sicché l’incremento volumetrico
non superi il limite massimo della capacità edificatoria
prevista dallo strumento urbanistico per l’ambito nel quale
è collocata l’area da edificare.
Per fondi contigui o vicini devono, dunque, intendersi
–stando a un consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa- quelli ubicati nella medesimo sottozona
urbanistica, di talché anche una certa qual distanza tra i
due fondi non costituisce ostacolo, se la sottozona
urbanistica è la medesima.
La ratio di tale interpretazione della norma è di
considerare, nella sua complessità, il carico urbanistico
della zona o sottozona, di guisa che i fondi tra i quali
avviene la cessione di cubatura non devono essere
necessariamente adiacenti, purché abbiano la medesima
destinazione urbanistica, siano relativamente vicini e il
fondo asservito resti inedificabile.
In conclusione, lo sfruttamento della cubatura ceduta in un
progetto edilizio, da parte dell'acquirente, è legato a
due condizioni, cioè la omogeneità dell'area
territoriale entro la quale si trovano i due terreni
(cedente la cubatura e ricevente la cubatura oggetto del
contratto) e la relativa vicinanza dei due fondi.
---------------
VII – Anche la terza
doglianza del ricorso va disattesa, poiché –a un attento
esame– si può ritenere che non risulti violata la disciplina
sull’ampiezza minima del lotto da destinare ad attività
produttiva (3.000 mq), stante la vigenza dell’art. 11 delle
N.t.a. del P.d.f. comunale, il quale consente l’asservimento
tra fondi, con riguardo al rispetto dell’indice di
fabbricabilità, mediante un contratto di cessione di
cubatura che, nella specie, è intercorso tra Di Le. Ga. e Di
Le. Fe., con rogito notarile del 03.03.2015.
La natura edificabile di un suolo non viene meno per effetto
delle ridotte dimensioni o della particolare conformazione
del lotto (salvo che gli strumenti urbanistici le
considerino espressamente significative della non
edificabilità), essendo sempre possibile l'accorpamento tra
fondi contigui, ovvero l'asservimento urbanistico a fondo
vicino avente identica destinazione (cfr.: Cass. civile V,
12.05.2010 n. 11433).
Invero, l'atto di asservimento dei suoli, che comporta la
cessione di cubatura tra fondi vicini, è funzionale ad
accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo
dell'utilizzo della cubatura realizzabile in un’altra
particella della stessa zona e del conseguente computo anche
della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del
rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria (cfr.:
Cons. Stato VI, 09.02.2016 n. 547).
La cubatura espressa dal terreno (ossia, la possibilità di
edificare un determinato volume edilizio) è oggetto di un
contratto di trasferimento con il quale il proprietario di
un'area trasferisce a titolo oneroso parte delle sue
possibilità edificatorie a un altro soggetto, allo scopo di
consentire a quest'ultimo di realizzare, nell'area di sua
proprietà, una costruzione di maggiore cubatura, nel
rispetto dell'indice di densità fondiaria.
L'area dalla quale la cubatura è stata sottratta diviene,
per quella parte di cubatura alienata, inedificabile: e tale
inedificabilità è una qualità obiettiva del fondo, che
inerisce alla proprietà immobiliare e si trasferisce al
trasferimento di questa (fermo restando che, laddove
necessaria per il negozio in seno al quale la cessione è
pattuita, anche la relativa cessione risulterà dalla
trascrizione). Inoltre, l'esistenza dell'asservimento deve
risultare dal certificato di destinazione urbanistica
dell'area, ex art. art. 30, comma 2, del T.u.e. (D.P.R.
06.06.2001 n. 380).
Il concetto di contiguità o vicinanza tra fondi, asservito e
asservente, va inteso in senso relativo, poiché qui si
tratta non di misurare in modo preciso le distanze, ma
semplicemente di garantire il razionale sfruttamento degli
spazi fabbricabili, nel rispetto delle regole di
programmazione territoriale, sicché l’incremento volumetrico
non superi il limite massimo della capacità edificatoria
prevista dallo strumento urbanistico per l’ambito nel quale
è collocata l’area da edificare.
Per fondi contigui o vicini devono, dunque, intendersi
–stando a un consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa- quelli ubicati nella medesimo sottozona
urbanistica (cfr.: Cons. Stato V, 13.08.1996 n. 918), di
talché anche una certa qual distanza tra i due fondi non
costituisce ostacolo, se la sottozona urbanistica è la
medesima. La ratio di tale interpretazione della
norma è di considerare, nella sua complessità, il carico
urbanistico della zona o sottozona, di guisa che i fondi tra
i quali avviene la cessione di cubatura non devono essere
necessariamente adiacenti, purché abbiano la medesima
destinazione urbanistica, siano relativamente vicini e il
fondo asservito resti inedificabile (cfr.: Cons. Stato V,
30.10.2003 n. 6734; idem V, 03.03.2003 n. 1172; idem V,
10.03.2003 n. 1278; idem V, 28.06.2000 n. 3637; idem V,
01.10.1986 n. 477; Tar Molise I, 19.01.2004 n. 3; Tar
Sardegna I, 23.02.2000 n. 171).
In conclusione, lo sfruttamento della cubatura ceduta in un
progetto edilizio, da parte dell'acquirente, è legato a
due condizioni, cioè la omogeneità dell'area
territoriale entro la quale si trovano i due terreni
(cedente la cubatura e ricevente la cubatura oggetto del
contratto) e la relativa vicinanza dei due fondi (cfr.: Tar
Lazio Roma II-bis, 10.09.2010 n. 32217; Tar Sicilia Catania
I, 12.10.2010 n. 4113).
Nel caso di specie, si può ritenere che tali condizioni
siano realizzate (TAR
Molise,
sentenza 19.05.2016 n. 219 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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