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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di OTTOBRE 2016

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aggiornamento al 31.10.2016

aggiornamento all'11.10.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.10.2016

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CHAPEAU!!

PUBBLICO IMPIEGO"Nove anni di mobbing per le mie segnalazioni".
Una strada di 423 metri diventò magicamente di 1,7 chilometri. Non potevo restarmene zitto.

«Alla fine, dopo aver girato per mezza Italia, l'Inail mi ha riconosciuto la malattia professionale per mobbing».
L'ingegnere civile Vito Sabato sa bene qual è il prezzo da pagare per chi denuncia le corruttele.
«Inizia tutto nel 2006 -racconta- quando feci una prima segnalazione al Comune di Pavia perché venivano truccate le gare dei lavori stradali: pagavamo fino a tre volte lo stesso committente. In un altro caso abbiamo sborsato soldi senza che fosse eseguita la prestazione». Degli illeciti continui, ai limiti dell'immaginazione.
«Una strada di 423 metri diventò magicamente di un chilometro e sette». E poi, come se non bastasse, nuove segnalazioni sulle irregolarità nelle modalità di assunzione dei dirigenti comunali. Con concorsi banditi e poi revocati «per favoritismi clientelari».
L'ingegnere Sabato ha denunciato, salvo pagarne il conto in termine di carriera e salute. «Siamo al paradosso: mi hanno messo in un settore che non è il mio. E mi sono ritrovato a fare fax e poco altro», racconta Sabato. Una situazione paradossale: «Pensi che il Comune è arrivato a chiedere a me, che sono ancora un suo dipendente, una consulenza su un parcheggio sotterraneo».
L'anno scorso Sabato ha anche ricevuto un simbolico premio produzione, poco meno di 200 euro: lui ha pubblicato copia del bonifico su Facebook e l'ha restituito. Perché sostiene di essere stato messo da parte dal 2007, ormai nove anni fa.
«Cosa vuole che le dica? Io ci ho solo rimesso, anche di salute. Ho subito delle violenze psicologiche aggravate e continuate che hanno influito sulla mia vita privata», racconta il 58enne. «Adesso ho la malattia professionale, ma se tornassi indietro lo rifarei. Non è cambiato nulla ma non potevo scendere a compromessi con la mia coscienza. Forse -conclude Sabato- se la gente si comportasse così in Italia avremmo un po' meno corruzione»
(articolo La Stampa del 12.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

     Basterebbe un solo dipendente così "coraggioso" (che, di questi tempi, significa semplicemente essere "onesto" con sé stesso prima che con gli altri) in ogni ente pubblico perché l'Italia sia concretamente un Paese migliore.
     Auguriamo, sentitamente, una buona vita al Collega ... e non dimentichi che
"il tempo è galantuomo".
31.10.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

 

IN EVIDENZA

REGIONE LOMBARDIA:
ennesima censura della Consulta circa la L.R. 11.03.2005 n. 12!!

     In principio il TAR Lombardia-Milano così statuì:

EDILIZIA PRIVATAIn base all’art. 136 della Costituzione “quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
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L’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità ha effetti erga omnes e retroattivi che si dispiegano su tutti i rapporti giuridici, salvo il limite invalicabile del giudicato, e salvo altresì il limite derivante da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili: la dichiarazione di illegittimità colpisce dunque la norma fin dalla sua origine, eliminandola dall'ordinamento, ricalcandosi così un fenomeno analogo a quello che si verifica in caso di annullamento degli atti giuridici.
In applicazione dell’art. 136 della Costituzione,
la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui all’art. 27, primo comma, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12 ed all’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7, pronunciata con sentenza n. 309/2011, dovrebbe dunque valere anche per il passato.
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Con l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, il legislatore lombardo ha dettato una disposizione che appare in contrasto con gli illustrati principi, stabilendo che “In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, (…) i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…) devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori …”; e stabilendo quindi, nella sostanza, che, in base a questa norma, la dichiarazione di incostituzionalità non rileva per i titoli edilizi rilasciati in epoca anteriore alla pubblicazione della suindicata sentenza.
Con la disposizione in esame, si è dunque prevista un’ipostesi di sanatoria legislativa diretta ad emendare i titoli rilasciati prima della pubblicazione della sentenza n. 309/2011 dal vizio derivante dell’essere tali atti applicativi di disposizioni dichiarate incostituzionali.
Sembra pertanto sussistere il contrasto con i citati artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1.
Si deve invero osservare che
la Regione, con la succitata disposizione, ha compresso il potere di autotutela riservato alle autorità comunali, impedendo loro di intervenire sui titoli edilizi già rilasciati per rendere conforme l’attività di trasformazione del territorio alle disposizioni normative vigenti nell’ordinamento.
Tale compressione si pone in antitesi con i principi di legalità buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dalla suddetta norma costituzionale, in quanto sacrifica in maniera aprioristica i suddetti valori senza richiedere una preventiva concreta comparazione degli interessi coinvolti nel procedimento di autotutela; comparazione invece normalmente richiesta per giustificare il mantenimento in essere di provvedimenti non conformi a legge.
Esempio emblematico di questo ultroneo sacrifico potrebbe essere dato proprio dal caso in esame, nel quale l’autorità amministrativa ha ritenuto di non potere esercitare il proprio potere di autotutela nonostante la fase esecutiva dell’attività edilizia assentita fosse ferma alla fase iniziale e, dunque, non ancora cristallizzato in capo al privato quell’affidamento che, in astratto, giustifica il mantenimento in essere di un titolo illegittimo.
In conclusione,
ritiene questo Giudice rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo, e 97 della stessa Costituzione.”.

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... per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune di Paderno Dugnano, Settore Pianificazione del Territorio, prot. 25093 del 15.05.2012 a mezzo del quale è stata confermata “la validità del permesso di costruire n. 11/10, proprietario sig. Fl.As., alla luce di quanto previsto dalla l.r. n. 7/2012, art. 17, comma 1”;
- di ogni altro atto preordinato, presupposto, consequenziale e/o comunque connesso, ivi compreso il suddetto permesso di costruire n. 11/10 rilasciato al sig. Fl.As..
...
FATTO e DIRITTO
I – In ordine alla vicenda di cui in epigrafe giova, per ogni profilo, riportare integralmente l’intero contenuto della ordinanza di questa Sezione II (ordinanza 20.06.2013 n. 1588 – R.O.C.C. 260), con cui, al tempo, venne rimessa alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità (o meno) relativa al 1° c. dell’art. 17 della l.r. della Lombardia n. 7 del 18.04.2012:
“1. La sig.ra Ro.Ce., odierna ricorrente, è proprietaria di un immobile situato sul territorio del Comune di Paderno Dugnano.
2. L’immobile confina con un’area di proprietà del sig. Fl.As. il quale, in data 09.11.2010, ha ottenuto dal predetto Comune il rilascio di un permesso di costruire per procedere alla ristrutturazione di un edificio ivi insistente.
3. La ricorrente, in data 07.03.2012, ha rivolto all’Amministrazione istanza di autotutela riguardante il suddetto titolo edilizio.
4. Il Comune di Paderno Dugnano, con atto del 15.05.2012, ha respinto l’istanza confermando la validità del permesso di costruire rilasciato.
5. Avverso tale atto ed avverso il citato permesso di costruire è diretto il ricorso in esame.
6. Si sono costituiti in giudizio, per resistere al gravame, il Comune di Paderno Dugnano ed il controinteressato, sig. Fl.As..
7. La Sezione, con ordinanza n. 1188 del 24.08.2012, ha accolto l’istanza cautelare.
8. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le parti costituite hanno depositato memorie, insistendo nelle loro conclusioni.
9. Tenutasi la pubblica udienza in data 03.04.2013, la causa è stata trattenuta in decisione.
10. Come anticipato, con il ricorso in esame, viene impugnato il provvedimento con il quale il Comune di Paderno Dugnano ha respinto l’istanza di annullamento in autotutela di un permesso di costruire rilasciato per la realizzazione di un intervento di ristrutturazione di un edificio ubicato su di un’area attigua a quella di proprietà della ricorrente. Viene altresì impugnato il permesso di costruire, a suo tempo rilasciato al controinteressato.
11. L’intervento oggetto del titolo edilizio avrebbe consentito la demolizione e la ricostruzione dell’edificio con sagoma diversa rispetto a quella originaria.
12. Secondo la parte ricorrente l’illegittimità del titolo edilizio dipenderebbe proprio da quest’ultimo elemento, non essendo ammissibili, a suo dire, interventi classificati come ristrutturazione che comportino la demolizione e la ricostruzione di manufatti senza il rispetto della sagoma originaria.
13. Nell’istanza di autotutela, peraltro, l’interessata ha invocato la sentenza della Corte Costituzionale 21.11.2011 n. 309, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni contenute nell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12/2005, come interpretato dall’art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7/ 2010, il quale definisce ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma. In particolare, tali disposizioni sono state ritenute dalla Corte in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, il quale esclude che possa parlarsi di ristrutturazione nel caso in cui la ricostruzione dell’immobile sia effettuata senza il vincolo di sagoma, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
14. Con il provvedimento di rigetto dell’istanza, l’Amministrazione intimata ha rilevato che, nonostante l’intervento della Corte Costituzionale, l’annullamento del permesso di costruire a suo tempo rilasciato al controinteressato non poteva essere disposto; e ciò in ragione del sopravvenuto art. 17, primo comma, della l.r. n. 7/2012, in forza del quale i titoli edilizi riguardanti gli interventi oggetto della suindicata pronuncia, rilasciati prima del 30.11.2011 e per i quali sia stata protocollata comunicazione di inizio lavori prima del 30.04.2012, debbono ritenersi comunque validi.
15. L’interessata, nel proprio ricorso, sostiene che la norma regionale da ultimo citata sia, e debba essere dichiarata, incostituzionale per contrasto con l’art. 136 Cost. e per contrasto con il principio di retroattività delle sentenze emanate dalla Corte Costituzionale.
16. Prima di affrontare i profili di costituzionalità, dai quali dipende, per come sarà spiegato, l’esito del giudizio, è tuttavia necessario ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
17. In base alla definizione data dall’art. 27, primo comma, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12, sono ricompresi fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quegli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale dell’edificio nel rispetto della volumetria preesistente.
18. La norma, a differenza dell’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, non richiede espressamente che la ricostruzione debba avvenire nel rispetto della sagoma originaria.
19. La giurisprudenza di questo Tribunale aveva proposto (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 16.01.2009 n. 153) una interpretazione armonizzatrice delle due disposizioni, stabilendo che anche per la normativa regionale il rispetto della sagoma fosse requisito imprescindibile ai fini della definizione di ristrutturazione edilizia; e che la mancata esplicita previsione in tal senso da parte della legislazione regionale dovesse considerarsi lacuna colmabile attraverso l’applicazione della norma statale.
20. Questa giurisprudenza è stata però sconfessata dall’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7 (recante “Interpretazione autentica dell’articolo 27, comma 1, lett. d), della legge regionale 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»), il quale ha espressamente previsto che, per la legislazione lombarda, ai fini della definizione di ristrutturazione edilizia, la ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma.
21. Come già anticipato, queste disposizioni sono state censurate dalla Corte Costituzionale, la quale, partendo dal presupposto che l’edilizia costituisce materia di legislazione concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost., con sentenza 21-23.11.2011, n. 309, ha affermato che le disposizioni recate dalla normativa statale in materia di definizione e classificazione degli interventi edilizi costituiscono norme di principio; e che quindi la legislazione regionale non può discostarsi da esse senza scontare il contrasto con la predetta norma costituzionale.
22. Applicando le statuizioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale il ricorso potrebbe essere, quindi, accolto, giacché con esso l’interessata lamenta proprio che il Comune, in applicazione della normativa regionale dichiarata incostituzionale, abbia assentito un intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un edificio senza il rispetto della sagoma originaria.
23. Nel suddetto quadro legislativo si è tuttavia inserito l’art. 17, comma 1, della l.r. 18.04.2012 n. 7, in base al quale “In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…) devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012”.
24. Questa norma, come si vede, dichiara testualmente “validi ed efficaci” i titoli edilizi riguardanti gli interventi oggetto della succitata sentenza n. 309/2011, e cioè gli interventi di ristrutturazione consistenti nella demolizione e ricostruzione senza vincolo di sagoma, a condizione: 1) che il titolo sia stato rilasciato prima del 30.11.2011; 2) che la comunicazione di inizio lavori sia stata protocollata prima del 30.04.2012.
25. Il Collegio si è interrogato, innanzitutto, sull’interpretazione da dare alla norma, per stabilire se di essa si potesse dare una lettura costituzionalmente orientata, tale da escludere la rilevanza della sollevata questione ed evitare un rinvio il cui esito appariva altrimenti scontato.
26. Si sarebbe potuto, infatti, ritenere che, con tale disposizione, il legislatore lombardo avesse semplicemente inteso affermare la persistente efficacia, sino a rimozione giurisdizionale o amministrativa, dei titoli rilasciati; e ciò nonostante l’intervento della Corte Costituzionale sulle norme cui essi danno applicazione.
27. Letta così la norma non avrebbe affermato nulla di più di quanto la dottrina pacificamente sostiene in ordine agli effetti delle sentenze della Corte, che nonostante l’effetto retroattivo delle sue pronunce non travolge né i rapporti conclusi e le situazioni ormai consolidate né, ex se, i provvedimenti adottati dall’amministrazione in base alla norma dichiarata incostituzionale. L’effetto delle sentenze della Corte che rimuovono le norme incostituzionali implica infatti che, in tutte le situazioni in cui i provvedimenti emessi (legittimamente) prima della caducazione della norma sottostante continuino a produrre effetti (non inerendo a un rapporto concluso), l’amministrazione ha il dovere di intervenire in autotutela e di rimuoverli, poiché il principio di affidamento, che pure è un valore costituzionalmente garantito, cessa di essere tale nello stesso momento in cui esso non poggia più su atti legittimi.
28. Se alla norma in questione si fosse data questo significato, per vero assai riduttivo, sterilizzandola da ogni volontà di intervenire per sanare tutti gli abusi commessi prima e dopo la pronuncia della Corte, la conclusione avrebbe potuto essere nel senso che, avendo l’amministrazione intimata richiamato tale norma indicandola espressamente come l’ostacolo all’esercizio del potere di autotutela, il Collegio avrebbe definito il giudizio annullando il provvedimento impugnato per il vizio (ove dedotto) di violazione e/o erronea applicazione di detta norma.
29. Questo esito non è invece possibile, con tutto quanto ne consegue ai fini della rilevanza della questione di costituzionalità che si verrà esponendo, perché l’interpretazione costituzionalmente aderente in precedenza profilata si scontra, a giudizio del Tribunale,, con due argomenti ineludibili quanto dirimenti.
30. Il primo è di carattere letterale: come visto, l’art. 17 cit. non si limita a predicare l’efficacia dei titoli rilasciati ma anche la loro validità (la norma afferma testualmente che i permessi di costruire debbono intendersi “validi ed efficaci”) sottendendo quindi che essi sono intangibili per l’amministrazione che intendesse intervenire in autotutela..
31. Il secondo argomento si basa su criteri logici di interpretazione, ed in particolare sul principio secondo il quale occorre dare alla legge, se possibile, un significato utile. In proposito si osserva che, ove la previsione, come già sopra rilevato, si limitasse a rimarcare la persistente efficacia dei titoli rilasciati, la stessa dovrebbe considerarsi del tutto inutile posto che, già per costante insegnamento giurisprudenziale, la dichiarazione di incostituzionalità di una legge non travolge automaticamente il provvedimento che ne dà applicazione (cfr. Consiglio di Stato, ad plen., 08.04.1983 n. 8).
32. Va peraltro osservato che questa interpretazione limitativa non è stata minimamente seguita dall’Amministrazione intimata, la quale ha ritenuto che l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, lungi dal limitarsi a confermare l’efficacia del titolo in concreto rilasciato, avesse effetto paralizzante sull’esercizio dei propri poteri di autotutela e per questa sola ragione ha respinto l’istanza della ricorrente.
33. Occorre quindi, perché altro non resta, esaminare la seconda opzione ermeneutica.
34. Orbene, se per dare un diverso senso alla norma, si deve ritenere, come ha fatto il Comune di Paderno Dugnano, che la stessa sia volta ad evitare l’annullamento dei titoli ormai rilasciati, allora è chiaro che, indipendentemente dalle modalità con tale effetto si realizza, il suo significato e la sua efficacia deve intendersi nel senso della volontà del legislatore regionale di sanare il titolo edilizio rilasciato in spregio alla (o per meglio dire privando di efficacia la) declaratoria di incostituzionalità contenuta nella sentenza n. 309/2011.
35. Così argomentando altro non può ritenersi se non che il legislatore regionale, con l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, abbia voluto sanare ex post, in via legislativa, i provvedimenti divenuti illegittimi a seguito della suddetta pronuncia di incostituzionalità, impedendo quindi, non solo all’amministrazione ma anche al giudice, di pronunciarne l’annullamento.
36. Tale interpretazione, peraltro è anche la più aderente al dato letterale della norma atteso che, come già rilevato, la stessa afferma testualmente che i titoli rilasciati prima della sentenza della Corte (sia pure a determinate condizioni) debbono considerarsi “validi”.
37. Seguendo questa impostazione si potrebbe prospettare anche una lettura della norma, utile ai soli fini della prospettazione della non manifesta rilevanza della questione di costituzionalità, per cui la volontà del legislatore regionale non fosse tanto quella di introdurre un’ipotesi di sanatoria ex lege, quanto quella di intervenire surrettiziamente sul potere di autotutela riservato all’autorità amministrativa, formulando una valutazione astratta di prevalenza dell’interesse del privato al mantenimento in essere dell’atto rilasciato su quello pubblico volto al ripristino della legalità violata.
38. La disposizione in esame inciderebbe, in questo caso, con effetti paralizzanti, solo sul potere di autotutela. Ma l’effetto paralizzante non sarebbe provocato dalla sanatoria dell’atto illegittimo (che conserverebbe la propria illegittimità e sarebbe per ciò annullabile in sede giurisdizionale) ma dalla suindicata astratta valutazione di prevalenza dell’interesse privato su quello pubblico volto all’annullamento; il che si dedurrebbe dando significativo rilievo all’inciso “al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati”, contenuto nell’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012.
39. Illustrato in tal modo il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, il Collegio deve osservare come, seguendo la seconda delle opzioni ermeneutiche sopra proposte (come detto la prima non regge, se non alle condizioni forzate sopra descritte), la questione di legittimità costituzionale del suddetto art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012 sia, all’evidenza, rilevante e non manifestamente infondata.
40. Prima di procedere oltre occorre, però, un’ulteriore precisazione. Poiché come già detto, il Collegio ritiene che l’interpretazione più aderente al dato letterale e, dunque, più plausibile dell’art. 17 sia quella che attribuisce ad esso (direttamente o indirettamente) effetti sananti, le argomentazioni che verranno sviluppate nel prosieguo muoveranno dal presupposto ovvio che si segua questa interpretazione. In alcuni specifici passaggi si darà peraltro conto delle questioni che si pongono qualora si ritenga che la disposizione abbia solo effetto paralizzante del potere di autotutela.
41. Ciò premesso, per ciò che concerne il profilo della rilevanza si osserva quanto segue.
42. Come anticipato, con l’atto di archiviazione del procedimento di autotutela qui impugnato, il Comune di Paderno Dugnano ha consentito la realizzazione di una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un edificio senza il rispetto del vincolo di sagoma.
43. Applicando la normativa in vigore prima dell’introduzione dell’art. 17 cit., come risultante a seguito della pronuncia di incostituzionalità, il ricorso sarebbe stato, quindi, accolto.
44. Applicando invece quest’ultima disposizione il ricorso dovrebbe essere respinto posto che, nel caso concreto, il permesso di costruire qui avversato è stato rilasciato in data 09.04.2011 (dunque prima del 30.11.2011), ed essendo la relativa comunicazione di inizio lavori stata protocollata in data 14.07.2011 (dunque prima del 30.04.2012). Da qui la rilevanza della questione di legittimità costituzionale ad essa afferente.
45. Prima di procedere oltre il Collegio ritiene, nondimeno, opportuno formulare due ulteriori considerazioni.
46. La prima riguarda l’inciso “fino al momento della dichiarazione di fine lavori”, contenuto nel ridetto art. 17, comma 1, della legge n. 7/2012.
47. Tale inciso, anche se interpretato nel senso (per la verità poco comprensibile) che la validità e l’efficacia del provvedimento vengano meno una volta ultimati i lavori, non è decisivo ai fini della soluzione della presente controversia, posto che nel caso concreto la comunicazione di fine lavori, al momento di rilascio degli atti impugnati, non era ancora intervenuta. L’effetto sanante (o paralizzante sul potere di autotutela) della disposizione è dunque ancora operante; con la conseguenza che, in applicazione di essa, questo giudice dovrebbe comunque disporre il rigetto del ricorso.
48. La seconda considerazione si ricollega alle eccezioni di tardività ed inammissibilità sollevate dalle parti resistenti.
49. Queste sostengono invero che il ricorso, nella parte in cui si rivolge avverso il permesso di costruire, sarebbe irricevibile per tardività della notifica; e che lo stesso ricorso, nella parte in cui si rivolge avverso l’atto di rifiuto dell’esercizio del potere di autotutela, sarebbe inammissibile in quanto diretto contro un atto meramente confermativo del precedente titolo edilizio.
50. Tale eccezione potrebbe considerarsi decisiva ai fini della rilevanza della questione posto che:
   a) secondo una consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, le pronunce della Corte Costituzionale che colpiscono le norme applicate dalla pubblica amministrazione nell’esercizio dei propri poteri autoritativi non incidono sui rapporti esauriti;
   b) devono considerarsi esauriti i rapporti regolati da provvedimenti divenuti inoppugnabili per decorrenza dei termini di impugnazione giurisdizionale (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen n. 8/1983 cit.);
   c) e che quindi il rigetto del presente ricorso potrebbe essere disposto anche a prescindere dall’applicazione della norma contenuta nell’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012, ove si ritenesse che il rapporto fra p.a. e controinteressato sia, nel caso concreto, definitivamente disciplinato dal permesso di costruire n. 11/2010, ormai divenuto inoppugnabile e, dunque, immune alle statuizioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011.
51. Ritiene tuttavia il Collegio che la regolazione del rapporto fra p.a. e controinteressato, nel caso concreto, non si sia cristallizzata nel succitato permesso di costruire; e ciò in quanto il Comune, a seguito dell’istanza della ricorrente, ha avviato un procedimento di annullamento in autotutela del titolo edilizio rilasciato, culminato con l’adozione del provvedimento di archiviazione, anch’esso avversato in questa sede.
52. Attraverso il nuovo procedimento l’autorità amministrativa ha quindi rinnovato l’istruttoria, nel corso della quale sono stati valutati elementi in precedenza non presi in considerazione, ed in particolare sono state per la prima volta affrontate proprio le questioni di legittimità connesse alla compatibilità costituzionale delle disposizioni regionali che ascrivono alla categoria della ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo di sagoma.
53. Il Comune, invero, invece di rilevare l’inutilità del riesame, stante l’ininfluenza della sentenza della Corte Costituzionale sul permesso di costruire rilasciato e ormai divenuto inoppugnabile, ha delibato la questione giungendo alla conclusione di non annullare l’atto in ragione del sopravvenuto dettato legislativo (significativo in proposito è l’atto di avviso di avvio del procedimento inoltrato al controinteressato, nella parte in cui il Comune manifesta esplicitamente l’intenzione di stabilire se sussistano i presupposti per esercitare il potere di autotutela in ragione dell’intervenuta sentenza di incostituzionalità delle disposizioni che disciplinavano l’intervento).
54. Ne consegue che, in esito al suddetto procedimento, è stato adottato un provvedimento che non può considerarsi meramente confermativo del precedente permesso di costruire: tale atto, difatti, pur confermando, attraverso l’archiviazione del procedimento, il contenuto dispositivo del precedente, fa ciò muovendo da nuove valutazioni ed in applicazione di una normativa, l’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012 , che all’epoca di adozione del primo provvedimento non era neppure in vigore e che ha consentito di ritenere la validità di un provvedimento altrimenti suscettibile di di declaratoria di illegittimità.
55. Il provvedimento di archiviazione del procedimento di autotutela va dunque qualificato come atto di natura sostanziale con cui, mediante la formulazione di nuove valutazioni espresse in seno ad una rinnovata istruttoria, si è affermata la validità del permesso di costruire a suo tempo rilasciato e si è, di conseguenza, confermato il suo contenuto dispositivo.
56. In tale contesto non può negarsi la sussistenza di una sopravvenuta manifestazione di volontà dell’Ente che si aggiunge a quella originaria e che concorre con la prima nel determinare la regolazione del rapporto intercorrente con il controinteressato destinatario del titolo edilizio. Come detto, l’atto in parola non può pertanto considerarsi meramente confermativo del precedente.
57. Il rinnovato esercizio del potere ha dunque riaperto i termini di impugnazione. Ne discende che, ai fini che qui rilevano, il rapporto fra p.a. e controinteressato non può dirsi esaurito (il provvedimento di archiviazione del procedimento di autotutela è stato infatti ritualmente impugnato); e che, quindi, il rigetto o l’accoglimento del ricorso stesso non possono che dipendere dall’applicazione del ridetto art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012.
58. Tutto il ragionamento sin qui svolto, si fonda, come anticipato, sul presupposto che si segua l’interpretazione dell’art. 17 preferita dal Collegio; tuttavia anche qualora si ritenga che la suddetta norma abbia effetti meramente paralizzanti sul potere di autotutela le conclusioni non muterebbero.
59. Va invero osservato che, secondo la giurisprudenza, l’intervenuta inoppugnabilità del provvedimento non impedisce alla pubblica amministrazione di annullare l’atto illegittimo per sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata nell’esercizio del potere: l’inoppugnabilità determina dunque l’esaurimento del rapporto solo nei confronti del privato, interessato ad ottenere l’annullamento del provvedimento in sede giurisdizionale, ma non nei confronti della pubblica amministrazione che, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale, può sempre esercitare i propri poteri di autotutela non soggetti a limiti temporali di decadenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.06.2003 n. 3458; TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 17.11.2007 n. 1721).
60. In proposito va peraltro soggiunto che, in base ad un’opinione dottrinale, il potere di annullamento in autotutela di un titolo edilizio non potrebbe più esercitarsi quando i lavori siano ultimati, giacché in tal caso il rapporto dovrebbe considerarsi esaurito. Tale principio tuttavia non opera nel caso di specie posto che, come anticipato, all’epoca di emanazione dell’atto di archiviazione del procedimento di autotutela, i lavori non erano ancora stati ultimati.
61. Da tutto ciò consegue che, anche se si volesse ritenere che, nella fattispecie concreta, il predetto atto di archiviazione del procedimento non abbia valenza di atto sostanziale di conferma di validità del permesso di costruire rilasciato (come sopra si è sostenuto), ma abbia valenza di atto di rifiuto dell’esercizio del potere di autotutela, anche in questo caso la questione di legittimità costituzionale conserverebbe rilevanza, posto che tale rifiuto è stato opposto alla ricorrente esclusivamente in applicazione della disposizione di cui all’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, al quale dunque anche questo giudice dovrebbe dare applicazione per rigettare il ricorso.
62. Va pertanto ribadita la rilevanza della questione di legittimità costituzionale riguardante la suddetta norma.
63. Può ora passarsi all’esame del profilo inerente la non manifesta infondatezza, in ordine al quale si svolgono le seguenti considerazioni.
64. Ritiene innanzitutto il Collegio che l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012 possa essere in contrasto con l’art. 136, comma primo, Cost. e con l’art. 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1.
65. In base all’art. 136 della Costituzione “
quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
66. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 30, comma 3, della legge 11.03.1953 n. 87.
67. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha insegnato che, nonostante la loro non chiarissima formulazione, la disposizioni suindicate debbono interpretarsi, avuto anche riguardo al disposto dell’art. 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nel senso che
l’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità ha effetti erga omnes e retroattivi che si dispiegano su tutti i rapporti giuridici, salvo il limite invalicabile del giudicato, e salvo altresì il limite derivante da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili: la dichiarazione di illegittimità colpisce dunque la norma fin dalla sua origine, eliminandola dall'ordinamento, ricalcandosi così un fenomeno analogo a quello che si verifica in caso di annullamento degli atti giuridici (cfr. Corte Costituzionale sent. 25.03.1970 n. 49; id. sent. 15.12.1966 n. 127).
68. In applicazione dell’art. 136 della Costituzione,
la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui all’art. 27, primo comma, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12 ed all’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7, pronunciata con sentenza n. 309/2011, dovrebbe dunque valere anche per il passato.
69. Sennonché, come visto,
con l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, il legislatore lombardo ha dettato una disposizione che appare in contrasto con gli illustrati principi, stabilendo che “In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, (…) i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…) devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori …”; e stabilendo quindi, nella sostanza, che, in base a questa norma, la dichiarazione di incostituzionalità non rileva per i titoli edilizi rilasciati in epoca anteriore alla pubblicazione della suindicata sentenza.
70.
Con la disposizione in esame, si è dunque prevista un’ipostesi di sanatoria legislativa diretta ad emendare i titoli rilasciati prima della pubblicazione della sentenza n. 309/2011 dal vizio derivante dell’essere tali atti applicativi di disposizioni dichiarate incostituzionali.
71.
Sembra pertanto sussistere il contrasto con i citati artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1.
72. Il Collegio ritiene inoltre che possa anche profilarsi il contrasto con l’art. 117, comma terzo, della Costituzione.
73. Difatti, nel sancire la validità dei permessi di costruire rilasciati anteriormente al 30.11.2011, l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012 interviene, nella sostanza, ancora una volta sulla disciplina inerente la definizione e classificazione degli interventi edilizi (materia, come detto, ritenuta dalla Corte riconducibile a quelle di legislazione concorrente), ribadendo la possibilità di ascrivere alla categoria delle ristrutturazioni interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione di edifici senza vincolo di sagoma, e ciò perlomeno con riferimento agli interventi i cui titoli autorizzativi siano stati rilasciati entro la predetta data.
74. Sembra pertanto che la normativa denunciata sia in contrasto con la normativa statale di principio contenuta nell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (che, come detto, impone invece il rispetto del limite di sagoma), e ripeta per ciò il vizio di violazione dell’art. 117, comma terzo, Cost. già rilevato con la sentenza n. 309/2011.
75. Da ultimo il Collegio osserva che, ove si ritenesse che l’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012, abbia valenza non già di norma sanante ma di norma meramente paralizzante il potere di autotutela (come sopra precisato) possa, in tal caso, profilarsi un evidente contrasto con l’art. 97 della Costituzione.
76. Si deve invero osservare che
la Regione, con la succitata disposizione, ha compresso il potere di autotutela riservato alle autorità comunali, impedendo loro di intervenire sui titoli edilizi già rilasciati per rendere conforme l’attività di trasformazione del territorio alle disposizioni normative vigenti nell’ordinamento.
77.
Tale compressione si pone in antitesi con i principi di legalità buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dalla suddetta norma costituzionale (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 26.02.2013 n. 1186), in quanto sacrifica in maniera aprioristica i suddetti valori senza richiedere una preventiva concreta comparazione degli interessi coinvolti nel procedimento di autotutela; comparazione invece normalmente richiesta per giustificare il mantenimento in essere di provvedimenti non conformi a legge.
Esempio emblematico di questo ultroneo sacrifico potrebbe essere dato proprio dal caso in esame, nel quale l’autorità amministrativa ha ritenuto di non potere esercitare il proprio potere di autotutela nonostante la fase esecutiva dell’attività edilizia assentita fosse ferma alla fase iniziale e, dunque, non ancora cristallizzato in capo al privato quell’affidamento che, in astratto, giustifica il mantenimento in essere di un titolo illegittimo.
78. In conclusione,
ritiene questo Giudice rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo, e 97 della stessa Costituzione.”.


II – In esito a quanto sopra, come integralmente riportato, veniva adottata dalla Corte Costituzionale l’Ordinanza n. 35 del 12.03.2015 con la quale sono stati rinviati i relativi atti a questo remittente Giudice al fine di scrutare le attualità della rilevanza della detta questione alla stregua dell’intervento del legislatore statale che, con il DL n. 69 del 21.06.2013 (e.c. 98/13) –tramite il contenuto dell’art. 30–, ha tolto di mezzo l’obbligo, già disposto dall’art. 3, 1° c., del dpr 380 del 2001, del rispetto, nell’attività edilizia connesse alla cd. ristrutturazione, della sagoma strutturale in essere precedentemente.
II.1 – Sicché ed in necessaria sintesi, la sagoma preesistente –ovviamente nell’ambito della suddetta attività specifica di trasformazione materiale dell’esistente– non rileva ora, come per il passato, quale elemento che, se non rispettato, finiva coll’allocare l’opus “rifatto” tra le nuove costruzioni; ciò secondo giurisprudenza costante e del tutto consolidata.
II.2 – In buona sostanza il detto rinvio a questo Giudice è il risultato di tale intervento normativo statale che, nello specifico, altrimenti così finisce col ridefinire solo sostantivi di specie analoghi a quelli di cui all’art. 27, 1° c., lett. d), della l.r. n. 12 del 2005.
III – Rileva così, per altro aspetto, il fatto che tale ultima articolata normativa regionale sia stata annullata, nella parte in cui il legislatore regionale stesso non aveva previsto, al tempo ed in modo esplicito, l’obbligo del rispetto delle sagome preesistenti nelle cd. ristrutturazioni: tutto ciò rafforzando poi con interpretazione autentica tramite l’art. 22 della l.r. n. 7 del 2010. In tale modo tuttavia provocando il rinvio inerente di questo Giudice alla Corte Costituzionale che ha poi preso posizione con la detta sentenza n. 309 del 2011. La quale ultima ha sancito come incostituzionale la citata norma regionale di cui all’art. 27, 1° c., lett. d, della L. Lombardia n. 12 del 2005.
IV – Nel prosieguo il medesimo legislatore regionale ha, tuttavia, approvato la l.r. citata sub I del 2012, la quale ha determinato, nel corso della presente causa, il diverso rinvio alla Corte ut supra delinato ancora sub 1 (l.r. n. 7 del 2012 art. 17).
V – Da quanto illustrato e riportato ne consegue la necessità di scrutare se vi sia ancora rilevanza della inerente questione, proprio alla luce degli apporti normativi statali di cui al citato DL n. 69 del 2013.
VI – A tale ultimo specifico riguardo si osserva che il contenuto statuitivo di cui all’art. 30 del d.l. n. 69 del 2003 (entrata in vigore il 22.06.2013), non ha portata retroattiva intanto in quanto da luogo ad una diversa composizione funzionale del concetto di ristrutturazione si ampliarne, in modo del tutto nuovo, il contenuto materiale.
Parimenti si può escludere che tale norma statale proprio per evidenti ragioni lessicali, assuma le caratteristiche di interpretazione autentica. Del resto basta rifarsi alla sentenza della Corte Costituzionale n. 209 del 2011.
VI – I – Inoltre la giurisprudenza amministrativa ha sempre escluso che le attività di ristrutturazione edilizia potessero legittimamente dar luogo ad una struttura materiale del tutto non conforme a quella sagoma edilizia in essere prima dell’intervento materiale finale.
VI – II – Inoltre questo stesso Giudice ha più volte escluso che la detta nuova normativa statale del 2013, sopra menzionata, fosse veicolo di interpretazione autentica dell’art. 3, 1° c., del dpr 380 del 2001 (sentenza n. 617 del 2015 e n. 720 del 2015). La ratio legis di tale ultimo intervento statale è poi ben noto ed è anche dovuto a circostanze particolari di profilo economico e sociale: quand’anche per necessità di semplificazione.
VII – Da tutto ciò consegue la persistente attualità della rilevanza della questione al tempo veicolata con l’ordinanza n. 1588 del 2013.
VII – I – D’altro canto non è possibile per questo Giudice conferire ex se alla sentenza della Corte n. 309 del 2011 una portata tale da determinare la disapplicazione della norma di cui all’art. 17 della l.r. n. 7 del 2012 che, nella sostanza, finisce con lo sterilizzare ratione temporis la portata di tale medesima sentenza della Corte.
VIII – Le ragioni della attualità della rilevanza di specie, vanno così ritrovate e rinvenute in quelle stesse sopra delineate con l’ordinanza n. 1588 del 2013. Analogo riferimento può declinarsi con riguardo alla già scrutata manifestata infondatezza. Del resto l’ostacolo normativo è, anche ad oggi, insormontabile.
IX – E solo il caso di ricordare che tutte le eccezioni postulate come ostacolo ad una trattazione di merito specifico, sono state già superate e disattese.
X – E da tutto ciò ancora la sospensione del presente giudizio con ritrasmissione degli atti relativi alla On. Corte Costituzionale.
P.Q.M.
I Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda)
dichiara ancora rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo e 97 della stessa Costituzione.
Dispone la sospensione del presente giudizio.
Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordine che, a cura della Segretaria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente della Giunta Regionale della Lombardia e comunicata al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia (TAR Lombardia, Sez. II, sentenza 05.11.2015 n. 2342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).


     E la Consulta ha dato ragione al TAR Milano:
 

EDILIZIA PRIVATA: Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7.
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Art. 17, c. 1, l.r. Lombardia n. 7/2012 – Interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sent. Corte Cost. n. 309/2011 – Conservazione degli effetti della norma dichiarata illegittima – Illegittimità costituzionale.
L’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione), nel prevedere, in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sent. Corte Cost. n. 309 del 2011, che i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (data di pubblicazione della sentenza citata), nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data, siano considerati titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, conservando o ripristinando gli effetti della norma dichiarata illegittima.
Essa, infatti, mira a convalidare e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta applicazione della precedente normativa regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata sentenza n. 309 del 2011, i cui effetti la disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.
La disposizione regionale deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost.
(massima tratta da www.ambientediritto.it).
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Considerato in diritto
1.– Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con ordinanza 05.11.2015 (r.o. n. 21 del 2016  - sentenza 05.11.2015 n. 2342), solleva questioni di costituzionalità dell’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione), il quale, in relazione agli «interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza n. 309 del 2011», «al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati», prescrive che i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (data di pubblicazione della sentenza citata), nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data, siano considerati titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012.
Ad avviso del rimettente, tale disposizione violerebbe l’art. 136 della Costituzione e l’art. 1 della legge costituzionale 09.02.1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale), in quanto limiterebbe gli effetti per il passato della sentenza di questa Corte n. 309 del 2011, escludendo che la perdita di efficacia delle disposizioni, dichiarate costituzionalmente illegittime da tale sentenza, rilevi per i titoli edilizi rilasciati in base alle stesse disposizioni prima della pubblicazione della sentenza (a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012).
Sarebbe altresì violato l’art. 117, comma terzo, Cost., in relazione all’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – testo A) – nella versione anteriore alle modifiche di cui all’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98 – in quanto verrebbero affermate la validità e l’efficacia di titoli edilizi riferiti a interventi di ristrutturazione di edifici mediante demolizione e ricostruzione con sagoma diversa, in violazione del principio fondamentale della legislazione statale, che la sentenza n. 309 del 2011 ha desunto dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2011, nel testo allora vigente, secondo il quale rientravano nella definizione di ristrutturazione edilizia solo gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all’edificio preesistente.
In subordine, qualora il censurato art. 17, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 7 del 2012 fosse interpretato nel senso (non di affermare la validità e l’efficacia dei titoli edilizi ivi considerati, bensì più limitatamente) di paralizzare in via generale e astratta il potere di autotutela dell’amministrazione in relazione ad atti basati sulle disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime dalla sentenza n. 309 del 2011, sarebbe violato l’art. 97 Cost.: così intesa, la norma regionale sacrificherebbe aprioristicamente la legalità e il buon andamento della pubblica amministrazione, impedendo una comparazione in concreto, in sede di autotutela, tra gli interessi generali e quelli privati coinvolti in ciascuna fattispecie.
2.1.– Preliminarmente, considerato che il rimettente ripropone questioni già sollevate dinanzi a questa Corte, in relazione alle quali è stata disposta la restituzione degli atti (ordinanza n. 35 del 2015), occorre verificare se il giudice abbia assolto all’onere di riesaminare la rilevanza e i termini delle stesse questioni, alla luce delle novità normative, in termini non implausibili (ex plurimis, sentenze n. 162 e n. 46 del 2014, n. 321 del 2011).
La verifica ha esito positivo. Il giudice ha esaminato l’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla legge n. 98 del 2013, ne ha argomentato il carattere innovativo ed ha escluso la sua applicabilità ai fatti di causa, in particolare perché i provvedimenti impugnati sono anteriori alla nuova normativa. Così facendo, il giudice ha fatto plausibile applicazione del principio secondo cui «lo ius superveniens non può venire in evidenza nel giudizio di costituzionalità sollevato dai giudici amministrativi poiché, secondo il principio tempus regit actum, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione”» (sentenza n. 49 del 2016; si veda anche sentenza n. 30 del 2016).
2.2.– Neppure osta all’ammissibilità la circostanza che il TAR abbia fatto ampio riferimento alla propria precedente ordinanza di rimessione, integralmente riportata nella nuova, con l’aggiunta di considerazioni, sia pure sintetiche, sul carattere innovativo e non retroattivo dello ius superveniens.
Il giudice rimettente deve fornire, nell’atto di promovimento, un’esauriente ed autonoma motivazione, mentre il mero recepimento di argomenti sviluppati dalle parti o rinvenuti nella giurisprudenza, anche costituzionale, non basta di per sé a chiarire «le ragioni per le quali “quel” giudice reputi che la norma applicabile in “quel” processo risulti in contrasto con il dettato costituzionale» (sentenza n. 22 del 2015). Ciò non impedisce che il rimettente riferisca il contenuto di pronunce della Corte costituzionale o di altri atti del procedimento a quo, purché corroborato da proprie considerazioni con le quali illustri, in relazione al giudizio principale, le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale prospettate a questa Corte (sentenze n. 51 e n. 10 del 2015).
3.–
Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. e all’art. 1 della l. cost. n. 1 del 1948 è fondata.
Questa Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis, sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima.
Tale è il caso della disposizione impugnata, emanata al dichiarato «fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati» in relazione agli «interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza n. 309 del 2011». Essa, come risulta esplicitamente dal suo tenore letterale, mira a convalidare e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta applicazione della precedente normativa regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata pronuncia di questa Corte, i cui effetti la disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.
A nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti successivamente intervenuti nella legislazione statale, che hanno rimosso il divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, su cui si fondavano le dichiarazioni di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza n. 309 del 2011: come già precedentemente osservato, l’odierna questione e la norma che ne costituisce oggetto concernono situazioni anteriori a tale innovazione della legislazione statale e non sono da essa interessate.
Per questi motivi la disposizione impugnata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta assorbito ogni altro motivo di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione) (Corte Costituzionale, sentenza 20.10.2016 n. 224).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte costituzionale ritorna sulle conseguenze della violazione del c.d. giudicato costituzionale.
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Corte costituzionale - Giudicato costituzionale – Mantenimento in vigore di norme dichiarate incostituzionali – Incostituzionalità.
E' incostituzionale, per violazione dell'art. 136 Cost., la norma statale o regionale che interviene al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia di incostituzionalità, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, quanto previsto dalla norma dichiarata illegittima (fattispecie relativa all'art. 17, comma 1, l.reg. Lombardia 18.04.2012, n. 7 che -in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 2011- prescrive che i titoli edilizi rilasciati alla data di pubblicazione della sentenza stessa siano considerati titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012) (1).
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(1)
Con una sentenza tanto snella quanto decisa, la Consulta accoglie una questione di costituzionalità sollevata dal Tar Milano (Sez. II, sentenza 05.11.2015 n. 2342) e con l’occasione ribadisce le regole fondamentali in tema di giudicato costituzionale, in specie rispetto ai limiti per il legislatore (nella specie regionale) che tenti di ridare vita a norme già cadute sotto la censura di incostituzionalità della stessa Corte.
La peculiarità della decisione deriva dal fatto che la norma regionale oggetto di censura costituisce una riedizione di una precedente disposizione già oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale su rimessione del medesimo giudice amministrativo.
Infatti, con sentenza 23.11.2011, n. 309 (in Giur. cost. 2011, 6, 4311 con nota Gorlani, sempre su ordinanza di rimessione del Tar per la Lombardia), la Corte aveva già dichiarato costituzionalmente illegittime una serie di norme regionali, fra cui l'art. 22, l.reg. Lombardia 05.02.2010, n. 7; in particolare tale ultima disposizione –a propria volta recante interpretazione autentica di altra precedente legge regionale del 2005– nello stabilire che la ricostruzione dell'edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma, è stata reputata in contrasto con il riparto di competenza di cui all’art. 117, comma 3, Cost., in materia di governo del territorio, in quanto in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001 t.u. edilizia, che definisce gli "interventi di ristrutturazione edilizia".
Il legislatore regionale, pur dinanzi a tale annullamento, ha adottato la norma oggetto della sentenza in commento, in base alla quale sono dichiarati “validi ed efficaci” i titoli edilizi riguardanti gli interventi edilizi oggetto della succitata sentenza n. 309 del 2011, e cioè gli interventi di ristrutturazione consistenti nella demolizione e ricostruzione senza vincolo di sagoma, a condizione che:
   a) il titolo sia stato rilasciato prima del 30.11.2011;
   b) la comunicazione di inizio lavori sia stata protocollata prima del 30.04.2012.
La Consulta -oltre a censurare l’ultra vigenza di titoli adottati sulla base di una legge dichiarata incostituzionale, per questa via ribadendo la competenza legislativa statale in materia di definizione e classificazione degli interventi edilizi (Corte cost. 09.03.2016, n. 49, in Rivista Giuridica dell'Edilizia 2016, 1-2, I, 8 con nota di STRAZZA, secondo cui: <<Nell’ambito della materia concorrente “governo del territorio”, prevista dall’art. 117, comma 3, cost., i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la d.i.a. e per la s.c.i.a. che, seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi>>)- conferma la palese illegittimità costituzionale della norma, richiamando i propri precedenti applicativi dell’art. 136 Cost..
In particolare, la Corte ribadisce (da ultimo 16.07.2015 n. 169, in Giustizia civile, 2015, 27 luglio con nota di DI MARZIO) l’inammissibilità di disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, intervenga al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima.
Più in generale, sul c.d. giudicato costituzionale merita di essere altresì richiamata la più risalente giurisprudenza costituzionale secondo la quale, perché vi sia violazione del giudicato costituzionale, è necessario che una norma ripristini o preservi l'efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale. In particolare il rigore del citato precetto costituzionale impone al legislatore di “accettare la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della norma illegittima”, anziché “prolungarne la vita” sino all'entrata in vigore di una nuova disciplina del settore  e che «le decisioni di accoglimento hanno per destinatario il legislatore stesso, al quale è quindi precluso non solo il disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e raggiungere, “anche se indirettamente”, esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione
» (19.07.1983, n. 223, in Foro it. 1983, I, 2057).
Per più recenti pronunce in materia di violazione del giudicato costituzionale e sue conseguenze sulla legislazione residua v. Corte cost. 23.04.2013, n. 72, in Foro it., 2014, I, 2273, ivi gli ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza; Cass. pen., sez. un., 28.07.2015, n. 33040, Jazouli, id., 2015, II, 694, con nota di LO FORTE (
Corte Costituzionale, sentenza 20.10.2016 n. 224 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIllegittima la sanatoria lombarda. Ristrutturazioni. La Consulta boccia la legge sulle sagome anteriori al 2013.
Il giudice delle leggi rimprovera la Regione Lombardia, pretendendo il rispetto delle proprie pronunce: con la sentenza 20.10.2016 n. 224 la Consulta dichiara illegittima la legge regionale 7/2012, in materia di ristrutturazione edilizia. La materia del contendere sono le costruzioni realizzate tra il 2011 ed il 2012, ma vi sono tuttavia importanti affermazioni sul potere di autotutela, che in edilizia trova spazio quando si chiede di intervenire su provvedimenti taciti (Scia).
La Corte costituzionale si è occupata del concetto di “sagoma” delle costruzioni: secondo la Regione (Lr 12/2005, articolo 27) le ristrutturazioni (demolizione e ricostruzione) potevano avvenire anche con diversa sagoma, ad esempio con disegno speculare o torrini e piattaforme non presenti nel fabbricato demolito, cosa esclusa dalla sentenza 309/2011 della Consulta perché prevale il Testo unico statale dell’edilizia (380/2001). Secondo la Corte, la Regione ha competenza sul territorio, non sul paesaggio, al quale appartiene il concetto di sagoma.
Nel 2013, il Dl 69 ha rimediato, consentendo ristrutturazioni anche senza il rispetto della sagoma preesistente. Per titoli edilizi con sagome alterate rilasciati prima del Dl, la Lombardia ha varato una sostanziale sanatoria (Lr 7/2012), sulla quale la Consulta ritiene sia stato aggirato il proprio orientamento del 2011.
Se il giudice delle leggi censura una norma, questa perde efficacia fin dall’origine (articolo 136 della Costituzione e 30 della legge 87/1953) e quindi si intende annullata retroattivamente. Solo in rari casi le sentenze della Consulta non hanno un effetto integralmente demolitorio, come avvenuto con la 10/2015 sull’Ires. In questo caso, il contrasto col legislatore lombardo avrà conseguenze limitate: si discute di pochi manufatti e in particolare di un edificio a Besozzo (9mila abitanti in provincia di Varese), demolito e ricostruito con diversa sagoma, generando il ricorso di un vicino proprietario.
L’edificio, secondo il principio espresso dalla Consulta, non può considerarsi sanato dalla legge statale 63/2013 (che ammette oggi ristrutturazioni con diversa sagoma), ma probabilmente potrebbe fruire di una sanzione relativamente modesta. Infatti, pur essendo stato edificato con un titolo illegittimo, potrebbe comunque essere ricostruito con le stesse caratteristiche. Al vicino litigioso spetta solo il risarcimento del danno per il periodo in cui ha subìto il disagio di un fabbricato con sagoma irregolare.
Più delicato il passaggio in cui la Corte si occupa dell’interesse pubblico a reprimere abusi che successivamente siano considerati irrilevanti. Il principio della legge più favorevole è codificato (articolo 2 del Codice penale) per le sanzioni penali. Ma di fatto trova spazio anche nelle vicende amministrative, sotto forma di ragionevole motivazione sull’opportunità di ripristinare una situazione superata da leggi sopravvenute
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Corte Costituzionale: è illegittima la L.R. Lombardia 7/2012 "salva" ristrutturazioni edilizie ante 30.11.2011 senza rispetto della sagoma.
Con sentenza 21.11.2011 n. 309, la Corte Costituzionale dichiarò l'incostituzionalità:
• dell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nella parte in cui escludeva l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione; dell’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) (testo A);
• dell’art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica ed integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010),
confermando la fondatezza della eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal TAR Lombardia con l'ordinanza n. 5122 del 07.09.2010, ossia che non c'é spazio per una definizione di ristrutturazione edilizia diversa da quella indicata dal legislatore nazionale nell'articolo 3 del DPR 380/2011.
Al fine dichiarato di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, nel 2012 la Regione Lombardia intervenne sulla legge n. 12 del 2005 disponendo la salvezza dei permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data (Art. 17. "Disciplina dei titoli edilizi di cui all'articolo 27, comma 1, lettera d), della l. r. 12/2005 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011", L.R. 08.04.2012, n. 7, Misure per la crescita, lo sviluppo e l'occupazione).
Adito dalla proprietaria di un immobile, sito nel territorio del Comune di Paderno Dugnano, confinante con un’area nella quale il Comune ebbe ad autorizzare, con permesso di costruire, un intervento di ristrutturazione mediante demolizione dell’edificio esistente e ricostruzione con sagoma diversa, con ordinanza del 05.11.2015 il TAR Lombardia sollevò la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della L.R. 7/2012, in riferimento al Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69.
Con sentenza 20.10.2016 n. 224, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della L.R. 7/2012.
Stigmatizzando la norma lombarda, i giudici costituzionali hanno condiviso la fondatezza della questione di illegittimità costituzionale della normativa lombarda sottolineando:
• che la Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis, sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima;
• tale è il caso della disposizione impugnata, emanata al dichiarato «fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati» in relazione agli «interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza n. 309 del 2011»;
• essa, come risulta esplicitamente dal suo tenore letterale, mira a convalidare e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta applicazione della precedente normativa regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata pronuncia di questa Corte, i cui effetti la disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare;
• a nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti successivamente intervenuti nella legislazione statale, che hanno rimosso il divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, su cui si fondavano le dichiarazioni di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza n. 309 del 2011: come già precedentemente osservato, la questione e la norma che ne costituisce oggetto concernono situazioni anteriori a tale innovazione della legislazione statale e non sono da essa interessate.
Per questi motivi la disposizione impugnata è stata ritenuta costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta assorbito ogni altro motivo di censura (23.10.2016 - commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAIntesa sul regolamento edilizio unico. Entro sei mesi il recepimento delle Regioni, poi altri sei mesi per l’adozione nei Comuni.
Semplificazioni. Ieri la firma fra Infrastrutture, governatori e sindaci - In arrivo 42 definizioni standard valide per tutti gli enti locali

Accordo fatto sullo schema di regolamento edilizio nazionale, la principale riforma promessa dal governo Renzi in materia di semplificazione e vero “pezzo forte” dell’agenda sulle semplificazioni edilizie.
Il traguardo –storico– è stato raggiunto ieri in conferenza unificata, dopo una lunga e non facile discussione avviata a maggio del 2015 al tavolo presso il ministero guidato da Graziano Delrio con i rappresentanti di Comuni e Regioni.
A partire da oggi le Regioni hanno sei mesi di tempo per recepire lo schema di regolamento con un proprio provvedimento (legge o delibera). A partire dal recepimento regionale, gli enti locali avranno altri sei mesi per adottarlo. In altre parole –se tutto fila liscio e al limite massimo dei tempi fissati– in un anno il regolamento edilizio standard si trasformerà in realtà nei vari municipi d’Italia. C’è comunque da ricordare che l’impegno sottoscritto ieri riguarda in prima battuta le Regioni a statuto ordinario, ed è opzionale per quelle a statuto speciale.
Lo schema di regolamento edilizio approvato ieri si compone di tre parti: lo schema guida per la redazione del regolamento più due allegati.
Il cuore innovativo del regolamento sta negli allegati. L’allegato “a” elenca le 42 definizioni standard «uniformi» valide per tutti gli enti locali. È la prima volta che ci si mette d’accordo su un vocabolario unico per definire, per esempio, la «superficie netta», la «superficie utile» oppure anche solo l’«altezza dell’edificio».
Altrettanto rivoluzionario l’allegato “b” che elenca 118 norme statali che hanno un impatto sull’edilizia. L’aspetto innovativo sta nel fatto che, nel nuovo regolamento comunale, qualsiasi norma statale viene richiamata esclusivamente attraverso il rinvio all’allegato “b”. In questo modo si mette fine alla prassi che ha finora visto i Comuni accogliere e fissare nei loro regolamenti norme statali –o anche solo pezzi di norme nazionali– che magari venivano poi modificate dal legislatore statale.
In altre parole il regolamento unico spazza via l’attuale babele che si è creata negli anni a causa della “personalizzazione” municipale. Infine c’è lo schema unico, che rappresenta una guida per la redazione, e ha la forma di un indice, che spetta al Comune riempire di contenuti.
Fin qui lo schema generale. C’è da dire che il regolamento unico in realtà non sarà unico. Ciascuna regione può infatti aggiungere proprie norme che hanno incidenza sull’attività edilizia, e di cui il comune dovrà tenere conto. Non solo. Le regioni potranno, in via transitoria, modificare «le definizioni (uniformi) aventi incidenza sulle previsioni dimensionali» dei piani regolatori. La formula, spiegano i tecnici, è stata concessa per consentire a un ristretto numero di regioni (e solo in via transitoria) di non impattare sulle volumetrie previste dagli strumenti urbanistici.
Questo obiettivo, spiegano sempre i tecnici, può essere conseguito con limitati interventi sulla definizione di «superficie accessoria». L’accordo impegna tuttavia le Regioni a ritornare alla versione originale della definizione «nei propri provvedimenti legislativi e regolamentari, che saranno adottati» dopo l’accordo firmato ieri.
Poi ci sono gli Enti locali, che a loro volta potranno integrare lo schema con proprie misure che vanno oltre le regole comuni, per esempio in materia di performance energetiche o materiali “bio”.
Se le Regioni recepiscono lo schema di regolamento, il comune è anch’esso obbligato ad adottarlo; e se non lo fa, scaduti i sei mesi, le definizioni uniformi e le norme sovraordinate (statali e regionali) «trovano diretta applicazione». Se invece le Regioni non si adeguano entro la loro scadenza –ovviamente non sono previste sanzioni– il comune può recepire il regolamento ma non è obbligato a farlo
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAUna lingua comune in edilizia. Regolamento tipo con 42 definizioni standardizzate. La Conferenza unificata ha sancito l'intesa sul decreto del ministero delle infrastrutture.
Via libera definitiva dalla Conferenza unificata al regolamento edilizio tipo. Sarà costituito da un unico glossario per l'intero Paese e un elenco di titoli che saranno il corpo dei regolamenti edilizi in tutti i comuni. Le 42 definizioni allegate allo schema di regolamento rappresentano una sorta di mini vocabolario per cui termini come porticato, tettoia o veranda avranno lo stesso significato in tutta la Penisola.
Suddiviso in due parti conterrà: un capitolo dedicato ai princìpi generali e un secondo alle disposizioni regolamentali comunali.
La Conferenza unificata del 20.10.2016 ha espresso parere positivo allo schema di decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Graziano Delrio, sul regolamento edilizio tipo che contiene al suo interno le 42 definizioni standardizzate adottate già all'inizio dell'anno.
Dal momento dell'accordo (tra regioni, governo e comuni raggiunto il 20.10.2016), le regioni avranno 180 giorni di tempo per recepire il regolamento edilizio tipo e stabiliranno le scadenze a cui i comuni si dovranno attenere per uniformarsi. Per favorire la conoscibilità della disciplina generale dell'attività edilizia avente diretta e uniforme applicazione, i comuni provvederanno alla pubblicazione del link nel proprio sito istituzionale.
Doppia suddivisione del regolamento. Il regolamento edilizio tipo si dividerà in due diversi parti. Nella prima rubricata «principi generali e disciplina generale in materia edilizia» è richiamata e non riprodotta la disciplina generale dell'attività edilizia operante in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e regionale. Nella seconda denominata «disposizioni regolamentari comunali in materia edilizia» è raccolta la disciplina regolamentare in materia edilizia di competenza comunale, la quale, sempre, al fine di assicurare la semplificazione e l'uniformità della disciplina edilizia, deve essere ordinata nel rispetto di una struttura generale valevole su tutto il territorio statale. I requisiti tecnici integrativi devono essere espressi attraverso norme prestazionali, che fissino risultati da perseguirsi nelle trasformazioni edilizie.
Le prestazioni da raggiungere potranno essere prescritte in forma quantitativa, ossia attraverso l'enunciazione di azioni da praticarsi affinché l'intervento persegua l'esito atteso.
Prima parte regolamenti edilizi. Nella prima parte dei regolamenti edilizi, al fine di evitare inutili duplicazioni delle disposizioni nazionali e regionali, basterà richiamare con apposita formula di rinvio, la disciplina relativa alle materia di seguito elencate, la quale opererà direttamente senza la necessità di un atto di recepimento nei regolamenti edilizi:
- definizioni uniformi dei parametri urbanistici e edilizi;
- definizioni degli interventi edilizi e delle destinazioni d'uso;
- procedimento per il rilascio e la presentazione dei titoli abilitativi edilizi e le modalità di controllo degli stessi;
- modulistica unificata edilizia, gli elaborati e la documentazione da allegare alla stessa;
- requisiti generali edilizi (ad esempio servitù militari, accessi stradali e siti contaminati);
- disciplina relativa agli immobili soggetti a vincoli e tutele di ordine paesaggistico, ambientale , storico culturale e territoriale;
- discipline settoriali aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia, tra cui la normativa sui requisiti tecnici delle opere edilizie e le prescrizioni specifiche stabilite dalla normativa statale e regionale per alcuni insediamenti e impianti.
Seconda parte regolamenti edilizi. La seconda parte dei regolamenti edilizi, avrà per oggetto le norme comunali che attengono all'organizzazione e alle procedure interne dell'ente nonché alla qualità, sicurezza, sostenibilità delle opere edilizie realizzate, dei cantieri e dell'ambiente urbano, anche attraverso l'individuazione dei requisiti tecnici e integrativi complementari, rispetto alla normativa uniforme richiamata nella prima parte del regolamento edilizio (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).

CORTE DEI CONTI

TRIBUTI: Baratto amministrativo ristretto. Vietato per pagare tasse locali, non per multe e sanzioni. La Corte conti lombarda con un parere sulle prestazioni a beneficio della collettività.
No al baratto amministrativo come strumento per pagare le tasse locali o come forma alternativa agli istituti civilistici della datio in solutum o della transazione. Discorso diverso per le entrate extratributarie (rette, tariffe per servizi a domanda individuale, multe, sanzioni) per le quali i comuni potranno prevedere la possibilità di estinguere le obbligazioni pecuniarie con una prestazione personale che comunque dovrà essere determinata chiaramente in anticipo e tipizzata e dovrà essere svolta a beneficio della collettività.
A mettere nuovamente i paletti all'istituto del baratto amministrativo (introdotto dall'art. 24 del dl 133/2014 e poi ripreso anche dal Codice appalti che ne ha completato la regolamentazione attraendolo nella materia dei contratti pubblici di partenariato sociale) è stata la Corte conti Lombardia, sezione regionale di controllo, nel parere 06.09.2016 n. 225 reso al comune di Casalpusterlengo (Lo).
I giudici hanno ribadito che il baratto amministrativo necessita di una “previa regolamentazione a carattere generale, riveste natura temporanea, può essere applicato in ambiti territoriali limitati e non può riguardare debiti tributari pregressi”. E' proprio questa l'esclusione più significativa perché, fin dal suo debutto, il baratto è stato percepito dalle amministrazioni comunali come strumento per sgravare dal carico fiscale contribuenti in difficoltà offrendo loro la possibilità di estinguere il debito svolgendo attività sostitutive a beneficio della cittadinanza.
Ebbene, secondo, la Corte conti, ciò non è possibile perché “la riduzione delle imposte non si può applicare su debiti pregressi confluiti nella massa dei residui attivi accertati dall'ente locale”.
Il baratto amministrativo, inoltre, non può essere lasciato alla libera iniziativa del cittadino insolvente, ancorché incolpevole. Costui non potrà scegliere in modo autonomo la prestazione da eseguire, ma sarà l'ente a doverlo fare preliminarmente, disciplinando i casi concreti di attuazione e la tipologia di crediti a cui applicare il baratto, nonché individuando la natura dei lavori e dei servizi e i soggetti che possono avvalersi dell'istituto.
In pratica, chiariscono i giudici lombardi, “deve escludersi che il singolo cittadino, anche se insolvente incolpevole, possa proporre interventi che non rientrino nella programmazione dell'ente, potendosi invece effettuare unicamente le attività già previste e finanziate in bilancio” (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Il DURC e il CIG.
DOMANDA:
A seguito dell’approvazione del D.Lgs. 50/2015 si chiede:
   a) se la disposizione che consentiva per le prestazioni di servizio o forniture inferiori ad € 20.000,00 di acquisire l’autocertificazione del durc o se lo stesso debba essere sempre acquisito on-line;
   b) se per gli affidamenti di patrocinio legale (es. incarichi per resistere al Tar o giudice del lavoro) e consulenze affidate in base al relativo regolamento a soggetti titolari di partita iva debba essere acquisito il cig;
   c) per le forniture economali es. acquisti sul mepa (il vigente regolamento pone il limite di € 1.000,00) acquisite in base al codice degli appalti debba essere acquisito il cig e se deve provvedere agli adempimenti previsti D.Lgs. 33/2013 e successive modificazioni pubblicazioni nella sezione amministrazione trasparente ed in caso affermativo con quali modalità.
RISPOSTA:
   a) L'art. 4, comma 2, D.L. n. 70/2011 aveva introdotto nel previgente codice il comma 14-bis all'art. 38, che prevedeva per i contratti di forniture e servizi fino a ventimila euro, stipulati con la pubblica amministrazione e le società in house, che i soggetti contraenti potessero produrre una dichiarazione sostitutiva in luogo del DURC. La norma è stata abrogata dal D.Lgs. 50/2016, per cui attualmente anche per le acquisizioni di beni e servizi inferiori ad € 20.000,00 occorre acquisire il durc on-line.
   b) In merito agli affidamenti di patrocinio legale, occorre preliminarmente verificarne la natura giuridica, ossia se costituiscono un appalto di servizi o una prestazione di lavoro autonomo (ex art. 7, commi 6 e 6-bis del D.Lgs. 165/2001), ai quali l'amministrazione può ricorrere a condizione della insussistenza di adeguate professionalità interne e che la prestazione sia di natura temporanea e altamente qualificata.
L’appalto di servizi viene in rilievo quando il professionista sia chiamato a organizzare e strutturare una prestazione di contenuto più ampio del patrocinio giudiziale, concernente un complesso di attività legali. Il patrocinio legale, cioè il contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente, invece è inquadrabile nell’ambito della prestazione d’opera intellettuale, in base alla considerazione per cui il servizio legale, per essere oggetto di appalto, richieda qualcosa in più, “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa” (cfr. determinazione Avcp n. 4/2011; Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Basilicata, deliberazione n. 19/2009/PAR).
I contratti di patrocinio legale, volti a soddisfare il solo bisogno di difesa giudiziale del cliente, in quanto inquadrabili come prestazioni d’opera intellettuale, sono esclusi dall'obbligo di richiesta del codice CIG. Devono invece ritenersi sottoposti agli obblighi di tracciabilità i contratti per i servizi legali, ora regolati dall’art. 17 del D.Lgs. 50/2016.
   c) Le Linee Guida dell’ANAC relative alle “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria”, nella parte in cui si occupano dell’obbligo di adeguata motivazione per gli affidamenti diretti di importo inferiore ad € 40.000,00 (art. 36, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 50/2016), ne consentono una attenuazione per gli “affidamenti di modico valore, ad esempio inferiori a 1000 euro, o quando l’acquisizione avviene nel rispetto del regolamento di contabilità dell’amministrazione, ovvero nel caso in cui la stazione appaltante adotti un proprio regolamento redatto nel rispetto dei principi contenuti nel Codice”.
Non è chiaro se con la dizione “forniture economali” la scrivente amministrazione si riferisca alle spese economali, ossia quelle effettuate dai cassieri delle stazioni appaltanti mediante il fondo economale, con l’utilizzo di contanti, a condizione che: - si tratti di spese minute e di non rilevante entità, necessarie per sopperire con immediatezza ed urgenza ad esigenze funzionali della stazione appaltante; - si tratti di spese tipizzate dalla stazione appaltante in un proprio regolamento; - non si tratti di spese effettuate a fronte di contratti d’appalto.
In presenza di tali presupposti, pertanto, le spese economali sono sottratte alla disciplina della tracciabilità ed escluse dall’obbligo di richiedere il codice CIG, in quanto non originate da contratti di appalto. E’ importante però distinguere tra gli acquisti in economia (afferenti alla funzione degli appalti), che soggiacciono agli obblighi di tracciabilità, e gli acquisti in economato (afferenti ad una funzione distinta dagli appalti), che ne sono esenti (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito ad un intervento di manutenzione ordinaria mura di cinta di età medioevale - Comune di Vico nel Lazio (Regione Lazio, parere 26.10.2016 n. 537945 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Parere in merito all'applicazione dell'art. 27, comma 3, della l.r. 24/1998 concernente l'edificazione su lotti inedificati e parzialmente boscati ricadenti in un comparto di lottizzazione - Comune di Montebuono (Regione Lazio, parere 26.10.2016 n. 537898 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI - VARI: Interpretazione di norma statutaria relativa alla verbalizzazione delle deliberazioni.
Il verbale, inteso come resoconto dell'andamento delle sedute dell'organismo collegiale è un atto di certificazione che assume carattere di atto compiutamente formato con la sottoscrizione congiunta di colui che lo redige e di colui che presiede la seduta.
In conformità con quanto stabilito dal regolamento sul funzionamento del Consiglio (qualora l'organo ne sia dotato), il verbale può essere più o meno esteso, e contenere le trascrizioni delle dichiarazioni dei consiglieri o disporre l'inserimento delle stesse attraverso un documento da allegare.
Poiché la deliberazione costituisce atto di manifestazione della volontà dell'organo collegiale, sostanziandosi quindi in provvedimento amministrativo, essa esiste a prescindere dall'atto verbale che ne riferisce i contenuti; tuttavia, attraverso la verbalizzazione delle deliberazioni si dà conto di una serie di elementi che consentono di verificare la regolarità dell'iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, senza che sia necessaria una dettagliata indicazione delle singole attività compiute e delle singole opinioni espresse.

L'Azienda di servizi alla persona pone una serie di quesiti sulla corretta interpretazione della disposizione del proprio statuto relativa alle procedure di verbalizzazione delle delibere e delle sedute del Consiglio di amministrazione.
Preliminarmente corre l'obbligo di segnalare che l'esegesi delle norme contenute nello statuto aziendale compete esclusivamente al Consiglio di amministrazione dell'Azienda, che ha sia l'onere di esercitare le attribuzioni che gli vengono colà conferite, sia la facoltà di modificarlo per renderlo più coerente con la propria attività e con gli obiettivi aziendali. Inoltre, al Consiglio di amministrazione compete l'approvazione dei regolamenti interni, volti a disciplinare più nel dettaglio l'organizzazione ed il funzionamento delle funzioni ad esso attribuite
[1].
Ribadita quindi la specifica competenza del Consiglio sulla materia in esame, in via meramente collaborativa e generale, senza quindi entrare nelle singole casistiche prospettate dall'Ente, si forniscono i seguenti elementi di valutazione.
I dubbi dell'ASP riguardano, fondamentalmente, la distinzione fra verbale della seduta e verbale della deliberazione. Lo Statuto dell'Azienda, all'art. 10, dispone che 'I verbali delle deliberazioni del Consiglio sono redatti dal Direttore o, in caso di sua assenza o impedimento, da altro funzionario precisato dal regolamento di organizzazione ovvero da un membro del Consiglio incaricato dal Consiglio stesso. Gli stessi sono sottoscritti dal verbalizzante e da chi presiede l'adunanza'.
Questo Servizio ha già avuto modo, in passato
[2], di affermare che il verbale, atto giuridico annoverabile nella più ampia categoria degli atti certificativi, è un documento finalizzato alla descrizione di atti e/o fatti rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, al fine di garantire la certezza della descrizione degli accadimenti constatati, documentandone l'esistenza.
Il verbale, inteso come resoconto dell'andamento delle sedute dell'organismo collegiale (ove si riportano, ad esempio, l'ordine del giorno, l'elenco dei presenti e assenti, i motivi principali delle discussioni, il testo integrale delle deliberazioni ed il numero di voti favorevoli, contrari e astenuti su ogni proposta
[3]) è un atto di certificazione che assume carattere di atto compiutamente formato con la sottoscrizione congiunta di colui che lo redige (Segretario o Direttore generale) e di colui che presiede la seduta (o come eventualmente disciplinato in via regolamentare).
In conformità con quanto stabilito dal regolamento sul funzionamento del Consiglio, (qualora l'organo ne sia dotato), questo documento può essere più o meno esteso, e contenere le trascrizioni delle dichiarazioni dei consiglieri o disporre l'inserimento delle stesse attraverso un documento da allegare.
In via generale, la giurisprudenza
[4] ha affermato che non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono rilevanza in ordine alle finalità cui l'attività di verbalizzazione è preposta. Permane, tuttavia, ai consiglieri la facoltà, in particolari situazioni, di richiedere espressamente che i propri interventi siano riportati interamente a verbale.
Diversa funzione ha la deliberazione, che costituisce atto di manifestazione della volontà dell'organo collegiale, sostanziandosi quindi in provvedimento amministrativo, che esiste a prescindere dall'atto verbale che ne riferisce i contenuti
[5]. Infatti, come affermato dal Consiglio di Stato [6], 'L'esistenza giuridica di una deliberazione collegiale è riconducibile alla sola manifestazione di volontà indipendentemente dalla verbalizzazione della stessa; sono, infatti, due momenti distinti la manifestazione di volontà, che costituisce il contenuto della deliberazione, e la verbalizzazione che riproduce e documenta tale manifestazione attestandone l'esistenza, ma che, sebbene necessaria, non è determinante per la formazione della volontà dell'organo collegiale'.
L'attività di verbalizzazione delle deliberazioni è quindi fondamentale perché dà conto di una serie di elementi che consentono di verificare la regolarità dell'iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, senza che sia necessaria una dettagliata indicazione delle singole attività compiute e delle singole opinioni espresse.
Sulla distinzione fra verbale della seduta e verbale della deliberazione, l'ANCI ha affermato che 'il verbale delle adunanze come documento formale contenente il sunto generale di quanto è successo nell'intera seduta, sia obbligatorio soltanto se ed in quanto sia espressamente previsto da una norma statutaria o regolamentare; i verbali delle deliberazioni sono, invece, indispensabili per conferire concretezza, efficacia e trasferibilità della conoscenza e comprensibilità alle decisioni dell'organo collegiale.
[7]'
Sempre l'ANCI ha affermato che 'Normativa, giurisprudenza, prassi e dottrina portano a privilegiare l'obbligatorietà (della verbalizzazione, ndr) delle singole deliberazioni, nelle quali soltanto si riscontra l'obbligatorietà di un minimo indispensabile di contenuti per poter dispiegare la propria efficacia; il verbale della seduta è , in realtà, sempre stato ed è tuttora un elemento secondario, valido più a fini storico statistici, che a fini della concreta realizzazione dell'azione amministrativa di competenza degli organi collegiali... La corretta verbalizzazione delle singole deliberazioni, sugli argomenti formalmente inseriti all'ordine del giorno, dovrebbe essere sufficiente ad interpretare e concretizzare tutte le esigenze delle previsioni normative in vigore; naturalmente in assenza di una specifica norma regolamentare che prescriva la stesura di un verbale di seduta espressamente indicato come elemento distinto e diverso dalle singole deliberazioni formali.'
[8]
Alla luce di quanto espresso, si ritiene che l'Ente, nel rispetto della norma statutaria relativa alla verbalizzazione delle deliberazioni, possa comunque prevedere ulteriori e più dettagliate disposizioni a livello regolamentare, al fine di disciplinare l'eventuale obbligatorietà di una verbalizzazione delle sedute, gli elementi essenziali del verbale ed altre circostanze che possono verificarsi durante le sedute dell'organo collegiale.
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[1] Ai sensi dell'art. 6, comma 2, della legge regionale 11.12.2003, n. 19, 'Il Consiglio di amministrazione esercita le funzioni attribuite dallo statuto e, comunque, provvede allo svolgimento dei seguenti adempimenti: (...) f) approvazione delle modifiche statutarie e dei regolamenti interni'.
[2] Si vedano i pareri prot. n. 29084 del 10.08.2011 e prot. n. 3969 del 13.0.2009. Si veda, altresì, il parere prot. n. 5235 del 30.03.2010 espresso dal Servizio elettorale della scrivente Direzione centrale. I testi dei i pareri sono reperibili sul Portale delle autonomie locali al seguente indirizzo.
[3] R. Nobile, 'Verbalizzazione e verbali delle sedute degli organi e degli organismi collegiali negli enti locali', reperibile al seguente all'indirizzo.
[4] Si veda, ex multis, Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza n. 4074 del 25.07.2001.
[5] G. Gentilini, 'Alcuni cenni sintetici sugli atti verbalizzazioni degli organi collegiali' reperibile sul sito www.diritto.it
[6] Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza n. 6208 dell'11.12.2001.
[7] ANCI, parere del 09.03.2005.
[8] Parere del 19.04.2003
(25.10.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATAOSSERVATORIO VIMINALE/ Controlli cum grano salis. Verifiche limitate all'attività di governo. Le commissioni di garanzia sono disciplinate dal regolamento.
È legittima la convocazione della commissione garanzia e controllo di un comune, richiesta da cittadini riunitisi in comitato, per verificare l'eventuale violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di carburanti nel territorio comunale?

In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste per legge come, ad esempio, la commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come le c.d. commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del Tuel, dlgs n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione e il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero degli statuti locali. È, pertanto, a tali previsioni che occorrerebbe fare riferimento per dirimere la questione quale quella in esame.
Nel caso in esame, lo Statuto comunale si limita a stabilire che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione, prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi particolari, demandando al consiglio la composizione, l'organizzazione, le competenze, i poteri e la durata.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le commissioni di inchiesta; inoltre, conformemente a quanto rilevato dal segretario generale dell'ente, secondo cui la materia in esame esula dalle competenze della commissione, dispone che le commissioni con funzioni di garanzia e di controllo «effettuano verifiche sull'attività di governo, sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e sugli obiettivi raggiunti».
Le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero considerarsi, così come sostenuto da una parte della dottrina, una specie del medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del Testo unico.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza nell'affidamento della presidenza della commissione permanente ad un consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale svolta da tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti, nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente agli uffici comunali.
Considerato che, nell'ipotesi in esame, lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire «particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere in particolare sulla competenza di tali organismi, dovendo, invero, limitarsi l'attività della commissione garanzia e controllo, alle verifiche sull'attività di governo (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).

TRIBUTI: Autotutela tributaria su avviso accertamento ICI.
In materia tributaria, il potere dell'amministrazione di provvedere in via di autotutela all'annullamento o alla revoca degli atti illegittimi o infondati è normato dall'art. 2-quater, D.L. n. 564/1994. Nel potere di annullamento o di revoca deve intendersi compreso anche il potere di disporre la sospensione degli effetti dell'atto che appaia illegittimo o infondato (commi da 1-bis ad 1-quinquies).
La giurisprudenza precisa che l'esercizio dell'autotutela, nell'ambito del diritto tributario, incontra un limite -oltre che nell'avvenuta formazione del giudicato sull'atto viziato- nel decorso del termine decadenziale fissato per l'accertamento.
La presentazione dell'istanza di sospensione in autotutela non sospende i termini per proporre ricorso al Giudice tributario; parimenti, si ritiene che l'esercizio dell'autotutela sospensiva, ex art. 2-quater, comma 1-quinquies, D.L. n. 564/1994, non possa sospendere i termini per impugnare, attesa l'indisponibilità di detti termini perentori.

Il Comune riferisce di aver notificato (in data 08.08.2016) un avviso di accertamento per omesso versamento ICI 2011, fondato sul processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, verbale sottoposto a giudizio penale, allo stato in grado di appello.
Il legale del contribuente chiede al Comune di sospendere l'avviso di accertamento in autotutela 'ai soli fini della sua sospensione esecutiva', in attesa che sul processo verbale di constatazione si formi il giudicato, necessario, a suo dire, per aversi valido presupposto dell'avviso di accertamento, e al fine di evitare, nel frattempo, ulteriori attività giurisdizionali in sede tributaria. Il Comune chiede, dunque, se la sospensione dell'avviso di accertamento possa rientrare nell'istituto dell'autotutela e se, concedendola, possa incorrere nella decadenza della fase accertativa
[1] (al 31.12.2016, a fronte della probabile udienza penale nel 2017).
Il Comune chiede inoltre se il contribuente non debba comunque proporre ricorso contro l'avviso di accertamento notificato, stante la perentorietà dei termini al riguardo.
In via preliminare, si precisa che l'attività di consulenza giuridico-amministrativa svolta da questo Servizio a favore degli enti locali è finalizzata a fornire un'illustrazione degli istituti giuridici nell'ambito dei quali sono riconducibili le specifiche fattispecie prospettate, fermo restando che compete all'amministrazione procedente determinarsi in ordine alle scelte concrete da adottare caso per caso.
In via meramente collaborativa, si esprimono pertanto alcune considerazioni di carattere generale.
In materia tributaria, il potere dell'amministrazione di provvedere in via di autotutela all'annullamento d'ufficio o alla revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità
[2], degli atti illegittimi o infondati, è espressamente riconosciuto dall'art. 2-quater, D.L. n. 564/1994 (comma 1).
Specificamente, la sospensione in autotutela degli effetti dell'atto è normata dalle previsioni aggiunte all'art. 2-quater dall'art. 27, c. 1, L. 18.02.1999, n. 28, che è utile riportare:
- comma 1-bis: nel potere di annullamento o di revoca di cui al comma 1 deve intendersi compreso anche il potere di disporre la sospensione degli effetti dell'atto che appaia illegittimo o infondato;
- comma 1-ter: le regioni, le province e i comuni indicano, secondo i rispettivi ordinamenti, gli organi competenti per l'esercizio dei poteri indicati dai commi 1 e 1-bis relativamente agli atti concernenti i tributi di loro competenza;
- comma 1-quater: in caso di pendenza del giudizio, la sospensione degli effetti cessa con la pubblicazione della sentenza;
- comma 1-quinquies: la sospensione degli effetti dell'atto disposta anteriormente alla proposizione del ricorso giurisdizionale cessa con la notificazione, da parte dello stesso organo, di un nuovo atto, modificativo o confermativo di quello sospeso; il contribuente può impugnare, insieme a quest'ultimo, anche l'atto modificato o confermato.
Ciò premesso, si osserva che l'esercizio dell'autotutela sospensiva ha lo scopo di impedire che l'atto, per il quale esiste il sospetto di illegittimità o di infondatezza, possa produrre i suoi effetti durante il procedimento di riesame, in modo da evitare, da un lato, che si produca un danno presumibilmente ingiusto al contribuente e, dall'altro, che l'atto sia annullato prima del completamento di tutte le necessarie indagini
[3].
Come rilevato dall'Agenzia delle entrate
[4], il potere di sospendere l'efficacia dell'atto è infatti strumentale a quello di annullamento: gli uffici devono pertanto valutare le concrete possibilità che l'atto sia revocato o annullato in via amministrativa o contenziosa ed il pericolo per il contribuente di subire un danno grave ed irreparabile a seguito dell'esecuzione dello stesso.
L'accertamento della sussistenza dei presupposti dell'autotutela tributaria, in cui è compresa quella sospensiva, espressamente prevista qualora l'atto 'appaia illegittimo o infondato'
[5] (comma 1-bis), è rimesso alla valutazione discrezionale dell'Ente [6].
La sospensione dell'efficacia esecutiva dell'atto che appaia illegittimo o infondato incide solo provvisoriamente sugli effetti dell'atto impositivo. Ai sensi del comma 1-quinquies dell'art. 2-quater, la sospensione degli effetti dell'atto disposta anteriormente alla proposizione del ricorso giurisdizionale cessa con la notificazione di un nuovo atto, modificativo o confermativo di quello sospeso. Tale cessazione si produce anche quando intervenga un atto consistente nella mera eliminazione dell'atto illegittimo o infondato senza l'emissione di un nuovo atto impositivo.
Come affermato dalla giurisprudenza, nell'ambito del diritto tributario l'esercizio del potere di autotutela incontra un limite -oltre che nell'avvenuta formazione del giudicato sull'atto viziato- nel decorso del termine decadenziale fissato per l'accertamento
[7].
In particolare, l'esercizio del potere di autotutela non implica consumazione del potere impositivo, sicché rimosso con effetto 'ex tunc' l'atto di accertamento illegittimo od infondato, l'Amministrazione finanziaria conserva ed anzi è tenuta ad esercitare la potestà impositiva, rispetto alla quale incontra i limiti del termine decadenziale previsto per la notifica degli avvisi di accertamento
[8].
Per quanto riguarda la diversa questione del rapporto tra procedimento amministrativo di accertamento tributario e processo penale
[9], si osserva, in via generale, quanto segue.
La Corte di Cassazione
[10] ha affermato l'utilizzabilità in sede tributaria degli elementi raccolti dalla Guardia di Finanza a carico del contribuente, nell'ambito di indagini penali. In particolare, il processo verbale di constatazione ha valore probatorio, in sede tributaria, ai sensi dell'art. 2700 c.c. [11], quanto ai fatti in esso descritti.
E di interesse si rivela il percorso argomentativo della Suprema Corte. Ed invero, in quella sede, ove il punto controverso era il fatto che i militari avessero acquisito gli elementi rilevanti ai fini fiscali senza il necessario rispetto delle garanzie difensive prescritte per il procedimento penale, la Corte di Cassazione ha affermato che l'emersione di indizi di reato, e dunque la rilevanza penale degli accertamenti tributari, non vanifica il valore probatorio del processo verbale di constatazione in sede tributaria, in ragione del principio dell'autonomia del procedimento penale rispetto alle procedure dell'accertamento tributario, già sancito, in linea di principio, nel D.L. n. 429 del 1982, art. 12, e confermato dal D.Lgs. 10.03.2000, n. 74, art. 20
[12], in armonia con le disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. e 220 disp. att. c.p.p. [13].
Inoltre, muovendo dal principio dell'autonomia normato dall'art. 20, D.Lgs. n. 74/2000, la Corte di Cassazione ha altresì escluso l'automatica rilevanza del giudicato penale nel giudizio tributario. Il Giudice tributario non può estendere automaticamente gli effetti di una sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, con riguardo all'azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano quelli stessi che fondano l'accertamento, ma deve verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui esso è destinato ad operare
[14].
La pronuncia, seppur riferita al rapporto tra giudicato penale e giudizio tributario, sembrerebbe suscettiva di estendersi, in virtù del richiamo dell'art. 20, D.Lgs. n. 74/2000, anche al rapporto tra procedimento amministrativo tributario e giudicato penale.
Va, altresì, precisato che il D.Lgs. n. 74/2000 reca la 'Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25.06.1999, n. 205'. Peraltro, l'apprezzamento dei Giudici di legittimità del principio dell'autonomia ivi previsto (art. 20) in termini di continuità rispetto a quanto già sancito in linea di principio dal D.L. n. 429/1982
[15], e di coerenza con le disposizioni generali codicistiche [16], sembrerebbe poter far propendere, in un'ottica di interpretazione sistematica, per la sua estensione generale nel contesto dei procedimenti amministrativi di accertamento tributario.
Per quanto concerne, infine, la necessità del rispetto da parte del contribuente dei termini previsti per l'impugnazione dell'avviso di accertamento, si rileva che la presentazione dell'istanza di sospensione in autotutela non sospende i termini per proporre ricorso al Giudice
[17]. Parimenti, si ritiene che l'esercizio dell'autotutela sospensiva, ex art. 2-quater, comma 1-quinquies, D.L. n. 564/1994, non possa sospendere i termini per impugnare, attesa l'indisponibilità di detti termini perentori [18].
La Suprema Corte -se pur in un caso di silenzio opposto dall'amministrazione sull'istanza di autotutela, e quindi di mancato esercizio dell'autotutela- ha affermato che l'efficacia ed esecutività del provvedimento impositivo è condizionata soltanto al decorso del termine previsto dalla legge per l'impugnazione che, in quanto termine di decadenza, può essere validamente interrotto esclusivamente con il compimento dell'atto (proposizione del ricorso) previsto espressamente dalla legge (art. 2964 c.c.)
[19].
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[1] Ai sensi dell'art. 1, comma 161, L. n. 296/2006, gli enti locali notificano gli avvisi di accertamento, in rettifica e d'ufficio, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati.
[2] L'autotutela tributaria è possibile anche se l'atto è divenuto ormai definitivo per avvenuto decorso dei termini per impugnare (Cfr. Stefano Compagno, I limiti all'autotutela tributaria su atti non impugnabili, in Diritto&Diritti, settembre 2002).
[3] Cfr. Agenzia delle entrate, Direzione Regionale della Calabria, Catanzaro 29.12.2010, n. 24477.
[4] Si veda Agenzia delle entrate, Direzione centrale Normativa e Contenzioso, risoluzione 07.02.2007, n. 21, sia pure con specifico riferimento alla sospensione della riscossione, ai sensi dell'art. 39 DPR 602/1973, in cui si precisa che 'ancor prima di accordare la sospensione della riscossione, che deve essere richiesta nell'ambito della procedura di autotutela, gli Uffici sono tenuti a valutare le concrete possibilità che l'atto che ha dato origine all'iscrizione al ruolo sia revocato o annullato in via amministrativa o contenziosa (valutazione del c.d. fumus boni juris). Inoltre occorre valutare il pericolo per il contribuente di subire un danno grave ed irreparabile a seguito della riscossione coattiva (c.d. periculum in mora).'.
[5] L'illegittimità riguarda gli errori che attengono agli aspetti procedimentali dell'attività istruttoria o alla formale redazione dell'atto, nonché gli errori di diritto (c.d. vizi dell'atto). L'infondatezza, invece, attiene agli errori sui fatti oggetto d'imposizione ed alle questioni estimative inerenti alla qualificazione e/o quantificazione della materia imponibile (c.d. vizi della pretesa). Cfr. Agenzia delle entrate, Direzione Regionale della Calabria, n. 24477/2010, cit..
[6] La natura eminentemente discrezionale dell'autotutela tributaria è rimarcata dalla Corte di cassazione, che precisa che la posizione del contribuente in ordine ad un atto di autotutela non costituisce diritto soggettivo ma interesse legittimo, e può trovare tutela nell'ambito della giurisdizione tributaria, ove il sindacato del giudice dovrà limitarsi alla legittimità dell'operato dell'amministrazione (anche in caso di inerzia) e non al merito, non essendo possibile la sostituzione del Giudice tributario all'Amministrazione nell'adozione di un atto di autotutela. (Cass. civ, sez. trib., 29.12.2010, n. 26313. Conformi: Cass. civ, sez. un., 27.03.2007, n. 7388).
Inoltre -afferma Cass. civ. n. 26814/2014, cit.- tanto l'istanza di autotutela, quanto il silenzio opposto dall'Amministrazione finanziaria, così come la sua impugnazione (ove si voglia propendere per la sua impugnabilità, secondo i ragionamenti giurisprudenziali nella sentenza riassunti) non possono in alcun modo spiegare effetti sul rapporto tributario fondato sull'avviso di accertamento, destinato a divenire definitivo ed incontestabile in difetto della tempestiva impugnazione, nel termine di decadenza previsto dall'art. 21, c. 1, D.Lgs. n. 546/1992 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30.12.1991, n. 413). L'efficacia ed esecutività del provvedimento impositivo -precisa la Suprema Corte- è condizionata soltanto al decorso del termine previsto dalla legge per la impugnazione che, in quanto termine di decadenza può essere validamente interrotto esclusivamente con il compimento dell'atto (proposizione del ricorso) previsto espressamente dalla legge (art. 2964 c.c.).
[7] Cass. civ., sez. trib., 26.03.2010, n. 7335; Cass. civ., sez. trib., 22.02.2002, n. 2531.
[8] Cass. civ., sez. trib., 08.10.2013, n. 22827, che richiama Cass. civ., sez. trib., 20.11.2006, n. 24620. Conforme, Cass. civ., sez. trib., 16.07.2003, n. 11114.
[9] Nel caso in esame, la richiesta di autotutela del contribuente è motivata dalla pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto il processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, che -secondo quanto asserito- per costituire valido presupposto dell'avviso di accertamento dovrebbe essere accompagnato da una sentenza definitiva, rappresentando mero elemento investigativo di un'indagine condotta in autonomo giudizio.
[10] Cass. civ., sez. trib., 12.11.2010, n. 22984.
[11] Ai sensi dell'art. 2700 c.c. 'l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti'.
[12] Ai sensi dell'art. 20 in argomento, 'Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione'.
[13] Cass. civ., n. 22984/2010, cit., osserva che gli artt. 2 c.p.p. e 654 c.p.p. affermano l'uno l'autonomia del giudice penale nel decidere incidenter tantum le questioni civili o amministrative, l'altro l'autonomia del giudice civile o amministrativo quando sia diverso il regime probatorio (anche Cass. civ., sez. trib., 27 febbraio 2013, n. 4924, rileva che il processo penale e il processo tributario poggiano su un sistema probatorio sostanzialmente diverso). L'art. 220 disp. att. c.p.p. impone l'obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di indagini ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della 'applicazione della legge penale'.
[14] Cass. civ., sez. trib., n. 4924/2013, cit..
[15] Recante 'Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria'.
[16] Artt. 2 e 654 c.p.p. e 220 disp. att. c.p.p. richiamati dalla Suprema Corte.
[17] Cfr. Cass. civ., sez. trib., 18.12.2014, n. 26814, secondo cui l'istanza di autotutela non può spiegare effetti sul rapporto tributario fondato sull'avviso di accertamento, destinato a divenire definitivo ed incontestabile in difetto della tempestiva opposizione nel termine di decadenza previsto dall'art. 21, comma 1, del D.lgs. 546/1992.
[18] Così Baldassarre Gullo, L'autotutela sospensiva, uno strumento poco noto, su Fisco oggi, 14.01.2008; Pasquale Mirto, Manuale operativo per l'applicazione della IUC, Maggioli, 2014, pag. 355, secondo cui il comune può sospendere il pagamento di un atto di accertamento, ma non può sospendere i termini di impugnazione, in quanto essendo questi previsti dalla legge a pena di inammissibilità sono termini indisponibili dalle parti. Si segnala, peraltro, che parte della dottrina ritiene, in senso difforme, che si tratti di un istituto cui consegue in via di eccezione la sospensione dei termini per proporre ricorso giurisdizionale (Massimo Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Giappichelli, 2013, p. 57; Augusto Fantozzi, Diritto tributario, Wolters Kluwer Italia, 2012, p. 1014).
[19] Cassazione civ., sez. trib., n. 26814/2014, cit.
(21.10.2016 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un consigliere comunale per lite pendente.
Nel caso di sussistenza della causa di incompatibilità per lite pendente, il consigliere comunale interessato, ai fini della sua rimozione, può rassegnare le proprie dimissioni dalla carica di amministratore locale nelle forme e modalità prescritte dalla legge o, in alternativa, rimuovere la causa di incompatibilità rinunciando alla lite in essere.
A tale ultimo riguardo, si rileva che la rinuncia agli atti del giudizio, quale inequivoca manifestazione di volontà di abbandono, sostanziale e incondizionata, della lite comporta la rimozione della causa di incompatibilità di cui all'articolo 63, comma 1, num. 4), del TUEL non essendo, a tale fine, necessaria una formale pronuncia di estinzione del procedimento da parte del giudice.

Il Comune chiede un parere in merito alla causa di incompatibilità per lite pendente in cui verserebbe un consigliere comunale. In particolare, premesso che l'amministratore locale ha notificato al Comune un ricorso in opposizione a una sanzione amministrativa comminatagli per violazione delle norme dettate in tema di propaganda elettorale, chiede chiarimenti in ordine a due possibilità di cui il consigliere potrebbe avvalersi per rimuovere l'indicata causa di incompatibilità: la presentazione di dimissioni dalla carica di amministratore locale o, in alternativa, la rinuncia alla lite.
L'articolo 63, comma 1, num. 4), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 stabilisce che non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo con il comune.
[1]
La giurisprudenza ha chiarito che la ratio dell'incompatibilità in parola risiede nell'esigenza che l'amministratore locale eserciti le funzioni istituzionali in modo trasparente ed imparziale, senza prestare il fianco al sospetto che la sua condotta possa essere orientata dall'intento di tutelare il proprio interesse personale contrapposto a quello dell'ente.
[2]
Il successivo articolo 69 TUEL detta la procedura volta alla contestazione, da parte del consiglio comunale, della causa di incompatibilità. In particolare, il comma 2 dell'indicato articolo prevede che: 'L'amministratore locale ha dieci giorni di tempo per formulare osservazioni o per eliminare le cause di [...] incompatibilità'. Il successivo comma 4 della medesima norma dà al consigliere un'ulteriore possibilità di rimuovere la causa di incompatibilità ritenuta esistente dal consiglio.
[3]
Qualora, dunque, l'amministratore decidesse di rassegnare le proprie dimissioni dalla carica dovrebbe farlo nelle forme e con le modalità prescritte dall'articolo 38, comma 8, del D.Lgs. 267/2000 ai sensi del quale: 'Le dimissioni dalla carica di consigliere, indirizzate al rispettivo consiglio, devono essere presentate personalmente ed assunte immediatamente al protocollo dell'ente [...]. Esse sono irrevocabili, non necessitano di presa d'atto e sono immediatamente efficaci'.
In relazione alle modalità di presentazione, il Ministero dell'Interno, con circolare 07.06.2004, prot. n. 25000/3038/20040149, ha chiarito che, in base al novellato articolo 38, comma 8, del D.Lgs. 267/2000 assumono rilevanza giuridica solo le dimissioni presentate personalmente al protocollo dell'ente da coloro che intendono dismettere la carica, precisando che, in alternativa alla presentazione personale, la medesima norma stabilisce che l'atto di dimissioni produce effetti giuridici solo se autenticato ed inoltrato al protocollo per il tramite di persona delegata con atto autenticato in data non anteriore a cinque giorni.
Pertanto, in considerazione degli adempimenti formali introdotti dalla modifica legislativa, intesi a garantire l'autenticità e l'attualità della volontà del consigliere di dismettere la carica, si ritengono prive di efficacia le dimissioni presentate con modalità diverse da quelle previste dalla legge.
Con riferimento, invece, alla rinuncia alla lite, premesso che la fattispecie in esame riguarda un'opposizione ad un'ordinanza-ingiunzione di pagamento di una sanzione amministrativa,
[4] si rileva che la norma di riferimento è l'articolo 306 c.p.c. (rubricato 'Rinuncia agli atti del giudizio') il quale recita:
'Il processo si estingue per rinuncia agli atti del giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite che potrebbero aver interesse alla prosecuzione. L'accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni.
Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o da loro procuratori speciali, verbalmente all'udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti.
Il giudice, se la rinuncia e l'accettazione sono regolari, dichiara l'estinzione del processo.
[...]
'.
Stante il disposto di cui al summenzionato articolo 306, secondo comma, c.p.c., e in forza delle pronunce giurisprudenziali che si sono espresse sull'argomento
[5], la rinuncia può essere fatta anche mediante atto scritto extraprocessuale debitamente notificato alle altre parti.
La rinuncia gli atti del giudizio, quale inequivoca manifestazione di volontà di abbandono, sostanziale e incondizionata, della lite comporta la rimozione della causa di incompatibilità di cui all'articolo 63, comma 1, num. 4), del TUEL non essendo, a tale fine, necessaria una formale pronuncia di estinzione del procedimento da parte del giudice. In tal senso si è espressa la giurisprudenza la quale ha affermato che: '[...] con riguardo alla causa di incompatibilità per lite pendente con il comune prevista dall'art. 3 n. 4 legge n. 154 del 1981 cit.,[6] il momento ultimativo per la sua rimozione mediante la rinunzia al giudizio deve intendersi, anche nella nuova disciplina della elezione diretta del sindaco, quello della prima seduta del consiglio comunale indetta a norma dell'art. 1, comma 2-bis, legge n. 81 del 1993 cit. senza che rilevi, una volta che la rinuncia sia stata portata a conoscenza dell'Ente, il compimento delle formalità necessarie per la dichiarazione di estinzione del processo'
[7].
Anche il Ministero dell'Interno, intervenuto sull'argomento, ha fatto proprio l'orientamento giurisprudenziale affermando che: '[...] si rappresenta che, per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, per la rimozione della causa di incompatibilità per lite pendente prevista per il sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale dal citato art. 63, comma 1, n. 4, non è necessaria una formale pronuncia di estinzione del procedimento, ma è sufficiente che siano posti in essere atti idonei a far venir meno il conflitto tra gli stessi quali, ad esempio, la transazione e la rinuncia agli atti del giudizio, nella fattispecie effettuata dall'amministratore, cioè da parte del destinatario della disposizione'.
[8]
Da ultimo, con riferimento al procedimento volto alla contestazione della causa di incompatibilità, disciplinato dall'articolo 69 TUEL, si rileva che esso si articola in più fasi che terminano, qualora la causa di incompatibilità sia ritenuta esistente dal consiglio comunale e non sia stata rimossa dall'amministratore, con la decadenza dello stesso dalla carica (articolo 69, comma 5, TUEL).
Fino a quando non è adottata la deliberazione che dichiara la decadenza, l'amministratore mantiene la sua qualità di consigliere con tutti i diritti ed obblighi connessi.[9] Segue che finché non interviene tale dichiarazione 'la partecipazione del consigliere alle deliberazioni del consiglio non ne vizia la legittimità e non determina responsabilità per i componenti dell'organo'.
[10]
---------------
[1] Per completezza espositiva si segnala che il comma 3 dell'articolo 63 TUEL prevede che: 'L'ipotesi di cui al numero 4) del comma 1 non si applica agli amministratori per fatto connesso con l'esercizio del mandato.' La Corte di Cassazione, in merito a detta esimente ha, con sentenza del 04.03.2016, n. 4258, affermato che: «[...] la deroga correlata all'ipotesi in cui la lite riguardi un fatto connesso con l'esercizio del mandato ha una 'ratio' evidente, consistente nell'intento di escludere fra le cause di incompatibilità quelle controversie insorte per il perseguimento degli interessi generali e non già per fini personali dell'amministratore, di talché deve tenersi presente che detta deroga è volta a salvaguardare il libero esercizio delle funzioni dal timore di incorrere in situazioni di incompatibilità, magari artatamente predisposte nell'ambito della lotta politica [...]».
[2] Corte di Cassazione, sez. I, sentenza del 04.05.2002, n. 6426.
[3] Recita, in particolare, l'articolo 69, comma 4, TUEL: 'Entro i 10 giorni successivi alla scadenza del termine di cui al comma 2 il consiglio delibera definitivamente e, ove ritenga sussistente la causa di ineleggibilità o di incompatibilità, invita l'amministratore a rimuoverla o ad esprimere, se del caso, la opzione per la carica che intende conservare'.
[4] L'articolo 76 della legge regionale 18.12.2007, n. 28 (richiamato dall'articolo 77, comma 1, della legge regionale 05.12.2013, n. 19), al comma 5, recita: 'L'applicazione delle sanzioni amministrative è disciplinata dalla legge regionale 17.01.1984, n. 1 (Norme per l'applicazione delle sanzioni amministrative regionali), e successive modifiche'.
La legge regionale 1/1984, all'articolo 19, primo comma, prevede che: 'Contro l'ordinanza-ingiunzione di pagamento [...], gli interessati possono proporre opposizione ai sensi degli articoli 22 e 23 della legge 24.11.1981, n. 689'. In particolare, l'articolo 22 della legge 689/1981 dispone che l'opposizione è regolata dall'articolo 6 del decreto legislativo 01.09.2011, n. 150 il quale ultimo recita: 'Le controversie previste dall'articolo 22 della legge 24.11.1981, n. 689, sono regolate dal rito del lavoro, ove non diversamente stabilito dalle disposizioni del presente articolo'.
[5] Così, Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza del 13.08.1997, n. 7565 la quale afferma che: 'La rinuncia agli atti del giudizio non deve necessariamente avere le forme di un atto processuale, ma può essere contenuta in qualsiasi atto sottoscritto dalle parti, anche stragiudiziale, che dimostri sicuramente la loro volontà di porre fine al giudizio'. Nello stesso senso, Cassazione civile, sez. I, sentenza del 07.03.1984, n. 1581 la quale recita: 'La rinuncia agli atti del giudizio è valida ed efficace anche se compiuta mediante atto scritto extraprocessuale [...]'.
[6] L'articolo 3, n. 4 della legge 154/1981, abrogata dall'articolo 274 del D.Lgs. 267/2000, conteneva una previsione analoga all'articolo 63, comma 1, num. 4) TUEL.
[7] Cassazione civile, sez. II, sentenza del 13.09.1996, n. 8271. Nello stesso senso si veda Cassazione civile, sez. I, sentenza del 30.04.1992, n. 5216 ove si afferma che: 'L'incompatibilità con la carica di consigliere comunale (di cui all'art. 3, 1° comma, n. 4 l. 23.04.1981 n. 154) nei confronti di colui che sia parte di un procedimento civile o amministrativo contro il comune (per una lite effettivamente pendente, e non meramente potenziale) è rimossa se, prima della delibera di convalida dell'elezione, sono posti in essere atti idonei a far venire meno, nella sostanza, il conflitto, tra l'eletto e l'ente territoriale -quali la transazione, la rinuncia agli atti del giudizio da parte dell'eletto o (con riferimento alla disciplina anteriore all'entrata in vigore della l. 08.06.1990 n. 142) l'espresso diniego della ratifica, da parte del consiglio comunale, della delibera della giunta con la quale era stata autorizzata l'azione contro il privato- senza che sia necessaria anche una formale pronuncia di estinzione del procedimento, da parte del giudice investito della lite'.
Interessante anche la pronuncia della Cassazione civile, sez. I, del 24.02.2005, n. 3904 ove si afferma che: '[...] per la sua valida ed efficace rimozione [della causa di incompatibilità], è necessario e sufficiente che il soggetto, il quale versi in una situazione siffatta, ponga in essere atti idonei anche se non formalmente perfetti rispetto alla specifica disciplina che eventualmente li regoli a far venir meno, nella sostanza, l'incompatibilità d'interessi realizzatasi a seguito dell'instaurazione della lite medesima (cfr., ad es., Cass. n. 5216 del 1992): e ciò, in quanto se la ratio della causa di incompatibilità in esame trova fondamento e giustificazione nel pericolo che il conflitto d'interessi che ha determinato la lite, possa condizionare le scelte del candidato o dell'eletto in pregiudizio dell'ente territoriale, o, comunque, possa ingenerare, all'esterno, sospetti al riguardo (cfr., Cass. n. 12627 del 1998 e 10335 del 2001 cit.) il sostanziale ed incondizionato abbandono della lite stessa (cfr., Cass. n. 1859 del 1982) elimina in radice questa ragione di incompatibilità'.
[8] Ministero dell'Interno, parere del 06.07.2009.
[9] In questo senso ANCI, parere del 26.08.2005, nel quale si afferma che 'il consigliere comunale non decade dalla carica solo perché si è prodotta a suo carico la situazione di incompatibilità. La decadenza si ricollega invece alla instaurazione del procedimento ex art. 69 d.lgs. 267/2000 ed al pronunciamento del consiglio Comunale sulla persistente incompatibilità dell'amministratore locale'.
[10] In questo senso parere ANCI del 26.01.2007. Nello stesso senso parere del 27.05.2009
(18.10.2016 -
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ENTI LOCALI: I sussidi alle associazioni.
DOMANDA:
Con la presente si chiede di sapere se i contributi economici erogati a Cooperative Sociali, Associazioni e Parrocchie sono assoggettati o meno alla ritenuta di acconto del 4% di cui all'ex art. 28 del d.p.r. n. 600/1973.
In particolare si precisa che in alcuni casi tali contributi vengono erogati a fronte della stipula di una convenzione che prevede l'impegno del beneficiario di garantire un servizio.
Infine si rappresenta l'esigenza di sapere se tali sussidi possono essere liquidati anticipatamente oppure solo ad iniziativa conclusa previa esibizione di rendiconto spese.
RISPOSTA:
Va preliminarmente precisato che le cooperative sociali, in quanto “onlus di diritto” ai sensi dell’art. 10, c. 8, del D.lgs. 460/1997, non sono in ogni caso soggette alla ritenuta di cui all'art. 28 del DPR 600/1973, in quanto l’art. 16 del predetto decreto 460 esclude tale prelievo alla fonte per tutte le onlus.
Fatta la premessa, si fa osservare che al quesito, riferendosi ad associazioni, parrocchie e, comunque, ad enti non profit, può essere data una risposta in termini generali dato che dovrebbero essere analizzati caso per caso i rapporti giuridici sorti tra le parti.
Si deve innanzitutto verificare se gli eventi sovvenzionati costituiscono attività commerciali o meno e, in caso affermativo, se i proventi che ne derivano sono di competenza del comune o dell’associazione. Ciò è determinante in particolare per comprendere se l’associazione sta effettuando un servizio per conto del comune. Nel caso in cui quest’ultimo incassi direttamente i proventi è presumibile che l’associazione sia obbligata a svolgere un’attività che deve essere assoggettata ad IVA ex artt. 3 e 4 DPR 633/1972, laddove avente carattere di abitualità.
Se la titolarità dei proventi è dell’associazione e gli stessi hanno rilevanza IRES e IVA in quanto riferiti a cessioni di beni o prestazioni di servizi resi a soggetti non soci (art. 148, c. 2, TUIR, art. 4, c. 5, DPR 633/1972), il “contributo” comunale dovrà essere:
   a) assoggettato a ritenuta d’acconto ex art. 28 DPR 600/73 se non c’è diretta connessione tra la sovvenzione comunale e i corrispettivi che i terzi dovranno pagare per fruire dell’evento;
   b) assoggettato a ritenuta e ad IVA (quella applicabile alle prestazioni rese all’utenza) qualora la sovvenzione sia calmieratrice dei corrispettivi dovuti dall’utenza, cioè sia tale da essere in diretta connessione con i medesimi (art. 13, c. 1, DPR 633/1972).
Ciò avviene in particolare quando “il tariffario” delle prestazioni è concordato tra comune e associazione. Qualora non si sia in presenza di attività commerciale (assenza di proventi) e l’organizzazione dell’evento sia riferibile all’associazione, non si applicherà né ritenuta né IVA sul contributo, stanti l’irrilevanza IRES (art. 149, c. 1, lett. c, TUIR) e la carenza dei presupposti oggettivo e soggettivo di cui ai predetti artt. 3 e 4 del decreto 633. Riguardo alla tempistica di erogazione delle somme in argomento, se trattasi di sussidi (soggetti a ritenuta ma non ad IVA), l’erogazione dovrà essere effettuata nel rispetto di quanto previsto dal regolamento ex art. 12 del D.lgs. 241/1990.
Se, viceversa, si trattasse di corrispettivi, i principi generali che regolano l’attività contrattuale della PA, impongono che, al più, possano essere erogati acconti (da regolamentare in sede contrattuale) per le forniture di servizi, nelle more dell’esecuzione delle medesime, salvo saldo finale. In assenza di previsione contrattuale, il pagamento può avvenire soltanto ad ultimazione (link
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EDILIZIA PRIVATA: La prescrizione degli oneri di urbanizzazione.
DOMANDA:
Nel 2002 una ditta ha presentato una pratica edilizia e provveduto al versamento al Comune dei relativi oneri di urbanizzazione nel marzo 2004. I lavori di cui alla pratica non sono però mai stati eseguiti, l’ente non ha mai rilasciato titolo abilitativo né il richiedente ha presentato alcuna richiesta di rimborso degli oneri versati.
Nel dicembre 2004 la stessa ditta presentava una richiesta di condono edilizio relativa allo stesso fabbricato. Il Comune ha definendo la pratica di condono e richiede il pagamento di quanto dovuto.
La ditta chiede la possibilità di compensare quanto deve versare per il condono edilizio con la somma pagata a titolo di oneri per la prima pratica edilizia con conseguente recupero della differenza (il costo del condono è inferiore a quanto versato a titolo di oneri di urbanizzazione).
Si chiede il vs. parere sulla possibilità da parte dell’Ente di accettare tale compensazione anche alla luce della prescrizione decennale.
RISPOSTA:
In via di principio le somme versate a titolo di oneri concessori devono essere restituite all'interessato se alla richiesta del titolo abilitativo non è poi effettivamente seguita alcuna attività edilizia. Si tratta infatti di una obbligazione strettamente connessa e fondata sul maggior carico urbanistico che deriva dalla nuova costruzione la quale, se non eseguita, fa quindi venir meno direttamente il relativo presupposto applicativo.
Va tuttavia verificato se il credito non fosse già prescritto al momento della richiesta di restituzione. Al riguardo si osserva che, secondo i principi generali, il termine dal quale inizia a decorrere il momento di prescrizione decennale del diritto alla restituzione degli oneri di urbanizzazione, derivante dal fatto che, a seguito della intervenuta decadenza del titolo edilizio per mancato inizio dei lavori nel termine di legge, l’intervento edificatorio non è più stato realizzato, va individuato nel momento in cui il diritto al rimborso può essere effettivamente esercitato: coincidendo –detto termine– p.es. nella data di scadenza del termine annuale di decadenza per mancato inizio dei lavori relativi al titolo edilizio: scaduto il termine per l’inizio dei lavori il privato ha diritto di richiedere al Comune la restituzione delle somme versate, non potendo dar corso all'intervento assentito poiché i termini per potere iniziare i lavori sono scaduti, senza incorrere nella decadenza.
In sostanza si ritiene in genere che il termine iniziale della prescrizione decorra dalla data di rilascio del titolo edilizio e cioè dal momento in cui il diritto al rimborso poteva essere effettivamente esercitato. La giurisprudenza amministrativa ha osservato che “per i diritti di credito, la realizzazione dei quali esige un’attività del creditore, la prescrizione decorre dal giorno in cui l’attività poteva essere compiuta ed egli poteva, così, mettersi in grado di esigere la prestazione dovuta … sia perché l’inerzia del titolare del diritto assume rilevanza dal momento in cui è possibile esercitare il diritto” (v. Cons. Stato, Sez. V, 19.06.2003 n. 954; TAR Campania–SA- Sez. II, 28.02.2008 n. 247).
D'altronde secondo lo stesso art. 2935 c.c., il termine di prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere; pertanto, il diritto di credito del titolare di una concessione edilizia non utilizzata, di ottenere la restituzione dalla P.A. delle somme corrisposte per oneri di urbanizzazione, decorre non già dalla data del rilascio dell’atto di assenso edificatorio, bensì dalla data in cui il titolare comunica alla amministrazione la propria intenzione di rinunciare al titolo abilitativo, o dalla data di adozione da parte della P.A. del provvedimento che dichiara la decadenza del permesso di costruire per scadenza dei termini iniziali o finali o per l’entrata in vigore delle previsioni urbanistiche contrastanti (TAR Lombardia–Milano, sez. II, 24.03.2010, n. 728).
Ciò premesso e con riguardo alla fattispecie oggetto del quesito, laddove si espone che la concessione non sia stata mai rilasciata, si ritiene opportuno pertanto verificare, ai fini di stabilire correttamente la data di decorrenza della prescrizione, le ragioni per le quali in concreto il procedimento edilizio, pur dopo il versamento degli oneri, non sia proseguito fino al rilascio del provvedimento e se eventualmente siano intercorse eventuali rinunce dell’interessato, archiviazioni della pratica ecc. (in difetto delle quali la decorrenza potrebbe anche ipotizzarsi dal compimento del tempo previsto come necessario alla definizione del procedimento.
L’amministrazione avrà inoltre cura di accertare se nella fattispecie la eccezione di compensazione possa trovare comunque luogo sulla base della regola di cui all'art. 1242, 2° comma, cod. civ. secondo cui “la prescrizione non impedisce la compensazione se non era compiuta quando si è verificata la coesistenza dei due debiti” (link
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APPALTI: D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 31. Responsabile unico del procedimento.
Il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, definisce, all'art. 31, ruolo e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni. In particolare, al comma 5, rimette all'ANAC la definizione di una disciplina di maggior dettaglio sui compiti specifici del RUP 'nonché sugli ulteriori requisiti di professionalità (...),' attraverso un atto da adottare entro novanta giorni dall'entrata in vigore del codice.
Al momento l'ANAC non ha emanato la versione definitiva delle Linee guida relative alla figura del RUP. Peraltro, in attesa della versione definitiva delle Linee guida, si ritiene applicabile la disposizione di cui all'art. 31, comma 1, che rimette alla discrezionalità delle stazioni appaltanti l'individuazione del RUP, sulla base dell'inquadramento giuridico e delle competenze professionali ritenute adeguate.

Il Comune chiede un parere in relazione ai requisiti necessari per ricoprire l'incarico di responsabile unico del procedimento (RUP), in particolare per quanto attiene all'affidamento di appalti di forniture e servizi sottosoglia, con specifico riferimento al requisito del possesso di diploma di istruzione superiore di secondo grado rilasciato da un istituto tecnico superiore al termine di un corso di studi quinquennale.
Il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante il cd. nuovo Codice dei contratti, definisce, all'art. 31, ruolo e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni. In particolare, per quanto attiene ai requisiti per la nomina, al comma 1 si stabilisce che il RUP 'è nominato con atto formale del soggetto responsabile dell'unità organizzativa, che deve essere di livello apicale, tra i dipendenti di ruolo addetti all'unità medesima, dotati del necessario livello di inquadramento giuridico in relazione alla struttura della pubblica amministrazione e di competenze professionali adeguate in relazione ai compiti per cui è nominato.'
Successivamente, al comma 5, il legislatore rimette all'ANAC la definizione di una disciplina di maggior dettaglio sui compiti specifici del RUP 'nonché sugli ulteriori requisiti di professionalità (...),' attraverso un atto da adottare entro novanta giorni dall'entrata in vigore del codice.
In data 29.04.2016 l'ANAC ha sottoposto a consultazione pubblica, tra le altre, le linee guida relative a 'Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni'; inoltre l'Autorità, in considerazione della rilevanza generale di questa e di altre determinazioni assunte, ha deliberato di acquisire ulteriori pareri (del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari competenti) prima di procedere all'approvazione finale e alla successiva pubblicazione dei documenti definitivi.
Con specifico riferimento alla questione in esame, si osserva che nella proposta di linee guida, al Capo IV, punto 1.3, lett. a), si dispone che 'Per i servizi e le forniture di importo pari o inferiore alle soglie di cui all'art. 35 del Codice, il RUP è in possesso di diploma di istruzione superiore di secondo grado rilasciato da un istituto tecnico superiore al termine di un corso di studi quinquennale e un'anzianità di servizio ed esperienza di almeno tre anni nell'ambito dell'affidamento di appalti e concessioni di servizi e forniture'.
Tuttavia, in considerazione del fatto che l'ANAC non ha ancora emanato la versione definitiva delle citate linee guida, pare potersi ritenere applicabile, allo stato attuale, la più generica disposizione di cui al citato art. 31, comma 1, che rimette alla discrezionalità delle stazioni appaltanti l'individuazione del RUP, sulla base dell'inquadramento giuridico e delle competenze professionali ritenute adeguate
[1].
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[1] Corre l'obbligo di osservare che, a parere di chi scrive, la disposizione transitoria contenuta nell'ultimo periodo dell'art. 31, comma 5, laddove si dice che 'Fino all'adozione di detto atto si applica l'articolo 216, comma 8' sembra riferirsi ai soli appalti di lavori, atteso che quest'ultima norma opera un rinvio al regolamento di attuazione del codice precedentemente in vigore ('Fino all'adozione dell'atto di cui all'articolo 31, comma 5, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui alla parte II, titolo I, capo I, del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207'), segnatamente agli articoli 9 e 10, che riguardano la definizione di funzioni e compiti del responsabile del procedimento per la realizzazione di lavori pubblici. Peraltro, per quanto attiene proprio gli appalti di lavori pubblici, si segnala che nella Regione Friuli Venezia Giulia è tuttora vigente la legge regionale 31.05.2002, n. 14, a cui riferirsi per la disciplina del RUP (14.10.2016 -
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ENTI LOCALI: Azienda pubblica servizi alla persona. Conferimento congiunto incarico revisore dei conti e OIV.
L'ANAC ha precisato, in relazione alla nomina dei componenti dell'OIV (organismo indipendente di valutazione), di non poter esprimere parere favorevole nei confronti di coloro che siano revisori dei conti presso la medesima amministrazione.
Inoltre, le disposizioni introdotte in materia dall'art. 6 della l.r. 16/2010 si applicano esclusivamente alle amministrazioni appartenenti al comparto unico del pubblico impiego regionale e locale.

L'Ente ha chiesto un parere in ordine ad alcuni dubbi emersi sulla possibilità di conferire l'incarico di revisore dei conti e di OIV (organismo indipendente di valutazione) in capo al medesimo soggetto.
Si osserva a tal proposito che l'ANAC
[1], in merito alla sussistenza di conflitto d'interesse e cause ostative alla nomina dei componenti dell'organismo in esame, ha precisato che, in sede di formulazione dei criteri cui ispirare le proprie decisioni, non avrebbe comunque espresso parere favorevole (in analogia con le previsioni della l. n. 190/2012 e tenendo conto dello spirito che la anima) nei confronti di coloro che siano revisori dei conti presso la medesima amministrazione.
Premesso un tanto, si evidenzia che le disposizioni introdotte all'art. 6 della l.r. 16/2010, nel dettare una specifica disciplina in materia di valutazione della prestazione organizzativa e individuale da parte di un organismo all'uopo costituito, sono rivolte esclusivamente alle amministrazioni del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale.
Inoltre il comma 4 del citato articolo stabilisce che, ai fini del contenimento della spesa corrente degli enti locali, nei Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti le competenze attribuite all'organismo indipendente di valutazione possono essere conferite all'organo di revisione dell'ente.
Si rappresenta che la predetta norma derogatoria si riferisce in modo specifico all'ente locale territoriale di piccole dimensioni, come indicato, e non può trovare estensione o applicazione analogica nei confronti di amministrazioni pubbliche diverse, peraltro non appartenenti -come sopra specificato- al comparto unico.
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[1] Cfr. deliberazione n. 12 del 27.02.2013, Requisiti e procedimento per la nomina dei componenti degli Organismi indipendenti di valutazione (OIV), punto 3.5 (13.10.2016 -
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PATRIMONIO: Applicabilità dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 sulle operazioni di acquisto di immobili da parte dei Comuni al contratto di transazione.
1) L'art. 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, sulle operazioni di acquisto di beni immobili, pare non potere trovare diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto di transazione.
Tuttavia, nello spirito del contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza l'intervento legislativo in discorso, appare necessario che l'ente locale procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti previsti dall'indicata normativa.
2) Quanto all'individuazione dell'organo comunale competente all'approvazione dell'atto di transazione, comportante il trasferimento della proprietà di beni immobili, si ritiene che lo stesso debba individuarsi nel consiglio comunale.

Il Comune chiede un parere in merito all'applicabilità dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, sulle operazioni di acquisto di immobili da parte dei Comuni, a contratti di transazione che lo stesso dovrebbe stipulare con dei privati, tra le cui reciproche concessioni vi sarebbe anche il trasferimento della proprietà di beni immobili in capo all'Ente locale.
Desidera, altresì, sapere a quale organo competa l'approvazione dell'atto di transazione avente tale natura traslativa.
L'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011, n. 98 convertito con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 15.07.2011, n. 111 recita: 'A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente'.
In via preliminare, si osserva che il contratto di transazione, ai sensi dell'articolo 1965 c.c. è quello 'col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro'.
Si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive che assume natura traslativa tutte le volte in cui l'oggetto delle reciproche concessioni consiste nel trasferimento della proprietà o di altro diritto reale.
La transazione può avere i contenuti più vari. Nel caso di specie da essa scaturirebbe anche il trasferimento della proprietà di beni immobili che verrebbero acquistati dalla pubblica amministrazione.
Con specifico riferimento all'applicabilità, ad un contratto di transazione avente effetti traslativi di diritti reali, della norma di cui all'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 si è espressa la Corte dei Conti Lombardia, con la delibera 24.09.2015, n. 310, ove, a seguito di un articolato iter argomentativo, cui si rimanda, si afferma che: «[...] la disciplina limitativa, vigente dal 2014, all'acquisto di beni immobili da parte degli enti locali, posta dall'art. 12, comma 1-ter, del D.L. n. 98 del 2011, convertito dalla L. n. 111 del 2011, introdotto dall'art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del 2012, non possa trovare diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto di transazione. Naturalmente, nello spirito del contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza l'intervento legislativo in discorso, appare necessario che l'ente locale procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti previsti dall'esposta normativa. In particolare, sotto il profilo della "indispensabilità e indilazionabilità" dell'acquisizione di un immobile, risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione alla stipula della transazione espliciti puntualmente i presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta necessario porre fine ad una controversia mediante la necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal protrarsi del contenzioso. Per quanto riguarda, inoltre, l'apposita attestazione di congruità, anche se non appare necessario, alla luce della differente conformazione della fattispecie transattiva (in cui è assente un "prezzo" di acquisto, di cui occorre valutare la "congruità"), l'intervento di apposita stima da parte dell'Agenzia del Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia certificata dagli appositi uffici tecnici interni, costituendo elemento della complessiva stima di convenienza economica dell'accordo transattivo (sul quale, in generale, va naturalmente assunto specifico parere dell'avvocatura interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di legge o regolamentari). Infine, si ritiene necessario, non risultando incompatibile con la struttura dell'operazione transattiva, l'apposita pubblicazione, con indicazione del soggetto alienante, dell'immobile acquisito e degli altri elementi essenziali dell'accordo transattivo, nel sito istituzionale dell'ente».
In altri termini la Corte, nel far notare come la disposizione in commento, a differenza di quanto disposto per il 2013, non limita le operazioni di acquisto di beni immobili ma le subordina ad una serie di condizioni e modalità specificamente indicate in legge, afferma come, nel caso del contratto di transazione, che comporti il trasferimento della titolarità di beni immobili, non sia, per certi versi, possibile il rispetto formale e pedissequo dei presupposti indicati nel summenzionato articolo 12, comma 1-ter del D.L. 98/2011. Pur tuttavia, da quanto emerge nell'indicata delibera l'Ente dovrà cercare nei limiti del possibile di rispettare le condizioni tutte indicate nella norma.
[1]
In generale, in favore del rispetto delle condizioni indicate nell'articolo in commento, si rileva come la Corte dei Conti, Regione Piemonte,
[2] in una recente delibera, abbia affermato, benché con riferimento ad una differente fattispecie, [3] che: 'L'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011, si applica a tutti gli acquisti di immobili posti in essere dopo l'01/01/2014, indipendentemente dalla natura dell'operazione d'acquisto (e, quindi, anche dal tipo contrattuale utilizzato) e dal momento in cui quest'ultima sia stata eventualmente deliberata dal competente organo (il Consiglio, ex art. 42 TUEL), purché il momento perfezionativo dell'acquisto si determini successivamente all'01.01.2014'. [4]
Si fa presente, anche alla luce di quanto sopra esposto, che non è dato conoscere l'orientamento della Corte dei Conti del Friuli Venezia Giulia sull'argomento, di talché si suggerisce all'Ente di assumere un atteggiamento particolarmente prudenziale che si concreterebbe nel rispettare, nei limiti del possibile, in coerenza alle considerazioni sopra espresse, la norma di legge in commento.
Passando a trattare della seconda questione posta, consistente nell'individuazione dell'organo comunale competente all'approvazione dell'atto di transazione in riferimento, si ritiene che lo stesso debba individuarsi nel consiglio comunale. Infatti, l'articolo 42, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nell'individuare gli atti di competenza consiliare, alla lett. l), ricomprende gli acquisti e le alienazioni immobiliari.
Si può, pertanto, ritenere che sia necessaria una deliberazione consiliare che si esprima in merito alla transazione di cui trattasi, atteso l'oggetto della stessa consistente nell'acquisto di beni immobili.
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[1] Si veda, anche, il parere dell'Anci del 19.02.2014, ove, con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame, l'Associazione suggerisce di procedere con estrema cautela, anche in considerazione del fatto che la Corte dei conti molto probabilmente sarà chiamata a verificare come e in che misura le disposizioni citate verranno applicate al caso in concreto.
In tale parere, e in un'ottica più prudenziale rispetto a quella fatta propria dalla Corte dei Conti Lombardia, con la delibera 310/2015, si afferma che: «Chi scrive ritiene prudente ed opportuno [...] acquisire 'la congruità del prezzo attestata dalla agenzia del Demanio'. Poi, nel caso di differenze rispetto ai valori inseriti nella transazione, l'ente dovrà cercare di motivarne la ragione e la convenienza da parte dell'amministrazione».
[2] Corte dei Conti Piemonte, sez. contr., delibera del 19.02.2016, n. 18.
[3] Si trattava di un caso di contratto di permuta senza conguagli (c.d. permuta 'pura').
[4] Si ritiene di interesse rilevare che la questione della applicabilità al contratto di permuta 'pura' dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 non è univocamente risolta dalle delibere di Corte dei Conti che si sono espresse sull'argomento.
Così la stessa Corte dei Conti Piemonte si era espressa nel senso dell'esclusione della permuta pura dall'ambito di applicazione dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 nella delibera del 28.10.2014, n. 203. Anche la delibera della Corte dei Conti Veneto, del 04.05.2016, n. 264, che richiama una precedente delibera di altra Corte dei Conti, ha affermato che: «L'ambito oggettivo d'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011, non comprende la permuta "pura", cioè quella in cui non vi sono conguagli in denaro, giacché la norma si applica a quei contratti che determinano una spesa a carico dell'ente.
Con riferimento a tale ultimo aspetto, la Sezione Emilia Romagna, con Delib. n. 80 del 2015, ha però precisato che "l'applicabilità della previsione di cui al ripetuto art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011 si deve considerare sussistente ogni qualvolta, a seguito dell'acquisizione, l'amministrazione pubblica sia chiamata ad un esborso finanziario, ancorché lo stesso discenda unicamente dalle obbligazioni tributarie che l'atto traslativo comporta"».
La delibera della Corte dei Conti Lombardia 310/2015, nell'affrontare la questione dell'applicabilità della norma in riferimento al contratto di transazione, riporta, tra gli altri, quale esempio di esclusione dall'ambito applicativo dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, proprio il contratto di permuta 'pura', cioè senza conguaglio
(11.10.2016 -
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GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti (….). Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale».
La norma in esame mira ad «instaurare un contraddittorio a carattere necessario tra la p.a. ed il cittadino» al fine sia di «aumentare le possibilità del privato di ottenere ciò a cui aspira» sia di acquisire elementi che arricchiscono il patrimonio conoscitivo dell’amministrazione, consentendo una migliore definizione dell’interesse pubblico concreto che l’amministrazione stessa deve perseguire.
La prescritta partecipazione svolge, pertanto, una funzione difensiva e collaborativa. L’osservanza degli obblighi posti dall’art. 10-bis potrebbe assolvere anche ad una importante finalità deflattiva del contenzioso, evitando che si sposti nel processo ciò che dovrebbe svolgersi nel procedimento. Se, infatti, non si rende edotto il privato di tutte le ragioni che depongono per il rigetto della sua istanza, al fine di permettergli di esprimere, in ambito procedimentale, il suo “punto di vista", si costringe l’interessato a proporre ricorso giurisdizionale per fare valere in giudizio ciò che avrebbe potuto essere oggetto di accertamento in sede amministrativa.
La violazione di tale obbligo non comporta annullamento dell’atto finale nel solo caso in cui, in presenza di attività vincolata, l’amministrazione dimostra che il provvedimento non avrebbe potuto avere altro contenuto.

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6.– L’appello è fondato per violazione delle regole procedimentali.
L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti (….). Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale».
La norma in esame mira ad «instaurare un contraddittorio a carattere necessario tra la p.a. ed il cittadino» al fine sia di «aumentare le possibilità del privato di ottenere ciò a cui aspira» (Cons. Stato, sez. IV, 12.09.2007, n. 4828) sia di acquisire elementi che arricchiscono il patrimonio conoscitivo dell’amministrazione (Cons. Stato, sez. VI, 22.05.2008, n. 2452), consentendo una migliore definizione dell’interesse pubblico concreto che l’amministrazione stessa deve perseguire.
La prescritta partecipazione svolge, pertanto, una funzione difensiva e collaborativa. L’osservanza degli obblighi posti dall’art. 10-bis potrebbe assolvere anche ad una importante finalità deflattiva del contenzioso, evitando che si sposti nel processo ciò che dovrebbe svolgersi nel procedimento. Se, infatti, non si rende edotto il privato di tutte le ragioni che depongono per il rigetto della sua istanza, al fine di permettergli di esprimere, in ambito procedimentale, il suo “punto di vista", si costringe l’interessato a proporre ricorso giurisdizionale per fare valere in giudizio ciò che avrebbe potuto essere oggetto di accertamento in sede amministrativa.
La violazione di tale obbligo non comporta annullamento dell’atto finale nel solo caso in cui, in presenza di attività vincolata, l’amministrazione dimostra che il provvedimento non avrebbe potuto avere altro contenuto.
Nella fattispecie in esame, l’amministrazione non ha correttamente adempiuto a tale obbligo, non mettendo in condizione l’appellante di conoscere, in via procedimentale, le ragioni ostative all’accoglimento della sua domanda.
L’amministrazione non ha dimostrato che tale violazione sia stata ininfluente ai fini della definizione dell’assetto sostanziale degli interessi di cui alla determinazione finale adottata. Dalla prospettazione delle parti e dai documenti in atti risultano oggettive incertezze in ordine al contenuto e alle modalità con cui si è stata spedita, ricevuta e protocollata la domanda di finanziamento della società indirizza all’amministrazione.
Gli aspetti non chiari della vicenda avrebbero potuto essere oggetto di contradditorio procedimentale, con possibilità anche di un più agevole accesso al fatto e alla documentazione necessaria per chiarire come si sia concretamente svolta la vicenda in esame (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.10.2016 n. 4545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISul diniego di accesso ai documenti concernenti attività investigativa.
a) ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. a), della legge n. 241/1990 sono esclusi dal diritto di accesso i documenti amministrativi coperti da segreto o da divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge.
In particolare, i documenti dell’amministrazione che costituiscono atti di polizia giudiziaria sono soggetti esclusivamente alla disciplina stabilita dall’art. 329 c.p.p. in base alla quale “sono coperti da segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari"; tali atti inoltre sono soggetti alla disciplina sul divieto di pubblicazione stabilita dall’art. 114 ss. c.p.p.;
b) fermo restando quanto previsto dal c.p.p., la giurisprudenza amministrativa sostiene che con riferimento ai documenti per i quali il diritto di richiedere copie, estratti, o certificati sia riconosciuto da singole disposizioni del codice di procedura penale nelle diverse fasi del procedimento penale, l’accesso vada esercitato secondo le modalità previste dal medesimo codice;
c) l’art. 329 c.p.p. concerne gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o comunque su loro iniziativa; di conseguenza la giurisprudenza amministrativa ritiene che tali atti, anche se redatti da una pubblica amministrazione, siano sottratti al diritto di accesso regolato dalla legge n. 241/1990.

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Passando al merito della causa, prive di fondamento si rivelano le censure dedotte in prime cure con l’unico mezzo d’impugnazione e qui riprodotte pedissequamente dalla parte appellata.
Con tali profili di doglianza parte appellante lamenta in sostanza la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 22 e 24 della legge n. 241/1990, rivendicando l’esercizio del diritto di accesso ai documenti relativi all’attività investigativa svolta dall’Arma dei carabinieri nei suoi confronti, ma il vizio dedotto è insussistente per le seguenti ragioni:
   a) ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. a), della legge n. 241/1990 come sostituito dall’art. 16 della legge 11.02.2005 n. 15, sono esclusi dal diritto di accesso i documenti amministrativi coperti da segreto o da divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge. In particolare, i documenti dell’amministrazione che costituiscono atti di polizia giudiziaria sono soggetti esclusivamente alla disciplina stabilita dall’art. 329 c.p.p. in base alla quale “sono coperti da segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari" (Cons. Stato Sez. VI 10.04.2003 n. 1923); tali atti inoltre sono soggetti alla disciplina sul divieto di pubblicazione stabilita dall’art. 114 ss. c.p.p.;
   b) fermo restando quanto previsto dal c.p.p., la giurisprudenza amministrativa sostiene che con riferimento ai documenti per i quali il diritto di richiedere copie, estratti, o certificati sia riconosciuto da singole disposizioni del codice di procedura penale nelle diverse fasi del procedimento penale, l’accesso vada esercitato secondo le modalità previste dal medesimo codice (così, Cons. Stato Sez. VI n. 2780 del 2011; Cons. Stato Sez. VI 09/12/2008 n. 6117);
   c) l’art. 329 c.p.p. concerne gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o comunque su loro iniziativa; di conseguenza la giurisprudenza amministrativa ritiene che tali atti, anche se redatti da una pubblica amministrazione, siano sottratti al diritto di accesso regolato dalla legge n. 241/1990 (Cons. Stato sez. VI 09/12/2008 n. 6117; Cons. Stato Sez. VI 10/04/2003 n. 1923).
Conclusivamente l’appello all’esame si rivela fondato e va, pertanto, accolto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.10.2016 n. 4537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIE' illegittima l'ordinanza dirigenziale avente ad oggetto la rimozione e smaltimento dei rifiuti abbandonati ex art. 192 d.lgs. 152/2006:
   1) rilevandosi una chiara carenza di legittimazione attiva in capo al dirigente responsabile, atteso che, a norma dell’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 192/2006, è unicamente “il Sindaco (che) dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie”;
   2) non potendosi configurare alcun potere sostitutivo in capo al dirigente in relazione ad attribuzioni esclusivamente sindacali affidate da fonte primaria e con norma di natura speciale e successiva al disposto dell’art. 107 del TUEL.
Invero, va richiamato il condiviso e consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale:
   A) “l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, donde, in applicazione degli ordinari criteri ermeneutici, l'incompetenza del dirigente ad adottare il provvedimento impugnato, non potendosi interpretare la normativa alla luce del principio della separazione dei poteri in quanto la disposizione, peraltro successiva al T.U. enti locali, appare derogatoria rispetto al complessivo assetto delle funzioni introdotto da quest’ultima normativa”;
   B) “la competenza dei Sindaco, mantenuta espressamente dal legislatore del 2006 anche dopo la ribadita attribuzione ai dirigenti comunali del potere di ordinanza di cui all'art. 107, d.lgs. 267/2000 (T.U.E.L.), va interpretata come volontà di riservare in via esclusiva all'organo apicale dell'amministrazione comunale la competenza a emettere ordinanze ex art. 192, d.lgs. n. 152/2006, con conseguente annullabilità, per incompetenza, dell'ordinanza eventualmente adottata dal dirigente comunale".
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- Premesso che, con ordinanza n. 54 del 04.08.2016, l’Amministrazione intimata, preso atto che la società non era più proprietaria del suolo identificato al N.C.T. al fg. 3, p.lla 558 (già 73) per intervenuta acquisizione al patrimonio dello stesso ente, ha provveduto a revocare l’ordinanza n. 49 del 05.07.2016, avente ad oggetto, anche per quell’area, la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti abbandonati, sicché con riferimento a tale provvedimento, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile;
- Valutato, invece, che, con riferimento all’ordinanza prot. 63001.C_A024 registro ufficiale 24947 notificata il 01.06.2016 avente parimenti ad oggetto la rimozione e smaltimento dei rifiuti abbandonati ex art. 192 d.lgs. 152/2006 ed adottata con riferimento al suolo identificato al medesimo fg. 3, ma alla diversa p.lla 70, il ricorso sia meritevole di accoglimento:
   1) rilevandosi una chiara carenza di legittimazione attiva in capo al dirigente responsabile, atteso che, a norma dell’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 192/2006, è unicamente “il Sindaco (che) dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie”;
   2) non potendosi configurare alcun potere sostitutivo in capo al dirigente in relazione ad attribuzioni esclusivamente sindacali affidate da fonte primaria e con norma di natura speciale e successiva al disposto dell’art. 107 del TUEL;
- Richiamato, in proposito, il condiviso e consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale:
   A) “l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, donde, in applicazione degli ordinari criteri ermeneutici, l'incompetenza del dirigente ad adottare il provvedimento impugnato, non potendosi interpretare la normativa alla luce del principio della separazione dei poteri in quanto la disposizione, peraltro successiva al T.U. enti locali, appare derogatoria rispetto al complessivo assetto delle funzioni introdotto da quest’ultima normativa” (TAR Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 04.07.2014 n. 704; TAR Liguria, Genova, sez. I, 15.12.2009 n. 3741);
   B) “la competenza dei Sindaco, mantenuta espressamente dal legislatore del 2006 anche dopo la ribadita attribuzione ai dirigenti comunali del potere di ordinanza di cui all'art. 107, d.lgs. 267/2000 (T.U.E.L.), va interpretata come volontà di riservare in via esclusiva all'organo apicale dell'amministrazione comunale la competenza a emettere ordinanze ex art. 192, d.lgs. n. 152/2006, con conseguente annullabilità, per incompetenza, dell'ordinanza eventualmente adottata dal dirigente comunale" (Cass. pen., sez. III, 20.05.2014 n. 40212);
- Ritenuto che, in considerazione della violazione di un chiaro dettato normativo senza che siano ravvisabili significativi contrasti giurisprudenziali, il complessivo regime delle spese unitamente all’assunzione dell’onere relativo al pagamento del contributo unificato debbano seguire la regola della soccombenza (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 27.10.2016 n. 4995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa contestazione della legittimità della segnalazione all’ANAC è inammissibile per carenza di interesse in quanto la predetta segnalazione non è un atto autonomamente lesivo, ma una mera comunicazione tra enti, i cui eventuali vizi possono essere fatti valere soltanto in via derivata impugnando il provvedimento finale dell’Autorità, unico atto avente natura provvedimentale e carattere autoritativo.
Analogamente inammissibile appare anche l’impugnazione dell’atto con cui è stato disposto l’incameramento della cauzione provvisoria in quanto quest’ultima costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione (tardivamente impugnato, ancorché limitatamente ai suoi effetti) e, pertanto, non è suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti e risulta, quindi, insensibile ad eventuali valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa della violazione che ha dato causa all'esclusione.

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Appare dirimente dell’infondatezza del proposto gravame la natura del termine indicato dall'art. 48, I comma, del DLgs n. 163 del 2006 e, inoltre, la impossibilità di ricorrere al soccorso istruttorio.

È stato osservato che “il soccorso istruttorio riguarda la sola fase della verifica delle dichiarazioni relative al possesso dei requisiti per l’ammissione alla gara, ma non anche la fase del controllo dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa il cui possesso sia stato dichiarato nel segmento procedimentale anzidetto".
In altri termini, una cosa è verificare le dichiarazioni relative ai requisiti necessari per l’ammissione alla gara, altra cosa è verificare che i requisiti dichiarati sussistono.
Il c.d. soccorso istruttorio, ivi compreso il soccorso rinforzato, attiene alla fase della verifica delle dichiarazioni relative al possesso dei requisiti generali e speciali, non anche alla fase della comprova della loro sussistenza. Infatti, l’art. 46, comma 1, obbliga le stazioni appaltanti al soccorso nei limiti previsti dagli articoli da 38 a 45 ed il terzo comma specifica che le disposizioni sul c.d. soccorso istruttorio rinforzato si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni.
Ne consegue che la fase di comprova dei requisiti di idoneità non è affatto contemplata nel perimetro di applicazione del soccorso istruttorio.
D’altra parte, tale fase, in quanto connotata da particolare rapidità al fine di consentire una sollecita conclusione del procedimento, non potrebbe tollerare una ulteriore interlocuzione con la stazione appaltante in ordine alla sufficienza dei documenti prodotti per comprovare la presenza dei requisiti, costituendo, invece, un obbligo (rectius: un onere) per il concorrente produrre, nel termine perentorio di dieci giorni, i documenti sufficienti alla comprova attraverso le modalità specificate nella lex specialis.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 25.02.2014, n. 10, ha chiarito che il termine di 10 giorni previsto dall’art. 48, I e II comma, del DLgs n. 163/2006, entro il quale si deve presentare la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, ha natura perentoria.
In entrambi i casi –ha osservato l’Adunanza Plenaria- la perentorietà del termine, pur non essendo espressamente definita come tale dalla norma, si ricollega alle esigenze di celerità insite nel procedimento di gara e nel carattere automatico delle sanzioni previste per la sua inosservanza (esclusione del concorrente, escussione della cauzione provvisoria, segnalazione all’Autorità di Vigilanza, determinazione della nuova soglia di anomalia e conseguente eventuale nuova aggiudicazione), salva l’oggettiva impossibilità –non ricorrente nel caso di specie- della produzione della documentazione la cui prova grava sull’impresa.
Sul punto, la sentenza dell’Adunanza Plenaria del 25.02.2014, n. 9, al punto d) dei principi di diritto ha altresì affermato che “nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il potere di soccorso sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice (d.lgs. 12.04.2006, n. 163) -sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione appaltante di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di completarli ma solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti- non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali”.
L’individuazione del termine come perentorio discende quindi dalla sua ratio, consistente nella “esigenza di celerità insita nella fase specifica del procedimento”, in coerenza con la giurisprudenza prevalente secondo cui l’art. 152 c.p.c., che definisce i termini processuali come ordinatori salvo quelli espressamente qualificati come perentori, “vale esclusivamente per i termini processuali, mentre con riguardo ai termini esistenti all’interno del procedimento amministrativo il carattere perentorio o meno va ricavato dalla loro ratio”.
In sostanza, l’imprenditore concorrente, nel presentare la propria offerta, assume anche l’onere di comprovare, a richiesta, il possesso dei requisiti di partecipazione attraverso la presentazione della relativa documentazione entro il termine perentorio di dieci giorni.
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Considerato
- che parte ricorrente ha partecipato alla gara indetta dal Provveditorato Interregionale delle Opere Pubbliche per la Campania, Molise, Puglia e Basilicata per l’affidamento del servizio di conferimento della frazione umida proveniente dalla raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani del Comune di Quarto;
- che con nota 11.02.2016 veniva invitata dalla stazione appaltante “a rendere disponibili sul sistema AVCPASS, entro 10 giorni dalla richiesta inoltrata al medesimo sistema dal RUP del Comune di Quarto, le attestazioni di buon esito di servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto, dichiarati in sede di gara”, con l’avvertimento che, in difetto della fornitura dei predetti dati nei tempi richiesti, “questo Provveditorato procederà all’esclusione del concorrente dalla gara”;
- che, atteso che la documentazione acquisita dal RUP a mezzo AVCPASS era risultata inidonea a dimostrare il possesso del requisito relativo al quantitativo (11.000 tonnellate) di raccolta differenziata di rifiuti richiesto dal disciplinare ed espressamente dichiarato dalla ricorrente, con provvedimento 09.06.2016 quest’ultima veniva esclusa dalla procedura concorsuale: con successive determinazioni del 05.07.2016 n.i 22926 e 22929, peraltro, la stazione appaltante comunicava alla ricorrente di aver provveduto ai sensi dell’art. 48, I comma, del DLgs n. 163/2006 all’incameramento della cauzione provvisoria e, rispettivamente, alla segnalazione della vicenda all’ANAC;
- che con il presente gravame la ricorrente ha contestato non già la propria esclusione dalla procedura concorsuale, ma soltanto le determinazioni della stazione appaltante di segnalare all’ANAC l’avvenuta esclusione per mancata dimostrazione del possesso dei requisiti di capacità tecnico professionale dichiarati in sede di gara e di incamerare la cauzione provvisoria: osserva la ricorrente, a tal proposito, che:
   - atteso che l’esclusione era stata comminata sul presupposto (di un errore di valutazione del RUP che aveva omesso di estrapolare i certificati di regolare esecuzione dei servizi svolti su commissione del Comune di Castello di Cesterna e della ditta Am. spa del 2013 e, comunque) dell’inerzia serbata dai Comuni sulla richiesta formulata dalla stazione appaltante per accertare, disponendo un supplemento di istruttoria, l’effettiva sussistenza del requisito relativo alla quantità dei rifiuti trattati, gli impugnati provvedimenti sarebbero stati adottati per il mancato adempimento di un onere a cui essa non solo non era tenuta, ma relativamente al quale nemmeno era stata interpellata;
   - la documentazione comprovante il possesso dei requisiti, inoltre, va acquisita, giusta l’art. 9, II comma, ultima parte della delibera ANAC 24.02.2016 n. 157 (di attuazione dell’art. 6-bis del DLgs n. 163 del 2006), mediante la Banca dati con procedure telematiche con le modalità ivi precisate;
   - ancora, la legge di gara non indicava con precisione il periodo temporale del “triennio precedente” relativamente al quale si sarebbe dovuto dimostrare “di avere svolto regolarmente e con buon esito” i “servizi analoghi” nell’importo e nella quantità richiesti;
   - infine, non era stata valutata la gravità del comportamento della ricorrente ai fini dell’adozione degli impugnati provvedimenti, “non essendo la misura sanzionatoria in questione frutto di un’attività vincolata”;
- che il ricorso è infondato atteso che l'escussione della cauzione provvisoria e la segnalazione del fatto all'Autorità (per i provvedimenti di cui all’art. 6, XI comma, del codice dei contratti vigente all’epoca) sono state effettuate ai sensi della disposizione contenuta nel penultimo periodo dell’art. 48, I comma, del DLgs n. 163/2006: alla luce di tale disciplina correttamente la stazione appaltante, non avendo ricevuto nei termini previsti la documentazione comprovante il possesso dei requisiti, ha adottato gli atti impugnati comunicando l'escussione della cauzione provvisoria e segnalando la vicenda all'Autorità.
Ora –a prescindere dal fatto che la contestazione della legittimità della segnalazione all’ANAC è inammissibile per carenza di interesse in quanto la predetta segnalazione non è un atto autonomamente lesivo, ma una mera comunicazione tra enti, i cui eventuali vizi possono essere fatti valere soltanto in via derivata impugnando il provvedimento finale dell’Autorità, unico atto avente natura provvedimentale e carattere autoritativo (cfr. TAR Milano, I, 06.07.2016 n. 1625 e 26.05.2015 n. 1235; TAR Roma, III, 05.02.2015 n. 2129; TAR Palermo, I, 17.07.2015, n. 1757; CdS, VI, 12.06.2012 n. 3428; CdS, I, 07.07.2011 n. 4826/2010); ed a prescindere dal fatto che analogamente inammissibile appare anche l’impugnazione dell’atto con cui è stato disposto l’incameramento della cauzione provvisoria in quanto quest’ultima costituisce, come si è accennato precedentemente, una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione (tardivamente impugnato, ancorché limitatamente ai suoi effetti) e, pertanto, non è suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti e risulta, quindi, insensibile ad eventuali valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa della violazione che ha dato causa all'esclusione (cfr., tra le tante, CdS, Ap. 29.02.2016 n. 5; CdS, V, 26.05.2015 n. 2638; CdS, IV, 16.02.2012 n. 810; nonché Corte Cost., ord. n. 211 del 13.07.2011)– appare dirimente dell’infondatezza del proposto gravame la natura del termine indicato dall'art. 48, I comma, del DLgs n. 163 del 2006 e, inoltre, la impossibilità di ricorrere al soccorso istruttorio.
È stato osservato (cfr. TAR Roma, II, 22.03.2016 n. 3580 e I-ter 02.05.2016 n. 4967) –e tali osservazioni il collegio condivide pienamente e fa proprie– che “il soccorso istruttorio riguarda la sola fase della verifica delle dichiarazioni relative al possesso dei requisiti per l’ammissione alla gara, ma non anche la fase del controllo dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa il cui possesso sia stato dichiarato nel segmento procedimentale anzidetto".
In altri termini, una cosa è verificare le dichiarazioni relative ai requisiti necessari per l’ammissione alla gara, altra cosa è verificare che i requisiti dichiarati sussistono. Il c.d. soccorso istruttorio, ivi compreso il soccorso rinforzato, attiene alla fase della verifica delle dichiarazioni relative al possesso dei requisiti generali e speciali, non anche alla fase della comprova della loro sussistenza. Infatti, l’art. 46, comma 1, obbliga le stazioni appaltanti al soccorso nei limiti previsti dagli articoli da 38 a 45 ed il terzo comma specifica che le disposizioni sul c.d. soccorso istruttorio rinforzato si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni. Ne consegue che la fase di comprova dei requisiti di idoneità non è affatto contemplata nel perimetro di applicazione del soccorso istruttorio.
D’altra parte, tale fase, in quanto connotata da particolare rapidità al fine di consentire una sollecita conclusione del procedimento, non potrebbe tollerare una ulteriore interlocuzione con la stazione appaltante in ordine alla sufficienza dei documenti prodotti per comprovare la presenza dei requisiti, costituendo, invece, un obbligo (rectius: un onere) per il concorrente produrre, nel termine perentorio di dieci giorni, i documenti sufficienti alla comprova attraverso le modalità specificate nella lex specialis.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 25.02.2014, n. 10, ha chiarito che il termine di 10 giorni previsto dall’art. 48, I e II comma, del DLgs n. 163/2006, entro il quale si deve presentare la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, ha natura perentoria. In entrambi i casi –ha osservato l’Adunanza Plenaria- la perentorietà del termine, pur non essendo espressamente definita come tale dalla norma, si ricollega alle esigenze di celerità insite nel procedimento di gara e nel carattere automatico delle sanzioni previste per la sua inosservanza (esclusione del concorrente, escussione della cauzione provvisoria, segnalazione all’Autorità di Vigilanza, determinazione della nuova soglia di anomalia e conseguente eventuale nuova aggiudicazione), salva l’oggettiva impossibilità –non ricorrente nel caso di specie- della produzione della documentazione la cui prova grava sull’impresa.
Sul punto, la sentenza dell’Adunanza Plenaria del 25.02.2014, n. 9, al punto d) dei principi di diritto ha altresì affermato che “nelle procedure di gara disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il potere di soccorso sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice (d.lgs. 12.04.2006, n. 163) -sostanziandosi unicamente nel dovere della stazione appaltante di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di completarli ma solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti- non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali”.
L’individuazione del termine come perentorio discende quindi dalla sua ratio, consistente nella “esigenza di celerità insita nella fase specifica del procedimento”, in coerenza con la giurisprudenza prevalente secondo cui l’art. 152 c.p.c., che definisce i termini processuali come ordinatori salvo quelli espressamente qualificati come perentori, “vale esclusivamente per i termini processuali, mentre con riguardo ai termini esistenti all’interno del procedimento amministrativo il carattere perentorio o meno va ricavato dalla loro ratio” (cfr. Ap. 25.02.2014, n. 10).
In sostanza, l’imprenditore concorrente, nel presentare la propria offerta, assume anche l’onere di comprovare, a richiesta, il possesso dei requisiti di partecipazione attraverso la presentazione della relativa documentazione entro il termine perentorio di dieci giorni;
- che, dunque, per le suesposte considerazioni il ricorso va respinto, le spese seguendo la soccombenza (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 27.10.2016 n. 4987 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Contratti della P.A. – Aggiudicazione – Impugnazione – Rito – Art. 120, comma 6 bis, c.p.a. – Esclusione.
Contratti della P.A. – Disciplina – Nuovo Codice dei contratti pubblici – Ambito temporale di applicazione.
Il nuovo rito introdotto, per i ricorsi in materia di contratti pubblici, dall’art. 204 del nuovo Codice dei contratti, approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50, che ha inserito il comma 6-bis all’art. 120 c.p.a., non si applica all’impugnazione dei provvedimenti di aggiudicazione della gara, che restano disciplinati dal comma 6 dello stesso art. 120, non essendo tali atti inclusi nell’elenco individuato dal precedente comma 2-bis.
Ai sensi dell’art. 216, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 le disposizioni del Codice si applicano alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi o avvisi sono pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del Codice.

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15. Si può cominciare dall’esame dell’appello di Cl. (n. 4551/2016).
16. Va anzitutto disattesa l’eccezione di tardività sollevata da Ri. con riferimento al disposto dell’art. 120, comma 6-bis, del cod. proc. amm., introdotto dall’art. 204 del d.lgs. 50/2016 (nuovo Codice dei contratti pubblici), che prevede, per la proposizione dell’appello nei casi considerati dal comma 2-bis (impugnazioni delle esclusioni o delle ammissioni alla procedura di affidamento, all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi), un termine di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza.
Infatti, la sentenza gravata consegue all’impugnazione di un provvedimento di aggiudicazione, e quindi è al di fuori dell’ambito tematico considerato dal predetto comma 2-bis, e comunque l’art. 216 del d.lgs. 50/2016 dispone che le disposizioni del Codice si applicano alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi o avvisi sono pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del Codice, mentre l’avvio della procedura in esame risale al 2014 (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.10.2016 n. 4528 - massima tratta da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Disciplina applicabile in caso di bando pubblicato nella Gazzetta della Comunità europea nella vigenza del vecchio Codice degli appalti e nella Gazzetta della Repubblica italiana nella vigenza del nuovo Codice dei contratti.
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Gara - Disciplina applicabile - Nuovo o vecchio Codice dei contratti - Riferimento alla pubblicazione del bando sulla Gazzetta della Comunità europea o su quella della Repubblica italiana - Individuazione.
Nel caso di bando di gara pubblicato nella Gazzetta della Comunità europea nella vigenza del vecchio Codice degli appalti e nella Gazzetta della Repubblica italiana nella vigenza del nuovo Codice dei contratti, approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50, alla gara si applica la disciplina dettata dal d.lgs. n. 50, avendo la prima pubblicazione mera valenza accessoria della seconda.
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Il TAR Bologna, dopo aver ricordato che il nuovo Codice disciplina la pubblicazione dei bandi a livello nazionale nell’art. 73, ha affermato che due sono le tesi che potrebbero sostenersi:
   a) la prima, secondo cui fino all’entrata in vigore del regolamento volto a disciplinare le modalità di pubblicazione dei bandi sulla piattaforma telematica dell’ANAC continuano ad applicarsi i principi elaborati in relazione all’art. 66, comma 8, del vecchio Codice, dovendosi fare applicazione del comma 11 dell’art. 216 del nuovo Codice, secondo il quale «Fino alla data indicata nel decreto di cui all'articolo 73, comma 4, gli avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, serie speciale relativa ai contratti. Fino alla medesima data (omissis) … gli effetti giuridici di cui al comma 5 del citato articolo 73 continuano a decorrere dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale»;
   b) la seconda, a tenore della quale il comma 11 dell’art. 216 del nuovo Codice non prevede la pubblicazione in GURI come centrale e la data di pubblicazione utile ai fini della validità del bando è una qualunque pubblicazione, come per altro affermato in un comunicato ANAC dell’11.05.2016.
Ad avviso del Tar Bologna proprio l’avvenuta pubblicazione del bando in GUCE sotto la vigenza del vecchio Codice dei contratti comporta che il principio cui far riferimento al fine di stabilire a quale tipo di pubblicazione agganciare la produzione degli effetti giuridici è la norma del vecchio Codice, ovvero l’art. 66, comma 8, del medesimo, che riconnette alla pubblicazione in GURI la produzione di effetti giuridici in ambito nazionale.
Inoltre, è dirimente la considerazione che, secondo la proposizione finale del comma 4 dell’art. 73, d.lgs. n. 50 del 2016, fino alla data indicata nel decreto previsto dal medesimo comma si applica l'art. 216, comma 11, che chiaramente riconnette la produzione di effetti giuridici in ambito nazionale alla pubblicazione in GURI fino alla predetta data, poiché fino alla stessa data gli avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati nella GURI, serie speciale relativa ai contratti.
Stabilito, quindi, alla luce delle premesse su esposte, che la pubblicazione rilevante ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile alla fattispecie, in quanto vigente a tale momento, è esclusivamente quella nella GURI, la gara in questione non poteva non essere disciplinata dal nuovo testo del Codice dei contratti (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 26.10.2016 n. 883 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2. I ricorsi in epigrafe, con i quali vengono impugnati gli atti del medesimo procedimento di evidenza pubblica, vengono riuniti per essere decisi con unica sentenza, attesa l’evidente connessione fra essi.
Con il ricorso n. 422/2016 la SGS innanzitutto contesta la mancata applicazione alla gara in questione del nuovo codice dei contratti pubblici, osservando che, ai sensi dell’art. 216 di detto testo normativo, alle gare i cui bandi sono stati pubblicati in data successiva all’entrata in vigore del codice stesso, si applica la disciplina recente. Il bando di cui trattasi è stato pubblicato in GURI il 22.04.2016, quindi in data successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016 (19.04.2016).
Ciò implicherebbe l’imprevedibilità dell’esito della gara e quindi la violazione del principio di affidamento, tenuto conto delle notevoli differenze tra la disciplina previgente e quella attualmente vigente.
La giurisprudenza ha affrontato il problema della pubblicità dei bandi in relazione al momento iniziale di applicazione di una nuova disciplina.
Orbene,
è stato ritenuto, con riguardo a questione analoga (applicabilità del nuovo testo dell’art. 38 del d.lgs. 163/2006, nel quale è stato introdotto dal d.l. 90/2014 il comma 2-bis), che, ai sensi dell’art. 66/8 del (vecchio, ovviamente) codice dei contratti, «gli effetti giuridici che l'ordinamento riconnette alla pubblicità in ambito nazionale decorrono dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana» (cfr.: TAR Veneto, I, n. 1575/2011; Idem, n. 1791/2011, confermata da Cons. Stato, n. 6028/2014; TAR Lombardia–Brescia, II, n. 201/2015).
Irrilevante, dunque, ai fini qui considerati, deve ritenersi la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea, avente mera valenza accessoria della successiva pubblicazione (per altro per estratto) sulla GURI. Pertanto, stando alla norma in questione, ai fini degli effetti giuridici ricollegati alla pubblicità (quale indubbiamente quello dell’applicabilità delle nuove disposizioni) il riferimento temporale da tenere in considerazione sarebbe quello dell'avvenuta pubblicazione del bando nella GURI che, nel caso in esame, è avvenuta senz’altro dopo la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016.
Nel caso che stiamo trattando la pubblicazione in GUCE è avvenuta nella vigenza del vecchio codice dei contratti pubblici, la pubblicazione in GURI successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016.
Il nuovo codice così disciplina la pubblicazione dei bandi a livello nazionale (come testualmente si legge nella rubrica dell’art. 73):
«1. Gli avvisi e i bandi di cui agli articoli 70, 71 e 98 non sono pubblicati in ambito nazionale prima della pubblicazione a norma dell'articolo 72. Tuttavia la pubblicazione può comunque avere luogo a livello nazionale qualora la stessa non sia stata notificata alle amministrazioni aggiudicatrici entro quarantotto ore dalla conferma della ricezione dell'avviso conformemente all'articolo 72.
2. Gli avvisi e i bandi pubblicati a livello nazionale non contengono informazioni diverse da quelle contenute negli avvisi o bandi trasmessi all'Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea o pubblicate sul profilo di committente, ma menzionano la data della trasmissione dell'avviso o bando all'Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea o della pubblicazione sul profilo di committente.
3. Gli avvisi di preinformazione non sono pubblicati sul profilo di committente prima della trasmissione all'Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea dell'avviso che ne annuncia la pubblicazione sotto tale forma. Gli avvisi indicano la data di tale trasmissione.
4. Fermo restando quanto previsto all'articolo 72, gli avvisi e i bandi sono, altresì, pubblicati senza oneri sul profilo del committente della stazione appaltante e sulla piattaforma digitale dei bandi di gara presso l'ANAC, in cooperazione applicativa con i sistemi informatizzati delle regioni e le piattaforme regionali di e-procurement. Con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con l'ANAC, da adottarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente codice, sono definiti gli indirizzi generali di pubblicazione al fine di garantire la certezza della data di pubblicazione e adeguati livelli di trasparenza e di conoscibilità, anche con l'utilizzo della stampa quotidiana maggiormente diffusa nell'area interessata. Il predetto decreto individua la data fino alla quale gli avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, serie speciale relativa ai contratti pubblici, entro il sesto giorno feriale successivo a quello del ricevimento della documentazione da parte dell'Ufficio inserzioni dell'Istituto poligrafico e zecca dello Stato. La pubblicazione di informazioni ulteriori, complementari o aggiuntive rispetto a quelle indicate nel presente codice, avviene esclusivamente in via telematica e non comporta oneri finanziari a carico delle stazioni appaltanti. Fino alla data indicata nel decreto di cui al presente comma, si applica l'articolo 216, comma 11.
5. Gli effetti giuridici che l'ordinamento connette alla pubblicità in ambito nazionale decorrono dalla data di pubblicazione sulla piattaforma digitale dei bandi di gara presso l'ANAC.
»
A questo punto potrebbero in astratto sostenersi due opposte tesi:
   a) che fino all’entrata in vigore del regolamento volto a disciplinare le modalità di pubblicazione dei bandi sulla piattaforma telematica dell’ANAC continuano ad applicarsi i principi elaborati in relazione all’art. 66/8 del vecchio codice, dovendosi fare applicazione del comma 11 dell’art. 216 del nuovo codice, secondo il quale «Fino alla data indicata nel decreto di cui all'articolo 73, comma 4, gli avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, serie speciale relativa ai contratti. Fino alla medesima data (omissis) … gli effetti giuridici di cui al comma 5 del citato articolo 73 continuano a decorrere dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale» (questa è, in estrema sintesi, la tesi della S.G.S.);
   b) che detto comma undicesimo dell’art. 216 non prevede la pubblicazione in GURI come centrale e che la data di pubblicazione utile ai fini della validità del bando è una qualunque pubblicazione, come per altro affermato in un comunicato ANAC dell’11.05.2016.
Orbene,
il Collegio ritiene che da un lato proprio l’avvenuta pubblicazione del bando in GUCE sotto la vigenza del vecchio codice dei contratti comporta che il principio cui far riferimento al fine di stabilire a quale tipo di pubblicazione agganciare la produzione degli effetti giuridici è la norma del vecchio codice, ovvero l’art. 66/8 del medesimo, che riconnette alla pubblicazione in GURI la produzione di effetti giuridici in ambito nazionale (si veda anche la giurisprudenza su richiamata).
Inoltre,
è dirimente la considerazione che, secondo la proposizione finale del comma quarto dell’art. 73 del d.lgs. n. 50/2016, fino alla data indicata nel decreto previsto dal medesimo comma si applica l'articolo 216, comma 11, che chiaramente riconnette la produzione di effetti giuridici in ambito nazionale alla pubblicazione in GURI fino alla predetta data, poiché fino alla stessa data gli avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati nella GURI, serie speciale relativa ai contratti.
Stabilito, quindi, alla luce delle premesse su esposte, che la pubblicazione rilevante ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile alla fattispecie, in quanto vigente a tale momento, è esclusivamente quella nella GURI, la gara in questione non poteva non essere disciplinata dal nuovo testo del codice dei contratti.
Ne consegue che la disciplina di gara è illegittima sotto il radicale profilo considerato, sicché, in accoglimento del ricorso in esame, gli atti impugnati devono essere annullati.

ATTI AMMINISTRATIVIAl al cospetto di un provvedimento sussumibile nel novero dei c.d. provvedimenti plurimotivati, ossia fondati su più motivi, ciascuno dei quali idoneo a giustificare la decisione assunta dall’amministrazione, la giurisprudenza è costante nell’affermare che “allorché sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni” soccorrendo, infatti, “al riguardo il consolidato principio secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento”.
Anche la Sezione si è posta negli stessi sensi e, più di recente, ha ribadito che “In caso di provvedimento plurimotivato, il rigetto di doglianza volta a contestare una delle ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici, atteso che, seppur tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente”.

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3.2. Preliminarmente osserva il Collegio di essere al cospetto di un provvedimento sussumibile nel novero dei c.d. provvedimenti plurimotivati, ossia fondati su più motivi, ciascuno dei quali idoneo a giustificare la decisione assunta dall’amministrazione.
Nei casi come quello all’esame la giurisprudenza è costante nell’affermare che “allorché sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.05.2005, n. 2767; in termini anche TAR Liguria, Sez. I, 17.03.2006, n. 252; TAR Basilicata, Sez. I, 28.06.2010, n. 456) soccorrendo, infatti, “al riguardo il consolidato principio secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento.” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010, n. 4243).
Anche la Sezione si è posta negli stessi sensi (tra le tante, TAR Campania-Napoli, Sez. III, 09.07.2012 n. 3300 e TAR Campania-Napoli, Sez. III, 27.09.2013 n. 4450) e più di recente ha ribadito che “In caso di provvedimento plurimotivato, il rigetto di doglianza volta a contestare una delle ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici, atteso che, seppur tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 22/10/2015, n. 4972) ed inattaccabile (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.10.2016 n. 4869 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La “realizzazione di un’autorimessa a cielo aperto per la custodia giudiziaria di autoveicoli e moto”, il cui intervento consiste:
- nella “Realizzazione di piazzale zona autorimessa previo posa in opera di strato in tessuto geotessile impermeabile (…), finitura con strato di asfalto bituminoso”, nonché in “Realizzazione piazzale zona crash car, previo posa in opera di strato tessuto geotessile impermeabile (…) con finitura di pavimentazione in calcestruzzo”,
è incompatibile con la destinazione E agricola.
Osserva al riguardo il Collegio che il sempre più crescente fenomeno di incremento delle attività industriali, commerciali e, in genere, del settore terziario con la consequenziale relativa attività edificatoria, produce e concorre a causare sempre più consumo del suolo, erosione del tessuto e del patrimonio naturale e della terra intesa come primigenia risorsa dell’uomo, complesso di valori e beni immateriali che possono essere riassunti nella vivibilità ed amenità del territorio e che vanno preservati dalla cementificazione sempre più diffusa che non a caso le norme sul recupero e l’incentivazione del patrimonio edilizio esistente mirano ad arginare.
Ma la delineata salvaguardia dei cennati valori e beni immateriali non deve porre in ombra la considerazione, di rilievo materiale, del territorio a destinazione agricola quale sede di esercizio dell’attività agricola e sorgente delle risorse alimentari che ne sono il portato, nonché l’esigenza di salvaguardarlo.
Esigenza viepiù avvertita nel presente momento storico, caratterizzato dalla scarsità della produzione agricola, con il conseguente ricorso all’importazione con le connesse preoccupazioni.
Orbene, la consumazione, in generale, del territorio che l’edificazione, ancorché a scopo non residenziale, concorre a determinare, si pone, a parere del Collegio, in palese contrasto con la ratio insita nella destinazione di una parte del territorio a zona agricola e relativa classificazione negli strumenti urbanistici, risolvendosi in ultima analisi in una frustrazione di tale ratio, che va individuata nella salvaguardia delle potenzialità immateriali e materiali intrinseche dei suoli agricoli e di cui si è fatto cenno poc’anzi.
E’ di immediata evidenza, invero, come la stessa definizione insita nella destinazione di un’area a “zona agricola”, non può non indurre a ritenere incompatibili con tale destinazione, usi della zona stessa radicalmente antitetici, quali quello edificatorio ancorché per finalità non residenziali.
Giova, peraltro, precisare che l’opzione qui sostenuta non preclude quella limitata attività edificatoria che sia collegata con le finalità agricole, “connessa con l'attività di una azienda agricola ed avvenga nei limiti di edificabilità previsti dalla relativa normativa”.
Segnala il Collegio che recente giurisprudenza di questo TAR ha espresso il medesimo avviso che si ritiene di dover formulare nel caso all’esame in virtù delle istanze di tutela e salvaguardia del territorio più sopra illustrate.
Altra Sezione del Tribunale in una fattispecie (realizzazione di un parcheggio scoperto in zona agricola) similare a quella che ci occupa ha, infatti, condivisibilmente sancito che “E' del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm. La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola”.

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Ciò posto, ritiene il Collegio di poter circoscrivere la trattazione alla disamina delle censure svolte dalla ricorrente avverso il vincolo di rischio idraulico e quello di zona E agricola addotti nel provvedimento e nei presupposti pareri, a ragioni del diniego, peraltro, come avvertito, ciascuna autonomamente e singolarmente idonea a giustificarlo.
3.3. Lamenta in proposito la deducente che il Comune non rappresenta le ragioni per cui, in virtù della classificazione dell’area de qua come “R1 – rischio moderato”, l’intervento non sarebbe assentitile tenuto conto delle norme del Piano Stralcio dell’Assetto idrogeologico vigente, atteso che negli atti si opera il rifermento al PSAI 2011 (c.d. aggiornamento 2010), laddove con delibera n. 1 del 23.02.2015 dell’Autorità di Bacino regionale della Campania centrale è stato approvato il PSAI 2015, sostitutivo del precedente e valido ed efficace all’atto del diniego impugnato.
Secondo la ricorrente, in sintesi, è risolutivo e sancisce l’assentibilità dell’intervento oggetto della sua denegata istanza, il disposto di cui all’art. 15, co. 3, del vigente PSAI 2015, a termini del quale “Nelle aree a rischio medio e moderato ricadenti in aree a pericolosità idraulica moderata (PI) sono consentiti tutti gli interventi e le attività antropiche, compresa la realizzazione di volumi interrati ed il loro uso, questi ultimi nei soli casi in cui sia tecnicamente possibile garantire la tenuta idraulica dei vani nei confronti dei fenomeni di allagamento individuati dal Piano…”.
Secondo la deducente tale norma, invocata e richiamata anche nella memoria di replica prodotta il 27.06.2016 (pag. 2), non pone alcun limite, salvo per i volumi interrati.
3.4. Ritiene il Collegio che la sintetizzata censura, come già delibato con l’Ordinanza cautelare n. 234/2016, sia infondata.
Si profila, invero, ostativo all’effettuazione dell’intervento funzionale all’attività cui aspira la ricorrente ed oggetto della denegata istanza, il vincolo di rischio idraulico, ancorché moderato, addotto nell’impugnato presupposto parere della Direzione gestione del territorio del Comune di Acerra prot. n. 11036 del 25.03.2015 ed ivi affermato gravante per intero sulle particelle n. 75 e 76 e in parte sulle particelle n. 77 e 78.
Riscontra, infatti, il Collegio che il Piano stralcio per l’assetto idrogeologico (P.S.A.I.) approvato con Delibera di Comitato Istituzionale dell’Autorità di Bacino regionale della Campania n. 1 del 23.02.2015, prodotta in estratto dalla stessa ricorrente (Doc. 9 del ricorso ), nelle Norme di Attuazione, Titolo II – Rischio Idraulico, Capo I – “Prescrizioni comuni per le aree a rischio idraulico e per gli interventi ammissibili”, all’art. 8 punto 7, lettera f), stabilisce che “Tutte le attività, opere o sistemazioni e tutti i nuovi interventi consentiti nelle aree a rischio idraulico devono essere tali da: f) limitare l’impermeabilizzazione superficiale del suolo impiegando tipologie costruttive e materiali tali da controllare la ritenzione temporanea delle acque anche attraverso adeguate reti di regimazione e di drenaggio”.
3.5. Contrasta, invece, con questa disposizione, che impone di limitare l’impermeabilizzazione del suolo mediante tecniche e materiali idonei a controllare la ritenzione temporanea delle acque (anche predisponendo adeguate reti di regimazione e drenaggio) l’intervento che la ricorrente aspira ad effettuare mercé l’istanza respinta con il provvedimento all’esame.
La “realizzazione di un’autorimessa a cielo aperto per la custodia giudiziaria di autoveicoli e moto” oggetto di diniego è, infatti, ben descritta nella relazione tecnica del 09.01.2015 allegata al ricorso (Doc. 6).
Da tale elaborato e, in particolare, dal Capitolo 4 – Lavori oggetto dell’intervento - pag. 2, il Collegio verifica che l’intervento in analisi consiste, tra l’altro, nella “Realizzazione di piazzale zona autorimessa previo posa in opera di strato in tessuto geotessile impermeabile (…), finitura con strato di asfalto bituminoso”, nonché in “Realizzazione piazzale zona crash car, previo posa in opera di strato tessuto geotessile impermeabile (…) con finitura di pavimentazione in calcestruzzo” (punto successivo del capitolo 4).
3.6. La prevista realizzazione di uno strato in tessuto geotessile impermeabile, con finitura in strato di asfalto bituminoso relativamente al piazzale autorimessa e con finitura di pavimentazione in calcestruzzo relativamente al “piazzale zona crash car”, confligge, dunque, con la disposizione dell’art. 8, lett. f), delle norme di attuazione del P.S.A.I. 2015 sopra riportata, la quale a parere del Collegio prevale sull’art. 15, co. 3, invocato dalla ricorrente anche nella memoria di replica, in quanto è inserita nel Capo I che reca le “Prescrizioni comuni per le aree a rischio idraulico”. Coerentemente con tale collocazione sistematica nell’articolato normativo in analisi, infatti, tutto l’art. 8, come recita la rubrica, detta “Disposizioni generali per le aree a rischio idraulico e per gli interventi ammissibili”.
Stante la nettezza del delineato contrasto, inoltre, a parere del Collegio alcuna utilità avrebbe potuto derivare alla istante dalla richiesta di un’integrazione documentale o dal subordinare il rilascio del titolo edilizio alla verifica di compatibilità dell’Autorità di Bacino, non assumendo pertanto rilevanza, ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, della L. n. 241 del 1990, la violazione dell’art. 6, stessa legge, dedotta a pag. 17 del ricorso.
L’idoneità della ragione ostativa finora analizzata a giustificare autonomamente l’impugnato diniego in virtù della sua natura di provvedimento plurimotivato, esimerebbe il Collegio dallo scrutinio dell’ultima censura del secondo motivo di ricorso, dedicata alla confutazione della rilevanza della classificazione dell’area a Zona agricola E.
Per completezza di trattazione, tuttavia, ritiene il Collegio di dover esaminare anche tale tematica.
4.1. Si duole al riguardo la ricorrente che il Comune abbia errato nell’esprimere parere negativo sull’assunto che le particelle della ricorrente ricadono in zona E agricola del vigente P.R.G, in quanto le zone agricole sono suscettibili di usi diversi dalla coltivazione dei fondi, purché non vengano destinate ad ampliamento degli insediamenti residenziali.
Invoca a supporto della sua tesi varia giurisprudenza, nota al Collegio, che ha espresso detto principio (tra cui TAR Toscana, Sez. I, n. 4278/2005; Cons. di Stato, Sez. V, n. 968/1993 che ammise in zona agricola depositi di esplosivi; la sentenza della Sezione n. 1134/2005 che ammise in tali zone depositi di GPL; la sentenza della Sezione n. 3313/2012 che ritenne ammissibile in dette zone un deposito di oli minerali; la sentenza della Sezione n. 2135/2011 espressasi in termini generali sull’inesistenza di un obbligo di destinare le zone agricole ad un’utilizzazione effettiva in tal senso) talora condivisibilmente precisando che la destinazione agricola è comunque ostativa a qualunque edificazione, ancorché non residenziale, allorché si tratti di insediamento agricolo consolidato, di particolare pregio, attivo da tempo o favorito da bonifiche ovvero opere di recupero (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 4861/2007).
4.2. Ritiene il Collegio di dover dissentire dall’esposto orientamento, espresso anche dalla Sezione ma pur sempre in fattispecie particolari.
E’ questo, ad esempio, il caso di TAR Campania–Napoli, 09.09.2015, n. 4403 –il cui richiamo non appare del tutto pertinente- in materia di deposito di oli minerali, che è stato dalla Sezione ritenuto ammissibile in zona agricola in quanto “la motivazione sul punto da parte dell’amministrazione comunale appare del tutto generica (…) posto che, proprio in considerazione dell’assenza nel territorio comunale di zone omogenee specifiche per impianti della specie, è ben possibile che la scelta ricada in un terreno a destinazione agricola”.
4.3. Osserva al riguardo il Collegio che il sempre più crescente fenomeno di incremento delle attività industriali, commerciali e, in genere, del settore terziario con la consequenziale relativa attività edificatoria, produce e concorre a causare sempre più consumo del suolo, erosione del tessuto e del patrimonio naturale e della terra intesa come primigenia risorsa dell’uomo, complesso di valori e beni immateriali che possono essere riassunti nella vivibilità ed amenità del territorio e che vanno preservati dalla cementificazione sempre più diffusa che non a caso le norme sul recupero e l’incentivazione del patrimonio edilizio esistente mirano ad arginare.
Ma la delineata salvaguardia dei cennati valori e beni immateriali non deve porre in ombra la considerazione, di rilievo materiale, del territorio a destinazione agricola quale sede di esercizio dell’attività agricola e sorgente delle risorse alimentari che ne sono il portato, nonché l’esigenza di salvaguardarlo.
Esigenza viepiù avvertita nel presente momento storico, caratterizzato dalla scarsità della produzione agricola, con il conseguente ricorso all’importazione con le connesse preoccupazioni.
4.4. Orbene, la consumazione, in generale, del territorio che l’edificazione, ancorché a scopo non residenziale, concorre a determinare, si pone, a parere del Collegio, in palese contrasto con la ratio insita nella destinazione di una parte del territorio a zona agricola e relativa classificazione negli strumenti urbanistici, risolvendosi in ultima analisi in una frustrazione di tale ratio, che va individuata nella salvaguardia delle potenzialità immateriali e materiali intrinseche dei suoli agricoli e di cui si è fatto cenno poc’anzi.
E’ di immediata evidenza, invero, come la stessa definizione insita nella destinazione di un’area a “zona agricola”, non può non indurre a ritenere incompatibili con tale destinazione, usi della zona stessa radicalmente antitetici, quali quello edificatorio ancorché per finalità non residenziali.
Giova, peraltro, precisare che l’opzione qui sostenuta non preclude quella limitata attività edificatoria che sia collegata con le finalità agricole, “connessa con l'attività di una azienda agricola ed avvenga nei limiti di edificabilità previsti dalla relativa normativa” (TAR Puglia–Bari, Sez. II, 09.07.2015, n. 1001).
4.5. Segnala il Collegio che recente giurisprudenza di questo TAR ha espresso il medesimo avviso che si ritiene di dover formulare nel caso all’esame in virtù delle istanze di tutela e salvaguardia del territorio più sopra illustrate.
Altra Sezione del Tribunale in una fattispecie (realizzazione di un parcheggio scoperto in zona agricola) similare a quella che ci occupa ha, infatti, condivisibilmente sancito che “
E' del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm. La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola.” (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, 10.03.2016, n. 1397).
Alla luce di quanto argomentato, dunque, anche le censure articolate dalla ricorrente relativamente all’ostatività, addotta nei provvedimenti e negli atti impugnati, della destinazione a zona E agricola delle particelle in sua titolarità, si prospettano infondate e vanno disattese.
In definitiva, sulla scorta delle considerazioni fin qui svolte, il ricorso si profila infondato e va, conseguentemente, respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.10.2016 n. 4869 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Elenco opere superspecialistiche, via libera dal Consiglio di Stato al decreto del Mit.
Il Ministero delle Infrastrutture ha fornito adeguati elementi istruttori in merito alle osservazioni e alle proposte di modifica avanzate da Ance e Finco.

Il Consiglio di Stato ha espresso parere favorevole -21.10.2016 n. 2189– sullo "Schema di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti recante individuazione delle opere per le quali sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica e dei requisiti di specializzazione richiesti per la loro esecuzione, ai sensi dell’articolo 89, comma 11, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”.
Il Consiglio di Stato ha chiarito che il decreto, sul cui schema è stato chiesto il parere dal Ministero delle Infrastrutture, reca la disciplina delle opere c.d. superspecialistiche per le quali “non è ammesso l’avvalimento, qualora il loro valore superi il dieci per cento dell’importo totale dei lavori e per le quali … l’eventuale subappalto non può superare il trenta per cento delle opere”, individuando in particolare l’elenco di tali opere (art. 2) e i “requisiti di specializzazione” che devono essere posseduti per l’esecuzione delle opere in questione (art. 3).
Il decreto è finalizzato a superare -nelle more della definizione, da parte dell’ANAC, del sistema unico di qualificazione degli operatori economici previsto dall’art. 84 del Codice- il regime transitorio recato dall’art. 216, comma 15, del Codice, il quale prevede che “fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all'art. 89, comma 11, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all'art. 12, d.l. 28.03.2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla l. 23.05.2014, n. 80”.
  Con il parere interlocutorio reso nell’Adunanza del 21.09.2016 (LEGGI TUTTO), Palazzo Spada ha rilevato che il Ministero delle Infrastrutture, tramite la relazione in epigrafe, non ha fornito alla Sezione “adeguati elementi istruttori in merito alle osservazioni e alle proposte di modifica” avanzate dall’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) e dalla Finco (Federazione industrie prodotti impianti servizi ed opere specialistiche per le costruzioni) nel corso delle consultazioni prodromiche alla stesura dello schema di decreto e non ha esplicitato “la sua posizione in merito alle succitate osservazioni e proposte di modifica”.
Conseguentemente, la Sezione ha invitato il Ministero proponente a predisporre “un supplemento d’istruttoria”, fornendo alla Sezione stessa puntuali chiarimenti in merito a quanto rilevato dalle succitate associazioni di settore.
I CHIARIMENTI DEL MIT. Con la nota del 07.10.2016, prot. n. 37559, il Mit ha adempiuto a quanto richiesto da questa Sezione, esplicitando la propria posizione in merito alle osservazioni e alle proposte di modifica del testo regolamentare formulate dall’Ance e dalla Finco.
Per quanto riguarda le richieste di modifica avanzate dalla Finco con la nota dell’11.07.2016 -concernenti le categorie che ad avviso della predetta associazione sarebbero meritevoli d’inserimento nell’elenco di cui al decreto in esame, con i relativi requisiti di qualificazione- il Ministero proponente, dopo aver evidenziato che tali richieste “vanno nella direzione diametralmente opposta a quella rappresentata dall’Ance”, in quanto volte ad una “rivisitazione in aumento” delle categorie di opere superspecialistiche, ha comunicato di non aver accolto tali rilievi sia in ragione del fatto che l’elencazione già recata dall’art. 12 del d.l. n. 47 del 2014 sarebbe fondata su “criteri oggettivi ed indicativi del livello di specializzazione richiesto per le opere riconducibili alle singole categorie” sia in considerazione della circostanza che le ulteriori categorie di opere di cui la Finco ha richiesto l’introduzione nell’ambito dell’art. 2 sarebbero “caratterizzate da una minor complessità tecnica” rispetto a quelle individuate dal decreto.
IL PARERE FAVOREVOLE DEL CONSIGLIO DI STATO. La Sezione consultiva del Consiglio di Stato ha condiviso la scelta del Mit di:
   a) ribadire l’elenco delle opere superspecialistiche già recato dalle previgenti disposizioni, e ciò in considerazione del fatto che in attesa della predisposizione da parte dell’ANAC del sistema unico di qualificazione di cui all’art. 84 del Codice non sarebbe utile “provocare disallineamenti e disfunzioni rispetto al vigente sistema di qualificazione”;
   b) sottoporre l’atto normativo ad un periodo di monitoraggio di dodici mesi all’esito del quale si procederà “all’aggiornamento” del suo contenuto, e ciò sia in ragione della circostanza che il contesto normativo nel quale si inserisce il decreto potrebbe mutare a seguito della definizione, da parte dell’ANAC, del sistema unico di qualificazione degli operatori economici previsto dall’art. 84 del Codice, sia in considerazione del fatto che tale previsione potrebbe risultare utile al fine di superare le problematiche paventate dalle Associazioni di settore nel corso del procedimento prodromico alla stesura dello schema de quo (art. 4 dello schema) (commento tratto da e link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIAE' legittima l'ordinanza contingibile ed urgente nei contri di ANAS Spa per la rimozione dei rifiuti contenenti amianto riferiti alla piazzola del raccordo autostradale e alla scarpata raccordo autostradale ed allo smaltimento/recupero degli stessi, secondo la normativa vigente in materia, ripristinando lo stato dei luoghi e le matrici ambientali, ove necessario.
La norma dell’art. 14 della Codice della Strada, intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”.
Anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri, perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo, poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori ecologici per le altre attività proprie della raccolta rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque interferenti, con il normale flusso della circolazione stradale.
Sicché “è soltanto l’ente proprietario o gestore della strada che […] può razionalmente ed efficacemente programmare ed attuare in sicurezza la pulizia della strada e delle sue pertinenze, poiché solo essi possono programmare e gestire tutte le misure e le cautele idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle pulizie”.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se non da altra norma speciale che espressamente la privi della sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale.
Non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi dalla sede stradale e sue pertinenze.
L’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre, prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità della circolazione (co. 1) ed è incontestata la circostanza che i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale, possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della circolazione”.

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 1764/14 avendo ad oggetto rimozione e smaltimento rifiuti speciali pericolosi;
...
Premesso che:
- con ordinanza n. 1764 del 14.04.2016 il Sindaco del Comune di San Michele Serino ha ordinato all’ANAS s.p.a. la rimozione dei rifiuti contenenti amianto riferiti alla piazzola del raccordo autostradale Avellino-Salerno Km. 28+500 (direzione Avellino) e alla scarpata raccordo autostradale Avellino Salerno (Km. 25+100, località Zappelle (direzione Avellino), ed allo smaltimento/recupero degli stessi, secondo la normativa vigente in materia, ripristinando lo stato dei luoghi e le matrici ambientali, ove necessario, entro il termine di gg. 60 dalla notifica;
- con ricorso tempestivamente notificato all’amministrazione resistente e regolarmente depositato nella Segreteria del Tar, l’Anas chiedeva l’annullamento di tale ordine, per i seguenti motivi:
- violazione e falsa applicazione degli artt. 192 e 257 d.lgs. n. 152/2006, ed in particolare della direttiva 2004/35 CEE con particolare riferimento al principio “chi inquina paga”, inesistenza del presupposto e difetto di motivazione, non essendo di per sé sufficiente il dato non controverso della proprietà dell’area interessata dall’abbandono di materiale di rifiuto anche particolarmente dannoso;
Considerato che, conformemente a quanto già deciso da questa sezione con decisione n. 51 del 2016, il provvedimento qui gravato può trovare adeguato fondamento nell’art. 14 del Codice della Strada –come giustamente eccepito dalla difesa della parte resistente– ed a cui può attingere comunque l’ordinanza contingibile ed urgente disposta dal Sindaco del Comune di Cassano Irpino per la semplice ed essenziale evenienza legata al fatto che i rifiuti in contestazione, di cui si ordina la rimozione all’ANAS, risultano collocati lungo il raccordo autostradale sopra menzionato;
Considerato altresì che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada, intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri, perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo, poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori ecologici per le altre attività proprie della raccolta rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque interferenti, con il normale flusso della circolazione stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o gestore della strada che […] può razionalmente ed efficacemente programmare ed attuare in sicurezza la pulizia della strada e delle sue pertinenze, poiché solo essi possono programmare e gestire tutte le misure e le cautele idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle pulizie” (Cons. di Stato, IV, sent. n. 2677/2011, che conferma TAR Lazio, sent. n. 7027/2009, TAR Napoli, sent. n. 7428/2006 e TAR Basilicata n. 441/2010);
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se non da altra norma speciale che espressamente la privi della sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre, prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità della circolazione (co. 1) ed è incontestata la circostanza che i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale, possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della circolazione” (TAR Salerno, II, sent. n. 330/2013, n. 1373/2015 e TAR Puglia Sede d Bari, Sez. III, n. 65 del 2015);
Ritenuto, alla luce delle sopra esposte osservazioni, che il ricorso è infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 20.10.2016 n. 2311 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La regolarità contributiva nel nuovo Codice dei contratti.
Negli pubblici appalti, alla luce del nuovo Codice di contratti, approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50:
- in fase di esecuzione del contratto, la regolarità contributiva è verificata d’ufficio da parte della stazione appaltante prima del pagamento del prezzo dell’appalto, ma in caso di DURC negativo non consegue la risoluzione del contratto di appalto, bensì il pagamento diretto dei contributi previdenziali da parte della stazione appaltante, con trattenuta dal prezzo dovuto per l’appalto (artt. 30, comma 5, e 105, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016);
- in fase di gara, il DURC non è più acquisito d’ufficio per verificare l’autodichiarazione in gara, ma va chiesto ai concorrenti (art. 86, comma 2, lett. b), n. 50 del 2016);
- in fase di gara, è causa di esclusione dalla partecipazione alla procedura la commissione di “violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento (…) dei contributi previdenziali” (art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016).
Ma costituiscono “violazioni gravi” non più quelle ostative al rilascio del DURC ai sensi dell’art. 8, d.m. 24.10.2007 (vale a dire gli omessi versamenti con scostamenti superiori al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento superiore ad euro 100,00), bensì “quelle ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC) di cui all’art. 8 del decreto del Ministero del lavoro e della politiche sociali 30.01.2015” (art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016), vale a dire le violazioni anche di natura penale elencate nell’allegato A al d.m. 30.01.2015; non vi è infatti coincidenza di contenuto tra il previgente art. 8, d.m. 24.10.2007 e l’art. 8, d.m. 30.01.2015 ora richiamato dall’art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 (l’art. 8, d.m. 24.10.2007 corrisponde invece all’art. 3, d.m. 30.01.2015, che non è richiamato dall’art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016)
(C.G.A.R.S., parere 19.10.2016 n. 1063 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana proposto da Ma.So.Ma. soc. coop e ditta Ar.Gi., avverso provvedimento Assessorato regionale attività produttive n. 3250 del 21/01/2014 di diniego a subentro. Istanza di sospensione.
...
6. Nel merito il ricorso è fondato.
6.1. Giova innanzi tutto premettere che il provvedimento di concessione di finanziamenti pubblici, nazionali o europei, non soggiace all’applicazione del codice dei contratti pubblici (ratione temporis il d.lgs. n. 163/2006), e alla disciplina ivi prevista in materia di regolarità contributiva.
Per i soli pubblici appalti e concessioni (ratione temporis: di lavori pubblici) la disciplina vigente in relazione ai fatti di causa prescrive che la regolarità contributiva deve sussistere per tutta la durata della procedura, e che il DURC va acquisito d’ufficio, sicché è inapplicabile il procedimento di regolarizzazione previsto dall’art. 7, c. 3, d.m. 24.10.2007 (c.d. preavviso di DURC negativo) e, in prosieguo, dall’art. 31. c. 8, d.l. n. 69/2013 (in tal senso Cons. St.., ad. plen., 29.02.2016 nn. 5 e 6).
6.2. Fuori dal campo di applicazione del codice appalti, e in particolare per l’erogazione dei finanziamenti pubblici, l’art. 31, c. 8-quater, d.l. n. 69/2013 e, già in precedenza, l’art. 1, c. 553, l. n. 266/2005 (a tenore del quale ”Per accedere ai benefici ed alle sovvenzioni comunitarie per la realizzazione di investimenti, le imprese di tutti i settori sono tenute a presentare il documento unico di regolarità contributiva"),richiedono la regolarità contributiva al fine della erogazione del contributo.
Dispone infatti il citato art. 31. c. 8-quater, d.l. n. 69/2013 : “Ai fini dell’ammissione delle imprese di tutti i settori ad agevolazioni oggetto di cofinanziamento europeo finalizzate alla realizzazione di investimenti produttivi, le pubbliche amministrazioni procedenti anche per il tramite di eventuali gestori pubblici o privati dell’intervento interessato sono tenute a verificare, in sede di concessione delle agevolazioni, la regolarità contributiva del beneficiario, acquisendo d’ufficio il documentounico di regolarità contributiva ( DURC)”.
E’ applicabile anche il c. 8 dell’art. 31, d.l. n. 69/2013, a tenore del quale: “Ai fini della verifica per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell’emissione del DURC o dell’annullamento del documento già rilasciato, invitano l’interessato, mediante posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il tramite del consulente del lavoro ovvero degli altri soggetti di cui all’art. 1 della legge 11.01.1979, n. 12, a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità”.
Sicché, la regolarità contributiva va autodichiarata in sede di domanda di ammissione al contributo, e deve essere accertata al momento dell’erogazione.
Sia che della produzione del DURC sia onerato il concorrente, sia che lo stesso sia acquisito d’ufficio come ora prescrive l’art. 31, c. 8-quater, d.l. n. 69/2013, trova applicazione la possibilità di regolarizzazione di cui al c. 8 del citato art. 31, c. 8–quater, d.l. n. 69/2013 (secondo quanto già prevedeva, in precedenza, l’art. 7, c. 3, d.m. 24.10.2007).
6.3. Nel caso in cui il concorrente ammesso a finanziamento ceda la propria azienda ad un altro soggetto e venga chiesto il subentro di quest’ultimo, è corretto anticipare la verifica della posizione previdenziale al momento del subentro, rispetto al momento fisiologico dell’erogazione del contributo, al fine di evitare che attraverso la cessione di azienda o operazioni societarie si possa eludere la disciplina pubblicistica sui requisiti del concorrente.
Tuttavia occorrerà applicare le stesse regole che sarebbero state applicate al fine della verifica della posizione previdenziale del concorrente al momento della erogazione del contributo: va cioè consentito al concorrente, prima dell’emissione del DURC negativo, di regolarizzare la propria posizione.
Pertanto la Regione non avrebbe potuto, come ha fatto, verificare d’ufficio la posizione previdenziale del concorrente alla data del 01.08.2012, ma invece chiedergli di produrre il DURC, il che avrebbe consentito al concorrente di regolarizzare la propria posizione.
E’ inoltre pacifico che il cessionario era in possesso di tutti i requisiti prescritti.
6.4. Giova infine considerare, sul piano sistematico, che l’ordinamento mira a conseguire l’obiettivo del pagamento effettivo dei contributi previdenziali, e che le recenti riforme consentono ampiamente la regolarizzazione e hanno ridotto la possibilità di esclusione dei concorrenti dalle procedure.
Negli stessi pubblici appalti, alla luce del sopravvenuto d.lgs. n. 50/2016:
- in fase di esecuzione del contratto, la regolarità contributiva è verificata d’ufficio da parte della stazione appaltante prima del pagamento del prezzo dell’appalto, ma in caso di DURC negativo non consegue la risoluzione del contratto di appalto, bensì il pagamento diretto dei contributi previdenziali da parte della stazione appaltante, con trattenuta dal prezzo dovuto per l’appalto (artt. 30, c. 5 e 105, c. 9, d.lgs. n. 50/2016);
- in fase di gara, il DURC non è più acquisito d’ufficio per verificare l’autodichiarazione in gara, ma va chiesto ai concorrenti (art. 86, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 50/2016);
- in fase di gara, è causa di esclusione dalla partecipazione alla procedura la commissione di “violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento (…)dei contributi previdenziali” (art. 80, c. 4, d.lgs. n. 50/2016).
Ma costituiscono “violazioni gravi” non più quelle ostative al rilascio del DURC ai sensi dell’art. 8 d.m. 24.10.2007 (vale a dire gli omessi versamenti con scostamenti superiori al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento superiore ad euro 100,00), bensì “quelle ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC) di cui all’art. 8 del decreto del Ministero del lavoro e della politiche sociali 30.01.2015” (art. 80, c. 4, d.lgs. n. 50/2016), vale a dire le violazioni anche di natura penale elencate nell’allegato A al d.m 30.01.2015; non vi è infatti coincidenza di contenuto tra il previgente art. 8, d.m 24.10.2007 e l’art. 8 d.m. 30.01.2015 ora richiamato dall’art. 80, c. 4 d.lgs. n. 50/2016 (l’art. 8, d.m 24.10.2007 corrisponde invece all’art. 3, d.m. 30.01.2015, che non è richiamato dall’art. 80, c. 4, d.lgs. n. 50 /2016).

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel prevedere, immediatamente dopo l’individuazione a opera del comma 6 delle fattispecie di documenti sottratti all’accesso, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, ha sancito la tendenziale prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche sulle antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale delle parti contro-interessate>>.
I documenti di cui si richiede l’ostensione non sono coperti da segreto istruttorio, provenendo essi dall’Amministrazione scolastica e non trattandosi di atti posti in essere nell’ambito di un’attività del Pubblico Ministero o della Polizia Giudiziaria (circostanza che, ovviamente, avrebbe potuto giustificare il diniego).
Sicché, deve dunque dichiararsi l’illegittimità del ‘differimento’ opposto dall’Amministrazione intimata e conseguentemente ordinarsi allo stessa di esibire i documenti oggetto dell’istanza ostensiva (purché formati, come appena scritto, dall’Amministrazione scolastica e non riferibili, invece, all’Autorità giudiziaria), con facoltà per la ricorrente di estrarre copia di quelli di ritenuta utilità.

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... per l’annullamento del provvedimento prot. n. MIUR.AOOUSPBR Registro Ufficiale del 10.03.2016, con il quale è stato disposto, in luogo dell’accoglimento dell’istanza di accesso agli atti avanzata dalla ricorrente in data 27.02.2016, il differimento della medesima “in funzione delle notizie relative a un’eventuale indagine da parte della competente Procura”;
...
1.- Rilevato che la sig.ra Si., insegnante presso l’Istituto Scolastico Comprensivo ‘Centro 1’ di Brindisi, formulava -il 27.02.2016- istanza di accesso relativamente agli accertamenti esperiti e agli atti eventualmente adottati a seguito di un proprio precedente esposto (del 12.06.2015, reiterato il 27.11.2015) rivolto all’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia e al Ministero.
2.- Considerato che l’Amministrazione intimata, pur dando atto della legittimazione della Si. ad accedere agli atti in parola, respingeva la relativa istanza (rectius: ne differiva l’accoglimento, ex art. 9 d.p.r. 12.04.2006, n. 184) evidenziando come sui fatti de quibus fosse in corso un’indagine da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi (a seguito di altro esposto, consequenziale a quello citato, presentato dall’Istituzione Scolastica ‘Centro 1’ di Brindisi).
3.- Osservato che:
- <<l’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel prevedere, immediatamente dopo l’individuazione a opera del comma 6 delle fattispecie di documenti sottratti all’accesso, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, ha sancito la tendenziale prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche sulle antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale delle parti contro-interessate>> (TAR Puglia Lecce, II, 25.05.2016, n. 846; II, 02.07.2013, n. 1566).
- i documenti di cui si richiede l’ostensione non sono coperti da segreto istruttorio, provenendo essi dall’Amministrazione scolastica e non trattandosi di atti posti in essere nell’ambito di un’attività del Pubblico Ministero o della Polizia Giudiziaria (circostanza che, ovviamente, avrebbe potuto giustificare il diniego).
4.- Ritenuto che:
- deve dunque dichiararsi l’illegittimità del ‘differimento’ opposto dall’Amministrazione intimata e conseguentemente ordinarsi allo stessa di esibire i documenti oggetto dell’istanza ostensiva (purché formati, come appena scritto, dall’Amministrazione scolastica e non riferibili, invece, all’Autorità giudiziaria), con facoltà per la ricorrente di estrarre copia di quelli di ritenuta utilità.
- le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate nella complessiva somma di euro 1.000,00 (mille/00), oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione Seconda di Lecce, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 641 del 2016 indicato in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, ordina all’Amministrazione Scolastica intimata di esibire i documenti oggetto della richiesta di accesso agli atti avanzata dalla ricorrente il 27.02.2016 -a esclusione di quelli eventualmente riferibili all’attività del Pubblico Ministero o della Polizia Giudiziaria-, con facoltà per la stessa di estrarne copia  (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 18.10.2016 n. 1578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla decadenza di un consigliere comunale per reiterata assenza ingiustificata.
La giurisprudenza, in materia, ha elaborato i seguenti consolidati principi in materia:
   - la decadenza dalla carica di consigliere comunale costituisce una limitazione all’esercizio di un munus publicum, sicché la valutazione delle circostanze cui è conseguente la decadenza vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore;
   - il carattere sanzionatorio del provvedimento, destinato ad incidere su una carica elettiva, impone la massima attenzione agli aspetti garantistici della procedura, anche per evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione nei confronti delle minoranze;
   - più specificamente, nessuna norma stabilisce che le assenze per mancato intervento dei consiglieri dalle sedute del consiglio comunale debbano essere giustificate preventivamente di volta in volta, potendo pertanto essere fornite successivamente, anche dopo la notificazione all’interessato della proposta di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di apprezzamento del consiglio comunale in ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle circostanze addotte a giustificazione delle assenze;
   - per quanto riguarda propriamente la giustificabilità delle assenze dalle sedute del Consiglio Comunale, esse possono dar luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo;
   - in definitiva, visto che l’elettorato passivo trova tutela a livello costituzionale (art. 51 Cost.), le ragioni che, in relazione al modo di esercizio della carica, possono comportare decadenza devono essere obiettivamente gravi nella loro assenza o inconferenza di giustificazione ovvero nella loro estrema genericità, tale da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi stessi oltre che sfornita di qualsiasi principio di prova.
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Ulteriormente considerato, alla luce dei suddetti principi, che:
- devono ritenersi cause giustificative delle assenze in discorso gli impedimenti attinenti allo stato di salute, senza che il vaglio in concreto delle giustificazioni addotte dal consigliere interessato (che senz’altro compete al Consiglio comunale) possa giungere a sindacare nell’intrinseco il giudizio medico in sé;
- l’affermata impossibilità di saggiare l’autenticità dei certificati medici avrebbe dovuto comportare l’ordine di deposito degli originali, viepiù in assenza di una formale attività di disconoscimento chiara e circostanziata ed in considerazione della gravità delle conseguenze disposte.
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Rilevato che:
- con deliberazione del Consiglio comunale di Maropati n. 23 del 17.08.2016, la ricorrente, consigliere comunale del predetto Comune, è stata dichiarata decaduta dalla carica;
- con precedente delibera consiliare n. 22 del 23.07.2016 le è stata contestata l’assenza senza giustificato motivo per le quattro sedute consecutive del Consiglio comunale tenutesi il 29 aprile, 30 aprile, 23 maggio e 06.06.2016;
- il Consiglio non ha ritenuto sufficienti le giustificazioni dalla stessa addotte (n. 2 certificati medici attestanti la necessità di riposo e cura nei giorni del 29 e 30.04.2016 e del 06.06.2016 e dichiarazione attestante la presenza ad Arezzo in qualità di accompagnatrice della madre, invalida al 100%, ad una visita di controllo);
- il provvedimento è stato gravato dalla ricorrente che lamenta:
   1) la violazione degli artt. 7 e 8 della l. n. 241/1990;
   2) la violazione dell’art. 12, IV comma, dello Statuto e l’eccesso di potere sotto diversi profili in quanto le giustificazioni addotte dall’interessata sarebbero state disattese recependo acriticamente le osservazioni svolte in precedenza dal Sindaco ed all’esito di un non consentito controllo di merito sui problemi di salute attestati dai certificati medici trasmessi, con ciò dissimulando la reale finalità perseguita con l’adozione dell’atto gravato di liberarsi di un consigliere scomodo;
- il Comune di Maropati, costituitosi in giudizio, ha contestato le suddette censure evidenziando la correttezza procedimentale dell’iter di decadenza; l’inidoneità della certificazione medica prodotta a giustificare le assenze non essendo in essa indicate né la malattia contratta dalla ricorrente né la necessità di riposo domiciliare assoluto nonché l’impossibilità di saggiare l’autenticità della certificazione medica in quanto prodotta in mera fotocopia;
Considerato che:
- come già osservato da questo Tribunale con sentenza n. 141 del 06.03.2014, la giurisprudenza ha elaborato i seguenti consolidati principi in materia:
   - la decadenza dalla carica di consigliere comunale costituisce una limitazione all’esercizio di un munus publicum, sicché la valutazione delle circostanze cui è conseguente la decadenza vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore;
   - il carattere sanzionatorio del provvedimento, destinato ad incidere su una carica elettiva, impone la massima attenzione agli aspetti garantistici della procedura, anche per evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione nei confronti delle minoranze;
   - più specificamente, nessuna norma stabilisce che le assenze per mancato intervento dei consiglieri dalle sedute del consiglio comunale debbano essere giustificate preventivamente di volta in volta, potendo pertanto essere fornite successivamente, anche dopo la notificazione all’interessato della proposta di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di apprezzamento del consiglio comunale in ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle circostanze addotte a giustificazione delle assenze;
   - per quanto riguarda propriamente la giustificabilità delle assenze dalle sedute del Consiglio Comunale, esse possono dar luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo;
   - in definitiva, visto che l’elettorato passivo trova tutela a livello costituzionale (art. 51 Cost.), le ragioni che, in relazione al modo di esercizio della carica, possono comportare decadenza devono essere obiettivamente gravi nella loro assenza o inconferenza di giustificazione ovvero nella loro estrema genericità, tale da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi stessi oltre che sfornita di qualsiasi principio di prova (in tal senso, TAR Lombardia, Brescia, 10.04.2006, n. 383; Consiglio di Stato, Sez. V, 09.10.2007, n. 5277);
Ulteriormente considerato, alla luce dei suddetti principi, che:
- devono ritenersi cause giustificative delle assenze in discorso gli impedimenti attinenti allo stato di salute, senza che il vaglio in concreto delle giustificazioni addotte dal consigliere interessato (che senz’altro compete al Consiglio comunale, cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 14.03.2011, n. 464) possa giungere a sindacare nell’intrinseco il giudizio medico in sé;
- l’affermata impossibilità di saggiare l’autenticità dei certificati medici avrebbe dovuto comportare l’ordine di deposito degli originali, viepiù in assenza di una formale attività di disconoscimento chiara e circostanziata ed in considerazione della gravità delle conseguenze disposte;
Ritenuto, pertanto, che:
- il secondo motivo di ricorso è fondato poiché l’atto gravato è viziato da eccesso di potere per insufficienza e contraddittorietà della motivazione in quanto le giustificazioni addotte a sostegno delle tre assenze “per malattia” non appaiono né estremamente generiche né sfornite di prova;
Ulteriormente ritenuto, al contrario, che il primo motivo di ricorso sia infondato, non ravvisandosi i dedotti vizi procedimentali in quanto l’iter si è svolto nel rispetto dell’art. 69 del T.U.E.L., testualmente richiamato dall’art. 12, V comma, dello Statuto comunale, ed anzi prendendo in considerazione le giustificazioni presentate dalla ricorrente in una fase precedente, a garanzia massima del contradditorio;
Conclusivamente ritenuto, per tali motivi, di accogliere il ricorso e di disporre sulle spese in base al principio della soccombenza (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 18.10.2016 n. 1009 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto alla privacy ed il (potenziale) risarcimento per aver pubblicato deliberazioni all'albo pretorio comunale on-line.
La pubblicazione e la divulgazione di atti che determinino una diffusione di dati personali deve ritenersi lecita qualora prevista da una norma di legge o di regolamento, mentre il termine previsto dall'art. 124 D.lgs. 267/2000 (pubblicazione nell'albo pretorio per 15 giorni consecutivi) non può ritenersi di natura perentoria (come indirettamente confermato dalle linee guida contenute nel D.Lgs. 33/2013 che, disciplinando la pubblicità per finalità di trasparenza, ne ha previsto la durata in 5 anni).
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Il contenuto delle due delibere comunali
-con le quali vennero, rispettivamente, riportati il nome e cognome degli odierni resistenti, oltre alla targa e al modello di autovettura di proprietà di uno di essi, ed i dati anagrafici della sola Al., integrati dall'annotazione della lesione al ginocchio destro riportata a seguito della caduta nell'atrio comunale- non rende il soggetto "identificabile" se non associato ad altri elementi identificativi (data e luogo di nascita, dimora, residenza, domicilio, codice fiscale, attività lavorativa) e se calato in un contesto sociale ampio quale quello della città di appartenenza dei resistenti.
La identificazione dei soggetti menzionati nella delibera avrebbe potuto, pertanto, conseguire soltanto ad operazioni di ricerca, anche attraverso banche dati in possesso di terzi, comportanti un dispendio di attività, di energie e di spesa del tutto sproporzionato rispetto all'interesse all'identificazione di tre soggetti coinvolti in un banale incidente d'auto ed in una altrettanto banale caduta in un locale do proprietà pubblica, non potendosi ragionevolmente sostenere che i dati contenuti nelle delibere comportassero ipso facto una automatica e certa "identificabilità" rilevante ai fini invocati dagli Ad..
Nessun dato realmente sensibile può dirsi, difatti, colpevolmente ostentato sub specie di una sua rilevanza a fini risarcitori: né quello della mera indicazione dei nominativi dei danneggiati e del tipo di autovettura posseduta, né quello relativo ad un banale infortunio al ginocchio, che non rientra a nessun titolo tra le notizie "idonee a rivelare lo stato di salute" del danneggiato (tali essendo per converso, quelle  destinate a disvelare patologie, terapie, anamnesi familiari, accertamenti diagnostici).
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I FATTI
Nel maggio del 2009 gli odierni resistenti convennero dinanzi al Tribunale di Marsala l'omonimo comune, chiedendo di essere risarciti dei danni subiti, gli Ad. a seguito di un sinistro stradale, l'Al. in conseguenza di una caduta in un locale di proprietà dell'ente territoriale.
Il comune si costituì in giudizio previa emanazione di due delibere di giunta, pubblicate sul sito internet istituzionale, il cui contenuto, a detta degli attori, violava il proprio diritto alla riservatezza - onde la richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali oggetto del presente procedimento.
Il Tribunale accolse la domanda.
Il comune di Marsala ha proposto ricorso per cassazione sulla base di 2 motivi di censura illustrati da memoria. Resiste con controricorso la famiglia Ad..
LE RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso è pienamente fondato.
Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., in relazione all'art. 4 D.lgs. 196/2003; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio; nullità della sentenza per omessa motivazione.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., in relazione all'art. 15 D.lgs. 196/2003, 2050, 2697 c.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio; nullità della sentenza per omessa motivazione.
I motivi che possono congiuntamente esaminarsi, attesane l'intrinseca connessione, sono entrambi fondati sotto un triplice, concorrente profilo.
Da un canto,
la pubblicazione e la divulgazione di atti che determinino una diffusione di dati personali deve ritenersi lecita qualora prevista (come nella specie, poiché l'Amministrazione comunale non avrebbe potuto adempiere alla finalità dell'atto in modo diverso da quello attuato) da una norma di legge o di regolamento, mentre il termine previsto dall'art. 124 D.lgs. 267/2000 (pubblicazione nell'albo pretorio per 15 giorni consecutivi) non può ritenersi di natura perentoria (come indirettamente confermato dalle linee guida contenute nel Decreto legislativo 33/2013 che, disciplinando la pubblicità per finalità di trasparenza, ne ha previsto la durata in 5 anni).
Dall'altro,
il contenuto delle due delibere comunali -con le quali vennero, rispettivamente, riportati il nome e cognome degli odierni resistenti, oltre alla targa e al modello di autovettura di proprietà di uno di essi, ed i dati anagrafici della sola Al., integrati dall'annotazione della lesione al ginocchio destro riportata a seguito della caduta nell'atrio comunale- non rende il soggetto "identificabile" se non associato ad altri elementi identificativi (data e luogo di nascita, dimora, residenza, domicilio, codice fiscale, attività lavorativa) e se calato in un contesto sociale ampio quale quello della città di appartenenza dei resistenti.
La identificazione dei soggetti menzionati nella delibera avrebbe potuto, pertanto, conseguire soltanto ad operazioni di ricerca, anche attraverso banche dati in possesso di terzi, comportanti un dispendio di attività, di energie e di spesa del tutto sproporzionato rispetto all'interesse all'identificazione di tre soggetti coinvolti in un banale incidente d'auto ed in una altrettanto banale caduta in un locale do proprietà pubblica, non potendosi ragionevolmente sostenere che i dati contenuti nelle delibere comportassero ipso facto una automatica e certa "identificabilità" rilevante ai fini invocati dagli Ad..
Nessun dato realmente sensibile può dirsi, difatti, colpevolmente ostentato sub specie di una sua rilevanza a fini risarcitori: né quello della mera indicazione dei nominativi dei danneggiati e del tipo di autovettura posseduta, né quello relativo ad un banale infortunio al ginocchio, che non rientra a nessun titolo tra le notizie "idonee a rivelare lo stato di salute" del danneggiato (tali essendo per converso, quelle  destinate a disvelare patologie, terapie, anamnesi familiari, accertamenti diagnostici).
Dall'altro ancora,
nessun automatismo è lecito inferire tra il disposto dell'art. 4 del Codice della Privacy e la predicabilità di un danno non patrimoniale, fattispecie cui le sezioni unite di questa Corte hanno riservato un ampia e approfondita disamina, affermando il principio della irrisarcibilità di quelli che non superino una determinata soglia di serietà e gravità (con esclusione dei danni cd. bagattellari, e di quelli rientranti in una normale ed auspicabile dimensione di tollerabilità dovuta alla civile convivenza, come imposta dal contemperamento tra i principi costituzionali di solidarietà e tolleranza e quelli posti a presidio della dignità libertà e salute dell'individuo), e comunque della irrisarcibilità di quelli che non risultino puntualmente allegati e provati (allegazione e prova, nella specie, del tutto assente), come ancora di recente affermato da questa Corte regolatrice (Cass. 15429 del 2014).
Il ricorso è pertanto accolto, e il procedimento rinviato al Tribunale di Marsala, che, in persona di altro giudice, si atterrà ai principi di diritto sopra esposti (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 13.10.2016 n. 20615).

COMPETENZE GESTIONALIIn applicazione dell'art. 97 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (T.U. Enti locali) al segretario comunale sono affidati compiti di coordinamento dell'attività dei dirigenti e degli uffici cui questi ultimi sono preposti, nonché di sovrintendenza allo svolgimento delle relative funzioni, senza che, però, detti dirigenti -cui è assegnata una sfera di attribuzioni derogabile solo con norma primaria- assumano diretta responsabilità nei confronti del segretario.
Pertanto, l'attribuzione al segretario comunale dei compiti di sovrintendenza e di coordinamento non può essere intesa nel senso che allo stesso sia concesso un potere di sostituzione dei dirigenti nell'emanazione dei provvedimenti amministrativi di loro competenza.
La norma dell'art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), al terzo comma, affida invece ai dirigenti degli enti locali tutti i compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, compresa l'adozione degli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, e segnatamente, rimette alla competenza dei dirigenti i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo.
Nei comuni privi di dirigenti, detti compiti possono essere attribuiti, con provvedimento sindacale, ai responsabili degli uffici e servizi dell'ente, indipendentemente dalla qualifica da essi posseduta (art. 109, comma 2).

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... per l'annullamento della nota comunale prot. n. 20160002568 del 21.06.2016, a firma del Segretario generale, con la quale il Comune di Nociglia ha rigettato le osservazioni ex art. 10-bis, L. n. 241/1990 presentate dal ricorrente, confermando la sussistenza di motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di autorizzazione all'affitto d'azienda;
...
Il ricorso è fondato.
In particolare, riveste carattere assorbente il difetto di competenza del Segretario comunale ad adottare le note impugnate.
Invero, in applicazione dell'art. 97 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (T.U. Enti locali) al segretario comunale sono affidati compiti di coordinamento dell'attività dei dirigenti e degli uffici cui questi ultimi sono preposti, nonché di sovrintendenza allo svolgimento delle relative funzioni, senza che, però, detti dirigenti -cui è assegnata una sfera di attribuzioni derogabile solo con norma primaria- assumano diretta responsabilità nei confronti del segretario. Pertanto, l'attribuzione al segretario comunale dei compiti di sovrintendenza e di coordinamento non può essere intesa nel senso che allo stesso sia concesso un potere di sostituzione dei dirigenti nell'emanazione dei provvedimenti amministrativi di loro competenza (Cons. Stato Sez. IV, 04.02.2014, n. 494).
La norma dell'art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), al terzo comma, affida invece ai dirigenti degli enti locali tutti i compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, compresa l'adozione degli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, e segnatamente, rimette alla competenza dei dirigenti i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo. Nei comuni privi di dirigenti, detti compiti possono essere attribuiti, con provvedimento sindacale, ai responsabili degli uffici e servizi dell'ente, indipendentemente dalla qualifica da essi posseduta (art. 109, comma 2).
Nella specie, le note impugnate, a firma del Segretario comunale sono atti che, obiettivamente, impegnano l’amministrazione verso l’esterno in quanto indicano le ragioni della impossibilità di accogliere l’istanza presentata dal ricorrente per la stipula di un contratto di affitto di azienda. In particolare, la disamina della nota 21.5.2016 evidenzia la sua natura provvedimentale laddove risultano espresse le seguenti conclusioni “rispetto alla precedente comunicazione dell’11.05.2016 non risultano acquisti nuovi elementi idonei alla ridefinizione della richiesta del sig. Pu. e, pertanto, le osservazioni presentate ex art. 10-bis della L. 241/1990 non possono essere accolte”.
Dal che discende la sussistenza del vizio di competenza censurato nel ricorso.
L’accoglimento del ricorso sotto l’aspetto suindicato comporta l’assorbimento delle ulteriori censure ivi comprese quelle dirette a censurare l’inerzia della P.A. comunale, per non aver individuato il cessionario subentrante, atteso che l’annullamento delle note citate comporta l’obbligo per la P.A. di definire il procedimento in questione.
Tale circostanza comporta, altresì, allo stato, la reiezione della domanda risarcitoria, potendo la stessa aver seguito solo successivamente alla definizione del procedimento medesimo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 13.10.2016 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo il diritto a percepire una retribuzione maggiore in funzione delle più impegnative mansioni svolte. Le uniche ipotesi in cui il principio di diritto non si applica si avverano in presenza di prestazioni superiori svolte all’insaputa o contro la volontà dell’ente.
In materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell'art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento dei legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 della Costituzione.
Invero,
la suddetta norma va intesa nel senso che l'impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 Cost.; tale norma deve trovare integrale applicazione -senza sbarramenti temporali di alcun genere- pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all'attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni.
Né la portata applicativa dei principio è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo; le Sezioni Unite
hanno rilevato come l'obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla eventuale irregolarità dell'atto o dall'assegnazione o meno dell'impiegato a mansioni superiori e come il mantenere, da parte della pubblica amministrazione, l'impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto -ai sensi dell'art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell'art. 36 Cost.- perché non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto "con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell'ordinamento", e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore.
La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l'applicabilità anche al pubblico impiego dell'art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell'art. 2126 c.c., l'eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza.
Neppure il principio dell'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso è incompatibile con il diritto dell'impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall'art. 36 Cost...
Neppure vale a contrastare tale principio la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del diritto ad un'equa retribuzione ex art. 36 Cost. al lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l'accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perché "il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione dell'organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la rilevanza costituzionale".
Il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è dunque condizionato all'esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l'assegnazione. Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l'espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente (cfr. Cass. n. 27887 del 2009).
In proposito, la Corte costituzionale ha osservato che
il potere attribuito al dirigente preposto all'organizzazione del lavoro di trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni superiori per esigenze straordinarie di servizio è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento dell'amministrazione; la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo corrispondente alte funzioni di fatto espletate è un precetto dell'art. 36 Cost., la cui applicabilità all'impiego pubblico non può essere messa in discussione.
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6. In ordine al conferimento dell'incarico di posizione organizzativa (nono motivo del ricorso) -considerato che l'art. 7 CCNI 1998-2001 prevede l'attribuzione del potere al direttore generale mentre l'art. 83 CCNL non individua il soggetto che "con atti scritti e motivati" deve assumere la decisione- va rammentato che l'assegnazione delle mansioni superiori che rientra nell'ambito di applicazione dall'art. 52, comma 5, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, attribuisce al lavoratore il diritto alla differenza di trattamento economico previsto per la qualifica superiore ricoperta.
Invero,
in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell'art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento dei legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 della Costituzione.
Nell'interpretazione fornita dalle Sezioni Unite della Corte con la sentenza n. 25837 del 2007,
la suddetta norma va intesa nel senso che l'impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 Cost.; tale norma deve trovare integrale applicazione -senza sbarramenti temporali di alcun genere- pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all'attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (v. pure Cass. n. 23741 del 17.09.2008 e molte altre successive; tra le più recenti, Cass. n. 4382 del 23.02.2010).
Né la portata applicativa dei principio è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo; le Sezioni Unite (cfr. Cass. n. 27887 del 2009, che richiama Cass., Sez. Un., 11.12.2007 n. 25837 cit.), sulla base dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, hanno rilevato come l'obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla eventuale irregolarità dell'atto o dall'assegnazione o meno dell'impiegato a mansioni superiori e come il mantenere, da parte della pubblica amministrazione, l'impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto -ai sensi dell'art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell'art. 36 Cost.- perché non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto "con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell'ordinamento", e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19.06.1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2).
La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l'applicabilità anche al pubblico impiego dell'art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell'art. 2126 c.c., l'eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003).
Neppure il principio dell'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso è incompatibile con il diritto dell'impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall'art. 36 Cost. (Corte Cost. 27.05.1992 n. 236).
Neppure vale a contrastare tale principio la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del diritto ad un'equa retribuzione ex art. 36 Cost. al lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l'accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perché "il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione dell'organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la rilevanza costituzionale" (in tal senso, S.U., sent. n. 25837 del 2007, cit.).
Il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è dunque condizionato all'esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l'assegnazione. Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l'espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente (cfr. Cass. n. 27887 del 2009).
In proposito, la Corte costituzionale ha osservato (n. 101 del 1995) che
il potere attribuito al dirigente preposto all'organizzazione del lavoro di trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni superiori per esigenze straordinarie di servizio è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento dell'amministrazione; la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo corrispondente alte funzioni di fatto espletate è un precetto dell'art. 36 Cost., la cui applicabilità all'impiego pubblico non può essere messa in discussione (cfr. sentenza n. 236 del 1992).
L'astratta possibilità di abuso di tale potere e delle sue conseguenze economiche, nella forma di protrazioni illegittime dell'assegnazione a funzioni superiori, non è evidentemente un argomento che possa giustificare una restrizione dell'applicabilità del principio costituzionale di equivalenza della retribuzione al lavoro effettivamente prestato.
Nel caso di specie, non ricorre alcuno dei presupposti che -alla stregua dei principi sopra esposti e qui pienamente condivisi e ribaditi- avrebbe potuto giustificare l'esclusione del diritto della ricorrente alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato -e del correlativo obbligo dell'Amministrazione di integrare il trattamento economico della dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato-, non risultando nemmeno prospettato dall'Enac in primo grado che l'attribuzione degli incarichi corrispondenti a posizioni organizzative avvenne all'insaputa o contro la volontà dell'Azienda (invito o proibente domino), né risultando allegata altra specifica causa di esclusione, nel senso sopra chiarito (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 12.10.2016 n. 20545).

APPALTIL'omessa condanna esclude dalla gara. Non sanabile col soccorso istruttorio.
La mancata dichiarazione di una condanna comporta senz'altro l'esclusione dalla procedura di affidamento di un appalto pubblico; si tratta di omissione non sanabile con il soccorso istruttorio.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 12.10.2016 n. 4219 relativa a una fattispecie (sotto la vigenza del Codice De Lise) inerente all'applicazione dell'articolo 38 al comma 1, lett. c), la norma, oggi sostituita dall'articolo 80 disponeva che sono esclusi dalle gare i concorrenti che abbiano riportato sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello stato o della comunità che incidono sulla moralità professionale (nonché i concorrenti che abbiano riportato condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione a un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva Ce 2004/18).
Il successivo comma 2 introduceva un vincolo dichiarativo ex lege che integrava automaticamente eventuali carenze della disciplina di gara, prevedendo che il concorrente indicasse «tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione», ma anche «le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, né le condanne revocate, né quelle per le quali è intervenuta la riabilitazione».
Non avendo il concorrente dichiarato una condanna diversa da quelle elencate alla lettera c, i giudici hanno sentenziato che tale omissione «comporta senz'altro l'esclusione dalla gara, essendo impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità». Inoltre, non è data neanche la possibilità di utilizzo del soccorso istruttorio: «il soccorso istruttorio non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti elementi essenziali) radicalmente mancanti, pena la violazione della par condicio fra concorrenti, ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara» (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).
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MASSIMA
E’ fondata la censura con cui l’appellante deduce che il giudice di prime cure, ritenendo sanabile l’omessa dichiarazione, da parte del legale rappresentante della To.Do. & C. s.a.s., in ordine alle condanne penali riportate, avrebbe male interpretato l’art. 38 del D. Lgs. 12/04/2006 n. 163.
Per quanto qui rileva il menzionato articolo 38 al comma 1, lett. c), dispone: “Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti:
omissis
c) nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale; è comunque causa di esclusione la condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione a un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva CE 2004/18; l'esclusione e il divieto operano se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice; degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o consorzio. In ogni caso l'esclusione e il divieto operano anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, qualora l'impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata; l'esclusione e il divieto in ogni caso non operano quando il reato è stato depenalizzato ovvero quando è intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima
”.
Il successivo comma 2 del medesimo articolo, il quale introduce un vincolo dichiarativo ex lege che integra automaticamente eventuali carenze della disciplina di gara (Cons. Stato, A.P. 07/06/2012, n. 21), stabilisce poi: “Il candidato o il concorrente attesta il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, in cui indica tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione. Ai fini del comma 1, lettera c), il concorrente non è tenuto ad indicare nella dichiarazione le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, né le condanne revocate, né quelle per le quali è intervenuta la riabilitazione”.
Orbene, dal combinato disposto delle due trascritte disposizioni si ricava che
nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate all’affidamento di un appalto pubblico, l'omessa dichiarazione da parte del concorrente di tutte le condanne penali eventualmente riportate, anche se attinenti a reati diversi da quelli contemplati nell’art. 38, comma 1, lett. c), ne comporta senz’altro l’esclusione dalla gara, essendo impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità (cfr., fra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 27/07/2016 n. 3402; 29/04/2016 n. 1641; 02/12/2015, n. 5451 e 02/10/2014, n. 4932; Sez. IV, 29/02/2016, n. 834; Sez. III, 28/09/2016, n. 4019).
Inoltre, come più volte confermato dalla giurisprudenza,
non c’è possibilità che l’omissione possa essere sanata attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti elementi essenziali) radicalmente mancanti –pena la violazione della par condicio fra concorrenti- ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara (Cons. Stato, A.P. 25/02/2014 n. 9; Sez. V, 25/02/2015 n. 927).
Nel caso di specie, non è contestato che il legale rappresentante della To.Do. & C. s.a.s. non abbia reso la dichiarazione sui precedenti penali a proprio carico e quindi correttamente è stato escluso dalla competizione.
Non vale in contrario osservare che nella fattispecie il modulo su cui redigere la domanda di partecipazione predisposto dalla stazione appaltante non consentiva di rendere una dichiarazione che facesse riferimento a qualunque reato, prevedendo come unica alternativa quella tra dichiarazione positiva o negativa in ordine alla sussistenza delle sole condanne per reati gravi incidenti sulla moralità professionale.
Ed invero, il disciplinare di gara, al punto 3, intitolato “Requisiti di partecipazione dei concorrenti”, dopo aver elencato le cause di non ammissione alla gara, tra cui quelle contemplate nell’art. 38, comma 1, lett. c), stabiliva espressamente: “Il concorrente indica tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione: non è tenuto ad indicare nella dichiarazione le condanne quando il reato è stato depenalizzato ovvero per le quali è intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima”.
Analogamente il modulo su cui redigere l’“istanza di partecipazione” predisposto dalla stazione appaltante stabiliva, alla lett. e), che il concorrente dovesse dichiarare “che nei confronti dei soggetti richiamati dall’art. 38, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 163/2006 e ss.mm.ii. non è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale ovvero condanna con sentenza passata in giudicato per uno o più reati di partecipazione a un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva CE 2004/18, comprese le condanne per le quali si è beneficiato della non menzione”.
Aggiungendo, poi, come già specificato nel disciplinare di gara, che “Il concorrente indica tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali ha beneficiato della non menzione; non è tenuto ad indicare nella dichiarazione le condanne quando il reato è stato depenalizzato ovvero per le quali è intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima” (lett. e in fine).
Quindi, da una parte la lex specialis contemplava espressamente, conformemente a quanto disposto dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006, l’obbligo di rendere la dichiarazione per qualunque condanna penale riportata, anche se relativa a reati non incidenti sulla moralità professionale, dall’altra, il fatto che il modulo fosse articolato in modo da non consentire (o meglio non consentire agevolmente) la detta dichiarazione, non esonerava il concorrente dal dovere di provvedervi utilizzando allo scopo qualunque mezzo, anche aggiungendo, per esempio, apposita postilla al modulo di domanda.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte è superfluo verificare se nella specie sia versi in un caso di omessa dichiarazione, ovvero in un’ipotesi di falsa dichiarazione, perché in entrambi i casi la conseguenza non può che essere l’esclusione dalla gara.
L’appello va in definitiva accolto.

LAVORI PUBBLICILa giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni evidenziato le finalità dell'istituto della riserva nell'appalto di opere pubbliche, come quella di consentire all'amministrazione committente la verifica dei fatti suscettibili di produrre un incremento delle spese previste con l'immediatezza che ne rende più sicuro e meno dispendioso l'accertamento, ovvero di assicurare la continua evidenza delle spese dell'opera, in relazione alla corretta utilizzazione ed eventuale integrazione dei mezzi finanziari all'uopo predisposti, nonché di mettere l'amministrazione in grado di adottare tempestivamente altre possibili determinazioni, in armonia con il bilancio pubblico, fino ad esercitare la potestà di risoluzione unilaterale del contratto.
Se per l'appaltatore l'iscrizione della riserva costituisce un onere, al fine di non incorrere nella decadenza per la proposizione delle proprie domande, la stesse non possono considerarsi provate per il semplice fatto dell'iscrizione stessa: l'ottemperanza all'onere della riserva non esclude il rispetto di quello previsto dall'art. 2697 cod. civ., secondo cui chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
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Le trattative per comporre bonariamente la vertenza, le proposte, le concessioni e le rinunce fatte dalle parti a scopo transattivo, se non raggiungono l'effetto desiderato, e non comportino, come nella specie, l'ammissione totale o parziale della pretesa avversaria, non rappresentano riconoscimento del diritto altrui, ai sensi dell'art. 2944 cod. civ., e non hanno efficacia interruttiva della prescrizione.
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2 - Con il primo motivo, deducendosi omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, si sostiene che la Corte di appello avrebbe, con evidente contraddizione, da un lato escluso la decadenza e la fondatezza dell'eccezione di prescrizione, sulla base delle riserve iscritte nel Verbale di compimento dei lavori, dall'altro avrebbe escluso la sussistenza della relativa prova, del resto male interpretando la motivazione della decisione di primo grado, che aveva valorizzato l'omessa produzione del libretto delle misure nell'ambito della valutazione del comportamento dell'Amministrazione complessivamente deponente nel senso del riconoscimento dell'esecuzione dei lavori aggiuntivi.
2.1 - Con il secondo mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ., pur in assenza di una specifico motivo di gravame del Ministero circa la sussistenza del credito ritenuto sussistente dal giudice di primo grado.
2.2 - La terza censura, con riferimento alla mancata impugnazione specifica, da parte del Ministero, della statuizione fondata sulle riserve, deduce violazione dell'art. 2909 cod. civ., per essere stato violato il giudicato formatosi sul punto.
3 - Il primo motivo è infondato.
Non esiste alcuna contraddizione tra l'aver preso atto -ai fini dell'esclusione della relativa decadenza- delle riserve formulate dall'impresa in relazione alle pretese concernenti i lavori aggiuntivi e il rigetto della domanda a causa dell'inottemperanza al relativo onere probatorio.
La giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni evidenziato le finalità dell'istituto della riserva nell'appalto di opere pubbliche, come quella di consentire all'amministrazione committente la verifica dei fatti suscettibili di produrre un incremento delle spese previste con l'immediatezza che ne rende più sicuro e meno dispendioso l'accertamento, ovvero di assicurare la continua evidenza delle spese dell'opera, in relazione alla corretta utilizzazione ed eventuale integrazione dei mezzi finanziari all'uopo predisposti, nonché di mettere l'amministrazione in grado di adottare tempestivamente altre possibili determinazioni, in armonia con il bilancio pubblico, fino ad esercitare la potestà di risoluzione unilaterale del contratto (cfr. Cass., 07.07.2011, n. 15013; Cass., 17.03.2009, n. 6443; Cass., 03.03.2006, n. 4702).
Se per l'appaltatore l'iscrizione della riserva costituisce un onere, al fine di non incorrere nella decadenza per la proposizione delle proprie domande, la stesse non possono considerarsi provate per il semplice fatto dell'iscrizione stessa: l'ottemperanza all'onere della riserva non esclude il rispetto di quello previsto dall'art. 2697 cod. civ., secondo cui chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (Cass., 02.09.2005, n. 17702).
3.2 - Al di là dell'aspetto sopra evidenziato, la motivazione della decisione impugnata appare adeguata e immune da vizi di natura logico-giuridica: la mancata produzione del libretto delle misure, in assenza, per altro, di ordine di esibizione, è stata ricondotta, come riconosce lo stesso ricorrente, nella valutazione del complessivo comportamento dell'amministrazione, e, come tale, è stata considerata priva di significativa rilevanza.
Quanto, poi, all'invito rivolto al Ma. "per accordi definitiva soluzione", l'assoluta carenza di valenza probatoria attribuita, anche sotto tale profilo, alla condotta del Ministero trova conferma nel costante orientamento di questa Corte secondo cui
le trattative per comporre bonariamente la vertenza, le proposte, le concessioni e le rinunce fatte dalle parti a scopo transattivo, se non raggiungono l'effetto desiderato, e non comportino, come nella specie, l'ammissione totale o parziale della pretesa avversaria, non rappresentano riconoscimento del diritto altrui, ai sensi dell'art. 2944 cod. civ., e non hanno efficacia interruttiva della prescrizione (Cass. 24.09.2015, n. 18879; Casa., 29.09.2011, n. 19872; Cass., 06.03.2008, n. 6034) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 04.10.2016 n. 19802).

EDILIZIA PRIVATA: Normativa antisismica e pericolosità delle costruzioni.
Ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto le contravvenzioni puniscono inosservanze formali e la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie in dette zone.
Anche dopo la entrata in vigore del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 qualsiasi intervento edilizio, ad eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, ove eseguito in zona sismica, che non sia preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato.
Il reato antisismico, inoltre, sussiste nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento.

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2.4. In relazione, infine, ai reati in materia di normativa antisismica contestati, va ricordato che ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto le contravvenzioni puniscono inosservanze formali e la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie in dette zone (Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Rv. 238007; Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012, Rv. 252750; Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Rv. 264201).
Questa Corte ha pure affermato, che anche dopo la entrata in vigore del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 qualsiasi intervento edilizio, ad eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, ove eseguito in zona sismica, che non sia preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Rv. 261155; Sez. 3, n. 28514 del 29/05/2007, Rv. 237656; Sez. 3, n. 45958 del 26/10/2005, Rv. 232649).
Il reato antisismico, inoltre, sussiste nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Rv. 251284; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Rv. 266033) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.10.2016 n. 41151 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La trasformazione di un balcone, anche di modesta superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001.
Invero, tale opera non rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria, comportando aumento della superficie utile e mutamento dell'aspetto del fabbricato ed è, quindi, soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso di costruire. Essa esula, altresì, dalla nozione di pertinenza, poiché, mentre quest'ultima deve essere autonoma, il balcone costituisce parte integrante dello stabile.
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Circa la chiusura del torrino/vano scala con costruzione di manufatto a protezione delle vasche per la riserva idrica, la valutazione del Giudice di merito è in linea con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui integra il reato edilizio previsto dall'art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la realizzazione, senza permesso di costruire di un volume tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni.

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2. Alla luce dei principi enunciati in premessa, il primo motivo di ricorso che censura l'affermazione di responsabilità penale per le opere contestate è inammissibile.
Nella specie, le motivazioni delle due sentenze si saldano fornendo un'unica e complessa trama argomentativa, non scalfita dalle censure mosse dal ricorrente che ripropone gli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado.
La Corte di Appello di Caltanissetta, inoltre, non si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado, ma ha risposto punto per punto alle doglianze oggi riproposte, in linea con i principi di diritto affermati da questa Corte in subiecta materia.
2.1. In particolare, la Corte di merito ha adeguatamente chiarito che la trasformazione di un balcone, anche di modesta superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez 3, n.1483 del 03/12/2013, dep. 15/01/2014, Rv. 258295; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Rv. 237532).
2.2. Inoltre, con riferimento alla realizzazione di un balcone, la Corte territoriale ha correttamente ed adeguatamente ribadito che tale opera non rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria, comportando aumento della superficie utile e mutamento dell'aspetto del fabbricato ed è, quindi, soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso di costruire. Essa esula, altresì, dalla nozione di pertinenza, poiché, mentre quest'ultima deve essere autonoma, il balcone costituisce parte integrante dello stabile (Sez. 3, n. 2627 del 20/05/1988, dep. 17/02/1989, Rv. 180562; Sez. 3, n. 42892 del 24/10/2008, Rv. 241542).
2.3. Con riferimento, poi, alla chiusura del torrino/vano scala con costruzione di manufatto a protezione delle vasche per la riserva idrica, la valutazione del Giudice di merito è in linea con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui integra il reato edilizio previsto dall'art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la realizzazione, senza permesso di costruire di un volume tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni (Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 25/02/2011, Rv. 249529).
La sentenza impugnata richiama sul punto i chiari rilievi fotografici e l'apprezzamento in fatto di tali emergenze istruttorie costituisce censura di merito che non è proponibile in sede di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.10.2016 n. 41151 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Le Sezioni Unite affidano al g.o. la giurisdizione delle controversie con cui l’azione risarcitoria venga proposta nei confronti non della p.a. ma solo del funzionario in proprio.
Giurisdizione amministrativa – Risarcimento danni - Domanda proposta nei confronti del funzionario amministrativo - Esclusione.
In base agli artt. 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una p.a. o un soggetto ad essa equiparato; pertanto, la domanda risarcitoria proposta da un privato nei confronti del funzionario cui sia imputata l’adozione del provvedimento illegittimo è di competenza del giudice ordinario. (1)
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(1) Con la sentenza in epigrafe le Sezioni unite ribadiscono (prendendo le mosse da Sez. un., 23.03.2011, n. 6594, in Foro it., 2011, I, 2387, con nota di A. TRAVI; successivamente fra le tante, oltre alle decisioni richiamate in motivazione, cfr. Sez. un., 13.06.2006, n. 13659, id., 2007, I, 3181, con note di A. LAMORGESE e R. DE NICTOLIS, ivi gli ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza), che appartiene alla giurisdizione ordinaria la domanda proposta nei confronti non dell’Amministrazione titolare della competenza e del potere esercitato (nella specie A.R.P.A. Lazio) ma dei singoli funzionari che, per conto dell’ente stesso, hanno operato.
Muovendo dai principi affermati dalla Corte costituzionale nelle celebri sentenze n. 204 del 2004 e n. n. 191 del 2006, nel decidere il proposto regolamento preventivo di giurisdizione, le Sezioni unite affermano che l’estensione della giurisdizione amministrativa alla tutela risarcitoria presupponga la presenza dell’ente pubblico quale parte in causa.
In dettaglio, il ragionamento seguito dalla Suprema Corte viene basato sull'evoluzione della disciplina normativa in tema di riparto di giurisdizione, iniziata con il d.lgs. n. 80 del 1998, consolidatasi con la 1. n. 205 del 2000 e cristallizzata, infine, dall’art. 7 c.p.a.
Preso quindi atto che nell’àmbito della giurisdizione esclusiva rientrano sia le pretese risarcitorie da lesione di interessi legittimi che da lesione di diritti soggettivi, viene ribadito il principio di diritto secondo cui l'art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l'adozione del provvedimento illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario.
Tale lettura riduttiva dell’estensione della giurisdizione amministrativa viene quindi fondata sul dato testuale dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a. in specie laddove, nell'individuare la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti soggettivi, riferisce tali controversie a «l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» e le afferma come «riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni». Tale ultimo inciso viene quindi valorizzato come limite all’estensione della giurisdizione amministrativa.
Per completezza, si segnala:
   a) circa il riparto di giurisdizione in materia risarcitoria, Corte cost. 5 febbraio 2010, n. 35, in Giur. cost. 2010, 1, 432 con note di SCOCA E CROCE;
   b) sulla portata dell’art. 7 c.p.a., Cons. St., A.P., 29.01.2014, n. 6, in Foro it., 2014, III, 518, secondo cui «salvo deroghe normative espresse, nell’ordinamento processuale vige il principio generale della inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione»; 25.05.2016, n. 10, di cui alla News US in data 31.05.2016, in punto di effettività e concentrazione della tutela innanzi al G.A. (commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it - Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 03.10.2016 n. 19677).
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MASSIMA
Ritenuto quanto segue:
§1. La R.I.D.A. Ambiente s.r.l. ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione riguardo al giudizio introdotto davanti al Tribunale di Roma con citazione del luglio 2013 contro Ma.Ri. e Cr.Ba. (o Ba.), nella qualità di dirigenti dell'ARPA Lazio-Agenzia Regionale protezione Ambientale del Lazio, contro Ma.Gr.Po. e Ga.Fr., la prima nella qualità di dirigente ed il secondo in quella di funzionario dell'Area Ciclo Integrato Rifiuti della Direzione Regionale Territorio Urbanistica Mobilità e Rifiuti della regione Lazio, e contro Lu.Fe., nella qualità a suo tempo rivestita di direttore del Dipartimento Istituzionale e territorio della Regione Lazio ed in quella a suo tempo rivestita di direttore generale della indicata direzione regionale.
§2. 11 giudizio era stato introdotto dalla ricorrente per fare accertare, in via principale la responsabilità solidale dei convenuti nelle dedotte qualità ed in via subordinata per la parte imputabile a ciascuno, i danni asseritamente sofferti dall'attrice -nella sua posizione di società operante da oltre un ventennio nel settore dei rifiuti e di titolare di un impianto sito in Aprilia, autorizzato sin dal 1999 al trattamento ed al recupero dei rifiuti non pericolosi- in dipendenza di attività provvedimentale e di comportamenti, tenuti nelle indicate qualità dai convenuti nello svolgimento delle funzioni loro commesse.
§3. Costituendosi in giudizio, la Po. ed il Fr. hanno eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo.
Nel giudizio sono stati chiamati in garanzia dalla Pompa gli Assicuratori Lloyd's ed è volontariamente intervenuta l'ARPA.
§4. Nel ricorso per regolamento preventivo la ricorrente chiede dichiararsi la giurisdizione sulla controversia del giudice ordinario ed all'uopo ribadisce innanzitutto le ragioni in tal senso esposte già nella citazione introduttiva del giudizio, le quali erano state fondate sull'invocazione delle norme degli artt. 22 e 23 del d.P.R. n. 3 del 1957 e della decisione di queste Sezioni Unite n. 13659 del 2006.
La ricorrente fa riferimento, altresì, a sostegno della sua prospettazione, ad altre decisioni, cioè alla sentenza n. 11932 del 2010, all'ordinanza n. 5914 del 2008 ed alla sentenza n. 738 del 2015. Adduce, poi, che l'orientamento, di cui a dette decisioni, ha trovato conferma nel c.p.a., atteso che l'art. 7 di esso riferisce la giurisdizione amministrativa sempre ad atti, provvedimenti o comportamenti posti in essere da pubbliche amministrazioni e considerato che l'art. 133 del detto codice nemmeno nelle materie di giurisdizione esclusiva consente di ritenere che gli atti illeciti dei pubblici funzionari possano considerarsi espressione di pubblico potere, com'è richiesto per la sussistenza di quella giurisdizione.
§4.1. Al ricorso per regolamento preventivo hanno resistito con separati controricorsi la Po. e l'ARPA. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
§5. Richieste le conclusioni al Pubblico Ministero presso la Corte ai sensi dell'art. 380-ter c.p.c., all'esito del loro deposito è seguita la fissazione dell'odierna adunanza in camera di consiglio.
§6. La ricorrente ha depositato memoria.
Considerato quanto segue:
§1. 11 Pubblico Ministero presso la Corte nelle sue conclusioni ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo, adducendo che <<la domanda è stata proposta per il risarcimento dei danni derivanti da esercizio di attività amministrativa riconducibile comunque ad espletamento di funzioni autoritative>>.
§2. Nel suo controricorso la Po. ha invocato la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, adducendo che gli illeciti addebitati ai convenuti deriverebbero dalla lesione di posizioni di interesse legittimo della ricorrente verso l'Amministrazione e che Cass. sez. un. n. 13659 del 2006 non legittimerebbe la prospettazione della ricorrente. La resistente ha, poi, invocato Cons. Stato n. 3891 del 2006 ed una decisione di merito del Tribunale di Roma.
§3. L'ARPA, nel suo controricorso, svolgendo considerazioni relative alla posizione dei convenuti Ba. e Ri. ha sostenuto la sussistenza della giurisdizione ordinaria.
§4. L'istanza di regolamento preventivo dev'essere decisa con l'affermazione della giurisdizione del giudice ordinario.
A seguito dell'evoluzione del riparto di giurisdizione iniziata con il d.lgs. n. 80 del 1998 e, quindi, consolidatasi con la l. n. 205 del 2000 e l'assetto emerso dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, nonché dalla n. 191 del 2006, queste Sezioni Unite, proprio nell'ordinanza n. 13659 del 2006, di fronte all'estensione dell'àmbito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alle pretese risarcitorie da lesione di interessi legittimi e all'estensione della giurisdizione esclusiva con la conseguente attrazione ad essa anche delle pretese risarcitorie da lesione di diritti soggettivi, hanno affermato il principio di diritto secondo cui
l'art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l'adozione del provvedimento illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario.
Come emerge dalla motivazione della decisione, l'affermazione delle ragioni, per cui non è dato ipotizzare la sussistenza della giurisdizione amministrativa rispetto a pretese risarcitorie contro dipendenti pubblici, fu di assoluta chiarezza, sicché non si comprende come la resistete Po. ne abbia dubitato.
Successivamente il principio di diritto espresso dalla decisione del 2006 è stato confermato da Cass. sez. un. n. 5914 del 2008. Di seguito si registrano nei medesimi sensi Cass. sez. un. nn. 11932 del 2010 e 5408 del 2014.
§4.1.
Nella specie la causa petendi dell'azione risarcitoria esercitate dalla ricorrente contro i funzionari pubblici trae titolo dal loro agire nell'esercizio delle loro funzioni e la questione del se in tale agire essi siano ricaduti in responsabilità secondo la lege aquilia, ledendo posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo della ricorrente si da dare origine a responsabilità è una questione che, non inerendo alla responsabilità della Pubblica Amministrazione per cui essi hanno agito (rompendo o meno il c.d. rapporto organico), non può rientrare né nella giurisdizione del giudice amministrativo riguardo alla tutela della lesione degli interessi legittimi estesa al profilo risarcitorio né nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo estesa anche ai diritti soggettivi e, quindi, estesa anche al profilo risarcitorio.
Presupposto della giurisdizione amministrativa secondo la Carta costituzionale è, infatti, che la tutela giurisdizionale coinvolgente le situazioni giuridiche nella giurisdizione di legittimità ed in quella esclusiva debba avere luogo con la partecipazione in posizione attiva o passiva della pubblica amministrazione del soggetto che, pur non facendo parte dell'apparato organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni dell'Amministrazione, così ponendosi come pubblica amministrazione in senso oggettivo.
§4.2. Rilevano le Sezioni Unite che il profilo della giurisdizione amministrativa in questi termini trova conferma nel codice del processo amministrativo, atteso che, come del resto ha rimarcato la ricorrente, l'art. 7, comma 1, nell'individuare la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti soggettivi, riferisce tali controversie a «l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» e le dice «riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni>>.
Il riferimento al potere amministrativo, potrebbe, per la verità suggerire che il legislatore abbia voluto riferirsi anche alle controversie in cui tale potere venga in discussione in quanto esercitato dai soggetti all'Amministrazione legati da rapporto organico, cioè considerandosi il solo dato che il loro agire si è esplicato formalmente come espressione del potere amministrativo.
Tuttavia, questo suggerimento è subito contraddetto, in modo decisivo, dalla successiva precisazione che le forme dell'esercizio del potere specificamente indicate sono considerate siccome poste in essere da "pubbliche amministrazioni": tale precisazione evidenzia in modo indubitabile che la controversia riguarda quelle forme di esercizio del potere in quanto poste in essere dall'Amministrazione, il che non lascia dubbi sul fatto che soggettivamente la controversia esige che una delle parti sia la pubblica amministrazione e l'altra il soggetto che faccia la questione sull'interesse legittimo o sul diritto soggettivo.
Il dubbio sulla possibilità che la controversia possa riguardare la lesione di interessi legittimi o di diritti soggettivi fra tale soggetto e colui che agisca per l'Amministrazione con nesso di rappresentanza organica è, pertanto, chiaramente fugato.
Lo è ancora di più quando si legge il comma 2 dello stesso articolo, là dove esso proclama che «per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo.>>: è nuovamente palese che ci si riferisce al profilo oggettivo della pubblica amministrazione o di chi ad essa è equiparato.
V'è da notare, in fine, che il catalogo delle ipotesi di giurisdizione esclusiva di cui all'art. 133 del c.p.a. a sua volta, quando nelle varie sue previsioni non pone in evidenza il riferimento alla pubblica amministrazione dell'ipotesi di giurisdizione esclusiva, va inteso necessariamente al lume di quanto emerge dell'art. 7 nei sensi poco sopra indicati.
§5. Dev'essere, dunque, dichiarata la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria sulla controversia.

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione e morte del responsabile.
L'ordine demolitorio, diversamente dalla pena, non si estingue per morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza ma si trasmette agli eredi del responsabile e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene.
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MASSIMA
2. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
3. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte,
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito dal giudice ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 con la sentenza di condanna per il reato di costruzione abusiva, ha natura amministrativa e non si estingue per il decorso del tempo ex art. 173 cod. pen., atteso che quest'ultima disposizione si riferisce esclusivamente alle sole pene principali (così già Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale, Rv. 226573; più recentemente, nello stesso senso, Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio, Rv. 250336; Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736)
3.1. Tale orientamento è stato ancor più recentemente ribadito sul rilievo espresso che
le caratteristiche dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di "pena" come elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU (così, Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, Rv. 265540 che ha annullato l'ordinanza del Tribunale di Asti del 03/11/2014, più volte richiamata dal ricorrente a sostegno delle proprie tesi).
3.2. Il Collegio condivide e fa proprie le articolate considerazioni sviluppate, con il supporto di ampia giurisprudenza anche amministrativa, nella motivazione della sentenza (alla quale rimanda), non mancando di rimarcare, in questa sede, la decisiva osservazione che
l'ordine demolitorio, diversamente dalla pena, non si estingue per morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza (Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci, Rv. 249317; Sez. 3, n. 3720 del 24/11/1999 - dep. 2000, Barbadoro, Rv. 215601), ma si trasmette agli eredi del responsabile (v., ad es., Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 3206 del 30.05.2011) e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene (v., ad es. Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 2266 del 12.04.2011; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 6554 del 24.12.2008).
3.3. Peraltro, come ricorda anche Sez. 3, n. 49331 del 2015, già con la sentenza Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918, questa Corte, in base alle argomentazioni sviluppate dalla stessa Corte e.d.u. (in essa richiamate), aveva chiaramente affermato che «
la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
Si osservava, inoltre, che la sentenza «
nel mentre ha ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo perseguito dalla norma, ossia mettere i terreni interessati in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche, la confisca (anche di terreni non edificati) in assenza di qualsiasi risarcimento, ha invece espressamente ritenuto giustificato e conforme anche alle norme CEDU un ordine di demolizione delle opere abusive incompatibili con le disposizioni degli strumenti urbanistici eventualmente accompagnato da una dichiarazione di inefficacia dei titoli abilitativi illegittimi. Sembra quindi confermato che la invocata sentenza della Corte di Strasburgo non solo non ha escluso un sequestro o un ordine di demolizione dell'opera contrastante con le norme urbanistiche nei confronti di chiunque ne sia in possesso, anche qualora si tratti di terzo acquirente estraneo al reato, ma ha addirittura implicitamente ritenuto che una tale sanzione ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi e non contrastante con le norme CEDU richiamate dai ricorrenti».
3.4. I primi due motivi di ricorso sono perciò totalmente destituiti di fondamento.
4. Lo è di conseguenza anche il terzo che presuppone l'erroneo concorso tra una inesistente sanzione penale (l'ordine di demolizione ingiunto dal giudice) e quella amministrativa (l'ordine di demolizione disposto dal Comune).
4.1. Va piuttosto ribadito, richiamando quanto sul punto già affermato dalla citata Sez. 3, n. 49331 del 2015, che
la demolizione ordinata dal giudice penale costituisce atto dovuto, «esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez.3, n. 37906 del 22/05/2012, Mascia ed altro, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994, Sorrentino Rv. 198511 ed altre prec. conf. Ma si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/06/1996, RM. in proc. Monterisi, Rv. 205336; Sez. U, n. 714 del 20/11/1996 (dep.1997), Luongo, Rv. 206659)» (così in motivazione), un potere che si pone a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo (cfr. Corte Cost. ord. 33 del 18/1/1990; ord. 308 del 09/07/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.09.2016 n. 40675 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione - Estinzione per morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza - Esclusione - Trasmissione agli eredi - Artt. 31 c. 9, 44 lett. e), d.P.R. n. 380/2001.
L'ordine demolitorio, diversamente dalla pena, non si estingue per morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza (Sez.3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci; Sez. 3, n. 3720 del 24/11/1999 - dep. 2000, Barbadoro), ma si trasmette agli eredi del responsabile (Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 3206 del 30.05.2011) e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene (Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 2266 del 12.04.2011; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 6554 del 24.12.2008).
Natura amministrativa dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo - Giurisprudenza della Corte EDU.
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito dal giudice ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 con la sentenza di condanna per il reato di costruzione abusiva, ha natura amministrativa e non si estingue per il decorso del tempo ex art. 173 cod. pen., atteso che quest'ultima disposizione si riferisce esclusivamente alle sole pene principali (Cass. Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio; Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano).
Pertanto, le caratteristiche dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di "pena" come elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU (così, Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier)
Differenza tra demolizione e confisca - DIRITTO PROCESSUALE EUROPEO - Giurisprudenza.
La demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
Inoltre, la Corte di Strasburgo «nel mentre ha ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo perseguito dalla norma, ossia mettere i terreni interessati in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche, la confisca (anche di terreni non edificati) in assenza di qualsiasi risarcimento, ha invece espressamente ritenuto giustificato e conforme anche alle norme CEDU un ordine di demolizione delle opere abusive incompatibili con le disposizioni degli strumenti urbanistici eventualmente accompagnato da una dichiarazione di inefficacia dei titoli abilitativi illegittimi
».
Sicché, la invocata sentenza della Corte di Strasburgo non solo non ha escluso un sequestro o un ordine di demolizione dell'opera contrastante con le norme urbanistiche nei confronti di chiunque ne sia in possesso, anche qualora si tratti di terzo acquirente estraneo al reato, ma ha addirittura implicitamente ritenuto che una tale sanzione ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi e non contrastante con le norme CEDU richiamate dai ricorrenti (Sez. 3, n. 49331 del 2015; Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti e altri).
Demolizione ordinata dal giudice penale - Natura di atto dovuto autonomo - Potere che si pone a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo.
La demolizione ordinata dal giudice penale costituisce atto dovuto, <<esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione>> (Cass. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo; Sez. 3, n. 37906 del 22/05/2012, Mascia ed altro; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994, Sorrentino; Cass. Sez. U., n. 15 del 19/06/1996, RM. in proc. Monterisi; Sez. U. n. 714 del 20/11/1996 (dep. 1997), Luongo (così in motivazione), un potere che si pone a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo (Corte Cost. ord. 33 del 18/01/1990; ord. 308 del 09/07/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.09.2016 n. 40675 - link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVORO: Infortunio mortale sul lavoro: la responsabilità non è del committente se c’è il coordinatore.
Infortunio mortale sul lavoro: la Cassazione esclude la responsabilità del committente in caso di conferimento dell’incarico ad un’impresa appaltatrice e di nomina del coordinatore della sicurezza
Nessuna condanna per il committente se conferisce l’incarico per la realizzazione dei lavori ad un’altra impresa, assicurando la sua totale estraneità al compimento dell’opera e se nomina un tecnico come coordinatore per la sicurezza.
Questo quanto ribadito dalla IV Sez. penale della Corte di Cassazione nella sentenza 27.09.2016 n. 40033, in merito ad un caso di decesso di un lavoratore dipendente di un’impresa subappaltatrice.
Infortunio mortale sul lavoro, il fatto
Il caso in esame riguarda la morte di un lavoratore, deceduto a causa di un infortunio mortale per gravi violazioni delle misure di sicurezza sul cantiere.
In particolare, la società committente dei lavori per la costruzione di una palazzina di civile abitazione subappaltava i lavori ad altra impresa. Quest’ultima, a sua volta, subappaltava ad altre 2 imprese:
   1. i lavori per la realizzazione opere di muratura;
   2. i lavori per la realizzazione intonaco e verniciatura.
Un lavoratore dipendente dell’impresa subappaltatrice di intonacatura, durante la sua attività, precipitava nel vano ascensore causandone il decesso.
Infortunio mortale sul lavoro, la decisione del Tribunale di Milano
Il Tribunale di Milano, accertata l’assenza di qualsiasi misura di protezione contro il rischio di caduta dall’alto, condannava i seguenti soggetti per la morte del lavoratore:
   • il committente, quale amministratore unico della società committente dei lavori;
   • il direttore tecnico dei lavori, ossia l’amministratore della società appaltatrice dei lavori;
   • il direttore di fatto dei lavori per la società cui erano state subappaltate le opere.
In particolare, riteneva il committente responsabile del suddetto reato in quanto (in violazione degli artt. 90, comma 2, del dlgs 81/2008 e 2087 del cc) ometteva di valutare adeguatamente la idoneità e completezza del PSC, con riguardo all’assenza nel predetto PSC di misure di prevenzione del rischio di caduta nel vuoto.
Responsabile anche il direttore tecnico dei lavori perché, in violazione degli artt. 97, comma 1, 2 e 3, 26, 146, comma 3, del dlgs 81/2008 e 2087 del cc., ometteva di:
   • vigilare sulla sicurezza dei lavori affidati in subappalto alla società di intonacatura
   • verificare l’idoneità tecnica di tale società e l’adeguatezza del suo POS che non prevedeva adeguate misure di protezione contro il rischio di caduta nel vuoto
   • coordinare gli interventi di cui agli artt. 95-96 dlgs 81/2008 e di promuovere il coordinamento e la cooperazione delle imprese esecutrici ai fini della sicurezza
   • provvedere affinché, durante l’intonacatura delle predette aree, le aperture sul vano ascensore fossero adeguatamente protette, ossia sbarrate
Infine, riteneva responsabile il direttore di fatto del cantiere in quanto, in violazione degli artt. 146, co. 3, dlgs 81/2008, 2087 cc.:
   • ometteva di provvedere affinché, durante l’intonacatura delle aree di sbarco, le aperture sul vano ascensore fossero adeguatamente protette contro il rischio di caduta nel vuoto;
   • disponeva, invece, che i lavoratori procedessero alla intonacatura previa rimozione delle tavole poste a protezione del suddetto vano.
Pertanto, il Tribunale di Milano condannava i 3 soggetti. Condannava anche le rispettive società per non aver adottato misure di protezione.
Infortunio mortale sul lavoro, Corte di appello di Milano
I condannati proponevano appello dinanzi la Corte di appello di Milano che, in parziale riforma dell’impugnata sentenza assolveva solo la società della committenza e quella appaltatrice.
Confermava nel resto l’impugnata sentenza; gli altri ricorrenti avanzavano, quindi, ricorso per cassazione.
Infortunio mortale sul lavoro, Corte di Cassazione, sentenza 40033/2016
La Corte di Cassazione annulla la sentenza nei confronti del committente per non aver commesso il fatto. Rigetta, invece, gli altri ricorsi.
In base a quanto osservato dalla Cassazione, la società committente si era limitata a conferire l’incarico per la costruzione senza prendere parte ad essa. Inoltre, aveva nominato il coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione, destinatario degli obblighi previsti.
Per quanto riguarda, invece, l’appaltatore dei lavori, egli è destinatario di specifici obblighi di vigilanza sulla sicurezza dei lavori effettuati dalla imprese subappaltatrici.
Tra gli obblighi, la valutazione circa l’adeguatezza del POS adottato dalle stesse.
Nel caso specifico, nel piano di sicurezza dell’impresa subappaltatrice, alle cui dipendenze era il lavoratore deceduto, non vi era alcuna misura di prevenzione dai rischi circa le lavorazioni in prossimità delle aperture vicino gli ascensori. Solo generiche previsioni relative al rischio di caduta dall’alto (commento tratto da http://biblus.acca.it).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato per i motivi di seguito illustrati.
Occorre innanzitutto rilevare che nel quadro delle molteplici posizioni di garanzia previste dalla normativa di settore al fine del rafforzamento del sistema della prevenzione e sicurezza sul lavoro, attraverso la sinergia di interventi di diversi soggetti destinatari degli obblighi di protezione, è prevista la figura del committente, introdotta dal d.lgs. 14.08.1996 n. 494, (riguardante i cantieri mobili o mobili), le cui norme sono state trasfuse nel Testo Unico per la sicurezza del lavoro (d.lgs. 09.04.2008 n. 81).
Tale normativa, oltre a prevedere la figura del datore di lavoro e dei suoi ausiliari (preposto, direttore di cantiere) individua, come portatore di una specifica posizione di garanzia, anche la figura del committente, cui si aggiunge quella di altri garanti costituenti una sua promanazione: il responsabile dei lavori, il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di realizzazione.
Come questa Corte ha avuto modo di rilevare,
normalmente è il datore di lavoro il personaggio che riveste una posizione di vertice nel sistema della sicurezza, in quanto titolare del rapporto di lavoro e al contempo titolare dell'impresa esecutrice dei lavori, con compiti quindi organizzativi ed economici inerenti l'attività dell'impresa che lo vedono direttamente coinvolto anche nella predisposizione ed osservanza delle misure antinfortunistiche. Tuttavia, nella previsione di una pluralità di soggetti che concorrono al rafforzamento della sicurezza del lavoro, il d.lvo n. 494/1996 introduce, affiancandola al datore di lavoro con i suoi collaboratori, la figura del committente.
Anche il committente, che assume l'iniziativa della realizzazione dell'opera, provvedendo a programmarla e a finanziarla, sebbene l'esecuzione venga affidata a terzi, assume una quota di responsabilità in materia di prevenzione antinfortunistica collocandosi accanto al datore di lavoro nella titolarità degli obblighi di protezione, con la possibilità demandarli ad altra figura, questa ausiliaria, del responsabile dei lavori, anziché occuparsene direttamente.
Per gli aspetti tecnici delle competenze facenti capo al committente in materia antinfortunistica, lo stesso, o per lui il responsabile dei lavori, può avvalersi di figure specializzate, distinte per la fase della progettazione e della realizzazione dei lavori, che sono appunto il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di realizzazione (denominati, il primo, coordinatore per la progettazione, il secondo, coordinatore per l'esecuzione dei lavori).
Tali figure professionali devono essere dotate di particolari requisiti (art. 10 d.lvo 494/1996) ed assolvono compiti delicati, quali, per il coordinatore in fase di progettazione, redigere il piano di sicurezza e di coordinamento e predisporre il fascicolo contenente le informazioni utili per la prevenzione e la protezione dai rischi (art. 4 cit. d.lvo); per il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione:
   1) controllare l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e coordinamento e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro;
   2) verificare l'idoneità del piano operativo di sicurezza redatto dal datore di lavoro dell'impresa esecutrice come piano di dettaglio, ed assicurarne la coerenza col PCS;
   3) adeguare il piano di coordinamento e sicurezza e il fascicolo di valutazione dei rischi in relazione all'evoluzione dei lavori e all'eventuali modifiche intervenute;
   4) organizzare tra i datori di lavoro operanti nello stesso cantiere la cooperazione ed il coordinamento delle attività all'interno del cantiere;
   5) infine segnalare al committente o al responsabile dei lavori le inosservanze delle disposizioni di legge riferite ai datori di lavoro o ai lavoratori autonomi, previa contestazione scritta alle imprese ed ai lavoratori autonomi interessati (art. 5 d.lvo n. 494/1996).
Trattasi di figure, quelle dei coordinatori per la sicurezza, le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell'incolumità dei lavoratori (sez. 4, n. 7443 del 17/01/2013 Rv. 255102, sez. 4, n. 18472 del 04/03/2008, Rv. 240393)
La designazione dei tecnici coordinatori per la sicurezza nelle due fasi della progettazione e dell'esecuzione può esonerare da responsabilità il committente o, per lui, il responsabile dei lavori, se nominato, fatta salva la verifica dell'adempimento da parte dei responsabili per la sicurezza degli obblighi ad essi facenti carico, fra i quali, in primis, la redazione del piano di coordinamento e di sicurezza e del documento di valutazione dei rischi per il coordinatore della sicurezza in fase di progettazione e, per il coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione, l'azione di coordinamento e di controllo circa l'osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento e la verifica del piano di sicurezza.
Così individuato il contenuto dei compiti facenti carico al committente, nel panorama delle posizioni di garanzia per la prevenzione degli infortuni sul lavoro quella del committente può definirsi, come ripetutamente affermato in diverse pronunce di questa Corte, una funzione tecnica di "alta vigilanza" sulla sicurezza del cantiere che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni e non il puntuale e continuo controllo di esse, né la specificità di determinati rischi connessi alla particolarità o complessità della lavorazione, controlli facenti capo ad altri soggetti, destinatari di ben più pregnanti obblighi di protezioni, quale il datore di lavoro, il preposto, il direttore di cantiere.
Con la nomina dei coordinatori per la sicurezza, il committente trasferisce tale funzione di alta vigilanza a dette figure che assumono gli obblighi al medesimo facenti carico di modo che il committente rimane titolare di una posizione di garanzia limitata alla verifica che il tecnico nominato adempia al suo obbligo (sez. quarta n. 37738 del 28.05.2013, rv 256637, imp. Gandolla). Difatti, secondo l'art. 93 09.04.2008 n. 81 (testo Unico in materia della salute e della sicurezza) "il committente è esonerato dalle responsabilità connesse all'adempimento degli obblighi limitatamente all'incarico conferito al responsabile dei lavori".
Così delineata la posizione di garanzia del committente, passando all'esame del caso di specie, osserva questo Collegio che Co. era, all'epoca dei fatti, amministratore unico della Fe.Ma. s.r.l. società committente dei lavori per la costruzione di una palazzina di civile abitazione appaltati alla IC. s.r.l., la quale li aveva a sua volta subappaltati alla G.Co., per quanto riguarda le opere di muratura, e alla società PJ.CO. srl, di cui era dipendente il lavoratore deceduto, per quanto riguarda le opere di intonacatura e verniciatura.
E' dunque evidente che la società rappresentata dal Co. si era limitata a conferire l'incarico per la costruzione senza prendere parte ad essa. Il Co., nella sua qualità di legale rappresentante della società committente, aveva peraltro nominato il coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione, funzioni conferite entrambe all'ing. Po., divenuto quindi destinatario degli obblighi previsti dagli art. 4 e 5 d.lvo 494/1996 (trasfusi negli art. 91 e 92 del d.lgs. n. 81/2008) .
Di conseguenza, data la totale estraneità alla realizzazione dell'opera e considerata comunque la presenza di un tecnico che rappresentava la committenza, destinatario degli obblighi di protezione previsti a carico delle figure dei coordinatori responsabili della sicurezza, nessun addebito può essere mosso al Co.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata senza rinvio limitatamente alla posizione del predetto imputato per non aver commesso il fatto.
Tale epilogo decisorio esonera il Collegio dall'esame del secondo motivo dedotto dalla difesa di Co. concernente il mancato riconoscimento della attenuante del risarcimento de danno.
2. Quanto al ricorso di Ma., amministratore unico della ditta IC., i motivi 1-4 —tramite i quali si contesta la ritenuta responsabilità dello stesso in relazione all'incidente verificatesi stante la sua qualifica di Direttore tecnico del cantiere— devono ritenersi infondati.
Innanzitutto, come risulta dall'imputazione e dalla stessa sentenza impugnata, il predetto viene considerato responsabile del reato attribuitogli in quanto subcommittente. Difatti all'epoca dei fatti il Ma. era l'amministratore unico della IC. cui la Fe.Ma. aveva commissionato la costruzione della Palazzina destinata a civile abitazione. Per l'esecuzione di detta opera, il Ma. aveva subappaltato i lavori a due imprese la G. e la PJ., mantenendo però un controllo sulla realizzazione dell'opera quale Direttore Tecnico del Cantiere.
Ora, a prescindere da tale denominazione che non trova riscontro nei testi legislativi, ciò che rileva è che lo stesso sia qualificabile come sub committente/subappaltatore e, quindi, destinatario di specifici obblighi di vigilanza sulla sicurezza dei lavori effettuati dalla imprese subappaltatrici. Obblighi comprensivi anche di una valutazione circa l'adeguatezza del piano operativo di sicurezza adottato dalle stesse.
E nel caso di specie certamente è mancata una approfondita valutazione del POS della PJ.: tale documento infatti, come già si è detto, non conteneva alcuna previsione di misure di prevenzione dai rischi inerenti le lavorazioni —come appunto la intonacatura— da effettuarsi in prossimità delle aperture prospicienti le trombe degli ascensori ma soltanto delle generiche previsioni relative al rischio di caduta dall'alto, nonostante la prevedibilità di cadute nel vuoto in prossimità delle aree di sbarco dell'ascensore, non ancora posizionato, soprattutto in relazione alla specifica attività di intonacatura.
Quanto alla sussistenza della responsabilità del committente appaltatore nonostante la nomina di specifiche figure preposte alla sicurezza del cantiere, e i profili di diritto intertemporale, si richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale
in tema di prevenzione degli infortuni, l'appaltatore che procede a subappaltare l'esecuzione delle opere non perde automaticamente la qualifica di datore di lavoro ciò neppure se il subappalto riguardi formalmente la totalità dei lavori. Egli continua ad essere responsabile del rispetto della normativa antinfortunistica qualora, come nel caso di specie, eserciti una continua ingerenza e controlli la prosecuzione dei lavori (Cass. Sez. III n. 50996/2013 RV 258299; Cass. Sez. IV n. 7954/2014 RV 259274).
Ed infatti, come messo in evidenza nella sentenza di appello, il Ma. non solo effettuava personalmente sopralluoghi in cantiere, ma vi mandava quotidianamente il suo dipendente, il geom. Pa., il quale si occupava di redigere il giornale di cantiere, di tenere i contatti con i fornitori e di controllare le lavorazioni svolte. Dunque non si può affermare, come vorrebbe la difesa, che il Ma. non svolgesse alcuna funzione se non quella di acquisto e messa a disposizione del materiale.
Al pari infondati risultano il quinto ed il sesto motivo inerenti la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta del Ma. e la verificazione dell'incidente nonché le modalità della caduta.
Va osservato in proposito che
la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa.
La Suprema Corte ha però costantemente precisato che,
in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia eventualmente dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento (Sez. 4, n. 23729 del 19/04/2005 Ud. Rv. 231736).
"
La prospettazione di una causa di esenzione da colpa connessa alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorché chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l'evento lesivo, che è conseguito, nella specie, dall'avere la vittima operato in condizioni di rischio note all'azienda e non eliminate da chi rivestiva la posizione di garanzia" (in motivazione Sez. 4, n. 16890 del 14/03/2012 Rv. 252544).
Quindi
l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcun effetto esimente per il datore di lavoro che abbia provocato l'infortunio per violazione delle prescrizioni in materia antinfortunistica, giacché la relativa normativa è appunto diretta a prevenire gli effetti della condotta colposa dei lavoratori per la cui tutela è dettata.
Proprio in considerazione della finalità delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro testé illustrate, dirette a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia,
la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adozione delle misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore del tutto imprevedibile che presenta i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute; tale si è definito il comportamento posto in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli, al di fuori delle prestazioni inerenti una determinata lavorazione -e pertanto al di là di ogni prevedibilità e possibilità di controllo per il datore di lavoro- ovvero, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in un qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.
Per contro,
nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento (sez. 4, Sentenza n. 36339 del 2005).
Nel caso in esame, come condivisibilmente rilevato nella sentenza impugnata, deve escludersi la sopravvenienza di fattori causali legati al comportamento del lavoratore, idonei ad interrompere il nesso di causalità fra la condotta omissiva e l'evento.
Sia nella sentenza di primo grado sia in quella di appello, sono state descritte le circostanze e le ragioni dell'evento mortale avvenuto in data 30.07.2009 verso le 10:30. Sulla base delle deposizioni degli operai presenti nel cantiere è emerso, infatti, che la vittima, mentre effettuava l'intonacatura della aree di sbarco dell'ascensore al quarto piano, perdeva l'equilibrio precipitando nel vano scale in quel momento privo di alcuna protezione e perdeva la vita a seguito della caduta.
Quanto alla sussistenza del nesso eziologico la condotta dell'imputato e l'evento, occorre rilevare che sicuramente la caduta nel vuoto del Lu. è da collegarsi all'assenza di adeguate misure di protezione. Difatti, anche le cesate poste davanti alle porte del vano ascensore e, poi rimosse per effettuare l'intonacatura, erano del tutto inadeguate alla lavorazione in atto al momento dell'infortunio, in quanto troppo basse per evitare le cadute in caso di lavori in quota (cioè interventi operati ad un'altezza superiore ai due metri quali quello che stava effettuando il Lu.).
Le stesse, essendo alte soltanto 1,10 metri, non sbarravano l'intero vano ascensore per tutta la sua altezza ed inoltre, essendo costituite da tavole inchiodate al muro ai lati delle porte in senso orizzontale o verticale, non erano idonee a contrastare cadute accidentali di persone di medio peso.
Questa manchevolezza è da addebitarsi ad una deficienza del POS della PJ. il quale, come già accennato, non prevedeva specifiche misure di protezione contro il rischio di caduta nel vuoto durante le operazioni di intonacatura anche delle aree di sbarco dell'ascensore; POS che il Ma., nella sua qualità di sub committente- appaltante avrebbe dovuto controllare facendo in modo che, durante l'intonacatura delle predette aree, le aperture sul vano ascensore fossero adeguatamente protette contro il rischio di caduta nel vuoto tramite parapetto munito di tavole fermapiede ovvero altrimenti sbarrate (così come prescritto dall'art. 146 Dlvo 81/2008).
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto sussistente il nesso eziologico tra la condotta omissiva dell'odierno imputato e l'infortunio che ha condotto al decesso del Lu..
...
3. Quanto al ricorso presentato dalla difesa del Pe., il primo motivo con il quale si contesta il riconoscimento in capo allo stesso di una posizione di garanzia quale preposto di fatto appare infondato.
Come è noto, infatti,
in tema di prevenzione degli infortuni, il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell'obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l'esecuzione. Di conseguenza egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti (ex multis Cass. Sez. IV n. 9491/2013 RV. 254403).
Orbene
tale qualifica —di preposto o capocantiere— dev'essere attribuita, più che in base a formali qualificazioni giuridiche o alla sussistenza di specifiche deleghe, con riferimento alle mansioni effettivamente svolte dal soggetto all'interno del cantiere. Ne consegue che chiunque abbia assunto, in qualsiasi modo, posizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, deve essere considerato, per ciò stesso, tenuto all'osservanza ed all'attuazione delle prescritte misure di sicurezza ed al controllo del loro rispetto da parte dei singoli lavoratori (Cass. Sez. IV n. 35666/2007 RV 237468).
In altri termini, per quanto qui interessa,
risponde della violazione delle norme antinfortunistiche non solo colui il quale non le osservi o non le faccia osservare essendovi istituzionalmente tenuto, ma anche chi, pur non avendo una veste istituzionale formalmente riconosciuta, si comporta di fatto come se l'avesse e impartendo ordini nell'esecuzione dei quali il lavoratore subisca danni per il mancato rispetto della normativa a presidio della sua sicurezza (Cass. Sez. IV n. 43343/2002 RV 226339).
Orbene, nel caso di specie è stata indubbiamente accertata la concreta ingerenza da parte dell'imputato —ancorché privo di attribuzioni formali o deleghe all'interno dell'organizzazione del cantiere— nell'attività della Pj. cui, peraltro, la G. forniva assistenza, come risulta dal giornale di cantiere, per la movimentazione del materiale necessario tramite la gru.
In particolare, come si evidenzia nell'impugnata sentenza ed in quella di primo grado, i lavoratori della PJ. hanno riferito che le disposizioni sulle lavorazioni erano loro impartite dal geometra Ba. che le riceveva dal Pe. ovvero, in caso di assenza del predetto geometra, direttamente dall'imputato. Né si può affermare che il Pe. si sia limitato a prendere atto di un'attività, quella di intonacatura, decisa ed autonomamente gestita dagli operai della PJ. atteso che, come risulta dalle suddette deposizioni, egli stesso dette le indicazioni sulle misure delle porte per apporre i paraspigoli.
Peraltro un aspetto che vale la pena richiamare è la presenza del Pe. presso il cantiere il giorno dell'incidente nonostante i lavori di muratura —di competenza della G.— fossero terminati e per la movimentazione del materiale necessario per l'intonacatura fosse necessaria solo la presenza del gruista. Ciò è indice inequivocabile del ruolo di fatto svolto dall'imputato, quale capocantiere di fatto e punto di riferimento anche degli operai dell'altra ditta subappaltatrice.
Del resto, i numerosi testi sentiti in dibattimento sono stati concordi nel riferire delle sue sollecitazioni a rimettere le sbarre di protezione alle aperture del vano ascensore, una volta finita l'intonacatura, della sua costante presenza in cantiere e della sua immediata reperibilità quale referente cui comunicare la notizia del tragico accadimento.
Tutti questi elementi hanno giustamente condotto la Corte di appello a ritenere che gli operai della PJ. incaricati dell'intonacatura abbiano svolto la loro attività anche con riferimento all'area di sbarco degli ascensori secondo una loro operatività ma sempre seguendo indicazioni impartite dal Pe. Dunque quest'ultimo deve considerarsi anche nei confronti di tali lavoratori titolare di una posizione di garanzia e quindi responsabile di eventuali infortuni loro accorsi.

EDILIZIA PRIVATA: Sulla precarietà, o meno, di un gazebo.
I
gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta.
In tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, che include tra le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
E’ stato ancora precisato che “Non implica precarietà dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un'utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante), anche se con la reiterazione della presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione”.

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 57 del 10.03.2009 del Comune di Termoli, notificata il 21.03.2009, mediante la quale è stata disposta a carico della ricorrente la "immediata rimozione dell'opera abusivamente realizzata e la riduzione in pristino dello stato dei luoghi", nonché di tutti gli atti preordinati consequenziali e comunque presupposti tra i quali il verbale di accertamento della P.M. del 04.03.2009 n. 6/09.
...
Il ricorso è infondato.
Si verte al cospetto di un gazebo che richiedeva il permesso di costruire avendo dimensioni significative di ml. 5,00 x 3,00, per un totale di 15 mq., con altezza di ml. 2,50 circa, e posto sul confine di proprietà, a distanza non regolamentare e come tale idoneo a ridurre la visuale e la luminosità delle abitazioni limitrofe con affaccio sulla corte dove è stato posto, come peraltro contestato da proprietario confinante che ha segnalato l’abuso edilizio.
Diversamente da quanto allegato dalla ricorrente, è stata realizzata una vera e propria casetta chiusa, sui diversi lati, con pannelli di legno (o comunque in profili di PLET-plastica riciclata eterogenea) pieni nella parte inferiore e grigliati in quella superiore e munita di telo di copertura, come tale idonea a creare un volume edilizio di indubbio impatto anche per le caratteristiche della corte edilizia dove è stato collocato, secondo quanto chiaramente evincibile dalla documentazione fotografica allegata al verbale del Comando della Polizia Municipale del 04.03.2009 in atti.
Si tratta, in particolare, di un manufatto leggero per il quale è richiesto il permesso di costruire, di cui all’art. 10 del DPR n. 380/2001, in forza del disposto di cui all’art. 3, comma 1, lettera e.5 -secondo quanto espressamente contestato con il verbale della polizia municipale del 4.03.2009 richiamato nella ordinanza impugnata- essendo privo del carattere della temporaneità in quanto stabilmente destinato ad attività al servizio della abitazione principale (quale locale di servizio, deposito, adibito allo svago o di vero e proprio “salotto all’aperto”, secondo quanto riferito dalla stessa ricorrente con la relazione tecnica di parte in atti).
L’assenza del requisito della temporaneità si desume, in particolare, dalla sua non facile amovibilità di cui la solida struttura in legno ne è indice certamente grave e preciso, tant’è che la stessa relazione tecnica di parte, nel descrivere le caratteristiche costruttive del manufatto, parla di elementi autoportanti bullonati tra loro costituiti da pannelli verticali e da “travi perimetrali, orizzontali e centrali di copertura”.
In presenza di simili caratteristiche costruttive, oggettivamente incompatibili con il parametro legale della temporaneità, a nulla vale opporre che la struttura non sarebbe ancorata ma solo poggiata a terra.
La giurisprudenza prevalente ritiene che i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta (in termini Cons. Stato, Sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842; TAR Perugia, 16.02.2015, n. 81).
In tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, che include tra le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” (Cons. Stato, Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
E’ stato ancora precisato che “Non implica precarietà dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un'utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante), anche se con la reiterazione della presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione” (Cfr. Cons. Stato, VI, 01.12.2014, n. 5934).
Nel caso di specie il requisito della temporaneità manca sia dal punto di vista strutturale, stante la non facile amovibilità del manufatto, sia da quello funzionale stante la sua idoneità ad assolvere in modo duraturo nel tempo una molteplicità di funzioni a servizio dell’abitazione principale.
Alla luce delle motivazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto, non potendo giovare alla ricorrente neppure il richiamo alla sentenza di questo TAR n. 66/2014 con la quale la necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire è stata esclusa in presenza di una struttura in legno “aperta sui lati”, per di più “rientrante nella previsione del progetto di cui alla concessione edilizia n. 278/1983” e quindi munita di titolo edilizio autorizzatorio (TAR Molise, sentenza 21.09.2016 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia, il proprietario pro quota non è legittimato all’istanza di rilascio.
Il Consiglio di Stato precisa che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo è colui che ha la totale disponibilità del bene.
Il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene, cioè l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso.

Tra i requisiti indefettibili per il rilascio del titolo, va annoverata anche la circostanza che l’istanza di sanatoria provenga da un soggetto qualificabile come proprietario dell’edificio oggetto degli interventi della cui sanatoria giuridica si tratti.
La regola sopra esposta deve essere ulteriormente precisata nel senso che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene, pertanto l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso.
Non può invece riconoscersi legittimazione, al contrario, al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento.
In caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile, di conseguenza, la domanda di rilascio di titolo edilizio -sia esso o meno titolo in sanatoria di interventi già realizzati- dovrà necessariamente provenire congiuntamente da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà sull’immobile, potendosi ritenere d’altra parte legittimato alla presentazione della domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene consenta di supporre l’esistenza di una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari.
In carenza della situazione da ultimo descritta, il titolo edilizio, volto alla realizzazione o al consolidamento dello stato realizzativo di operazioni (incidenti su parti non rientranti nell’esclusiva disponibilità del richiedente) non potrà essere né richiesto –non avendo il soggetto titolo per proporre tale istanza– né, ovviamente, rilasciato -non sussistendo i presupposti per l’emissione dello stesso- in modo legittimo dalla P.A..

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2.4. Tuttavia, deve precisarsi che, in sede di procedimento per rilascio di titolo edilizio in sanatoria, deve formare oggetto di valutazione da parte del Comune di Lavagna la sussistenza di tutti i presupposti cui la legge condiziona il rilascio del provvedimento stesso.
Ebbene, tra i requisiti indefettibili per il rilascio del titolo, va annoverata anche la circostanza che l’istanza di sanatoria provenga da un soggetto qualificabile come proprietario dell’edificio oggetto degli interventi della cui sanatoria giuridica si tratti (cfr. sul punto in questione e sui limiti ed obblighi che incontra il comune nel vagliare gli ostacoli di ordine civilistico al rilascio del titolo edilizio ordinario, o per accertamento di conformità, o per condono edilizio straordinario, Cons. Stato, Sez. IV, n. 2116 del 2016; n. 4818 del 2014; Sez. V, n. 5894 del 2011, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
La regola sopra esposta deve essere ulteriormente precisata nel senso che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene, pertanto l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso. Non può invece riconoscersi legittimazione, al contrario, al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento.
In caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile, di conseguenza, la domanda di rilascio di titolo edilizio -sia esso o meno titolo in sanatoria di interventi già realizzati- dovrà necessariamente provenire congiuntamente da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà sull’immobile, potendosi ritenere d’altra parte legittimato alla presentazione della domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene consenta di supporre l’esistenza di una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari.
In carenza della situazione da ultimo descritta, il titolo edilizio, volto alla realizzazione o al consolidamento dello stato realizzativo di operazioni (incidenti su parti non rientranti nell’esclusiva disponibilità del richiedente) non potrà essere né richiesto –non avendo il soggetto titolo per proporre tale istanza– né, ovviamente, rilasciato -non sussistendo i presupposti per l’emissione dello stesso- in modo legittimo dalla P.A. (Cons. Stato Sez. VI, 10.10.2006 n. 6017; Cons. Stato Sez. V, 24.09.2003 n. 5445; Cons. Stato Sez. V, 05.06.1991 n. 883).
Ebbene, nel caso all’esame del Collegio, come rilevato da ambo le parti private del giudizio, la sig.ra Va.Pa. -comproprietaria dell’immobile di via Antica Romana n. 76- si era da sempre e in più occasioni esplicitamente opposta a qualsiasi forma di intervento sull’immobile di comproprietà con la MI. s.a.s., tanto da rendere necessario procedere a un accordo transattivo con la stessa, al fine di consentire e non ostacolare la realizzazione di quelle opere di recupero, risanamento e consolidamento resesi necessarie dopo il periodo di incuria e abbandono cui l’edificio era stata lasciato per molti anni.
Il citato accordo di transazione, tuttavia, poteva comportare una presunzione di accettazione da parte dell’odierna appellante all’espletamento delle opere descritte nel capitolato allegato allo stesso accordo, ma di certo non anche delle ulteriori operazioni realizzate in carenza di titolo abilitativo.
A ciò si aggiunga che in altre occasioni, come affermato e comprovato dalla sig.ra Va.Pa. e non smentito dalle controparti, la stessa aveva manifestato al Comune di Lavagna il proprio interesse al rigetto della domanda di sanatoria proposta dalla MI. s.a.s.
Ne deriva che, in un tale contesto, l’Amministrazione non aveva base alcuna per presumere che, al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria, potesse sussistere quel pactum fiduciae di cui si è già detto e in assenza del quale la domanda di provvedimento doveva essere rigettata per carenza di titolarità da parte dell’istante alla richiesta del titolo abilitativo in sanatoria.
Sotto questo profilo, in effetti, il provvedimento oggetto di ricorso e di odierno appello, risulta illegittimamente emesso dal Comune di Lavagna in carenza dei presupposti di legge, con conseguente fondatezza del motivo di appello dedotto.
3. Da quanto sopra specificato, in definitiva, deriva l’accoglimento del proposto appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza n. 1166/2006 del Tar per la Liguria, l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria rilasciata in favore della MI. s.a.s. da parte del Comune di Lavagna in data 30.03.2001 (prat. ed. n. 1993/0259/06), rimanendo d’altro canto impregiudicato il potere da parte del Comune di riprovvedere, in caso di nuova istanza congiunta presentata dai comproprietari dell’edificio di Via ... n. 76, alla luce delle regole urbanistico-edilizie vigenti al momento della presentazione della nuova domanda (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.09.2016 n. 3823 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accoglimento della Ctu, il giudice non si giustifica.
Il giudice non è obbligato a chiarire le sue motivazioni sull'accoglimento della consulenza tecnica d'ufficio, né a rispondere alle obiezioni sollevate.

Lo chiarisce la Corte di cassazione, nella sentenza 06.09.2016 n. 17644 in cui una donna, sofferente di una gravissima obesità, chiedeva all'Inps un assegno di invalidità.
Il legale della paziente, nel secondo motivo del ricorso, ha lamentato le omesse motivazioni del giudice sull'accoglimento della c.t.u., che certificava uno stato di invalidità del 71% invece del 75% richiesto. La Corte di cassazione ha chiarito la questione, secondo cui il giudice può omettere di pubblicare le sue motivazioni sull'accoglimento o meno della perizia.
«Il giudice non è tenuto a esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento», spiegano i porporati nella sentenza, «perché l'accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità».
I risultati dell'accertamento richiesto includono nel suo nucleo, concettuale e logico, le motivazioni del giudice, che quindi non ha bisogno neppure di replicare a tutte le opposizioni sollevate dalle parti. Gli Ermellini, infine, spiegano che «l'obbligo della motivazione è assolto con l'indicazione della fonte dell'apprezzamento espresso, senza la necessità di confutare, dettagliatamente, le contrarie argomentazioni della parte, che devono considerarsi implicitamente disattese» (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).
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MASSIMA
6. Neppure il secondo motivo è fondato.
Basta qui richiamare il principio consolidato secondo il quale
il giudice del merito, qualora condivida i risultati della consulenza tecnica d'ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze della consulenza implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l'accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità (Cass., 22.02.2006, n. 3881).
In tal caso l'obbligo della motivazione è assolto con l'indicazione della fonte dell'apprezzamento espresso, senza la necessità di confutare dettagliatamente le contrarie argomentazioni della parte, che devono considerarsi implicitamente disattese (cfr. fra le tante, Cass. 09.03.2001, n. 3519).

PUBBLICO IMPIEGO: Un militare può permettersi di fare politica. L'Arma, invece, ne aveva vietato la militanza attiva. Il Tar del Piemonte ha accolto il ricorso di un ex sottufficiale e segretario di partito.
Anche un militare può buttarsi in politica.
L'ha stabilito, in settimana, il TAR Piemonte (Sez. I, sentenza 05.09.2016 n. 1127), che ha accolto il ricorso presentato da un maresciallo dei carabinieri, Ca.Ca., ora in congedo, al quale, nel 2010, era stata vietata dall'Arma l'iscrizione al Partito per gli operai della sicurezza e della difesa (Pds). Il sottufficiale non era un militante qualunque, dato che ha ricoperto la carica di segretario regionale del partito prima di aderire alla Lega Nord.
Per il suo impegno politico, a Ca., originario di Fossano (Cuneo), erano stati inflitti cinque giorni di consegna di rigore per incompatibilità con l'adempimento dei suoi doveri di sottufficiale. All'ex rappresentante dell'Arma, inoltre, era stato comunicato «che, in caso d'inottemperanza, sarebbe stato avviato il procedimento per la diffida ministeriale ed eventuale successiva decadenza dal servizio».
«Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Così recita l'articolo 49 della Costituzione. Secondo l'Arma dei carabinieri, però, «l'iscrizione e l'assunzione di carica sociale in seno a partito politico costituisce comportamento suscettibile di assumere rilievo sotto il profilo disciplinare», si legge in una nota pubblicata da Repubblica Torino. «Le Forze armate debbono, in ogni circostanza, mantenersi al di fuori delle competizioni politiche».
Il maresciallo Ca., assistito da un avvocato con un passato da ufficiale dell'Arma, Gi.Ca., ha impugnato il procedimento a suo carico davanti al tribunale amministrativo regionale del Piemonte. E i giudici gli hanno dato ragione. «La questione oggetto del presente giudizio è stata, da ultimo, approfondita da alcuni arresti giurisprudenziali che, per fattispecie del tutto analoghe, e in considerazione del complessivo quadro normativo (costituzionale e legislativo) vigente, sono giunti alla condivisibile conclusione di ritenere illegittimo il divieto, per i militari, d'iscriversi in partiti politici e di assumere nel loro ambito cariche direttive, alla luce di un'interpretazione letterale e sistematica delle norme».
Per i giudici, «il legislatore non ha mai stabilito, per i militari, un esplicito divieto d'iscrizione ai partiti politici: ciò non ha fatto, espressamente, né nella legge n. 382 del 1978 (recante «Norme di principio sulla disciplina militare»), né nel Regolamento di disciplina militare».
«Di conseguenza», si legge nella sentenza, «il ricorso introduttivo dev'essere accolto e deve, per l'effetto, disporsi l'annullamento dell'atto di ammonimento a recedere dalla carica politica rivestita. Parimenti, risultando fondata la censura di illegittimità derivata, e con assorbimento delle ulteriori censure, vanno accolti anche i motivi aggiunti, con conseguente annullamento della sanzione disciplinare inflitta al ricorrente (pari a giorni cinque di consegna di rigore)».
Secondo il Tar del Piemonte, quindi, l'articolo 49 della Costituzione sull'associazione ai partiti vale per tutti i cittadini italiani. Anche per quelli in anfibi e alta uniforme (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).

APPALTI: Accorpare contratti non garantisce le pmi. Consip censurato dal Tar Lazio.
Contrasta con la tutela delle piccole e medie imprese la scelta di accorpare in 13 lotti una pluralità di appalti da eseguire sul territorio nazionale.

È questo il principio sotteso alla pronuncia del TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la sentenza 30.08.2016 n. 9441 ha censurato la scelta di Consip di suddividere il territorio nazionale in lotti di dimensioni tali da richiedere un fatturato specifico per la partecipazione in possesso solo degli operatori più rilevanti del mercato (pari alla somma di quanto richiesto per la partecipazione ai singoli lotti).
Ad avviso dei giudici la scelta compiuta (13 lotti) viola il fondamentale principio del favor partecipationis limitando in modo irragionevole la facoltà di presentazione individuale delle offerte e non garantendo in tal modo né l'esplicarsi di un piena apertura del mercato alla concorrenza né i risparmi di spesa potenzialmente derivanti da una più ampia gamma di offerte relative ai singoli lotti.
Secondo il Tar, l'ambito territoriale ottimale, in definitiva, dovrebbe consentire il funzionamento di un mercato in cui la facoltà di presentare offerte in forma singola sia concessa non solo ai player dello stesso, ma anche, per quanto possibile, alle pmi al fine di incentivare una concorrenza piena, con possibilità per ogni impresa di incrementare le proprie qualificazioni e la propria professionalità, e di trarre i potenziali benefici in termini di qualità di servizi resi e di prezzi corrisposti.
Nella sentenza i giudici esprimono articolate considerazioni sulla funzione della normativa in materia di appalti, anche alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, chiarendo ad esempio, che con il decreto 50/2016 risulta evidente che la funzione proconcorrenziale delle regole di evidenza pubblica ha assunto ancora maggiore rilievo ed è divenuta il baricentro del sistema.
Per i giudici il principio del favor partecipationis «è stato scolpito a chiare lettere anche nella disciplina legislativa» e le stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali, ma anche fare in modo che i criteri di partecipazione alle gare siano tali da non escludere le piccole e medie imprese (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).
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MASSIMA
3. Il ricorso è fondato e va di conseguenza accolto secondo quanto di seguito indicato.
3.1
Un contratto di appalto stipulato da una amministrazione pubblica si distingue da un analogo contratto stipulato tra soggetti privati sia per la rilevanza giuridica assunta dai motivi che spingono la parte pubblica a contrarre sia e soprattutto per le modalità di scelta del contraente.
La libertà di scelta del contraente costituisce uno dei fondamentali pilastri dell’autonomia privata, per cui il contraente privato, di norma, può scegliere discrezionalmente con chi contrarre; la pubblica amministrazione, invece, è tenuta a scegliere il proprio contraente in esito ad una apposita procedura (rectius: procedimento) ad evidenza pubblica.

Il corpus normativo di disciplina dell’evidenza pubblica era originariamente costituito dalla legge di contabilità di Stato, R.D. 18.11.1923, n. 2440, e dal suo regolamento di attuazione, R.D. 23.05.1924, n. 827, ed era finalizzato alla individuazione del “giusto” contraente dell’amministrazione, vale a dire del contraente in grado di offrire le migliori prestazioni e garanzie alle condizioni più vantaggiose, per cui la ratio della normativa sull’evidenza pubblica era volta esclusivamente al controllo della spesa pubblica per il miglior utilizzo del denaro della collettività (cd. concezione contabilistica).
A tale esigenza di tutela degli interessi pubblici si è aggiunta, sotto la spinta dei principi e delle direttive comunitarie, l’esigenza di tutela della libertà di concorrenza e di non discriminazione tra le imprese.
Di talché,
la concorrenzialità nell’aggiudicazione, che ha il suo elemento cardine nel principio di massima partecipazione alla gara delle imprese in possesso dei requisiti richiesti, in origine funzionale al solo interesse finanziario dell’amministrazione, nel senso che la procedura competitiva tra imprese era (ed è) ritenuta la modalità più efficace per garantire la migliore spendita del denaro pubblico, è diventata un’espressione dell’ondata neoliberista degli ultimi decenni dello scorso secolo, che ha portato le autorità comunitarie a prendere in considerazione -ai fini della tutela della concorrenza, che dovrebbe garantire l’efficiente allocazione delle risorse sul mercato- l’impatto concorrenziale prodotto dalle amministrazioni pubbliche in qualità di committenti o di concedenti, per cui ogni singola gara diviene uno specifico e temporaneo micromercato nel quale le imprese di settore possono confrontarsi.
La compresenza della duplice esigenza volta alla tutela della concorrenza tra le imprese ed al buon uso del denaro della collettività è stata chiaramente delineata dalla giurisprudenza europea la quale, nel dichiarare che uno degli obiettivi della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici è costituito dall’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile e che è nell’interesse del diritto comunitario che venga garantita la più ampia partecipazione possibile di offerenti ad una gara d’appalto, ha aggiunto che siffatta apertura alla concorrenza è prevista non soltanto con riguardo all’interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, ma anche nell’interesse stesso dell’amministrazione aggiudicatrice che disporrà così di un’ampia scelta circa l’offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica interessata.
L’art. 2 del d.lgs. 163/2006, in tale ottica, oltre ad indicare che l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture ai sensi del “codice” deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza (principi ispirati alla tutela della pubblica amministrazione per il controllo ed il miglior utilizzo delle finanze pubbliche), ha specificato che l’affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità (principi ispirati alla tutela delle imprese concorrenti e del corretto funzionamento del mercato).
Con il nuovo codice degli appalti pubblici e delle concessioni (d.lgs. n. 50 del 2016), risulta evidente che la funzione proconcorrenziale delle regole di evidenza pubblica ha assunto ancora maggiore rilievo ed è divenuta il baricentro del sistema.
L’art. 2 del nuovo codice, in particolare, sancisce che le disposizioni ivi contenute sono adottate nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, sicché è consequenziale ritenere che i provvedimenti adottati in applicazione del codice dei contratti ove non realizzino detta finalità violano le regole stesse ed i principi di libera concorrenza.
La considerazione che il centro di gravità del settore degli appalti pubblici è ormai costituito dalla necessità di garantire il libero esplicarsi della concorrenza, peraltro, non determina la regressione del coesistente interesse pubblico alla scelta del miglior contraente al fine di garantire il migliore utilizzo possibile delle risorse finanziarie della collettività, interesse che -sebbene non più indicato in modo espresso come nell’art. 2 d.lgs. n. 163 del 2006- è ontologicamente presente nel sistema ed è comunque richiamato nel nuovo codice.
Le due “anime” della normativa sostanziale dell’evidenza pubblica, in linea di massima, possono e devono essere perseguite contemporaneamente, atteso che la massima partecipazione alla gara è funzionale alla realizzazione di entrambe le finalità.
Il principio del favor partecipationis, pertanto, è stato scolpito a chiare lettere anche nella disciplina legislativa.
L’art. 2-bis del d.lgs. n. 163 del 2016 stabilisce non solo che, nel rispetto della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici, al fine di favorire l’accesso delle piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali, ma anche che i criteri di partecipazione alle gare devono essere tali da non escludere le piccole e medie imprese; l’art. 83, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 stabilisce altresì che i requisiti e le capacità per partecipare alle gare sono attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, tenendo presente l’interesse pubblico ad avere il più alto numero di partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione.
Tale fondamentale principio riguarda a maggior ragione le centrali di committenza considerata l’elevata incidenza che gli appalti dalla stessa affidati, per il loro valore e per l’estensione delle amministrazioni che se ne avvalgono, sono destinati ad avere sui relativi mercati.

PUBBLICO IMPIEGO: La graduatoria non blocca la mobilità volontaria.
Le pubbliche amministrazioni possono avviare procedure di mobilità volontaria anche se hanno graduatorie valide cui attingere.

È quanto affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, nella recente sentenza 23.08.2016 n. 3677. L'indicazione è importante perché ribalta un consolidato orientamento della stessa giurisprudenza amministrativa.
Quest'ultima, infatti, ha finora affermato che lo scorrimento della graduatoria prevale sulla mobilità. Al riguardo, è sufficiente richiamare la sentenza n. 4329/2015 di Palazzo Spada, confermata di recente anche in primo grado (Tar Puglia, sentenza n. 30/2016).
Quest'ultima pronuncia, fra l'altro, era scattata a seguito del ricorso di un soggetto utilmente posizionato in una graduatoria aperta e che era stato superato da un bando di mobilità riservato ai lavoratori provinciali in esubero. In questa prospettiva, fra i due percorsi era da privilegiare l'attingimento dalla graduatoria in essere, perché (a differenza della mobilità, che comporta degli oneri amministrativi) è del tutto a costo zero.
Secondo l'ultimo arresto, invece, «l'esistenza di una graduatoria ancora valida limita quando non esclude l'indizione di un nuovo concorso, nondimeno non incide sulla potestà di avviare una procedura di mobilità: la mobilità è infatti alternativa all'assunzione di personale nuovo rispetto al concorso o allo scorrimento delle relative graduatorie; con la mobilità il personale non viene assunto, ma solamente trasferito con il consenso della amministrazione di appartenenza, che esercita una valutazione circa la necessità di mantenere presso di sé determinati soggetti».
Del resto, evidenziano i giudici, le leggi che hanno bloccato le nuove assunzioni fin dagli anni 90, non hanno impedito le procedure di mobilità. Ciò rafforza la neutralità delle procedure di mobilità, che secondo la Corte dei conti sfuggono anche ai limiti al turnover, non essendo configurabili come nuove assunzioni purché riguardino amministrazioni tutte soggette a vincoli di spesa (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).
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MASSIMA
5. Il primo motivo di appello è infondato.
5.1. La Sezione ha avuto modo di pronunciarsi recentemente su identica questione con la sentenza n. 2929 del 28.06.2016, puntualizzando in punto giurisdizione che
l'istituto del cosiddetto "scorrimento della graduatoria" presuppone necessariamente una decisione dell'amministrazione di coprire il posto; quindi l'obbligo di servirsi della graduatoria entro il termine di efficacia della stessa preclude all'amministrazione di bandire una nuova procedura concorsuale ove decida di reclutare personale, ma non la obbliga tout court all'assunzione dei candidati non vincitori in relazione a posti che si rendano vacanti e che l'amministrazione stessa non intenda coprire, restando inoltre escluso che la volontà dell'amministrazione di coprire il posto possa desumersi da un nuovo bando concorsuale, poi annullato, ovvero da assunzioni di personale a termine (v. Cass., SS.UU., 12.11.2012, n. 19595).
In definitiva,
allorquando la controversia ha per oggetto il controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione, la situazione giuridica dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice cui spetta il controllo del potere amministrativo ai sensi dell'art. 103 Cost., poiché in tale ipotesi, la controversia non riguarda il "diritto all'assunzione".
5.2. Correttamente i primi giudici hanno pertanto correttamente declinato la giurisdizione quanto alla richiesta di scorrimento della graduatoria ai fini dell’assunzione ed altrettanto correttamente hanno ritenuto la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla controversia concernente la legittimità degli atti di natura organizzatoria con cui è stato individuato il posto vacante di agente di polizia municipale ed è stato disposto di coprirlo mediante la procedura di mobilità esterna.
6. E’ invece fondato il secondo motivo di gravame.
6.1. Invero
la fondamentale esigenza di contenimento della spesa pubblica osta a che possa ritenersi superato il primato dell’art. 30, comma 1, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, il quale recita: “Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, previo assenso dell’amministrazione di appartenenza (…)”.
Tale modalità di assunzione del personale costituisce una ipotesi normale di reclutamento dei pubblici dipendenti, come precisato dalla Corte costituzionale con la sentenza 30.07.2012, n. 211 che, in occasione dello scrutinio di legittimità dell’art. 13 della legge della Regione Basilicata 04.08.2011, n. 17, ha ritenuto che la predetta disciplina regionale prescriveva correttamente il ricorso obbligatorio alle procedure di mobilità dell’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, prima di procedere all’utilizzazione delle graduatorie degli altri concorsi precedentemente espletati, oppure, in mancanza, di indirne di nuovi.
6.2. In realtà
l’esistenza di una graduatoria ancora valida limita quando non esclude l’indizione di un nuovo concorso, nondimeno non incide sulla potestà di avviare una procedura di mobilità: la mobilità è infatti alternativa all’assunzione di personale nuovo rispetto al concorso o allo scorrimento delle relative graduatorie; con la mobilità il personale non viene assunto, ma solamente trasferito con il consenso della amministrazione di appartenenza, che esercita una valutazione circa la necessità di mantenere presso di sé determinati soggetti. Del resto, le leggi che hanno bloccato le nuove assunzioni fin dagli anni ‘90, non hanno impedito le procedure di mobilità (cfr. per tutto Cons. Stato, Ad. plen., 28.07.2011, n. 14).
7. Alla stregua delle predette osservazioni l’appello deve essere in parte accolto e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza, ferma restando la declaratoria di difetto di giurisdizione quanto alla domanda di assunzione per scorrimento della graduatoria, deve essere respinto il ricorso per la parte concernente l’impugnazione dell’avviso di mobilità.

TRIBUTI: Una sanzione ogni anno per l'omessa dichiarazione Imu.
La violazione dell'obbligo di dichiarazione Ici e Imu non ha natura istantanea ma si ripete nel corso degli anni, fino a che il contribuente non provvede a regolarizzarla presentando la denuncia al comune. Dunque, finché perdura l'inadempimento il contribuente è soggetto al pagamento della sanzione per ogni singola annualità. Il fatto che vi sia per gli immobili posseduti un unico obbligo di presentare la dichiarazione, non comporta che anche la sanzione debba essere irrogata solo una volta. La sanzione va applicata per ogni singola annualità e può essere arrestata la catena delle violazioni con l'adempimento dell'obbligo previsto dalla legge.

Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 05.08.2016 n. 16484.
Per i giudici di legittimità l'obbligo posto dalla norma di legge (articolo 10 decreto legislativo 504/1992) di dichiarare il possesso e il valore degli immobili incidente sulla determinazione dell'Ici, o dell'Imu poiché la regola è la stessa, «non cessa allo scadere del termine fissato dal legislatore con riferimento all'inizio del possesso ma permane finché la dichiarazione (o la denuncia di variazione) non sia presentata, e l'inosservanza determina, per ciascun anno di imposta, un'autonoma violazione punibile». Del resto, «la violazione dell'obbligo di denuncia non ha natura istantanea e non si esaurisce con la mera violazione del primo termine».
Pertanto, precisa la Cassazione, se la dichiarazione non viene presentata per un anno d'imposta, l'obbligo non viene meno per le annualità successive, «sicché la sanzione può essere evitata solo con la presentazione di una denuncia valida anche ai fini della annualità considerata».
La Cassazione ha già avuto modo di chiarire che una volta presentata la dichiarazione Ici e Imu non ci sono più obblighi successivi, fino a che non intervengano variazioni dei dati comunicati all'ente impositore. La dichiarazione per le imposte locali è stata qualificata ultrattiva, vale a dire produce effetti anche per le annualità successive se il contribuente non presenta una denuncia di variazione.
Questo criterio vale anche per il valore di mercato delle aree edificabili dichiarato, che potrebbe subire delle variazioni nel corso del tempo. La violazione dell'omessa dichiarazione, invece, si ripete per ogni anno d'imposta pur essendo unico l'obbligo imposto al contribuente. Ma l'obbligo è unico nel momento in cui viene assolto. In caso contrario si riproduce annualmente l'inadempimento. E se l'omissione riguarda diverse annualità è irrogabile una sanzione per ogni anno. La catena delle violazioni si blocca solo quando l'interessato si decide a comunicare all'amministrazione comunale i dati degli immobili posseduti e il relativo valore.
Obbligati e esonerati. Va però evidenziato che non tutti i contribuenti sono obbligati a denunciare per l'Imu gli immobili di cui sono titolari, così come non lo erano ai tempi di vigenza dell'Ici. Non sono infatti tenuti a presentare la dichiarazione Imu i possessori di immobili adibiti a abitazione principale, con relative pertinenze, e coloro che hanno già presentato la dichiarazione Ici.
I contribuenti che invece hanno ceduto o acquistato immobili o la titolarità di altri diritti reali a partire dal 2012 devono inoltrare la dichiarazione al comune, a meno che gli elementi rilevanti ai fini dell'imposta non siano acquisibili attraverso la consultazione della banca dati catastale o gli enti non siano già in possesso delle informazioni necessarie per verificare il corretto adempimento dell'obbligazione tributaria. Vanno denunciate, per esempio, le riduzioni d'imposta sia se si acquista sia se si perde il relativo diritto.
In generale, l'obbligo deve essere assolto da coloro che vantino il diritto a fruire di agevolazioni. Quindi, sono tenuti all'adempimento i titolari di fabbricati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, coloro che possiedono immobili di interesse storico o artistico e via dicendo (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Ebbene, qualora il provvedimento dell’amministrazione sia motivato in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di sanatoria a distanza inferiore da quella minima dall’argine o dalla sponda di un fiume, rileva una situazione incidente in maniere diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
Ed invero, più in generale, secondo la giurisprudenza costante della Cassazione e del Consiglio di Stato: “L’art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, in tema di giurisdizione del TSAP, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche, restando escluse solo le controversie in cui tale incidenza si manifesti in via del tutto marginale o riflessa”.

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... per l'annullamento quanto al ricorso n. 3880 del 1997:
del provvedimento del Comune di Chiampo n. rep. 5897/86 prat. edilizia n. 96C/0554/MA prot. n. 22669 emesso in data 13.10.1997 e notificato in data 17.10.1997 con il quale si comunicava il diniego della richiesta di concessione edilizia in sanatoria ai sensi l. n. 45/1985.
...
Ritiene il Collegio che le controversie in esame -che possono essere riunite per evidenti ragioni di connessione- rientrino nella speciale giurisdizione del TSAP.
Ed infatti, l’elemento che il Comune ha ritenuto ostativo alla regolarizzazione dell’opera abusiva è la presenza di un corso d’acqua pubblico, come tale rientrante nell’ambito di applicazione del R.D. n. 523/1904.
E’ altresì pacifico che tale diniego di condono è stato emesso esclusivamente sulla base del parere negativo vincolante espresso dall’Ufficio dl Genio Civile della Regione Veneto, parere congiuntamente impugnato e reso, ai sensi del R.D. n. 523/1904, da un’autorità amministrativa preposta alla tutela del buon regime delle acque pubbliche.
Con la conseguenza che entrambi i provvedimenti impugnati con il ricorso n. 3880/1997, nonché il conseguente ordine di demolizione impugnato con ricorso n. 3336/1998, sono giustificati in base alla dislocazione dell’intervento di nuova costruzione in esame a distanza inferiore a dieci metri lineari dall'argine del corso d’acqua “Valle S. Martino”, in violazione dell'art. 96, comma 1, lettera f), del R.D. n. 523 del 1904, così palesando la diretta incidenza dell’opera sul regime delle acque pubbliche.
Ciò precisato, occorre considerare che, ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Ebbene, qualora il provvedimento dell’amministrazione sia motivato, come nel caso di specie, in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di sanatoria a distanza inferiore da quella minima dall’argine o dalla sponda di un fiume, rileva una situazione incidente in maniere diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento (Cass., S.U., 12.05.2009, n. 10845; TAR Veneto Venezia Sez. II, 26.01.2015, n. 63; 09.10.2014, n. 1289 e 09.07.2014, n. 993; TAR Toscana, III, 27.03.2013, n. 510; TAR Campania, Napoli, VIII, 07.12.2009, n. 8602).
Ed invero, più in generale, secondo la giurisprudenza costante della Cassazione e del Consiglio di Stato: “L’art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, in tema di giurisdizione del TSAP, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche, restando escluse solo le controversie in cui tale incidenza si manifesti in via del tutto marginale o riflessa” (cfr. Cass., SS. UU., 27.04.2005, n. 8696, che richiama SS. UU. 18.12.1998, n. 12076, e 15.07.1999, n. 403; Cons. St., V, 14.05.2004, n. 3139).
Affermata quindi la giurisdizione del TSAP in entrambi i ricorsi qui riuniti, per il principio della "translatio iudicii" sono salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda se il giudizio è riassunto davanti al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato di detta pronuncia (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.03.2016 n. 257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933 n. 1775, la cognizione sui provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incidono direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
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Il ricorso in esame, trasposto a seguito di opposizione al ricorso straordinario da parte del resistente Comune di Pisa, viene proposto dai signori Ca., i quali chiedono l’annullamento del diniego di sanatoria di cui al provvedimento dirigenziale n. 502 del 16.06.1999.
Il Comune di Pisa ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per genericità delle censure e ne ha chiesto comunque la reiezione per infondatezza.
Alla pubblica udienza del 12.01.2016 la causa venne rinviata per consentire alle parti di esplicare le proprie difese sulla questione di giurisdizione, sulla quale d’ufficio il Collegio si è interrogato.
Con memoria depositata il 19.01.2016 i ricorrenti hanno sostenuto essi stessi che la giurisdizione in materia appartiene al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche.
il provvedimento impugnato è motivato con riguardo al vincolo, gravante sull’area in cui ricade l’immobile oggetto dell’istanza di sanatoria, ai sensi del r.d. n. 523/1904, art. 2, commi 1 e 2.
Le disposizioni su menzionate prevedono il potere dell’amministrazione di regolare e vigilare sul buon regime delle acque pubbliche e, per quanto qui rileva, «sulle condizioni di regolarità dei ripari ed argini od altra opera qualunque fatta entro gli alvei e contro le sponde. »
Nel caso in esame, nel 1981 è stato realizzato un manufatto con destinazione abitativa, interamente in legno con struttura portante in ferro, copertura in lastre ondulate in fibrocemento e infissi in alluminio anodizzato e vetro, delle dimensioni di m 8,10 x 6 e altezza di m 2,90, situato in golena del fiume Arno sulla sponda sinistra.
Il competente Ministero dei Lavori pubblici – Provveditorato regionale alle Opere pubbliche per la Toscana (Ufficio territoriale di Pisa), cui la pratica di sanatoria avviata con istanza del 01.04.1987, è stata sottoposta –ai sensi dell’art. 32, comma primo, l. n. 47/1985– ha espresso parere contrario al mantenimento delle opere di cui trattasi, in quanto esse ricadono in un tratto di fiume fortemente antropizzato e incidono negativamente sul recupero delle golene ai fini cui le stesse sono destinate.
Orbene, il fiume Arno è un corso d’acqua pubblico e come tale rientra nell’ambito di applicazione del r.d. n. 1775/1933 e del r.d. n. 523/1904.
Ai sensi dell’art. 143 del r.d. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Non vi è dubbio che l’edificazione oggetto della controversia (e il diniego di sanatoria di essa) incidano in modo immediato e diretto sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle stesse; ne consegue l’appartenenza della giurisdizione al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che «Appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933 n. 1775, la cognizione sui provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incidono direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici» (TAR Lombardia–Milano, III, n. 2078/2011; TAR Sicilia-Catania, III, 06.07.2012, n. 1722; TAR Toscana, II, n. 1241/2015; Cass. SS.UU., ord. n. 13692/2006; Cass. SS.UU., 12.05.2009 n. 10845).
Pertanto, il ricorso in epigrafe deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, appartenendo essa al TSAP ai sensi dell’art. 143, comma primo, lett. a, r.d. 11.12.1933 n. 1775. Ai sensi dell’art. 11 c.p.a., il processo potrà essere riassunto dinanzi al competente TSAP nei termini precisati dal comma secondo di detta norma (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 24.02.2016 n. 317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa parziale tombatura del fosso non incide sul divieto assoluto di edificare nella fascia di rispetto.
Invero, il divieto di costruzione a una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali –c.d. fascia di servitù idraulica– ha carattere assoluto ed inderogabile, sicché nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 della legge 28.02.1985, n. 47 sul condono edilizio, senza che rilevi la tombatura del corso d’acqua.
Infatti il divieto non è posto soltanto a tutela dello sfruttamento delle acque e del loro libero deflusso, bensì anche alla necessità di consentire uno spazio di manovra per lo svolgimento di attività manutentive.

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3. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione del r.d. n. 523/1904 e dell’art. 1, comma primo, della l.r. n. 21/2012, sostenendo che il Comune di Carrara non avrebbe svolto un’adeguata istruttoria e che il richiamo alla disciplina predetta sarebbe inconferente, atteso che il tratto del fosso di Casalina interessato dagli abusi oggetto di controversia sarebbe tombato e intubato a seguito di regolare autorizzazione idraulica.
Va rilevato che è lecito dubitare della giurisdizione del giudice amministrativo su questo particolare aspetto della controversia, per la stretta attinenza della questione della distanza delle opere realizzate da un corso d’acqua pubblica e quindi con il regime delle acque pubbliche (cfr.: TAR Toscana, III, n. 1004/2015; si veda anche Cass. civ., SS.UU., n. 10845/2009).
In ogni caso, anche a prescindere dall’inammissibilità della questione in questa sede giurisdizionale, è agevole osservare che la parziale tombatura del fosso di Casalina non incide sul divieto assoluto di edificare nella fascia di rispetto (si veda la decisione del TSAP n. 246/2014, in cui si afferma che il divieto di costruzione a una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali –c.d. fascia di servitù idraulica– ha carattere assoluto ed inderogabile, sicché nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 della legge 28.02.1985, n. 47 sul condono edilizio, senza che rilevi la tombatura del corso d’acqua; infatti il divieto non è posto soltanto a tutela dello sfruttamento delle acque e del loro libero deflusso, bensì anche alla necessità di consentire uno spazio di manovra per lo svolgimento di attività manutentive) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.11.2015 n. 1555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La quota del terreno è stata innalzata di almeno 2 m ed è stato anche realizzato un muro di contenimento in cemento armato della lunghezza di 70 mt.
L’entità delle opere non consente quindi di definire le stesse come modesto livellamento del terreno in pendenza. La giurisprudenza in casi analoghi ha ritenuto che si trattasse di nuova costruzione con conseguente soggezione alle distanze legali (nella fattispecie di mt. 5,00 dal confine).
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4. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti contestano la parte della motivazione del diniego impugnato che attiene alla distanza del terrapieno dal confine, sostenendo che non ha senso parlare di confine tra la terra e il muro.
Tuttavia, a prescindere dalla non troppo chiara formulazione dell’enunciato motivazionale di cui trattasi, è evidente che il senso dell’espressione usata (“mancanza di distanza dal confine del terrapieno con il relativo muro di terrapieno”) è che sia il terrapieno sia il relativo muro di contenimento non rispettano la distanza legale dal confine della proprietà.
Orbene, come già si è detto la quota del terreno è stata innalzata di almeno 2 m ed è stato anche realizzato un muro di contenimento in cemento armato della lunghezza di 70 m. L’entità delle opere non consente quindi di definire le stesse come modesto livellamento del terreno in pendenza.
La giurisprudenza in casi analoghi ha ritenuto che si trattasse di nuova costruzione (cfr.: TAR Marche, I, n. 579/2015, motivata anche con riferimento all’impatto tutt’altro che lieve del manufatto realizzato), con conseguente soggezione alle distanze legali (Cass. civ., II, n. 12578/2015, con ampio ragguaglio di giurisprudenza).
In applicazione dei su esposti principi alla fattispecie controversa, il Collegio ritiene le opere realizzate abusivamente dai signori Co. e To. soggette alla distanza regolamentare di 5 metri dal confine (allegato D, punto D3, comma primo, lettera a) del Regolamento Edilizio del Comune di Carrara).
In conclusione il ricorso in esame va respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.11.2015 n. 1555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUnico rimedio a disposizione del Comune per sanzionare una costruzione non conforme alle prescrizioni urbanistiche, ma pur sempre realizzata in forza di un titolo abilitativo edilizio, ancorché illegittimo, è l’annullamento del titolo medesimo, e non già l’emanazione dell’ordinanza di demolizione, che avrebbe potuto essere adottata soltanto per opere edilizie eseguite in difformità dal permesso di costruire.
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È illegittimo e deve essere annullato il provvedimento regionale con il quale –sulla base di un verbale di accertamento il quale attesta in modo assolutamente generico, l’esistenza di un manufatto e di una parte indeterminata di recinzione a distanza non regolamentare da un corso d’acqua– è ordinato, al Comune titolare della realizzazione, la demolizione delle opere ed il ripristino del tratto demaniale che si assume violato, senza alcuna ulteriore istruttoria, intesa a definire in termini puntuali l’entità dell’infrazione.

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Osserva il Tribunale che in vista dell’odierna udienza pubblica, nessun elemento di valutazione è stato portato all’attenzione del Collegio, ulteriore rispetto a quelli, tenuti presenti in sede di valutazione dell’istanza cautelare; ne deriva che vanno integralmente confermate le considerazioni, espresse nella prefata ordinanza cautelare, non fatte segno di alcuna controdeduzione, le quali non possono non condurre all’annullamento dell’ordinanza di demolizione gravata, senza che si ravvisi l’opportunità di disporre la c.t.u. richiesta, in subordine, da parte ricorrente.
Ciò in quanto carattere dirimente assumono, nella specie, le incontestate circostanze dell’allegazione dei titoli abilitativi edilizi, in base ai quali le opere asseritamente abusive sono state realizzate, titoli non fatti segno di alcun provvedimento d’annullamento, in autotutela, da parte del Comune intimato, stando a quanto dedotto in ricorso (cfr. in giurisprudenza, la massima che segue: “Unico rimedio a disposizione del Comune per sanzionare una costruzione non conforme alle prescrizioni urbanistiche, ma pur sempre realizzata in forza di un titolo abilitativo edilizio, ancorché illegittimo, è l’annullamento del titolo medesimo, e non già l’emanazione dell’ordinanza di demolizione, che avrebbe potuto essere adottata soltanto per opere edilizie eseguite in difformità dal permesso di costruire” – TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 08/10/2009, n. 5199); e dell’inidoneità della relazione topografica di parte, a fondare l’accertamento dell’evidenziata violazione della fascia di rispetto delle vasche de quibus, dal piede dell’argine del Vallone Malnome, in assenza di autonomo approfondimento istruttorio, da parte del Comune di Roccadaspide, al riguardo (in giurisprudenza, cfr., per l’espressione di un principio analogo, la decisione seguente: “È illegittimo e deve essere annullato il provvedimento regionale con il quale –sulla base di un verbale di accertamento il quale attesta in modo assolutamente generico, l’esistenza di un manufatto e di una parte indeterminata di recinzione a distanza non regolamentare da un corso d’acqua– è ordinato, al Comune titolare della realizzazione, la demolizione delle opere ed il ripristino del tratto demaniale che si assume violato, senza alcuna ulteriore istruttoria, intesa a definire in termini puntuali l’entità dell’infrazione” – Tribunale Sup. Acque, 23/06/2000, n. 96).
All’accoglimento del ricorso segue l’annullamento del provvedimento impugnato, fatto salvo ovviamente l’eventuale riesercizio del relativo potere da parte del Comune di Roccadaspide, ma previo annullamento dei titoli abilitativi già rilasciati e previa l’effettuazione di un rigoroso accertamento, circa la violazione della fascia di rispetto di cui sopra, e la condanna dell’ente al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese di lite, liquidate come in dispositivo, oltre che alla restituzione, in favore della medesima, del contributo unificato versato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.09.2015 n. 2005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'insegnamento di questa Corte è nel senso che il muro di sostegno di un terrapieno, in quanto costituente vera e propria costruzione, è da considerare alla stregua di un muro di fabbrica ai fini delle distanze legali.
Invero,
in tema di distanze legali:
- rientrano nel concetto di "costruzione", agli effetti dell'art. 873 c. c., il terrapieno ed i locali in esso ricompresi, avendo il medesimo terrapieno la funzione essenziale di stabilizzare il piano di campagna posto a quote differenti dal fondo confinante, mediante un manufatto eretto a chiusura statica del terreno
;
-
il muro di sostegno di un terrapieno, in quanto costituente vera e propria costruzione ai fini delle distanze legali, deve considerarsi come muro di fabbrica e non come muro di cinta che, a norma dell'art. 878 c.c., è quello destinato alla protezione e delimitazione del fondo con altezza non superiore a tre metri e con le due facce isolate.
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Se le n.t.a. del p.r.g. dispongono quanto segue: "le distanze da confini di proprietà possono essere diminuite a condizione che tra i confinanti venga determinata una servitù di inedificabilità sul terreno vicino con apposita convenzione da trascriversi nei registri immobiliari, in modo che la distanza minima tra fabbricati prescritta dalle norme di zona sia sempre rispettata", è senz'altro possibile che si costruisca a distanza dal confine inferiore a quella prescritta, subordinatamente tuttavia ad una duplice condizione.
Ovvero alla condizione per cui sia in ogni caso rispettata la distanza minima tra i fabbricati ed alla condizione per cui sia stata siglata dai confinanti un'apposita convenzione —da trascriversi nei registri immobiliari— costitutiva evidentemente di una servitù a carico del fondo le cui eventuali sovrastanti costruzioni dovranno essere posizionate a distanza dal confine superiore a quella minima, sì che sia in ogni caso garantita l'osservanza del distacco minimo tra i fabbricati.
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Secondo l'insegnamento di questa Corte,
non può essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali, il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale.
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In materia di distanze legali sussiste un diritto soggettivo al rispetto delle stesse, che sorge indipendentemente dalla possibilità di costruire e sussiste senza riguardo all'effettiva esistenza di un danno attuale e concreto
.
Invero,
le norme sulle distanze sono rivolte alla tutela di interessi pubblicistici, sicché non lasciano alcun margine di valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti dalla loro inosservanza, onde nessuna indagine è ammissibile per accertare se il fondo del vicino sia o non edificabile, sussistendo il diritto al rispetto delle distanze indipendentemente dalla possibilità di costruire e dall'esistenza di un danno attuale e concreto).
E' fuor di dubbio, nondimeno, che
la violazione delle distanze legali nelle costruzioni integra una molestia al possesso del fondo finitimo, contro la quale è data l'azione di manutenzione, perché, anche quando non ne comprime di fatto l'esercizio, apporta automaticamente modificazione o restrizione delle relative facoltà.
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Con il primo motivo la ricorrente principale deduce "violazione dell'art. 360 n. 3 e 5 per erronea e falsa interpretazione dell'art. 26 delle N.T.A. del Comune di Malcesine in relazione all'art. 12 delle preleggi" (così ricorso principale, pag. 5).
Adduce che l'art. 26 delle n.t.a. del p.r.g. del comune di Malcesine impone il rispetto della distanza di 5 m. dal confine unicamente per i fabbricati, termine con il quale "si intendono solitamente solo gli edifici o quei manufatti agli stessi riconducibili non certo i terrapieni" (così ricorso principale, pag. 5); che la corte di merito nemmeno ha "motivato tale sua interpretazione contro il testo letterale della norma essendosi limitata a dire che tale distanza è pacificamente prescritta dalla disposizione in esame" (così ricorso principale, pag. 5); che ciò tanto più che la corte veneziana ha ordinato "l'arretramento del <parapetto>, opera mai costruita dalla ricorrente ed attinente ad un'ipotetica servitù di veduta la cui domanda è stata ritenuta tardiva" (così ricorso principale, pag. 6).
Con il secondo motivo la ricorrente principale deduce "violazione dell'art. 360 n. 3 e 5 per erronea e falsa applicazione dell'art. 26 delle N.T.A. del Comune di Malcesine in relazione agli artt. 873 e 1170 c.c." (così ricorso principale, pag. 6).
Adduce che "l'errata interpretazione della norma non può che portare alla falsa applicazione della stessa attesa la diversa fattispecie oggetto di causa rispetto a quella regolata dalla norma tecnica" (così ricorso principale, pag. 6); che invero "le opere per cui è causa, (...) non essendo fabbricati, non possono ritenersi soggette alla distanza dal confine né in forza del citato art. 26 delle N.T.A. né in forza dell'articolo 873 c.c." (così ricorso principale, pag. 6); che "la mancanza di una distanza dal confine da applicare, esclude ex se la sussistenza della lesione possessoria" (così ricorso principale, pag. 7).
Il primo ed il secondo motivo sono strettamente connessi. Se ne giustifica, perciò, la disamina congiunta.
Ambedue i motivi, comunque, sono immeritevoli di seguito.
Si rileva esaustivamente -e contrariamente a quanto assume la ricorrente- che
l'insegnamento di questa Corte è nel senso che il muro di sostegno di un terrapieno, in quanto costituente vera e propria costruzione, è da considerare alla stregua di un muro di fabbrica ai fini delle distanze legali (cfr. Cass. 26.11.1987, n. 8787; cfr. altresì Cass. 13.5.2013, n. 11388, secondo cui, in tema di distanze legali, rientrano nel concetto di "costruzione", agli effetti dell'art. 873 c. c., il terrapieno ed i locali in esso ricompresi, avendo il medesimo terrapieno la funzione essenziale di stabilizzare il piano di campagna posto a quote differenti dal fondo confinante, mediante un manufatto eretto a chiusura statica del terreno; Cass. 15.06.2001, n. 8144, secondo cui il muro di sostegno di un terrapieno, in quanto costituente vera e propria costruzione ai fini delle distanze legali, deve considerarsi come muro di fabbrica e non come muro di cinta che, a norma dell'art. 878 c.c., è quello destinato alla protezione e delimitazione del fondo con altezza non superiore a tre metri e con le due facce isolate).
Con il terzo motivo la ricorrente principale deduce "violazione dell'art. 360 n. 3 e 5 e falsa applicazione dell'art. 873 c.c. e per errata interpretazione delle N.T.A. vigenti nel Comune (art. 26) in relazione all'art. 1170 c.c." (così ricorso principale, pag. 7).
Adduce che le n.t.a. consentono la costruzione in deroga alla distanza dal confine che al contempo prescrivono, sicché "l'unica distanza ritenuta inderogabile dallo strumento urbanistico locale è quella fra fabbricati e non dal confine" (così ricorso principale, pag. 7); che al contempo "sul fondo Romani (...) non esisteva e non esiste alcuna costruzione che potesse e possa impedire (...) la costruzione in confine" (così ricorso principale, pag. 7); che "la costruzione Ca., in ogni caso, sconta (...) il diritto del preveniente, regolato dall'art. 873 c.c." (così ricorso principale, pag. 7).
Con il quarto motivo la ricorrente principale deduce "violazione dell'art. 360 n. 3-5 per omessa applicazione degli artt. 877 e 873 c.c. in relazione all'art. 1170 c.c." (così ricorso principale, pag. 8).
Adduce che la corte territoriale non ha considerato che la nuova costruzione è stata realizzata sul confine "in aderenza ad opera preesistente" (così ricorso principale, pag. 8) ovvero in aderenza al "muro di confine che sorregge il fondo superiore" (così ricorso principale, pag. 8), "il tutto come prescrive l'art. 873 c.c. e come l'art. 877 consente in ogni momento" (così ricorso principale, pag. 8); che, "a fronte di tale possibilità la natura artificiale del terrapieno (...), appare irrilevante viste le norme citate" (così ricorso principale, pag. 8).
Il terzo ed il quarto motivo del pari sono strettamente correlati. Il che analogamente ne suggerisce l'esame contestuale.
Entrambi i motivi, in ogni caso, non sono meritevoli di seguito.
Segnatamente, in relazione al terzo motivo, è sufficiente il riferimento —siccome prospetta la controricorrente (cfr. controricorso, pag. 10)— al testuale dettato dell'art. 26, 3° co., delle n.t.a. del p.r.g. del comune di Malcesine, alla cui stregua "
le distanze da confini di proprietà possono essere diminuite a condizione che tra i confinanti venga determinata una servitù di inedificabilità sul terreno vicino con apposita convenzione da trascriversi nei registri immobiliari, in modo che la distanza minima tra fabbricati prescritta dalle norme di zona sia sempre rispettata".
E' senz'altro possibile, quindi, che si costruisca a distanza dal confine inferiore a quella prescritta, subordinatamente tuttavia ad una duplice condizione. Ovvero alla condizione per cui sia in ogni caso rispettata la distanza minima tra i fabbricati ed alla condizione per cui sia stata siglata dai confinanti un'apposita convenzione —da trascriversi nei registri immobiliari— costitutiva evidentemente di una servitù a carico del fondo le cui eventuali sovrastanti costruzioni dovranno essere posizionate a distanza dal confine superiore a quella minima, sì che sia in ogni caso garantita l'osservanza del distacco minimo tra i fabbricati.
Orbene, siccome la controricorrente ha debitamente posto in risalto, non si è acquisito alcun riscontro della stipula dell'imprescindibile convenzione. Né, ulteriormente, vi è margine, al cospetto della disciplina dettata dall'art. 26 cit., indiscutibilmente diretta ad assicurare comunque la sussistenza di uno spazio libero tra le costruzioni, perché operi il principio della prevenzione.
Segnatamente, in relazione al quarto motivo, non può non condividersi il profilo di contraddittorietà ed incongruenza che la controricorrente ha puntualmente posto in luce (l'affermazione secondo cui la costruzione è "avvenuta in confine (...) in aderenza ad opera preesistente" —così ricorso, pag. 8— "appare del tutto contraddittoria ed incoerente con quanto affermato in precedenza laddove l'edificazione a confine è sostenuta sul presupposto dell'assenza di fabbricati a distanza inferiore di ml. 10 posti sulla proprietà della resistente": così controricorso, pag. 11).
In ogni caso, non vi è motivo per negare che "a confine tra le due proprietà non esiste alcun corpo di fabbrica nei confronti del quale costruire in aderenza, trattandosi del naturale declivio del terreno rivestito nella parte finale da pietre per evitare fenomeni di smottamento" (così controricorso, pag. 12), giacché è la medesima ricorrente che parla di "un terrapieno costruito in aderenza al muro di sostegno del fondo superiore, ossia ad un altro terrapieno sovrastante" (così ricorso, pag. 10).
Su tale scorta è sufficiente ribadire l'insegnamento di questa Corte secondo cui
non può essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali, il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale (cfr. Cass. 15.06.2001, n. 8144).
Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce "erronea e falsa applicazione dell'art. 873 c.c. e degli artt. 112 e 115 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 3-5 c.p.c." (così ricorso principale, pag. 9).
Adduce che non vi è margine per far luogo all'applicazione dell'art. 873 c.c., allorché "l'entità, l'ubicazione e le caratteristiche strutturali delle opere realizzate risultino obiettivamente tali da non essere in contrasto con la (...) finalità" (così ricorso principale, pag. 9) di evitare l'insorgere di intercapedini; che, in questi termini, la realizzazione di un terrapieno in aderenza al muro di sostegno del fondo superiore in nessun modo vale a determinare l'insorgere di una intercapedine; che conseguentemente tale omessa valutazione, da un lato, induce a ritenere che la corte territoriale non ha "a sufficienza e logicamente motivato la sua decisione" (così ricorso principale, pag. 10), dall'altro, che se tale valutazione fosse stata compiuta, si sarebbe acquisita "conferma che nessun pregiudizio può derivare alla posizione della Romani e pertanto l'insussistenza di qualsiasi turbativa" (così ricorso principale, pag. 10).
Con il sesto motivo la ricorrente principale deduce "errata applicazione dell'art. 873 c.c. ed insufficiente ed omessa motivazione in ordine a fatto decisivo per la decisione del giudizio in relazione all'art. 360 n. 3-5 c.p.c." (così ricorso principale, pag. 11).
Adduce che la corte territoriale, pur considerando unitariamente l'opera realizzata da ella ricorrente, "ha però omesso di trarre (...) la giuridica conseguenza della possibilità di costruire in aderenza" (così ricorso principale, pag. 11); che invero la corte di Venezia "ha (...) omesso di motivare in ordine (...) alla susseguente idoneità dell'opera a creare intercapedini" (così ricorso principale, pag. 11).
Il quinto ed il sesto motivo parimenti sono in stretta connessione. Se ne giustifica dunque il vaglio simultaneo.
Ambedue i motivi, comunque, sono immeritevoli di seguito.
Ed invero si ammetta pure che il terrapieno artificiale costruito da Ma.Fr.Ca. "in aderenza al muro di sostegno del fondo superiore" (così ricorso, pag. 10) non abbia dato luogo ad alcuna intercapedine.
E' fuor di dubbio, nondimeno e per un verso, che l'art. 26 delle n.t.a. del p.r.g. del comune di Malcesine impone il rispetto della distanza di 5 m. dal confine, con possibilità di deroga che —siccome premesso in sede di vaglio del terzo e del quarto motivo— non si configura però nella fattispecie.
E' fuor di dubbio, nondimeno e per altro verso, che
in materia di distanze legali sussiste un diritto soggettivo al rispetto delle stesse, che sorge indipendentemente dalla possibilità di costruire e sussiste senza riguardo all'effettiva esistenza di un danno attuale e concreto (cfr. Cass. 13.10.1976, n. 3417; cfr. altresì Cass. 17.04.1998, n. 3886, secondo cui le norme sulle distanze sono rivolte alla tutela di interessi pubblicistici, sicché non lasciano alcun margine di valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti dalla loro inosservanza, onde nessuna indagine è ammissibile per accertare se il fondo del vicino sia o non edificabile, sussistendo il diritto al rispetto delle distanze indipendentemente dalla possibilità di costruire e dall'esistenza di un danno attuale e concreto).
E' fuor di dubbio, nondimeno e per altro verso ancora, che
la violazione delle distanze legali nelle costruzioni integra una molestia al possesso del fondo finitimo, contro la quale è data l'azione di manutenzione, perché, anche quando non ne comprime di fatto l'esercizio, apporta automaticamente modificazione o restrizione delle relative facoltà (cfr. Cass. 19.03.1991, n. 2927) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.06.2015 n. 12578).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 33, comma 1, lettera d), della legge n. 47/1985 non sono suscettibili di sanatoria le opere in contrasto con “ogni altro vincolo che comporti l’inedificabilità delle aree”, imposto prima dell’esecuzione delle opere stesse.
E’ vero che, ai sensi dell’art. 31 della l. n. 47/1985, “per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell’art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”.
Tuttavia, le richiamate prescrizioni dell’art. 33 l. 1985 n. 47 si applicano anche agli edifici costruiti prima del 1967.

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Il ricorso deve essere rigettato, dal momento che non era sanabile l’abuso edilizio realizzato in violazione del vincolo di inedificabilità assoluta sancito dall’art. 96, lettera f), del R.D. n. 523/1904.
Nel caso di specie, vertendosi per l’appunto nell’ipotesi di cui all’art. 33 della l. 28.02.1985 n. 47, era espressamente escluso che sulla domanda di sanatoria potesse operare il meccanismo procedimentale del silenzio-assenso (cfr. art. 35, comma 18, della l. n. 47 del 1985).
La sanzione della riduzione in pristino stato, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, è dunque legittima.
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IV. Tanto premesso, i motivi di ricorso non possono essere accolti.
IV.1. In primo luogo, il manufatto da demolirsi è sufficientemente identificato, alla stregua dei puntuali riferimenti, contenuti nel provvedimento, all’autorimessa oggetto della domanda di sanatoria presentata da Gi.Ge..
IV.2. E’ dirimente, ai fini del rigetto della domanda di condono, la circostanza (pacifica tra le parti) per cui la costruzione in esame si colloca all’interno della fascia di rispetto stabilita dall’art. 96, comma 1, lettera f), del R.D. n. 523/1904 in favore delle acque pubbliche (come deve qualificarsi anche il corso d’acqua denominato “Lusert”: cfr. il n. 92 dell’Elenco delle acque pubbliche della Provincia di Como, formato dal Ministero dei Lavori pubblici, Corpo reale del Genio civile, di cui al doc. 10 all. ricorrente; cfr. anche l’elenco dei corsi d’acqua pubblici, di cui al doc. 11 all. resistente), nel cui perimetro è inibita qualsiasi edificazione.
Difatti, ai sensi dell’art. 33, comma 1, lettera d), della legge n. 47/1985 non sono suscettibili di sanatoria le opere in contrasto con “ogni altro vincolo che comporti l’inedificabilità delle aree”, imposto prima dell’esecuzione delle opere stesse. Il vincolo qui è sicuramente preesistente, in quanto risale addirittura al 1904.
IV.3. E’ vero che, ai sensi dell’art. 31 della l. n. 47/1985, “per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell’art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”. Tuttavia, le richiamate prescrizioni dell’art. 33 l. 1985 n. 47 si applicano anche agli edifici costruiti prima del 1967.
IV.4. Non sussiste il parere favorevole dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo, essendosi (a suo tempo) i competenti uffici della Regione espressi in senso negativo (cfr. doc. n. 6).
IV.5. Lo stesso Reticolo Idrico Minore (approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 31 del 16.05.2008), lungo il tratto di roggia, ha confermato la fascia di rispetto di metri 10, assoggettata al vincolo di inedificabilità assoluta (cfr. doc. nn. 13 e 14: ai sensi dell’art. 9 delle norme tecniche di attuazione, nella “fascia di rispetto 1” sono vietate le nuove edificazioni).
Il fatto, poi, che la cartografia allegata abbia rilevato l’esistenza fisica dell’autorimessa, di per sé, non può evidentemente produrre alcun effetto di sanatoria. Neppure la sanatoria edilizia può ritenersi “implicita” nelle norme tecniche che consentono di realizzare taluni interventi (di manutenzione ordinaria e straordinaria, ovvero di restauro e risanamento conservativo che non comportino aumenti volumetrici) all’interno della fascia di rispetto (anche considerando l’espresso divieto contenuto nella citata norma di fonte primaria).
IV.6. La buona fede degli aventi causa, per giurisprudenza costante, non “vale” a fondare alcun diritto al conseguimento del titolo edilizio in deroga alle imperative prescrizioni urbanistiche, tanto più che l’attività di repressione degli abusi edilizi, come è noto, non è soggetta a termini di prescrizione o decadenza.
IV.7. Gli argomenti appena esposti dimostrano l’infondatezza anche della connessa domanda risarcitoria.
V. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, dal momento che non era sanabile l’abuso edilizio realizzato in violazione del vincolo di inedificabilità assoluta sancito dall’art. 96, lettera f), del R.D. n. 523/1904. Nel caso di specie, vertendosi per l’appunto nell’ipotesi di cui all’art. 33 della l. 28.02.1985 n. 47, era espressamente escluso che sulla domanda di sanatoria potesse operare il meccanismo procedimentale del silenzio-assenso (cfr. art. 35, comma 18, della l. n. 47 del 1985). La sanzione della riduzione in pristino stato, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, è dunque legittima.
V.1. Può assorbirsi l’eccezione preliminare di tardività, sollevata dal Comune resistente in ordine alla impugnazione degli “atti presupposti” dell’ingiunzione di demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.05.2015 n. 1079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer condivisibile orientamento interpretativo, «la c.d. fascia di servitù idraulica imposta dall'art. 96 lett. f), r.d. 25.07.1904, n. 523 […] ha carattere assoluto e non derogabile in relazione a qualsiasi costruzione (recinzioni, strade, depuratore e quant’altro)», il che si giustifica in quanto, «come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lett. f) dell'art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
Pertanto, rientrano tra le fabbriche di cui all’art. 96 cit. pure i semplici muretti (cfr., in termini, Cass. pen., sez. III, 20.03.2001, n. 16104: «nell’accezione di “fabbriche”, termine adoperato dal legislatore del 1904, rientrano certamente anche i muretti di recinzione […]. La ratio della norma, infatti, è quella di consentire la disponibilità di una idonea fascia libera per intervenire sugli argini in caso di esondazione, e dunque tale finalità può certamente restare frustrata anche dall'edificazione di muri di recinzione nella detta fascia di rispetto»).

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L'art. 96, lett. f),
r.d. 25.07.1904, n. 523 non può non essere interpretato mettendolo anche in relazione con il secondo comma dell’art. 93 (collocato nel medesimo Capo del r.d. n. 523/1904, dedicato alla polizia delle acque pubbliche) in cui si chiarisce che «formano parte degli alvei i rami o canali, o diversivi dei fiumi, torrenti, rivi e scolatoi pubblici, ancorché in alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti».
La questione potrebbe semmai assumere rilevanza ai diversi fini della sussistenza anche del vincolo paesaggistico, di cui alla disciplina confluita nell’art. 142 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (su cui, con specifico riferimento alla questione dell’interpretazione dei termini “fiume”, “torrente”, “corso d’acqua” e relative implicazioni, cfr. C.d.S., sez. VI, 04.02.2002, n. 657).
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17. – L’oggetto del giudizio resta così circoscritto alla questione della legittimità dei provvedimenti adottati dall’amministrazione comunale in relazione alla denuncia d’inizio attività per la realizzazione del predetto muretto di cinta e del cancello scorrevole, così come posta con le censure articolate a fondamento della domanda di annullamento nel ricorso introduttivo.
Passando, allora, all’esame delle singole censure, già riassunte al § 4 della presente decisione, nessuna coglie nel segno, alla luce della contrarietà dell’intervento –teso unitariamente alla delimitazione materiale dell’area antistante le unità immobiliari al piano terra e seminterrato- al vincolo idrico che deriva dalla prossimità dell’area al torrente di Casamarciano.
E’ questa la principale ragione ostativa all’esecuzione dei lavori che è stata addotta dal Comune nella motivazione del provvedimento impugnato (cfr. supra, § 3), cui si aggiunge, con portata autonoma, la questione dell’esistenza anche di un vincolo ambientale.
In base al richiamato art. 96 del R.D. n. 523 del 25.07.1904, infatti, «sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: … f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi».
Nella specie, il provvedimento impugnato prot. n. 1513 del 21.03.2014 ha cura di motivare in fatto che «la parte finale dell'opera edilizia, sul lato nord, ricade all'interno della fascia di rispetto di ml. 10,00, dalla sponda del corso d'acqua», il che trova conferma nella suddetta Tavola 3, da cui risulta che il realizzando muretto di cinta dovrebbe essere perpendicolare al vecchio muro di delimitazione del compendio immobiliare che corre lungo l’alveo del torrente Casamarciano, posizionandosi anch’esso, sia pure in parte, all’interno della fascia di servitù idrica.
Parte ricorrente non contesta il parziale posizionamento dell’opera all’interno della suddetta fascia (tanto è vero che, come si è visto, non ha neppure prodotto, in senso contrario, la Tavola 1B con i grafici di progetto), quanto l’applicabilità stessa della norma vincolistica al caso in esame.
In particolare nei motivi aggiunti, infatti, sostiene che il divieto dell’art. 96, lett. f) cit. riguarda solo le “fabbriche”, nel cui novero non potrebbero essere ricompresi i muretti di cinta oggetto della d.i.a., in quanto manufatti isolati e con le facce libere e con altezza inferiore a 3 metri, che, in ragione del combinato disposto degli artt. 873 e 878 c.c., non potrebbero essere ritenuti una costruzione; e, in maniera ancora più radicale nel ricorso introduttivo, chiede che in via incidentale venga vagliata in questa sede la legittimità del provvedimento con il quale l’alveo di Casamarciano, che sarebbe stato da sempre un corso d’acqua (un “lagno”, controfosso dei Regi Lagni) e per il quale non sarebbero previste limitazioni e prescrizioni di sorta, sarebbe stato poi classificato come “torrente”, pur essendo un fosso in realtà privo di acqua.
Entrambi gli assunti sono privi di pregio.
Quanto alla prima questione, infatti, per condivisibile orientamento interpretativo, «la c.d. fascia di servitù idraulica imposta dall'art. 96 lett. f), r.d. 25.07.1904, n. 523 […] ha carattere assoluto e non derogabile (Consiglio Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814) in relazione a qualsiasi costruzione (recinzioni, strade, depuratore e quant’altro)» (cfr. C.d.S., sez. I, 30.06.2011, n. 2620/11, affare n. 1203/2011), il che si giustifica in quanto, «come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) dell'art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., SS.UU., 30.07.2009, n. 17784)» (cfr. C.d.S., sez. IV, 05.11.2012, n. 5619; T.S.A.P. 29.04.2002, n. 58, che richiama anche la finalità di consentire l’agevole svolgimento di lavori di manutenzione).
Pertanto, rientrano tra le fabbriche di cui all’art. 96 cit. pure i semplici muretti (cfr., in termini, Cass. pen., sez. III, 20.03.2001, n. 16104: «nell’accezione di “fabbriche”, termine adoperato dal legislatore del 1904, rientrano certamente anche i muretti di recinzione […]. La ratio della norma, infatti, è quella di consentire la disponibilità di una idonea fascia libera per intervenire sugli argini in caso di esondazione, e dunque tale finalità può certamente restare frustrata anche dall'edificazione di muri di recinzione nella detta fascia di rispetto»).
Quanto alla seconda questione, è la stessa parte ricorrente a riconoscere che l’alveo di Casamarciano è sempre stato un corso d’acqua, sicché il fatto (peraltro non dimostrato) che possa presentarsi privo d’acqua non assume rilievo alcuno per escludere l’applicabilità della fascia di servitù idraulica, una volta tenuto conto che l'art. 96, lett. f), non può non essere interpretato mettendolo anche in relazione con il secondo comma dell’art. 93 (collocato nel medesimo Capo del r.d. n. 523/1904, dedicato alla polizia delle acque pubbliche) in cui si chiarisce che «formano parte degli alvei i rami o canali, o diversivi dei fiumi, torrenti, rivi e scolatoi pubblici, ancorché in alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti».
La questione potrebbe semmai assumere rilevanza ai diversi fini della sussistenza anche del vincolo paesaggistico, di cui alla disciplina confluita nell’art. 142 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (su cui, con specifico riferimento alla questione dell’interpretazione dei termini “fiume”, “torrente”, “corso d’acqua” e relative implicazioni, cfr. C.d.S., sez. VI, 04.02.2002, n. 657).
Tuttavia, la rilevanza di quella questione resta assorbita dall’applicazione dell’art. 96 cit., di per sé sufficiente a sorreggere le determinazioni qui impugnate, che su quest’ultima previsione parimenti si fondano.
Inoltre, una compiuta disamina della questione del vincolo paesaggistico non potrebbe prescindere da approfondimenti istruttori, incompatibili con basilari principi di economia processuale una volta che, per quanto si è detto, l’esito dell’impugnazione è comunque segnato.
Infatti, una volta acclarato che l’intervento oggetto della d.i.a. –intervento che, si ripete, deve essere considerato in questa sede nella sua evidente unitarietà– non rispetta, sia pure in parte, la fascia di servitù idraulica, le censure riguardanti il vincolo paesaggistico non potrebbero valere, comunque, a travolgere i provvedimenti impugnati, né potrebbe acquisirsi in una conferenza di servizi l’assenso del Genio civile su opere giammai non consentibili (cfr. art. 96 cit.: «sono lavori ed atti vietati in modo assoluto …»), né, infine, potrebbe assumere rilievo invalidante la lamentata compressione del diritto al contraddittorio procedimentale, stante il disposto dell’art. 21-octies, comma primo, primo periodo, della legge n. 241/1990.
Infine, per quanto riguarda la censura con la quale parte ricorrente ha dedotto che i provvedimenti impugnati avrebbero eluso la portata conformativa della sentenza n. 476 del 2014 per non aver tenuto conto degli effetti sostanziali di accertamento di fatto e di diritto della medesima, è sufficiente rilevare, in senso contrario, che la richiamata pronuncia non statuisce alcunché sulla situazione di fatto qui esaminata e sui suoi riflessi giuridici.
18. – Per le esposte ragioni, in conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 25.02.2015 n. 1275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la quaestio juris se il muro definito dalla ricorrente “contrafforte” non possa essere considerato come “argine” del torrente dal quale computare detta distanza, trovandosi l’alveo vero e proprio del torrente a notevole distanza da tale muro, per costante giurisprudenza tale distanza deve essere determinata riferendosi alla delimitazione effettiva del corso d’acqua, partendo dal ciglio della sponda, quale confine naturale dell’ordinaria portata d’acqua, e non già dal piede esterno dell’argine ogni qual volta esso non esplichi una funzione analoga alla sponda nel contenere l’acqua, bensì rappresenti, come nel caso di specie, una barriera esterna artificiale eretta a difesa del territorio nell’ipotesi del verificarsi di piene eccezionali.
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Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione di difetto di giurisdizione formalmente dedotta da entrambi i controinteressati.
A tal proposito, il Collegio –nel reputare, come già espresso in precedenza da questa stessa Sezione interna, che la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche si fondi “sulla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso della acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici” (in tal senso, sentenza n. 1234/2014, che richiama, tra l’altro, Cass. Civ. SS.UU. n. 10845/2009)– è dell’avviso che nel caso di specie sussista la giurisdizione di legittimità dell’adito TAR, non incidendo il provvedimento impugnato in maniera diretta ed immediata sul regolare regime delle acque pubbliche, anche a fronte di quanto evidenziato e documentato dai controinteressati in merito alla distanza, maggiore della fascia di rispetto di cui all’art. 96, lett. f), del r.d. n. 523/1904, intercorrente tra la sponda del torrente ed il realizzando manufatto.
Passando, quindi, ad esaminare il merito della controversia, ritiene il Collegio che il ricorso sia infondato e non possa, pertanto, essere accolto.
1. Per quel che concerne il primo motivo di ricorso, con cui la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 96, lett. f), del r.d. n. 523/1904 e dell’art. 142 del d.lgs. n. 42/2004, sostenendo che la costruzione dei controinteressati verrebbe a trovarsi “ad una distanza inferiore ai 10 metri dall’argine e dal contraffare del torrente Montagnareale”, innanzi tutto, risulta agli atti di causa come, invece, l’area di sedime del realizzando manufatto si trovi ad una distanza del tutto regolare in relazione al citato art. 96.
Assume, in particolare, a tal proposito rilievo la perizia giurata prodotta in giudizio dal controinteressato An.Sc., in cui si attesta come “la distanza intercorsa tra la sponda naturale del torrente Montagnareale e la sponda artificiale dello stesso, lungo il Corso Matteotti, più precisamente all’altezza dell’immobile di cui in oggetto, è di ml. 16,50, oltre lo spessore della sponda realizzata in muratura di pietrame e malta cementizia che è di cm. 80”, nonché la documentazione fotografica, anch’essa versata in atti dal medesimo controinteressato, da cui risulta come il muro definito dalla ricorrente “contrafforte” non possa essere considerato come “argine” dal quale computare detta distanza, trovandosi l’alveo vero e proprio del torrente a notevole distanza da tale muro.
In tal senso, osserva il Collegio come, infatti, per costante giurisprudenza tale distanza deve essere determinata riferendosi alla delimitazione effettiva del corso d’acqua, partendo dal ciglio della sponda, quale confine naturale dell’ordinaria portata d’acqua, e non già dal piede esterno dell’argine ogni qual volta esso non esplichi una funzione analoga alla sponda nel contenere l’acqua, bensì rappresenti, come nel caso di specie, una barriera esterna artificiale eretta a difesa del territorio nell’ipotesi del verificarsi di piene eccezionali (in tal senso, ex multis, TAR Emilia Romagna, Parma, n. 435/2010).
Relativamente, poi, all’asserita violazione della fascia di rispetto di centocinquanta metri di cui al citato art. 142, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, tale rilievo risulta anch’esso infondato, omettendo la ricorrente di considerare come il comma 2 del medesimo articolo escluda dall’applicazione di detta distanza “le aree che alla data del 06.09.1985 … erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee … B” e avendo documentato il controinteressato Antonino Scaffidi come l’area di intervento, a tale data, nella vigenza del P.R.G. approvato con D.A. n. 244/1981, ricadesse in zona “B2” (in tal senso, l’attestazione dell’U.T.C. del Comune resistente dell’08.01.2015, in atti) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 29.01.2015 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
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3. Con riferimento, infine, alla censura riguardante il mancato rispetto della distanza di dieci metri fra la parete asseritamente finestrata dell’edificio di proprietà della ricorrente e l’erigenda costruzione (terzo motivo di doglianza), deve anch’essa essere rigetta, risultando dalla documentazione fotografica in atti, nonché dall’atto di acquisto dell’edificio oggetto di demolizione e ricostruzione prodotta in giudizio dai controinteressati, come l’apertura in questione, delle “dimensioni di ml. 2,20 x ml. 0,80”, non possa essere qualificata come veduta, bensì come mera apertura lucifera.
Infatti, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non intende discostarsi, “la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere” (recentemente, Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4451/2013).
A ciò si aggiunga che, come dedotto e documentato dai controinteressati, la realizzazione dell’erigenda costruzione in aderenza alla parete in questione risulta essere stata espressamente autorizzata al momento dell’acquisto dell’edificio oggetto di demolizione e ricostruzione da parte venditrice, allora proprietaria dell’intero fabbricato in cui si trova l’appartamento ora di proprietà della ricorrente (in tal senso il relativo atto di compravendita, in data 10.09.2007) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 29.01.2015 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.10.2016

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Sul costo (da sopportare) della perizia di stima circa l'eventuale aumento di valore dell’immobile valutato dall’Agenzia del Territorio (oggi Agenzia delle Entrate) ex art. 37, comma 4, DPR n. 381/2001 (piuttosto che art. 33, comma 2, oppure art. 34, comma 2, ed anche art. 38, comma 1):
la Corte dei Conti rispose tempo fa "quesito inammissibile" ... ora, il Consiglio di Stato risponde che "paga il comune".

     La quaestio juris l'avevamo evidenziata tre anni or sono con due pronunciamenti della Magistratura contabile (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 25.03.2013 n. 20 e Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.05.2013 n. 201) laddove, in verità, la stessa non si espresse in ordine ai puntuali interrogativi formulati.

Ma, in concreto, di che si tratta??

     Si tratta che per alcune fattispecie edilizie abusive di cui al DPR n. 380/2001, normate come sopra ricordato, il comune debba "obbligatoriamente" richiedere una perizia di stima all'ex Agenzia del Territorio (ora Agenzia delle Entrate) che risulta essere "preliminare" alla quantificazione della sanzione pecuniaria in luogo della rimessione in pristino (demolizione delle opere abusivamente realizzate).
     L'Agenzia delle Entrate, tuttavia, non lavora "gratis" sicché richiede preliminarmente al comune la sottoscrizione di un "protocollo d'intesa" relativo all'attività estimativa da espletare con l'indicazione dei relativi costi sostenuti da rifondere tenuto conto che l’art. 64, comma 3-bis, del d.lgs. 30.07.1999 n. 300 dispone quanto segue:3-bis. Ferme le attività di valutazione immobiliare per le amministrazioni dello Stato di competenza dell'Agenzia del demanio, l'Agenzia delle entrate è competente a svolgere le attività di valutazione immobiliare e tecnico-estimative richieste dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad esse strumentali. Le predette attività sono disciplinate mediante accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni. Tali accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella Convenzione di cui all'articolo 59 ”.
     Recentemente, l'Agenzia delle Entrate -Ufficio provinciale di Milano-Territorio- ha rappresentato a tutti i comuni del proprio ambito territoriale di competenza l'obbligatorietà -per i comuni stessi- del rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia menzionando, all'uopo, due sentenze (rectius: pareri) del Consiglio di Stato.
     Ebbene, ecco a seguire la nota dell'Agenzia delle Entrate milanese:
 

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Trasmissione Protocollo d'intesa in corso di stipula relativo all'attività estimativa per abusi edilizi prevista dal DPR 380/2001 (Agenzia delle Entrate, Ufficio provinciale di Milano-Territorio, nota 27.07.2016 n. 22078 di prot.).


     Ed ancora, di seguito, le due pronunce del Consiglio di Stato:
 

EDILIZIA PRIVATALe spese conseguenti alle richieste comunali alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio) circa le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità, sono in capo all'Amministrazione comunale stessa.
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Appurato il carattere di prestazione obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia", la menzionata pretesa economica ricade sull’ente e non sul privato la quale non ha alcuna valenza sanzionatoria, essendo chiaramente finalizzata al ristoro degli oneri sopportati dall’Agenzia.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, integrato da motivi aggiunti, proposto dal COMUNE DI GENOVA, in persona del Sindaco Prof. Ma.Do., per l'annullamento, quanto al ricorso principale:
1. delle note dell'Ufficio Provinciale di Genova dell’Agenzia delle Entrate, in materia di valutazioni immobiliari effettuate dalla citata Agenzia nel contesto delle "attività sanzionatorie" esercitate dal Comune di Genova in materia di abusi edilizi (in particolare, delle note prot. n. 1437/13/1837-13 del 15/02/2013; prot. n. 1440/13/1835-13 del 15/02/2013; prot. n. 1442/13/1825/2013 del 15/02/2013; prot. n. 1474/13/1916/2013 del 18/02/2013; prot. n. 2205/13/2826 del 02/04/2013; prot. n. 1474/3915 del 03/04/2013; prot. n. 3825/13/5942 del 24/5/2013; prot. n. 3823/13/5943 del 24/05/2013);
2. degli atti connessi e, in particolare, per l'annullamento in parte qua della "Convenzione Triennale per gli Esercizi 2012/2014", stipulata tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia del Territorio;
quanto ai relativi motivi aggiunti:
3. delle "note di addebito" notificate dall'Agenzia delle entrate, Direzione Centrale Amministrazione, Pianificazione e Controllo (in particolare, delle note prot. n. 24249 del 18/06/2013; prot. n. 26484 e n. 26487 del 04/07/2013; prot. n. 32196 del 05/09/2013; prot. n. 33322, n. 33304, n. 33320 e n. 33305 del 18/09/2013);
4. delle ulteriori comunicazioni dell'Agenzia delle entrate, Ufficio Provinciale di Genova, Settore Gestione Banche Dati e Servizi (in particolare, delle note prot. n. 4461/13/7783 del 05/07/2013; prot. n. 3877/13/7799 e n. 7209/13/7789 del 08/07/2013; prot. n. 8391/13/8615 del 30/07/2013; prot. n. 8575/13/8796 del 02/08/2013; prot. n. 5945/2013/9440 del 26/08/2013; prot. n. 6395/13/9394 e n. 7211/2013/9444 del 26/08/2013; prot. n. 74749/13/9966 del 12/09/2013; prot. n. 7724/10393 del 25/09/2013; prot. n. 8389/13/10505, n. 8390/13/10493 e n. 10097/13/10511 del 27/09/2013; prot. n. 6439/13/10729 del 02/10/2013; prot. n. 8387/13/10751 del 03/10/2013; prot. n. 8034/2013/10828 del 04/10/2013; prot. n. 10727/13/11091, n. 10580/2013/11104 e n. 9742/2013/11101 del 10/10/2013).
...
Premesso:
Il Comune di Genova, nell'esercizio della propria attività istituzionale in materia edilizia, richiede ordinariamente alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio, ex art. 23-quater del D.L. 06.07.2012, n. 95, inserito dalla Legge di conversione 07.08.2012, n. 135) le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità.
Tale procedura è contemplata dagli artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001, n. 380, nonché dagli artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n. 16.
Con una serie di note di analogo contenuto, l’Ufficio Provinciale della predetta Agenzia dava riscontro a diverse richieste (riferite a distinti interventi edilizi), richiamando il disposto del D.Lgs. 30.07.1999, n. 300, art. 64, comma 3-bis (comma aggiunto dall'art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44), ai sensi del quale "…l'Agenzia del territorio è competente a svolgere le attività di valutazione immobiliare e tecnico-estimative richieste dalle Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad esse strumentali. Le predette attività sono disciplinate mediante accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni. Tali accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella Convenzione di cui all'articolo 59" (Convenzione triennale tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia).
Il suddetto Ufficio Provinciale comunicava, pertanto, la necessità di procedere alla preliminare stipula di specifici accordi (“protocolli d’intesa”) per il rimborso dei costi sostenuti. A tali riscontri, il Comune di Genova, nel considerare tale attività istruttoria una funzione istituzionale obbligatoria, rappresentava all'Agenzia che un simile comportamento ostruzionistico avrebbe potuto arrecare gravi responsabilità per l'Ente locale.
Il menzionato Ufficio, con nota in data 02.04.2013, comunicava al Comune che avrebbe, comunque, proceduto ad espletare le attività valutative richieste, nelle more del perfezionamento dell'accordo, ma sempre dietro corresponsione di un rimborso dei costi, nel limite massimo del 50% della sanzione. Tale comunicazione richiamava le direttive in materia, emanate dalla competente Direzione Centrale Osservatorio Mercato Immobiliare e Servizi Estimativi dell’Agenzia delle Entrate.
Con successive note l'Agenzia ribadiva la propria posizione per altre singole pratiche.
Contro i citati atti, come meglio individuati in epigrafe, insorge il Comune di Genova, il quale affida il proprio gravame ai seguenti motivi di diritto:
   1. violazione o falsa applicazione art. 23 della Costituzione; violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. 30/07/1999, n. 300.
Il Comune ritiene che l’attività esercitata dall'Agenzia, tesa a fornire aggiornate valutazioni immobiliari ai fini dell'applicazione delle sanzioni pecuniarie per violazioni edilizie o procedimenti di accertamento di conformità, rientri nell’ambito delle funzioni istituzionali attribuitele dalla legge (artt. 33 e ss. del D.P.R n. 380/2001 e corrispondenti norme regionali, artt. 43 e ss. della Legge Regione Liguria n. 16 del 2008). Da tale evidenza discenderebbe il carattere gratuito delle prestazioni dovute in forza delle richiamate disposizioni, come confermato, a suo tempo, dalla stessa Direzione Centrale dell'Agenzia con nota prot. n. 27110 del 03.05.2011.
La previsione di cui al citato comma 3-bis dell'art. 64 del D.Lgs. n. 300/1999, deve, pertanto, "intendersi riferita alle sole attività ulteriori rispetto a quelle già previste da precedenti norme di legge e, quindi, non rientranti nella normale attività istituzionale dell'Agenzia. Ciò per almeno due ordini di ragioni:
- una prima ragione è di ordine logico-sistematico giacché, in caso contrario, il citato art. 3-bis [rectius comma 3-bis], nella parte in cui attribuisce la competenza alle valutazioni immobiliari e tecnico-estimative, sarebbe stato introdotto nell'art. 64 D.Lgs. n. 300/1999 del tutto inutilmente, trattandosi di previsioni già contemplate da precedenti norme di legge;
- la seconda ragione deve essere invece individuata nella necessità di fornire un’interpretazione dell'art. 64, comma 3-bis, che sia conforme a Costituzione.
A tale ultimo proposito, il Comune rammenta come le norme di legge, che contemplano l’imposizione di prestazioni patrimoniali, al fine di soddisfare il principio della riserva di legge ex art. 23 Costituzione, devono contenere un minimo di elementi necessari alla determinazione delle prestazioni. La norma in commento, invece, non predetermina alcun criterio, costituendo “implicita dimostrazione dell'assoluta discrezionalità con la quale l'imposizione in esame può essere determinata”.
Un'interpretazione costituzionalmente orientata della suddetta previsione legislativa, dunque, determinerebbe la necessità di limitarne l’applicazione alle sole ipotesi in cui l’attività dell'Agenzia non sia resa in attuazione di attività istituzionali, ma riguardi attività ulteriori, come l'erogazione di specifici servizi resi non nell'interesse della collettività ma di singoli. Solo per queste ultime ipotesi, secondo il ricorrente, non opererebbe il principio della "riserva di legge".
Nell’ipotesi in cui non si ritenesse corretta l'interpretazione del sopra citato comma 3-bis dell'art. 64 D.Lgs. n. 300/1999, viene chiesto di sollevare preliminare questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale della suddetta norma, per la prospettata violazione dell'art. 23 della Costituzione e del principio della riserva relativa di legge.
   2. Violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999 sotto ulteriore profilo; violazione del principio di ragionevolezza, violazione art. 3 della Costituzione.
Il Comune ricorrente richiama una pronuncia del TAR Liguria (sentenza della Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004), con la quale i giudici amministrativi si sono espressi in materia di provvedimenti tariffari in relazione a prestazioni rese dalla ASL nell'ambito di procedimenti di competenza del Comune, resi nell'interesse di singoli o della collettività.
In particolare, viene richiamato il principio, espresso in tale pronuncia, secondo il quale le prestazioni rese dall'ente pubblico nell'interesse di un privato devono far carico al privato istante, in quanto beneficiario dell'attività. Il Comune sostiene che "quand'anche il pagamento debba intendersi dovuto, non si vede la ragione per cui non si debba fare applicazione del principio individuato dalla richiamata sentenza: l'eventuale costo della prestazione ... dovrebbe al più far carico unicamente allo stesso privato ... in quanto beneficiario dell'attività, mentre appare del tutto ingiustificato porre l'onere in questione in capo al Comune".
Inoltre, secondo l'ente locale, "sia nell’ipotesi in cui l'onere venisse posto in capo al Comune sia allorché venisse posto in capo al privato, la sanzione pecuniaria predeterminata per legge verrebbe comunque irragionevolmente modificata dall'obbligo di pagare un’ulteriore somma … non determinata per legge ma lasciata all'arbitrio dell'Amministrazione finanziaria”.
Anche in questo caso viene chiesto di sollevare preliminare questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale della citata norma, per la prospettata violazione:
- del principio di ragionevolezza e dell'art. 3 della Costituzione (laddove dalla sua interpretazione se ne dovesse ricavare come facente capo al Comune e non al privato l’onere di rifondere l’Agenzia dei costi sostenuti per l’attività in esame);
- dell’art. 23 della Costituzione e del correlato principio di determinatezza della sanzione.
   3. Violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999 sotto ulteriore profilo.
Gli atti gravati violerebbero tale norma, poiché l'Agenzia ha chiesto il rimborso dei costi anche in assenza della stipula dell'accordo, che, invero, e a norma di legge, dovrebbe costituire il presupposto per esercitare la citata pretesa economica.
   4. Irragionevolezza e contraddittorietà intrinseca dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999; violazione dell'art. 3 della Costituzione; violazione del principio di leale collaborazione tra Enti pubblici; violazione art. 118 della Costituzione; illegittimità parziale della Convenzione triennale per gli esercizi 2012-2014 stipulata.
Con tale motivo di impugnazione il Comune ricorrente censura, in primo luogo, la contraddittorietà della norma, che, da una parte, stabilisce che l'attività svolta dall'Agenzia in favore dei Comuni debba essere regolata mediante accordi da stipulare con le singole Amministrazioni locali e, dall'altro, rimanda, per la determinazione dei costi, alla stipula di una Convenzione tra Agenzia e Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Il sistema delineato costituirebbe, inoltre, una violazione del principio di leale collaborazione tra enti, come ricavabile dall’art. 118 della Costituzione, poiché determina un’immotivata riduzione delle risorse attribuite ai Comuni per lo svolgimento delle attività di vigilanza in materia edilizia.
Si duole, poi, del fatto che la "determinazione dei costi contenuti nella Convenzione Triennale stipulata tra M.E.F. ed Agenzia ... è priva di qualsiasi motivazione e di qualsiasi collegamento a qualsiasi dato oggettivo certo. Si tratta invero della determinazione di un importo che appare elevato e sproporzionato e che sembra andare bel oltre la semplice individuazione dei costi sostenuti, rappresentando piuttosto un vero prezzo che l'Amministrazione Finanziaria pretende, così come potrebbe pretendere un qualsiasi operatore privato, trasformando di fatto l’attività svolta in una vera e propria attività commerciale, avente un effetto lucrativo ...".
In merito, il Comune conclude evidenziando che, se potesse rivolgersi al mercato per una simile attività, otterrebbe prezzi più vantaggiosi, considerando l’onerosità dei parametri individuati in sede di Convenzione M.E.F.- Agenzia, laddove è previsto che il "costo standard per giorno-uomo" è pari a 423,00 euro (da moltiplicare per i ''giorni-uomo di prodotto richiesto").
Il Ministero ritiene il ricorso infondato nel merito.
Ritiene, in particolare, che l'intervento legislativo di cui al D.L. n. 16/2012 (che ha aggiunto il comma 3-bis all’art. 64 del D.Lgs. n. 300/1999) avrebbe una portata più ampia di quella ritenuta dal ricorrente, il quale circoscrive l'ambito di applicazione del menzionato comma 3-bis alle sole attività "non rientranti nella normale attività istituzionale dell'Agenzia". In realtà, la descritta modifica normativa si inserisce nell’ambito di un più generale intervento, che ha eliminato la possibilità per l'Agenzia di effettuare attività estimative di natura "commerciale", facendo salve le sole attività di valutazione immobiliare a favore delle Amministrazioni dello Stato.
In tal senso, la normativa sopravvenuta si caratterizza per il carattere di generalità con il quale ha inteso regolamentare il settore, disciplinando in maniera uniforme la materia oggetto di intervento, tanto che le nuove competenze dell’Agenzia sono rivolte a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Nello stesso tempo, proprio il carattere generale ed istituzionale della nuova previsione normativa non esclude che, nel rapporto tra diverse norme succedutesi nel tempo, possano essere considerate ancora in vigore quelle che contemplino previsioni più specifiche, in ragione del principio di specialità.
Pertanto, continua il Ministero, laddove previgenti norme espressamente dispongano che le valutazioni estimative dell'Agenzia vengono svolte gratuitamente, queste continueranno a dispiegare i propri effetti (come accade, ad esempio, per le attività in favore del concessionario della riscossione in relazione ai beni oggetto di incanto). Con riferimento all'ipotesi di cui trattasi, invece, non si rinvengono pregresse previsioni normative, che espressamente prevedano la gratuità del servizio.
In tale ottica, privo di pregio sarebbe il richiamo della nota prot. n. 27110 del 03.05.2011, che faceva riferimento alla gratuità delle prestazioni valutative eseguite nell'ambito degli abusi edilizi, giacché la stessa era stata emanata in epoca precedente rispetto alla novella operata dal D.L. n. 16/2012.
Per quanto concerne gli asseriti profili di non conformità della nuova normativa con i dettami costituzionali, viene osservato come il principio di riserva di legge, di cui all'art. 23 Costituzione, secondo cui la norma deve contenere criteri e indicazioni per la determinazione dell'imposizione, sarebbe rispettato, prevedendo che sia la convenzione triennale con il M.E.F. a determinare il rimborso dei costi. Peraltro, viene rammentato che l'impugnata Convenzione ministeriale ha passato il vaglio della Corte dei Conti, venendo regolarmente registrata in data 19.09.2012.
Con riferimento al secondo ordine di censure, il Ministero giudica inconferente il richiamo alla citata sentenza del TAR Liguria, poiché quest’ultima fa riferimento ad attività effettuate su istanza di un privato. La questione in esame, invece, prescinderebbe da istanze del privato.
Né sarebbe corretta l'osservazione del Comune, secondo cui "la sanzione pecuniaria predeterminata per legge verrebbe modificata”, in quanto la somma da versare per l'espletamento dell'attività valutativa non ha rilevanza sanzionatoria, rivestendo la funzione di ristorare l'Amministrazione finanziaria dei costi sostenuti.
Avuto riguardo al terzo motivo di diritto, il Ministero puntualizza che gli accordi, cui fa riferimento il più volte citato comma 3-bis, sono funzionali alla regolamentazione delle attività da svolgere e non alla determinazione dei costi da rimborsare all'Agenzia, che è, invece, rimessa (dalla medesima disposizione) alla Convenzione M.E.F. – Agenzia. Per questo motivo, nella corrispondenza intercorsa con l'ente locale, l’Agenzia avrebbe legittimamente preteso il rimborso dei costi, pur in assenza dell'accordo con l’ente locale.
Per quanto riguarda, infine, il quarto ordine di doglianze, il Ministero richiama i provvedimenti che hanno condotto all’individuazione, in seno alla predetta Convezione, dei criteri di determinazione dei costi da chiedere a rimborso. Precisa, in merito, che la quantificazione dei costi è effettuata sulla base di due fattori: il “costo standard per giorno-uomo” e il numero di “giorni-uomo” necessari per la prestazione.
In ordine a quest'ultimo fattore, la determinazione dipende dal grado di complessità della valutazione ed per questo stabilita da ogni singolo Ufficio.
Il “costo standard per giorni-uomo” (fissato in euro 423,00) è stato, invece, determinato in sede convenzionale, considerando le voci di costo che ragionevolmente sono necessarie per garantire lo svolgimento "normale" dell'attività. E’ stato, in particolare, valutato l’apporto sia delle risorse umane, sia di quelle materiali e immateriali (che il Ministero indica compiutamente nella propria relazione), anche di quelle che incidono in maniera indiretta, in ogni caso in ragione dell'inerenza di tali voci alla produzione del servizio. Vengono, altresì, spiegati i motivi per i quali è stata esclusa una serie di ulteriori costi (di natura generale) che avrebbe ragionevolmente fatto lievitare l’importo riferito al citato costo standard.
Con nota prot. n. 37495 in data 29.10.2013 il Comune di Genova ha trasmesso all’Agenzia delle Entrate ricorso per motivi aggiunti avverso gli atti, in epigrafe indicati, concernenti note di addebito dell’Agenzia e comunicazioni, sopraggiunte in data successiva alla proposizione del ricorso. Con tale atto l’ente locale non introduce elementi sostanziali di novità rispetto al ricorso straordinario principale. L’Ufficio finanziario ha provveduto a trasmettere a questo Consiglio di Stato i menzionati motivi aggiunti, rimettendosi alle eccezioni già formulate nella relazione con la quale è stato chiesto il parere a questo Consiglio di Stato.
Con nota prot. n. 257224 in data 11.08.2015 il Comune di Genova ha inviato a questo Consiglio di Stato (e per conoscenza all'Agenzia delle Entrate e al Ministero dell'Economia e delle Finanze) le proprie repliche alla relazione ministeriale, alle quali non sono seguite osservazioni da parte del Ministero riferente.
In esse, con riferimento al primo motivo di diritto, viene evidenziato come non risulti contestato dalla richiamata relazione la natura di prestazione patrimoniale "imposta" (soggetta a riserva relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione) delle prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate, in costanza del fatto che le stesse sono somme richieste in ragione di attività istituzionale obbligatoria. Tali, importi, pertanto, sarebbero stati ingiunti in violazione del sopra richiamato principio costituzionale, in costanza di una norma di legge (art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999) che non predetermina alcun criterio, né alcun limite in ordine alla discrezionalità dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità dell'importo dovuto. Del tutto inconferenti, inoltre, sarebbero le argomentazioni del Ministero concernenti la successione delle leggi nel tempo, rispetto al dedotto vizio di violazione dell'art. 23 della Costituzione.
In merito alle eccezioni ministeriali relative al secondo motivo di diritto (riguardante l’attinenza al caso di specie della citata sentenza del Tar Liguria), sottolinea, fra l’altro, come il procedimento di "sanatoria" richieda necessariamente l'istanza del privato. Simili considerazioni vengono effettuate anche per quanto concerne i procedimenti sanzionatori, avviati in seguito ad attività illecite di singoli privati.
Nel ribadire quanto, nella sostanza, già dedotto nel ricorso principale, con riferimento al terzo motivo di diritto, evidenzia, in ordine al quarto motivo di doglianza, che il Ministero ha omesso di contestarne il merito, peraltro, introducendo ex post un apparato motivazionale teso a dimostrare le modalità di determinazione della tariffa applicata.
Considerato:
Il ricorso è infondato.
L’ente locale ricorrente, con articolate argomentazioni, tenta di delimitare l’alveo di applicazione del comma 3-bis dell’art. 64, D.Lgs. n. 300/1999, ai soli corrispettivi dovuti per l'erogazione di servizi resi non nell'interesse della collettività ma di singoli, escludendo quelli connessi alle attività istituzionali dell'Agenzia, comprese quelle su cui si controverte, concernenti la valutazione immobiliare e tecnico-estimativa, ex artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001, n. 380 e artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n. 16, necessaria ai fini della liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero dell'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità.
Il fine dell’esclusione di queste tipologie di attività dalla novella legislativa di cui all’art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44), che ha introdotto il citato comma 3-bis, è quello di limitare l'onerosità degli interventi dell'Agenzia alle sole ipotesi in cui l’attività sia eseguita a favore di terzi privati, con il conseguente trattamento gratuito delle richieste pervenute dalle altre Amministrazioni dello Stato, trattandosi, in questo caso, di attività resa in attuazione di obblighi istituzionali, che imporrebbero il venir meno del presupposto impositivo.
A sostegno dell’impostazione ermeneutica formulata dal ricorrente, quest’ultimo rammenta che, prima dell’intervento normativo in parola, la stessa Agenzia aveva fornito indicazione in tal senso nella citata nota prot. n. 27110 del 03.05.2011.
La necessità di circoscrivere l’ambito di applicazione della citata norma deriverebbe da una lettura costituzionalmente orientata della stessa, nel rispetto del principio della riserva di legge ex art. 23 Costituzione, la cui osservanza richiede, ad avviso del ricorrente, che siano almeno predeterminati, in via legislativa, criteri idonei a quantificare la misura della prestazione patrimoniale imposta e a delimitare l'ambito della discrezionalità dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità dell'importo dovuto.
Il citato comma 3-bis, invece, non predeterminerebbe alcun criterio, lasciando al potere discrezionale dell’Amministrazione la possibilità di determinare unilateralmente il livello di imposizione, il cui concreto esercizio, sempre secondo il ragionamento della parte ricorrente (vds. quarto motivo di diritto), ha fatto sì che fosse impossibile commisurare la prestazione pecuniaria alla quantità e qualità del servizio reso dall'Agenzia.
Il Collegio ritiene che la pretesa interpretazione costituzionalmente orientata della norma in commento, offerta dal ricorrente, e le connesse censure dedotte avverso gli atti impugnati appaiono manifestamente infondate, alla stregua di quanto già rilevato dalla stessa Corte Costituzionale in diverse pronunce.
In particolare,
non è in dubbio che le prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate (ex Agenzia del Territorio) possano annoverarsi nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte, soggette a riserva relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione.
Trattasi di prestazioni che (analogamente alle tariffe richieste da talune Amministrazioni per le attività di consulenza e supporto tecnico nei confronti dei privati e degli enti locali – vds. nel senso sia la sentenza del TAR Liguria, Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004, citata dal ricorrente, sia la sentenza della Corte Costituzionale n. 180/1996, richiamata, a sua volta, nella pronuncia del TAR ligure) sono determinate con unilaterale atto autoritativo, alla cui adozione non concorre la volontà della controparte, la quale si limita ad avvalersi di un servizio normativamente riservato alla mano pubblica e a corrispondere, in contropartita, una predeterminata prestazione economica.
Come è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale,
la prestazione si qualifica come "obbligatoria" quando questa è istituita da un atto di autorità (sent. 08.07.1957, n. 122) a carico del soggetto tenuto, senza che la volontà di questo vi abbia concorso (sent. 27.06.1959, n. 36).
Con riferimento a tale elemento, è da rilevare, nella giurisprudenza della Corte, un processo estensivo rispetto alle fattispecie originariamente determinate, allorché vennero annoverate tra le "prestazioni imposte" le tariffe telefoniche.
Non ostano, secondo tale orientamento, alla inclusione nella suddetta categoria, il carattere privatistico del rapporto in cui la prestazione si inserisce, né la circostanza che la richiesta del servizio (in esclusiva allo Stato) sia correlata ad un atto privato.
Quando si tratta di un servizio "riservato alla mano pubblica" e l'uso di esso "sia da considerare essenziale ai bisogni della vita", la determinazione delle tariffe deve assimilarsi ad una vera e propria imposizione patrimoniale.
La libertà di stipulare il contratto è meramente formale, in quanto si riduce alla possibilità di scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritativamente prefissati. In base a questo indirizzo, il carattere unilaterale ed autoritario della prestazione viene ad identificare come obbligatorie anche le prestazioni su richiesta, quando esse siano connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di monopolio.
Sicché,
quel che viene in considerazione sotto il profilo costituzionale è solo la previsione, quale corrispettivo del servizio stesso, di un prezzo imposto (sent. 07-15.03.1994, n. 90), che, nel caso di specie, è comprensivo dell’ammontare dei costi sostenuti dall’Agenzia e che l’ente richiedente il servizio è chiamato a rifondere.
Appurato il carattere di prestazione obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia", è necessario verificare se tale parametro rispetti il principio della riserva relativa di legge, la quale non esige che la prestazione sia imposta "per legge" (da cui risultino espressamente individuati tutti i presupposti e gli elementi), ma richiede soltanto che essa sia istituita "in base alla legge" (sentenze nn. 236 e 90 del 1994, e n. 180/1996). Sicché, la norma costituzionale deve ritenersi rispettata anche in assenza di un'espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità della pubblica amministrazione, purché gli stessi siano desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero dalla composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinarne la misura (sentenze n. 182/1994 e n. 507/1988), secondo un modulo procedimentale idoneo ad evitare possibili arbitrii.
Nel caso di specie,
dalla citata norma emergono non solo l'espressa compiuta identificazione dei soggetti tenuti alla prestazione e dell'oggetto, nonché dello scopo di questa, ma implicitamente anche quei limiti e controlli sufficienti a impedire che il potere di imposizione sconfini nell'arbitrio. È vero, infatti, che la norma in esame prescrive “il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia”, la cui determinazione, in via convenzionale, è rimessa dalla stessa norma ad organi dell’Amministrazione, dotati di spiccata competenza tecnica, che forniscono garanzia di oggettività nella concreta determinazione dell'onere e di adeguata ponderazione tecnica dei molteplici elementi implicati nella valutazione. Quest’ultima presuppone che vengano motivatamente considerati i costi complessivamente sostenuti dall’Agenzia, restando, anche sotto tale profilo, soggetta ai controlli, non escluso quello contabile.
In merito, è appena il caso di sottolineare che l'impugnata Convenzione ministeriale, che si è occupata della determinazione dei costi, è stata sottoposta al vaglio della Corte dei Conti, prima di essere ritualmente registrata.
Alla luce di quanto sopra, deriva, quindi, che risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla parte ricorrente, in ordine alla pretesa violazione dell’art. 23 della Costituzione ad opera dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999.
Per tali stessi motivi manifestamente infondato appare anche il secondo ordine di censure e la conseguente questione di costituzionalità.
Come evidenziato,
non assume alcun rilievo, ai fini dell’osservanza dell'art. 23 della Costituzione, la circostanza che una norma imponga determinate prestazioni economiche ad un privato o a un soggetto pubblico. Ciò premesso, il ragionamento del ricorrente appare contraddittorio nella parte in cui, con riferimento al primo motivo di diritto insiste sull’attività istituzionale dell’Agenzia in quanto svolta verso altro ente pubblico nell’interesse della collettività, salvo poi affermare che, laddove il pagamento dovesse intendersi dovuto, l'eventuale costo della prestazione “dovrebbe al più far carico unicamente allo stesso privato”, contraddicendosi nuovamente nel momento in cui ammette che tali valutazioni sono finalizzate, fra l’altro, all’applicazione di sanzioni o quando si afferma che le stesse incidono sulle risorse pubbliche a disposizione del Comune, richiamando nuovamente la circostanza che l’attività posta in essere dall’Agenzia è un’attività istituzionale resa nell'interesse della collettività.
Del tutto fuorviante, appare quindi, l’asserita violazione del principio della determinatezza della sanzione, poiché, come osservato, a prescindere dal surrettizio e contraddittorio ragionamento sviluppato dal ricorrente,
la menzionata pretesa economica ricade sull’ente e non sul privato e non ha alcuna valenza sanzionatoria, essendo chiaramente finalizzato al ristoro degli oneri sopportati dall’Agenzia.
Con riferimento al terzo motivo di diritto, con il quale il ricorrente si duole della circostanza che l'Agenzia ha chiesto il rimborso dei costi senza aspettare che fossero stipulati i prescritti accordi, è sufficiente constatare che la citata norma rimette la determinazione dei costi da rimborsare all'Agenzia alla Convenzione M.E.F. – Agenzia in ragione dei servizi richiesti. Gli accordi, di cui viene fatta menzione, sempre nella stessa norma, sono preordinati, ai sensi dell’art. 15 della Legge n. 241/1990, a “disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”, che, pur rilevando nella fase attuativa, non incidono sulla legittimità della pretesa economica in ragione del presupposto individuato dalla norma.
Il fatto, poi, che la norma contempli espressamente la necessità che si formalizzino tali intese tra l’Agenzia e l’ente che richiede i servizi, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente nel quarto motivo, appare proprio finalizzato a dare la massima attuazione al principio di leale collaborazione tra enti.
Né tale principio può in qualche modo essere posto in discussione in ordine alla determinazione del quantum debeatur, atteso il principio dell’“obbligatorietà” delle prestazioni patrimoniali imposte. Né, ancora, all’ente impositore si richiede una particolare motivazione in ordine alla quantificazione dell’importo da chiedere a rimborso, essendo sufficiente, come dimostrato dal Ministero, che siano stati compiutamente indicati i costi, che direttamente o indirettamente hanno inciso per lo svolgimento delle attività richieste.
Peraltro, l’importo richiesto a rimborso, nella fase transitoria, ossia in attesa della stipula dei menzionati accordi, non può essere giudicato irragionevolmente oneroso, dal momento che l’Agenzia ha imposto ai propri uffici territoriali una soglia massima commisurata al 50% della sanzione.
P.Q.M.
esprime il parere che
il ricorso debba essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 03.02.2016 n. 224 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl comune che, nell'esercizio della propria attività istituzionale in materia edilizia, richiede alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio) le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità, è tenuto a rifondere alla stessa i relativi costi sostenuti di perizia.
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N
on può il Comune validamente sostenere che l’onerosità del servizio potrebbe recare un eventuale depotenziamento dell'attività di controllo e vigilanza degli Enti locali.
Si tratta, infatti, di considerazioni che attengono all’opportunità politica delle scelte operate dal legislatore, potendosi validamente sostenere anche il contrario, ossia che la gratuità dei servizi in commento comporterebbero il depotenziamento delle agenzie fiscali.

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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, proposto dal COMUNE DI SANT’OLCESE, in persona del Sindaco pro-tempore Sig. An.Ca., per l'annullamento delle note prot. n. 14343/2013/1991/2013 del 19/02/2013; prot. n. 2850.13 del 11/03/2013; prot. n. 2850/13/3842 del 03/04/2013; prot. n. 3842/13/6872 del 13/06/2013; prot. n. 2407/2013/2652-13; prot. n. 2924/2013/3009; prot. n. 3841; prot. n. 5832/13/6890; e di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale, compresa in parte qua, della Convenzione triennale per gli esercizi 2012-2014 sottoscritta il 30.07.2012 tra l'Agenzia delle Entrate ed il Ministero dell'Economia e delle Finanze.
...
Premesso:
Il Comune di Sant’Olcese, nell'esercizio della propria attività istituzionale in materia edilizia, richiede ordinariamente alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio, ex art. 23-quater del D.L. 06.07.2012, n. 95, inserito dalla Legge di conversione 07.08.2012, n. 135) le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità.
Tale procedura è contemplata dagli artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001, n. 380, nonché dagli artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n. 16.
Con note di analogo contenuto, l’Ufficio Provinciale della predetta Agenzia dava riscontro a diverse richieste (riferite a distinti interventi edilizi), richiamando il disposto del D.Lgs. 30.07.1999, n. 300, art. 64, comma 3-bis (comma aggiunto dall'art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44), ai sensi del quale "…l'Agenzia del territorio è competente a svolgere le attività di valutazione immobiliare e tecnico-estimative richieste dalle Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad esse strumentali. Le predette attività sono disciplinate mediante accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni. Tali accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella Convenzione di cui all'articolo 59" (Convenzione triennale tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia).
Il suddetto Ufficio Provinciale comunicava, pertanto, la necessità di procedere alla preliminare stipula di specifici accordi (“protocolli d’intesa”) per il rimborso dei costi sostenuti. A tali riscontri, il Comune di Genova, nel considerare tale attività istruttoria una funzione istituzionale obbligatoria, rappresentava all'Agenzia che un simile comportamento ostruzionistico avrebbe potuto arrecare gravi responsabilità per l'Ente locale.
Il menzionato Ufficio, con nota in data 02.04.2013, comunicava al Comune che avrebbe, comunque, proceduto ad espletare le attività valutative richieste, nelle more del perfezionamento dell'accordo, ma sempre dietro corresponsione di un rimborso dei costi, nel limite massimo del 50% della sanzione. Tale comunicazione richiamava le direttive in materia, emanate dalla competente Direzione Centrale Osservatorio Mercato Immobiliare e Servizi Estimativi dell’Agenzia delle Entrate.
Con successive note l'Agenzia ribadiva la propria posizione per altre singole pratiche.
Contro i citati atti, come meglio individuati in epigrafe, insorge il Comune di Genova, il quale affida il proprio gravame ai seguenti motivi di diritto:
   1. violazione e/o falsa applicazione del disposto dell'art. 64, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 300 del 1999; violazione dell'art. 23 della Costituzione; violazione del principio di riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte.
Il Comune ritiene che l’attività esercitata dall'Agenzia, tesa a fornire aggiornate valutazioni immobiliari ai fini dell'applicazione delle sanzioni pecuniarie per violazioni edilizie o procedimenti di accertamento di conformità, rientri nell’ambito delle funzioni istituzionali attribuitele dalla legge (artt. 33 e ss. del D.P.R n. 380/2001 e corrispondenti norme regionali, artt. 43 e ss. della Legge Regione Liguria n. 16 del 2008). Da tale evidenza discenderebbe il carattere gratuito delle prestazioni dovute in forza delle richiamate disposizioni, come confermato, a suo tempo, dalla stessa Direzione Centrale dell'Agenzia con nota prot. n. 27110 del 03.05.2011.
Il disposto di cui al citato comma 3-bis dell'art. 64 del D.Lgs. n. 300/1999, deve, pertanto, "intendersi riferito alle sole attività ulteriori rispetto a quelle, istituzionali, già previste da anteriori disposizioni normative… Diversamente, da un punto di vista logico-sistematico la disposizione in questione risulterebbe del tutto inutile. In secondo luogo, la previsione di legge in esame non predetermina alcun criterio, né alcun limite o controllo, idonei a circoscrivere l'ambito di discrezionalità dell’Amministrazione statale nel commisurare l'importo asseritamente dovuto e, ancor prima, la sfera di applicazione della ritenuta onerosità delle prestazioni in materia di valutazioni immobiliari. Ed anzi, la stessa entità degli oneri ..., fissata in virtù di una semplice convenzione tra Ministero dell’Economia e Agenzia del Territorio, costituisce implicita dimostrazione dell’assoluta discrezionalità -al limite dell’arbitrio- in base alla quale l'imposizione in esame potrebbe essere determinata".
Un'interpretazione costituzionalmente orientata della suddetta previsione legislativa, dunque, determinerebbe la necessità di limitarne l’applicazione alle sole ipotesi in cui l’attività dell'Agenzia non sia resa in attuazione di attività istituzionali, ma riguardi attività ulteriori, come l'erogazione di specifici servizi resi non nell'interesse della collettività ma di singoli. Solo per queste ultime ipotesi, secondo il ricorrente, non opererebbe il principio della "riserva di legge".
   2. violazione dell'art. 97 della Costituzione; violazione del principio di ragionevolezza dell'azione amministrativa; eccesso di potere; contraddittorietà; manifesta esosità; assenza di causa.
Le pretese avanzate dall’Agenzia delle Entrate contrasterebbero con il principio di ragionevolezza, poiché subordinano il rilascio di atti concernenti attività istituzionali al previo pagamento di “indebite somme di denaro”. Il Comune ricorrente richiama una pronuncia del TAR Liguria (sentenza della Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004), con la quale i giudici amministrativi si sono espressi in materia di provvedimenti tariffari in relazione a prestazioni rese dalla ASL nell'ambito di procedimenti di competenza del Comune, resi nell'interesse di singoli o della collettività.
Lamenta, inoltre, la "manifesta esosità" delle pretese economiche, affermando come, "nonostante la loro qualificazione in termini di mero rimborso-costi, la consistenza degli importi richiesti da parte dell’Agenzia -oltre 400 euro al giorno per persona- è tale da comportare che detti emolumenti debbano necessariamente intendersi come vere e proprie retribuzioni (per quanto eccessivamente sproporzionate) dell'attività svolta".
   3. Violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui all'art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 300 del 1999.
Il comportamento dell’Agenzia non sarebbe in linea con la menzionata disposizione, ove si fa riferimento alle Agenzie quali strutture che svolgono attività di interesse nazionale, al servizio delle Amministrazioni pubbliche.
   4. Violazione delle disposizioni in materia di vigilanza urbanistica e di controllo dell'abusivismo edilizio.
Con tale motivo di impugnazione il Comune ricorrente lamenta il fatto che sottoporre "ad oneri particolarmente gravosi per le Amministrazioni comunali l'attività di irrogazione delle sanzioni in materia di abusivismo edilizio ha come riflesso immediato il depotenziamento - e lo svilimento - dell'attività di controllo e vigilanza degli Enti locali".
Il Ministero ritiene il ricorso infondato nel merito.
Ritiene, in particolare, che l'intervento legislativo di cui al D.L. n. 16/2012 (che ha aggiunto il comma 3-bis all’art. 64 del D.Lgs. n.300/1999) avrebbe una portata più ampia di quella ritenuta dal ricorrente, il quale circoscrive l'ambito di applicazione del menzionato comma 3-bis alle sole attività "non rientranti nella normale attività istituzionale dell'Agenzia". In realtà, la descritta modifica normativa si inserisce nell’ambito di un più generale intervento, che ha eliminato la possibilità per l'Agenzia di effettuare attività estimative di natura "commerciale", facendo salve le sole attività di valutazione immobiliare a favore delle Amministrazioni dello Stato.
In tal senso, la normativa sopravvenuta si caratterizza per il carattere di generalità con il quale ha inteso regolamentare il settore, disciplinando in maniera uniforme la materia oggetto di intervento, tanto che le nuove competenze dell’Agenzia sono rivolte a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Nello stesso tempo, proprio il carattere generale ed istituzionale della nuova previsione normativa non esclude che, nel rapporto tra diverse norme succedutesi nel tempo, possano essere considerate ancora in vigore quelle che contemplino previsioni più specifiche, in ragione del principio di specialità. Pertanto, continua il Ministero, laddove previgenti norme espressamente dispongano che le valutazioni estimative dell'Agenzia vengono svolte gratuitamente, queste continueranno a dispiegare i propri effetti (come accade, ad esempio, per le attività in favore del concessionario della riscossione in relazione ai beni oggetto di incanto). Con riferimento all'ipotesi di cui trattasi, invece, non si rinvengono pregresse previsioni normative, che espressamente prevedano la gratuità del servizio.
Per quanto concerne gli asseriti profili di non conformità della nuova normativa con i dettami costituzionali, viene osservato come il principio di riserva di legge, di cui all'art. 23 Costituzione, secondo cui la norma deve contenere criteri e indicazioni per la determinazione dell'imposizione, sarebbe rispettato, prevedendo che sia la convenzione triennale con il M.E.F. a determinare il rimborso dei costi. Peraltro, viene rammentato che l'impugnata Convenzione ministeriale ha passato il vaglio della Corte dei Conti, venendo regolarmente registrata in data 19.09.2012.
Con riferimento al secondo ordine di censure, il Ministero richiama i provvedimenti che hanno condotto all’individuazione, in seno alla predetta Convezione, dei criteri di determinazione dei costi da chiedere a rimborso. Precisa, in merito, che la quantificazione dei costi è effettuata sulla base di due fattori: il “costo standard per giorno-uomo” e il numero di “giorni-uomo” necessari per la prestazione.
In ordine a quest'ultimo fattore, la determinazione dipende dal grado di complessità della valutazione e, per questo, stabilita da ogni singolo Ufficio.
Il “costo standard per giorni-uomo” (fissato in euro 423,00) è stato, invece, determinato in sede convenzionale, considerando le voci di costo che ragionevolmente sono necessarie per garantire lo svolgimento "normale" dell'attività. E’ stato, in particolare, valutato l’apporto sia delle risorse umane, sia di quelle materiali e immateriali (che il Ministero indica compiutamente nella propria relazione), anche di quelle che incidono in maniera indiretta, in ogni caso in ragione dell'inerenza di tali voci alla produzione del servizio. Vengono, altresì, spiegati i motivi per i quali è stata esclusa una serie di ulteriori costi (di natura generale) che avrebbe ragionevolmente fatto lievitare l’importo riferito al citato costo standard.
Avuto riguardo al terzo motivo di diritto, il Ministero giudica generica ed apodittica la doglianza relativa alla presunta inosservanza del citato articolo 8. Inoltre, rammenta come, nel sistema di riforma delineato dal D.Lgs. n. 300/1999, alle agenzie fiscali è stata riservata una disciplina specifica, nell’ambito della quale l’art. 10 dello stesso decreto legislativo prevede che "le agenzie fiscali sono disciplinate, anche in deroga agli articoli 8 e 9, dalle disposizioni del Capo II del Titolo V del presente decreto ...".
Infine, in ordine all’ultima censura, viene rilevato “come l'attività di controllo e di vigilanza demandata dall'ordinamento non possa subire depotenziamenti o svilimenti a causa delle modalità fissate dal medesimo ordinamento per giungere alla repressione degli illeciti ed alla correlata irrogazione delle sanzioni”.
Considerato:
Il ricorso è infondato.
L’ente locale ricorrente tenta di delimitare l’alveo di applicazione del comma 3-bis dell’art. 64, D.Lgs. n. 300/19999, ai soli corrispettivi dovuti per l'erogazione di servizi resi non nell'interesse della collettività ma di singoli, escludendo quelli connessi alle attività istituzionali dell'Agenzia, comprese quelle su cui si controverte, concernenti la valutazione immobiliare e tecnico-estimativa, ex artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001, n. 380 e artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n. 16, necessaria ai fini della liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero dell'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità.
Il fine dell’esclusione di queste tipologie di attività dalla novella legislativa di cui all’art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44), che ha introdotto il citato comma 3-bis, è quello di limitare l'onerosità degli interventi dell'Agenzia alle sole ipotesi in cui l’attività sia eseguita a favore di terzi privati, con il conseguente trattamento gratuito delle richieste pervenute dalle altre Amministrazioni dello Stato, trattandosi, in questo caso, di attività resa in attuazione di obblighi istituzionali, che imporrebbero il venir meno del presupposto impositivo.
La necessità di circoscrivere l’ambito di applicazione della citata norma deriverebbe da una lettura costituzionalmente orientata della stessa, nel rispetto del principio della riserva di legge ex art. 23 Costituzione, la cui osservanza richiede, ad avviso del ricorrente, che siano almeno predeterminati, in via legislativa, criteri idonei a quantificare la misura della prestazione patrimoniale imposta e a delimitare l'ambito della discrezionalità dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità dell'importo dovuto. Il citato comma 3-bis, invece, non predeterminerebbe alcun criterio, lasciando al potere discrezionale dell’Amministrazione la possibilità di determinare unilateralmente il livello di imposizione, il cui concreto esercizio, sempre secondo il ragionamento della parte ricorrente (vds. quarto motivo di diritto), ha fatto sì che fosse impossibile commisurare la prestazione pecuniaria alla quantità e qualità del servizio reso dall'Agenzia.
Il Collegio ritiene che la pretesa interpretazione costituzionalmente orientata della norma in commento, offerta dal ricorrente, e le connesse censure dedotte avverso gli atti impugnati appaiono manifestamente infondate, alla stregua di quanto già rilevato dalla stessa Corte Costituzionale in diverse pronunce.
In particolare,
non è in dubbio che le prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate (ex Agenzia del Territorio) possano annoverarsi nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte, soggette a riserva relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione. Trattasi di prestazioni che (analogamente alle tariffe richieste da talune Amministrazioni per le attività di consulenza e supporto tecnico nei confronti dei privati e degli enti locali – vds. nel senso sia la sentenza del TAR Liguria, Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004, citata dal ricorrente, sia la sentenza della Corte Costituzionale n. 180/1996, richiamata, a sua volta, nella pronuncia del TAR ligure) sono determinate con unilaterale atto autoritativo, alla cui adozione non concorre la volontà della controparte, la quale si limita ad avvalersi di un servizio normativamente riservato alla mano pubblica e a corrispondere, in contropartita, una predeterminata prestazione economica.
Come è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale,
la prestazione si qualifica come "obbligatoria", quando questa è istituita da un atto di autorità (sent. 08.07.1957, n. 122) a carico del soggetto tenuto, senza che la volontà di questo vi abbia concorso (sent. 27.06.1959, n. 36).
Con riferimento a tale elemento, è da rilevare, nella giurisprudenza della Corte, un processo estensivo rispetto alle fattispecie originariamente determinate, allorché vennero annoverate tra le "prestazioni imposte" le tariffe telefoniche.
Non ostano, secondo tale orientamento, alla inclusione nella suddetta categoria, il carattere privatistico del rapporto in cui la prestazione si inserisce, né la circostanza che la richiesta del servizio (in esclusiva allo Stato) sia correlata ad un atto privato.
Quando si tratta di un servizio "riservato alla mano pubblica" e l'uso di esso "sia da considerare essenziale ai bisogni della vita", la determinazione delle tariffe deve assimilarsi ad una vera e propria imposizione patrimoniale.
La libertà di stipulare il contratto è meramente formale, in quanto si riduce alla possibilità di scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritativamente prefissati. In base a questo indirizzo, il carattere unilaterale ed autoritario della prestazione viene ad identificare come obbligatorie anche le prestazioni su richiesta, quando esse siano connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di monopolio.
Sicché,
quel che viene in considerazione sotto il profilo costituzionale è solo la previsione, quale corrispettivo del servizio stesso, di un prezzo imposto (sent. 07-15.03.1994, n. 90), che, nel caso di specie, è comprensivo dell’ammontare dei costi sostenuti dall’Agenzia e che l’ente richiedente il servizio è chiamato a rifondere.
Appurato il carattere di prestazione obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia", è necessario verificare se tale parametro rispetti il principio della riserva relativa di legge, la quale non esige che la prestazione sia imposta "per legge" (da cui risultino espressamente individuati tutti i presupposti e gli elementi), ma richiede soltanto che essa sia istituita "in base alla legge" (sentenze nn. 236 e 90 del 1994, e n. 180/1996). Sicché, la norma costituzionale deve ritenersi rispettata anche in assenza di un'espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità della pubblica amministrazione, purché gli stessi siano desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero dalla composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinarne la misura (sentenze n. 182/1994 e n. 507/1988), secondo un modulo procedimentale idoneo ad evitare possibili arbitrii.
Nel caso di specie,
dalla citata norma emergono, non solo l'espressa compiuta identificazione dei soggetti tenuti alla prestazione e dell'oggetto, nonché dello scopo di questa, ma implicitamente anche quei limiti e controlli sufficienti a impedire che il potere di imposizione sconfini nell'arbitrio. È vero, infatti, che la norma in esame prescrive “il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia”, la cui determinazione, in via convenzionale, è rimessa dalla stessa norma ad organi dell’Amministrazione, dotati di spiccata competenza tecnica, che forniscono garanzia di oggettività nella concreta determinazione dell'onere e di adeguata ponderazione tecnica dei molteplici elementi implicati nella valutazione. Quest’ultima presuppone che vengano motivatamente considerati i costi complessivamente sostenuti dall’Agenzia, restando, anche sotto tale profilo, soggetta ai controlli, non escluso quello contabile.
In merito, è appena il caso di sottolineare che l'impugnata Convenzione ministeriale, che si è occupata della determinazione dei costi, è stata sottoposta al vaglio della Corte dei Conti, prima di essere ritualmente registrata.
Per tali stessi motivi manifestamente infondato appare anche il secondo ordine di censure, non essendo richiesto all’ente impositore una particolare motivazione in ordine alla quantificazione dell’importo a rimborso, essendo sufficiente, come dimostrato dal Ministero, che siano stati compiutamente indicati i costi, che direttamente o indirettamente hanno inciso per lo svolgimento delle attività richieste.
Peraltro, l’importo a rimborso, nella fase transitoria, ossia in attesa della stipula dei menzionati accordi, non può essere giudicato irragionevolmente oneroso, dal momento che l’Agenzia ha imposto ai propri uffici territoriali una soglia massima commisurata al 50% della sanzione.
Assolutamente infondate appaiono il terzo e quarto motivo di diritto.
In particolare, l'art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 300/1999, ritenuto essere stato asseritamente violato, può, invero, essere derogato per espressa previsione dell’art. 10, ove è specificato che “le agenzie fiscali sono disciplinate, anche in deroga agli articoli 8 e 9, dalle disposizioni del Capo II del Titolo V del presente decreto legislativo ed alla loro istituzione si provvede secondo le modalità e nei termini ivi previsti”.
Con riferimento all’ultimo motivo di diritto,
non può il Comune validamente sostenere che l’onerosità del servizio potrebbe recare un eventuale depotenziamento dell'attività di controllo e vigilanza degli Enti locali.
Si tratta, infatti, di considerazioni che attengono all’opportunità politica delle scelte operate dal legislatore,
potendosi validamente sostenere anche il contrario, ossia che la gratuità dei servizi in commento comporterebbero il depotenziamento delle agenzie fiscali.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 03.02.2016 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

QUINDI??

     Quindi, si possono trarre due certezze sulla quaestio juris qui in disamina e cioè:
1)
le spese conseguenti alle richieste comunali alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio) circa le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità, sono in capo all'Amministrazione comunale stessa;
2) appurato il carattere di prestazione obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia",
la menzionata pretesa economica ricade sull’ente e non sul privato la quale non ha alcuna valenza sanzionatoria, essendo chiaramente finalizzata al ristoro degli oneri sopportati dall’Agenzia.

   Sicché, ignorando i suddetti pronunciamenti giurisprudenziali, sono destituite di fondamento le tesi (contrarie) prospettate:

a) dal sito www.entionline.it, nella propria circolare 02.09.2016 -di aggiornamento Area Tecnica-, laddove -dopo aver concluso la dissertazione- così recita: "In definitiva, la risoluzione del contrasto tra l'Agenzia delle entrate ed il Comune va risolta a favore della Agenzia delle entrate, con pagamento del rimborso in applicazione dei citati artt. 64, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 300/1999 e 1372 c.c., e del principio di leale collaborazione da pubbliche amministrazioni. Il pagamento va effettuato secondo le modalità previste nell'accordo-convenzione, a seguito dell'effettivo svolgimento dell'attività estimativa, e nell'importo previsto in convenzione, indipendentemente dalla acquisizione, in atti, delle pezze giustificative."- si sostiene quanto segue: "Ciò premesso, il “contraccolpo” negativo derivante da tale risoluzione del contrasto è costituito dalla minore entrata da sanzioni di cui il Comune può beneficiare, che può essere neutralizzata dal Comune ponendo a carico dell'autore dell'abuso i costi dell'attività estimativa svolta dall'Agenzia delle Entrate, non potendo tale costo rimanere accollato al Comune medesimo, posto che si tratta di una conseguenza diretta ed immediata derivante dall'illecito edilizio, in quanto tale imputabile all'autore dell'illecito medesimo. In altri termini, l'importo del rimborso va addebitato al richiedente la sanatoria edilizia unitamente alla sanzione pecuniaria. In tal modo, il Comune consegue, non attraverso un contenzioso con l'Agenzia che sarebbe in contrasto con le disposizioni in precedenza citate e con il principio di leale collaborazione, ma direttamente attraverso la propria attività amministrativa, l'obiettivo di beneficiare, in misura integrale, delle entrante derivanti dalle sanzioni pecuniarie per gli abusi edilizi.";

b) dal sito http://portale.ancitel.it, riscontrando al quesito di un comune, laddove nella propria risposta 03.09.2016, in primis, si afferma che "...l’Agenzia delle Entrate territorialmente competente è legittimata a chiedere che le attività peritali d’interesse siano oggetto di appositi accordi (convenzione, protocollo d’intesa, ecc.). L’organo tecnico individuato dalla stessa legge, se pure in un ambito istituzionale di collaborazione tra enti pubblici, è quindi autorizzato a richiedere il rimborso dei costi (effettivamente) sostenuti per lo svolgimento dell’attività peritale richiestagli" concludendo, tuttavia, che "Per quanto concerne infine la possibilità di trasferire sul soggetto che ha commesso l’abuso anche il costo della perizia, chi scrive ritiene che tutto ciò sia praticabile a condizione che in sede di richiesta di sanatoria, lo stesso soggetto dichiari espressamente di volersi accollare, in aggiunta alle eventuali spese contrattuali e a quella della sanzione pecuniaria inflitta, anche l’onere economico, già convenzionalmente definito con l’Agenzia delle Entrate territorialmente competente, per lo svolgimento dell'attività di valutazione immobiliare del proprio immobile. Sotto il profilo contabile, il Comune incamererà ed impegnerà questa specifica somma sull’apposito capitolo di spesa "Spese anticipate per conto di altri”,

evidenziato ciò al solo fine di ripristinare il corretto "modus operandi" sicché gli operatori dell'UTC non debbano trovarsi a risponderne in prima persona trascinati in cause di giustizia.
11.10.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il CdS sconfessa il TAR-BS circa il corretto modus procedendi per la quantificazione della sanzione ex art. 167 dlgs 42/2004.
Il calcolo della sanzione, computata sul valore di quella parte dell’immobile oggetto dell'intervento (così come evidenziato nella relazione allegata al provvedimento impugnato in primo grado), non pare corrispondere al criterio legislativo (art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) fissato nel maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.
Detto altrimenti, nel caso di accertata compatibilità paesaggistica (art. 167 dlgs 42/2004), il "profitto conseguito" non corrisponde all’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le regole che tutelano il bene vincolato.

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... per la riforma dell'ordinanza cautelare 23.05.2016 n. 376 del TAR Lombardia, sezione staccata di Brescia, resa tra le parti, concernente pagamento di una sanzione pecuniaria a seguito di accertamento di compatibilità paesistica.
...
Considerato che il calcolo della sanzione, computata sul valore di quella parte dell’immobile oggetto dell'intervento (così come evidenziato nella relazione allegata al provvedimento impugnato in primo grado), non pare corrispondere al criterio legislativo (art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) fissato nel maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) accoglie l'appello (ricorso numero: 5818/2016) e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, accoglie l'istanza cautelare in primo grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art. 55, comma 10, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 30.09.2016 n. 4285 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
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E’ stata più volte affermata la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
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Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
Pertanto, si è ritenuto che “…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica) deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di sanatoria”.
Sotto tale specifico profilo, va comunque rilevato che il C.G.A., con sentenza n. 123 del 13.03.2014, ha modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato … e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione.
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... per l'annullamento del D.D.S. n. 819 del 24.03.2015, emesso dalla Regione Siciliana, Dipartimento Beni Culturali e dell'Identità Siciliana Servizio Tutela, notificato il 29.05.2015 , a mezzo del servizio postale , per il pagamento della somma di € 7.247,58 a titolo di INDENNITA' Pecuniaria ex. art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, come sostituito dall'art. 27 del dlgs n. 157/2006, nonché di tutti gli atti a tale comunque preliminari, connessi, coordinati e conseguenti.
...
C. - Il ricorso merita accoglimento, essendo fondata l’eccezione di prescrizione sollevata dal ricorrente ai sensi dell’art. 28 l. n. 689/1981.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Cons. St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
Nel caso di specie, poi, con nulla osta prot. prot. 7285 del 07/08/1997 (allegato n. 1 della produzione dell’Avvocatura erariale), la Soprintendenza di Messina aveva dichiarato che le opere realizzate arrecavano danno, se pur lieve, alle valenze paesaggistiche dell’area protetta.
D. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (vd. TAR Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id, 02.04.2015, n. 812; 23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vd. anche TAR Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395; TAR Napoli, VI, 13.02.2015, n. 1092).
E. - Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni (vd. Cons. St., VI, 12.03.2009, n. 1464).
Pertanto -pur dandosi atto del diverso orientamento assunto in precedenza dal C.G.A. secondo il quale “…la permanenza cessa o con l’eliminazione dell’opera abusiva; o, in alternativa, con il pagamento della sanzione pecuniaria” (vd. C.G.A., 13.09.2011, n. 554)- si è ritenuto che “…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato precedente, deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di sanatoria” (cfr. TAR Sicilia, n. 2645/2015 e n. 1098/2013 cit.).
Sotto tale specifico profilo, va comunque rilevato che il C.G.A., con sentenza n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento espresso sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato … e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano (ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015 e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, cui si richiama in memoria la difesa dell’Amministrazione, lo stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 del 19.10.2015).
F. - Accolto e riaffermato il superiore principio interpretativo, non rimane che prendere atto che nella vicenda in esame la cessazione della permanenza dell’illecito si è verificata in data 12.01.2004, allorché è stata rilasciata al ricorrente la concessione edilizia in sanatoria n. 1/2004, sicché la prescrizione dell’illecito era già maturata quando col decreto D.D.S. n. 819 del 24/03/2015, qui impugnato, è stata irrogata la sanzione ex art. 167 D.lgs. n. 42/2004.
Né può rilevare, in contrario, la clausola contenuta nel nullaosta del 1997, dato che nella fattispecie il Comune ha rilasciato formale concessione edilizia nel 2004, così determinando la data di cessazione dell'illecito e dunque la decorrenza del termine prescrizionale. Per altro, nel caso in esame è pure documentata in atti la nota del 14/12/2005 con cui è stata data comunicazione, tanto al Comune quanto alla soprintendenza di Messina, della ultimazione dei lavori di cui alla concessione edilizia in sanatoria n. 1/2004 e N.O. della Soprintendenza n. 7285 del 07/08/1997.
G. - Il decreto è, dunque, illegittimo secondo quando dedotto con il secondo motivo del ricorso in trattazione.
Per le suesposte considerazioni, il ricorso, assorbito quant’altro, va accolto con conseguente annullamento del D.D.S. n. 819 del 24/03/2015 adottato dal Dipartimento regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Servizio Tutela, fatte salve le prescrizioni di cui all’art. 2 dello stesso decreto (che richiama e rinvia alle prescrizioni impartite).
Il Collegio, avuto riguardo ai peculiari profili della controversia e alle sopra indicate oscillazioni giurisprudenziali, ancora presenti nel momento di adozione dell’atto impugnato, oltre che al vantaggio conseguito dalla parte ricorrente per l’acclarata prescrizione del credito vantato dalla P.A., ritiene doversi compensare tra le parti le spese di giudizio (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 28.09.2016 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’area di intervento (Parco Lombardo della Valle del Ticino), è pacificamente sottoposta sia alle norme di cui alla L. n. 394/1991 recante “Legge quadro sulle aree protette”, sia a quelle di cui al D.lgs. n. 42/2004 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ai sensi dell’art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137.
Nello specifico, l’art. 13 della L. 394/1991 dispone che il rilascio di concessioni o autorizzazioni per interventi, impianti ed opere all’interno del parco debba essere sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco, verificata la conformità tra l’intervento richiesto e le disposizioni del piano per il parco, avente il preciso scopo di perseguire la tutela dei valori naturali ed ambientali nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali (art. 12, legge n. 394/1991).
La prescrizione è confermata dalla L.R. Lombardia 11.03.2005, n. 12, ove all’art. 80, comma 5, si stabilisce che le funzioni amministrative per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, nei territori compresi all’interno dei perimetri dei parchi regionali, siano esercitate dagli enti gestori dei parchi.
Inoltre, in materia si è costantemente pronunziata la giurisprudenza, rilevando che “per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali, riserve naturali) occorrono tre distinti autonomi provvedimenti: la concessione edilizia, l’autorizzazione paesaggistica e, ove necessario, il nulla osta dell’ente parco. Questi ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio”.
Analogamente, anche questa Sezione ha statuito che “spetta in via autonoma all’Ente Parco … ai sensi dell’art. 13 della L. n. 394/1991 … di verificare la conformità dell’intervento edilizio alle disposizioni del piano per il parco ed al proprio regolamento” nonché “di reagire avvalendosi della potestà all’uopo conferitagli dall’art. 6, comma 6, della L. 06.12.1991 n. 394, alla realizzazione di opere realizzate senza la preventiva autorizzazione dell’ente medesimo e senza il permesso di costruire … e dunque in violazione della normativa finalizzata alla tutela dell’area protetta”.
Tale orientamento è stato, da ultimo, recentissimamente confermato (parere n. 1905/2016, reso nella medesima adunanza dell’08.06.2016), osservando come l’impianto della l. 394/1991 sia chiaramente rivolto a tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost.. Né la giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente parco.
Di contro, le Regioni, in collaborazione con le Soprintendenze per i beni culturali, tenute al rilascio del parere vincolante di cui all’art. 167, comma 5, del Codice, “sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio regionale […]” (art. 135 Codice dei beni culturali e del paesaggio).
I piani paesaggistici, oltre a definire specifiche misure per il “mantenimento delle caratteristiche, degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti a tutela …”, individuano le “linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con il principio del minor consumo del territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito”.
Di talché, si ritiene che il rapporto tra i diversi piani, sulla cui base sono espressi i pareri delle competenti autorità pianificatrici, debba essere propriamente considerato in termini di competenza e non di gerarchia. Ciascuno di essi si occupa della cura di uno specifico interesse, concorrendo a determinare cumulativamente il regime di utilizzazione di una determinata porzione di suolo.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dall’azienda agricola Da Ro. Pa., in persona della medesima titolare e legale rappresentante pro tempore, contro Consorzio Parco Lombardo della Valle del Ticino, per l’annullamento del provvedimento di diniego di accertamento della compatibilità paesaggistica prot. n. 580/12 del 18.01.2012, per la realizzazione di un ampliamento di un edificio agricolo in difformità all’autorizzazione paesaggistica prot. n. 645 – 12839/96 del 20.12.2006, sull’area sita in Comune di Mezzanino (PV), Cascina Venesia; della comunicazione resa ai sensi dell’art. 10-bis della L. 241/1990 prot. n. 11663/11 – 149/4211/11/CP/ID/ER del 24.10.2011; del verbale della commissione per il paesaggio n. 25 del 18.10.2011; del rapporto di servizio del Settore Vigilanza del 19.09.2011; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguenziale;
...
Considerato.
Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce dell’infondatezza delle censure dedotte e constatata la piena legittimità e correttezza dell’operato dell’Amministrazione.
In primis, si rileva come la contestata mancanza di verifica in loco dei presupposti di legge per l’emissione del provvedimento impugnato sia irrilevante nel caso che ci occupa, ove l’accertamento è avvenuto sulla base del contenuto della documentazione (cfr. allegati alla relazione ministeriale), con la quale gli enti preposti hanno accertato quali fossero le opere realizzate in assenza di titolo abilitativo, nonché quelle poste in essere in totale difformità rispetto all’autorizzazione paesaggistica prot. n. 645 – 12839/06 del 20.12.2006 ed al permesso di costruire rilasciato il 15.02.2007.
Infatti, solo in conseguenza di tale accertamento e tenuto altresì conto dell’avvenuto cambio di destinazione d’uso di uno degli immobili individuati sul mappale n. 681, foglio 8, del Comune di Mezzanino – località Cascina Venesia, l’Ente Parco ha provveduto ad adottare gli atti di propria competenza nell’ambito del procedimento paesaggistico di cui al D.lgs. n. 42/2004, conclusosi con l’emissione di provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi prot. n. 5684/2012.
In particolare, all’esito dei numerosi sopralluoghi eseguiti dal competente personale tecnico e di vigilanza del Comune di Mezzanino e del Parco del Ticino, è stato accertato il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da agricolo a ristorante–agriturismo.
Come ben evidenziato nel definitivo provvedimento sanzionatorio paesaggistico (ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) “[…] è di tutta evidenza, a seguito dei molteplici sopralluoghi eseguiti dagli organi tecnici e da quelli di vigilanza del Comune di Mezzanino e del Parco del Ticino … che l’ampliamento del fabbricato, di cui all’Autorizzazione Paesaggistica n. 645 – 12839706 del 20/12/2006, originariamente richiesto “da utilizzare per il ricovero dei mezzi agricoli”- “chiuso su tre lati, mentre sul lato sud è prevista una grossa apertura per garantire un facile accesso ai macchinari agricoli” (testualmente dalla Relazione Tecnica, Allegato C, all’originaria richiesta di Autorizzazione Paesaggistica) successivamente AL CONTRARIO il fabbricato in ampliamento è stato sostanzialmente modificato, in grave e palese contrasto con l’autorizzazione paesaggistica ricevuta nel 2006, con interventi che non solo sono in contrasto con la originaria destinazione agricola ma, inoltre, hanno comportato aumento di volumetria e superficie utile […]”.
In relazione al parere favorevole espresso dalla Soprintendenza di settore, ed al presunto contrasto con il provvedimento di diniego emesso dall’Ente Parco, si osserva quanto segue.
In primo luogo, l’area di intervento (Parco Lombardo della Valle del Ticino), è pacificamente sottoposta sia alle norme di cui alla L. n. 394/1991 recante “Legge quadro sulle aree protette”, sia a quelle di cui al D.lgs. n. 42/2004 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ai sensi dell’art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137.
Nello specifico, l’art. 13 della L. 394/1991 dispone che il rilascio di concessioni o autorizzazioni per interventi, impianti ed opere all’interno del parco debba essere sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco, verificata la conformità tra l’intervento richiesto e le disposizioni del piano per il parco, avente il preciso scopo di perseguire la tutela dei valori naturali ed ambientali nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali (art. 12, legge n. 394/1991).
La prescrizione è confermata dalla L.R. Lombardia 11.03.2005, n. 12, ove all’art. 80, comma 5, si stabilisce che le funzioni amministrative per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, nei territori compresi all’interno dei perimetri dei parchi regionali, siano esercitate dagli enti gestori dei parchi.
Inoltre, in materia si è costantemente pronunziata la giurisprudenza, rilevando che “per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali, riserve naturali) occorrono tre distinti autonomi provvedimenti: la concessione edilizia, l’autorizzazione paesaggistica e, ove necessario, il nulla osta dell’ente parco. Questi ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio” (Cass. Pen., III, 12.05.2003, n. 20738, in senso conforme n. 12917/1998 e n. 9138/2000).
Analogamente, anche questa Sezione (parere Sez. II n. 4093/2010 reso il 24.11.2010), ha statuito che “spetta in via autonoma all’Ente Parco … ai sensi dell’art. 13 della L. n. 394/1991 … di verificare la conformità dell’intervento edilizio alle disposizioni del piano per il parco ed al proprio regolamento” nonché “di reagire avvalendosi della potestà all’uopo conferitagli dall’art. 6, comma 6, della L. 06.12.1991 n. 394, alla realizzazione di opere realizzate senza la preventiva autorizzazione dell’ente medesimo e senza il permesso di costruire … e dunque in violazione della normativa finalizzata alla tutela dell’area protetta”.
Tale orientamento è stato, da ultimo, recentissimamente confermato (parere n. 1905/2016, reso nella medesima adunanza dell’08.06.2016), osservando come l’impianto della l. 394/1991 sia chiaramente rivolto a tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost.. Né la giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente parco.
Di contro, le Regioni, in collaborazione con le Soprintendenze per i beni culturali, tenute al rilascio del parere vincolante di cui all’art. 167, comma 5, del Codice, “sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio regionale […]” (art. 135 Codice dei beni culturali e del paesaggio).
I piani paesaggistici, oltre a definire specifiche misure per il “mantenimento delle caratteristiche, degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti a tutela …”, individuano le “linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con il principio del minor consumo del territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito”.
Di talché, si ritiene che il rapporto tra i diversi piani, sulla cui base sono espressi i pareri delle competenti autorità pianificatrici, debba essere propriamente considerato in termini di competenza e non di gerarchia. Ciascuno di essi si occupa della cura di uno specifico interesse, concorrendo a determinare cumulativamente il regime di utilizzazione di una determinata porzione di suolo.
Orbene, alla luce di quanto suddetto, emerge come il parere espresso dall’Ente Parco sia solo in apparente contrasto con quello della Soprintendenza.
Invero, pur irritualmente, la Soprintendenza ha inteso compiere direttamente una valutazione di merito, rimettendo all’Ente Parco la preventiva valutazione circa l’ammissibilità degli interventi alla procedura di accertamento di compatibilità ex post, ed anzi subordinando agli esiti di detto giudizio l’efficacia della propria favorevole valutazione.
Correttamente, del resto, nel parere di cui alla nota prot. n. 8432 del 06.09.2011, la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano si esprime favorevolmente ai sensi degli artt. 167 e 181 del D.lgs. 42/2004 citato, “per quanto di competenza … fatta salva la verifica dell’ammissibilità dell’istanza da parte dell’autorità competente”.
Il ricorso, per tutto quanto sopra esposto, non può essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 14.09.2016 n. 1908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' notoria la ben differente natura giuridica dei due provvedimenti, ovvero autorizzazione paesaggistica e nulla osta dell’Ente parco, in relazione ai quali non è consentita l’assimilazione.
Invero, l’autorizzazione paesaggistica attiene alla tutela del paesaggio in senso stretto, mentre il nulla osta dell’Ente parco tutela un sistema di valori più vasto e complesso, identificato, come da art. 12, comma 1, l. 394/1991 (e succ. mod.), nella “tutela dei valori naturali ed ambientali, nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali”.
In tale contesto, dunque, possono trovare spazio le valutazioni negative di ordine anche paesaggistico espresse nel provvedimento impugnato, in cui ci si sofferma, infatti, sul diffuso fenomeno dell’erosione del paesaggio agrario campano, e sulle rilevanti ripercussioni che tale fenomeno crea sulla conservazione dell’ambiente naturale.
L’impianto della l. 394/1991 è chiaramente rivolto a tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost..
Né la giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente parco, come accaduto nel caso di specie.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal Sig. Gi.Na. contro l’Ente Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, in persona del legale rappresentante p.t., per l’annullamento del provvedimento prot. n. 6949 del 14.05.2009, con il quale l’Ente Parco ha respinto l’istanza di autorizzazione presentata dal ricorrente per la realizzazione di un fabbricato rurale nel Comune di Castellabate, in località Valle, nonché di ogni altro atto o provvedimento presupposto, connesso e conseguente, se ed in quanto lesivo per gli interessi del ricorrente medesimo.
...
Sulla base, soprattutto, degli ultimi elementi acquisiti, emerge chiaramente, infatti, che è vero che la competente Soprintendenza abbia emesso un parere favorevole ex art. 159, comma 3, d.lgs. 42/2004, ma tale circostanza non può rilevare in maniera decisiva rispetto al caso di specie, attesa la ben differente natura giuridica dei due provvedimenti, ovvero autorizzazione paesaggistica e nulla osta dell’Ente parco, in relazione ai quali non è dunque consentita l’assimilazione.
Come ricorda l’Amministrazione, l’autorizzazione paesaggistica attiene alla tutela del paesaggio in senso stretto, mentre il nulla osta dell’Ente parco tutela un sistema di valori più vasto e complesso, identificato, come da art. 12, comma 1, l. 394/1991 (e succ. mod.), nella “tutela dei valori naturali ed ambientali, nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali”.
In tale contesto, dunque, possono trovare spazio le valutazioni negative di ordine anche paesaggistico espresse nel provvedimento impugnato, in cui ci si sofferma, infatti, sul diffuso fenomeno dell’erosione del paesaggio agrario campano, e sulle rilevanti ripercussioni che tale fenomeno crea sulla conservazione dell’ambiente naturale.
L’impianto della l. 394/1991 è chiaramente rivolto a tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost..
Né la giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente parco, come accaduto nel caso di specie.
In ogni caso, va altresì evidenziato, in punto di fatto, che sebbene la Soprintendenza abbia espresso nella fattispecie, in punto di valutazione di stretta legittimità, parere favorevole (in realtà trattasi di formalizzato mancato esercizio del potere di annullamento dell’autorizzazione comunale), sull’intervento in argomento, al contempo essa ha evidenziato una serie di anomalie rispetto alla realizzazione del fabbricato rurale proposto, tanto da richiedere all’Ufficio tecnico comunale appositi pregnanti accertamenti e stringenti ed incisive verifiche, con riguardo in particolare al dimensionamento del fabbricato rurale in relazione alle effettive esigenze di coltivazione.
E va considerato anche che l’intervento previsto ricadeva in zona in cui l’approvando Piano del parco avrebbe consentito un siffatto intervento edilizio solo in funzione degli usi agricoli, agrituristici e residenziali dell’imprenditore agricolo, e comunque nei limiti delle esigenze adeguatamente dimostrate. Tutti elementi carenti nel caso in questione.
La previsione di una tale forma di tutela per l’area oggetto dell’intervento va certamente a consolidare le valutazioni espresse dall’Ente parco circa la particolare valenza ambientale del sito.
Rammentato ciò, va ribadito anche, come da consolidato orientamento, che l’Ente parco ha la possibilità di denegare il proprio nulla-osta di pertinenza prescindendo dalla preventiva definitiva approvazione del Piano del parco.
Alla stregua di tutto quanto sopra riportato, non ravvisandosi altri vizi rilevanti ai fini del decidere, nemmeno per quanto attiene all’istruttoria ed ai profili motivazionali del provvedimento impugnato, difettando le censure dedotte dei necessari presupposti di consistenza, il ricorso può essere in definitiva respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 14.09.2016 n. 1905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non compatibilità paesaggistica circa l'abusiva realizzazione di: piscina; volumi, definiti come locali termici; sistemazioni esterne.
La questione riferita alla sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici è irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene in rilievo una piscina esterna ed i collegati vani tecnici (oltre che la sistemazione a verde esterna, del pari servente alla medesima) non potendo, ad avviso del Collegio, la piscina di cui è causa e dunque le relative opere accessorie essere annoverate fra i volumi tecnici per il fondamentale rilievo che <<"la nozione di 'volume tecnico”, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo">>, laddove, ad avviso del Collegio la piscina esterna non può considerarsi come strettamente connessa alle esigenze tecnico funzionali della struttura alberghiera ed è in grado di esprimere una propria autonomia funzionale (si pensi al fatto che molte strutture alberghiere consentono l’accesso a pagamento alla piscina anche a persone non rientranti nella clientela dell’hotel).

Ciò senza sottacere tra l’altro di considerare che come già ritenuto da questa Sezione “tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede” e ferma restando la vexata e ancora non risolta questione della sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici (fra i quali ad avviso della Sezione non rientrano le piscine esterne, sia pure con volume interrato) richiama il seguente principio di portata generalizzante in materia: “…la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare.”.

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... per l'annullamento della nota prot. n. 14826 del 17.09.2015, notificata il 22.09.2015, recante il parere di non compatibilità paesaggistica relativo alla domanda di permesso a costruire in sanatoria assunto al protocollo comunale n. 49133 dell'08.10.2010, riguardante la realizzazione, in assenza di titolo edilizio, presso la struttura ricettiva Hotel E. sita in C/mare di Stabia alla via ... n. 12 sull'area catastalmente identificata al foglio 15 - p.11a 64, di una piscina interrata, locali tecnici, sistemazione a verde dell'area esterna e diversa distribuzione degli spazi interni dell'ultimo livello del predetto Hotel; nonché di ogni altro provvedimento preordinato, connesso e consequenziale comunque lesivo degli interessi del ricorrente.
...
9. Il ricorso è infondato, nel senso di seguito precisato.
10. Parte ricorrente lamenta l’illegittimità del gravato parere soprintendizio per violazione del combinato disposto degli artt. 147 e 167, comma 4, D.lgs. 42/2004, deducendo che i volumi tecnici e la piscina interrata di cui è causa sfuggirebbero al divieto di sanatoria paesaggistica postuma recato da tali norme, non rientrando nel concetto di volume e superficie utile posto come profilo ostativo dalle medesime.
10.1 A sostegno dei propri assunti richiama, oltre a una nutrita giurisprudenza, tra cui anche la sentenza di questa Sezione n. 2763/2013, che si era pronunciata in ordine alle medesime opere di cui è causa nel contenzioso con il Comune, avente ad oggetto il diniego di istanza di accertamento di conformità di cui all’art. 36 D.P.R. 380/2001, la Circolare del Mibac n. 33 del 2009 che esclude dal concetto di volume, rilevante in senso ostativo ai sensi del richiamato art. 167, comma 4, Dlgs. 42/2004, i volumi tecnici.
10.2. Va peraltro chiarito come la richiamata sentenza di questa Sezione n. 2763/2013, pur avendo ad oggetto le medesime opere di cui è causa, non possa avere rilevanza diretta nell’odierno contenzioso, in quanto riferita non alla sanatoria paesaggistica, ma a quella urbanistica di cui all’art. 36 D.P.R. 380/2001 e al relativo atto di diniego comunale, fondato sul distinto profilo del contrasto dei medesimi interventi con le previsioni urbanistiche, sulla base peraltro di un errata considerazione della loro collocazione in una determinata zona di PRG.
E’ pur vero che nella medesima sentenza si afferma la sanabilità di tali opere anche da un punto di vista paesaggistico postumo ex art. 167 Dlgs. 42/2004, ma trattasi di affermazione incidenter tantum in quanto relativa ad un profilo non oggetto di disamina ad opera dell’atto impugnato e dunque di annullamento ad opera dell’indicata sentenza, nonché di affermazione comunque intervenuta in un contenzioso in cui non è stata parte la Soprintendenza per i Beni ambientali e che pertanto non può assumere alcuna rilevanza diretta nell’odierna sede, come già evidenziato dalla Sezione in sede cautelare, posto che il giudicato si forma solo inter partes.
11. Giova preliminarmente precisare che il gravato parere soprintendizio, pur non recando alcuna specifica motivazione in ordine all’insanabilità delle sistemazioni esterne diverse dalla realizzazione dei volumi tecnici e della piscina interrata, sia riferito anche a tali sistemazioni esterne, stante il loro carattere di accessorietà rispetto alle citate opere considerate quale “nuova costruzione” essendo motivato sulla base di questi rilievi:
CONSTATATO che si chiede sanatoria ex art. 167 del D.Lvo 42/2004 per le seguenti opere:
cambio di destinazione d'uso dell'ultimo piano:
realizzazione di piscina;
realizzazione di volumi, definiti come locali termici;
sistemazioni esterne;
RICORDATO che l'art. 167 al comma 4 prevede l'accertamento di compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
   a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   c) per lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
PRECISATO che le opere di sistemazione interna per cambio di destinazione d'uso non rilevano ai fini paesaggistici;
SI ESPRIME parere di non compatibilità paesaggistica posto che sia la piscina, in quanto nuova costruzione, sia i volumi realizzati ex novo, non rientrano nei casi dai citato comma 4 dell'art. 167. Di conseguenza le opere di sistemazione esterna conseguenziali alle suddette nuove costruzioni non possono essere assentite
”.
Deve pertanto ritenersi che la sistemazione a verde dell’area esterna, pur non rientrante nel concetto di nuova costruzione, invocato dalla Soprintendenza quale profilo ostativo all’applicabilità della sanatoria paesaggistica postuma, e pur non essendo inclusa fra le opere di sistemazione interna per cambio di destinazione d’uso, considerate per contro irrilevanti da un punto di vista paesaggistico dalla Soprintendenza, sia del pari esclusa dalle opere suscettibili di sanatoria paesaggistica postuma, in quanto consequenziale (rectius accessoria) alle suddette nuove costruzioni.
12. In ordine a tale profilo motivazionale peraltro parte ricorrente non ha sollevato alcuna autonoma censura, con la conseguenza inattaccabilità in parte qua del gravato parere soprintendizio, avversato solo nella parte relativa all’insanabilità dei locali tecnici e della piscina interrata, con la conseguenza che la sorte del gravato parere in parte qua non potrà che essere relazionata a quella delle distinte tipologie di “nuove costruzioni” (locali tecnici da un lato e piscina interrata dall’altro) rispetto alle quali le aree a verde si presentano accessorie.
13. Giova peraltro precisare come da una attenta disamina dell’istanza di accertamento di conformità (avente ad oggetto le medesime opere di cui all’istanza di sanatoria paesaggistica oggetto del gravato parere soprintendizio) si evinca come i locali tecnici oggetto della medesima e siti nella corte della struttura alberghiera non siano serventi rispetto alla struttura alberghiera autonomamente considerata (essendo i relativi locali tecnici siti nel piano seminterrato), ma rispetto alla piscina interrata, del pari oggetto dell’istanza di accertamento di conformità e del gravato atto soprintendizio, trattandosi di locali tecnici per gruppo elettrogeno, serbatoio di accumulo acqua e pompa antincendio nonché di pannelli sandwich (locali tecnici adibiti a gruppo elettrogeno, riserva idrica, autoclave e aspiratore).
L’accessorietà di tali locali tecnici rispetto alla piscina si evince peraltro dallo stesso posizionamento dei medesimi nelle vicinanza della piscina, come desumibile dal quadro d’insieme prodotto in allegato all’istanza di accertamento di conformità.
14. Ciò posto, in riferimento alla problematica della sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici il Collegio non ignora come già in passato presso i giudici di prime cure si siano fronteggiati due distinti orientamenti giurisprudenziali, ovvero un orientamento di segno negativo (fra le prime pronunce TAR Umbria sentenza n. 388 del 29.11.2011), fondato sulla irrilevanza a fini paesaggistici di concetti quali “volume tecnico” e “superficie utile” ed uno favorevole (ex multis TAR Campania-Salerno, 25.06.2013, n. 1429) pure in passato seguito dalla Sezione (ex multis sentenza n. 3381 del 12/07/2012 con richiamo ai precedenti della Sezione TAR Campania Napoli Sez. VII, Sent., 10.05.2012, n. 2173, TAR Campania Napoli Sez. VII, n. 27380/2010; 6827/2009; 1748/2009) fondato sul presupposto dell’esclusione dei volumi tecnici dal divieto di cui all’art. 167 Dlgs. 42/2004, sulla base del presupposto che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, siano inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale e, come tali, siano ininfluenti ai fini del calcolo degli indici di edificabilità.
Ne conseguirebbe, in tale ultima prospettiva, che la stessa ratio che in materia urbanistica ha indotto ad escludere i volumi tecnici del calcolo della volumetria edificabile dovrebbe valere anche in materia paesistica per sottrarre tali volumi dal divieto di rilasciare l’autorizzazione paesistica in sanatoria (in senso conforme a tale orientamento tra le altre TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.09.2010, n. 17491, che peraltro ha escluso dagli interventi assentiti ex post quelli comportanti sostanziali modifiche della sagoma e traslazione dell’immobile, in quanto incidenti sul contesto vincolato e TAR Emilia Romagna, Parma, 15.09.2010, n. 435, secondo cui peraltro non si configura come volume tecnico l’aumento dell’altezza del sottotetto non giustificato da esigenze funzionali).
14.1. La Sezione peraltro successivamente, preso atto del contrario e prevalente orientamento alla tutela alla sanatoria paesaggistica postuma dei volumi tecnici e interrati, espresso in particolare dal giudice di “seconde cure”, cui si è fatto riferimento in sede cautelare, secondo il quale il divieto di incremento di volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume ovvero tra volume in superficie e volume interrato (in termini cfr. Cons. Stato, sez. VI n. 4348 del 02.09.2013; Sez. VI, n. 4114 del 06/08/2013; sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; cfr., inoltre, Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110; sez. IV, 11.05.2005, n. 2388; Tar Puglia, Lecce, TAR Lecce Puglia sez. I n. 218 del 23.01.2014) ha mutato il proprio orientamento giurisprudenziale (ex multis tra le prime pronunce in tal senso sent. n. 5981 del 23.12.2013 fondata sul rilievo che “Per la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato infatti -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare".
Pertanto, per tali volumi (e per le relative superfici) si applicano i divieti di realizzare nuove opere (divieti disposti per l’area in questione dal Piano paesaggistico) ovvero, in loro assenza, l’autorità statale competente può valutare se la modifica dello stato dei luoghi abbia una negativa incidenza dei valori paesaggistici coinvolti“ (cfr. in tal senso la sentenza citata del Consiglio di Stato sez. VI, n. 4503 del 2013)”.
14.2. Non ignora peraltro il Collegio come il Consiglio di Stato (cfr. sentt. Consiglio di Stato sez. VI n. 1945/2016 riferita alla realizzazione di un abbaino nel sottotetto; Consiglio di Sato sez. III n. 1613/2016 riferita alla realizzazione di box prefabbricati; Consiglio di Stato sez. VI, n. 5932 del 2014 riferita alla realizzazione, in difformità dal permesso di costruire relativo alla apposizione di un ascensore condominiale, di un torrino, funzionale a consentire il prolungamento della corsa sino all'ultimo piano) più di recente abbia sposato la tesi favorevole alla sanabilità paesaggistica dei volumi tecnici, già in passato seguita dalla Sezione, sulla base del rilievo che “nei casi in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi”.
In tale prospettiva il Supremo Consesso ha pertanto ritenuto che “Non può dunque essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991; art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi "non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità dell’abbaìno di che trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatibilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato” (in tal senso Consiglio di Stato sez. VI n. 1945/2016 cit.).
14.3. Non può peraltro sottacersi che il Consiglio di Stato anche di recente abbia aderito al diverso orientamento giurisprudenziale, da ultimo sposato dalla Sezione (Consiglio di Stato sez. VI n. 3289/2015 di riforma della Sentenza di questa Sezione n. n. 6827/2009 riferita alla realizzazione dell’innalzamento per circa 90 cm del torrino ascensore e del solaio di copertura, necessario per il rispetto di norme tecniche, secondo la quale “il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ‘interrati'): il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno. Tale preclusione, all’evidenza, vale tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi volumi siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce esclusivamente ai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”: non è quindi consentito all’interprete ampliare la portata di tale norma, che costituisce eccezione al principio generale delle necessità del previo assenso codificato dal precedente art. 146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza distinzione alcune, escluse
”).
15. Peraltro il Collegio, pur prendendo atto dei contrari orientamenti giurisprudenziali, sussistenti anche all’interno della medesima Sezione del Consiglio di Stato, riferita alla questione della sanabilità paesaggistica ex post dei volumi tecnici a seconda del loro inserimento o meno nel raggio di azione ostativo della previsione di cui all’art. 167, comma 4, Dlgs. cit., riferito alla realizzazione di nuovi volumi, ritiene che la questione sia irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene in questione, come innanzi precisato, la sanatoria paesaggistica ex post di una piscina esterna (sia pure con volume completamente interrato) e di vani tecnici posti a servizio della medesima piscina, come è dato evincere dall’istanza di autorizzazione in sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 prodotta in atti.
Parte ricorrente, cui peraltro incombeva il relativo onere di allegazione, prima ancora che probatorio, non ha inoltre dedotto, come era suo onere, che i vani tecnici di cui è causa fossero a servizio della struttura principale dell’albergo e non, come è dato evincere dall’istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001, della piscina di cui è causa.
15.1. Ritiene pertanto il Collegio che la questione riferita alla sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici sia dunque irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene in rilievo (giova ribadirlo) una piscina esterna ed i collegati vani tecnici (oltre che la sistemazione a verde esterna, del pari servente alla medesima) non potendo ad avviso del Collegio, la piscina di cui è causa e dunque le relative opere accessorie essere annoverate fra i volumi tecnici per il fondamentale rilievo che come innanzi accennato (cfr., Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), <<"la nozione di 'volume tecnico”, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo">>, laddove, ad avviso del Collegio la piscina esterna non può considerarsi come strettamente connessa alle esigenze tecnico funzionali della struttura alberghiera ed è in grado di esprimere una propria autonomia funzionale (si pensi al fatto che molte strutture alberghiere consentono l’accesso a pagamento alla piscina anche a persone non rientranti nella clientela dell’hotel).
In questa prospettiva risulta irrilevante anche il richiamo alla Circolare MIBAC n. 33/2009 invocata da parte ricorrente.
15.2. Ciò senza sottacere tra l’altro di considerare che come già ritenuto da questa Sezione con orientamento che qui si ribadisce (Tar Campania/Napoli - sez. VII - nr. 2088 del 21.04.2009; TAR Campania, Napoli, sez. VII n. 1 del 07/01/2014) “tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede” e ferma restando la vexata e ancora non risolta questione della sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici (fra i quali ad avviso della Sezione non rientrano le piscine esterne, sia pure con volume interrato) richiama il seguente principio di portata generalizzante in materia (CdS sez. VI – sent. nr. 4503 dell’11.09.2013 cit): “…la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare.”.
16. Il ricorso va dunque rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 06.09.2016 n. 4172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa ha chiarito che, ai sensi dell’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n. 42/2004, la sanabilità dell’opera sotto l’aspetto paesaggistico è esclusa in presenza di qualsiasi incremento volumetrico, indifferentemente dalla connotazione dello stesso in termini di volume tecnico ed, altresì, dalla circostanza che si tratti di un volume interrato.
In particolare, è stato affermato che: “Il vigente art. 167, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno”.
Tale esegesi della norma si mostra corrispondente alla finalità di preservazione, posta alla base della tutela paesaggistica, dovendosi pertanto ricomprendere nel suo ambito ogni creazione di nuovo volume (oppure l’aumento di quelli assentiti, come precisato dall’art. 167 citato), che determina la compromissione del valore tutelato, attraverso la realizzazione di nuovi ingombri in zona ove è vietata l’edificazione.
Peraltro, non sfugge che parte della giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha considerato ammissibile la compatibilità paesaggistica per i volumi tecnici.
In relazione a ciò, è tuttavia necessario precisare (alla luce di quanto chiarito in giurisprudenza) che ricorre la nozione di volume tecnico, suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica, solo allorquando manchi una qualsivoglia autonomia funzionale e si rinvenga l’esclusiva destinazione ad ospitare impianti occorrenti alla funzionalità dell’edificio:
   - “Occorre osservare che la nozione di ‘volume tecnico', non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”;
   - “Secondo una consolidata giurisprudenza, per l'identificazione della nozione di volume tecnico rilevano tre parametri: il primo, positivo e di tipo funzionale, costituito dall'esistenza di un rapporto di strumentalità necessaria tra il manufatto e l'utilizzo della costruzione a cui accede; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti. Pertanto rientrano in tale nozione solo le opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa”.

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Il d.lgs. n. 42/2004, nell’assegnare alla Soprintendenza il potere di valutare la rispondenza dell’opera edilizia alla normativa paesaggistica, configura l’esercizio di un potere autonomo cosicché non può predicarsi alcun obbligo di esaminare e confutare le motivazioni assunte dalla Commissione Edilizia Integrata comunale e la conclusione a cui la stessa era giunta nell’apporre condizioni.
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Il procedimento che ha condotto al diniego di sanatoria (ex art. 167) è ad istanza di parte (essendo stato attivato dall’interessato con la presentazione della domanda di accertamento di conformità), cosicché è escluso l’obbligo della comunicazione di avvio ed altresì, stante il suo carattere vincolato, il diniego conseguente al parere negativo della Soprintendenza non è invalidato dall’omissione del preavviso ex art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Per altro verso, l’intervento dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico si colloca all’interno dello stesso procedimento ed è regolato dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, che non prefigura alcun obbligo di preventiva comunicazione.
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... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) dell’atto prot. n. 26301 del 07/12/2010 con cui la Soprintendenza ha espresso parere contrario ai fini della compatibilità paesaggistica, per le opere oggetto di permesso di costruire in sanatoria; nonché di tutti gli atti preordinati, consequenziali o comunque connessi;
- (quanto ai motivi aggiunti) della disposizione prot. n. 1617 del 17/02/2011 con cui il Caposettore Tecnico del Comune di Boscotrecase ha rigettato la richiesta di permesso di costruire in sanatoria; nonché di ogni altro atto preordinato, conseguente o comunque connesso, in quanto lesivo.
...
2.- Si può quindi passare all’esame del ricorso e dei motivi aggiunti.
2.1- Con le censure rivolte con il ricorso al parere negativo della Soprintendenza si sostiene che:
- le opere riguardano esclusivamente la realizzazione di un box auto, per la maggior parte interrato ed insuscettibile di produrre nuove volumetrie (come si ricava dall’avviso favorevole della Commissione locale per il paesaggio);
- va altresì considerata la disciplina dettata in tema di parcheggi pertinenziali, assoggettati alle disposizioni della legge n. 122/1989 e della L.R. n. 19/2001 (che escludono la costituzione di nuovi volumi, ammettendo la costruzione di parcheggi e box auto in deroga agli strumenti urbanistici vigenti);
- la Soprintendenza ha omesso ogni considerazione sulle motivazioni che avevano indotto il Comune di Boscotrecase al rilascio dell’autorizzazione, senza valutare il percorso logico-giuridico condotto (essendo suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica le opere che non incidono sul vincolo, quali soppalchi, volumi interrati e volumi tecnici);
- il parere negativo richiama contraddittoriamente un giudizio di incompatibilità espresso ben 28 anni prima.
2.2- Con i motivi aggiunti avverso il rigetto del permesso di costruire è denunciata l’illegittimità derivata del provvedimento, ribadendo e deducendo inoltre che:
- le opere di cui è stata chiesta la sanatoria non hanno determinato creazione di superfici utili o volumi maggiori di quelli autorizzati (trattandosi per lo più di irrilevanti modifiche della sagoma del fabbricato e di lievissimi incrementi planovolumetrici, non computabili perché di carattere meramente accessorio, quali locali tecnici e box pertinenziale, peraltro realizzato in uno spazio in buona parte interrato, già assentito con il nulla osta relativo alla concessione edilizia n. 17/1972);
- anche in ragione della modestissima entità delle difformità, si imponeva all’Amministrazione di valutare l’irrilevanza dei presunti incrementi planovolumetrici, sotto il profilo dei carichi urbanistici e, soprattutto, dal punto di vista paesaggistico;
- la Soprintendenza aveva del tutto omesso di verificare se le opere rientrino nelle ipotesi di deroga previste dall’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n. 42/2004, come da valutazione effettuata dalla Commissione Edilizia Integrata all’esito di approfondite indagini;
- il parere deve riferirsi al contrasto con il vincolo alla data attuale e non può fondarsi sull’ipotizzato contrasto con la situazione dei luoghi di quaranta anni addietro, senza alcun riferimento ai grafici di progetto, alla documentazione inviata dal Comune, alla relazione illustrativa del competente organo e al parere espresso dalla C.E.I.;
- manca nel provvedimento del Soprintendente qualsiasi verifica sulla possibilità di interventi che rendano l’abuso conforme al dettato normativo (come ravvisato dalla Commissione comunale nel parere favorevole del 27/04/2010);
- non sono state assicurate le garanzie partecipative e non è stato formulato il preavviso di diniego.
3.- Tanto premesso, va osservato che, nel proprio parere, la Soprintendenza ha ritenuto che “la richiesta di sanatoria contrasta palesemente con quanto previsto dall'art. 167, comma 4, lett. a), [d.lgs. n. 42 del 2004], dove viene enunciato che l'autorità amministrativa competente può accertare la compatibilità paesaggistica solo allorquando "i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, (...) non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati"”.
L’opposta tesi dei ricorrenti fa leva sulla considerazione secondo cui nella specie non è configurabile la realizzazione di nuovi volumi, in quanto:
- il box auto è in maggior parte interrato ed è stato ricavato in uno spazio esistente;
- parimenti, le modifiche alla sagoma del fabbricato e gli incrementi planovolumetrici non sono computabili ai fini della compatibilità paesaggistica, poiché di carattere meramente accessorio.
La tesi non può essere condivisa.
La giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ha infatti chiarito che, ai sensi dell’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n. 42/2004, la sanabilità dell’opera sotto l’aspetto paesaggistico è esclusa in presenza di qualsiasi incremento volumetrico, indifferentemente dalla connotazione dello stesso in termini di volume tecnico ed, altresì, dalla circostanza che si tratti di un volume interrato.
In particolare, è stato affermato che: “Il vigente art. 167, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno” (Cons. Stato, sez. VI, 02/07/2015 n. 3289).
Tale esegesi della norma si mostra corrispondente alla finalità di preservazione, posta alla base della tutela paesaggistica, dovendosi pertanto ricomprendere nel suo ambito ogni creazione di nuovo volume (oppure l’aumento di quelli assentiti, come precisato dall’art. 167 citato), che determina la compromissione del valore tutelato, attraverso la realizzazione di nuovi ingombri in zona ove è vietata l’edificazione.
Peraltro, non sfugge che parte della giurisprudenza, anche di questo Tribunale, ha considerato ammissibile la compatibilità paesaggistica per i volumi tecnici (cfr. TAR Campania, sez. VII, 10/05/2012 n. 2173).
In relazione a ciò, è tuttavia necessario precisare (alla luce di quanto chiarito in giurisprudenza) che ricorre la nozione di volume tecnico, suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica, solo allorquando manchi una qualsivoglia autonomia funzionale e si rinvenga l’esclusiva destinazione ad ospitare impianti occorrenti alla funzionalità dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 31/03/2014 n. 1512: “Occorre osservare che la nozione di ‘volume tecnico', non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”; cfr., altresì, TAR Lazio, sez. I, 15/07/2013 n. 6997: “Secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Campania Napoli, Sez. IV, 13.05.2008, n. 4258; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 25.03.2008, n. 582), per l'identificazione della nozione di volume tecnico rilevano tre parametri: il primo, positivo e di tipo funzionale, costituito dall'esistenza di un rapporto di strumentalità necessaria tra il manufatto e l'utilizzo della costruzione a cui accede; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono poter essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti. Pertanto rientrano in tale nozione solo le opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa”).
Nel caso in esame, è evidente che non ricorrono tali condizioni, in presenza di interventi concretatisi nella realizzazione di un box auto (dotato di autonoma utilizzabilità e la cui funzionalità è separata dall’immobile) e di incrementi volumetrici che hanno prodotto la modifica della sagoma del fabbricato (arrecando quindi un non trascurabile impatto visivo e che non sono destinati a ospitare impianti al servizio del fabbricato).
Anche le ulteriore censure sono prive di fondamento, in quanto:
- non assume rilievo il richiamo alle leggi in tema di parcheggi pertinenziali, stante l’autonomia delle discipline regolanti gli aspetti urbanistici e paesaggistici, per cui la possibilità di costruire parcheggi e box auto in deroga agli strumenti urbanistici vigenti non esclude l’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento;
- il d.lgs. n. 42/2004, nell’assegnare alla Soprintendenza il potere di valutare la rispondenza dell’opera edilizia alla normativa paesaggistica, configura l’esercizio di un potere autonomo (nella specie, esercitato con compiuta cognizione dei fatti e degli elementi forniti, come emerge dal parere), cosicché non può predicarsi alcun obbligo di esaminare e confutare le motivazioni assunte dalla Commissione Edilizia Integrata comunale e la conclusione a cui la stessa era giunta nell’apporre condizioni (peraltro, inconciliabili con l’assoluta preclusione a realizzare nuovi volumi);
- l’ampia premessa, contenuta nel parere negativo, mette in luce e rafforza l’elemento dell’incompatibilità paesaggistica (evidenziando che già nel 1972 era stata ritenuta in contrasto l’eccessiva volumetria, ciò nonostante realizzata), senza che possa dirsi che l’attuale parere si limiti a richiamare il precedente giudizio (essendo lo stesso reso in base a quanto disposto dal citato art. 167, quarto comma, e per di più con l’espressa menzione che l’intervento contrasta “tutt’ora con la tutela del paesaggio”).
Quanto alle censure di ordine formale, svolte nei motivi aggiunti, occorre considerare che il procedimento che ha condotto al diniego di sanatoria è ad istanza di parte (essendo stato attivato dall’interessato con la presentazione della domanda di accertamento di conformità), cosicché è escluso l’obbligo della comunicazione di avvio ed altresì, stante il suo carattere vincolato, il diniego conseguente al parere negativo della Soprintendenza non è invalidato dall’omissione del preavviso ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 (cfr. in termini generali, su entrambi gli aspetti, da ultimo TAR Campania, sez. IV, 01/06/2016 n. 2783); per altro verso, l’intervento dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico si colloca all’interno dello stesso procedimento ed è regolato dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, che non prefigura alcun obbligo di preventiva comunicazione (cfr. TAR Lazio, sez. I, 15/07/2013 n. 6997, cit.).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso e i motivi aggiunti vanno respinti (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 30.08.2016 n. 4124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Soprintendenze, bandite nuove valutazioni sostitutive. Sentenza del tribunale amministrativo regionale per la Calabria.
La Soprintendenza non può svolgere una nuova valutazione sostitutiva di quella svolta dall'ente competente nel merito, mentre l'oggetto del giudizio alla stessa spettante appare limitato al profilo della legittimità dell'atto.

È quanto sottolineato dai giudici della I Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con la sentenza 29.08.2016 n. 1674.
I giudici calabresi hanno poi citato anche un altro orientamento giurisprudenziale secondo cui «l'annullamento del nulla osta paesaggistico comunale (Consiglio di stato n. 2176 del 2016), da parte della Soprintendenza, ha ad oggetto l'esercizio della funzione di controllo della legittimità del nulla osta rilasciato dall'ente locale delegato e risulta, quindi, riferibile a qualsiasi vizio di legittimità riscontrato nella valutazione formulata in concreto dall'ente territoriale (in senso conforme Consiglio di stato n. 1764 del 2016)».
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi catanzaresi vedeva Tizio che con l'atto introduttivo del giudizio chiedeva: l'annullamento del decreto del Soprintendente con cui era annullato il provvedimento del dirigente del settore tutela ambientale della Provincia contenente nulla osta paesaggistico.
Tizio stesso riferiva di essere proprietario di un terreno oggetto di ricorso e che aveva stipulato una convenzione edilizia con il comune e che, volendo edificare, aveva richiesto nulla osta paesaggistico. Dopo istruttoria, veniva rilasciato il nulla osta in suo favore, ma successivamente, la soprintendenza annullava il nulla osta rilasciato in precedenza dalla Provincia.
Pertanto Tizio impugnava il provvedimento.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale l'unico limite che la Soprintendenza competente incontra in tema di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall'ente competente tale da consentire la sovrapposizione o la sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell'autorizzazione.
Nel caso di specie, la Soprintendenza aveva annullato il nulla osta a suo tempo adottato evidenziando che dalla documentazione trasmessa si evinceva che l'ipotesi progettuale del fabbricato non poteva considerarsi idonea per le caratteristiche dell'ambito, rendendo ancor di più condizionata la realtà esistente dei luoghi, ancora sgombro nella porzione oggetto di intervento. Nel provvedimento si precisava che l'opera necessiterebbe di una riduzione dell'ingombro planimetrico e volumetrico per ridurre l'ampiezza visiva.
Pertanto secondo i giudici l'accertamento svolto andava oltre il profilo della mera legittimità, incidendo sul merito e comportando la sostituzione della propria valutazione a quella operata dall'ente competente (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).
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MASSIMA
1. Con l’atto introduttivo del giudizio, la parte ricorrente chiedeva: l’annullamento del decreto del Soprintendente del 01.08.2007 con cui era annullato il provvedimento del dirigente del settore tutela ambientale della Provincia di Vibo Valentia contenente nulla osta paesaggistico.
Riferiva: di essere proprietario del terreno descritto in ricorso; che aveva stipulato una convenzione edilizia con il comune di Ricadi; che, volendo edificare, aveva richiesto nulla osta paesaggistico; che, dopo istruttoria, veniva rilasciato il nulla osta in suo favore; che, tuttavia, successivamente, la soprintendenza annullava il nulla osta rilasciato in precedenza dalla Provincia.
Impugnava il provvedimento per: violazione dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990, dell’art. 159 del d.lgs. n. 42 del 2004, dell’art. 97 cost. e del principio di imparzialità; difetto di istruttoria; violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990; violazione degli artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42 del 2004; violazione dell’art. 146, sesto comma, del d.lgs. n. 42 del 2004; difetto di motivazione, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e contraddittorietà, come precisato in ricorso.
Si costituiva il Ministero resistente chiedendo di rigettare il ricorso.
2. Il ricorso proposto deve trovare accoglimento.
Nel corso del giudizio, veniva accolta, con ordinanza del Tar, confermata dal Consiglio di Stato, l’istanza cautelare proposta da parte ricorrente.
In particolare, merita accoglimento, come già sottolineato nel provvedimento di conferma dell’ordinanza cautelare da parte del Consiglio di Stato, il terzo motivo di ricorso formulato da parte ricorrente, in base al quale
la Soprintendenza, sostanzialmente, non può svolgere una nuova valutazione sostitutiva di quella svolta dall’ente competente nel merito, mentre l’oggetto del giudizio alla stessa spettante appare limitato al profilo della legittimità dell’atto.
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha annullato il nulla osta a suo tempo adottato evidenziando che dalla documentazione trasmessa si evince che l’ipotesi progettuale del fabbricato non può considerarsi idonea per le caratteristiche dell’ambito, rendendo ancor di più condizionata la realtà esistente dei luoghi, ancora sgombro nella porzione oggetto di intervento.
Nel provvedimento si precisa ancora che l’opera necessiterebbe di una riduzione dell’ingombro planimetrico e volumetrico per ridurre l’ampiezza visiva. L’accertamento svolto trascende il profilo della mera legittimità, incidendo sul merito e comportando la sostituzione della propria valutazione a quella operata dall’ente competente.
In senso conforme, si esprime, d’altro canto, la giurisprudenza amministrativa prevalente, con orientamento che si ritiene pienamente condivisibile.
In particolare (Tar Campania Salerno, n. 1104 del 2016) si evidenzia in giurisprudenza che
l’unico limite che la Soprintendenza competente incontra in tema di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall'ente competente tale da consentire la sovrapposizione o la sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell'autorizzazione. L’annullamento del nulla osta paesaggistico comunale (Cons. St. n. 2176 del 2016), da parte della Soprintendenza, ha ad oggetto l'esercizio della funzione di controllo della legittimità del nulla osta rilasciato dall'ente locale delegato e risulta, quindi, riferibile a qualsiasi vizio di legittimità riscontrato nella valutazione formulata in concreto dall'ente territoriale (in senso conforme Cons. St. n. 1764 del 2016).
Il provvedimento adottato deve pertanto essere annullato.

EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo all’irrogazione della sanzione della rimessa in pristino, il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio generale tempus regit actum, quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di realizzazione dell’abuso e l’ordinanza impugnata è stata adottata sotto la vigenza dell’art. 167 del richiamato d.lgs. n. 42 del 2004 nella sua nuova formulazione.
Detta ultima norma stabilisce, al comma 1, che “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
Anche a voler far riferimento alla disciplina di cui al previgente art. 167, comma 1, cit. (ante novella del 2006), la scelta tra la rimessione in pristino a spese del trasgressore o il pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione risponde ad una valutazione di opportunità rimessa esclusivamente all’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica nell’“interesse dei beni indicati nell’art. 134”.
Sicché, ove quest’ultima opti per la rimessione in pristino, che rappresenta la prima forma attraverso cui si realizza in maniera piena la protezione dei beni ambientali interessati, tale valutazione impinge nel merito dell’azione amministrativa e, come tale, se assistita da congrua motivazione, non può essere sindacata in sede giurisdizionale.
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2.2 Con riguardo all’irrogazione della sanzione della rimessa in pristino, il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio generale tempus regit actum, quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di realizzazione dell’abuso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.04.2000, n. 2544; Tar Liguria 26.11.2012) e l’ordinanza impugnata è stata adottata sotto la vigenza dell’art. 167 del richiamato d.lgs. n. 42 del 2004 nella sua nuova formulazione.
Detta ultima norma stabilisce, al comma 1, che “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
Anche a voler far riferimento alla disciplina di cui al previgente art. 167, comma 1, cit. (ante novella del 2006), la scelta tra la rimessione in pristino a spese del trasgressore o il pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione risponde ad una valutazione di opportunità rimessa esclusivamente all’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica nell’“interesse dei beni indicati nell’art. 134”; sicché, ove quest’ultima opti per la rimessione in pristino, che rappresenta la prima forma attraverso cui si realizza in maniera piena la protezione dei beni ambientali interessati, tale valutazione impinge nel merito dell’azione amministrativa e, come tale, se assistita da congrua motivazione, non può essere sindacata in sede giurisdizionale (Tar Lazio Roma 02.10.2008, n. 8716) (TAR Marche, sentenza 22.07.2016 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è ammissibile la compatibilità paesaggistica (ex art. 167 dlgs 42/2004) per: ampliamento fabbricati, realizzazione di una piscina e dell’annesso locale dei relativi impianti, realizzazione di una strada asfaltata.
Con riferimento alla realizzazione abusiva del cancello di ingresso e di due barbecue, sotto l’aspetto edilizio, tali opere edilizie, essendo assentibili con SCIA ai sensi dell’art. 37 DPR n. 380/2001, non possono essere demolite ma devono essere assoggettate al pagamento della sanzione pecuniaria stabilita dalla predetta norma. Anche sotto il profilo paesaggistico, i suddetti interventi edilizi non possono essere demoliti.
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Sotto l'aspetto paesaggistico,
tutte le altre opere edilizie realizzate abusivamente (ampliamento di entrambi i fabbricati, la realizzazione di una piscina e dell’annesso locale dei relativi impianti, realizzazione di una strada asfaltata -con diramazioni- verso l’abitazione ed il garage) non possono sfuggire alla rimessione in pristino, sancita dall’art. 167, comma 1, D.Lg.vo n. 42/2004.
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non può essere rilasciata “successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”, quando le opere realizzate hanno “determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero l’aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Al riguardo, va evidenziato che la nozione di superficie e/o volume utile va interpretata nel senso di qualsiasi opera edilizia calpestabile e/o che può essere sfruttata per qualunque uso, atteso che il concetto di utilità ha un significato differente nella normativa in materia di tutela del paesaggio rispetto alla disciplina edilizia.
Ed invero, sono soggette all’autorizzazione paesaggistica tutte le opere edilizie, che hanno una visibilità esterna e che perciò sono potenzialmente capaci di deturpare il paesaggio, in quanto, ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, sono esentati dall’autorizzazione paesaggistica soltanto gli interventi di manutenzione ordinaria e/o straordinaria e di restauro conservativo “che non alterano lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Ad ulteriore riprova delle notevoli differenze tra la materia dell’edilizia e quella della tutela del paesaggio, va sottolineato che per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 risulta sufficiente il presupposto della cd. doppia conformità, cioè la conformità degli abusi alla disciplina vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, mentre l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai sensi del suddetto combinato disposto di cui agli artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4, lett. a), b) e c), D.Lg.vo n. 42/2004, può essere rilasciata soltanto per le opere che non hanno determinato la creazione di superfici e/o volumi utili, per l’impiego di materiali difformi da quelli indicati nell’autorizzazione paesaggistica e per gli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
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Nella specie, mentre il cancello di ingresso ed i barbecue non hanno determinato la creazione di alcuna superficie e/o volume utili, tutte le altre opere edilizie abusive costituiscono superfici e/o volume utili.
Ed infatti nel sopralluogo del 30.08.2013 è stato accertato l’ampliamento di 186,96 mq. e di 546,91 mc. del fabbricato, destinato ad abitazione, e di 8,35 mq. e di 64,65 mc. del fabbricato, destinato a garage e ad intercapedine circostante.
Incontestabilmente costituiscono creazione di superficie utile anche la piscina, avente la superficie di 29,67 mq., e la strada asfaltata dal cancello di ingresso con diramazioni verso l’abitazione ed il garage.
Parimenti, hanno determinato la creazione di superfici e/o volume utili la costruzione abusiva del locale pompe a servizio della piscina, avente la superficie di 8,60 mq. e l’altezza di 2,40 m., e del box attrezzi, avente la superficie di 4,71 mq. e l’altezza di 1,85 m. alla linea di gronda e di 2,17 m. alla linea di colmo.

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... per l'annullamento:
quanto al ricorso n. 51 del 2015:
   - del provvedimento prot. n. 17120 del 14.11.2014 (notificato il 21.11.2014), con il quale il Responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Maratea ha respinto l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 del 29.08.2013;
   - della nota prot. n. 16051 del 27.10.2014, con la quale il Responsabile del Settore Tutela del Paesaggio del Comune di Maratea ha trasmesso alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Basilicata ed al sig. -OMISSIS- l’atto di pari data, di accertamento dell’incompatibilità paesaggistica delle opere edilizie, indicate nella predetta domanda di autorizzazione paesaggistica in sanatoria del 29.08.2013, in quanto avevano determinato la creazione di superfici e/o volumi utili, con la precisazione che tale nota costituiva comunicazione dell’avvio del procedimento ex art. 167 D.Lg.vo n. 42/2004;
   - della nota prot. n. 17727 del 25.11.2014, con la quale il medesimo Responsabile del Settore Tutela del Paesaggio specificava che il procedimento ex art. 167 D.Lg.vo n. 42/2004 si sarebbe concluso dopo aver acquisito il parere vincolante della Soprintendenza;
   - nonché per la condanna del Comune di Maratea al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e subendi, derivanti dai provvedimenti e/o atti impugnati e dall’illecito comportamento dell’Amministrazione resistente, con riserva di dimostrali e quantificarli nel corso del giudizio;
quanto al ricorso n. 284 del 2015:
   - dell’Ordinanza n. 120 del 22.12.2014 (notificata il 09.01.2015), con il quale il Responsabile del Settore comunale Urbanistica, ai sensi dell’art. 31 DPR n. 380/2001, ha ingiunto al sig. -OMISSIS- la demolizione delle opere edilizie, per le quali il comproprietario sig. -OMISSIS- con istanza del 29.08.2013 aveva chiesto la sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001;
   - nonché per la condanna del Comune di Maratea al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e subendi, derivanti dai provvedimenti e/o atti impugnati e dall’illecito comportamento dell’Amministrazione resistente, con riserva di dimostrali e quantificarli nel corso del giudizio;
...
I sigg. -OMISSIS- e -OMISSIS- sono comproprietari di due fabbricati, di cui uno destinato ad abitazione (identificato con la particela n. 699) ed un altro destinato a garage (identificato con la particela n. 700), e del relativo terreno circostante, siti nella Località Ogliastro del Comune di Maratea.
Con istanza del 29.08.2013 il sig. -OMISSIS- chiedeva il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 ed anche dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con riferimento alle seguenti opere edilizie non autorizzate:
   1) l’ampliamento di entrambi i fabbricati, in relazione al quale veniva specificato che non era stata superata la volumetria massima consentita, in quanto dalla superficie del terreno circostante residuava una volumetria non utilizzata di 213,93 mc. ed inoltre era stata asservita anche la superficie di un altro terreno, sito nella stessa zona, in corso di acquisizione;
   2) la realizzazione di una piscina e dell’annesso locale dei relativi impianti, del cancello di ingresso, di due barbecue e di una strada asfaltata dal cancello di ingresso con diramazioni verso l’abitazione ed il garage.
...
In via preliminare, il Collegio ritiene opportuno disporre la riunione dei due giudizi indicati in epigrafe, sia perché hanno per oggetto gli stessi immobili, di cui sono comproprietari il sig. -OMISSIS-, che ha proposto il Ric. n. 51/2015, e la sig.ra -OMISSIS-, che ha proposto il Ric. n. 284/2015, sia perché l’Ordinanza di demolizione n. 120 del 22.12.2014 è stata impugnata con entrambi i predetti Ricorsi.
Nel merito, i Ricorsi n. 51/2015 e n. 284/2015 vanno accolti soltanto con riferimento alla realizzazione del cancello di ingresso e dei barbecue.
Per quanto riguarda l’aspetto edilizio, tali opere edilizie, essendo assentibili con SCIA, ai sensi dell’art. 37 DPR n. 380/2001, non possono essere demolite, ma devono essere assoggettate al pagamento della sanzione pecuniaria stabilita dalla predetta norma.
Anche sotto il profilo paesaggistico, i suddetti interventi edilizi non possono essere demoliti, mentre tutte le altre opere edilizie realizzate abusivamente non possono sfuggire alla rimessione in pristino, sancita dall’art. 167, comma 1, D.Lg.vo n. 42/2004.
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non può essere rilasciata “successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”, quando le opere realizzate hanno “determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero l’aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Al riguardo, va evidenziato (sul punto cfr. da ultimo TAR Basilicata Sent. n. 906 del 27.12.2014) che la nozione di superficie e/o volume utile va interpretata nel senso di qualsiasi opera edilizia calpestabile e/o che può essere sfruttata per qualunque uso, atteso che il concetto di utilità ha un significato differente nella normativa in materia di tutela del paesaggio rispetto alla disciplina edilizia.
Ed invero, sono soggette all’autorizzazione paesaggistica tutte le opere edilizie, che hanno una visibilità esterna e che perciò sono potenzialmente capaci di deturpare il paesaggio, in quanto, ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, sono esentati dall’autorizzazione paesaggistica soltanto gli interventi di manutenzione ordinaria e/o straordinaria e di restauro conservativo “che non alterano lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Ad ulteriore riprova delle notevoli differenze tra la materia dell’edilizia e quella della tutela del paesaggio, va sottolineato che per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 risulta sufficiente il presupposto della cd. doppia conformità, cioè la conformità degli abusi alla disciplina vigente sia al momento della loro realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, mentre l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai sensi del suddetto combinato disposto di cui agli artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4, lett. a), b) e c), D.Lg.vo n. 42/2004, può essere rilasciata soltanto per le opere che non hanno determinato la creazione di superfici e/o volumi utili, per l’impiego di materiali difformi da quelli indicati nell’autorizzazione paesaggistica e per gli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Nella specie, mentre il cancello di ingresso ed i barbecue non hanno determinato la creazione di alcuna superficie e/o volume utili, tutte le altre opere edilizie abusive costituiscono superfici e/o volume utili.
Ed infatti nel sopralluogo del 30.08.2013 è stato accertato l’ampliamento di 186,96 mq. e di 546,91 mc. del fabbricato, destinato ad abitazione, e di 8,35 mq. e di 64,65 mc. del fabbricato, destinato a garage e ad intercapedine circostante.
Incontestabilmente costituiscono creazione di superficie utile anche la piscina, avente la superficie di 29,67 mq., e la strada asfaltata dal cancello di ingresso con diramazioni verso l’abitazione ed il garage.
Parimenti, hanno determinato la creazione di superfici e/o volume utili la costruzione abusiva del locale pompe a servizio della piscina, avente la superficie di 8,60 mq. e l’altezza di 2,40 m., e del box attrezzi, avente la superficie di 4,71 mq. e l’altezza di 1,85 m. alla linea di gronda e di 2,17 m. alla linea di colmo.
Conseguentemente, vanno disattese le censure con le quali è stato dedotto il vizio dell’eccesso di potere per difetto di motivazione e carenza di istruttoria, in quanto risulta incontrovertibile l’abusiva realizzazione di superfici e/o volume utili.
Pertanto, come ammesso dagli stessi ricorrenti, poiché ai sensi dell’art. 146, comma 4, primo periodo, D.Lg.vo n. 42/2004 “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio” e poiché per le suindicate opere edilizie, diverse dal cancello di ingresso e dai barbecue, non può essere rilasciata l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, il Tribunale adito non può annullare i provvedimenti e/o gli atti impugnati con il Ric. n. 51/2015 (e l’atto di motivi aggiunti a tale ricorso) ed il Ric. n. 284/2015, nella parte in cui si riferiscono agli altri interventi edilizi diversi dal cancello di ingresso e dai barbecue, prescindendo dall’esame della censura relativa alla violazione dell’art. 36 del vigente Regolamento Edilizio ex art. 16 L.R. n. 23/1999.
Ciò in quanto, anche se i sopra descritti abusi edilizi dovessero rientrare nell’ambito oggettivo della ristrutturazione edilizia, la disciplina in materia di tutela del paesaggio non prevede una norma analoga all’art. 33, comma 2, DPR n. 380/2001, per cui i predetti abusi non possono non essere assoggettati alla sanzione della loro demolizione, anche se il relativo provvedimento è stato adottato il 22.12.2014, due giorni prima della formale ricezione del vincolante parere sfavorevole Soprintendente di Potenza prot. n. 12614 di pari data 22.12.2014 (TAR Basilicata, sentenza 01.06.2016 n. 586 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla sanatoria paesaggistica -o meno- di un modesto abbaìno (che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a dare luce al vano sottotetto.
Il Collegio è del parere che nei casi in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi.

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La Soprintendenza non può sottrarsi all’esame della concreta fattispecie sottoposta al suo scrutinio semplicemente evidenziando che le opere non rientrano nella casistica prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c), del decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto avrebbero comportato la realizzazione di volume ex novo, con conseguente incremento della volumetria legittima.
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il linguaggio ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al contesto, usa l’art. 167– l’abbaìno di cui si controverte sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano sottotetto (avendo la sola funzione di darvi aria e luce).
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua valutazione in concreto e postuma di compatibilità paesaggistica.
Sarebbe stato cioè necessario, data la natura di volume tecnico, procedere a un concreto accertamento di compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e concreta rispetto ai valori tutelati.
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Non può essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni, dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità dell’abbaìno di che trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato.
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... per la riforma della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZ. VII n. 4805/2012, resa tra le parti, concernente parere di non compatibilità paesaggistica.
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2.- L’appello è fondato e va accolto.
3.- La questione centrale da dirimere attiene alla legittimità del provvedimento soprintendentizio gravato in primo grado, col quale l’autorità preposta alla tutela vincolo paesaggistico si è negativamente determinata, nel procedimento di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, riguardo alla sanatoria paesaggistica di un piccolo intervento edilizio realizzato dal ricorrente nel vano sottotetto.
In particolare, le ragioni del diniego si sono appuntate sulla impossibilità di accordare il provvedimento favorevole a fronte di nuove volumetrie e superfici realizzate dall’odierno appellante nella costruzione di un modesto abbaìno (che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a dare luce al vano sottotetto.
4.- Il Collegio è del parere che nei casi, come quello in esame, in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi (cfr., in termini, Cons. St., VI, n. 5932 del 2014).
In linea preliminare, occorre muovere dalla rilevazione del contenuto dell’art. 167 (Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria) d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il cui comma 4 prevede che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei casi indicati (per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380); il comma 5 consente al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 di presentare apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi che, qualora venga accertata, comporta il pagamento di una indennità pecuniaria equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.
La Soprintendenza non può tuttavia sottrarsi all’esame della concreta fattispecie sottoposta al suo scrutinio semplicemente evidenziando che le opere non rientrano nella casistica prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c), del decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto avrebbero comportato la realizzazione di volume ex novo, con conseguente incremento della volumetria legittima.
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il linguaggio ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al contesto, usa l’art. 167– l’abbaìno di cui si controverte sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano sottotetto (avendo la sola funzione di darvi aria e luce).
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua valutazione in concreto e postuma di compatibilità paesaggistica. Sarebbe stato cioè necessario, data la natura di volume tecnico, procedere a un concreto accertamento di compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e concreta rispetto ai valori tutelati (cfr. in tali sensi Cons. St., VI, n. 5932 del 2014).
5.- Non può dunque essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991; art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità dell’abbaìno di che trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato.
Né da ultimo appare condivisibile quanto osservato dal Tar a proposito della mancata allegazione, da parte dell’interessato, di elementi probatori da cui desumere la compatibilità paesaggistica dell’intervento, trattandosi di valutazione riservata all’autorità preposta alla tutela del vincolo, senza possibilità alcuna di inversione dell’onere dimostrativo (in definitiva, è l’Autorità che deve dimostrare l’eventuale incompatibilità dell’intervento edilizio con i valori paesaggistici dei luoghi e non il privato a comprovare in positivo la compatibilità).
6.- Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va accolto e, in riforma della impugnata sentenza ed in accoglimento del ricorso di primo grado, va disposto l’annullamento dell’atto gravato in prime cure (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di autorizzazione paesaggistica dell’ente locale, espressione dell’esercizio di valutazioni tecniche, deve contenere un’adeguata motivazione, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990).
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L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di effettuare «un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione».
Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera.
In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare –anche per evidenziare l’eccesso di potere nell’atto esaminato– le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità delle opere realizzate con i valori tutelati.

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8.– Con un primo motivo, si deduce l’erroneità della sentenza e l’illegittimità dell’atto impugnato nella parte in cui non hanno rilevato come l’autorizzazione del Comune fosse congruamente motivata anche mediante rinvio al parere della commissione edilizia, con conseguente sovrapposizione della valutazione effettuata dalla Soprintendenza a quella dell’autorità preposta alla gestione del vincolo.
L’appello rileva, inoltre, come la Soprintendenza motivi la propria determinazione facendo riferimento alla mancanza di un progetto di riqualificazione della cava, nel cui abito sono collocate le opere, che esulerebbe dalle finalità cui è preposto il parere della Soprintendenza stessa.
Il motivo è fondato.
L’atto di autorizzazione dell’ente locale, espressione dell’esercizio di valutazioni tecniche, deve contenere un’adeguata motivazione, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990).
L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di effettuare «un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione» (v. per tutte Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 14.08.2012, n. 4562).
Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare –anche per evidenziare l’eccesso di potere nell’atto esaminato– le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità delle opere realizzate con i valori tutelati (tra gli altri, Cons. Stato, sez. VI, 18.01.2012, n. 173; Id., 28.12.2011, n. 6885; Id., 21.09.2011, n. 5292).
Nella fattispecie in esame, la vicenda sottoposta all’esame del Collegio presenta profili di particolarità.
Il Comune di Maiori, richiamando il parere della commissione edilizia integrata, ha rilasciato la prescritta autorizzazione con le seguenti prescrizioni:
- obbligo di utilizzare «per il trattamento delle superficie esterne intonaci tradizionali di colorazione compatibili con il contesto paesaggistico circostante quale quello della cava dismessa di Erchie»;
- «vengano comunque utilizzati materiali compatibili con l’art. 26 della legge regionale n. 35 del 1987».
La Soprintendenza ha ritenuto che tale provvedimento comunale fosse privo di adeguata motivazione.
In particolare, si è rilevato che gli immobili in questione, essendo «ben visibili da numerosi punti di vista e di belvedere perché di dimensioni consistenti, di tipologie edilizia e rifinitura di modesto valore architettonico» sono «dissonanti con il contesto paesaggistico e le peculiarietà scandite» dal provvedimento di tutela e che «la proposta di sanatoria è finalizzata al mantenimento dei manufatti così come realizzati e funzionali all’attività svolta, per i quali, tra l’altro, vengono proposti opinabili e non meglio finalizzati interventi di manutenzione».
Svolta questa premessa, la Soprintendenza rileva che la proposta «non è corredata da alcun progetto di riqualificazione paesaggistica dell’area sulla quale insistono, pure previsto ed incentivato dalla vigente normativa regionale (l.r. n. 17/1995) e che l’area rimane ancora testimone delle dismesse attività; né è possibile condividere, al momento, la volontà (espressa dal solo tecnico incaricato estensore della pratica di condono) di avvio ad una ipotetica successiva fase progettuale la riqualificazione generale dell’area». Si conclude affermando che «quanto dichiarato in atti circa l’ipotesi di riqualificazione non consente a questo ufficio di potere valutare compiutamente l’ipotesi di condonabilità dei predetti manufatti».
Da quanto sin qui esposto, risulta chiaramente come la Soprintendenza fondi, essenzialmente, il diniego di autorizzazione sulla mancanza di un progetto di riqualificazione delle cave dismesse. Ma tale prescrizione non rappresenta una condizione per l’ottenimento del condono. L’amministrazione statale richiama genericamente la legge della Regione Campania 13.04.1995, n. 17 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 13.12.1985, n. 54, concernente la disciplina della coltivazione delle cave e delle torbiere nella Regione Campania), la quale ha modificato la legge della Regione Campania, 13.12.1985, n. 54 (Coltivazione di cave e torbiere).
Non indica, però, alcuna specifica disposizione che condiziona il rilascio dell’autorizzazione a fini del condono edilizio alla previa presentazione di un progetto di riqualificazione dell’area. In mancanza di un chiaro vincolo normativo, che la Soprintendenza avrebbe dovuto individuare, la sua valutazione si sarebbe dovuta limitare a valutare la compatibilità degli interventi con l’attuale stato dei luoghi.
Ed in relazione a tale ultimo profilo, come emerge da quanto riportato, le valutazioni tecniche effettuate dalla Soprintendenza sono generiche e comunque compatibili, come del resto fatto dal Comune, con l’adozione di un provvedimento favorevole con precise prescrizioni da osservare.
In definitiva, dunque, a fronte di un atto comunale che, sia pur in modo sintetico, ha valutato le opere con il contesto paesaggistico effettivamente esistente subordinando il rilascio del provvedimento al rispetto di puntuali condizioni, la Soprintendenza ha annullato tale atto, rilevando un difetto di motivazione, a cui però è seguita una motivazione del provvedimento di annullamento fondata principalmente su ragioni non ancorate ad un preciso parametro legale di validità (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Di talché, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5.

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4. - Con il primo motivo di appello il signor Casella ha censurato il capo di sentenza che ha respinto la censura di illegittimità del parere in quanto rilasciato oltre il termine perentorio di novanta giorni.
4.1 - Il primo giudice ha respinto il motivo rilevando che: “Costituisce orientamento giurisprudenziale, da cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che dal mancato rispetto del termine, previsto dall’art. 167, comma 5, d.lgs. 42 del 2004 per il rilascio del parere, non maturi alcuna decadenza del potere della Soprintendenza. S’è convincentemente affermato che la perentorietà del termine non riguarda affatto la sussistenza del potere bensì l’obbligo di concludere la fase del procedimento. A corollario: il parere tardivo non è ex se illegittimo tant’è che il provvedimento conclusivo del procedimento deve comunque attenersi al parere ancorché emesso dopo che è spirato il termine di cui al 5° comma dell’art. 167 d.lgs. cit. (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 18.09.2013 n. 4656; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 12.07.2013 n. 1681)”.
4.2 - Con il primo motivo di appello, l’appellante rileva che il parere impugnato è stato emesso tardivamente (dopo 108 giorni): pertanto, esso sarebbe nullo avendo perso l’Amministrazione il potere di rilasciarlo, e comunque detto atto –ove pure fosse ritenuto valido– non sarebbe più stato vincolante, con la conseguenza che l’Amministrazione Comunale avrebbe dovuto motivare autonomamente la propria determinazione non potendo limitarsi a richiamare il parere della Soprintendenza.
4.3 - Il Comune di Portovenere ha replicato che –ove detto parere dovesse ritenersi non vincolante– il ricorso sarebbe inammissibile trattandosi di atto endoprocedimentale.
4.4. - La difesa della società Rai Way, invece, ha sottolineato l’infondatezza della censura richiamando il costante orientamento della giurisprudenza.
4.5 - La doglianza non può essere accolta.
Condivide, infatti, la Sezione i principi affermati dal primo giudice che richiamano la giurisprudenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato.
L’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Ritiene innanzitutto il Collegio che, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5 (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.09.2013, n. 4656).
Ne consegue l’infondatezza della censura (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I box prefabbricati sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico” trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto visivo.
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione paesistica postuma.

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6. - Con il quarto motivo di appello l’appellante ha reiterato le censure assorbite del primo giudice.
6.1 - Ha quindi riproposto la censura di violazione dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004, sottolineando come l’accertamento di compatibilità paesaggistica postuma sia possibile “per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”, rilevando che nel caso di specie, invece, vi sarebbe stata la realizzazione di volumi consistenti in box prefabbricati.
6.2 - La censura è infondata.
Occorre preventivamente rilevare che i box prefabbricati sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico” trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto visivo (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 31/03/2014, n. 1512).
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione paesistica postuma (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTIOggetto: Opportunità nuove gare pubbliche per lavori – CONSIP e ANAS (ANCE di Bergamo, circolare 23.09.2016 n. 172).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Integrazioni al decreto legislativo 102/2014 sull’efficienza energetica (ANCE di Bergamo, circolare 09.09.2016 n. 164).

ATTI AMMINISTRATIVIOggetto: Decreto Legislativo 30.06.2016, n. 127 recante "Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell'articolo 2 della Legge 07.08.2015, n. 124" (Prefettura di Bergamo, nota 09.09.2016 n. 47130 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Gestione associata delle funzioni fondamentali degli enti locali ex art. 14, D.L. 31.5.2010, n. 78, convertito commi da 25 con modifìcazioni dalla legge 30.07.2010 e dai commi da 25 a 31-quater della n. 122/2010 e successive modifiche, base al testo come integrato dall'art. 19 della n. 135/2012 (Prefettura di Avellino, nota 07.09.2016 n. 371 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'11.09.2016, "Sesto aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 06.10.2016 n. 9774).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 10.10.2016 n. 237 "Criteri da tenere in conto nel determinare l’importo delle garanzie finanziarie, di cui all’articolo 29-sexies , comma 9-septies, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente e delle Tutela del Territorio e del Mare, decreto 26.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 10.10.2016, "Iscrizione al registro dell’unione di Comuni Lombarda Adda Martesana, in Città Metropolitana di Milano, e aggiornamento dell’elenco delle unioni di comuni lombarde, ai sensi della d.g.r. n. 3304 del 27.03.2015" (decreto D.S. 05.10.2016 n. 9723).

EDILIZIA PRIVATA: Segnalazione certificata di inizio attività, SCIA: intesa sul decreto.
Le Regioni hanno espresso l’intesa sul decreto relativo all’individuazione dei procedimenti oggetto autorizzazione, segnalazione certificata di inizio attività (Scia) in applicazione della riforma Madia sulla pubblica amministrazione (art. 5, L. 124/2015).
Nella riunione della Conferenza Unificata del 29.09.2016, le regioni hanno consegnato al Governo un documento nel quale, “pur condividendo la ratio dello schema di decreto”, si ritiene “indispensabile” intervenire su alcuni punti dell’articolato.
Nel corso del confronto con il governo le osservazioni fondamentali delle Regioni sono state accolte e si è così sancita l’intesa (30.09.2016 - tratta da e link a www.regioni.it).

SICUREZZA LAVORO: G.U. 27.09.2016 n. 226 "Regolamento recante regole tecniche per la realizzazione e il funzionamento del SINP, nonché le regole per il trattamento dei dati, ai sensi dell’articolo 8, comma 4, del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, decreto 25.05.2016 n. 183).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 22.09.2016, "Costituzione della commissione per la valutazione delle domande presentate dai candidati alla nomina di esperto nell’ambito della commissione regionale in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015 - Art. 4, comma 2)" (deliberazione G.R. 14.09.2016 n. 8911).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2016, "Approvazione delle «Linee guida per la valutazione e tutela della componente ambientale biodiversità nella redazione degli studi di impatto ambientale e degli studi preliminari ambientali e a supporto delle procedure di valutazione ambientale»" (deliberazione G.R. 12.09.2016 n. 5565).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 13.09.2016 n. 214 "Modifiche ed integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. 26.08.2016 n. 179).

INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 12.09.2016 n. 213 "Regolamento recante le disposizioni per la tenuta e l’aggiornamento di albi, elenchi e registri da parte dei Consigli dell’ordine degli avvocati, nonché in materia di modalità di iscrizione e trasferimento, casi di cancellazione, impugnazioni dei provvedimenti adottati in tema dai medesimi Consigli dell’ordine, ai sensi dell’articolo 15, comma 2, della legge 31.12.2012, n. 247" (Ministero della Giustizia, decreto 16.08.2016 n. 178).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 12.09.2016 n. 213 "Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. 19.08.2016 n. 177).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 09.09.2016, "Circolare esplicativa circa la definizione univoca del termine «Regolazione» per la categoria progettuale di cui alla lettera 7.o) di allegato B alla l.r. 5/2010: «Opere di canalizzazione e di regolazione dei corsi d’acqua»" (circolare regionale 01.09.2016 n. 17).
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Considerata:
− la molteplicità delle fattispecie e delle casistiche progettuali inerenti le opere di regolazione dei corsi d’acqua, la necessità di valutare caso per caso la consistenza degli adeguamenti, anche in quota, di arginature esistenti,
− la necessità di identificare o meno alcuni interventi di stabilizzazione d’alveo e/o di rivestimento spondale alla stregua di interventi di canalizzazione [e quindi ricondotti alla categoria progettuale di cui alla lettera 7.o) di Allegato B alla l.r. 5/2010],
si rende necessario che durante l’iter tecnico-amministrativo di approvazione del progetto, l’autorità competente all’approvazione e/o autorizzazione del progetto giunga a specifiche determinazioni circa l’assoggettamento o meno a verifica di V.I.A. del progetto in argomento, dandone atto nel provvedimento di approvazione.
Per consentire tali determinazioni il Proponente è tenuto a predisporre specifica documentazione tecnico- amministrativa recante le proprie valutazioni circa l’assoggettamento o meno a verifica di VIA.

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 dell'08.09.2016, "Quinto aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 02.09.2016 n. 8412).

ENTI LOCALI: G.U. 08.09.2016 n. 210 "Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" (D.Lgs. 19.08.2016 n. 175).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 07.09.2016 n. 209 "Proroga dell’ordinanza contingibile e urgente 06.08.2013, come modificata dall’ordinanza 03.08.2015, concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero della Salute, ordinanza 13.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: G.U. 07.09.2016 n. 209 "Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 07.08.2015 n. 124" (D.Lgs. 26.08.2016 n. 174).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: Principio di rotazione negli appalti: un paradosso giuridico (09.10.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Arbitrio senza tutele per i nuovi incarichi dirigenziali post Madia (08.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenza parafulmine per la responsabilità erariale della politica (02.10.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI SERVIZI: N. Durante, L’affidamento in house (29.09.2016 - tratto da www.gistizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nel Paese della produttività bassissima si vaneggia dell’aumento orario nel pubblico impiego (27.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

SEGRETARI COMUNALI: Diritti di rogito: i pareri immotivati della Corte dei conti (26.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contrattazione decentrata: si negoziano i criteri, non le somme (25.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

SEGRETARI COMUNALI: Segretari comunali: lotteria della qualifica dirigenziale nel caos Madia (23.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: R. De Nictolis, Il Codice dei contratti pubblici: la semplificazione che verrà (22.09.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Un codice “su misura”. - 2. Un anno fa. - 3. Oggi. - 4. C’è il codice: c’è la semplificazione? - 5. Semplificazione: istruzioni per l’uso. - 5.1. Realtà complesse e ordinamenti multilivello. - 5.2. “Lingua comune”. - 5.3. Codificazione e decodificazione. - 5.4. Semplificare le organizzazioni e i procedimenti. - 5.5. Standardizzazione e trasparenza. - 5.6. Sinteticità, clare loqui, principio di lealtà. - 5.7. Il fattore tempo: il tempo della legge, i tempi del legislatore. - 5.8. Tabula rasa e/o transizione? - 5.9. Semplificazione e semplificatori. - 5.10. Semplificazione e processo. – 6. Per semplificare basta un codice?

ATTI AMMINISTRATIVI: G. P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo (21.09.2016 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. L’indirizzo assunto dalla Cassazione e il suo rapido consolidamento, segnali di ripensamento. 2. Rassegna ragionata della posizione della Cassazione e del Consiglio di Stato sulla tutela dell’affidamento relativo a un provvedimento favorevole annullato. 3. La natura giuridica dell’affidamento e il fondamento della responsabilità contrattuale. 4. La recente svolta giurisprudenziale della Cassazione che riconduce la responsabilità da contatto giuridico qualificato alla responsabilità precontrattuale, a sua volta ricondotta alla responsabilità contrattuale e non extra contrattuale com’era avvenuto finora. 5. Le situazioni base dell’interesse pretensivo e l’affidamento susseguente all’apertura del procedimento amministrativo. 6. L’interesse alla stabilità del provvedimento amministrativo e l’interesse all’ottenimento del provvedimento favorevole. 7. L’affidamento nella stabilità del provvedimento ancora impugnabile e l’affidamento nel provvedimento stabile ma revocabile. 8. La natura della responsabilità derivante dall’esercizio illegittimo e legittimo dell’azione amministrativa. 9 La c.d. tutela contrattuale debole e il danno meramente patrimoniale. 10. Conclusioni.

APPALTI: Gare sotto soglia: la motivazione “adeguata”? Solo una frase fatta (18.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: N. Niglio, La carenza numerica di personale qualificato in una P.A. non giustifica il ricorso a un incarico di collaborazione professionale (nota a Corte dei Conti, Sez. Centr. Controllo, deliberazione 25.08.2016 n. 11) (17.09.2016 - tratto da e link a www.lexitalia.it).
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MASSIMA
   1. Gli incarichi professionali nella pubblica amministrazione di cui all’articolo 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001 devono far fronte a esigenze eccezionali, straordinarie e temporanee, che non possono in alcun modo coprire i fabbisogni ordinari e le esigenze di carattere duraturo, cui gli enti sono tenuti a far fronte attraverso la programmazione triennale del fabbisogno del personale, o attraverso la riqualificazione professionale del personale interno.
   2. Le figure professionali che necessitano per la realizzazione delle attività oggetto del conferimento di incarichi di collaborazione professionale non devono essere soggettivamente indisponibili, ma oggettivamente non rinvenibili nell’ambito delle risorse umane a disposizione dell’Amministrazione conferente, la quale non può fare ricorso all’affidamento di incarichi di collaborazione per lo svolgimento di funzioni ordinarie attribuibili a personale rientrante nei ruoli organici.
   3. La ricognizione della natura dell’incarico affidato da un Ente previdenziale, consistente nell’adeguamento e nella implementazione del sistema contabile e di bilancio del medesimo Istituto alle nuove regole della contabilità pubblica armonizzata, ha permesso di ritenere che tale attività, seppur connotata da profili di novità, è da ricondurre ai compiti istituzionali generali dell’Istituto e alle mansioni ordinarie proprie delle qualifiche professionali presenti nel relativo organico, tale, perciò, da poter essere svolta dal personale in servizio.

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Lavoro, controlli a distanza: no al controllo indiscriminato di e-mail e Internet (16.09.2016 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI: G. Buscema, Cambio d’appalto: quando è trasferimento d’azienda? (16.09.2016 - tratto da www.ipsoa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni e spesa di personale: il fenomeno di ciò che è, ma è anche altro (10.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Tutte le storture dei gabinetti del sindaco in un’intervista (07.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI: La nuova disciplina delle società partecipate delle Pubbliche Amministrazioni - D.LGS. 19.08.2016 N. 175 - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, settembre 2016).

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, La sanzione di mancata fine lavori e collaudo anche per la SCIA? (25.08.2016 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: R. Pallotta, Al via il "nuovo" licenziamento disciplinare per i falsi presenti o assenti nella PA (13.07.2016 - tratto da www.ipsoa.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA PUBBLICI CONTRATTI)

APPALTI FORNITURE: Aggiornamento dei prezzi di riferimento della carta in risme, ai sensi dell’art. 9, comma 7 del d.l. 66/2014 – Fascicolo REG/UCS/14/2016 (delibera 21.09.2016 n. 1006 - link a www.anticorruzione.it).
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Prezzi di riferimento
Aggiornamento dei prezzi di riferimento per la fornitura di carta in risme

Nell’adunanza del 21.09.2016 con la delibera n. 1006, il Consiglio dell’Autorità ha aggiornato i prezzi di riferimento della carta in risme. I prezzi aggiornati sono stati elaborati sulla base di sviluppi metodologici che hanno affinato in modo significativo il modello elaborato nel 2015, tenendo adeguatamente conto dei rilievi formulati dagli stakeholders in sede di consultazione on-line.

APPALTI: Linee Guida n. 2, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Offerta economicamente più vantaggiosa” (determinazione 21.09.2016 n. 1005 - link a www.anticorruzione.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Linee Guida n. 1, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria” (determinazione 14.09.2016 n. 973 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI SERVIZI: Oggetto: Indicazioni operative alle stazioni appaltanti e agli operatori economici in materia di affidamento di servizi sociali (comunicato del Presidente 14.09.2016 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: (proposta di) Linee guida per il ricorso a procedure negoziate senza previa pubblicazione di un bando nel caso di forniture e servizi ritenuti infungibili (14.09.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Nell’adunanza del 31.08.2016, il Consiglio dell’Autorità ha approvato, in via preliminare, il documento denominato “Linee guida per il ricorso a procedure negoziate senza previa pubblicazione di un bando nel caso di forniture e servizi ritenuti infungibili”, che tiene conto sia delle osservazioni pervenute a seguito della consultazione pubblica avviata il 27.10.2015 sia delle disposizioni dettate in materia dalla nuova normativa nazionale e comunitaria.
In considerazione della rilevanza generale delle determinazioni assunte, il Consiglio ha ritenuto di acquisire, prima dell’approvazione del documento definitivo, il parere del Consiglio di Stato, della Commissione VIII - Lavori pubblici, comunicazioni del Senato della Repubblica e della Commissione VIII - Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati.
All’esito dell’acquisizione dei pareri richiesti, si procederà all’approvazione e successiva pubblicazione del documento definitivo.

APPALTI SERVIZI: Oggetto: chiarimenti sull’applicazione dell’art. 192 del Codice dei contratti (comunicato del Presidente 03.08.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Pubblicato il comunicato del Presidente che fornisce chiarimenti sulla possibilità di effettuare affidamenti diretti alle società in house nelle more dell’emanazione, da parte dell’Autorità, dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori.

INCARICHI PROFESSIONALI: Verifiche circa le modalità di affidamento dei servizi di assistenza legale di cui all’allegato II B del Codice dei contratti pubblici (delibera 20.07.2016 n. 774 - link a www.anticorruzione.it).
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MASSIMA
1. Premessa e fatto
A seguito della segnalazione acquisita al protocollo Anac n. 138863 del 22/10/2015 con cui l’ex Assessore alla mobilità e ai trasporti di Roma Capitale, Dott. St.Es., ha denunciato scarsa trasparenza nella gestione degli affidamenti legali di A. S.p.A., l’Autorità, nell’ambito dell’assolvimento dei propri compiti istituzionali, ha ritenuto di approfondire le modalità con le quali A. S.p.A. ha proceduto all’affidamento di servizi legali nel periodo 2011-2015, mediante l’acquisizione dello SMARTCIG, ed a tal fine, sono stati estratti dalla banca dati nazionale (BDNCP) gli affidamenti di servizi legali attivati dalla stessa società nel periodo 2011/2015.
Dall’analisi dei dati è emerso un elevato numero di servizi legali affidati all’esterno, nonostante la presenza in A. S.p.A. di avvocati abilitati all’esercizio della professione assunti per lo svolgimento delle funzioni legali della società, ed il frequente ricorso all’affidamento diretto per tale tipologia di servizi nel periodo di riferimento. L’Autorità, pertanto, al fine di acquisire maggiori informazioni in relazione a quanto riscontrato, ha chiesto ad A. S.p.A. di inviare, entro 30 giorni, la seguente documentazione:
...
Ritenuto in diritto
L'art. 20 comma 1, del previgente d.lgs. n. 163/2006 stabilisce che: “l’aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati nell'allegato II B (tra cui i Servizi Legali) è disciplinata esclusivamente dall'art. 68 (specifiche tecniche), dall'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento), dall'articolo 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati)”.
Occorre, inoltre, tener conto del disposto del successivo art. 27, ai sensi del quale l'affidamento dei contratti pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall'applicazione dello stesso d.lgs. n. 163/2006, doveva avvenire “nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”.
Tali regole, tese ad evitare il pericolo concreto di violazione della imparzialità della stazione appaltante e quindi poste a tutela della correttezza del procedimento e dell'azione amministrativa, vanno considerate imperative e come tali inderogabilmente applicabili sulla base di canoni di interpretazione sistematica.
Il principio generale nel quale occorre sussumere le disposizioni interessate è, quindi, quello della trasparenza e imparzialità dell’operato della pubblica amministrazione, a maggior ragione considerando che l'articolo 2, comma 3, del predetto codice dei contratti prevedeva che dovevano essere, altresì, rispettate le disposizioni sul procedimento amministrativo di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, il cui art. 1 evidenzia che l’azione amministrativa deve essere retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza.
Con particolare riferimento al tenore dell'art. 20 del previgente codice dei contratti, in base al quale l’aggiudicazione degli appalti aventi oggetto i servizi e gli altri indicati nell’elenco allegato II B era disciplinata esclusivamente dagli artt. 68 (specifiche tecniche), 65 (avviso sui risultati della procedura) e 225 (avviso sugli appalti aggiudicati), lo stesso non presupponeva affermare un principio per cui l’art. 20 avesse introdotto una deroga all’applicazione di gran parte delle norme del codice degli appalti (in contrario ad una deroga generalizzata, v. Cons. di Stato, sez. V, n. 4510/2012).
L’orientamento sembra doversi contenere nella confermata applicabilità di tutte le norme del codice che abbiano una valenza di principio generale, senza quindi potersi spingere ad applicare cause di esclusione non espressamente previste dalla normativa, stante peraltro il principio di tassatività delle stesse in correlazione con quello di massima partecipazione (Cons. di Stato, sez. V, n. 7672/2010).
Tutto ciò considerato in fatto e ritenuto in diritto
DELIBERA
- che A. S.p.A.
nel tempo ha operato una inesatta qualificazione giuridica della fattispecie dei servizi legali;
- che A. S.p.A.
non ha rispettato quanto previsto dall’art. 27, comma 1, del precedente codice dei contratti (d.lgs. 163/2006) con riferimento ai servizi legali di cui all’allegato II B (contratti parzialmente esclusi dall’applicazione del Codice), poiché gli stessi erano comunque assoggettati, indipendentemente dal loro importo, alle regole di pubblicità di cui agli artt. 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento) e 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati) ai sensi di quanto previsto dall’art. 20 del medesimo decreto legislativo, nonché al rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, ed i relativi affidamenti dovevano essere preceduti da invito rivolto ad almeno cinque concorrenti.
- l’invio della presente Deliberazione ad A. S.p.A. da parte dell’Ufficio Piani di Vigilanza e Vigilanze Speciali, con richiesta di pubblicarla sul sito istituzionale della società;
- L’invio del presente deliberato alla Procura della Repubblica di Roma ed alla Procura Generale della Corte dei Conti, per i profili di propria competenza.

APPALTIConcorsi con il codice per tracciare i pagamenti. Istruzioni Anac alle stazioni appaltanti sull'acquisizione dei Cig.
Il Codice identificativo gara di ogni appalto deve essere acquisito prima dell'indizione della gara.

È quanto ha precisato l'Anac dettando le istruzioni e la tempistica che le stazioni appaltanti (
comunicato del Presidente 13.07.2016 – tempistiche acquisizione CIG), e in particolare il responsabile del procedimento (Rup), devono seguire quando indicono una procedura per affidamento di contratti pubblici.
La materia vede strettamente collegata l'acquisizione del Cig (codice identificativo gara) con il contributo per la partecipazione alle gare.
L'Avcp (delibera del 10.01.2007) che ha prima stabilito che le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori «sono tenuti al pagamento della contribuzione all'atto dell'attivazione delle procedure di selezione del contraente» e che gli operatori economici sono tenuti al versamento del contributo a pena di esclusione dalla gara; successivamente la stessa Avcp (delibera del 01.10.2010) ha poi previsto l'obbligo dell'indicazione del codice Cig (codice identificativo gara) su bandi e avvisi di gara da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale.
È ora l'articolo 213, comma 9, del nuovo codice dei contratti pubblici a stabilire che l'Autorità individui le informazioni obbligatorie, i termini e le forme di comunicazione che le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori sono tenuti a trasmettere all'Osservatorio.
Con due comunicati del 13 luglio pubblicati sul sito Anac nei giorni scorsi, sono state quindi chiarite sia le modalità di acquisizione dei Cig da parte delle stazioni appaltanti, sia la tempistica.
Dal punto di vista dei tempi l'Anac ha chiarito che le stazioni appaltanti che intendono avviare una gara, sono tenute ad acquisire il relativo Cig, «anche in modalità smart, in un momento antecedente all'indizione della procedura di gara». In altre parole: se è prevista la pubblicazione di un bando o avviso, il Cig va acquisito prima della pubblicazione in G.U., in modo che possa essere ivi riportato; per le gare che prevedono l'invio della lettera di invito, il Cig va acquisito prima dell'invio delle stesse in modo che possa essere ivi riportato.
Invece, per gli acquisiti effettuati senza le formalità di pubblicazione e invio della lettera di invito il Cig va acquisito prima della stipula del relativo contratto in modo che possa essere ivi riportato e consentire il versamento del contributo da parte degli operatori economici partecipanti (ad esempio nel caso di affidamenti in somma urgenza il Cig va riportato nella lettera d'ordine).
Infine, per le gare di cui non è previsto l'obbligo di contribuzione a favore dell'Autorità il Cig va acquisito prima della stipula del relativo contratto in modo che possa essere ivi riportato.
Nel secondo comunicato (
comunicato del Presidente 13.07.2016 – modalità operative acquisizione CIG) viene specificatamente indicato come la stazione appaltante si deve attivare nell'ambito della procedura informatica Anac. In particolare si chiarisce che i Rup (responsabile unico del procedimento), «dovranno dichiarare sotto la propria responsabilità, tramite la consueta procedura informatica di creazione della gara, se quest'ultima riguarda una delle categorie di cui all'art. 1 del decreto stesso (farmaci, vaccini, stent, facility management immobili e altro) ovvero categoria merceologica differente» (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Prerogative dei consiglieri comunali e dei gruppi consiliari.
Si ritiene che lo svolgimento di un'attività di ricezione della cittadinanza da parte dei consiglieri comunali (sia che gli stessi agiscano come singoli, sia come gruppo consiliare), sia da considerarsi ammissibile se svolta nel rispetto delle prerogative ad essi proprie e degli strumenti di cui gli stessi dispongono.
Il Comune chiede un parere in merito alle prerogative spettanti ai consiglieri comunali ed ai gruppi consiliari. Più in particolare, desidera sapere se, in assenza di previsioni statutarie e regolamentari sul punto, l'Ente sia obbligato a concedere ai gruppi consiliari, o ai singoli consiglieri, che ne abbiano fatto richiesta, un luogo idoneo al ricevimento dei cittadini e se sia tenuto a pubblicizzare i giorni e gli orari di tali ricevimenti con le stesse modalità e all'interno della stessa bacheca dove sono esposte le modalità di ricevimento degli assessori.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Con riferimento ai gruppi consiliari, in via generale, si osserva che la gestione della loro articolazione e funzionamento rientra nell'ambito della più ampia autonomia funzionale ed organizzativa di cui sono dotati i consigli comunali, in conformità al disposto di cui all'articolo 38 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267. La disciplina inerente alle modalità di funzionamento dei gruppi, nel cui alveo si ritiene che si possa ricomprendere anche l'eventuale concessione di spazi idonei per il ricevimento della cittadinanza da parte dei gruppi stessi, deve rintracciarsi nel regolamento sul funzionamento dei consigli.
Com'è noto i gruppi consiliari costituiscono, infatti, aggregazioni di carattere politico all'interno del consiglio comunale la cui esistenza, benché non espressamente sancita da alcuna norma espressa, risulta tuttavia desumibile da diverse norme contenute nel TUEL.
[1]
Ad essi pare, inoltre, applicabile la disposizione di cui all'articolo 38, comma 3, del D.Lgs. 267/2000 nella parte in cui prevede che 'con norme regolamentari i comuni e le province fissano le modalità per fornire ai consigli servizi, attrezzature e risorse finanziarie'. Benché la norma sia dettata espressamente per i consigli comunali le sue previsioni paiono estensibili anche ai gruppi consiliari, in cui il consiglio si articola
[2].
Si ritiene, pertanto, che l'Ente dovrebbe disciplinare la tematica in riferimento tramite proprio regolamento,
[3] prevedendo in ogni caso condizioni paritarie per tutti i gruppi consiliari e/o per i singoli consiglieri comunali. Si consideri, infatti, che i consiglieri, che agiscano (sia come singoli sia come gruppo consiliare) nell'esercizio del proprio munus pubblico, hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, indipendentemente dalla loro appartenenza alla maggioranza o alla minoranza consiliare, potendo quindi utilizzare i medesimi strumenti posti a disposizione dall'Amministrazione locale.
Con riferimento all'ammissibilità dello svolgimento di un'attività di ricezione nei locali comunali della cittadinanza da parte dei consiglieri,
[4] siano essi considerati individualmente o come gruppi consiliari, si ritiene che la stessa sia da considerarsi ammissibile soltanto se svolta nel rispetto delle prerogative ad essi proprie e degli strumenti di cui gli stessi dispongono.
In altri termini, si ritiene che tale attività non possa essere qualificata tout court come 'attività con rilevanza esterna' che, come noto, non è consentita ai consiglieri comunali. Con tale espressione suole, infatti, riferirsi all'attività di amministrazione attiva che comporterebbe una 'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato'
[5]. Ciò che non risulta ammissibile è l'attribuzione di compiti che possano implicare l'indebita ingerenza in attività di amministrazione attiva propria dei componenti dell'organo giuntale. [6]
Premesso che i consiglieri svolgono la propria attività istituzionale in qualità di componenti di un organo collegiale quale il consiglio, risulta necessario valutare se l'attività di ricevimento del pubblico possa trovare fondamento nelle prerogative che l'ordinamento riconosce agli stessi in correlazione all'esercizio del munus pubblico rivestito. Al riguardo, l'articolo 43 TUEL attribuisce ai consiglieri il diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio, nonché il diritto di presentare interrogazioni, mozioni ed altre istanze di sindacato ispettivo.
Si può ritenere che l'attività dei consiglieri comunali che si sostanzia nella ricezione dei cittadini possa avere un carattere più propriamente informativo, ai fini dell'eventuale attivazione successiva da parte dei consiglieri, in seno al consiglio comunale, degli strumenti di cui gli stessi sono dotati dall'ordinamento giuridico (interrogazioni, interpellanze ecc.).
Diverso è invece il ruolo istituzionale svolto dai componenti della giunta comunale: il singolo cittadino potrà, dunque, rivolgersi ad un consigliere piuttosto che ad un assessore nella consapevolezza della diversità di ruoli svolti dai due amministratori pubblici.
Ferma rimane la considerazione generale per cui l'attività di ricevimento della cittadinanza deve costituire estrinsecazione dello svolgimento del munus pubblico proprio degli amministratori locali, con la conseguenza che la stessa non potrà assumere né i caratteri di un'attività di tipo privato né quella di una propaganda politica di partito che fuoriesca dall'attività propriamente istituzionale.
Da ultimo, quanto alla sussistenza o meno di un obbligo per l'Ente di pubblicizzare i giorni ed orari dei ricevimenti dei consiglieri con le stesse modalità e all'interno della stessa bacheca dove sono esposte le modalità di ricevimento degli assessori, in coerenza a quanto sopra esposto, si ritiene che il Comune dovrà rendere conoscibili tali dati con modalità che non generino confusione tra le diverse figure istituzionali presenti all'interno dell'amministrazione comunale stante il distinguo di ruoli, funzioni e competenze dei consiglieri da un lato e degli assessori dall'altro.
Al contempo, si ribadisce che analoghe modalità di pubblicità dovranno essere utilizzate per i consiglieri di maggioranza e di minoranza, pena la frustrazione dei principi di par condicio e di democraticità che informano il nostro ordinamento giuridico.
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[1] Si consideri, al riguardo, l'articolo 38, comma 3, TUEL nella parte in cui demanda al regolamento sul funzionamento dei consigli comunali la disciplina, tra l'altro, anche della gestione delle risorse attribuite per il funzionamento dei gruppi consiliari regolarmente costituiti. Ancora, l'articolo 39, comma 4, TUEL, prevede che il presidente del consiglio comunale assicura una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari sulle questioni sottoposte al consiglio.
[2] In questo senso si veda il parere dell'ANCI del 21.04.2006 ove si afferma che: 'La legge di riferimento (Testo unico sull'Ordinamento degli Enti Locali, di cui al D.Lgs. 267/2000), attribuisce ai consiglieri comunali ed in particolare ai gruppi in cui il consiglio è articolato, il diritto di disporre di servizi, attrezzature e risorse finanziarie e di adeguata autonomia funzionale e organizzativa (art. 38, c. 3)'.
[3] Sia esso quello relativo al funzionamento del consiglio, o altro, quale il regolamento sull'utilizzo delle sale consiliari.
[4] Siano essi appartenenti o meno alla maggioranza consiliare.
[5] Così TAR Toscana, sez. I, sentenza del 27.04.2004, n. 1248.
[6] Né l'adozione di atti di gestione spettanti agli organi burocratici
(27.09.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Minoranza, diritti tutelati. Il quorum non deve pregiudicarne l'operato. Una soglia troppo elevata favorisce l'ostruzionismo della maggioranza.
Qual è il quorum necessario per la validità delle sedute consiliari di seconda convocazione?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Nel caso di specie, il consiglio del comune ha deliberato la modifica del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale recante «seduta di seconda convocazione» prevedendo, al fine della validità della seduta, la presenza di «almeno quattro consiglieri».
Poiché il consiglio comunale in questione è composto da soli tre consiglieri di minoranza, è stata segnalata la difficoltà di questi ultimi di poter esercitare il proprio mandato elettivo, a causa del ripetersi delle assenze della maggioranza e alla conseguente mancanza del numero legale previsto per la validità delle sedute del consiglio.
In merito a tale problematica, si richiamano le osservazioni formulate dal Tar Sicilia, Catania, sez. I, 18/07/2006 n. 1181, in tema di c.d. «ostruzionismo di maggioranza».
Nella citata pronuncia si evidenzia che il comportamento preordinato al conseguimento della mancanza del numero legale delle assemblee rappresentative costituisce una inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti delle minoranze, alle quali viene impedito di esercitare il proprio ruolo di opposizione e quindi l'esercizio di un diritto politico costituzionalmente garantito.
Secondo il Tar citato, l'art. 49 della Costituzione preclude ai partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque opera non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle istituzioni democratiche».
Pertanto, la modifica regolamentare proposta, unitamente alla lamentata assenza sistematica dei componenti di maggioranza potrebbero configurare un inammissibile svilimento dei diritti e delle prerogative dei consiglieri di minoranza.
Premesso che il vigente ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo al ministero dell'interno, si ritiene che l'ente locale in oggetto debba valutare l'opportunità di rivedere la normativa regolamentare in questione (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).

APPALTI ATTI AMMINISTRATIVI: L'accesso agli atti della gara d'appalto.
DOMANDA:
Una ditta che ha partecipato alla gara di appalto per la gestione dell'asilo nido e che ha ottenuto il punteggio più basso, ha presentato istanza di accesso agli atti finalizzata ad ottenere copia delle offerte tecniche presentate dalle altre concorrenti di cui una aggiudicataria.
Tenendo conto di quanto stabilito dal nuovo codice dei contratti, in particolare l'art. 53, e da quanto da loro dichiarato nell'istanza di partecipazione alla gara, ossia il mancato assenso alla divulgazione delle proprie offerte, supportato da esiti di sentenze varie, si chiede un parere in merito all'obbligo per la stazione appaltante di rilasciare quanto richiesto tenendo anche conto che da una prima analisi della giurisprudenza emergono sentenze di TAR e Consiglio di Stato di diverso parere.
RISPOSTA:
L’art. 53 del D.Lgs. 50/2016 -dopo aver previsto che il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli articoli 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241- contiene una serie di prescrizioni specifiche in materia di procedure di aggiudicazione.
Innanzitutto sancisce che, in relazione alle offerte, il diritto di accesso è differito fino all’aggiudicazione. Prevede inoltre che “il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione sono esclusi in relazione: a) alle informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali”.
Tuttavia, anche in relazione a tale ipotesi, consente l'accesso al concorrente ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto. Nel caso concreto, il concorrente che ha ottenuto il punteggio più basso nella gara di appalto per la gestione dell’asilo nido, ha presentato istanza di accesso alle offerte tecniche presentate dalle altre concorrenti (che, nell’istanza di partecipazione, hanno manifestato dissenso alla divulgazione delle proprie offerte).
Si ricorda innanzitutto che il divieto accesso in commento -già contenuto nell’art. 13, comma 5, lett. a), del D.Lgs. 163/2006- costituisce un'ipotesi di speciale deroga rispetto alla disciplina di cui alla L. 07.08.1990, n. 241, da applicare esclusivamente nei casi in cui l'accesso sia inibito in ragione della tutela di segreti tecnici o commerciali motivatamente evidenziati dall'offerente in sede di presentazione dell’offerta.
Occorre quindi verificare se il dissenso manifestato dalle ditte concorrenti alla divulgazione delle proprie offerte, sia fondato su ragioni di tutela di segreti tecnici o commerciali, in riferimento a precisi dati tecnici. In tal caso, tenuto conto che i progetti sono il risultato di attività di studio, di ricerca e di elaborazione di dati oltre che di conoscenze personali, “possono essere interdetti alla concorrenza, onde evitare un sicuro pregiudizio economico delle imprese cui si riferiscono, salva l’ipotesi limite, preminente, della funzionalità di cura e difesa di un interesse specifico e giuridicamente rilevante dell’istante, da garantirsi con stretto riferimento ai singoli atti a tanto necessari e nelle forme meno invasive della mera visione” (impostazione condivisa dal Consiglio di Stato - Sezione VI, ord. 01.02.2010, n. 524, nonché da TAR Sardegna, 26.01.2010, n. 89 e 20.04.2006, n. 2223).
Tuttavia, onde evitare un’illimitata compressione del diritto di accesso, esponendo il sistema ad abusi ed illeciti di diverso tenore, l’ordinamento assegna la funzione di fulcro del bilanciamento, da un lato, alla “motivata e comprovata” manifestazione di interesse della ditta offerente controinteressata a serbare il segreto sulla documentazione di che trattasi, e, dall’altro lato, alla positiva valutazione delle sue obiezioni da parte dell’amministrazione procedente, garantendo così la soddisfazione di entrambe le antitetiche esigenze (Consiglio di Stato – Sezione VI, 30.07.2010, n. 5062).
In base alla giurisprudenza in materia, si ritiene che siano due i presupposti che devono necessariamente coesistere ai fini del diniego dell’accesso agli atti: specifiche ragioni di tutela del segreto industriale e commerciale, in riferimento a precisi dati tecnici, i quali, inoltre, devono già essere indicati in sede di offerta; posizione qualificata nell’ambito della procedura di gara del richiedente (2° classificato): “considerato che il ricorrente, quale secondo classificato in graduatoria, riveste un posizione particolarmente qualificata nell’ambito della procedura di gara, si osserva che il diritto di accesso dal medesimo esercitato si configura strumentale ad un’eventuale azione giudiziaria, così da dover essere in ogni caso assentito” (TAR Lombardia-Milano, Sezione III, 15.01.2013, n. 116) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI: Formazione volontari per la sicurezza.
Qualora l'attività di volontariato venga svolta nell'ambito di un'organizzazione di un datore di lavoro, l'art. 3, comma 12-bis, terzo e quarto periodo, del D.Lgs. 81/2008 sancisce l'obbligo, in capo al datore di lavoro medesimo, di fornire ai volontari dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti in cui è chiamato ad operare, e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate in relazione all'attività svolta.
Inoltre, il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure volte ad eliminare, o ridurre al minimo, i rischi da interferenze.

Il Comandante del Corpo di Polizia Locale chiede se, ai sensi del D.Lgs. 81/2008, sussistano degli obblighi formativi in capo al Comune presso cui i 'volontari per la sicurezza', iscritti nell'elenco regionale di cui all'art. 5, comma 5, della L.R. 9/2009, prestano il loro servizio.
La normativa regionale di riferimento relativa ai 'volontari per la sicurezza' la si rinviene all'art. 5 della L.R. 9/2009 e nel relativo regolamento di attuazione n. 03/Pres. del 12.01.2010.
La natura giuridica dell'attività prestata dai 'volontari per la sicurezza', così come descritta all'art. 8 del D.P.Reg. n. 03/Pres. del 12.01.2010, può essere ricondotta, in genere, alle attività di volontariato di cui alla legge quadro n. 266/1991.
L'art. 3 del testo unico sulla sicurezza, D.Lgs. 09.04.2008 n. 81, disciplina il campo di applicazione del decreto.
Il comma 12-bis prevede che 'nei confronti dei volontari di cui alla legge 11.08.1991, n. 266 [... ] si applicano le disposizioni di cui all'articolo 21 del presente decreto', equiparando così i volontari in questione ai lavoratori autonomi.
L'art. 21 del D.Lgs. 81/2008 disciplina gli obblighi e le facoltà, in materia di sicurezza, sussistenti in capo ai componenti dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis del codice civile e dei lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ex art. 2222 c.c.. Al comma 2, lett. b), si prevede la facoltà di partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo la previsione di cui al successivo art. 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali.
Il secondo, il terzo e il quarto periodo del comma 12-bis, dell'art. 3, del D.lgs. 81/2008, continuano precisando: 'Con accordi tra i soggetti e le associazioni o gli enti di servizio civile possono essere individuate le modalità di attuazione della tutela di cui al primo periodo. Ove uno dei soggetti di cui al primo periodo svolga la sua prestazione nell'ambito di un'organizzazione di un datore di lavoro, questi è tenuto a fornire al soggetto dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti nei quali è chiamato ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla sua attività. Egli è altresì tenuto ad adottare le misure utili a eliminare o, ove ciò non sia possibile, a ridurre al minimo i rischi da interferenze tra le prestazione del soggetto e altre attività che si svolgano nell'ambito della medesima organizzazione'.
Essendo il Comune di Udine un'organizzazione dotata di un 'datore di lavoro', così come definito all'articolo 2 del D.Lgs. n. 81/2008, pare ragionevole ritenere che i volontari della sicurezza vadano informati sui rischi specifici esistenti negli ambienti in cui vanno ad operare, oltre che sulle misure di prevenzione ed emergenza connesse alla loro attività.
Tale informativa, ai sensi dell'art. 3, comma 12-bis, terzo periodo, del D.Lgs. 81/2008, si concreta in un obbligo in capo al datore medesimo, che è altresì tenuto a quanto previsto all'ultimo periodo dello stesso comma 12-bis, relativo all'eliminazione o alla riduzione dei rischi da interferenze.
Quanto al fatto che l'allegato B, 'Formazione', del D. P.Reg. n. 03/Pres del 12.01.2010, non faccia cenno alla formazione ai sensi del D.Lgs. 81/2008, ciò deriva dal fatto che la Regione non ha alcuna competenza al riguardo, e non avrebbe alcun titolo nel prevedere o disciplinare un obbligo regolato esclusivamente da disposizioni statali (22.09.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, decidono gli enti. Sull'elezione del presidente vale il regolamento. Allo statuto del comune spetta solo fissare i principi generali.
Qualora, in materia di elezione del presidente del consiglio comunale, emergano differenze tra la disciplina statutaria e quella regolamentare dell'ente locale, quale normativa deve essere applicata?

Nella fattispecie in esame, lo statuto comunale prevede che il presidente sia eletto a maggioranza dei due terzi dei componenti l'assemblea. Se, dopo due scrutini, da tenersi in due distinte sedute, nessun candidato ottiene la maggioranza prevista, nella terza votazione si effettua il ballottaggio a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione.
Il regolamento del consiglio comunale prevede, invece, un'ulteriore votazione successiva alla terza risultata infruttuosa in quanto stabilisce che, qualora nessun candidato ottenga, dopo due scrutini, la maggioranza qualificata prevista dallo statuto, si debba procedere, nella terza votazione, al ballottaggio a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione e che le votazioni vengano ripetute nella seduta successiva.
Premesso che ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, «il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento», pertanto la disciplina del numero legale per la validità delle adunanze (c.d. «quorum strutturale») e delle votazioni (c.d. «quorum funzionale o deliberativo») è stata delegificata, nel caso di specie non si ravvisa la discrasia tra le due fonti di autonomia locale.
Ciò in quanto la normativa regolamentare si limita a disciplinare un'ulteriore votazione di cui non si fa menzione nello statuto. In altri termini, il regolamento del consiglio comunale non contrasta con nessuna norma statutaria poiché, in quanto fonte abilitata a porre norme sul funzionamento del consiglio, aggiunge un ulteriore passaggio alla procedura prevista dallo statuto per l'elezione del presidente del consiglio comunale.
Pertanto, le disposizioni normative recate dalle citate fonti di autonomia locale, con riferimento al ballottaggio da tenersi nella terza votazione, ancorché formulate in maniera piuttosto confusa, dovrebbero essere interpretate in coerenza con la ratio che, normalmente, ispira il sistema di ballottaggio, e cioè quella di considerare eletto colui tra i candidati che abbia ottenuto il più alto numero dei votanti a prescindere dal numero dei votanti (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Sui gruppi parola all'ente. E anche sul numero minimo di componenti. Il regolamento non può essere disapplicato se non previo ritiro.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale può disciplinare la costituzione del gruppo misto prevedendo che lo stesso sia composto da almeno due consiglieri, impedendo, sostanzialmente, la formazione del gruppo misto monopersonale?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
Il ministero dell'Interno ha già in precedenza espresso il proprio orientamento evidenziando che, «in assenza di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere a un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire ad un gruppo consiliare».
Tuttavia, nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto uni personale; pertanto, va da sé che l'avviso espresso in altra circostanza non può essere adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune in oggetto.
In merito, appare utile richiamare le osservazioni formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle quali, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Conseguentemente, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche alla normativa in questione (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Antimafia in comune. Commissione ok se lo statuto la prevede. Disco verde alla funzione di supporto del consiglio comunale.
Un Comune può istituire una commissione consiliare antimafia?

L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 prevede la possibilità, per il consiglio comunale, di avvalersi di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Tale disposizione ne demanda la previsione allo statuto dell'ente e rinvia al regolamento comunale la determinazione dei relativi poteri e la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori.
Il successivo articolo 44, comma 2, dà, altresì, facoltà al consiglio comunale di «istituire al proprio interno commissioni di indagine sull'attività dell'amministrazione», precisando che «i poteri, la composizione e il funzionamento delle suddette commissioni sono disciplinati dallo statuto e dal regolamento consiliare».
Le Commissioni, dunque, nell'ambito del vigente ordinamento degli enti locali, costituiscono forme di articolazione interna del consiglio e si configurano come un contenuto facoltativo dello statuto dell'ente locale, mentre al regolamento è demandata la disciplina delle modalità organizzative con cui le stesse esercitano le funzioni assegnate.
Tutte le commissioni consiliari operano ordinariamente nell'ambito delle competenze dei consigli, come disciplinate dall'art. 42 del Tuoel; pertanto, in virtù delle richiamate disposizioni, anche la commissione comunale antimafia, per poter essere concretamente istituita, deve trovare apposita previsione nello statuto comunale.
Nel caso di specie, la partecipazione degli enti locali alle attività di prevenzione dei fenomeni di criminalità organizzata è prevista anche dalla legge regionale in materia, che promuove il ruolo degli enti locali nel perseguimento di tali peculiari obiettivi e adotta specifiche iniziative per valorizzare e diffondere le migliori politiche locali per la trasparenza, la legalità e il contrasto al crimine organizzato.
Il legislatore regionale prevede, inoltre, la promozione di specifiche azioni formative rivolte ad amministratori e dipendenti degli enti locali sui temi della prevenzione e del contrasto civile alle infiltrazioni della criminalità organizzata, del riuso sociale dei beni confiscati, della diffusione della cultura della legalità.
Ciò posto, l'istituenda commissione antimafia potrebbe esercitare la facoltà di proposta nell'ambito delle funzioni di supporto e ausilio del consiglio. L'eventuale funzione di accertamento di potenziali discrasie amministrative deve, invece, essere ricondotta ai compiti specifici della commissione di indagine sull'attività dell'amministrazione, come prevista dal richiamato art. 44 del dlgs n. 267/2000.
Restano, comunque, ferme le competenze degli organi di controllo interno dell'amministrazione, rispetto all'attività degli uffici, che non possono essere surrogate dalla eventuale attività di indagine della commissione consiliare (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborso delle spese legali ad un amministratore.
Ferma la sussistenza degli altri requisiti di legge, si ritiene che competa il rimborso delle spese legali ad un amministratore locale, in esito ad un procedimento penale avviato nei suoi confronti e conclusosi con l'archiviazione, qualora il giudice per le indagini preliminari abbia accertato l'assenza di responsabilità in capo all'amministratore.
Il Comune chiede un parere in merito alla rimborsabilità delle spese legali sostenute da un amministratore locale per un procedimento penale avviato nei suoi confronti per il reato di diffamazione (articolo 595 c.p.) e conclusosi con l'archiviazione.
Precisa l'Ente che il giudice delle indagini preliminari nel disporre l'archiviazione del procedimento ha precisato che 'i fatti così come descritti ed accertati non integrano alcuna ipotesi di reato'.
[1]
Come fatto presente nel quesito posto, la questione è già stata affrontata dallo scrivente Ufficio nel parere del 23.11.2015 (prot. n. 15542) le cui conclusioni rimangono valide anche con riferimento alla fattispecie in esame ed al quale, di conseguenza, si rinvia.
In ogni caso, di seguito si riporta l'iter logico seguito nel parere citato che prende avvio dal disposto di cui all'articolo 151 della legge regionale 31.08.1981, n. 53, come modificata dall'articolo 12, comma 30, della legge regionale 14.08.2008, n. 9, il cui comma 1, così recita: 'In caso di instaurazione di giudizio civile, penale o amministrativo di qualsiasi tipo a carico di componenti della Giunta regionale, del Consiglio regionale, di organi collegiali di enti regionali o di soggetti esterni incaricati di funzioni regionali o inseriti in organismi regionali per attività svolte nell'esercizio delle rispettive funzioni istituzionali, a causa ovvero in occasione di queste, la Regione provvede a rimborsare le spese sostenute per la difesa in giudizio, previo parere di conformità da parte dell'Ordine degli avvocati territorialmente competente, con l'esclusione dei casi in cui il giudizio o una sua fase si concluda con sentenza o decreto di condanna o pronuncia equiparata; il rimborso non è tuttavia ammesso nei casi in cui il giudizio si concluda con una sentenza dichiarativa di estinzione del reato per prescrizione o per amnistia, a meno che queste non siano dichiarate nel corso delle indagini preliminari ovvero dopo una sentenza di assoluzione e altresì non spetta nei casi riguardanti la definizione dei procedimenti con il patteggiamento della pena'.
Il successivo comma 2-ter estende tale disposizione anche agli amministratori degli enti locali e prevede che le spese legali, qualora dovute, siano a carico dell'ente di appartenenza dell'amministratore locale interessato.
Con riferimento alle modalità di conclusione del processo, idonee a consentire il rimborso delle spese legali, si osserva che la norma regionale, al comma 1, pone come regola la spettanza dello stesso (nella sussistenza degli agli altri presupposti richiesti dalla legge) con successiva indicazione delle ipotesi in cui il rimborso è escluso: si tratta dei casi in cui il giudizio si concluda con una sentenza o decreto di condanna o pronuncia equiparata ovvero con il patteggiamento della pena o con sentenza dichiarativa di estinzione del reato per prescrizione o per amnistia (a meno che queste non siano dichiarate nel corso delle indagini preliminari ovvero dopo una sentenza di assoluzione).
Al contempo, il comma 2 dell'articolo 151 della legge regionale 53/1981 espressamente prevede il diritto dell'Ente a ripetere le spese legali già rimborsate, 'in caso di successiva decisione giurisdizionale, passata in giudicato, di condanna o equiparata modificativa del giudizio di carenza di responsabilità'.
In base ad una lettura coordinata dei commi 1 e 2 dell'indicata legge regionale 53/1981, e secondo una interpretazione che tenga in considerazione, oltre al dato letterale, anche la ratio legis, sembra, pertanto, potersi ritenere che per procedere al rimborso delle spese legali sia di norma necessaria una pronuncia che accerti l'assenza di responsabilità in capo all'amministratore richiedente lo stesso.
[2]
Resta ferma la necessità della ricorrenza dell'ulteriore presupposto richiesto dalla normativa regionale in commento e consistente nel requisito della commissione del fatto nell'esercizio delle funzioni istituzionali di consigliere comunale, a causa ovvero in occasione di queste.
Alla luce delle considerazioni suesposte, la fattispecie in esame sembra, quindi, rientrare tra le ipotesi ammissibili a rimborso.
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[1] Per completezza espositiva si fa, altresì, presente che successivamente a tale archiviazione anche il Tribunale, relativamente al medesimo fatto, ha emesso sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste.
[2] Con l'eccezione delle ipotesi in cui il legislatore ha espressamente ammesso il rimborso anche in caso di assenza di un accertamento di mancanza di responsabilità (si veda il caso della dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione o amnistia nel corso delle indagini preliminari)
(19.08.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Retribuzione di posizione e di risultato/ E’ possibile riconoscere la retribuzione di risultato ai titolari di posizione organizzativa per gli anni 2014 e 2015, tenuto conto della circostanza che l’ente non ha assegnato agli stessi, con provvedimenti formali, specifici obiettivi?
E’ possibile valutare oggi le posizioni organizzative, ai fini della erogazione della retribuzione di risultato per gli anni 2014 e 2015, sulla base dei contenuti della relazione previsionale e programmatica per i medesimi anni 2014 e 2015?

Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene necessario precisare che, come espressamente stabilito dall’art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999, la retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa può essere corrisposta solo a seguito di valutazione annuale positiva, espressa e certificata dal soggetto cui, in via esclusiva, tale competenza è attribuita (organismo di valutazione, servizio di controllo interno) dell’attività svolta ed dei risultati conseguiti dal titolare di posizione organizzativa, in relazione agli obiettivi annualmente assegnati allo stesso, nell’ambito dell’incarico affidatogli, come predefiniti nel PEG o degli altri strumenti programmazione adottati dall’ente.
Pertanto, è indubbio che, alla luce della sopra richiamata disciplina contrattuale, nella situazione prospettata sembra mancare il presupposto per l’erogazione della retribuzione di risultato rappresentato dalla preventiva assegnazione degli obiettivi ai titolari di posizione organizzativa.
Infatti, la mancanza degli obbiettivi determinerebbe l’impossibilità di valutare i risultati conseguiti, dato che essi rappresentano i criteri oggettivi sulla base dei quali effettuare la valutazione stessa.
La disciplina contrattuale non prevede alcuna ipotesi derogatoria in materia.
Alla luce di tali indicazioni, quindi, deve essere valutata la particolare fattispecie prospettata (
parere 16.09.2016 n. RAL-1868 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Retribuzione di posizione e di risultato/ L’art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999 prevede che l’importo della retribuzione di risultato delle posizioni organizzative varia da un minimo del 10% ad un massimo del 25 della retribuzione di posizione attribuita.
E’ possibile in sede di contrattazione decentrata ridurre le percentuali minime e massime attribuibili?

Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno evidenziare che le percentuali minima (10%) e massima (25%) fissate per la determinazione del valore della retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa dall’art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999 non sono in alcun modo modificabili in sede decentrata (fermo restando, naturalmente, la erogazione di tale voce retributiva solo nel caso di valutazione positiva della prestazione individuale).
Infatti, esse, sono stabilite con carattere di generalità per tutte le amministrazioni dal citato art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999 e nessuna altra disposizione contrattuale prevede e legittima una eventuale deroga, né in senso ampliativo né in senso riduttivo, delle stesse.
Si coglie l’occasione anche per ricordare che la materia, in base alla vigente disciplina contrattuale, non forma in alcun modo oggetto di contrattazione integrativa (
parere 01.08.2016 n. RAL-1858 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ Al fine di istituire nuove posizioni organizzative, una unione di comuni può incrementare le risorse decentrate stabili sulla base delle previsioni dell’art. 15, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999?
Nel merito del quesito formulato, relativamente alla particolare problematica esposta, la scrivente Agenzia non può che confermare il proprio consolidato orientamento applicativo, secondo il quale le risorse derivanti dall’applicazione dell’art. 15, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, per gli effetti non collegati all’incremento della dotazione organica, avendo carattere di variabilità, non possono essere utilizzate per il finanziamento di istituti o forme di utilizzo aventi carattere di stabilità, come appunto la retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative.
Le posizioni organizzative, infatti, collegandosi a profili del modello organizzativo dell’ente, devono ritenersi ricomprese tra gli istituti che, ordinariamente, l’ente può attivare con conseguente finanziamento a carico delle generali risorse dell’art. 15 del CCNL dell’01.04.1999, di natura stabile, ai sensi dell’art. 31, commi 2, del CCNL del 22.01.2004.
Per la corretta interpretazione della disciplina prevista dal richiamato art. 15, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999, si rinvia alle nuove indicazioni fornite dalla scrivente Agenzia con propria nota n. 19932 del 18.06.2015 (
parere 03.03.2016 n. RAL-1828 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Retribuzione di posizione e di risultato/ Come devono essere retribuite le giornate di ferie maturate e non godute in un determinato anno da un lavoratore titolare di posizione organizzativa ove ne fruisca nell’anno successivo e l’importo della retribuzione di posizione, per il nuovo anno, sia inferiore a quello precedentemente attribuito per effetto di una nuova pesatura della stessa, conseguente ad un processo di riorganizzazione dell’ente?
Relativamente alla particolare problematica esposta, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che, durante il periodo di ferie, il dipendente ha diritto a percepire la medesima retribuzione che avrebbe percepito in caso di ordinaria presenza al lavoro.
Si tratta di una regola che trova il suo preciso fondamento negli articoli sia della Costituzione (art. 36, comma 3) che del Codice civile (art. 2109) i quali, nel riconoscere al dipendente il diritto alle ferie, stabiliscono che queste devono essere retribuite.
Il CCNL del 06.07.1995, all'art. 18, comma 1, nel ribadire tale principio, fornisce anche ulteriori specificazioni per l'esatta definizione della retribuzione da corrispondere al dipendente che fruisce delle ferie.
Infatti, tale clausola prevede che al lavoratore, durante il periodo di ferie, debba essere corrisposta la normale retribuzione, escluse le indennità per prestazioni di lavoro straordinario e quelle che non sono corrisposte per dodici mensilità (art. 18, comma 1, del CCNL del 06.07.1995).
Proprio in considerazione della espressa previsione contrattuale (“durante tale periodo”), ad avviso della scrivente Agenzia, la retribuzione da riconoscere al dipendente sia quella allo stesso spettante durante il periodo di fruizione delle ferie stesse.
Conseguentemente, si esclude che si possa tenere conto, a tal fine, del maggiore importo della retribuzione di posizione della posizione organizzativa di cui era precedentemente titolare (
parere 03.03.2016 n. RAL-1823 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Retribuzione di posizione e di risultato/ I permessi retribuiti di cui all’art. 33 della legge n. 104/1992 usufruiti dai dipendenti danno luogo a decurtazione della liquidazione della retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa?
In ordine alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno preliminarmente ricordare che, come più volte affermato da parte della scrivente Agenzia nei propri orientamenti applicativi, la retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa, di cui all’art. 10 del CCNL del 31.03.1999, ai fini della sua erogazione, non è direttamente ed automaticamente collegata alla presenza in servizio.
Si tratta, infatti, di un emolumento da corrispondere “a seguito di valutazione annuale” (art. 10, comma 3, CCNL del 31.03.1999) dopo aver verificato i risultati conseguiti in relazione agli obiettivi assegnati.
Pertanto, secondo la regola generale enunciata, non sembra possibile ritenere che nei confronti della dipendente assente per fruizione dei permessi di cui alla legge n. 104 del 1992 (o di congedo parentale o di altra tipologia di assenza) debba essere, per ciò stesso, decurtata l’ammontare della retribuzione di risultato collegata alla posizione organizzativa di cui è titolare, in misura strettamente proporzionale ai giorni di assenza.
L’Ente deve, invece, procedere alla valutazione annuale dell’effettiva partecipazione del titolare al conseguimento degli obiettivi assegnati e la rilevanza del suo apporto, secondo le metodologie a tal fine autonomamente adottate.
In tale ambito, può certamente ritenersi ragionevole presumere che i periodi di assenza, soprattutto ove prolungati nel corso dell’anno, possano incidere negativamente su tale aspetto, determinando la conseguente riduzione del compenso da corrispondere (fino ad annullarlo, quando i risultati conseguiti non siano in alcun modo apprezzabili) (
parere 03.03.2016 n. RAL-1822 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ In un comune dotato di dirigenza è possibile conferire incarichi di alta professionalità, ai sensi dell’art. 10 del CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali del 22.01.2004, a personale della categoria D titolare di un rapporto di lavoro a tempo parziale?
Le alte professionalità, di cui all’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, rappresentano una particolare configurazione delle posizioni organizzative già previste dall’art. 8, comma 1, lett. b) e lett. c) del CCNL del 31.03.1999.
Conseguentemente, anche per le posizioni organizzative di alta professionalità trova applicazione la regola generale del divieto di conferimento della titolarità di posizione organizzativa (art. 4, comma 2, del CCNL del 14.09.2000) a personale titolare di rapporto di lavoro a tempo parziale.
La possibilità di prevedere posizioni organizzative suscettibili di essere affidate a personale con rapporto di lavoro a tempo parziale è stata riconosciuta, per espressa volontà delle parti negoziali, ai comuni privi di dirigenza dall’art. 11 del CCNL del 22.01.2004, nel rispetto dei limiti e delle condizioni ivi previsti.
Conseguentemente, solo i suddetti enti possono avvalersi di questa particolare facoltà (
parere 10.02.2014 n. RAL-1666 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ E’ possibile autorizzare i titolari di posizione organizzativa all’espletamento dello straordinario elettorale in occasione di elezioni comunali?
La speciale disciplina contrattuale dello straordinario elettorale (art. 14, comma 2, del CCNL dell’01.04.1999; art. 39, comma 2, del CCNL del 14.09.2000, come modificato dall’art. 16 del CCNL del 05.10.2001), trova applicazione, per espressa previsione contrattuale, solo nei casi nei quali vi sia l’acquisizione delle specifiche risorse da parte di altre amministrazioni (solitamente il Ministero dell’Interno).
Nello specifico, l’art. 39, comma 2, del CCNL del 14.09.2000, espressamente prevede di corrispondere i compensi correlati alle prestazioni aggiuntive effettuate in occasione di consultazioni elettorali o referendarie, anche ai dipendenti incaricati di posizioni organizzative.
In relazione a tale disciplina, si evidenzia che, di norma, i responsabili di posizione organizzativa hanno diritto alla liquidazione dello straordinario elettorale (in coerenza con la disciplina della retribuzione di risultato) solo per il lavoro straordinario prestato (anche al di fuori delle giornate di riposo settimanale) in occasione di consultazioni elettorali per le quali vi è acquisizione di risorse dal Ministero dell’Interno e non anche, ad esempio, per le elezioni del Consiglio Comunale (interamente a carico del bilancio dell’ente).
Questa regola subisce una sola eccezione, espressamente disciplinata nell’art. 39, comma 3, del CCNL del 14.09.2000 (introdotto dall’art. 16 del CCNL del 05.10.2001), secondo il quale “il personale che, in occasione di consultazioni elettorali o referendarie (di qualunque specie, comprese quindi quelle per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale – n.d.r.), è chiamato a prestare lavoro straordinario nel giorno di riposo settimanale, in applicazione delle previsioni del presente articolo, oltre al relativo compenso, ha diritto anche a fruire di un riposo compensativo corrispondente alle ore prestate. Il riposo compensativo spettante è comunque di una giornata lavorativa ove le ore di lavoro straordinario effettivamente rese siano quantitativamente maggiori di quelle corrispondenti alla durata convenzionale della giornata lavorativa ordinaria. In tale particolare ipotesi non trova applicazione la disciplina dell'art. 24, comma 1, del presente contratto. La presente disciplina trova applicazione anche nei confronti del personale incaricato di posizioni organizzative".
In base a tal “eccezione” il titolare di posizione organizzativa, in occasione di qualunque consultazione elettorale, ha comunque e sempre diritto al compenso per lavoro straordinario (da erogare sempre in coerenza con la disciplina della retribuzione di risultato) qualora le relative prestazioni siano rese nel giorno del riposo settimanale.
La diversa formulazione della clausola contrattuale (nella quale manca ogni indicazione sul preciso vincolo del reperimento delle risorse) comporta che tali compensi debbano essere corrisposti anche nei casi nei quali tutte o anche solo parte delle risorse debbano essere apprestate direttamente dall’ente.
La previsione contrattuale “in coerenza con la disciplina della retribuzione di risultato”, riguarda le modalità di erogazione dello straordinario elettorale e deve essere interpretata nel senso che i relativi compensi devono essere corrisposti “a consuntivo” in analogia con quanto previsto per la disciplina della retribuzione di risultato (richiamata dallo stesso art. 39) e in coincidenza con la relativa attribuzione, anche se non è richiesto il momento della valutazione; in sostanza si esclude che tali compensi possano essere erogati con le medesime modalità, anche temporali, previste per la generalità degli altri dipendenti.
Relativamente al rapporto tra i compensi per lavoro straordinario elettorale e retribuzione di risultato, si deve evidenziare che la clausola dell’art. 39, comma 2, del CCNL del 14.09.2000 espressamente prevede che: “Tali risorse vengono comunque erogate a detto personale in coerenza con la disciplina della retribuzione di risultato di cui all’art. 10 dello stesso CCNL e, comunque, in aggiunta al relativo compenso, prescindendo dalla valutazione”.
Proprio, tale ultimo inciso (“in aggiunta”) consente di ritenere che il compenso per lavoro straordinario si cumula in ogni caso con l’importo della retribuzione di risultato spettante al titolare di posizione organizzativa, anche se questa sia già stata determinata nella misura massima prevista dalla disciplina contrattuale (25% della retribuzione di posizione, ai sensi dell’art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999) (
parere 04.11.2013 n. RAL-1623 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ Ai titolari di posizione organizzativa può essere garantito il patrocinio legale (art. 43, comma 1, del CCNL del 14.09.2000)?
In caso positivo, quali sono le condizioni e le modalità di applicazione di tale istituto, tenuto conto anche della circostanza che al suddetto personale non si estende la disciplina dell’art. 28, comma 3, del CCNL del 14.09.2000?

Per ciò che attiene alla disciplina dell’art. 43, comma 1, del CCNL del 14.09.2000, concernente la copertura assicurativa della responsabilità civile dei dipendenti, si deve evidenziare che, a suo tempo, essa è stata concordata dalle parti negoziali sulla base dei precisi orientamenti in materia della Corte dei Conti.
Il suddetto art.43 del CCNL del 14/09/2000 prevede che, in generale, gli enti assumono tutte le iniziative per garantire la copertura assicurativa della sola responsabilità civile dei dipendenti titolari di posizione organizzativa, ai sensi dell’art. 8 e ss. del CCNL del 31.03.1999, anche con le modifiche introdotte dall’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, ivi compreso il patrocinio legale, salvo i casi di dolo o colpa grave.
Si tratta di un intervento finalizzato a garantire al titolare di posizione organizzativa la copertura degli eventuali danni derivanti a terzi dall’esercizio delle proprie funzioni.
La chiara formulazione della clausola contrattuale (con l’espresso riferimento alla sola responsabilità civile) consente di affermare che essa si riferisca alla sola ipotesi della responsabilità civile e non comprenda, quindi, anche quella penale.
Conseguentemente, si deve escludere la possibilità di stipulare polizze assicurative volte a coprire anche forme di responsabilità penale, in quanto una tale opzione finirebbe per dilatare la portata applicativa della disciplina contrattuale, al di là delle previsioni dell’art. 43 del CCNL del 14.09.2000.
Ogni diverso comportamento, non trovando alcun fondamento giuridico nella disciplina contrattuale, si tradurrebbe in oneri aggiuntivi ed ingiustificati a carico del bilancio dell’ente, e, quindi, potrebbe configurarsi come fonte di possibile responsabilità per danno erariale.
Relativamente al diverso istituto del patrocinio legale, si evidenzia quanto segue:
a) ai sensi dell’art. 28 del CCNL del 14.09.2000: “l’ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento”;
b) ai fini dell’applicazione della predetta disciplina contrattuale, sono richiesti i seguenti presupposti e condizioni, che devono necessariamente intervenire in via preventiva:
1- l’ente sia stato puntualmente e tempestivamente informato dal lavoratore interessato sui contenuti del contenzioso;
2 – l’ente abbia ritenuto, sempre preventivamente, che non sussista conflitto di interessi;
3 - l’ente abbia deciso di assumere ogni onere della difesa “sin dalla apertura del procedimento”;
4 - il legale per la difesa del dipendente sia stato individuato con il gradimento anche dell’ente.
Il rimborso delle spese legali in mancanza di tali adempimenti e condizioni di carattere preventivo, si porrebbe in evidente contrasto con la disciplina contrattuale dell’istituto. La necessaria sussistenza di tali elementi e condizioni è stata sostenuta anche dalla giurisprudenza amministrativa e contabile (cfr. Corte dei Conti sezione giurisdizionale della Lombardia n. 1257 dello 08.06.2002; Consiglio di Stato, sez. V, n. 5986/2006).
Nell'ambito dei diversi requisiti stabiliti dal CCNL, particolare attenzione dovrà essere prestata al profilo della sussistenza o meno di eventuali situazioni di conflitto di interesse, dato che molto spesso vengono in considerazione comportamenti lesivi anche della posizione del datore di lavoro.
L’art. 28, comma 3, del CCNL del 14.09.2000, infine, espressamente esclude che la disciplina del patrocinio legale possa trovare applicazione nei casi in cui si tratti di titolari di posizione organizzativa per i quali sia stata stipulata una polizza assicurativa, ai sensi dell’art. 43 del medesimo CCNL.
La norma sembra apprestare un “divieto” di carattere generale (“La disciplina del presente articolo non si applica ai dipendenti assicurati ai sensi dell’art. 43, comma 1.”), che, proprio per la sua ampiezza, non sembra consentire deroghe.
Tuttavia, in proposito, non può non evidenziarsi come non ci sia una piena coincidenza tra le fattispecie considerate in quest’ultima clausola contrattuale (copertura assicurativa per la sola responsabilità civile) e quelle considerate ai fini del patrocinio legale (procedimento di responsabilità civile o penale) dall’art. 28 del CCNL del 14.09.2000.
Pertanto, una applicazione rigida e formale della previsione dell’art. 28, comma 3, del CCNL del 14.09.2000 nel caso di procedimento penale a carico di un titolare di posizione organizzativa, assicurato per la responsabilità civile, ai sensi dell’art. 43 del medesimo CCNL del 14.09.2000, sembra una palese e irragionevole ingiustizia, inutilmente penalizzante per il personale.
In proposito, invece, si ritiene che debba farsi riferimento innanzitutto alla finalità perseguita dalla clausola contrattuale e cioè evitare l’apprestamento di una doppia tutela, attraverso due distinti istituti, per la medesima fattispecie.
In tale logica, evidentemente, il citato art. 28, comma 3, indubbiamente preclude la possibilità di dare applicazione alla disciplina del patrocinio legale con riferimento a un procedimento giudiziale concernente la responsabilità civile di un titolare di posizione organizzativa, già assicurato ai sensi dell’art. 43 del CCNL del 14.09.2000 e gode, quindi, della particolare tutela ivi prevista.
Il medesimo art. 28, comma 3, non potrà essere invocato, invece, nella diversa fattispecie del titolare di posizione organizzativa, assicurato per la responsabilità civile, ai sensi dell’art. 43 del CCNL del 14.09.2000, sottoposto a procedimento penale per escludere il patrocinio legale.
Infatti, in questa ipotesi, non vi è duplicazione di tutela in quanto la copertura assicurativa dell’art.43 non può essere estesa anche ai casi di responsabilità penale e conseguentemente manca quel presupposto che giustifica il “divieto” dell’art. 28, comma 3, del CCNL del 14.09.2000 (
parere 04.11.2013 n. RAL-1615 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ Può essere attribuito un incarico di posizione organizzativa ad un dipendente che fruisce del congedo biennale retribuito per l’assistenza a persona portatrice di handicap, di cui all’art. 42, comma 5, del D.Lgs. n. 151/2001, qualora lo stesso garantisca almeno il 50% della prestazione lavorativa settimanale ordinaria (36 ore)?
Nel merito di tale problematica, si precisa quanto segue:
a) - le posizioni organizzative, sulla base della vigente disciplina contrattuale (art. 8 e ss. del CCNL del 31.03.1999; art. 10 del CCNL del 22.01.2004) si caratterizzano per lo svolgimento da parte dei titolari di compiti particolarmente qualificati, comportanti la diretta e personale assunzione diretta e personale assunzione di una elevata responsabilità di prodotto e di risultato;
b) - proprio in considerazione della rilevanza delle attività e delle responsabilità facenti capo ai titolari di posizione organizzativa, la medesima disciplina contrattuale richiede per gli stessi un impegno lavorativo pieno, completo e continuo;
c) – a tal fine è sufficiente considerare che:
   1) – la disciplina contrattuale stabilisce solo la durata minima della prestazione lavorativa settimanale (le 36 ore settimanali) del titolare di posizione organizzativa e non anche quella massima, che sarà, invece, collegata, genericamente e dinamicamente, alla rilevanza ed alle effettive necessità delle funzioni da svolgere. Le prestazioni ulteriori rese dal dipendente non possono considerarsi straordinarie o comunque aggiuntive rispetto al minimo delle 36 ore, ma sono ordinario orario di lavoro.
   2) – in base all’art. 4, comma 2, del CCNL del 14.09.2000 non è possibile l’attribuzione di un incarico di posizione organizzativa a dipendenti comunque titolare di posizione organizzativa, salvo che non ricorrano i presupposti per l’applicazione dell’art. 11 del CCNL del 22.01.2004;
d) - conseguentemente, si ritiene, proprio in base alle caratteristiche degli incarichi di posizione organizzativa e della relativa disciplina contrattuale, che gli stessi non possano che risultare incompatibili con una prestazione lavorativa che, come nel caso sottoposto, risulti comunque quantitativamente ridotta rispetto al minimo (almeno 36 ore settimanali) ordinariamente richiesta per la generalità dei titolari di posizione organizzativa (
parere 04.11.2013 n. RAL-1608 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ Ai fini dell’attribuzione dell’incarico di posizione organizzativa, nell’ambito della categoria giuridica D, deve tenersi conto del requisito del più elevato inquadramento economico di un dipendente rispetto ad un altro (D4 in luogo di D2)?

Nell’ambito della vigente disciplina contrattuale (art. 8 e ss. del CCNL del 31.03.1999), gli incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti solo a personale della categoria D, salvo che non si tratti di enti la cui dotazione non preveda posti di categoria D; solo in tali ultimi enti, l’incarico di posizione organizzativa può essere conferito a personale della categoria C e B, in relazione alla propria grandezza demografica, e nel rispetto delle generali regole in materia (art. 11, comma 3, del CCNL del 31.03.1999); ad avviso della scrivente Agenzia, tale regola vale anche per gli eventuali incarichi di supplenza;
All’interno della categoria D, data la unitarietà della stessa, gli incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti, indifferentemente, sia a personale di tale categoria in possesso di profili con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D1 sia a quello collocato in profili con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3.
Pertanto, ove nel caso di specie venga in considerazione un dipendente comunque inquadrato nella categoria D, allo stesso potrà essere legittimamente conferito un incarico di posizione organizzativa.
Quello che effettivamente rileva in materia è il rigoroso rispetto da parte dell’Ente dei criteri di conferimento dallo stesso preventivamente adottati nell’osservanza delle previsioni dell’art. 9, comma 2, del CCNL del 31.03.1999.
Tale clausola contrattuale, infatti, espressamente stabilisce “Per il conferimento degli incarichi gli enti tengono conto -rispetto alle funzioni ed attività da svolgere- della natura e caratteristiche dei programmi da svolgere, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale della categoria D”.
Sulla base di tali criteri, per il riconoscimento della titolarità della posizione organizzativa, l’ente valuterà la posizione professionale e culturale di tutti gli eventuali aspiranti comunque collocati nella categoria D (
parere 28.10.2013 n. RAL-1547 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ Qual è la corretta procedura per l’istituzione di posizioni organizzative di alta professionalità, ai sensi dell’art. 10 del CCNL del 22.01.2004? E’ possibile attivare tale tipologia di posizione organizzativa anche nei comuni privi di dirigenza?
Quali sono le modalità di finanziamento? Un dipendente, già titolare di una posizione organizzativa comportante la responsabilità di uffici e servizi, può cumulare alla stessa un incarico di alta professionalità?

Da un punto di vista generale ed al fine di evitare applicazioni non conformi agli effettivi contenuti della disciplina delle alte professionalità, di cui all’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, si ritiene necessario riepilogare brevemente i tratti salienti della suddetta disciplina:
   1. la disciplina delle alte professionalità, di cui all’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, ai fini della sua effettiva attuazione richiede, in generale, sotto il profilo oggettivo, l’individuazione di contenuti ed obiettivi dell’incarico che si va a conferire di particolare rilevanza e prestigio, idonei a giustificare e legittimare un ammontare della retribuzione di posizione superiore a quello stabilito dalla disciplina contrattuale per le altre posizioni organizzative (art. 8 e 9 del CCNL del 31.03.1999); sotto il profilo soggettivo, il possesso da parte dei lavoratori di quei particolari titoli culturali e professionali espressamente e chiaramente a tal fine previsti (lauree specialistiche, master, dottorati di ricerca ed altri titoli equivalenti); la mancanza dei requisiti oggettivi e soggettivi non consente l’introduzione delle alte professionalità;
   2. l’effettiva attuazione della disciplina contrattuale delle alte professionalità presuppone la preventiva definizione, con atti organizzativi di diritto comune, da parte dell’ente dei seguenti elementi: i criteri e le condizioni per l’individuazione delle competenze e delle responsabilità connesse agli incarichi di alta professionalità (nel rispetto dei vincoli della informazione sindacale, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001); i criteri per l’affidamento degli incarichi di alta professionalità; i criteri per la quantificazione dei valori della retribuzione di posizione e di risultato (nel rispetto del vincolo della concertazione, ai sensi dell’art. 16, comma 2, del CCNL del 31.03.1999); i criteri per la valutazione periodica delle prestazioni e dei risultati dei titolari di posizione organizzativa;
   3. per affidare un incarico di alta professionalità è necessario prima modificare l'assetto organizzativo dell’ente quale risulta dal regolamento degli uffici e dei servizi, con la istituzione di tale posizione; infatti, negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, le posizioni organizzative si identificano con le funzioni apicali degli enti stessi (art. 15 CCNL 22.01.2004) e, quindi, anche l’incarico di alta professionalità deve corrispondere ad una funzione apicale degli enti stessi;
   4. trattandosi di posizione apicale, la relativa istituzione deve essere definita dalla Giunta nel rispetto della riserva della fonte legale derivante dall’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001; si è, infatti, in presenza di un atto di macro organizzazione (o di organizzazione di primo livello) che deve essere definita con atti di diritto pubblico (art. 2, comma 1, e art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001);
  5. le alte professionalità, di cui all’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, rappresentano una particolare configurazione delle posizioni organizzative già previste dall’art. 8, comma 1, lett. b) e lett. c), del CCNL del 31.03.1999; ciò comporta che le stesse debbano sempre connotarsi per l’autonomia delle attività svolte e per l’assunzione diretta ed immediata, da parte dei titolari delle stesse, di un’elevata responsabilità di prodotto e di risultato;
   6. l’incarico di alta professionalità è autonomo, anche sotto il profilo gerarchico, rispetto agli incarichi di direzione di struttura (art. 8, comma 1, lett. a) del CCNL del 31.03.1999); a maggiore ragione tale regola vale nel caso degli enti privi di dirigenza, dato che in essi, come sopra detto, le posizioni organizzative si identificano con le funzioni apicali degli stessi;
   7. come nel regime del CCNL del 31.03.1999, gli incarichi di posizione organizzativa ai sensi della lett. a) dell’art. 8 del CCNL 31.03.1999 (di direzione di struttura), erano e restano diversi e autonomi rispetto agli incarichi delle lett. b) e c) del medesimo articolo. Conseguentemente al personale già titolare di un incarico ai sensi dell’art. 8, lett. a), non possono essere attribuiti in via ordinaria anche, e contemporaneamente, incarichi di alta professionalità, che, come è noto, si collocano proprio all’interno della generale disciplina dell’art. 8, comma 1, lett. b) e c); quindi, gli incarichi delle lettere a), b) e c) e quelli di alta professionalità sono alternativi tra di loro e non possono essere cumulati sullo stesso soggetto (con due retribuzioni di posizione) né possono essere “fusi” o sovrapposti tra di loro, con l’attribuzione al titolare del più elevato importo della retribuzione di posizione riconosciuto esclusivamente per le alte professionalità in senso stretto;
   8. le posizioni di alta professionalità si caratterizzano per la mancanza di funzioni organizzative, di direzione di struttura e di gestione, per la prevalenza data ai contenuti di carattere professionale e personale;
   9. il conferimento degli incarichi di alta professionalità avviene nel rispetto dei criteri preventivamente definiti dall’ente, in stretta coerenza con gli specifici requisiti oggettivi e soggettivi che caratterizzano, in base alla disciplina contrattuale, le suddette posizioni di lata professionalità;
   10. esclusivamente per le posizioni organizzative di alta professionalità, l’importo della retribuzione di posizione può variare (art. 10, comma 4, del CCNL del 22.01.2004) da un minimo di € 5.164,56 ad un massimo di € 16.000; entro tale ambito di oscillazione, l’ente, sulla base dei criteri di graduazione preventivamente ed autonomamente adottati, ai sensi dell’art. 10 del CCNL del 31.03.1999, fisserà l’effettivo ammontare della retribuzione di posizione di alta professionalità nonché quella di risultato entro il limite minimo del 10% e quello massimo del 30% della retribuzione di posizione. Pertanto, la disciplina contrattuale non prevede un automatico riconoscimento del valore massimo della retribuzione di posizione e di risultato per le posizioni di alta professionalità. Tale aspetto assume particolare rilievo in relazione al profilo del finanziamento di tali voci retributive, di cui si dirà al successivo punto 10;
   11. per ciò che attiene al finanziamento dell’istituto da parte di questa specifica tipologia di enti, la disciplina dell’art. 17, comma 2 lett. c), del CCNL 01.04.1999, prevede chiaramente che gli enti privi di dirigenza, non sono tenuti alla “formale” costituzione di uno specifico ”fondo” per la retribuzione di posizione e di risultato delle P.O. Pertanto, essi possono utilizzare per il finanziamento delle alte professionalità esclusivamente le risorse derivanti dall’applicazione della percentuale dello 0,20% del monte salari del personale riferito all’anno 2001, secondo le previsioni dell’art. 32, comma 7, del CCNL del 22.01.2004.
Tale percentuale dello 0,20% del monte salari 2001 rappresenta una quota di incremento contrattuale espressamente e tassativamente finalizzato alle alte professionalità per favorirne l’introduzione (dati i maggiori valori di retribuzione di posizione e di risultato per questi previsti) ed evitare che le stesse possano essere utilizzate anche per il finanziamento delle altre tipologie di posizioni organizzative. Un problema applicativo può nascere proprio dalla considerazione che la quota di risorse derivanti dall’incremento dello 0,20%, di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL 22.01.2004, negli enti privi di dirigenza, proprio per le ridotte dimensioni degli stessi, può risultare insufficiente al finanziamento delle alte professionalità e che la stessa non può neppure essere incrementata con altre risorse stabili di cui all’art. 15 del CCNL dell’01.04.1999, dato che gli stessi enti, come sopra detto non sono tenuti alla costituzione del fondo di cui all’art. 17, comma 2, lett. c), del CCNL dell’01.04.1999.
Questi enti non possono neppure utilizzare a tal fine altre risorse a carico dei propri bilanci, in quanto il finanziamento a carico del bilancio degli oneri connessi alla retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative è ammesso solo per quelle posizioni organizzative comportanti la direzione e la responsabilità di uffici e strutture, secondo le previsioni dell’art. 11 del CCNL del 31.03.1999 e, a monte, dell’art. 109, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000;
   12. nel caso in esame, anche se l’ente introducesse posizioni di alta professionalità nel rispetto di quanto sopra detto, comunque, un incarico di tale tipologia non potrebbe essere conferito al lavoratore da Voi citato. Infatti, questi, essendo già responsabile di servizio e, quindi, già titolare di posizione organizzativa di direzione di struttura, ai sensi dell’art.8, comma 1, lett. a) e dell’art. 11 del CCNL del 31.03.1999 e dell’art. 11 del CCNL del 22.01.2004, non può essere destinatario, contemporaneamente, anche di un incarico di alta professionalità, ai sensi dell’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, secondo quanto già detto al precedente numero 7) (
parere 06.08.2012 n. RAL-1371 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ Il responsabile di una posizione organizzativa può delegare ad altri dipendenti le relative funzioni ?
Premesso che il quesito riguarda aspetti tipicamente organizzativi e non l’applicazione del CCNL, siamo tuttavia del parere che l’istituto della delega:
- può essere utilizzato dal dirigente nei riguardi dei responsabili delle posizioni organizzative, che si caratterizzano per l’elevata responsabilità di prodotto e di risultato (art. 8 CCNL del 31.03.1999);
- non può essere utilizzato dai responsabili delle posizioni organizzative apicali verso altro personale sia perché ciò finirebbe per svuotare di contenuti e responsabilità la loro funzione, sia per l’assenza di un ulteriore livello subordinato altrettanto responsabilizzato (
parere 05.06.2011 n. RAL-289 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/  Ad un dipendente inquadrato in categoria D, con incarico di P.O. ai sensi della lett. a), dell’art. 8 del CCNL 31.03.1999, può essere attribuito anche un incarico di alta professionalità, ai sensi dell’art. 10, comma 2, lett. a), del CCNL del 22.01.2004, elevando la retribuzione di posizione a 16.000 euro?
La risposta è negativa. Gli incarichi di P.O. ai sensi della lett. a) dell’art. 8 del CCNL 31.03.1999, erano e restano diversi e autonomi rispetto agli incarichi delle lett. b) e c) del medesimo articolo. Conseguentemente al personale già titolare di un incarico ai sensi dell’art. 8, lett. a) non possono essere attribuiti anche, e contemporaneamente, incarichi di alta professionalità, che, come è noto, si collocano proprio all’interno della generale disciplina dell’art. 8, comma 1, lett. b) e c).
Suggeriamo di prendere visione anche della relazione al CCNL pubblicata sul nostro sito (
parere 05.06.2011 n. RAL-288 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/  Il principio relativo alla adozione degli atti di diritto comune per la valorizzazione delle alte professionalità, di competenza dei dirigenti, trova applicazione anche con riferimento agli adempimenti per la applicazione della disciplina delle PO di cui alla lettera a) dell’art. 8, del CCNL 31.03.1999?
La risposta è sicuramente positiva. Tutta la attività di gestione e di applicazione delle discipline dei contratti collettivi di lavoro é di competenza della dirigenza, che vi provvede mediante decisioni adottate con i poteri e le capacità dei privati datori di lavoro, nel rispetto del vincolo posto dall’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001 (
parere 05.06.2011 n. RAL-287 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ La disciplina delle posizioni organizzative non attinenti alla direzione di struttura, di cui all’art. 8, comma 1, lett. b) e c.), del ccnl del 31.03.1999, continua ad applicarsi anche dopo l’introduzione delle alte professionalità di cui all’art. 10 del ccnl del 22.01.2004?
Si. Infatti, espressamente, l’art. 10, comma 1, del CCNL del 22.01.2004 stabilisce che gli incarichi di alta professionalità delle lett. b) e c) dell’art. 8 del CCNL del 31.03.1999 sono conferiti nell’ambito della disciplina del citato art.8, comma 1, lett. b) e c).
Quindi, l’art. 10 non ha abrogato l’art. 8, ma ha solo inserito al suo interno le nuove regole concernenti la valorizzazione delle alte professionalità (
parere 05.06.2011 n. RAL-286 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni organizzative e le alte professionalità/ L’art. 8, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 prevede che gli enti istituiscono posizioni di lavoro caratterizzate da 'assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato'. Come deve intendersi tale espressione?
Il problema può porsi solo per gli enti con posizioni dirigenziali in quanto per gli altri le posizioni organizzative dell’art. 8 coincidono con le posizioni apicali i cui titolari, per ciò stesso, sono investiti, per legge, di autonomi poteri di gestione. Il punto è stato definitivamente chiarito dall’art. 15 del CCNL del 22.01.2004.
Ciò premesso, la clausola contrattuale impone agli enti con dirigenza di individuare autonome regole e soluzioni organizzative conformi all’ordinamento vigente tali da garantire che gli incaricati di dette posizioni abbiano spazi di autonomia sufficienti per rispettare l’indicazione contrattuale (
parere 05.06.2011 n. RAL-285 - link a www.aranagenzia.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Non solo non è possibile estendere a volontari che prestino la propria opera in favore di pp.aa. regole, istituti e provvidenze dettate per i lavoratori dipendenti; ma una attività di volontariato in favore di pp.aa. non è neppure legittima, e quindi possibile, al di fuori dei precisi e rigorosi schemi operativi dettati dalla l. n. 266/1991.
(a) l’attività di volontariato è svolta solo nell’ambito di apposite organizzazioni, aventi determinate caratteristiche strutturali e funzionali;
(b)
le pp.aa. possono avvalersi di volontari solo ed esclusivamente nel quadro di specifiche convenzioni stipulate con le relative organizzazioni, rectius con quelle tra di esse che, essendo in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge, siano iscritte in specifici registri regionali.
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Invero, è
da ritenersi escluso in radice un autonomo ricorso delle pp.aa. a prestazioni da parte di volontari “a titolo individuale”, perché la necessaria “interposizione” dell’organizzazione di volontariato iscritta nei ridetti registri regionali, ben lungi da inutili e barocchi formalismi, vale -a salvaguardia di interessi che sono di “ordine pubblico” e che come tale non ammettono deroghe od eccezioni di sorta- ad assicurare:
da un lato, che lo svolgimento dell’attività dei volontari si mantenga nei rigorosi limiti della spontaneità, dell’assenza anche indiretta di fini di lucro, della esclusiva finalità solidaristica, dell’assoluta e completa gratuità; e
dall’altro, che resti ferma e aliena da ogni possibile commistione la rigida distinzione tra attività di volontariato e attività “altre” (cfr. “La qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte.”, cit.),
e, dunque, ad evitare che da parte delle pp.aa. si dia luogo -anche soltanto praeter intentionem- ad atipiche e surrettizie forme di lavoro precario, peraltro elusive delle regole sul reclutamento e l’utilizzazione del personale (concorso pubblico, contratto di lavoro, rispetto dei cc.cc.nn.ll., tutele e garanzie del lavoratore) e foriere nel tempo financo di precostituire pretese, ancorché infondate, di stabilizzazione di rapporti pregiudizievoli per gli assetti e gli equilibri della finanza pubblica.

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...il Sindaco di Montale (PT) fa richiesta, ex art. 7 l. n. 131/2003, di un parere da parte di questa Sezione, in ordine all’assunzione di oneri relativi alla stipula di apposite polizze assicurative dirette a fornire copertura dai rischi di infortunio, malattia e responsabilità verso terzi per cittadini che intendono prestare servizio volontario a titolo individuale, fenomeno per il quale il comune ha anche approntato un apposito schema di regolamento.
In particolare il comune chiede di conoscere se il ricorso a tale forma di volontariato con assicurazione a carico dell’ente sia legittimo.
...
Nel merito, va rilevato che la legge (in ottemperanza ad un preciso obbligo costituzionale: v. infra) prevede che i lavoratori dipendenti (pubblici o privati) godano di copertura assicurativa contro le malattie e gli infortuni, la quale, anche storicamente, è diretta ad esonerare il lavoratore -parte “debole” del rapporto- dal rischio connesso all’impossibilità (per infortunio o malattia) di rendere la prestazione e, quindi, di sopportare, in dette evenienze, uno stato di bisogno per sé e la propria famiglia.
Essa si compendia nella previsione dell’erogazione, in caso di malattia o infortunio, di un’indennità sostitutiva della remunerazione (in caso di infortunio sul lavoro anche di una indennità per gli eventuali postumi permanenti), a carico del datore di lavoro e/o di specifici ed appositi fondi pubblici (Inps, Inail).
La ratio giustificativa di tali previsioni riposa sull’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente, e, dunque, come già accennato, sull’esigenza di tutela del soggetto ‘debole’, a fortiori nel vigente ordinamento costituzionale che, premessi gli inderogabili obblighi di solidarietà economica e sociale (art. 3), nel quadro, da un lato, dell’assoggettamento sia della proprietà che dell’iniziativa economica a fini di utilità sociale (artt. 41-42 Cost.), e, dall’altro, dell’impegno della Repubblica a tutelare il lavoro (art. 35 Cost.), prevede esplicitamente che “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia…” (art. 38 Cost.).
Anche la copertura per la responsabilità civile verso terzi costituisce una previsione -peraltro eccezionale, a fronte dell’inequivoca previsione dell’art. 28 Cost., secondo cui i funzionari e dipendenti pubblici sono direttamente responsabili verso i terzi secondo le leggi penali, civili ed amministrative- fondata su specifiche (ed eccezionali) ipotesi contemplate nei contratti collettivi, e, dunque, comunque limitata all’ambito di un rapporto lavorativo in senso proprio.
Rebus sic stantibus,
l’estensione a dei volontari di previsioni dettate per il lavoratore dipendente appare ipotesi del tutto ingiustificata e priva di qualsiasi giuridico fondamento. Infatti, come accennato, rispetto a quello del lavoro dipendente del tutto diverso è, di contro, lo statuto dell’attività di volontariato, ancorché svolta in favore di pp.aa.; la quale attività, pur meritevole di considerazione e talora financo benemerita per la collettività, è attività essenzialmente libera e, ovviamente, volontaria, svolta dal singolo con puro spirito di liberalità e quale forma di altruistico svolgimento della propria personalità (art. 2 Cost.), rispetto alla quale il volontario non assume alcun obbligo, potendo cessarla ad nutum in ogni momento, e che non è funzionale (ed è anzi del tutto estranea) al procacciamento da parte del singolo dei mezzi economici atti ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), come del resto emerge chiaramente dalla circostanza che la “legge quadro sul volontariato (v. l. n. 266/1991, su cui infra) non a caso prevede, all’art. 17, che i “lavoratori che facciano parte di organizzazioni iscritte nei registri di cui all’articolo 6, per poter espletare attività di volontariato, hanno diritto di usufruire delle forme di flessibilità di orario di lavoro o delle turnazioni previste dai contratti o dagli accordi collettivi, compatibilmente con l’organizzazione aziendale.”.
Ma, a ben vedere, v’è di più.
I suesposti principi sono stati perfettamente colti dal legislatore, il quale, ben conscio del quadro ordinamentale testé sinteticamente richiamato, ha infatti stabilito che
è “attività di volontariato” quella “prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”, specificando viepiù che essa “non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono essere soltanto rimborsate dall’organizzazione di appartenenza le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata, entro limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse (art. 2, commi 1 e 2, l. n. 266/1991).
E al fine di precludere ogni possibile capziosità interpretativa, lo stesso legislatore ha soggiunto, in maniera tranciante, che “
La qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonome e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte.” (art. 1, comma 3, l. cit.), così inequivocabilmente ribadendo la differenza ontologica, e perciò di ‘trattamento’ giuridico, tra rapporto di lavoro o rapporto patrimoniale di qualsivoglia natura da una parte e attività di volontariato dall’altra.
La stessa legge citata prosegue, poi, stabilendo che
è organizzazione di volontariato “ogni organismo liberamente costituito al fine di svolgere l’attività di cui all’articolo 2, che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti […nelle cui regole …] devono essere espressamente previsti l’assenza di fini di lucro, la democraticità della struttura, l’elettività e la gratuità delle cariche associative nonché la gratuità delle prestazioni fornite dagli aderenti […nel presupposto che…] le organizzazioni di volontariato possono assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento oppure occorrenti a qualificare o specializzare l’attività da esse svolta.” (art. 3).
Sempre la legge n. 266/1991,
oltre a stabilire che le organizzazioni di volontariato traggono le risorse loro occorrenti da contributi di aderenti, di privati, di organismi internazionali, da donazioni e lasciti, da attività economiche marginali, nonché da contributi pubblici “finalizzati esclusivamente al sostegno di specifiche e documentare attività o progetti” e “rimborsi derivanti da convenzioni” (art. 5), dispone, poi, che esse -previa (cfr. “è condizione necessaria…”) iscrizione in appositi registri regionali ricorrendo le succitate condizioni statutarie (art. 6):
(a)
beneficiano di un regime fiscale di particolare favore (art. 8);
(b)
traggono le proprie risorse (oltre che da contributi di aderenti, privati, organismi internazionali; donazioni e lasciti; attività economiche marginali; contributi pubblici “finalizzati esclusivamente al sostegno di specifiche e documentare attività o progetti”; altresì) da rimborsi derivanti da convenzioni (art. 5);
(c)
operano (oltre che “mediante strutture proprie”; altresì “nelle forme e nei modi previsti dalla legge [ ], nell’ambito di strutture pubbliche o con queste convenzionate” (art. 3, co. 5), secondo convenzioni stipulate con pp.aa. ex art. 7 e di cui “la copertura assicurativa di cui all’articolo 4 [v. “Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri aderenti, che prestano attività di volontariato, contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell’attività stessa, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.”] è elemento essenziale della convenzione e gli oneri relativi sono a carico dell’ente con il quale viene stipulata (art. 7, comma 3).
Orbene, da quanto sin qui rilevato e richiamato
si deve ritenere confermato che al quesito del Sindaco di Montale si debba dare risposta negativa.
Il sistema delineato dalla citata legge n. 266/1991 costituisce, per così dire, un hortus conclusus, un sistema che, disciplinando compiutamente i vari aspetti dell’esplicarsi delle attività di volontariato, non ammette soluzioni organizzative e/o operative differenti né esibisce lacune normative che siano bisognevoli di essere in qualche modo colmate attraverso un’ attività analogico-interpretativa.
Da tale sistema si evince chiaramente che:
(a)
l’attività di volontariato è svolta solo nell’ambito di apposite organizzazioni, aventi determinate caratteristiche strutturali e funzionali;
(b)
le pp.aa. possono avvalersi di volontari solo ed esclusivamente nel quadro di specifiche convenzioni stipulate con le relative organizzazioni, rectius con quelle tra di esse che, essendo in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge, siano iscritte in specifici registri regionali.
E’, dunque, da ritenersi escluso in radice un autonomo ricorso delle pp.aa. a prestazioni da parte di volontari “a titolo individuale”, perché la necessaria “interposizione” dell’organizzazione di volontariato iscritta nei ridetti registri regionali, ben lungi da inutili e barocchi formalismi, vale -a salvaguardia di interessi che sono di “ordine pubblico” e che come tale non ammettono deroghe od eccezioni di sorta- ad assicurare, da un lato, che lo svolgimento dell’attività dei volontari si mantenga nei rigorosi limiti della spontaneità, dell’assenza anche indiretta di fini di lucro, della esclusiva finalità solidaristica, dell’assoluta e completa gratuità; e, dall’altro, che resti ferma e aliena da ogni possibile commistione la rigida distinzione tra attività di volontariato e attività “altre” (cfr. “La qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte.”, cit.); e, dunque, ad evitare che da parte delle pp.aa. si dia luogo -anche soltanto praeter intentionem- ad atipiche e surrettizie forme di lavoro precario, peraltro elusive delle regole sul reclutamento e l’utilizzazione del personale (concorso pubblico, contratto di lavoro, rispetto dei cc.cc.nn.ll., tutele e garanzie del lavoratore) e foriere nel tempo financo di precostituire pretese, ancorché infondate, di stabilizzazione di rapporti pregiudizievoli per gli assetti e gli equilibri della finanza pubblica.
Ne è conferma la rigida distinzione -quanto alla copertura assicurativa dei volontari (cui dev’essere provveduto sempre, anche allorché non si operi, previa convenzione, a favore di una pp.aa.)- tra il soggetto tenuto a stipulare il contratto di assicurazione, che è e deve sempre essere l’organizzazione di volontariato (cfr. “Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i propri aderenti…”), ed il soggetto sul quale, nel caso di convenzione ex art. 7 l. n. 266/1991, deve gravare il relativo peso economico della copertura, che è “elemento essenziale della convenzione e gli oneri relativi sono a carico dell’ente con il quale viene stipulata” (art. 7, comma 3).
Orbene, da quanto sin qui rilevato e considerato
si deve necessariamente concludere che non solo non è possibile estendere a volontari che prestino la propria opera in favore di pp.aa. regole, istituti e provvidenze dettate per i lavoratori dipendenti; ma che una attività di volontariato in favore di pp.aa. non è neppure legittima, e quindi possibile, al di fuori dei precisi e rigorosi schemi operativi dettati dalla l. n. 266/1991 come dianzi ricordati.
E’ superfluo aggiungere che alla stregua di dette conclusioni
il prospettato schema di regolamento comunale, che si discosta in radice dalle previsioni della legge n. 266/1991, non è conforme alla legge e perciò non può essere legittimamente approvato (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 30.09.2016 n. 141).

SEGRETARI COMUNALI: Diritti di rogito, cortocircuito. Spettano o no ai segretari di fascia A e B? Giudici divisi. La Corte conti interviene a gamba tesa nei confronti della sentenza del tribunale di Milano.
Cortocircuito tra Corte dei conti e giudice del lavoro sulla questione relativa alla compartecipazione dei segretari comunali ai diritti di rogito.

La magistratura contabile, attraverso il parere 15.09.2016 n. 74 della sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, interviene a gamba tesa nei confronti della sentenza 18.05.2016 n. 1539 del Tribunale di Milano in veste di giudice del lavoro.
La decisione del giudice del lavoro, come noto, critica apertamente le indicazioni fornite dalla sezione autonomie con la deliberazione 24.06.2015, n. 21/Sezaut/2015/Qmig, secondo la quale non spettano i diritti di rogito ai segretari di fascia A e B, pur se incaricati in sedi di segreteria di comuni privi di dirigenti.
Secondo il tribunale di Milano una simile interpretazione, che comporta ovviamente la conseguenza di considerare non legittimo il riconoscimento dei diritti di rogito ai segretari di fascia A e B, qualunque sia la sede presso la quale svolgano la loro attività, «finisce per restringere il campo di applicazione della norma compiendo un'operazione di chirurgia giuridica non consentito nemmeno in nome della res pubblica». Il tribunale di Milano conclude che «la letterale applicazione della norma che, nella sua chiarezza non necessita di alcuna interpretazione», tanto da portarlo a decidere per la spettanza dei diritti di rogito al segretario di fascia A o B che operi in sedi privi di dirigenti.
La sezione Emilia Romagna replica, ripercorrendo i «lavori preparatori» dell'articolo 10 del dl 90/2014, 114/2014, dai quali la magistratura contabile evince, invece, la distinzione tra la posizione dei segretari di fascia A e B, assimilati alla dirigenza, che anche grazie al galleggiamento dispongono di un trattamento economico non previsto per i segretari di fascia C, per i quali solo sarebbe prevista la percezione dei diritti di rogito, comunque nell'ottica del contenimento della spesa pubblica. La delibera della sezione conclude, pertanto, seccamente: «Per le ragioni esposte nella parte di merito, l'interpretazione della norma data dal tribunale di Milano nella sentenza di primo grado non appare convincente e la sezione ritiene di confermare l'orientamento esplicitato secondo i principi stabiliti in sede nomofilattica dalla sezione delle autonomie».
Che l'interpretazione delle norme sia opera difficoltosa e delicata è fatto noto. Ed è anche espressamente previsto che orientamenti giurisprudenziali possano modificarsi, così come anche decisioni e sentenze sono esposte a radicali revisioni tra primo grado e appello.
Nel caso di specie, tuttavia, il contrasto assume elementi particolarmente stucchevoli e delicati. Infatti, non si tratta di un contrasto interpretativo normale.
Il tribunale di Milano si è espresso mediante la vera e propria «iuris dictio», con una sentenza vertente in tema di diritto soggettivo connesso al rapporto di lavoro. La magistratura contabile, invece, affronta il tema sicuramente esercitando i poteri giurisdizionali ad essa attribuiti dalla Costituzione, ma attraverso atti che hanno veste, ruolo e funzione di pareri, non sentenze.
Sembra piuttosto strano che una medesima questione possa suscitare un botta e risposta tra giurisdizioni differenti e poteri giurisdizionali molti diversi, dei quali quello connesso all'espressione di pareri appare ovviamente recessivo.
Soprattutto, l'ordinamento deve al più presto essere razionalizzato: una medesima questione risolta in un certo modo con sentenza facente stato da parte del giudice del lavoro non può prestarsi ad essere eventualmente letta dalla giurisdizione contabile (in sede giurisdizionale per responsabilità erariale) in senso diametralmente opposto, eventualmente basandosi sulle indicazioni delle sezioni di controllo.
Né l'operato delle amministrazioni locali può ammettersi che resti paralizzato, stretto a tenaglia dalle opposte opinioni delle due giurisdizioni, il cui unico effetto sarebbe, per altro, solo quello di scatenare ulteriormente il contenzioso già in atto, con buona pace dei risparmi per le finanze pubbliche che la riforma sui diritti di rogito del 2014 avrebbe inteso ottenere (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).

SEGRETARI COMUNALII diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C. In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa (art. 10 dl 24.06.2014, n. 90, convertito in legge 11.08.2014, n. 114) i predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario.
Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli enti
”.
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L’interpretazione della norma data dal Tribunale di Milano nella sentenza di primo grado non appare convincente e la Sezione ritiene di confermare l’orientamento esplicitato secondo i principi stabiliti in sede nomofilattica dalla Sezione delle autonomie.
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Il Sindaco di Torrile (PR) ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere avente a oggetto l’interpretazione dell’art. 10, comma 2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, in materia di corresponsione del diritto di rogito ai segretari comunali.
In premessa il citato Sindaco richiama la deliberazione n. 105/2015/PAR resa da questa Sezione il 27.05.2015, la deliberazione n. 21/SEZAUT/2015/QMIG del 04.06.2015, il parere reso in data 25.03.2016 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze-Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato e da ultimo la sentenza n. 75/2016 della Corte costituzionale.
In particolare, il citato Sindaco, alla luce della sentenza della Corte costituzionale appena citata pone il seguente quesito:
- se spetti la liquidazione dei diritti di rogito ai segretari collocati nelle fasce professionali A e B che prestano servizio e rogano contratti nell’interesse di enti locali sprovvisti di personale di qualifica dirigenziale.
...
Preliminarmente, occorre operare una breve ricognizione del quadro normativo, secondo quanto già fatto nella precedente deliberazione n. 105/2015/PAR.
L’art. 10 del dl 24.06.2014, n. 90, convertito in legge 11.08.2014, n. 114 è intervenuto riformando la legislazione allora vigente in materia di diritto di rogito dei segretari comunali.
E’ stata innanzitutto disposta l’integrale destinazione ai Comuni dei diritti di rogito, sostituendo la precedente previsione contenuta nell’art. 30 della l. 15.11.1973, n. 734 (come successivamente modificato dall’art. 25, comma 7, del dl 22.12.1981, n. 786, convertito con modificazioni dalla legge 26.02.1982, n. 51) che assegnava ai Comuni il 90 per cento del gettito dei diritto di rogito, riservando il restante 10 per cento al Ministero dell’Interno per la costituzione di un fondo da utilizzare per corsi di formazione e sussidi per i segretari comunali.
Con lo stesso articolo del provvedimento il legislatore ha abrogato l’art. 41, comma 4, della legge n. 312/1980 che riservava ai segretari comunali una quota pari al 75 per cento delle entrate da diritto di rogito di spettanza dei Comuni, fino a concorrenza di un terzo dello stipendio loro attribuito.
La ratio evidente della riforma, quella di attribuire al Comune l’intero ammontare del gettito da diritto di rogito, abrogando al tempo stesso la consuetudine, poi sancita dall’ordinamento previgente, di riservare una quota delle prestazioni da rogito ai segretari comunali, ha trovato un temperamento nel comma 2-bis dell’art. 10, introdotto in sede di conversione, a norma del quale “negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell'articolo 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge 08.06.1962, n. 604, e successive modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento”.
Le ragioni di tale intervento parlamentare a temperare l’originaria previsione del decreto legge in sede di conversione sono agevolmente reperibili nei lavori preparatori, allorché, nella seduta del 25.07.2014 della I Commissione permanente (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) della Camera dei Deputati, l’emendamento che sarebbe poi stato approvato e inserito nel testo poi confermato in Assemblea, fu motivato dalla necessità di “
tutelare i segretari comunali operanti nei comuni medio-piccoli, nei quali non sono presenti dipendenti con qualifica dirigenziale, riconoscendo loro i diritti di rogito, seppure in misura minore rispetto ad oggi”. Al contempo tale riconoscimento veniva escluso per i Segretari aventi qualifica dirigenziale in quanto per essi vale “il principio della onnicomprensività della retribuzione che vale per i dirigenti” (cfr. parere 12.05.2016 n. 49 della Sezione regionale di controllo per la Liguria).
Occorre tenere presente che, ai sensi dell’art. 31 del CCNL di categoria, i Segretari comunali e provinciali sono classificati in tre diverse fasce professionali (C, B e A) cui corrisponde l’idoneità degli stessi alla titolarità di sedi di comuni (e province) differenziate a seconda della consistenza della popolazione amministrata (rispettivamente comuni fino a 3mila abitanti; comuni fino a 65mila abitanti, purché non capoluoghi di provincia; comuni di oltre 65mila abitanti, o capoluoghi di provincia, e province).
Anche il trattamento retributivo è differenziato secondo le fasce, ma i Segretari di fascia B sono equiparati a quelli di fascia A (e quindi ai dirigenti) quanto a stipendio tabellare e indennità di posizione, mentre i Segretari comunali di fascia C percepiscono stipendio e indennità di importo ridotto (artt. 3 e 37 CCNL).
Il quadro retributivo deve essere integrato con la previsione del principio del cosiddetto galleggiamento (art. 41, comma 5, CCNL), in base al quale l’indennità di posizione del segretario comunale non deve essere “inferiore a quella stabilita per la posizione dirigenziale più elevata nell’ente in base al contratto collettivo dell’area della dirigenza o, in assenza di dirigenti, a quello del personale incaricato della più elevata posizione organizzativa”.
Così prospettato, il quadro normativo vigente, integrato dalle previsioni del CCNL, sembra offrire, a tutta evidenza, una particolare tutela per i Segretari comunali di fascia C, in quanto destinatari di un trattamento retributivo inferiore.
Infatti, mentre ai segretari di fascia A e B spetta in ogni caso il trattamento economico equiparato a quello dei dirigenti (art. 3, CCNL), per i segretari di fascia C l’equiparazione si realizza soltanto se nella struttura organizzativa del Comune sono presenti dirigenti. In tale ultimo caso la disposizione contrattuale, che assicura al Segretario tale garanzia economica deve intendersi come un corollario dell’art. 97, comma 4, TUEL che chiama il Segretario a sovrintendere “allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti” e a coordinarne l’attività.
Ne consegue che i Segretari di fascia C, che operano in comuni con presenza di dirigenti, finiscono per godere di retribuzione più elevata rispetto ai pari fascia titolari di sedi di comuni nei quali non vi siano dirigenti.
Pronunciandosi in sede nomofilattica sulla questione relativa alla corretta determinazione dei diritti di rogito da corrispondersi a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del decreto-legge n. 90/2014, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, con la deliberazione 24.06.2015, n. 21/SEZAUT/2015/QMIG, condividendo la lettura propugnata dalla Sezione regionale di controllo per il Lazio (deliberazione n. 21/2015/PAR) e successivamente da questa Sezione (deliberazione n. 105/2015/PAR, citata), ha enunciato i seguenti principi di diritto: “Alla luce della previsione di cui all’art. 10, comma 2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114,
i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C. In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa i predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario. Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli enti”.
La Corte costituzionale, in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale, si è pronunciata con sentenza in data 23.02.2014, in merito al ricorso presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, avverso due articoli della legge regionale Trentino Alto Adige 09.12.2014, n. 11.
In particolare, per quanto ci occupa in questa sede, ha stabilito che l’art. 11 della legge regionale citata, che estende il diritto di rogito a tutti i segretari comunali, siano essi dirigenti o non dirigenti, in misura pari al settantacinque per cento del provento e fino al massimo di un quinto dello stipendio in godimento, non è in contrasto con l’art. 10, comma 2-bis, del decreto legge n. 90/2014, come convertito dalla legge n. 114/2014, che il Presidente del Consiglio dei ministri intende quale principio fondamentale di finanza pubblica, e pertanto non viola l’art. 117, terzo comma della Costituzione.
La censura relativa alla violazione di tale norma costituzionale non è fondata, in quanto “lo Stato, non concorrendo al finanziamento dei Comuni che insistono sul territorio della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Sudtirol, non può neppure adottare norme per il loro coordinamento finanziario, che infatti compete alla Provincia, ai sensi del …art. 79, comma 3, dello statuto”.
Del pari non fondata –aggiunge la Corte- è la censura relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., perché la norma regionale si limita a richiamare, ai fini del riconoscimento dei diritti di segreteria, i medesimi atti previsti dalla legislazione statale, senza interferire minimamente con la loro disciplina positiva”.
La Corte costituzionale dunque interviene a ribadire l’autonomia normativa della regione a statuto speciale, non potendosi invocare il principio del coordinamento della finanza pubblica, atteso che lo Stato non concorre al finanziamento dei Comuni che insistono sul territorio della Regione.
Se tale è la ratio della pronuncia della Corte, appare dubbio che essa possa essere utilizzata come parametro di riferimento per la questione in esame relativa ad un comune soggetto al coordinamento statale della finanza pubblica.
Tuttavia, successivamente, il Tribunale di Milano, in funzione di Giudice del Lavoro, è intervenuto nella questione dell’attribuzione dei diritti di rogito ai segretari comunali con la propria sentenza 18.05.2016 n. 1539.
In essa viene contestata l’interpretazione della Sezione Autonomie della Corte dei conti e si addiviene ad una diversa lettura della norma che estenderebbe “i diritti di segreteria a due categorie di segretari: sicuramente a quelli che non hanno qualifica dirigenziale (dovendosi intendere in essi quelli di fascia C che più che qualifica non hanno equiparazione retributiva con i dirigenti), ma anche a quelli che operano in enti che non hanno dipendenti con qualifica dirigenziale. In tale secondo gruppo, il legislatore non ha inteso fare distinzioni di fascia, ma solo subordinare la titolarità dei diritti ai segretari operanti in enti privi di dipendenti dirigenziali”.
Per le ragioni esposte nella parte di merito,
l’interpretazione della norma data dal Tribunale di Milano nella sentenza di primo grado non appare convincente e la Sezione ritiene di confermare l’orientamento esplicitato secondo i principi stabiliti in sede nomofilattica dalla Sezione delle autonomie (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 15.09.2016 n. 74).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art. 1, comma 557, della L. n. 311/2004 ha autorizzato gli enti locali con meno di 5.000 abitanti in ordine alla possibilità di servirsi dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali, purché autorizzati dall'amministrazione di provenienza, introducendo cioè una particolare ipotesi di rapporti “a scavalco” (cioè a favore di più enti contemporaneamente), che hanno la peculiarità di consentire -al di fuori dell'orario di lavoro, a tempo pieno, dell’ente di appartenenza- lo svolgimento di funzioni presso altri enti locali.
Tale scavalco “d’eccedenza” è diverso dallo scavalco in cui il lavoratore presta, presso ciascuno degli enti a cui è assegnato, una prestazione a tempo parziale (scavalco “condiviso”), come, a ben vedere, dovrebbe avvenire nel caso prospettato dal Comune istante. Ipotesi invece disciplinata dall’art. 53 del D.lgs. n.165/2001 (cfr. a livello di contrattualistica l’art. 14 del CCNL del comparto Regioni - Enti locali del 22.01.2004, nonché orientamento ARAN RAL670).
Come già evidenziato da questa Sezione, nello scavalco c.d. condiviso il titolare del rapporto lavorativo resta il solo ente di provenienza, che, per l’appunto, mantiene la competenza esclusiva alla gestione dello stesso, ivi compresa la disciplina sulle progressioni verticali e sulle progressioni economiche orizzontali (cfr. il secondo comma del citato art. 14 CCNL). Con la conseguenza che per la sua instaurazione non occorre la costituzione di un nuovo contratto, essendo sufficiente un atto di consenso dell’amministrazione di provenienza.
Al contrario, nello scavalco “d’eccedenza”, il lavoratore, pur restando legato al rapporto d’impiego con l’ente originario, rivolge parzialmente le proprie prestazioni lavorative a favore di altro ente pubblico in forza dell’autorizzazione dell’amministrazione di provenienza e nell’ambito di un unico rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto pubblico principale, regolato a mezzo di convenzione tra gli enti interessati.
Alla luce delle esposte considerazioni, il Collegio ritiene di dover pertanto escludere che la stipulazione di una convenzione ex art. 14 CCNL con altro ente locale, per una parte dell'orario d'obbligo (c.d. scavalco condiviso), possa configurare "nuova assunzione" ai fini del divieto di cui all’art. 1, comma 557-ter, della L. n. 296/2006.
Ciò nonostante, il rimborso pro quota della relativa spesa a favore dell'amministrazione di appartenenza sarà da computarsi nelle spese di personale dell'ente di utilizzazione e, conseguentemente, sarà soggetta alle relative limitazioni.
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Il Sindaco del Comune di Carpinone (IS), con nota n. 2816 del 28.06.2016, assunta al protocollo di questa Sezione n. 1427 del 29.06.2016, ha trasmesso una richiesta di parere con la quale chiede di sapere se l'eventuale stipulazione di una convenzione ex art. 14 CCNL del comparto Regioni - Enti locali del 22.01.2004 con altro ente locale, per una parte dell'orario d'obbligo (c.d. scavalco condiviso), debba o meno considerarsi quale "nuova assunzione" ai fini del divieto di cui all’art. 1, comma 557-ter, della legge n. 296/2006, fermo restando che il rimborso pro quota della relativa spesa a favore dell'amministrazione di appartenenza, va computata nelle spese di personale dell'Ente di utilizzazione (Comune di Carpinone), che, ai sensi dell’art. 1, comma 557-quater della legge citata, deve essere inferiore al valore medio del triennio 2011/2013.
...
Ai fini della soluzione della presente richiesta il Collegio ricorda che, ai sensi dell’art. 1, comma 557, della legge 30.12.2004, n. 311, “I comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali purché autorizzati dall'amministrazione di provenienza”.
Ebbene, con tale norma è stata introdotta una particolare ipotesi di rapporti “a scavalco” (cioè a favore di più enti contemporaneamente) che hanno la peculiarità di consentire -al di fuori dell'orario di lavoro, a tempo pieno, dell’ente di appartenenza- lo svolgimento di funzioni presso altri enti locali (così Sezione controllo Lombardia con deliberazioni n. 118 del 04.04.2012 e n. 448 del 18.10.2013 e Sezione controllo per la Regione siciliana, del. n. 128 del 09.09.2014).
Tale scavalco “d’eccedenza è diverso dallo scavalco in cui il lavoratore presta, presso ciascuno degli enti a cui è assegnato, una prestazione a tempo parziale (scavalco “condiviso), come, a ben vedere, dovrebbe avvenire nel caso prospettato dal Comune istante. Tale casistica è espressamente disciplinata dall’ordinamento generale del pubblico impiego che –nell’ottica dell’attenuazione del vincolo di esclusività della prestazione- riconosce ai lavoratori a tempo parziale la possibilità di svolgere attività lavorativa per altri enti, previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza (art. 53, comma 1, D.lgs. n. 165/2001; per gli enti locali, l’art. 1, comma 58-bis, della L. n. 662 del 1996).
Per tale ipotesi, tra l’altro, per gli enti locali, esiste una precipua norma contrattuale, ovvero l’art. 14 del CCNL del comparto Regioni - Enti locali del 22.01.2004, recante il titolo “Personale utilizzato a tempo parziale e servizi in convenzione” (su cui cfr. orientamento ARAN RAL670, nonché, cfr. Lombardia/988/2010/PAR e Lombardia/676/2010/PAR).
In particolare, ai sensi del primo comma della disposizione contrattuale: “Al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una economica gestione delle risorse, gli enti locali possono utilizzare, con il consenso dei lavoratori interessati, personale assegnato da altri enti cui si applica il presente CCNL per periodi predeterminati e per una parte del tempo di lavoro d’obbligo mediante convenzione e previo assenso dell’ente di appartenenza. La convenzione definisce, tra l’altro, il tempo di lavoro in assegnazione, nel rispetto del vincolo dell’orario settimanale d’obbligo, la ripartizione degli oneri finanziari e tutti gli altri aspetti utili per regolare il corretto utilizzo del lavoratore. La utilizzazione parziale, che non si configura come rapporto di lavoro a tempo parziale, è possibile anche per la gestione dei servizi in convenzione”.
Come di recente precisato dalla Sezione della autonomie (deliberazione 20.06.2016 n. 23), “trattasi di fattispecie concreta a sé stante che individua una modalità di utilizzo reciproco del dipendente pubblico da parte di più Enti”, mediante la quale, “rimanendo legato all’unico rapporto d’impiego con l’Ente locale originario, il lavoratore rivolgerebbe parte delle proprie prestazioni lavorative a favore anche di detto Comune in forza dell’autorizzazione dell’Ente di appartenenza, di cui la convenzione regolativa dei rapporti giuridici tra i due Enti assumerebbe carattere accessivo”.
Ne consegue che, come già evidenziato da questa Sezione nella precedente deliberazione n. 35/2015, nel caso dello scavalco c.d. condiviso, a differenza della descritta ipotesi dello scavalco d’eccedenza, se, da un lato, permane la titolarità dell’originario rapporto lavorativo con l’ente di appartenenza, dall’altro non può essere rilevata -dal punto di vista dell’ente utilizzatore- la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro.
Come del resto chiaramente previsto dalla disposizione contrattuale collettiva, infatti, deve essere escluso che l’utilizzazione parziale possa configurare rapporto di lavoro a tempo parziale. A conferma di ciò, il secondo comma del medesimo articolo afferma che il titolare del rapporto lavorativo resta il solo ente di provenienza, che, per l’appunto, mantiene la competenza esclusiva alla gestione dello stesso, ivi compresa la disciplina sulle progressioni verticali e sulle progressioni economiche orizzontali.
Al contrario, come ribadito dalla Sezione della autonomie nella deliberazione 20.06.2016 n. 23, “se l’Ente decide di utilizzare autonomamente le prestazioni di un dipendente a tempo pieno presso altro Ente locale al di fuori del suo ordinario orario di lavoro, la prestazione aggiuntiva andrà ad inquadrarsi necessariamente all’interno di un nuovo rapporto di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale”.
In altri termini, come già chiarito in passato dalla giurisprudenza contabile (Sezione controllo Lombardia n. 477/2013/PAR), il lavoratore, nelle fattispecie di rapporti “a scavalco” “pur restando legato al rapporto d’impiego con l’ente originario, rivolge parzialmente le proprie prestazioni lavorative a favore di altro ente pubblico in forza dell’autorizzazione dell’amministrazione di provenienza e nell’ambito di un unico rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto pubblico principale, regolato a mezzo di convenzione tra gli enti interessati”.
L’utilizzazione del lavoratore mediante l’istituto dello “scavalco condiviso” non perfeziona dunque un’assunzione a tempo determinato, ma uno strumento duttile di utilizzo plurimo e contemporaneo del dipendente pubblico (sul punto, cfr. SRC Lombardia, deliberazione n. 414/2013/PAR). Con la conseguenza che per la sua instaurazione non occorre la costituzione di un nuovo contratto, essendo sufficiente un atto di consenso dell’amministrazione di provenienza.
Alla luce delle esposte considerazioni, con specifico riferimento al quesito in esame,
il Collegio, in adesione a quanto rilevato dalla Sezione delle autonomie nella citata pronuncia (in termini: “Poiché il suddetto cumulo di incarichi non implica la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro”), ritiene di dover pertanto escludere che la stipulazione di una convenzione ex art. 14 CCNL con altro ente locale, per una parte dell'orario d'obbligo (c.d. scavalco condiviso), possa configurare "nuova assunzione" ai fini del divieto di cui all’art. 1, comma 557-ter, della legge n. 296/2006.
Ciò nonostante,
il rimborso pro quota della relativa spesa a favore dell'amministrazione di appartenenza sarà da computarsi nelle spese di personale dell'ente di utilizzazione (nel caso di specie, il Comune di Carpinone), e, conseguentemente, sarà soggetta alle relative limitazioni (cfr. Sezione delle autonomie deliberazione 20.06.2016 n. 23, nonché Linee guida per il rendiconto della gestione 2014, Sezione quinta, quesito 6.2, di cui alla deliberazione n. 13/2015/SEZAUT/INPR) (Corte dei Conti, Sez. controllo Molise, parere 08.08.2016 n. 105).

INCARICHI PROGETTUALISe la scelta di affidare all’esterno la progettazione si ponga in contrasto con le diverse disposizioni che impongono, di regola, la redazione della progettazione di opere pubbliche al personale interno della stazione appaltante.
Viene in rilievo, in proposito, l’art. 90, comma 6, del già richiamato D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 a mente del quale le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare la redazione del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo all’esterno “in caso di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di istituto, ovvero in caso di lavori di speciale complessità o di rilevanza architettonica o ambientale o in caso di necessità di predisporre progetti integrali, così come definiti dal regolamento, che richiedono l'apporto di una pluralità di competenze, casi che devono essere accertati e certificati dal responsabile del procedimento”.
La ricorrenza di uno dei casi previsti dalla testé richiamata disposizione del codice dei contratti pubblici non è stata espressamente certificata dal convenuto nella determinazione n. 55 del 02.02.2009, di conferimento dell’incarico all’ing. Le..
Tale mancanza, che pur manifesta una illegittimità procedurale, non riflette però, un comportamento inosservante della citata disciplina concernente l’attività di progettazione delle opere pubbliche in quanto, dalla documentazione acquisita agli atti di causa, emerge la sussistenza dei presupposti per affidare all’esterno l’incarico di che trattasi.
E ciò non perché nella specie venga in applicazione la norma di cui all’art. 91, comma 4, del D.Lgs. 163/2006 -che stabilisce che le progettazioni definitiva ed esecutiva sono di norma affidate al medesimo soggetto, pubblico o privato- atteso che all’ing. Le. era stato commissionato dalla Giunta Comunale soltanto uno studio di fattibilità, bensì per le evidenti carenze di personale presso il settore Lavori Pubblici del comune e conseguente difficoltà di svolgere le funzioni d’istituto.
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Ad escludere la presenza, alla data di conferimento dell’incarico di progettazione all’ing. Le., di professionalità interne al settore Lavori Pubblici in grado di svolgere l’attività affidata all’esterno valgono, inoltre, altre due circostanze.
In primo luogo deve rilevarsi che non è provato che il geom. Ur., unico tecnico all’epoca in servizio presso tale settore, fosse abilitato all’esercizio della professione, requisito necessario, ex art. 90, co. 4, del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163, per firmare i progetti redatti dai tecnici interni.
Inoltre, ed è quel che maggiormente rileva, appare discutibile che la progettazione di che trattasi potesse essere redatta da un geometra.
Invero, al di là delle asserzioni del requirente contabile circa la non complessità dell’opera da progettare, deve rilevarsi che dallo stesso studio di fattibilità elaborato in precedenza già dall’ing. Le. emerge che tecnicamente la progettazione avrebbe dovuto prevedere la realizzazione di un by pass in modo da deviare le acque dal loro decorso esistente ed inoltre l’appropriata allocazione di elettropompe per impianti di spinta principale e supplementare.
Si trattava, quindi, di effettuare la progettazione di una vera e propria opera idraulica che richiedeva conoscenze tecniche specifiche e che, all’evidenza, risulta esulare dai limiti dell’esercizio professionale di geometra; figura professionale che in base al disposto di cui all’art. 16 del R.D. 11/02/1929, n. 274, in questa materia deve limitarsi alla progettazione di piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come lavori d'irrigazione, di bonifica e provvista d'acqua per le stesse aziende.
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La carenza in organico di tecnici in grado di svolgere la progettazione affidata all’ing. Le., senza creare ulteriore difficoltà nello svolgimento dei compiti d’istituto, risulta inoltre dal contenuto della delibera di Giunta Comune n. 56 dell’01.04.2008 di affidamento dello studio di fattibilità al predetto libero professionista ove si dà atto dell’esiguità dell’organico tecnico dei dipendenti del Comune e della specificità delle attività tecnico professionali richieste al tecnico esterno.
Appare, perciò, evidente che se la Giunta Comunale aveva rilevato tale carenza quando ancora era in servizio presso il settore lavori pubblici l’ing. Ma. e per un’attività di mero studio di fattibilità, a maggior ragione una tale carenza debba ritenersi sussistente, con riguardo alla ben più articolata attività di progettazione all’inizio di febbraio 2009, quando presso il predetto settore era rimasto in servizio, come si è visto, il solo geom. Ur..
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In conclusione, in considerazione di quanto fin qui rilevato e dell’ulteriore circostanza che il Pi., seppure senza acquisire altre disponibilità e preventivi di tecnici esterni e senza certificare espressamente le carenze di organico, ha in definitiva dato continuità, anche per motivi di urgenza, come specificato nel provvedimento contestato in questa sede, all’incarico a carattere tecnico già attribuito in precedenza dalla giunta comunale all’ing. Le., non sono ravvisabili nel suo comportamento i requisiti della colpa grave né sub specie della grave inosservanza di disposizioni normative e di legge né della grave trascuratezza nella salvaguardia degli interessi economici dell’ente comunale.

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La Procura regionale ha convenuto in giudizio il dott. Lu.Pi. contestandogli il danno finanziario di € 42.000,00, costituito dalla differenza tra il compenso corrisposto all’ing. Le., tecnico esterno, per la redazione del progetto dell’opera pubblica di “recapito finale delle acque reflue dell’impianto di depurazione a servizio dell’abitato di Avetrana” e l’incentivo economico, non superiore al 2% dell’importo dell’opera stessa, che il predetto comune avrebbe dovuto corrispondere, ai sensi dell’allora vigente comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163, ai tecnici interni se la progettazione di che trattasi fosse stata a questi affidata.
Reputa il Collegio che dall’esame complessivo della fattispecie nel comportamento del convenuto Pi. non emergano i profili della colpa grave.
1. In primo luogo deve rilevarsi che la Procura regionale, per quanto abbia contestato al Pi. anche la circostanza di aver affidato all’ing. Le. la progettazione e direzione dell’opera pubblica di che trattasi in assenza di un confronto concorrenziale tra altri liberi professionisti, non ha messo in discussione la congruità del compenso corrisposto al predetto tecnico esterno né che tale compenso sia eccedente rispetto alle tariffe professionali in relazione all’attività prestata.
Non rileva, quindi, in questa sede, in considerazione dell’oggetto e della causa petendi della domanda, la pur configurabile illegittimità del provvedimento emanato dal convenuto sotto il menzionato profilo della mancata richiesta di disponibilità e preventivi ad altri tecnici esterni.
2. Occorre, quindi, esaminare se la scelta di affidare all’esterno la progettazione in questione si ponga in contrasto con le diverse disposizioni che impongono, di regola, la redazione della progettazione di opere pubbliche al personale interno della stazione appaltante.
Viene in rilievo, in proposito, l’art. 90, comma 6, del già richiamato D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 a mente del quale le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare la redazione del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo all’esterno “in caso di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di istituto, ovvero in caso di lavori di speciale complessità o di rilevanza architettonica o ambientale o in caso di necessità di predisporre progetti integrali, così come definiti dal regolamento, che richiedono l'apporto di una pluralità di competenze, casi che devono essere accertati e certificati dal responsabile del procedimento”.
Sotto un profilo meramente formale deve osservarsi, sebbene non contestato specificamente dalla Procura regionale, che la ricorrenza di uno dei casi previsti dalla testé richiamata disposizione del codice dei contratti pubblici non è stata espressamente certificata dal convenuto nella determinazione n. 55 del 02.02.2009, di conferimento dell’incarico all’ing. Le..
Tale mancanza, che pur manifesta una illegittimità procedurale, non riflette però, ad avviso del Collegio, un comportamento inosservante della citata disciplina concernente l’attività di progettazione delle opere pubbliche in quanto, dalla documentazione acquisita agli atti di causa, emerge la sussistenza dei presupposti per affidare all’esterno l’incarico di che trattasi.
E ciò non perché nella specie, come sostenuto del difensore del convenuto, venga in applicazione la norma di cui all’art. 91, comma 4, del D.Lgs. 163/2006 -che stabilisce che le progettazioni definitiva ed esecutiva sono di norma affidate al medesimo soggetto, pubblico o privato- atteso che all’ing. Le. era stato commissionato dalla Giunta Comunale soltanto uno studio di fattibilità, bensì per le evidenti carenze di personale presso il settore Lavori Pubblici del comune di Avetrana e conseguente difficoltà di svolgere le funzioni d’istituto.
2.a In proposito deve evidenziarsi che per quanto la Procura regionale affermi che la pianta organica dell’ente locale vedeva in servizio, presso il Settore Lavori Pubblici l’ing. Or. (a partire dall’01.0.2009) ed il geom. Ur. e presso il Settore Urbanistica l’ing. Sp. ed il geom. Cr., dagli atti di causa emerge, invece, che l’ing. Or. è stato assunto in convenzione ex art. 110 del D.Lgs. 267/2000 solo a far data dall’01.12.2009, quindi in data abbondantemente successiva al periodo in cui è stato affidato e svolto l’incarico di progettazione dell’ing. Le. (il progetto definitivo è stato approvato con deliberazione di Giunta Comunale n. 115 del 18.08.2009).
Conferma poi della mancanza del dirigente del settore Lavori Pubblici all’epoca dell’affidamento all’esterno dell’incarico di che trattasi è contenuta nella deliberazione di Giunta Comunale n. 4 del 29.01.2009, di pochi giorni anteriore al contestato provvedimento del convenuto Pi.; con tale delibera, nel dare atto che in data 31.12.2008 era scaduto il rapporto di lavoro part-time con l’ing. Do.Ma. già nominato dirigente del settore LL.PP. e che tale settore era costituito da una sola unità di personale nella persona del geom. Ur., si sostituiva il predetto ing. Ma. con il geom. Ur., quale responsabile del procedimento di diverse opere pubbliche, già finanziate o in corso di finanziamento, ad eccezione dell’opera di cui si discute in questa sede per la quale l’ing. Ma. veniva sostituto proprio con l’odierno convenuto.
Quindi, dalla deliberazione giuntale appena indicata emerge la conferma che l’ing. Or. non era in servizio all’epoca dei fatti di causa.
2.b Da tale provvedimento emerge, inoltre, indirettamente, la riprova che i tecnici interni, assegnati al settore Urbanistica, ing. Sp. e geom. Cr., non espletavano alcuna attività nel campo dei lavori pubblici. Non si spiegherebbe, infatti, altrimenti l’affidamento addirittura al segretario comunale del compito di responsabile unico del procedimento di un opera pubblica se non con l’impossibilità di affidare tale incarico ai tecnici del settore urbanistica, evidentemente già in difficoltà con i carici di lavoro del loro diverso ufficio.
Né a smentire la separazione tra le attività espletate dal settore lavori pubblici rispetto a quelle del settore urbanistica può valere il richiamo della Procura regionale alla segnalazione effettuata dall’ing. Sp., responsabile del settore urbanistica, in data 25.05.2009, alla Procura della Repubblica di Taranto circa la ritenuta anomala assegnazione all’esterno della progettazione riguardante il depuratore senza la verifica della disponibilità delle professionalità interne.
Invero -in disparte che tale segnalazione, per quanto richiamata nell’atto di citazione, non risulta depositata in atti, così come anche gli all.ti dal n. 2 al n. 5 della nota del Nucleo Polizia Tributaria Taranto prot. 272831/14 del 20.06.2014- deve rilevarsi, in ogni caso, che in sede penale il procedimento, avviato presumibilmente a seguito di tale esposto, risulta definito con sentenza del GUP di Taranto di non luogo a procedersi perché il fatto non costituisce reato e che in tale pronuncia si evidenzia la carenza del quadro probatorio circa il prospettato abuso di ufficio anche sotto il profilo della violazione di legge.
2.c Ad escludere la presenza, alla data di conferimento dell’incarico di progettazione all’ing. Le., di professionalità interne al settore Lavori Pubblici in grado di svolgere l’attività affidata all’esterno valgono, inoltre, altre due circostanze.
In primo luogo deve rilevarsi che non è provato che il geom. Ur., unico tecnico all’epoca in servizio presso tale settore, fosse abilitato all’esercizio della professione, requisito necessario, ex art. 90, co. 4, del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163, per firmare i progetti redatti dai tecnici interni.
Inoltre, ed è quel che maggiormente rileva, appare discutibile che la progettazione di che trattasi potesse essere redatta da un geometra. Invero, al di là delle asserzioni del requirente contabile circa la non complessità dell’opera da progettare, deve rilevarsi che dallo stesso studio di fattibilità elaborato in precedenza già dall’ing. Le. emerge che tecnicamente la progettazione avrebbe dovuto prevedere la realizzazione di un by pass in modo da deviare le acque dal loro decorso esistente ed inoltre l’appropriata allocazione di elettropompe per impianti di spinta principale e supplementare.
Si trattava, quindi, di effettuare la progettazione di una vera e propria opera idraulica che richiedeva conoscenze tecniche specifiche e che, all’evidenza, risulta esulare dai limiti dell’esercizio professionale di geometra; figura professionale che in base al disposto di cui all’art. 16 del R.D. 11/02/1929, n. 274, in questa materia deve limitarsi alla progettazione di piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come lavori d'irrigazione, di bonifica e provvista d'acqua per le stesse aziende.
3.c La carenza in organico di tecnici in grado di svolgere la progettazione affidata all’ing. Le., senza creare ulteriore difficoltà nello svolgimento dei compiti d’istituto, risulta inoltre dal contenuto della delibera di Giunta Comune n. 56 dell’01.04.2008 di affidamento dello studio di fattibilità al predetto libero professionista ove si dà atto dell’esiguità dell’organico tecnico dei dipendenti del Comune e della specificità delle attività tecnico professionali richieste al tecnico esterno.
Appare, perciò, evidente che se la Giunta Comunale aveva rilevato tale carenza quando ancora era in servizio presso il settore lavori pubblici l’ing. Ma. e per un’attività di mero studio di fattibilità, a maggior ragione una tale carenza debba ritenersi sussistente, con riguardo alla ben più articolata attività di progettazione all’inizio di febbraio 2009, quando presso il predetto settore era rimasto in servizio, come si è visto, il solo geom. Ur..
4. In conclusione, in considerazione di quanto fin qui rilevato e dell’ulteriore circostanza che il Pi., seppure senza acquisire altre disponibilità e preventivi di tecnici esterni e senza certificare espressamente le carenze di organico, ha in definitiva dato continuità, anche per motivi di urgenza, come specificato nel provvedimento contestato in questa sede, all’incarico a carattere tecnico già attribuito in precedenza dalla giunta comunale all’ing. Le., non sono ravvisabili nel suo comportamento i requisiti della colpa grave né sub specie della grave inosservanza di disposizioni normative e di legge né della grave trascuratezza nella salvaguardia degli interessi economici dell’ente comunale.
Il convenuto deve essere mandato assolto, quindi, dall’addebito formulato dalla Procura regionale ed essendosi costituito in giudizio a mezzo di difensore devono essere liquidate le spese processuali, ai sensi dell’art. 10-bis, decimo comma, D.L. 203/2005 conv. in L. 248/2005, in base ai “parametri” dettati dal Regolamento adottato con D.M. 10/03/2014, n. 55, emanato ai sensi dell'articolo 13, comma 6, della legge 31.12.2012, n. 247.
In proposito, tenuto conto che l’odierno giudizio è stato definito in esito a un’unica udienza di discussione, previo deposito di un’unica memoria da parte dei due difensori costituiti, senza svolgimento di una fase istruttoria, la liquidazione è effettuata applicando, al valore medio di liquidazione corrispondente a quello previsto per lo scaglione di riferimento, una diminuzione del 30%.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 32432 del registro di segreteria,
ASSOLVE
il convenuto Pi.Lu., dagli addebiti di responsabilità amministrativa, formulati a suo carico dalla Procura regionale
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia, sentenza 24.03.2016 n. 112).

NEWS

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATATermoregolazione, correttivo per le spese.
È in vigore il decreto legislativo n. 141/2016, che modifica e integra il provvedimento (digs n. 102/2014) che impone, in ogni condominio, di verificare se sussista l'obbligo di introdurre sistemi di termoregolazione e contabilizzazione dei calore.
Sistemi, deve essere sottolineato, che non sono obbligatori in senso assoluto, ma, in linea con lo spirito della normativa, solo a condizione che determinino efficienza e risparmio energetico. Il nuovo provvedimento interviene, in particolare, sulle modalità di suddivisione delle spese connesse al consumo di calore per il riscaldamento, il raffreddamento delle unità immobiliari e delle aree comuni nonché per l'uso di acqua calda per fabbisogno domestico.
Secondo il provvedimento originario, l'importo complessivo doveva essere suddiviso tra gli utenti finali in base alla norma tecnica Uni 10200. Ma per risolvere i problemi scaturenti da tale unica modalità di suddivisione, rilevati in particolare nelle estremità degli edifici, il decreto correttivo consente ora, ove tale norma tecnica non sia applicabile o siano comprovate, tramite relazione tecnica, determinate differenze di fabbisogno termico, di suddividere l'importo complessivo attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari di energia termica.
In tal caso, gli importi rimanenti potranno essere ripartiti, «a titolo esemplificativo e non esaustivo», secondo i millesimi, i mq o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate. Mentre resta salva la possibilità, per la prima stagione termica successiva all'installazione dei dispositivi in questione, che la suddivisione venga effettuata in base ai soli millesimi.
Si tratta, secondo Confediiizia, di una soluzione non perfetta, ma certamente migliorativa rispetto alla vincolatività del precedente sistema, che tanti problemi aveva causato.
Ne andrà verificata l'attuazione in concreto, analizzando caso per caso le situazioni dei singoli condomini. Informazioni: www confedilizia.it
 (articolo ItaliaOggi del 07.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATACase, allacci per veicoli elettrici. Dal 01.06.2017 scatta l'obbligo per nuovi edifici. Decreto legislativo attua la direttiva Ue sulle infrastrutture per i combustibili alternativi.
I nuovi edifici dovranno essere predisposti a consentire la ricarica dei veicoli elettrici. Dal 01.06.2017 i comuni stabiliranno che ai fini del conseguimento del titolo abilitativo edilizio da parte di edifici residenziali e non residenziali con superficie superiore a 500 mq sarà obbligatorio prevedere la predisposizione all’allaccio per la possibile installazione di infrastrutture elettriche da utilizzarsi per la ricarica dei veicoli.

È quanto emerge dalla lettura dello schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/94/Ue, del parlamento europeo e del consiglio del 22.10.2014, sulla realizzazione di infrastrutture per i combustibili alternativi.
Nel documento, che sarà all’esame di uno dei prossimi consigli dei ministri, sono state inserite le misure che verranno adottate nell’ambito del quadro strategico nazionale per favorire lo sviluppo e la promozione di prodotti energetici diversi dagli idrocarburi. Obiettivo: ridurre la dipendenza dal petrolio e attenuare l’impatto ambientale nel settore dei trasporti.
A tal fine il provvedimento stabilirà i requisiti minimi per la costruzione di infrastrutture per i combustibili alternativi, inclusi i punti di ricarica per i veicoli elettrici e i punti di rifornimento di gas naturale liquefatto e compresso, idrogeno e gas di petrolio liquefatto. (...continua) (articolo ItaliaOggi del 07.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

SEGRETARI COMUNALIUn «apicale» a fianco del sindaco. Al dirigente il compito di vigilare sull’attuazione e sul controllo di legalità.
Riforma Madia. La suddivisione di responsabilità dopo la revisione della governance amministrativa.

Sono soprattutto due gli effetti che la riforma della dirigenza avrà sugli enti locali:
- l’istituzione della figura del dirigente apicale, come nuovo vertice della macchina burocratica, con connessa trasformazione dei segretari;
- la possibilità di conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti che non sono alle dipendenze dell’ente, ma di altre amministrazioni.
Da evidenziare che questa seconda novità si applica solamente in quei Comuni -una netta minoranza- in cui non vi sono dirigenti, per cui nei Comuni dove vi sono dirigenti -la grande maggioranza- gli incarichi di responsabilità possono di regola essere conferiti solamente a dipendenti dello stesso ente.
Tutti i Comuni devono avere un dirigente apicale. A questo soggetto sono affidati tre compiti:
- attuazione dell’indirizzo politico;
- coordinamento delle attività amministrative;
- controllo di legalità.
Compiti, quindi, che hanno sia un contenuto gestionale sia di controllo. I Comuni con popolazione fino a 5mila abitanti e quelli montani con popolazione compresa fino a 3mila abitanti devono conferire questo incarico necessariamente in forma associata. Questo incarico può essere conferito solamente a un dirigente iscritto nei ruoli della dirigenza degli enti locali o delle Regioni o dello Stato.
Questo incarico, a differenza degli incarichi dirigenziali che hanno una durata quadriennale in tutte le Pa, è collegato direttamente al mandato del sindaco: cessa entro 90 giorni dall’insediamento dei nuovi organi, salva la possibilità di conferma. Nei Comuni con popolazione superiore a 100mila abitanti e nelle città metropolitane, anziché tale incarico si può continuare ad avere il direttore generale. In questo caso i compiti di responsabile anticorruzione e di ufficiale rogante vanno assegnati a un dirigente.
Lo schema di provvedimento è molto attento a disciplinare la fase transitoria. I segretari comunali di fascia A e B, cioè quelli che sono equiparati alla dirigenza, sono iscritti nell’albo dei dirigenti. Essi rimangono nei Comuni in cui sono in servizio all’atto dell’entrata in vigore della riforma fino alla scadenza del loro incarico, cioè fino alle prime elezioni amministrative. Quelli in disponibilità continuano a ricevere lo stesso trattamento economico in godimento.
I segretari in fascia C che non abbiano ricevuto un incarico di dirigente apicale svolgono la loro attività per 2 anni come funzionari e successivamente, previa valutazione, in modo sostanzialmente analogo ai vincitori dei corsi concorso per la dirigenza, potranno essere iscritti nell’albo dei dirigenti degli enti locali. Una forma di tutela ulteriore, in applicazione dei principi fissati dalla legge 124/2015, è costituita dalla clausola che, nei tre anni successivi alla entrata in vigore della riforma, quindi presumibilmente fino a tutto il 2019, gli incarichi di dirigente apicale potranno essere conferiti solamente a coloro che sono attualmente iscritti nell’albo dei segretari.
Il provvedimento prevede inoltre che nei Comuni privi di dirigenti sia fatta salva la possibilità per i sindaci di conferire gli incarichi ai responsabili: è una disposizione importante perché conferma la possibilità per queste amministrazioni locali di continuare ad avere un modello organizzativo privo di dirigenti.
I sindaci potranno conferire incarichi dirigenziali per un periodo di 4 anni, con possibilità di proroga per un periodo di 2 anni e per una sola volta, a dirigenti iscritti ad uno dei tre ruoli della dirigenza pubblica: ogni volta che individueranno un dirigente non in servizio presso il proprio ente si realizzerà il trasferimento in mobilità. Il che vuol dire che i dirigenti a tempo indeterminato di ogni singolo Comune non hanno più alcuna certezza di continuare a mantenere il proprio rapporto, anche se con un incarico diverso, presso l’amministrazione in cui sono stati assunti. Il che realizza un cambiamento epocale.
La scelta deve essere effettuata sulla base dei criteri di valutazione comparativa e pubblica previsti dal decreto. La istituenda Commissione per la dirigenza locale è chiamata a vigilare sulla corretta applicazione di queste previsioni e, in particolare, dell’ipotesi di revoca anticipata degli incarichi dirigenziali per la modifica della organizzazione interna, così da evitare possibili abusi.
Da sottolineare che la durata degli incarichi dirigenziali non è collegata al mandato del sindaco, ma è fissata in 4 anni (possono diventare al massimo 6 più 90 giorni per il completamento della procedura di conferimento dell’incarico dirigenziale), quindi con cadenze temporali diverse. Una limitazione all’utilizzo di questa possibilità è data dalla scelta contenuta nello schema di decreto in base al quale gli enti che non confermano gli incarichi ai propri dirigenti hanno l’obbligo di corrispondere loro il trattamento economico, anche se in misura progressivamente ridotta, per almeno 2 anni.
Una importante disposizione è quella che prevede la possibilità, anche per i Comuni, di dare corso alla distinzione tra incarichi dirigenziali generali e ordinari. Viene confermata la possibilità di assumere dirigenti a tempo determinato con procedure selettive e comparative entro il tetto del 30% dei posti in dotazione organica. Si deve infine segnalare che le procedure concorsuali per dirigenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto devono essere completate
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.09.2016).

ENTI LOCALIPer le partecipate divieto di fare attività d'impresa. Le regole del Testo unico sulle società pubbliche. Richiesto fatturato annuale di un mln.
Le società a partecipazione pubblica non potranno svolgere mera attività d'impresa, e il loro oggetto sociale dovrà essere finalizzato solo al perseguimento di finalità istituzionali. Esse dovranno fatturare annualmente almeno 1 milione di euro.
Sono alcune delle nuove regole mirate a ridurre e regolamentare le società a partecipazione pubblica che emergono dal piano di razionalizzazione previsto dal nuovo «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica».
L'oggetto sociale. Le amministrazioni pubbliche potranno costituire società aventi a oggetto attività di produzione di beni e servizi o partecipare alle stesse solo quando ciò risulterà strettamente necessario al perseguimento dei propri fini istituzionali. Diversamente dovranno provvedere alla dismissione della partecipazione.
Deroghe a tali principi sono ammesse solo qualora la società sia finalizzata a «ottimizzare e valorizzare l'utilizzo di beni immobili facenti parte del proprio patrimonio». In questi casi, infatti è ammesso acquisire partecipazioni in società tramite il conferimento di beni immobili allo scopo di realizzare un investimento secondo criteri di mercato.
L'obiettivo di tali disposizioni, oltre che esplicitare e rendere sistematici alcuni concetti già previsti nella legge 24/12/2007, n. 244, art. 3, comma 27, non ritenendo sufficiente il solo «vincolo di scopo pubblico», intende, come rileva il Consiglio di Stato nelle proprie osservazioni «...non consentire più la costituzione o la partecipazione di amministrazioni pubbliche in società pubbliche che svolgono attività d'impresa... con la finalità di assicurare nuove forme di privatizzazione sostanziale con impulso positivo ai processi di liberalizzazione delle attività economiche».
Le regole per la costituzione e le operazioni straordinarie. Viene chiarito (anche se di fatto era già questa la prassi prevalente anche ai sensi dell'art. 42 del Tuel) che sia la costituzione di società a partecipazione pubblica (art. 7), sia l'acquisizione di partecipazioni (art. 8) in società già costituite deve essere adottato con deliberazione dell'autorità o ente pubblico partecipante.
La deliberazione, oltre che contenere degli elementi essenziali dell'atto costitutivo (art. 2328 c.c. per le spa e 2463 c.c. per le srl) dovrà opportunamente motivare le ragioni della costituzione della società o dell'acquisizione della partecipazione .
Tale deliberazione, si legge nella relazione illustrativa, oltre che alla necessità della costituzione o acquisizione per il perseguimento di fini istituzionali dovrà evidenziare «gli obiettivi gestionali a cui dovrà tendere la società stessa, sulla base di specifici parametri qualitativi e quantitativi, nonché le ragioni e finalità che giustificano la scelta anche sul piano della convenienza economica».
La richiesta razionalizzazione. Il mancato rispetto delle disposizioni in tema di finalità perseguibili, nonché una serie di circostanze previste dall'art. 20 fra cui spiccano il fatto che la società sia priva di dipendenti o gli amministratori siano più dei dipendenti o che nel triennio precedente la società non abbia conseguito il fatturato di almeno un milione, o nelle società non costituite per un servizio di interesse generale, il fatto che abbia conseguito per quattro anni su cinque un risultato negativo, obbliga le amministrazioni pubbliche alla stesura di un piano di riassetto delle partecipazioni per la loro razionalizzazione.
Detti piani possono prevedere, in virtù di operazioni straordinarie, anche la fusione o soppressione attraverso liquidazione della società oppure la dismissione della partecipazione.
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Società pubbliche soggette a bail-in.
Società a partecipazione pubblica soggette alle norme sul fallimento, sul concordato preventivo e, laddove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
È quanto prevede lo schema di dlgs approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 10.08.2016 e in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Viene, così, posta la parola fine al dibattito dottrinario e giurisprudenziale sulla fallibilità delle società a partecipazione pubblica che ha caratterizzato il recente passato. Con la fallibilità delle società pubbliche si pone, di fatto, uno scudo a favore degli enti locali partecipanti che li pone al riparo dal rispondere dei debiti delle società partecipate, e questo anche nel caso di esercizio del controllo analogo (cosiddetto house providing).
La previsione della fallibilità delle società a partecipazione pubblica determina, infatti, effetti del tutto simili al bail-in bancario, in quanto, chiama i creditori delle stesse ad assorbire gli effetti della crisi delle società partecipate, per atti, spesso, derivanti da mala gestio.
In caso di fallimento viene previsto un divieto per le pubbliche amministrazioni controllanti la società fallita, nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento, di costituire nuove società, o di acquisire o di mantenere partecipazioni in altre società che gestiscano gli stessi servizi della società fallita.
Il dlgs si occupa della crisi non solo nella fase terminale della stessa ma introduce, al comma 2 dell'art. 6, un sistema di prevenzione e monitoraggio consistente nell'obbligo di predisposizione, da parte dell'organo amministrativo, di specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale. Detti programmi devono essere portati a conoscenza dell'assemblea dei soci tramite la relazione sul governo societario che va predisposta annualmente, a chiusura dell'esercizio sociale, e pubblicata contestualmente al bilancio d'esercizio.
Laddove emergano uno o più indicatori di allerta sulla crisi aziendale, gli amministratori della società partecipata devono adottare, senza indugio, i provvedimenti necessari al fine di evitare l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un piano di risanamento.
Il comma 4 dell'art. 14 del dlgs prevede espressamente che non costituisce un provvedimento adeguato quello che preveda il ripianamento delle perdite da parte delle pubbliche amministrazioni socie, anche se attuato in concomitanza di un aumento del capitale sociale, di un trasferimento straordinario di partecipazioni, di un rilascio di garanzie o di altre forme giuridiche similari. L'unica eccezione ammessa rispetto alle citate casistiche è quello dell'inserimento delle stesse nell'ambito di un piano di ristrutturazione aziendale dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività svolte. Detto piano deve essere specificamente approvato.
La sanzione prevista per l'organo amministrativo che non ottempera a quanto richiesto è particolarmente grave: si configura ipso facto una grave irregolarità nella gestione ai sensi dell'art. 2409 c.c.
A proposito di controllo giudiziario ex art. 2409 c.c., l'art. 13 del decreto prevede espressamente che, nel caso di società a controllo pubblico, ciascuna amministrazione pubblica partecipante, senza limiti minimi di partecipazione al capitale sociale, è legittimata a presentare denunzia al tribunale competente e che l'istituto del controllo giudiziario si applica anche alle Srl, fattispecie che, per le società a capitale privato, ha generato notevoli contrasti dottrinari e giurisprudenziali.
L' intento è quello di stringere le maglie del controllo dell'operato degli amministratori delle società partecipate, prevedendo una espressa deroga ai limiti di azionabilità della denunzia al tribunale da parte dei soci pubblici per fondato sospetto di gravi irregolarità nella gestione compiute dagli amministratori in violazione dei loro doveri, con potenziali danni per la società.
L'art. 2409 c.c. per la generalità dei casi, prevede, infatti, che la denunzia possa essere esercitata solo da soci che abbiano una partecipazione nella società pari ad almeno un decimo del capitale sociale (un ventesimo nel caso di società che fanno ricorso al capitale di rischio). Oltre alla mancata adozione di provvedimenti adeguati di soluzione della crisi d'impresa costituisce grave irregolarità, per espressa previsione dell'art. 16 del decreto, il mancato rispetto del limite quantitativo (oltre l'80% del fatturato) delle attività che le società a controllo pubblico titolari di affidamenti diretti di contratti pubblici devono effettuare nello svolgimento dei compiti a esse affidati dai soci pubblici.
Versando nell'alveo delle società pubbliche le norme in esame vanno applicate in modo ancor più rigoroso di quanto non sia richiesto per le società a capitale privato, in quanto, gli enti pubblici soci potrebbero essere chiamati a potenziali responsabilità riflesse laddove, a fronte di fondati sospetti di gravi irregolarità, non dovessero procedere senza indugio a richiedere il controllo giudiziario ai sensi dell'art. 2409 c.c.
Divieto di ricapitalizzazione per perdite. Altra previsione stringente contenuta nell'art. 14 del decreto è quella del comma 5 che preclude alle amministrazioni pubbliche di effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, rilascio di garanzie nei confronti di società partecipate non quotate qualora queste ultime abbiano registrato per tre esercizi consecutivi perdite di esercizio.
Il divieto si estende anche al caso in cui le perdite, anche infrannuali, siano state coperte tramite utilizzo di riserve disponibili. Le uniche eccezioni ammesse sono quelle relative ai casi di perdite rilevanti ai sensi degli artt. 2447 c.c. (per le Spa) e 2482-ter (per le Srl), ossia i casi in cui la perdita, che ecceda un terzo del capitale, porti lo stesso al di sotto del minimo legale.
Sono in ogni caso consentiti trasferimenti straordinari a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi alla gestione di servizi di pubblico interesse o alla realizzazione di investimenti, a condizione che le misure indicate siano previste in un piano di risanamento che dimostri il raggiungimento degli equilibri finanziari nell'arco temporale massimo di tre anni. Il piano deve essere approvato dall'Autorità di regolazione di settore (se esistente) e comunicato alla Corte dei conti.
Per servizi pubblici che potrebbero generare gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico o la sanità è possibile, su richiesta dell'amministrazione interessata, autorizzare in deroga con Dpcm le operazioni di cui è fatto espresso divieto (ricapitalizzazione, trasferimenti straordinari, aperture di credito ecc.).
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Gli impatti delle perdite nei partecipanti.
Nel caso la società a partecipazione pubblica chiuda con un risultato d'esercizio negativo le pubbliche amministrazioni locali partecipanti, che adottano la contabilità finanziaria, devono accantonare nel proprio bilancio in un apposito fondo vincolato la quota di perdita proporzionale alla percentuale di partecipazione al capitale sociale. È quanto previsto dall'art. 21 del dlgs in attesa di pubblicazione.
Nel caso l'amministrazione partecipante dovesse adottare il sistema di contabilità civilistica il recepimento della perdita di riferimento della partecipata avverrà applicando gli ordinari criteri valutativi previsti al riguardo (svalutazione per perdite durevoli di valore). Nella fase di prima applicazione sono previsti meccanismi progressivi di determinazione della quota da accantonare.
Per gli amministratori di società a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, titolari di affidamento diretto da parte di soggetti pubblici per una quota superiore all'80% del valore della produzione, che abbiano chiuso in perdita i tre esercizi precedenti è prevista una riduzione del 30% dei compensi. Il conseguimento di perdite per due anni consecutivi configura giusta causa di revoca degli amministratori. Le suddette limitazioni non si applicano laddove la perdita sia coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato dagli enti controllanti.
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Miste, ok al controllo del socio sul cda.
Nelle società a partecipazione mista, pubblico privata (con la quota privata che non può essere inferiore al 30%), finalizzate alla realizzazione e gestione di un'opera pubblica ovvero alla organizzazione e gestione di un servizio di interesse generale attraverso un contratto di partenariato l'art. 17, comma 4, prevede alcune specifiche disposizioni societarie derogatorie al codice civile.
In particolare:
1) per quanto riguarda le srl, di norma l'art. 2479, comma 1, consente ai soci di decidere sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno 1/3 del capitale sociale sottoponga alla loro approvazione. Nelle società pubblico private viene consentito che gli atti costitutivi inibiscano ad amministratori e soci di minoranza di ricorrere a detta opportunità facendo si che della decisione resti delegato esclusivamente l'amministratore unico o il cda;
2) due le principali deroghe previste nelle spa. La prima attiene l'articolo 2480-bis c.c. (e l'art. 2409-novies per il sistema monistico), e consente di inserire negli statuti della società clausole finalizzate a consentire il controllo diretto sulla gestione da parte del socio pubblico. La seconda attiene, invece, la durata di eventuali patti parasociali. Questi, in deroga all'art. 2341-bis c.c. potranno avere durata ultraquinquennale purché non superino i limiti del contratto per la cui esecuzione la società è stata costituita.
Società a controllo pubblico. Particolari regole societarie sono, poi, previste dagli art. 11 e 13 del decreto, nelle società a controllo pubblico. Per esse, in ottica amministrativa, si prevede, salvo specifiche ragioni di adeguatezza, la nomina di un amministratore unico. Nei casi in cui sia prevista la nomina di un organo pluripersonale non è ammessa l'amministrazione disgiuntiva o congiuntiva.
Per ciò che concerne i controlli in tutte le srl, a prescindere da ogni limite dimensionale dovrà essere nominato un sindaco unico o un collegio sindacale o un revisore. Nelle stesse società sarà sempre ammissibile, per ciascuna amministrazione pubblica, richiedere il controllo giudiziario della società anche qualora la stessa operi in forma di srl. Nelle società per azioni, oltre al collegio sindacale dovrà essere sempre nominato un revisore esterno (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2016).

APPALTIAppalti, scudo sui lavoratori. Più tutele nei cambi di impresa: il rapporto prosegue.
L'interpretazione della legge europea da parte della Fondazione studi dei consulenti (circolare n. 11/2016).
Lavoratori più tutelati nei cambi di appalto. Se oltre al passaggio di personale, dal vecchio al nuovo datore di lavoro, quest'ultimo impiega sostanzialmente anche tutti gli altri fattori della produzione utilizzati dal precedente datore di lavoro, si è in presenza di un trasferimento di azienda.
Di conseguenza, ai lavoratori coinvolti spetta il riconoscimento delle tutele previste dall'art. 2112 del codice civile: il rapporto di lavoro continua con il nuovo datore di lavoro con tutti i diritti che ne derivano; vecchio e nuovo appaltatore restano obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore vantava al trasferimento.
Le novità, illustrate dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro nella circolare n. 11/2016, è prevista dalla legge n. 122/2016 (c.d. «legge europea») che ha modificato l'art. 29 del dlgs n. 276/2003 (riforma Biagi).
Obblighi dell'Ue. In vigore dal 23 luglio, le novità, come accennato, sono state introdotte dall'art. 30 della legge n. 122/2016 che ha riformato il comma 3 dell'art. 29 del dlgs n. 276/2003. La modifica è stata chiesta dalla commissione Ue che aveva segnalato al governo che la vecchia normativa (il vecchio testo del comma 3 dell'art. 29) confliggeva con i principi della direttiva 2001/23/Ce.
Per la commissione, in particolare, la disciplina sul cambio appalto violava le tutele minime imposte dall'Ue nella parte in cui escludeva radicalmente la configurabilità del trasferimento d'azienda quando l'impresa subentrante nell'appalto assume i dipendenti già impegnati dal datore di lavoro uscente.
Pertanto, la commissione aveva avviato nei confronti dell'Italia una procedura di pre-infrazione chiedendo al governo di chiarire, nella normativa nazionale, la regola per cui il subentro nell'appalto costituisce trasferimento d'azienda in presenza di una situazione in cui, oltre che il passaggio di personale, si verifica un trasferimento di beni di non trascurabile entità.
La vecchia disciplina. In realtà, secondo il testo dell'art. 29, comma 3, del dlgs n. 276/2003 in vigore fino al 22 luglio, «l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d'appalto, non costituisce trasferimento d'azienda o parte d'azienda».
In base a tale disposto, dunque, il cambio del soggetto appaltatore non basta(va) a integrare un mutamento nella titolarità di un'organizzazione economica, necessario ai fini della configurazione di un trasferimento d'azienda ai sensi dell'art. 2112 del codice civile. Di conseguenza l'imprenditore subentrante acquisiva direttamente il lavoratore dipendente dal precedente appaltatore e non rispondeva in solido con questi dei crediti da lavoro vantati dal lavoratore al momento del cambio appalto.
Peraltro, spiega la Fondazione, alcuni contratti collettivi (per esempio quelli del settore delle imprese di pulizia, delle imprese di igiene ambientale e smaltimento rifiuti, o quelli dei gestori di mense aziendali) hanno previsto speciali procedure di informazione e di consultazione sindacale, nonché l'obbligo dell'impresa subentrante di assumere, alle stesse condizioni, i lavoratori già addetti all'appalto da parte dell'impresa uscente.
Si tratta in ogni caso di obblighi a contrarre la cui esecuzione dà origine a un nuovo rapporto di lavoro distinto dal precedente, con conseguente differenza rispetto alla disciplina legale del trasferimento d'azienda e con l'esclusione di qualsiasi responsabilità del nuovo appaltatore per i crediti del lavoratore nei confronti del vecchio appaltatore.
In questo modo, cioè mediante assunzione del personale precedentemente addetto all'appalto e dipendente del vecchio appaltatore, si rendevano non applicabili le tutele previste dall'art. 2112 del codice civile, tranne che in alcune eccezioni individuate dalla Corte di cassazione sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia Ue.
Per esempio risulta configurabile un trasferimento d'azienda quando, oltre all'assunzione da parte del nuovo appaltatore dei dipendenti già addetti all'appalto, si verifica anche il passaggio di beni di non trascurabile entità, tali da poter parlare di passaggio di una vera e propria organizzazione economica (così, cassazione 16.05.2013, n. 11918, cassazione 15.10.2010, n. 21278, cassazione 08.10.2007, n. 21023, cassazione 13.01.2005, n. 493, cassazione 18.03.1996, n. 2254).
La nuova disciplina. Ciò che era un'eccezione giurisprudenziale è adesso regola. L'art. 30 della legge n. 122/2016, modificando l'art. 29 del dlgs n. 276/2003, stabilisce che «l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale o di clausola di contratto d'appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità d'impresa, non costituisce trasferimento d'azienda».
La legge n. 122/2016, secondo la Fondazione studi, ha introdotto due sostanziali elementi innovativi: ha escluso il trasferimento d'azienda quando l'imprenditore subentrante sia «dotato di propria struttura organizzativa e operativa» e «siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa». Secondo la nuova disciplina, dunque, la successione nell'appalto integra trasferimento d'azienda ogniqualvolta ci sia sostanziale continuità tra la struttura organizzativa e operativa dell'appaltatore subentrante e quella dell'appaltatore uscente e cioè quando vi sia identità d'impresa tra l'attività del primo e quella del secondo, con mera mutazione della titolarità della stessa. Il secondo requisito richiesto dalla nuova disciplina al fine di escludere il trasferimento d'azienda è la presenza di «elementi di discontinuità che determinano una specifica identità d'impresa».
Ma che s'intende per «identità d'impresa»? Sul piano delle fonti comunitarie, spiega la circolare della Fondazione, l'art. 1 della direttiva Ce del 29.06.1998, n. 50 prevede che, in materia di trasferimento d'azienda, si possa parlare di «identità» quando un'azienda conservi il medesimo «insieme di mezzi organizzati, al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria».
La Corte di giustizia Ue, chiamata a chiarire il significato del termine «identità» nella disciplina Ue sul trasferimento d'azienda, ha sostenuto che essa è integrata ogniqualvolta venga essenzialmente conservato il complesso dei beni materiali e immateriali, comprensivi del personale e delle sue competenze necessari e imprescindibili all'esercizio di una specifica e stabile attività economico-imprenditoriale: non basta dunque la mera cessione di alcuni mezzi o l'assunzione di qualche dipendente per poter parlare di conservazione di tale identità.
Parimenti la Cassazione ritiene che si conservi l'identità dell'impresa quando permangono gli stessi mezzi, beni e rapporti giuridici funzionalizzati all'esercizio stabile e continuativo di attività economica in forma d'impresa (cassazione 17.01.2013, n. 1102 e cassazione 08.07.2011, n. 15094).
Di tale definizione ha certamente tenuto conto il Legislatore nella formulazione del comma 5 dell'art. 2112 del codice civile, secondo cui per trasferimento d'impresa s'intende il mutamento di titolarità di un'attività economica organizzata «che conserva nel trasferimento la sua identità». In questo contesto, allora, il requisito dell'identità di impresa richiesto dalla nuova disciplina pare specificare e puntualizzare quelli già richiesti prima dalla giurisprudenza di legittimità.
In conclusione, per la Fondazione studi la legge n. 122/2016 codifica il principio secondo il quale devono essere applicate le tutele dell'art. 2112 del codice civile ogniqualvolta nel cambio dell'appalto si realizzi una sostanziale continuità organizzativa d'impresa, senza il ricorso a mezzi, beni e organizzazione diversi da quelle impiegate in precedenza (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2016).

EDILIZIA PRIVATAMisure antisismiche con il 65%. Fino al 31 dicembre possibile fruire della detrazione. Agevolato l'adeguamento di abitazioni o immobili adibiti ad attività produttive.
Fino al 31.12.2016 è possibile usufruire del riconoscimento della detrazione fiscale del 65% per le spese sostenute per interventi di adozione di misure antisismiche su costruzioni che si trovano in zone sismiche ad alta pericolosità, se adibite ad abitazione principale o ad attività produttive.
La detrazione è pari al 65% delle spese effettuate dal 04.08.2013 al 31.12.2016, e l'ammontare massimo delle spese ammesse in detrazione non può superare l'importo di 96 mila euro. È con la legge di Stabilità 2016 (legge n. 208 del 28.12.2015) che è stata prorogata al 31.12.2016 la possibilità di detrarre il 65% gli interventi di adozione di misure antisismiche.
Ad introdurre la possibilità di usufruire della detrazione 65% anche per gli interventi edilizi che prevedono la ristrutturazione antisismica delle abitazioni e dei fabbricati produttivi è stato il decreto-legge 04.06.2013, n. 63 convertito nella legge del 03.08.2013, n. 90 recante «Disposizioni urgenti per il recepimento della direttiva 2010/31/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione energetica nell'edilizia per la definizione delle procedure d'infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre disposizioni in materia di coesione sociale».
Soggetti che usufruiscono della detrazione fiscale. Della detrazione del 65% su un importo complessivo massimo di 96 mila euro per unità immobiliare (da ripartire in 10 quote annuali di pari importo), possono usufruire sia i soggetti passivi Irpef, sia i soggetti Ires, sempre che le spese siano rimaste a loro carico e possiedano o detengano l'immobile in base a un titolo idoneo (e cioè diritto di proprietà o altro diritto reale, contratto di locazione, o altro diritto personale di godimento).
L'agevolazione può essere richiesta se l'intervento è effettuato:
- su costruzioni adibite ad abitazione principale o ad attività produttive;
- se l'immobile si trova in zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2), i cui criteri di identificazione sono stati fissati con l'ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n. 3274 del 20.03.2003.
Per costruzioni adibite ad attività produttive si intendono le unità immobiliari in cui si svolgono attività agricole, professionali, produttive di beni e servizi, commerciali o non commerciali.
La classificazione sismica dell'Italia operata con l'ordinanza 3274/2003 ha eliminato la categoria «non classificato» e ha introdotto quattro zone di pericolosità sismica decrescente:
• Zona 1: è la zona più pericolosa, dove possono verificarsi forti terremoti (rientra nella detrazione 65% adeguamento sismico edifici esistenti);
• Zona 2: nei comuni inseriti in questa zona possono verificarsi terremoti abbastanza forti (rientra nella detrazione 65% adeguamento sismico);
• Zona 3: i comuni inseriti in questa zona possono essere soggetti a scuotimenti modesti;
• Zona 4: è la zona meno pericolosa.
Per poter individuare in quale zona di pericolosità sismica si trova il proprio comune di residenza e per poter conoscere se si ha diritto o meno al riconoscimento della detrazione 65% per gli interventi di adeguamento antisismico è necessario collegarsi al sito della protezione civile www.protezionecivile.gov.it dove viene fornito l'elenco completo di tutti i comuni italiani con la relativa classificazione.
Nella detrazione del 65% oltre alle spese necessarie per l'esecuzione dei lavori rientrano:
- le spese per la progettazione e le altre prestazioni professionali connesse ;
- l'imposta sul valore aggiunto, l'imposta di bollo e i diritti pagati per le concessioni, le autorizzazioni e le denunzie di inizio lavori;
- le spese per la messa in regola degli edifici ai sensi del dm 37/2008 - ex legge 46/1990 (impianti elettrici) e delle norme Unicig per gli impianti a metano (legge 1083/1971);
- gli oneri di urbanizzazione;
- le spese per prestazioni professionali comunque richieste dal tipo di intervento;
- le spese per l'acquisto dei materiali;
- il compenso corrisposto per la relazione di conformità dei lavori alle leggi vigenti;
- le spese per l'effettuazione di perizie e sopralluoghi;
- gli altri eventuali costi strettamente collegati alla realizzazione degli interventi nonché agli adempimenti stabiliti dal regolamento di attuazione degli interventi agevolati .
Non rientrano invece nella detrazione del 65% le spese di trasloco e custodia dei mobili per il periodo necessario all'effettuazione degli interventi di recupero edilizio.
Come usufruire della detrazione. Per usufruire della detrazione fiscale è sufficiente riportare nella dichiarazione dei redditi i dati catastali identificativi dell'immobile e, se i lavori sono effettuati dal detentore, gli estremi di registrazione dell'atto che ne costituisce titolo e gli altri dati richiesti per il controllo della detrazione.
Oltre ai documenti quali la comunicazione all'Asl, le fatture e le ricevute comprovanti le spese sostenute, le ricevute dei bonifici di pagamento, il contribuente deve essere in possesso della dichiarazione di consenso del possessore dell'immobile all'esecuzione dei lavori (per gli interventi effettuati dal detentore dell'immobile, se diverso dai familiari conviventi), delle ricevute di pagamento dell'imposta comunale (Ici-Imu), se dovuta, della delibera assembleare di approvazione dell'esecuzione dei lavori (per gli interventi su parti comuni di edifici residenziali) e tabella millesimale di ripartizione delle spese e della domanda di accatastamento (se l'immobile non è ancora censito).
Si ricorda che per usufruire della detrazione fiscale deve essere inviata all'azienda sanitaria locale competente per territorio una comunicazione con raccomandata A.R. o altre modalità stabilite dalla regione di appartenenza contenete:
- la natura dell'intervento da realizzare;
- le generalità del committente dei lavori e ubicazione degli stessi ;
- la data di inizio dell'intervento di recupero;
- i dati identificativi dell'impresa esecutrice dei lavori con esplicita assunzione di responsabilità, da parte della medesima, in ordine al rispetto degli obblighi posti dalla vigente normativa in materia di sicurezza sul lavoro e contribuzione (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La notifica via Pec rende nulla la cartella. La giurisprudenza conferma l'orientamento dei tributaristi.
Sulla invalidità delle notifiche delle cartelle di pagamento tramite posta elettronica certificata, anche la giurisprudenza interviene a confermare l'orientamento dei tributaristi Lapet.
Il rischio di incostituzionalità paventato dai tributaristi (si veda ItaliaOggi dell'11.06.2016) emerge dalla combinata lettura degli articoli 20, commi 1 e 2, e 53, comma 2, del dlgs 546/1992, dalla circolare 2/df del 12.05.2016 e di alcune recenti sentenze della giurisprudenza di merito (Ctr Milano n. 1711/34/2016, Ctr Benevento, n. 365/13, Ctr Roma, n. 54/10/2010 e Ctr Bologna, n. 2065/2015).
«Ben venga l'intenzione del Legislatore di incentivare l'utilizzo dei sistemi informatici, al fine di ottenere una riduzione degli oneri sia per i contribuenti che per la stessa pubblica amministrazione», ha commentato il presidente nazionale tributaristi Lapet Roberto Falcone. Secondo i tributaristi però resta fondamentale garantire il diritto di difesa del contribuente.
«I nostri dubbi in tal senso trovano conferma anche nei recenti orientamenti giurisprudenziali secondo cui sono tutte nulle le cartelle di pagamento notificate a mezzo Pec in quanto, non solo la posta elettronica certificata non offre le garanzie tipiche della raccomandata tradizionale ma soprattutto perché non contiene l'originale della cartella, ma solo una copia informatica», ha aggiunto Falcone. Una semplice copia infatti non può mai assumere un valore giuridico. Il sistema Pec non può garantire infatti che il documento allegato sia effettivamente l'originale. Inoltre, la Pec non garantisce neanche l'effettiva consegna al destinatario, come invece avviene con il sistema a mezzo raccomandata, notificata dal messo notificatore in quanto pubblico ufficiale.
I tributaristi concordano quindi che la semplice disponibilità di un documento nella casella Pec, non equivale all'avvenuta consegna del documento al destinatario, il quale potrebbe non leggerla per svariate ragioni. Senza considerare la conseguente incertezza sui termini di decorrenza dell'atto ai fini della presentazione di ricorso o appello.
A questo punto la notifica tramite Pec sarebbe uno strumento costituzionalmente illegittimo poiché, in termini di sistema, non garantisce alcuna libertà al destinatario al fine di poter scegliere modalità, tempi e dinamica di ricezione dell'atto o del documento informatico ed eventualmente di poter esprimere rifiuto.
Propositiva l'associazione nazionale Lapet che, in linea con l'iter di semplificazione avviato dal governo, per una sempre maggiore compliance tra pubblica amministrazione e cittadino, il quale deve avere sempre chiarezza e conoscenza dell'atto notificato, suggerisce, in aggiunta alla Pec, l'utilizzo della firma elettronica digitale o il deposito elettronico dell'atto presso soggetti terzi qualificati digitalmente (articolo ItaliaOggi del 03.09.2016).

VARITagliandi fai-da-te. Circolare sulla polizza rc auto.
Per non incorre in discussioni con gli organi di polizia in caso di controllo sulla regolare copertura assicurativa del veicolo meglio avere al seguito più carta possibile. Comprese le ultime indicazioni del Viminale che ammettono anche l'esibizione agli agenti in divisa del certificato rc auto in formato digitale o in stampa non originale.

Lo ha evidenziato il ministero dell'interno con la circolare 01.09.2016 n. 300/A/5931/16/106/15.
La cessazione dell'obbligo di esposizione del contrassegno assicurativo, entrata in vigore da quasi un anno, ha avviato una serie di riflessioni operative tra forze di polizia con inevitabili ricadute anche sui comportamenti degli automobilisti.
Se da una parte l'automobilista ha il beneficio di non dover più esporre il contrassegno, dall'altro sono aumentati i rischi di essere trovati in difetto e spesso per motivazioni assolutamente indipendenti dalla volontà del conducente. Questo perché innanzitutto le banche dati che attestano la regolarità della copertura assicurativa non sono ancora completamente aggiornate. Poi perché alcune compagnie consentono una estensione della copertura assicurativa per periodi di tempo superiori alle due settimane di rito.
Per cercare di rimettere un po' di ordine nel settore, l'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale ha diramato una serie di istruzioni operative che evidenziano l'obbligo di avere sempre nel cruscotto il certificato di assicurazione da esibire alla polizia. Ma che è anche consigliabile portarsi dietro l'attestazione di avvenuto pagamento del premio e copia del contratto perché rispetto alle indicazioni del ced i documenti risulteranno sempre prevalenti.
In ogni caso d'ora in poi potrà bastare anche solo un certificato di assicurazione in formato digitale o una stampa non originale del formato digitale stesso, specifica la circolare. Senza che il conducente possa essere sanzionato per mancato possesso dell'originale a bordo con invito all'esibizione presso un ufficio di polizia. Le caratteristiche del certificato infatti sono state variate dal codice delle assicurazioni private ed adeguate ai concetti dell'amministrazione digitale (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).

SICUREZZA LAVOROPiù tutela dai campi elettromagnetici.
Più informazione in azienda sui rischi derivanti dall'esposizione a campi elettromagnetici. I datori di lavoro dovranno garantire che lavoratori e rappresentanti per la sicurezza ricevano tutte le informazioni e la formazione necessarie in relazione alla valutazione dei rischi effettuata, con particolare riguardo, d'ora in poi, anche agli eventuali effetti «indiretti» dell'esposizione (provocati, cioè, dalla presenza di un oggetto nel campo elettromagnetico, come uno stimolatore cardiaco o dei materiali infiammabili), nonché alla possibilità di sensazioni e sintomi transitori dovuti a effetti sul sistema nervoso (centrale o periferico), e alla possibilità di rischi specifici per lavoratori particolarmente sensibili (per esempio, portatori di protesi metalliche).

È quanto prevede l'articolo 210-bis introdotto ex novo nel Testo unico sulla sicurezza (dlgs n. 81/2008) ad opera del dlgs n. 159/2016, pubblicato in G.U. n. 192 del 18 agosto e in vigore da oggi, 2 settembre.
Il decreto dà attuazione alla direttiva 2013/35/Ue, che ha abrogato la direttiva 2004/40/Ce e che stabilisce «disposizioni minime» di sicurezza e salute relative all'esposizione dei lavoratori ai campi elettromagnetici. Esso interviene sul Capo IV del Titolo VIII del Testo unico sulla sicurezza modificando gli articoli dal 206 al 212, e in particolare sostituendo le norme relative alle definizioni (207), ai «valori limite di esposizione» (Vle) e ai «valori di azione» (Va) (208), alla valutazione dei rischi che il datore di lavoro deve effettuare (209), alle misure per eliminare o ridurre i rischi (210), alla sorveglianza sanitaria (art. 211 dlgs 81/2016).
L'obiettivo delle nuove norme è quello di trattare tutti gli agenti biofisici diretti e gli effetti indiretti noti, provocati dai campi elettromagnetici, non solo per assicurare salute e sicurezza di ciascun lavoratore, ma anche per creare per tutti i lavoratori dell'Ue una piattaforma minima di protezione evitando distorsioni alla concorrenza.
Come la direttiva del 2004, la nuova disciplina non affronta le ipotesi di effetti «a lungo termine» (compresi i possibili effetti cancerogeni) derivanti dall'esposizione ai campi elettromagnetici, «dal momento che», si legge nel 7° Considerando alla direttiva 35/13, «non si dispone attualmente di prove scientifiche accertate dell'esistenza di una relazione causale». La direttiva lascia aperto uno spiraglio evidenziando che qualora tali prove scientifiche accertate emergano, la Commissione valuterà gli strumenti più adeguati per far fronte ai rischi e riferirà al Parlamento e al Consiglio.
Per quanto riguarda gli effetti «a breve termine», invece, c'è oggi un'individuazione più dettagliata degli effetti biofisici diretti e indiretti che possono essere provocati dal campo elettromagnetico. Si tratta degli:
- effetti biofisici diretti, provocati direttamente nel corpo umano a causa della presenza all'interno di un campo elettromagnetico, che possono essere di tipo termico (riscaldamento dei tessuti) o non termico (stimolazione di muscoli, nervi e organi sensoriali);
- effetti indiretti, provocati dalla presenza di un oggetto in campo elettromagnetico che potrebbe causare un pericolo per la salute e la sicurezza (interferenza con attrezzature e dispositivi medici elettronici, rischio propulsivo di oggetti ferromagnetici, innesco di detonatori ecc.).
Viene infine riformulata la normativa sulla valutazione dei rischi. In particolare, viene riscritto il comma 1 dell'art. 209 del T.u. con l'inserimento del riferimento alle linee guida emanate dalla Commissione Ue, dal Cei (comitato elettrotecnico italiano), dall'Inail e dalle regioni, quale supporto tecnico nelle attività di valutazione, misurazione e calcolo dei livelli elettromagnetici (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAOpere, la legge obiettivo di Renzi. Tempi dimezzati per gli interventi strategici e produttivi. Novità del regolamento attuativo della riforma Madia e poteri accentrati a Palazzo Chigi.
Termini dimezzati per i procedimenti autorizzatori e per i nulla osta necessari alla localizzazione, progettazione e realizzazione di selezionate e rilevanti opere e insediamenti produttivi e strategici; potere sostitutivo della presidenza del consiglio con possibilità di delega a personale della pubblica amministrazione di elevata e comprovata esperienza.

Sono questi i punti di maggiore rilievo del regolamento attuativo della riforma Madia (cosiddetto Sblocca opere, in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) che si applicherà ai procedimenti relativi a «rilevanti insediamenti produttivi, opere di rilevante impatto sul territorio o l'avvio di attività imprenditoriali suscettibili di avere positivi effetti sull'economia o sull'occupazione».
I procedimenti sui quali interviene il regolamento sono quelli di natura amministrativa necessari per la localizzazione, la progettazione e la realizzazione delle opere, lo stabilimento degli impianti produttivi e l'esercizio delle attività.
Entro il 31 gennaio di ogni anno gli enti territoriali potranno individuare un elenco di progetti (ognuno corredato da specifica analisi di valutazione dell'impatto economico e sociale), concernenti le opere oggetto di applicazione del provvedimento già inserite nel programma triennale o in altri atti di programmazione previsti dalla legge. A questo punto l'ente territoriale chiederà alla presidenza del consiglio dei ministri che al relativo procedimento siano applicate le disposizioni del regolamento Sblocca opere.
La presidenza del consiglio dei ministri, anche su segnalazione del soggetto proponente, potrà inserire entro fine febbraio, anche progetti non compresi nell'elenco la cui realizzazione sia suscettibile di produrre positivi effetti sull'economia o sull'occupazione e tale capacità sia dimostrata dalla documentazione pertinente.
In un decreto da emanare entro due mesi verranno definiti i criteri per la selezione dei progetti «in relazione alla rilevanza strategica degli interventi pubblici e privati assoggettati alla procedura semplificata». L'individuazione dei progetti dovrà avvenire entro fine marzo «sentiti i presidenti delle regioni interessate che partecipano, ciascuno per la rispettiva competenza, alla seduta del consiglio dei ministri».
In concreto, il regolamento prevede il dimezzamento (limite massimo) dei termini di conclusione dei procedimenti necessari per la localizzazione, la progettazione e la realizzazione delle opere o lo stabilimento dell'impianto produttivo e l'avvio dell'esercizio dell'attività.
In caso di inutile decorso del termine di cui all'articolo 2 della legge 07.08.1990, n. 241, o di quello eventualmente rideterminato (cioè dimezzato) il presidente del consiglio dei ministri, previa deliberazione del consiglio dei ministri, può adottare i relativi atti; inoltre il presidente del consiglio dei ministri, previa deliberazione del consiglio dei ministri, potrà anche delegare il potere sostitutivo a un diverso soggetto di «comprovata competenza ed esperienza in relazione all'attività oggetto di sostituzione», fissando un nuovo termine per la conclusione del procedimento, comunque di durata non superiore a quello originariamente previsto.
Il titolare del potere sostitutivo deve essere designato «tra dipendenti pubblici in possesso di elevate competenze tecniche o amministrative, maturate presso uffici competenti per lo svolgimento di procedimenti analoghi, assicurando la presenza fra essi di personale posto in posizione di elevata responsabilità in strutture amministrative competenti per gli interventi e procedimenti oggetto del potere sostitutivo» (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).

APPALTIAppalti, ombrello al lavoratore se c'è subentro. Circolare della fondazione studi consulenti del lavoro sulle tutele.
Più tutele per i lavoratori impiegati in appalti, quando cambia l'assetto proprietario ma vi sia una sostanziale continuità organizzativa d'impresa, poiché non si utilizzano mezzi, beni e organizzazione diversi da quelli utilizzati in precedenza.

La Fondazione Studi consulenti del lavoro ha elaborato la propria circolare n. 11/2016, con la quale illustra i principali effetti della legge 122/2016, che modifica l'articolo 29, comma 3, del dlgs 276/2003, ai sensi del quale in caso di subentro di un nuovo appaltatore nella gestione di un appalto non configurava mai cessione d'azienda.
L'articolo 30 della legge 122/2916 ha modificato e capovolto l'impianto iniziale del dlgs 276/2003, rispondendo così all'iniziativa della Commissione dell'Unione europea, che aveva avviato una procedura di preinfrazione (fascicolo «EU Pilot», n. 7622/15/Empl).
Lo scopo era esattamente indurre il legislatore a chiarire che il subentro nell'appalto costituisce appunto trasferimento d'azienda laddove, oltre al passaggio di personale dalle dipendenze del vecchio al nuovo titolare, vi fosse anche sostanzialmente l'impiego di tutti gli altri fattori di produzione precedentemente gestiti.
Prevedere che il subentro costituisca trasferimento d'azienda significa estendere ai lavoratori coinvolti l'applicazione dell'articolo 2112 del codice civile, ai sensi del quale in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano, e sia vecchio, sia nuovo appaltatore restano obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Il subentrante, inoltre è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, mentre, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento.
La modifica normativa appare particolarmente rilevante per l'applicazione della disciplina delle «clausole sociali» contenuta nel nuovo codice dei contratti, il dlgs 50/2016. Si tratta di quelle disposizioni che impongono a un datore di lavoro il rispetto di determinati standard di protezione sociale e del lavoro come condizione per svolgere attività economiche in appalto o in concessione o per accedere a benefici di legge e agevolazioni finanziarie. L'articolo 50 del codice dispone, con particolare riguardo ai contratti ad alta intensità di manodopera, che i bandi di gara possono inserire, nel rispetto dei principi dell'Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato nell'appalto precedente.
Un modo per applicare in maniera chiara le clausole sociali, alla luce della modifica dell'articolo 29, comma 3, del dlgs 276/2003, può consistere nello specificare se l'appaltatore nel subentro deve reimpostare o meno in maniera significativa i fattori produttivi e l'organizzazione. Poiché specificamente i contratti ad alta intensità di manodopera per il codice sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50% dell'importo totale del contratto, una specificazione simile nei bandi di fatto agevolerà molto la configurazione del subentro come trasferimento d'azienda, il che fa scattare automaticamente le tutele dell'articolo 2112 del codice civile (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2016).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICALa convenzione urbanistica volta a disciplinare, col concorso del privato proprietario dell'area, una delle possibili modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per dare al territorio interessato la conformazione prevista dagli strumenti urbanistici, dev'essere assimilata ad un accordo sostitutivo del provvedimento amministrativo; in relazione al quale la legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), all'art. 11, comma 5 (ora abrogato, ma ancora vigente al tempo dei fatti di causa), contempla la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le liti riguardanti sia la formazione, sia la conclusione, sia l'esecuzione di tale accordo: giurisdizione, che non viene meno neppure in ipotesi di successivo atto di transazione, emendativo della convenzione originaria, intercorso tra il comune e la parte privata, stante la stretta correlazione reciproca, oggettiva e soggettiva.
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I ricorsi sono infondati.
La convenzione urbanistica volta a disciplinare, col concorso del privato proprietario dell'area, una delle possibili modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per dare al territorio interessato la conformazione prevista dagli strumenti urbanistici, dev'essere assimilata ad un accordo sostitutivo del provvedimento amministrativo; in relazione al quale la legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), all'art. 11, comma 5 (ora abrogato, ma ancora vigente al tempo dei fatti di causa), contempla la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le liti riguardanti sia la formazione, sia la conclusione, sia l'esecuzione di tale accordo (cfr. Cass., sez. unite 02.12.2010 n. 24419; sez. unite, 17.04.2009, n. 915; Cass., sez. un., 01.07.2009 n. 15388; Cass., sez. unite, 20.11.2007, n. 24009): giurisdizione, che non viene meno neppure in ipotesi di successivo atto di transazione, emendativo della convenzione originaria, intercorso tra il comune e la parte privata, stante la stretta correlazione reciproca, oggettiva e soggettiva (Cass., sez. unite, 17.04.2009 n. 9151; Cass., sez. unite, 20.11.2007 n. 24009).
Né tale conclusione può essere revocata in dubbio sulla base dell'eccepita prescrizione delle obbligazioni scaturenti dalla convenzione: questione, in limine inammissibile per novità, in quanto sollevata solo nelle memorie di replica ex art. 378 cod. cod. proc. civile, dopo che la sentenza del Consiglio di Stato impugnata non ne aveva fatto cenno: senza che l'eventuale omissione fosse censurata nei ricorsi, con la precisa indicazione degli atti del giudizio di merito in cui l'eccezione estintiva fosse stata invece sollevata, in termini, in base al principio di autosufficienza (art. 366, primo comma, n. 6 cod. proc. civ.).
Al riguardo, oggetto diverso concerne, infatti, la questione della perdurante, o no, validità o efficacia delle obbligazioni assunte con la convenzione, di cui è cenno in motivazione, laddove se ne afferma, correttamente, l'estraneità al thema decidendum della nullità dell'accordo modificativo, denominato atto di transazione (cfr. sent., pagg. 9 e 10).
E' appena il caso di aggiungere che, in ogni caso, tale profilo riguarderebbe il merito della controversia; senza influire, perciò, sul riparto di giurisdizione (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 05.10.2016 n. 19914).

APPALTI: Il Tar Lazio rimette alla Corte di giustizia la questione della compatibilità europea della disciplina nazionale in tema di onerosità del soccorso istruttorio.
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Appalti pubblici – Soccorso istruttorio – Onerosità – Compatibilità comunitaria – Rinvio pregiudiziale.
Vanno rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali di interpretazione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 in rapporto alla disciplina prevista dagli artt. 45 e 51 della Direttiva 2004/18/CE ed ai principi di massima concorrenza, proporzionalità, parità di trattamento e non discriminazione in materia di procedure per l’affidamento di lavori, servizi e forniture:
   - se, pur essendo facoltà degli Stati membri imporre il carattere oneroso del soccorso istruttorio con efficacia sanante, sia, o meno, contrastante con il diritto comunitario l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, nel testo vigente alla data del bando di cui trattasi laddove è previsto il pagamento di una “sanzione pecuniaria”, nella misura che deve essere fissata dalla stazione appaltante (“non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria”), sotto il profilo dell’importo eccessivamente elevato e del carattere predeterminato della sanzione stessa, non graduabile in rapporto alla situazione concreta da disciplinare, ovvero alla gravità dell’irregolarità sanabile;
   - se, al contrario, il medesimo art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 (sempre nel testo vigente alla data sopra indicata) sia contrastante con il diritto comunitario, in quanto la stessa onerosità del soccorso istruttorio può ritenersi in contrasto con i principi di massima apertura del mercato alla concorrenza, cui corrisponde il predetto istituto, con conseguente riconducibilità dell’attività, al riguardo imposta alla Commissione aggiudicatrice, ai doveri imposti alla medesima dalla legge, nell’interesse pubblico al perseguimento della finalità sopra indicata) (1).

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(1)
   I. - Con una lunga ed articolata ordinanza, la terza sezione del Tar Lazio affida alla CGE alcuni dubbi di compatibilità comunitaria del noto art. 38 del previgente codice dei contratti pubblici, in particolare sotto il profilo dell’onerosità del c.d. soccorso istruttorio di cui alla disciplina introdotta ex novo nel 2014 dal d.l. n. 90.
   II. - Il linea generale il Tar sottolinea come la norma di cui all’art. 38, comma 2-bis –in base alla quale la regolarizzazione, ottenuta a seguito di soccorso istruttorio, implica necessariamente una comminatoria di sanzione, “in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro” (il cui preciso importo deve essere previamente fissato dalle stazioni appaltanti)– susciti dubbi di compatibilità con i principi europei di proporzionalità, tassatività delle cause di esclusione, trasparenza delle procedure, massima partecipazione e massima concorrenza.
Incidentalmente va evidenziato come l’ordinanza limiti espressamente i propri dubbi alla disciplina originaria del 2014, rilevando come l’istituto in contestazione abbia subito un adeguato ridimensionamento con la normativa di cui al nuovo codice dei contratti pubblici (sul punto art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016).
Sempre in sede ricostruttiva generale, l’ordinanza riassume i principi di cui alla legislazione europea utilizzati quali parametri di riferimento nonché i punti principali della norma censurata. In tale ottica ricostruttiva, ad essere sottoposta alla CGE è la peculiarità della disposizione laddove la stessa ha inteso introdurre, secondo una modalità costante e automatica, una “sanzione pecuniaria” (come espressamente la definisce il comma 2-bis dell’art. 38 del Codice del 2006, così come peraltro oggi fa l’art. 83, comma 9, del nuovo Codice) che l’impresa concorrente è tenuta a versare all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore, per il solo “fatto” di avere omesso la produzione di una o più dichiarazioni, complete degli elementi contenutistici (e degli allegati eventualmente richiesti) necessari ad attestare il possesso di un requisito sostanziale.
In dettaglio, il primo profilo oggetto di rimessione concerne l’entità e la modalità di quantificazione della sanzione pecuniaria in sé considerata (e, dunque, a prescindere dall’essere essa correlata oppure no alla scelta dell’impresa di sanare l’irregolarità, producendo la documentazione mancante), dinanzi alle quali si pone il serio dubbio della compatibilità della norma italiana con il principio di proporzionalità nell’ambito degli affidamenti pubblici. Nella specie la sanzione ammontava a 35mila euro.
Analogamente, in tale prospettazione si inserisce anche la contestazione della possibilità, insita nella norma, di applicare la medesima sanzione sia in ipotesi di grave difformità rispetto alle prescrizioni del bando, sia in caso di inadempienze dichiarative di limitata entità benché essenziali (può anche trattarsi, in concreto, della mancata sottoscrizione o produzione di una singola dichiarazione, prescritta in via imperativa dalla legge di gara), con conseguente possibile contrasto –oltre che con la proporzionalità- con il principio di parità di trattamento.
In secondo luogo, la norma viene censurata anche sotto il profilo del possibile contrasto con il principio fondamentale della massima concorrenza nell’ambito dell’Unione Europea il quale postula la necessità che sia perseguita al massimo grado la partecipazione dei potenziali pretendenti all’affidamento di un contratto pubblico, imponendo a ciascuno Stato membro di rimuovere (non certo di introdurre) ostacoli potenziali ed effettivi alla libertà di concorrenza, anche e soprattutto nel primario settore degli affidamenti pubblici di lavori, servizi e forniture.
In tale ottica la norma in esame, secondo l’ordinanza, può provocare un’ingiustificata sperequazione delle imprese in relazione ad un (implicito) presupposto di fatto -la disponibilità delle risorse economiche necessarie al pagamento della sanzione- che è del tutto estraneo e non incide affatto sulla moralità, professionalità e affidabilità delle imprese.
Si viene a creare una sorta di “pre-requisito” tale da danneggiare gravemente le imprese che partecipano ad un grande numero di procedure ad evidenza pubblica senza risultare aggiudicatarie di nessuna di esse, le quali possono essere disincentivate dal partecipare a gare future (con grave pregiudizio del valore della concorrenza).
   III. - Per completezza, si segnala sul soccorso istruttorio:
      a) in relazione al testo dell’art. 46 del vecchio codice dei contratti pubblici novellato dal d.l. n. 70 del 2011, Cons. St., A.P., 25.02.2014, n. 9, in Foro it., 2014, III, 429, con note di TRAVI e SIGISMONDI; A.P., 20.03.2015, n. 3, id., 2016, III, 114, con nota di TRAVI; A.P., 02.11.2015, n. 9, ibidem, III, 66, con nota di CONDORELLI; Ad. plen., 27.07.2016, nn. 19 e 20, riportate nella News US in data 01.08.2016;
      b) in relazione al testo dell’art. 46 cit. dopo la novella recata dal d.l. n. 90 del 2014 che ha introdotto il c.d. “soccorso istruttorio a pagamento”, Cons. St., sez. V, 22.08.2016, n. 3667, a mente della quale la sanzione di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, si applica nel caso in cui il concorrente ha presentato una offerta mancante di una dichiarazione e di un documento prescritto mentre è irrilevante se decide di avvalersi del soccorso istruttorio o meno; Cons. St., sez. V, 31.08.2016, n. 3753, secondo cui ai sensi dell'art. 48, comma 2, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 nelle gare pubbliche l'aggiudicatario e il secondo classificato devono presentare la documentazione comprovante il possesso dei requisiti tecnico-organizzativi ed economico-finanziari entro il termine di dieci giorni dalla data della richiesta e tale termine ha natura perentoria; le conseguenze immediatamente escludenti, che conseguono alla sua violazione, non consentono di accordare al concorrente, che tale violazione abbia commesso, il beneficio dell'errore scusabile, ovvero la sostanziale rimessione in termini connessa all'applicazione del c.d. 'soccorso istruttorio a pagamento' di cui al richiamato art. 38, comma 2-bis, atteso che, ove si consentisse all'impresa concorrente di accedere a quest'ultimo beneficio, si determinerebbe un'evidente violazione del principio della par condicio concorrenziale, ammettendo che un concorrente (il quale avrebbe dovuto comprovare il possesso dei requisiti di ordine oggettivo sin dalla partecipazione alla gara) non solo possa sottrarsi a tale obbligo senza conseguenze di sorta, ma che vi si possa sottrarre anche successivamente, cioè nel momento in cui viene richiesto di procedere alla comprova ai sensi del comma 2 dell’art. 48;
      c) nella giurisprudenza di primo grado, in ordine all’esegesi del nuovo “soccorso istruttorio a pagamento” cfr., in senso espansivo, Tar Milano, sez. IV, 13.06.2016, n. 1180, senso restrittivo, Tar Lazio, sez. II, 06.06.2016, n. 6488 (TAR Lazio-Roma, Sez. III, ordinanza 03.10.2016 n. 10012 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Processo amministrativo - Rito appalti - Nuovo rito ex comma 6-bis dell'art. 120 c.p.a. - Applicazione temporale - Art. 216 del nuovo Codice dei contratti pubblici - Applicabilità.
Il rito appalti disciplinato dal comma 6-bis dell’art. 120 c.p.a., aggiunto dall’art. 204 del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), per l’impugnazione dei provvedimenti individuati dal precedente comma 2-bis, si applica, ai sensi dell’art. 216 dello stesso Codice dei contratti pubblici, che non contiene alcuna eccezione riferibile all’art. 204, solo alle "procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore".
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Premesso che:
   - la società ricorrente ha impugnato il verbale recante l’ammissione della Cooperativa Sociale Insieme alla gara indetta dal Comune di Altopascio per l'affidamento del servizio di gestione del “Centro Diurno Anziani comunale L'Aquilone" deducendo l’insussistenza in capo alla medesima dei requisiti tecnici necessari per la partecipazione;
   - a tal fine la ricorrente ha attivato il rito speciale disciplinato dall’art. 120, co. 2-bis, c.p.a., introdotto dall’art. 204 del d.lgs. n. 50/2016 secondo cui “il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante…”;
   - nell’odierna camera di consiglio, in assenza di eccezioni della controinteressata, il Collegio ha prospettato alle parti la questione dell’inammissibilità del gravame per carenza di interesse in relazione alla possibile non immediata applicabilità della disposizione sopra richiamata;
   - infatti, secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza il concorrente, mentre ha interesse a dolersi della propria esclusione dalla gara ovvero di clausole impeditive della partecipazione, non è titolare di un’analoga posizione nel caso intenda contestare l’ammissione di altro partecipante dal momento che tale atto, di natura endoprocedimentale, non possiede un’autonoma lesività (TAR Sicilia, Palermo, sez. III 04.01.2016 n. 10; Cons. Stato, sez. VI, 11.03.2015 n. 1261; TAR Toscana, sez. I, 27.10.2011, n. 1596);
considerato che:
   - la questione dell’immediata applicabilità dell’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. va riguardata alla luce di quanto stabilito dall’art. 216, co. 1, del d.lgs. n. 50/2016 (disposizioni transitorie e di coordinamento) il quale dispone che “Fatto salvo quanto previsto nel presente articolo ovvero nelle singole disposizioni di cui al presente codice, lo stesso si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”.
   - il Collegio non ignora la recente pronuncia di altro TAR secondo cui non è controvertibile, che la norma in questione trovi applicazione al giudizio pendente, trattandosi di disposizione processuale immediatamente operante entrata in vigore anteriormente alla proposizione del ricorso (TAR Calabria, Reggio Calabria, 23.07.2016, n. 829), ma ritiene tali conclusioni non persuasive;
osservato che:
   - in senso negativo all’immediata applicabilità del nuovo rito definito come “processo anticipato e in prevenzione”, nonostante la natura processuale della norma, ostano argomentazioni di natura letterale e sistematica;
   - quanto alle prime, la mera lettura dell’art. 216 del Codice dei contratti pubblici che non contiene alcuna eccezione riferibile all’art. 204, induce a ritenere che non vi siano deroghe al criterio generale che stabilisce l’entrata in vigore del nuovo rito rendendolo applicabile solo alle “procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore”;
   - quanto alle seconde, pare evidente, dal testuale riferimento contenuto ad altre disposizioni del Codice, segnatamente l’art. 29, co. 1, l’impossibilità di dare immediata applicazione al nuovo rito in prevenzione;
   - la norma da ultimo citata stabilisce, infatti, che “al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell’articolo 120 del codice del processo amministrativo, sono altresì pubblicati, [sul profilo del committente, nella sezione Amministrazione trasparente], nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito delle valutazioni dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali..”, ed è da tale pubblicazione che decorre il termine per l’impugnazione dei provvedimenti di esclusione e ammissione 8non a caso contestato dalla controinteressata);
   - d’altro canto, in condivisione con la quasi totalità della dottrina, il nuovo e speciale sottosistema processuale, “qualificabile come anticipato, preliminare, immediato, autonomo, decadenziale, finalizzato comunque alla rapida costituzione di certezze giuridiche poi incontestabili sui protagonisti della gara” è certamente legato al riassetto complessivo del sistema della contrattualistica pubblica i cui profili sostanziali sono indefettibilmente legati a quelli processuali contestualmente introdotti;
ritenuto, pertanto, stante l’inapplicabilità del rito disciplinato dall’art. 120, co, 2-bis, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per carenza di immediata lesività dell’atto impugnato e che le spese del giudizio possono essere compensate in ragione della novità delle questioni trattate (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 03.10.2016 n. 1415 - massima tratta da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l'assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
Invero, qualunque intervento o costruzione non autorizzati, pur se realizzati in tempi diversi, che siano idonei a stravolgere l'assetto del territorio, rendendone impraticabile la programmazione, integra gli estremi della lottizzazione abusiva, sicché anche la sola realizzazione di una strada, comportando un mutamento del precedente assetto del territorio, costituisce opera di trasformazione urbanistica che necessita di un titolo abilitativo, tanto più qualora essa sia destinata a permettere il transito da e verso singoli lotti.
La lottizzazione abusiva è, dunque, un fenomeno unitario che trascende la consistenza delle singole opere di cui si compone e talora ne prescinde, come nel caso del mutamento di destinazione d’uso di complessi edilizi regolarmente assentiti, e assume rilevanza giuridica per l’impatto che determina sul territorio interferendo con l’attività di pianificazione, conservazione dei valori paesistici e ambientali, dotazione e dimensionamento degli standard, di guisa che la diversa conformazione materiale che deriva dall’attività di lottizzazione, se non rimossa, da un lato impedisce la realizzazione del diverso progetto urbanistico stabilito dagli organi preposti al governo del territorio, dall’altro impone l’adeguamento delle infrastrutture esistenti o la realizzazione di nuove per far fronte al carico urbanistico derivante dalla lottizzazione.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire.

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2.- Così delineate le circostanze di fatto oggetto di controversia, occorre premettere, in merito alla contestata qualifica di lottizzazione abusiva attribuita all’insediamento edilizio realizzato sui terreni identificati nel provvedimento gravato, che secondo l'art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, la lottizzazione abusiva materiale –a tale fattispecie i ricorrenti riconducono l’abuso loro contestato- implica la realizzazione di opere che comportano la trasformazione urbanistica e edilizia dei terreni, sia in violazione delle prescrizioni di legge o degli strumenti urbanistici, sia in assenza della prescritta autorizzazione.
2.1.- La formulazione dell'art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 consente di affermare che può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l'assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
2.2.- E’ stato infatti ritenuto che qualunque intervento o costruzione non autorizzati, pur se realizzati in tempi diversi, che siano idonei a stravolgere l'assetto del territorio, rendendone impraticabile la programmazione, integra gli estremi della lottizzazione abusiva, sicché anche la sola realizzazione di una strada, comportando un mutamento del precedente assetto del territorio, costituisce opera di trasformazione urbanistica che necessita di un titolo abilitativo, tanto più qualora essa sia destinata a permettere il transito da e verso singoli lotti (Consiglio Stato sez. IV 08.05.2003 n. 2445; Consiglio Stato, sez. IV, 01.06.2010, n. 3475; Consiglio Stato, sez. IV, 24.12.2008, n. 6560).
2.3.- La lottizzazione abusiva è dunque un fenomeno unitario che trascende la consistenza delle singole opere di cui si compone e talora ne prescinde, come nel caso del mutamento di destinazione d’uso di complessi edilizi regolarmente assentiti, e assume rilevanza giuridica per l’impatto che determina sul territorio interferendo con l’attività di pianificazione, conservazione dei valori paesistici e ambientali, dotazione e dimensionamento degli standard, di guisa che la diversa conformazione materiale che deriva dall’attività di lottizzazione, se non rimossa, da un lato impedisce la realizzazione del diverso progetto urbanistico stabilito dagli organi preposti al governo del territorio, dall’altro impone l’adeguamento delle infrastrutture esistenti o la realizzazione di nuove per far fronte al carico urbanistico derivante dalla lottizzazione.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire" (Consiglio di Stato (IV, 3381/2012) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 03.10.2016 n. 1168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’accesso ai documenti amministrativi richiede ai fini dell’accoglimento della relativa domanda la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso” (così l'art. 22 della legge n. 241/1990).
In altri termini, il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo.
Al riguardo, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto e attuale", essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A..
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi.
Inoltre, ai sensi dell'art. 24, comma 3, della legge n. 241 del 1990: "Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni".
Anche nel caso di accesso procedimentale ai sensi dell’art. 10 della citata legge (a mente del quale i soggetti destinatari dell’avviso di avvio del procedimento hanno diritto a prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall’art. 24 cit.) deve sussistere un necessario collegamento tra i documenti richiesti e il procedimento avviato.

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Come affermato dalla giurisprudenza l’accertamento del diritto di accesso ai sensi dell’art. 22 (o dell’art. 10) della legge n. 241/1990 ossia del “diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi” è cosa diversa dal diritto della generalità dei cittadini alla più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione che si realizza tramite la pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti e che è disciplinata dal d.lgs. n. 33/2013.
I due istituti (accesso ai sensi della legge n. 241/1990 e accesso civico ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013) operano, pertanto, su piani distinti avendo diversi presupposti e disciplina.
Nella fattispecie, parte ricorrente ha deciso con la propria domanda di avvalersi dell’accesso “tradizionale” e non dell’accesso civico e non può in questa sede invocare le disposizioni in materia di obblighi di pubblicazione.
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La ricorrente (Te. coop. soc. in proprio e quale mandataria dell’ATI con la AI. coop. soc.) ha impugnato i provvedimenti con i quali il Comune di San Giorgio a Cremano ha negato l’accesso agli atti richiesti con le note del 18 marzo, 25 marzo e 01.04.2016.
Premette la ATI ricorrente di essere affidataria della gestione di alcuni servizi sociali nel territorio del Comune di San Giorgio a Cremano e di essere subentrata nella gestione dei servizi in questione (e non anche nel contratto) alla ATI formata dal Consorzio Ge. e coop. Mi. a seguito della revoca a quest’ultima ATI dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto per irregolarità contributive emerse prima della sottoscrizione del contratto; e che:
- con nota del 07.03.2016 il Comune avviava nei suoi confronti il procedimento di risoluzione del contratto stipulato per presunte irregolarità nella modalità di fatturazione dei servizi (in particolare, sarebbero state fatturate delle ore non effettivamente prestate);
- in sede di partecipazione al procedimento spiegava che le ore in più corrispondevano al computo di quelle effettuate dal personale amministrativo (sempre nell’ambito dei servizi assistenziali) e di quelle inerenti ad altri servizi connessi (quali i trasporti);
- il Comune riteneva le osservazioni non condivisibili affermando che le modalità di fatturazione in questione si ponevano in contrasto con quanto prescritto nel contratto e nel relativo capitolato speciale;
- con istanza di accesso del 16.03.2016 chiedeva una serie di atti tra i quali i documenti amministrativi e contabili relativi alla precedente gestione del servizio;
- tale domanda veniva respinta in data 18.03.2016 dal Comune il quale rilevava il mancato rispetto delle procedure stabilite dal regolamento comunale in materia di accesso ed, in particolare, l’omessa sottoscrizione dell’istanza da parte del rappresentante legale dell’ente;
- in data 22.03.2016 veniva reiterata la domanda di accesso a firma di Ro.Ce.;
- il Comune, con nota del 25.03.2016, nel negare l’accesso per l’insufficiente enucleazione dell’interesse all’ostensione degli atti e per la genericità della richiesta comportante un’onerosa attività di reperimento ed elaborazione dati, rilevava che la domanda era stata sottoscritta da un soggetto diverso dall’attuale rappresentante legale dell’ATI Teseo/AIDO;
- in data 01.04.2016, preso atto dell’errore nella sottoscrizione della domanda di accesso, la stessa veniva reiterata e firmata dall’attuale rappresentate legale dell’ATI;
- in riscontro il Comune con nota del 04.04.2016 rilevava ancora una volta il mancato rispetto delle disposizioni in materia di accesso dettate dalla normativa statale e comunale (indicazione della qualità del richiedente, trasmissione del documento di identità, enucleazione dell’interesse a ottenere copia degli atti e loro puntuale specificazione) e, dunque, non consentiva la presa visione degli atti.
Ritenendo illegittimo il diniego di accesso opposto dal Comune la ricorrente ha intrapreso il presente giudizio volto all’accertamento del proprio diritto a ottenere copia dei documenti richiesti.
Si è costituito per resistere il Comune di San Giorgio a Cremano.
Alla camera di consiglio del 14.09.2016 la causa è stata trattenuta in decisione.
Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
Con l’istanza di accesso del 01.04.2016 (che sostituisce per stessa dichiarazione dell’istante quelle precedentemente inviate non correttamente sottoscritte) la ricorrente ha chiesto al Comune di San Giorgio a Cremano di poter estrarre “copia di tutti i documenti contabili ed amministrativi relativi alla gestione del servizio in oggetto negli anni passati e cioè dei documenti contabili ed amministrativi riferiti alla precedente gestione del Consorzio Ge. nonché a quella del Consorzio Ic.. In particolare…di tutte le fatture presentate dai suddetti operatori economici, nonché dei rendiconti del monte orario rispettato nonché delle delibere ed impegni di spesa così come relativi alla remunerazione dei servizi de quibus, ai bilanci dell’Ente nonché di ogni altro documento amministrativo e contabile dal quale possa evincersi la modalità di fatturazione dei servizi effettuati ovvero il monte orario osservato in ordine agli specifici servizi”.
La richiesta è stata strutturata come “accesso procedimentale” ai sensi dell’art. 10 della legge n. 241 del 1990, dunque relazionata all’avvio da parte del Comune, in data 07.03.2016, del procedimento di risoluzione del contrato stipulato per la gestione di “servizi plurimi alla persona” per un “surplus di ore fatturate rispetto a quelle effettivamente rese e rendicontate” (cfr. comunicazione esito controllo – rendicontazione anno 2015 del 15.02.2016) in contrasto con quanto stabilito nel contratto e nel relativo capitolato speciale di appalto.
Ritenendo che i precedenti gestori del servizio (Consorzio Ge. o più precisamente la relativa ATI e Consorzio Ic.) adottassero identiche modalità di fatturazione delle prestazioni rese l’istante ha chiesto, come visto, di prendere visione oltre che dei bilanci e degli impegni di spesa dell’ente anche di tutti i documenti contabili e amministrativi relativi alla gestione del servizio negli anni precedenti ivi incluse tutte le fatture e i rendiconti presentati al Comune dai suddetti soggetti.
Il Comune a prescindere dalle presunte irregolarità formali della domanda di accesso ha ritenuto non sufficientemente enucleato da parte dell’istante l’interesse a conoscere la documentazione in questione.
Il Collegio ritiene che la posizione del Comune sia condivisibile.
L’accesso ai documenti amministrativi richiede ai fini dell’accoglimento della relativa domanda la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso” (così l'art. 22 della legge n. 241/1990).
In altri termini, il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo (cfr. da ultimo Cons. St. Ad. Plen. 7/2012).
Al riguardo, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto e attuale", essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento. L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A..
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi (cfr. TAR Roma-Lazio, sez. II, 01.12.2011, n. 9461).
Inoltre, ai sensi dell'art. 24, comma 3, della legge n. 241 del 1990: "Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni".
Anche nel caso di accesso procedimentale ai sensi dell’art. 10 della citata legge (a mente del quale i soggetti destinatari dell’avviso di avvio del procedimento hanno diritto a prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall’art. 24 cit.) deve sussistere un necessario collegamento tra i documenti richiesti e il procedimento avviato.
Nella fattispecie, tale collegamento, per la prospettazione recata nella domanda di accesso, non è ravvisabile.
L’ATI ricorrente gestisce il servizio in questione in virtù di un contratto stipulato in data 14.03.2014. Non risulta dall’istanza di accesso che i precedenti gestori del servizio (ATI Ge.–Mi. e Consorzio Ic.) operassero alle medesime condizioni contrattuali essendo pacificamente differente la fonte che ne regolava il rapporto (cfr. sul punto la difesa comunale). La stessa ricorrente afferma nell’istanza di essere subentrata nella gestione del servizio (a seguito della revoca dell’affidamento definitivo dell’appalto all’ATI Ge.-Mi.) ma non nel contratto.
Non si comprende dall’istanza e in assenza di specificazioni sul punto, come le fatture, i rendiconti ed in generale la documentazione contabile dei precedenti gestori del servizio possano ricollegarsi alla posizione sostanziale dell’ATI ricorrente alla quale sono state contestate delle sovrafatturazioni in relazione al contratto da essa sottoscritto.
In applicazione delle richiamate coordinate, normative e giurisprudenziali, deve ritenersi che l’istanza per come formulata, evidenzia una finalità sostanzialmente esplorativa diretta a un controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione nel settore in questione. La ricorrente, infatti, non ha fatto emergere con sufficiente chiarezza quale sia l’interesse conoscitivo che si pone in rapporto di collegamento qualificato con la posizione azionata di soggetto al quale è stato contestato un inadempimento contrattuale.
Altrettanto immotivata è la richiesta di ottenere copia delle delibere ed impegni di spesa e dei “bilanci dell’ente”. Risulta al riguardo inconferente la censura di violazione degli obblighi di pubblicazione stabiliti dal decreto legislativo n. 33/2013 in quanto la domanda di accesso di cui è causa è stata formulata ai sensi della legge n. 241 del 1990.
Come affermato dalla giurisprudenza l’accertamento del diritto di accesso ai sensi dell’art. 22 (o dell’art. 10) della legge n. 241/1990 ossia del “diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi” è cosa diversa dal diritto della generalità dei cittadini alla più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione che si realizza tramite la pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti e che è disciplinata dal d.lgs. n. 33/2013 (cfr. C.d.S. n. 5515/2013).
I due istituti (accesso ai sensi della legge n. 241/1990 e accesso civico ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013) operano, pertanto, su piani distinti avendo diversi presupposti e disciplina. Nella fattispecie, parte ricorrente ha deciso con la propria domanda di avvalersi dell’accesso “tradizionale” e non dell’accesso civico e non può in questa sede invocare le disposizioni in materia di obblighi di pubblicazione.
In conclusione, in assenza di ulteriori specificazioni, risulta abnorme e sproporzionata la richiesta di tutti i documenti contabili e le fatture dei precedenti gestori del servizio.
Come evidenziato dalla giurisprudenza l'interesse dell'istante alla conoscenza dei documenti amministrativi deve essere necessariamente comparato con altri interessi rilevanti, fra cui quello dell’amministrazione a non subire eccessivi intralci nella propria attività gestoria, garantita anche a livello costituzionale; sì che, anche per tale aspetto, il fine di generale verifica dell'attività amministrativa resta estraneo alla finalità per la quale risulta legislativamente previsto lo specifico strumento dell'accesso (Consiglio Stato, sez. IV, 26.11.2009, n. 7431).
Da quanto precede deriva che il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 30.09.2016 n. 4508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIGiova ricordare che l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990 richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24 c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
Alla luce di tale contesto normativo, è stato osservato che “il diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita così che la domanda giudiziale tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l’anzidetta situazione ma anche dall’eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe proporre una volta conosciuti gli atti”.
A quanto sopra consegue che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso medesimo e, quindi, la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante.
Va, ancora ricordato che l’art. 22, co. 2, della legge n. 241 del 1990, (come novellato dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 10 della legge 18.06.2009, n. 69) conferisce al “diritto” di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, valore di “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”.
Come già osservato in ambito giurisprudenziale, il diritto di accesso vale, dunque, sì a tutelare interessi individuali di ampiezza tale da riscontrare solo il limite della giuridicità ma –nel contempo– è collegato ad una riforma di fondo dell’Amministrazione, ispirata a principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e della trasparenza dell’azione amministrativa, la quale costituisce “principio generale” inserito a livello comunitario nel più generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e alla attività soggettivamente amministrativa, quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi ed illegalità, principio questo che trova oggi un’ampia conferma nelle recenti modifiche che hanno riguardato la trasparenza amministrativa e il diritto dei cittadini a conoscere di cui all’art. 7 della legge n. 124/2015 e all’art. 5 del d.lgs. 97/2016.
Il Collegio ha ben presente anche che la disposizione di cui all’art. 22, comma 2, della legge n. 241 del 1990, pur riconoscendo il diritto di accesso a “chiunque vi abbia interesse”, non ha tuttavia introdotto alcun tipo di azione popolare diretta a consentire un qualche controllo generalizzato sulla Amministrazione, tant’è che ha contestualmente definito siffatto interesse come finalizzato alla “tutela” di “situazioni giuridicamente rilevanti”.
In altre parole, è da ritenere oramai indiscusso che, ai fini dell’accesso agli atti, il soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non emulativo, rivesta carattere “personale e concreto”, ossia “ricollegabile alla persona dell’istante da uno specifico rapporto. In sostanza, occorre che il richiedente intenda poter supportare una situazione di cui è titolare, che l’ordinamento stima di sua meritevole tutela”, con la conseguenza che “non è sufficiente addurre il generico e indistinto interesse di qualsiasi cittadino alla legalità o al buon andamento dell’attività amministrativa”, bensì è necessario che il richiedente dimostri che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi “titolare” di “poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque a intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso, così come l’esercizio del secondo prescinde dalla prima”.

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Ciò posto, va innanzitutto premesso, quanto alla verifica della sussistenza dei presupposti per l’accesso, che deve in linea generale riconoscersi in capo al ricorrente, quale soggetto abitante in prossimità della sede in cui si svolgono le attività in contestazione (al civico 60, mentre le attività sono svolte ai civici 64/a e 64/D), la sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale ad accedere agli atti richiesti e cioè, in particolare, alle licenze rilasciate ai controinteressati al fine dell’esercizio delle attività relative alla produzione, imbottigliamento e vendita di vini, trattandosi di interesse collegato ad una situazione giuridicamente tutelata in capo al soggetto istante e connesso ai documenti richiesti.
Giova, infatti, ricordare che l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990 richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24 c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
Alla luce di tale contesto normativo, è stato osservato che “il diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita così che la domanda giudiziale tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l’anzidetta situazione (Cons. Stato, sez. VI del 12.04.2005 n. 1680) ma anche dall’eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe proporre una volta conosciuti gli atti (Cons. Stato, sez. VI, 21.09.2006 n. 5569)” (in tal senso Consiglio di Stato, sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
A quanto sopra consegue che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso medesimo e, quindi, la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante (ex multis Consiglio Stato sez. V 10.01.2007, n. 55; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 13.05.2015, n. 1271; TAR Umbria, 30.01.2013, n. 56).
Va, ancora ricordato che l’art. 22, co. 2, della legge n. 241 del 1990, (come novellato dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 10 della legge 18.06.2009, n. 69) conferisce al “diritto” di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, valore di “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”.
Come già osservato in ambito giurisprudenziale, il diritto di accesso vale, dunque, sì a tutelare interessi individuali di ampiezza tale da riscontrare solo il limite della giuridicità ma –nel contempo– è collegato ad una riforma di fondo dell’Amministrazione, ispirata a principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e della trasparenza dell’azione amministrativa, la quale costituisce “principio generale” inserito a livello comunitario nel più generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e alla attività soggettivamente amministrativa, quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi ed illegalità (TAR Lazio, sez. II-bis, n. 4909 dell’01/04/2015), principio questo che trova oggi un’ampia conferma nelle recenti modifiche che hanno riguardato la trasparenza amministrativa e il diritto dei cittadini a conoscere di cui all’art. 7 della legge n. 124/2015 e all’art. 5 del d.lgs. 97/2016.
Il Collegio ha ben presente anche che la disposizione di cui all’art. 22, comma 2, della legge n. 241 del 1990, pur riconoscendo il diritto di accesso a “chiunque vi abbia interesse”, non ha tuttavia introdotto alcun tipo di azione popolare diretta a consentire un qualche controllo generalizzato sulla Amministrazione, tant’è che ha contestualmente definito siffatto interesse come finalizzato alla “tutela” di “situazioni giuridicamente rilevanti”. (cfr., ex multis, C.d.S., Ad.Pl., 24.04.2012, n. 7; C.d.S., Sez. VI, 10.11.2015, n. 5111).
In altre parole, è da ritenere oramai indiscusso che, ai fini dell’accesso agli atti, il soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non emulativo, rivesta carattere “personale e concreto”, ossia “ricollegabile alla persona dell’istante da uno specifico rapporto. In sostanza, occorre che il richiedente intenda poter supportare una situazione di cui è titolare, che l’ordinamento stima di sua meritevole tutela”, con la conseguenza che “non è sufficiente addurre il generico e indistinto interesse di qualsiasi cittadino alla legalità o al buon andamento dell’attività amministrativa” (cfr. C.d.S., n. 5111 del 2015, già cit.), bensì è necessario che il richiedente dimostri che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi “titolare” di “poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque a intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso, così come l’esercizio del secondo prescinde dalla prima” (cfr., ex multis, TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 3941/2016; in conformità, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 28.01.2016, n. 521; TAR Lazio, Sez. II, 11.01.2016, n. 232; TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 4909/2015).
Ciò detto, la posizione del ricorrente che vive nelle immediate vicinanze degli immobili nei quali si svolge l’attività dei controinteressati, da cui originano i disagi che sono stati rappresentati e che non sono stati adeguatamente sconfessati né dagli stessi né dal Comune (il quale peraltro produce in atti solo 3 autorizzazioni rilasciate agli automezzi negli ultimi tre anni, pur a fronte dello svolgimento in maniera continuativa dell’attività delle ditte), consente di riscontrare in capo allo stesso la titolarità di una posizione qualificata e differenziata, idonea a comprovare la sussistenza dell’interesse prescritto dall’art. 22 della legge n. 241/1990 e a supportare in modo adeguato la richiesta di accesso.
L'interesse perseguito dal ricorrente, alla luce anche del delineato quadro giurisprudenziale, appare certamente meritevole di tutela, in quanto personale e concreto, non emulativo né riconducibile a mera curiosità, ovvero, infine, in contrasto con il diritto alla riservatezza dei terzi.
Né può ritenersi in particolare che l’istanza prodotta sia preordinata a un controllo generalizzato dell’attività dell’amministrazione comunale tenuto conto che il ricorrente intende avere copia delle autorizzazione rilasciate nel 1980 e nel 2003 al fine di sapere che tipo di attività (e in quali termini) ai controinteressati è consentito esercitare, non venendo così in gioco alcuna ingerenza nell’attività amministrativa.
Tra l’altro i documenti che il ricorrente vuole conoscere sono stati perfettamente individuati dallo stesso e quelli indicati al punto 3 dell’istanza di cui sopra non involgono una attività provvedimentale per il Comune ma solo eventualmente l’obbligo di esibire altre licenze o autorizzazioni succedutesi nel tempo, sempre riguardanti l’attività dei controinteressati e inerenti le autorizzazioni indicate ai punti 1 e 2 dell’istanza medesima, nel caso dovessero esistere e delle quali il ricorrente non è in grado di conoscere numero e data di rilascio. Trattasi, peraltro, di richiesta sufficientemente circostanziata, tanto da non poter essere considerata generica.
Alla luce delle svolte considerazioni, quindi il ricorso va accolto e per l’effetto deve essere annullato il diniego espresso del Comune e accertato il diritto del ricorrente ad accedere ai documenti richiesti con l’istanza del 18.01.2016 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 30.09.2016 n. 4505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELa variante al piano regolatore generale impositiva del vincolo alla realizzazione dell'interporto, quale progetto sostanziante un'iniziativa pubblica la cui realizzazione è rimessa unicamente alla società ricorrente concessionaria, non ha natura conformativa generale, bensì concreta un vincolo particolare, incidente su beni determinati in funzione della puntuale localizzazione dell'opera
Sicché si è in presenza di un vincolo sostanzialmente preordinato all'espropriazione, dal quale deve prescindersi (cfr. art. 5-bis cit., poi recepito dagli artt. 32 e 37 T.U.) ai fini della qualificazione dell'area ablata per gli effetti indennitari ed il parametro legale di tale qualificazione va conseguentemente individuato nello strumento previgente (che qualificava l'area in questione come agricola).

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2. Con l'unico motivo di ricorso l'Interporto Regionale della Puglia s.p.a. denuncia «violazione ed erronea applicazione dell'art. 37 d.P.R. 08.06.2001, n. 327 e s.m.i. Omessa applicazione dell'art. 16 legge 22.10.1971, n. 865. Violazione dell'art. 360 n. 3 c.p.c.».
2.1. La società ricorrente esplicitamente limita (p. 5 del ricorso) la censura «unicamente ai capi di sentenza concernenti la determinazione dell'indennità di espropriazione ed occupazione in relazione alla particella 649 e la determinazione dell'indennità di occupazione in relazione alla particella 648 limitatamente alla porzione di superficie di cui è stata (erroneamente) dichiarata la natura edificatoria legale», aree —come più sopra richiamato— destinate dal piano regolatore generale ad "attrezzature tecnologiche".
2.2. Così delimitata la doglianza, in ordine ad essa la Corte distrettuale —muovendo dalla natura non edificatoria della parte dell'area di cui alla particella 648 destinata ad "area di rispetto ai principali assi di comunicazioni stradali e ferroviarie" e dall'accertata destinazione dell'altra parte dell'area di cui alla predetta particella 648, nonché dell'intera area di cui alla particella 649, ad "area d'uso delle attrezzature di servizio pubbliche e private carattere regionale urbano: aree per le attrezzature tecnologiche"— ha ritenuto, aderendo alle conclusioni della consulenza tecnica di ufficio, la natura edificatoria di dette aree, posto che «le norme tecniche d'attuazione prescrivono che su di esse è ammessa la costruzione d'impianti, relativi alloggi di custodia attinenti al settore dei trasporti urbani, sia pubblici che privati, compresi i nodi di scambio come autoporti etc., attinenti al settore della produzione trasformazione di energia quali centrali termiche etc., nonché il settore della radiodiffusione, telefonico, della fognatura, del trattamento dei rifiuti, dell'allontanamento e trattamento dei liquami, etc. Per tali costruzioni va osservato un rapporto di copertura non superiore al 40% dell'area e vanno garantiti parcheggi e strade di servizio in misura non inferiore al 30% dell'area» (p. 6 della sentenza).
Conseguentemente, la Corte di appello ha ragguagliato le indennità di esproprio e di occupazione per dette aree al valore di mercato.
2.3. Deduce, di contro, la ricorrente che, nella specie, essendo stata modificata la destinazione urbanistica delle aree in esame (da agricole ad aree per attrezzature tecnologiche) in virtù di variante adottata con l'approvazione del progetto generale e del primo stralcio funzionale dell'interporto, recante dichiarazione di pubblico interesse e pubblica utilità dell'intero intervento, si sarebbe determinata l'imposizione di uno specifico vincolo funzionale all'attuazione dell'interporto, interamente affidata ad un unico soggetto (la società Interporto Regionale della Puglia), sicché si tratterebbe di «variante urbanistica impositiva di un vincolo a contenuto essenzialmente espropriativo» (p. 7 del ricorso), del tutto ininfluente ai fini indennitari.
3. Il motivo è fondato.
3.1. La censura concerne la ricognizione giuridica di parte delle aree ablate operata dalla Corte territoriale che per le particelle 648 e 649 —sì come individuate nei sensi precisati al precedente punto 2.1.— ne ha ritenuto  la natura edificatoria.
3.2. Al riguardo —e come recentemente ricapitolato da questa Sezione con la sentenza 24.02.2016, n. 3620—
sussiste una normativa specifica introdotta dall'art. 5-bis della legge 08.08.1992, n. 359 ed oggi recepita dagli artt. 32 e 37 del d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. espropriazioni per pubblica utilità), secondo la quale ai fini indennitari si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento del decreto di esproprio (art. 5-bis, comma 3, legge n. 359 del 1992; artt. 32, comma 1, e 37, comma 3, T.U.).
Per il successivo comma 4 dell'art. 37 T.U., premessa la ininfluenza dei vincoli espropriativi,
non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l'area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa statale e regionale o alle previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del territorio, ivi compreso, tra gli altri, il piano regolatore generale, ovvero in base ad un qualsiasi altro piano o provvedimento che abbia precluso il rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata.
3.3. Alla luce di questo quadro legislativo specifico,
non può dubitarsi che il sistema di ricognizione e valutazione degli immobili che ne discende li suddivide in base al binomio edificabilità-non edificabilità, dove questo secondo termine contrassegna tutti i beni cui non possa riconoscersi il parametro dell'edificabilità secondo l'accezione legale del termine, che corrisponde alle prescrizioni della disciplina urbanistica, e che detto sistema ha prescelto quale unico criterio per individuarne l'appartenenza all'una o all'altra categoria, quello dell'edificabilità legale, riconosciuta cioè direttamente ed esclusivamente dalla legge o, per essa, dagli strumenti urbanistici generali.
Tale edificabilità legale si riferisce esclusivamente —come confermato dalla conclusiva indicazione del comma 4 dell'art. 37 del T.U., che considera espressamente inedificabili i terreni gravati da un relativo vincolo che precluda il rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata— alla estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero all'edilizia privata esprimibile dal proprietario dell'area: in tal modo restando escluso che la previsione di interventi unicamente finalizzati alla realizzazione dello scopo pubblico per cui si rende necessario l'esproprio conferisca natura fabbricativa ai terreni, poiché lo stesso attiene al diverso concetto di edificabilità pubblica che discende dal sistema stesso della suddetta legislazione, in cui l'edilizia esplicabile per edifici e impianti ha una disciplina diversa dai limiti posti all'esplicazione delle facoltà dominicali, com'è desumibile dalla legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quater (si v., tra le altre, Sez. I, 06.04.2012, n. 5631).
3.4. Ora,
se è vero che, secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 17911999), non sono espropriativi «i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata», è pur vero che tale esclusione comporta secondo la Consulta la sola conseguenza che i vincoli suddetti non siano soggetti alla decadenza quinquennale di cui all'art. 2 legge n. 1187 del 1968 (perciò non provocando la situazione delle c.d. aree bianche di cui all'art. 4 legge n. 10 del 1977). Laddove la citata Cass. n. 5631/2012 ha precisato che «un'area va ritenuta edificabile soltanto se, e per il solo fatto che, come tale, essa risulti classificata al momento della vicenda ablativa dagli strumenti urbanistici, secondo un criterio di prevalenza o autosufficienza della edificabilità legale» e che «le possibilità legali di edificazione vanno di conseguenza escluse tutte le volte in cui lo strumento urbanistico vincoli concretamente la zona ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità, zona di rispetto ecc.): perciò comprendente non soltanto opere pubbliche, ma anche interventi ed attrezzature di interesse generale che, seppur non destinati direttamente a scopi dell'amministrazione, siano idonei a soddisfare bisogni della collettività; inerente al diverso concetto d'edificabilità pubblica che discende dal sistema stesso della legge urbanistica, in cui l'edilizia esplicabile per edifici e impianti ha una disciplina diversa dai limiti posti all'esplicazione delle facoltà dominicali (L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quater). E conclusivamente caratterizzato dal presupposto oggettivo che l'intervento (o il manufatto) sia destinato a servire un interesse generale (Cass. 665/2010; 400/2010; 21396/2009; 21095/2009; 17995/2009), nonché da quello di natura soggettiva che debba essere realizzato ad iniziativa pubblica o di soggetto istituzionalmente competente a realizzare opere pubbliche (Cass. 11322/2005).
Pertanto
a nulla rileva che lo stesso sia attuato dall'amministrazione direttamente o attraverso la partecipazione privata ed in tal caso avvalendosi di strumenti pubblicistici, quali concessioni di ogni tipo, affidamenti, programmazioni ecc. o, per converso privatistici, quali appalti, convenzioni, partecipazioni associative ed altro, né tanto meno le tipologie di strutture da costruire, la presenza di manufatti accessori e complementari, le prescrizioni (volumi, altezze, indici, limitazioni ecc.), le integrazioni e le altre modalità esplicative da osservare per la loro esecuzione il più delle volte disciplinate dagli strumenti di attuazione (che essendo strumenti di terzo livello in nessun caso potrebbero derogare quelli generali sovraordinati): essendo decisivo e determinante per la classificazione non edificatoria di dette aree il collegamento funzionale della destinazione impressa con taluno di detti utilizzi e scopi pubblicistici, i quali apportano un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione e che sono, come tali, soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia. (...)
Si è osservato, infine, che
lo strumento urbanistico, titolare al riguardo di ampia discrezionalità, seppur in via eccezionale può attribuire ad una zona utilizzazioni non soltanto pubblicistiche nei termini avanti specificati, ma introdurre nell'ambito di essa, anche mediante la costituzione di una sottozona, una destinazione promiscua pubblico-privata o realizzabile anche ad iniziativa privata. Perché ricorra tale ipotesi che rende l'area nuovamente edificabile non è tuttavia sufficiente che l'intervento pubblico (strada, ferrovia, edificio pubblico, ecc.) sia realizzabile in linea astratta anche ad iniziativa privata: dovendo ciò essere il risultato, secondo la Consulta, di una scelta di politica programmatoria ricorrente solo quando gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l'iniziativa economica privata — pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento; e perciò devolvendosi esclusivamente a ciascuno strumento urbanistico il potere di stabilire espressamente se, per quali categorie di opere ed in quali zone le stesse possano venire realizzate "anche attraverso l'iniziativa economica privata" (Cass. 2505/2010 cit.; 21095/2009 cit.; 15616/2007; 15389/2007)
».
3.5. La Corte di appello non si è attenuta a questi consolidati principi.
In disparte la considerazione —pur non secondaria alla luce del percorso motivazionale della Corte territoriale (cfr. p. 6 della sentenza, riportata al precedente punto 2.2.)— che l'art. 37, comma 4, T.U. espropriazioni incentra l'insussistenza delle possibilità legali di edificazione proprio sui vincoli generali ed astratti posti dal piano regolatore generale, senza riconoscere per contro alcuna rilevanza alle prescrizioni delle norme tecniche di attuazione, la cui modesta funzione, desumibile dalla loro stessa denominazione, è sempre e soltanto servente rispetto alle destinazioni programmatiche del piano regolatore generale, con esclusione, dunque, per tali norme di terzo livello, gerarchicamente subordinate al piano, di ogni discrezionalità al fine di modificare la qualificazione urbanistica della zona (Cass. n. 3620/2016 citata), la Corte di appello non ha tenuto presente l'insegnamento di Cass., Sez. Un., n. 173/2001:
la variante al piano regolatore generale impositiva del vincolo alla realizzazione dell'interporto, quale progetto sostanziante un'iniziativa pubblica la cui realizzazione è rimessa unicamente alla società ricorrente concessionaria, non ha natura conformativa generale, bensì concreta un vincolo particolare, incidente su beni determinati in funzione della puntuale localizzazione dell'opera (si v. Cass. n. 404/2010), sicché si è in presenza di un vincolo sostanzialmente preordinato all'espropriazione, dal quale deve prescindersi (cfr. art. 5-bis cit., poi recepito dagli artt. 32 e 37 T.U.) ai fini della qualificazione dell'area ablata per gli effetti indennitari ed il parametro legale di tale qualificazione va conseguentemente individuato nello strumento previgente (che qualificava l'area in questione come agricola) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 28.09.2016 n. 19193).

EDILIZIA PRIVATA: La declaratoria di decadenza del permesso di costruire costituisce un provvedimento avente carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio o completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15 comma 2 del DPR n. 380/2001 (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire.
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L’assunto difensivo non merita positivo apprezzamento.
Successivamente al rilascio del permesso di costruire n. 1157/2011, avvenuto in data 28.09.2011, con apposita comunicazione (prot. n. 94483) il ricorrente riferiva al Comune che i lavori di cui al suindicato permesso di costruire avrebbero avuto inizio in data 08.10.2010, sennonché, in base alle informazioni rese con il verbale di sopralluogo eseguito dai tecnici comunali in data 31/10/2012, si evince che alla medesima data non risultava realizzata alcuna opera finalizzata all’effettivo inizio dei lavori riguardante la realizzazione del fabbricato di cui al suindicato permesso.
Questo sta a significare che nella specie risultava inutilmente decorso il termine annuale previsto dall’art. 15, secondo comma, del DPR n. 380/2001 entro cui occorre dare inizio ai lavori, il che imponeva al Comune di procedere, come poi avvenuto, all’adozione del provvedimento di decadenza della citata autorizzazione ad aedificandum.
E’ il caso in proposito di rammentare che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire costituisce un provvedimento avente carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio o completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15, comma 2, del DPR n. 380/2001 (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire (cfr. Cons. Stato Sez. IV 23/02/2012 n. 974; idem n. 2915/2012), sicché nella specie a seguito dell’intervenuto accertamento sopra menzionato non restava al Comune, in doverosa applicazione della regula iuris suindicata, che dichiarare la decadenza del permesso di costruire n. 1157/2011, appunto per mancato inizio dei lavori nel termine di legge.
Né al riguardo può ritenersi inizio dei lavori la realizzazione di un muro di cemento armato a contenimento di terreni franati, pure addotta dalla parte appellante a sostegno della tesi dell’avvenuta osservanza del termine annuale di cui sopra.
Invero detto muro di contenimento è stato oggetto di una specifica pratica edilizia, quella contrassegnata dal numero di protocollo n. 26553/A del 20/09/2011, del tutto diversa dalla pratica relativa alla progettato fabbricato ad uso abitativo (prot. n. 25297); va al riguardo tenuto altresì conto che, già in data 22.08.2011, il sig. Pe.An. unitamente ad altri interessati comunicava ai sensi dell’art. 21 del Regolamento Edilizio l’inizio dell’opera urgente a sostegno dei terreni franati, e cioè in epoca antecedente al rilascio del titolo edilizio per cui è causa per il quale l’inizio dei lavori è stato comunicato in data 08.10.2011.
Siamo, quindi, in presenza di un intervento, quello del muro, realizzato peraltro senza titolo abilitativo edilizio e paesaggistico, che riguarda un evento franoso occorso anzitempo rispetto alle opere assentite e che è finalizzato ad altre diverse opere, fermo restando che l’area interessata dalla nuova costruzione abitativa non risulta, in base agli accertamenti eseguiti, che sia stata oggetto di lavori in concreto rivolti a dare esecuzione al permesso di costruire n. 1157/2011.
Non si può parlare dunque di opera pertinenziale e propedeutica alla realizzazione del nuovo edificio; né, a mente delle disposizioni disciplinanti la materia (citato art. 15 DPR n. 380/2001), è stata presentata istanza di proroga del termine iniziale dei lavori, nel che si invera il presupposto di fatto e di diritto dell’istituto della decadenza del rilasciato titolo edilizio.
In forza delle suesposte considerazioni l’appello, in quanto infondato, va respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.09.2016 n. 4007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sconta il pagamento del contributo di costruzione la realizzazione del nuovo mercato agroalimentare all'ingrosso, adottata con una specifica variante al PRG di una vasta area del territorio comunale, laddove l’opera è stata dichiarata di pubblico interesse e la medesima, per le sue caratteristiche, è destinata a soddisfare bisogni di interesse generale (ancorché vada escluso che si tratti di un’opera di urbanizzazione secondaria.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito i presupposti dell'esenzione dal pagamento del contributo per il rilascio della concessione «per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici».
Invero, «secondo costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai fini del regime premiale di cui alla norma citata, è indispensabile accertare la sussistenza di due profili, uno di carattere soggettivo, l’altro oggettivo.
Sotto il primo aspetto, bisogna tenere conto delle specifiche qualità soggettive del richiedente il titolo abilitativo: alla luce, infatti, dell’evoluzione del concetto di pubblica amministrazione, inteso non più meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le amministrazioni formalmente previste e riconosciute come tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori individuali, società per azioni) che esercitino un’attività pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di longa manus della p.a.
Tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia legata a un interesse generale da un nesso di mera strumentalità.
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla base della sola destinazione che il titolare dell’opera intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non provocando un’evidente elusione del sistema normativo che prevede come regola generale, in un’ottica di corretto governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost., l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di stretta interpretazione».
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... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) della nota del Sindaco del Comune di Volla prot. n. 17817 del 16.11.99, recante intimazione al pagamento della somma di lire 8.222.814.785 a titolo di oneri di costruzione e di urbanizzazione dovuti per la realizzazione del nuovo mercato agroalimentare di Napoli – Volla, assentita con concessione edilizia n. 35 del 31.05.1999; e di tutti gli atti presupposti, preparatori, conseguenti e connessi;
- (quanto ai motivi aggiunti) della nota del Sindaco del Comune di Volla prot. n. 4171 del 27.03.2003, con la quale il Comune, “nelle more del giudizio davanti al TAR relativo agli oneri di urbanizzazione”, ha intimato alla ricorrente il pagamento della somma di € 1.160.565,06 quale “quota per il costo di costruzione” dovuta per concessione edilizia n. 35 del 31.05.1999; e di tutti gli atti presupposti, preparatori, conseguenti e connessi;
- nonché per l’accertamento del diritto della ricorrente all’attribuzione del beneficio dell’esclusione dal pagamento degli oneri concessori afferenti la concessione edilizia n. 35 del 31.05.1999 rilasciata dal Comune di Volla.
...
La società ricorrente contesta le richieste del Comune di Volla di pagamento degli oneri concessori per il rilascio della concessione edilizia n. 35 del 31.05.1999, con la quale sono stati assentiti i lavori di realizzazione del nuovo mercato agro alimentare all'ingrosso di Napoli e Volla, sostenendo che nulla sarebbe dovuto a tal titolo in virtù di quanto previsto dall'art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10/1977, valevole ratione temporis ed ora sostituito dall'art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
Contesta, inoltre, che l’omesso pagamento degli oneri concessori possa giustificare la sanzione della revoca della concessione edilizia e che la richiesta di pagamento dei medesimi rientri tra gli atti di competenza del Sindaco.
Il ricorso è fondato.
All’epoca del rilascio del titolo edilizio, la lettera f) dell’art. 9 della legge 28.01.1977, n. 10, escludeva il pagamento del contributo per il rilascio della concessione «per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici».
Una norma identica è contenuta adesso nel comma 3, lett. c), dell’art. 17 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
La giurisprudenza ha, da tempo chiarito, i presupposti di questa esenzione.
Come ancora di recente ricordato dal Consiglio di Stato, infatti, «secondo costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai fini del regime premiale di cui alla norma citata, è indispensabile accertare la sussistenza di due profili, uno di carattere soggettivo, l’altro oggettivo.
Sotto il primo aspetto, bisogna tenere conto delle specifiche qualità soggettive del richiedente il titolo abilitativo: alla luce, infatti, dell’evoluzione del concetto di pubblica amministrazione, inteso non più meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le amministrazioni formalmente previste e riconosciute come tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori individuali, società per azioni) che esercitino un’attività pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di longa manus della p.a.
Tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia legata a un interesse generale da un nesso di mera strumentalità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2014, nr. 3421; id., sez. V, 07.05.2013, nr. 2467; id., sez. IV, 02.03.2011, nr. 1332; id., sez. VI, 05.06.2007, nr. 2981).
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla base della sola destinazione che il titolare dell’opera intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non provocando un’evidente elusione del sistema normativo che prevede come regola generale, in un’ottica di corretto governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost., l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di stretta interpretazione
» (così C.d.S., sez. IV, 06.06.2016, n. 2394).
Nel caso di specie devono ritenersi ricorrenti entrambi i presupposti.
Per un verso, infatti, è rimasta incontestata da parte dell’amministrazione resistente la circostanza, diffusamente illustrata dalla ricorrente, che per la realizzazione del nuovo mercato agroalimentare all'ingrosso è stata adottata una specifica variante al Piano Regolatore Generale di una vasta area del territorio comunale, che l’opera è stata dichiarata di pubblico interesse e che la medesima, per le sue caratteristiche, è destinata a soddisfare bisogni di interesse generale (ma va escluso che si tratti di un’opera di urbanizzazione secondaria, tale qualifica essendo riservata ai mercati di quartiere: cfr. C.d.S., sez. IV, 11.02.2016, n. 595).
Sotto il profilo soggettivo, poi, la ricorrente società consortile si colloca in maniera agevole tra i beneficiari della norma, non solo per l’interpretazione funzionalistica fatta propria dal Giudice di appello, ma perché rientrante per legge tra i soggetti istituzionalmente competenti ad assumere l’iniziativa della realizzazione di mercati agroalimentari all’ingrosso (cfr. art. 5, comma 1, della legge 25.03.1959, n. 125, specificamente invocato dalla ricorrente).
In conclusione, per queste ragioni e assorbito quant’altro, deve essere accolto il ricorso e dichiarato, per l’effetto, il diritto della ricorrente all’attribuzione del beneficio dell’esclusione dal pagamento degli oneri concessori afferenti la concessione edilizia n. 35 del 31.05.1999 rilasciata dal Comune di Volla (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 27.09.2016 n. 4447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se le autorimesse interrate pertinenziali non aggravano il carico urbanistico e non costituiscono opere rilevanti ai fini degli standards urbanistici, tale principio può essere condiviso nella misura in cui (come si intuisce dal richiamo al regime pertinenziale) le autorimesse afferiscono ad una presenza antropica già in essere, ma non nei casi in cui si realizzano strutture che da ciò prescindono e che, per la loro stessa natura, entità ed utilizzazione, comportano un ulteriore carico urbanistico e la necessità di nuova pianificazione della viabilità.
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2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Con la sentenza 21.04.2009 n. 2416, questa Sezione ha già avuto modo di esaminare (proprio giudicando di un precedente appello della società Ci. riferito alla realizzazione di una più ampia opera, comprensiva di una autorimessa interrata nella medesima zona) il contenuto e l’ambito applicativo dell’art. 24 delle NTA del PRG del Comune di Sanremo, affermando: “La previsione della necessità di uno strumento urbanistico attuativo per disciplinare l’insediamento di nuove attività suscettibili di aumentare in modo rilevante, o non equilibrato, il carico urbanistico in relazione alle esigenze della zona B3, costituisce un punto fermo della disciplina qui considerata e deve, pertanto, ispirare in una lettura organica ed oggettiva anche la interpretazione delle singole specifiche disposizioni transitorie e di dettaglio.
La dizione locali interrati, che sono assentibili in forza dell’ultimo comma dell’art. 24 delle NTA, inserita in questo contesto, non può essere interpretata in modo così ampio da comprendere insediamenti tali da pregiudicare le finalità degli strumenti attuativi che devono regolare lo sviluppo e la conservazione della zona in questione ... La norma derogatoria si inquadra in una disposizione che non consente in alcun modo nuove costruzioni o maggiori superfici o volumetrie e, quindi, in via principale, è diretta a consentire agli edifici esistenti la utilizzazione dei locali interrati per le finalità ordinarie che tali locali possono avere (destinazione a parcheggio, a deposito, a magazzino, ovvero ad aree per impianti tecnici e tecnologici), ma non alla realizzazione di nuove costruzioni che, lo si ribadisce, sono escluse nella zona B3. La stessa dizione utilizzata dalla norma transitoria (locali interrati e non edifici o costruzioni) depone in tal senso
”.
Il Collegio non ha ragione di discostarsi, nella presente sede, dalle considerazioni già espresse con la precedente decisione n. 2416/2009.
Ed infatti, con tale decisione per un verso si è condivisibilmente inteso dare una interpretazione delle norme contenute nell’art. 24 citato, la quale, in conformità all’art. 12 disp. att. cod. civ., lungi dal limitarsi al mero dato letterale, ha inteso inquadrare quest’ultimo nel più generale contesto logico-sistematico della disciplina urbanistica prevista (a regime ed in via transitoria) per le zone B del Comune di Sanremo.
Per altro verso, si è ritenuto che la deroga alla esigenza di previo strumento attuativo, riferita a “locali interrati” non possa applicarsi anche a progetti, come quello considerato, afferenti ad autorimesse di notevole entità volumetrica e cospicua utilizzazione.
In tal senso, appare evidente come, affermata dall’art. 24 l’esigenza dello strumento urbanistico attuativo per pervenire ad un riassetto delle singole zone (razionalizzando in modo equilibrato i pesi relativi alle destinazioni ammissibili, rivedendo le destinazioni in atto in ragione della loro compatibilità ed anche prevedendo e raccordando la viabilità secondaria con la principale), le deroghe ammesse in attesa di tale strumento di attuazione non possono che essere limitate e tali da non compromettere le finalità di pianificazione.
Né tale interpretazione può essere superata (come nella prospettazione dell’appellante):
- per il fatto che la nuova dizione delle NTA in itinere (“locali ad uso autorimessa, anche non pertinenziale”), deporrebbe in favore di una più ampia applicazione della deroga (pag. 12 app.);
- ovvero per il fatto che il nuovo progetto prevede un numero inferiore di posti auto nell’autorimessa (e solo questa).
Quanto al primo aspetto -ed in disparte ogni considerazione in ordine al fatto che non può comunque consentirsi, in pendenza di misure di salvaguardia ed a strumento urbanistico ancora non approvato, una applicazione “anticipata” delle disposizioni di quest’ultimo– occorre osservare che anche la nuova dizione, pur riferita espressamente all’uso “ad autorimessa” anche se “non pertinenziale” del locale, non consente di pervenire ad una diversa interpretazione dell’art. 24.
Ed infatti, ferma la necessità, secondo i canoni della corretta interpretazione della legge, di fornire una interpretazione “restrittiva” delle norme di eccezione (onde comprimere nel minor modo possibile l’ambito di applicazione della norma generale), appare evidente come la possibilità di realizzare locali interrati (anche ad uso di autorimessa non pertinenziale) risulta compatibile con le finalità di pianificazione secondaria nella misura in cui si tratti di rispondere a singole esigenze di migliore vivibilità dei cittadini già insediati nella zona, in modo da non comportare un nuovo e più oneroso carico urbanistico.
Ed in questo contesto, la “non pertinenzialità” dell’autorimessa afferisce semplicemente alla non immediata riconducibilità (secondo i principi civilistici) di questa alla proprietà dell’appartamento ubicato nel palazzo (o altro volume soprasuolo), sotto l’area di sedime del quale avviene la realizzazione del volume interrato; ma certamente non comporta una “irrilevanza” del carico urbanistico maggiore da questa eventualmente derivante.
Quanto al secondo aspetto, appare evidente come, in ragione di quanto sinora esposto, la diminuzione del numero dei posti auto dell’autorimessa (da 446 a 320) non è tale da consentire una applicazione dell’ultimo comma dell’art. 24, prescindendosi dalla previa pianificazione attuativa.
D’altra parte, se, come prospettato dalla parte appellante sulla scorta di (riportate) affermazioni giurisprudenziali, le autorimesse interrate pertinenziali non aggravano il carico urbanistico e non costituiscono opere rilevanti ai fini degli standards urbanistici, tale principio può essere condiviso nella misura in cui (come si intuisce dal richiamo al regime pertinenziale) le autorimesse afferiscono ad una presenza antropica già in essere, ma non nei casi in cui si realizzano strutture che da ciò prescindono e che, per la loro stessa natura, entità ed utilizzazione, comportano un ulteriore carico urbanistico e la necessità di nuova pianificazione della viabilità
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.09.2016 n. 3942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOL'art. 60 del dPR n. 3 del 1957, richiamato dall'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, sancisce che "l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del ministro competente". Il successivo art. 61 nel delimitare l'incompatibilità statuisce che "il divieto di cui all'articolo precedente non si applica nei casi di società cooperative (...)".
Il combinato disposto delle due norme pone in evidenza come l'esclusione della incompatibilità con riguardo alle società cooperative sia riferito all'assunzione della qualità di socio delle stesse e non alla prestazione di lavoro presso le medesime.
Poiché nella specie non si controverte della qualità di socio di una cooperativa ma di attività lavorativa prestata presso la stessa, la censura è infondata non essendo stabilita dal legislatore alcuna deroga, in proposito, al regime delle incompatibilità.

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2. Con il primo motivo di ricorso è prospettato il vizio di violazione di legge in riferimento all'art. 61 del dPR n. 3 del 1957, esenzione da incompatibilità per il lavoro prestato presso cooperative.
Ad avviso della ricorrente la normativa richiamata esclude ogni incompatibilità per i dipendenti pubblici che prestino attività lavorativa presso società cooperative.
2.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
L'art. 60 del dPR n. 3 del 1957, richiamato dall'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, sancisce che "
l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del ministro competente". Il successivo art. 61 nel delimitare l'incompatibilità statuisce che "il divieto di cui all'articolo precedente non si applica nei casi di società cooperative (...)".
Il combinato disposto delle due norme pone in evidenza come
l'esclusione della incompatibilità con riguardo alle società cooperative sia riferito all'assunzione della qualità di socio delle stesse e non alla prestazione di lavoro presso le medesime. Poiché nella specie non si controverte della qualità di socio di una cooperativa ma di attività lavorativa prestata presso la stessa, la censura è infondata non essendo stabilita dal legislatore alcuna deroga, in proposito, al regime delle incompatibilità.
3. Il secondo e il quarto motivo di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell'art. 360, n. 4 cpc, per violazione art. 132 n. 4, cpc, in relazione all'art. 111 Cost., nonché per omesso esame documenti. Violazione dell'art. 360, n. 5, cpc, per mancato esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Violazione dell'art. 360, n. 3, cpc, per errore nella sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta.
Assume la Bernabè che vi era stata da parte della lavoratrice una domanda di autorizzazione alla quale l'Amministrazione non aveva risposto, dando luogo, in tal modo, al formarsi del silenzio-assenso. Con lettera del 25.07.2005, infatti, aveva chiesto "l'autorizzazione per lo svolgimento di collaborazione come infermiera a sensi del DPGP n. 38-111/Leg. dd. 30.11.1998, successivamente modificato con DPGP n. 2-92/Leg. Dd. 17.01.2002, da svolgere presso le RSA". L'inoltro della lettera risultava anche dalla prova testimoniale.
La Corte d'Appello non aveva argomentato sulle conseguenze della esistenza di una domanda di autorizzazione di cui fosse controvertibile la sua conformità al modello legale, e sul fatto che l'amministrazione avesse lasciato decorrere il tempo necessario per il silenzio assenso, senza assumere una determinazione. Che la lettera contenesse domanda di autorizzazione si evinceva dall'esito della prova testimoniale (teste Ottaviano), nonché da quanto ritenuto dalla Corte d'Appello penale con la sentenza che aveva riguardato la Be., nonché dalla lettera di agosto dell'Amministrazione. Tali circostanze non avrebbero dovuto legittimare la decadenza.
3.1. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione dell'art. 360, n. 3, cpc, in relazione all'art. 61 del dPR n. 3 del 1957, all'arti, comma 60, della legge n. 662 del 1996, all'art. 53, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001. La ricorrente contesta la statuizione con la quale non si è dato rilievo alla suddetta richiesta di autorizzazione, atteso che la legge non specifica che la domanda debba avere le qualità di precisione burocratica che l'Azienda aveva preteso in causa. L'art. 53, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, come ricordato dal giudice penale, prevede che la domanda sia fatta dall'ente che utilizza il lavoratore e solo in via sussidiaria, volontaria e facoltativa, dal lavoratore stesso, per cui i riferimenti nella missiva di risposta potevano essere intesi dal lavoratore come autorizzazione.
Con lettera del 09.08.2005 l'Azienda informava la lavoratrice delle competenze a rilasciare l'autorizzazione, indicando il distretto competente all'istruzione della pratica (Distretto Alta Valsugana). Tale comunicazione veniva inviata anche al direttore di quest'ultimo Distretto, ove perveniva l'11.08.2005 (e non al 05.10.2005). Pertanto, il silenzio assenso si era già formato alla data della lettera del 18.10.2005 inviata dal Distretto Alta Valsugana, il cui contenuto interlocutorio è riportato in ricorso.
3.2. I motivi sono in parte inammissibili e in parte non fondati.
Occorre precisare che l'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, sempre in materia di incompatibilità, nel mantenere ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del dPR n. 3 del 1957, salvo alcune deroghe, ha stabilito, al comma 7 che "
i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi (...)".
Al comma 8, che "
le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi (...)".
Al comma 9 "
Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi (...)".
Come sancito dal comma 10, "
l'autorizzazione, di cui ai suddetti commi precedenti, deve essere richiesta all'amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati, che intendono conferire l'incarico; può, altresì, essere richiesta dal dipendente interessato. L'amministrazione di appartenenza deve pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta stessa. (...). Decorso il termine per provvedere, l'autorizzazione, se richiesta per incarichi da conferirsi da amministrazioni pubbliche, si intende accordata; in ogni altro caso, si intende definitivamente negata".
La Corte d'Appello, attesa la necessità di autorizzazione per lo svolgimento di un incarico presso terzi, rilevava che la sentenza penale richiamata dalla lavoratrice non poteva fare stato con riguardo al procedimento disciplinare in esame, in quanto aveva riguardato le prestazioni lavorative svolte nei confronti di un istituto terzo ed estraneo rispetto alla casa di cura "Villa Maria" di Lenzima, per cui era causa, e che quindi, andava condiviso il giudizio del Tribunale circa l'impossibilità di ravvisare nella documentazione in atti una qualsivoglia autorizzazione da parte del datore di lavoro alla dipendente per poter prestare attività lavorativa in favore di enti terzi.
Inoltre riteneva che la comunicazione inviata dalla Be. in data 25.07.2005, stante la assoluta genericità (l'infermiera non si era curata di indicare quali sarebbero stati gli enti presso i quali avrebbe voluto svolgere attività lavorativa, né tanto meno specificare le date e gli orari in cui avrebbe espletato questo lavoro), non poteva considerarsi domanda di autorizzazione, tanto che le risposte dell'Amministrazione riflettevano tale genericità, chiarendo alla istante modalità e tempi con cui la richiesta avrebbe dovuto essere svolta.
La comunicazione del 25.07.2005 poteva essere considerata una mera dichiarazione di intenti per il futuro e non una formale domanda in relazione ad uno specifico rapporto lavorativo.
Dunque, come correttamente e congruamente statuito dalla Corte d'Appello,
in mancanza di una richiesta di autorizzazione riferita ad una attività lavorativa individuata sia con riguardo al soggetto presso cui doveva essere svolta (attesa la genericità del mero riferimento a residenze assistenziali sanitarie, che, peraltro, possono avere forma giuridica pubblica o privato, con diverse conseguenze sul decorso del tempo, come stabilito dal citato comma 10 dell'art. 53, formandosi nel caso di soggetti privati, in caso di mancata risposta, il silenzio rigetto), sia alla durata dell'incarico, non poteva ritenersi accordata implicitamente alcuna autorizzazione per la prestazione dell'attività lavorativa, poi risultata essere stata svolta presso la casa di cura "Villa Maria" di Lenzima (la quale, peraltro, come si assume nel primo motivo sarebbe una cooperativa sociale e quindi con natura giuridica privata, in relazione a quanto previsto dal citato comma 10 dell'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001), oggetto del procedimento disciplinare, né poteva fare stato la sentenza penale relativa a una diversa prestazione lavorativa presso una diversa struttura.
E che la disciplina sulle incompatibilità e cumulo di impieghi e incarichi richieda che la domanda di autorizzazione deve essere specifica e circostanziata è confermato dalla verifica di insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi, che deve effettuare l'Amministrazione presso cui presta servizio il lavoratore (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 26.09.2016 n. 18861).

PUBBLICO IMPIEGOIn tema di danno da demansionamento, il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.
Tale pregiudizio non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.
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9. Con l'ottavo motivo di ricorso è dedotta violazione dell'art. 360, n. 4, cpc, in relazione all'art. 132, n. 4, cpc, e all'art. 111 Cost., dell'art. 360, n. 5, per mancato esame circa un fatto decisivo del giudizio.
E' censurata la statuizione che ha ritenuto che non sarebbe stata sufficientemente dimostrata la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cc, del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale, il che nella fattispecie era oggettivamente mancato.
Assume la lavoratrice che la Corte d'appello aveva dimostrato di non avere alcuna contezza dei documenti allegati, atteso i numerosi certificati medici inerenti alla patologia subita dalla Be. a causa dei problemi lavorativi. Il quantum poteva essere provato solo tramite la CTU chiesta e non ammessa.
La Apss trasferiva la Be. da un reparto di riabilitazione funzionale -quello di Villa Rosa in cui la stessa era inserita come rappresentante sindacale e facente funzioni di caposala- ai reparti psichiatrici della RSA e all'unità territoriale in cui veniva ritorsivamente vessata, ovvero lasciata priva di mansioni adeguate alla competenza acquisita, con danni, per danno alla salute e da demansionamento.
9.1. Il motivo non è fondato.
Nel richiamare la statuizione censurata "non sarebbe neppure sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cc del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale, il che nella fattispecie è oggettivamente mancato", la ricorrente omette di riportare l'altra parte della motivazione (pag. 9, seconda parte della sentenza di appello) conditio sine qua non di quest'ultima, e cioè "Pare alla Corte che non sia stata fornita alcuna seria prova del demansionamento e del conseguente danno e che la sentenza gravata, la quale ha dedicato ben 12 pagine a tali questioni (fornendo un'esauriente e condivisibile lettura dei singoli fatti e della vicenda complessiva con argomentazioni che questa Corte non può che condividere integralmente), non meriti le censure mosse dall'odierna appellante, fondate su una presunta erronea lettura delle prove testimoniali rimasta orfana di una seria indicazione alternativa circa il modo con il quale sarebbe stato corretto leggerle ed a cosa avrebbe potuto portare la loro esatta interpretazione".
Il mancato riconoscimento del danno da parte della Corte d'Appello, quindi, è conseguito alla mancanza della prova del demansionamento e degli intenti persecutori e antisindacali della datrice di lavoro, richiamandosi poi il principio secondo cui "
in tema di danno da demansionamento, il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale" (da ultimo, Cass., n. 1327 del 2015), e rilevandosi, infine, che, comunque, del danno e del nesso causale era mancata la prova.
La statuizione di rigetto della Corte d'Appello è fondata, quindi, su congrua e corretta motivazione, da cui discende anche la ragione della mancata disposizione di CTU, che non può supplire all'onere probatorio delle parti
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 26.09.2016 n. 18861).

PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione: non si può licenziare chi non invia certificato se la malattia è stata certificata dal medico fiscale.
La Suprema Corte ha chiarito che il lavoratore pubblico assente per malattia che non abbia provveduto all’invio del certificato di malattia non può essere licenziato qualora la sussistenza dello stato di malattia sia stato certificato dal medico di controllo.
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Deve essere considerato sproporzionato rispetto alla violazione e, quindi, illegittimo il licenziamento del dipendente comunale che si assenta per malattia senza inviare il certificato del medico del Ssn nazionale o di una struttura pubblica, nell’ipotesi in cui il lavoratore ha informato il datore di lavoro del suo stato e si è reso subito disponibile per una visita fiscale all’esito della quale è stata accertata la patologia.
Ai fini della legittimità dell’assenza per malattia, non è sufficiente che il lavoratore ne informi il datore di lavoro, ma il lavoratore deve attivare, rivolgendosi per l’accertamento del proprio stato di salute ad una struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, il procedimento di cui all’art. 55-septies, commi 1 e 2, che si conclude con l’inoltro (e la ricezione) della certificazione medica al datore di lavoro da parte dell’INPS.

L'art. 55-septies del d.lgs. n. 165 del 2001 al comma 1, ha sancito che «nell'ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare l'assenza viene giustificata esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale».
Dunque, il legislatore ha inteso porre a carico del lavoratore l'obbligo di attivarsi nei suddetti sensi, atteso che, come previsto dall'art. 55-quater, comma 1, lettera b, è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso in presenza di «assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione».
Parallelamente all'obbligo che grava sul lavoratore di rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato, potendo solo la certificazione rilasciata dagli stessi giustificare l'assenza per malattia, il legislatore (art. 55-septies, comma 2) ha stabilito che quest'ultimi provvedano ad inviare la certificazione per via telematica all'1NPS che, a sua volta, la inoltra immediatamente all'Amministrazione interessata. Anche l'inosservanza di tale obbligo di trasmissione costituisce illecito disciplinare.
Dunque non è sufficiente che il lavoratore informi il datare di lavoro dell'assenza per malattia, come avvenuto nella specie, ma il lavoratore deve attivare, rivolgendosi per l'accertamento del proprio stato di salute/malattia ad una struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, il procedimento di cui all'art. 55-septies, commi 1 e 2, che si conclude con l'inoltro (e la ricezione) della certificazione medica al datare di lavoro da parte dell'INPS.
Ed è alla mancanza di tale certificazione, che conforti la ragione della malattia quale causa dell'assenza, che l'art. 55-quater, comma 1, lettera b), riconduce il licenziamento senza preavviso.
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Su di un piano diverso si pone la visita fiscale, che nella ratio della legge n. 150 del 2009 non è alternativa alla certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, a cui deve rivolgersi il lavoratore.
Le Amministrazioni pubbliche, infatti, non sono più obbligate a procedere sempre alla cd. visita fiscale, ma (art. 55-septies, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001) «dispongono per il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri connessi all'effettuazione della visita, tenendo conto dell'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo».
Il controllo, infatti, è richiesto, in ogni caso, sin dal primo giorno, solo quando l'assenza si verifica nelle giornate precedenti o successive a quelle non lavorative.

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Deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
Questa Corte ha affermato che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
Quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma.
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3. Con il primo motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 55-quater, comma 1, lettera b), 55-septies, del d.lgs. n. 165 del 2001, per avere ritenuto che i certificati dei medici fiscali non rappresentassero valida giustificazione dell'assenza per malattia della ricorrente.
Assume la ricorrente che, essendo intervenuta visita fiscale, all'esito della quale veniva rilasciato certificato medico che confermava l'esistenza della patologia inabilitante al lavoro, e facendo parte i medici fiscali di una struttura sanitaria pubblica, la malattia era stata certificata secondo quanto previsto dall'art. 55-septies del d.lgs. n. 151 del 2001.
Erroneamente, quindi, la Corte d'Appello aveva affermato che il certificato del medico curante o della struttura sanitaria pubblica era l'unica documentazione giustificativa dell'impedimento del dipendente a recarsi al lavoro.
3.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Occorre rilevare che l'art. 55-septies del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dal decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, al comma 1, ha sancito che «nell'ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare l'assenza viene giustificata esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale».
Dunque, il legislatore ha inteso porre a carico del lavoratore l'obbligo di attivarsi nei suddetti sensi, atteso che, come previsto dall'art. 55-quater, comma 1, lettera b, è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso in presenza di «assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione».
Parallelamente all'obbligo che grava sul lavoratore di rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato, potendo solo la certificazione rilasciata dagli stessi giustificare l'assenza per malattia, il legislatore (art. 55-septies, comma 2) ha stabilito che quest'ultimi provvedano ad inviare la certificazione per via telematica all'1NPS che, a sua volta, la inoltra immediatamente all'Amministrazione interessata. Anche l'inosservanza di tale obbligo di trasmissione costituisce illecito disciplinare.
Dunque non è sufficiente che il lavoratore informi il datare di lavoro dell'assenza per malattia, come avvenuto nella specie, ma il lavoratore deve attivare, rivolgendosi per l'accertamento del proprio stato di salute/malattia ad una struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, il procedimento di cui all'art. 55-septies, commi 1 e 2, che si conclude con l'inoltro (e la ricezione) della certificazione medica al datare di lavoro da parte dell'INPS.
Ed è alla mancanza di tale certificazione, che conforti la ragione della malattia quale causa dell'assenza, che l'art. 55-quater, comma 1, lettera b), riconduce il licenziamento senza preavviso.
Su di un piano diverso si pone, dunque, la visita fiscale, che nella ratio della legge n. 150 del 2009 non è alternativa alla certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, a cui deve rivolgersi il lavoratore.
Le Amministrazioni pubbliche, infatti, non sono più obbligate a procedere sempre alla cd. visita fiscale, ma (art. 55-septies, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001) «dispongono per il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri connessi all'effettuazione della visita, tenendo conto dell'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo». Il controllo, infatti, è richiesto, in ogni caso, sin dal primo giorno, solo quando l'assenza si verifica nelle giornate precedenti o successive a quelle non lavorative.
Correttamente, quindi, la Corte d'Appello ha escluso che i referti medici fiscali non potevano costituire valida giustificazione alla assenza per malattia della Bu..
4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 22105, 2016 cc, nonché degli artt. 55 e 55-quater del d.lgs. 165 del 2001, per avere ritenuto che la ricorrente fosse consapevole della necessità di munirsi di certificato del medico curante e per aver ritenuto il giudice di non potere sindacare la proporzionalità del licenziamento inflitto.
Assume la ricorrente che persiste la discrezionalità del giudice, dovendosi valutare la gravità oggettiva e soggettiva dell'inadempimento anche nel caso in esame, verificando in concreto la gravità del fatto addebitato, in particolare con riguardo ai motivi del comportamento e alle circostanze in forza delle quali lo stesso è stato posto in essere, tenuto conto anche delle norme e dei principi generali di buona fede e correttezza. Nella specie, la ricorrente assolveva all'obbligo di comunicare la propria assenza per malattia e si era resa reperibile alla immediata visita del medico fiscale.
4.1. Il motivo è fondato e deve essere accolto.
Come più volte affermato da questa Corte (Cass., n. 22798 del 2012), deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
Questa Corte, inoltre, ha affermato che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma (Cass. n. 6498 del 2012).
Ciò precisato, deve rilevarsi che nella specie, ritenendo legittima la sanzione espulsiva, escludendo di dover vagliare la sussistenza della proporzionalità alla luce delle circostanze concrete —quali la circostanza che la visita fiscale era intervenuta, e in un breve arco di tempo, dopo al comunicazione, e che la malattia era risultata effettivamente sussistente— la Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza richiamata (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 26.09.2016 n. 18858).

EDILIZIA PRIVATA - VARIBancomat a misura di disabile.
Obbligatorio il bancomat a misura di disabile. L'agenzia dell'istituto di credito deve adeguare lo sportello in modo che possa beneficiare del servizio anche chi è costretto sulla sedia a rotelle. E ciò perché, quando è la legge a imporre l'accessibilità a tutti, la fruizione deve essere assicurata anche se manca il regolamento attuativo per la modifica dello stato dei luoghi nell'edificio privato aperto al pubblico. Diversamente, il disabile può rivolgersi al giudice chiedendo la tutela antidiscriminatoria, che ben può essere azionata nei confronti dei privati oltre che delle amministrazioni pubbliche.

È quanto emerge dalla sentenza 23.09.2016 n. 18762, pubblicata dalla III Sez. civile della Corte di Cassazione.
Accolto il ricorso proposto dal correntista della banca contro la discriminazione delle persone diversamente abili. Non conta che il regolamento di cui al dm 236/1989 non contenga norme di dettaglio per predisporre lo sportello all'utilizzo da parte di chi ha «ridotta o impedita capacità motoria»: la barriera architettonica va eliminata (articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).
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MASSIMA
3.- La sentenza è errata in diritto per le ragioni di cui appresso.
L'accessibilità ai disabili è regolamentata da una normativa, statale e regionale, precisa ed obbligatoria, che, per quanto rileva in questa sede (limitatamente quindi agli edifici privati aperti al pubblico), va ricostruita come segue.
L'art. 24 (intitolato all'<<eliminazione o superamento delle barriere architettoniche>>) della legge 05.02.1992 n. 104 (
«Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate») prevede, al primo comma, che «Tutte le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare l'accessibilità e la visitabilità di cui alla legge 09.01.1989, n. 13, e successive modificazioni, sono eseguite in conformità alle disposizioni di cui alla legge 30.03.1971, n. 118, e successive modificazioni, al regolamento approvato con decreto del presidente della repubblica 27.04.1978, n. 384, alla citata legge n. 13 del 1989, e successive modificazioni, e al citato decreto del ministro dei lavori pubblici 14.06.1989, n. 236».
Disposizioni significative sono altresì contenute in quest'ultimo decreto ministeriale (emanato in attuazione della legge 09.01.1989 n. 13 «Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati») e contenente le «prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche
».
E precisamente: all'art. 1, che definisce il campo di applicazione, comprendendovi, oltre agli edifici privati di nuova costruzione, anche gli edifici ristrutturati (pur se preesistenti alla data di entrata in vigore del decreto) e gli spazi esterni di pertinenza; all'art. 2, contenente le definizioni, per cui <<ai fini del presente decreto: 
a) per barriere architettoniche si intendono: a) gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea;
b) gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature o componenti;
c) la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono l'orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti, per gli ipovedenti e per i sordi.
_omissis_
g) per accessibilità si intende la possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia.
_omissis_
>>.
La legge della Regione Toscana 03.01.2005 n. 1 («Norme per il governo del territorio. Ecologia
»), successivamente abrogata (dalla L.R. 10.11.2014 n. 65), è applicabile al caso di specie.
L'art. 37, lett. g), di questa legge, richiamato in ricorso, rinvia, per quanto riguarda la qualità urbana, ambientale, edilizia e di accessibilità del territorio,
«all'eliminazione delle barriere architettoniche ed urbanistiche in conformità con quanto previsto dalla legge regionale 09.09.1991, n. 47 (Norme sull'eliminazione delle barriere architettoniche) da ultimo modificata dalla presente legge regionale».
La legge del 1991, applicabile a tutti gli edifici, pubblici e privati, ed in particolare agli edifici ed ai locali destinati ad attività produttive e commerciali di qualunque tipo (art. 2 lett. d), è finalizzata a disciplinare l'attività dei soggetti pubblici e privati per conseguire gli obiettivi atti ad eliminare situazioni di rischio, di ostacolo o di impedimento alla mobilità e fruibilità generale comunemente definiti barriere architettoniche e sensoriali - e reca prescrizioni nonché individua incentivi per la sua attuazione.
Quanto alle prescrizioni tecniche riguardanti gli edifici privati essa rinvia al D.M. n. 236/1989, mentre la legge regionale n. 1 del 2005, prevede che la Regione, entro trecentosessantacinque giorni dall'entrata in vigore della legge, avrebbe emanato appositi regolamenti e istruzioni tecniche, contenenti parametri di riferimento per i comuni. In attuazione di questa previsione è stato emanato il DPRG Toscana n. 41/r del 29.07.2009, che contiene anche delle norme riferite agli arredi fissi delle banche utilizzati per le normali operazioni del pubblico, prevedendone la predisposizione in modo tale da essere almeno in parte accostabili da una sedia a ruote e da permettere al disabile di espletare tutti i servizi (art. 21).
3.1. - Dato il quadro normativo di riferimento fin qui esaminato, il Collegio ritiene che le leggi statali e regionali su menzionate costituiscano la fonte normativa del diritto soggettivo all'accesso (ovvero all'eliminazione delle barriere architettoniche) che va riconosciuto alle persone con disabilità nelle diverse situazioni previste dalle stesse norme di legge.
Avuto riguardo all'argomento adoperato dalla Corte di Appello di Firenze per escludere il ricorso alla tutela di cui alla legge l marzo 2006 n. 67 (e fatto salvo quanto si dirà a proposito di quest'ultima), occorre precisare quanto segue circa i rapporti tra le disposizioni legislative e quelle regolamentari su elencate.
Il regolamento regionale n. 41/r del 2009 è inquadrabile, ai sensi dell'art. 42 dello Statuto della Regione Toscana, tra i regolamenti di attuazione delle leggi regionali e si connota per essere un regolamento esecutivo, in senso stretto, vale a dire un regolamento che pone norme di dettaglio delle norme della legge regionale n. 1 del 2005. Parimenti, è regolamento esecutivo (ai sensi dell'art. 17, co. 10, lett. a, della legge 23.08.1988 n. 400) il regolamento ministeriale di cui al D.M. n. 236 del 1989, in particolare, quanto alle disposizioni contenenti le prescrizioni strettamente tecniche.
Assolvendo entrambi ad una funzione meramente esecutiva, né l'uno né l'altro possono condizionare l'attuazione dei diritti riconosciuti dalla fonte normativa primaria, da cui deriva la loro ragione di esistenza e rispetto alla quale si pongono, come riconosciuto dalla dottrina costituzionalista, in posizione accessoria, strumentale e servente. In sintesi, il regolamento esecutivo non aggiunge nulla alla disciplina di legge per quanto attiene al suo oggetto, ma è funzionale soltanto a consentirne e migliorarne, appunto, l'esecuzione.
Per tale ragione, se ne è evidenziata la natura strumentale rispetto alla legge, in quanto se questa sancisce un diritto, il regolamento si limita a prescrivere le modalità con le quali questo diritto possa essere garantito al meglio.
Ne consegue che, anche in mancanza di norme regolamentari di dettaglio che dettino le caratteristiche tecniche di luoghi, spazi, parti, attrezzature o componenti di un edificio o di parti di questo, qualora l'accessibilità sia prevista dalle norme di legge su richiamate in favore delle persone con disabilità, questa dovrà comunque essere assicurata.
Si vuole, cioè, significare che -imposta dalla legge l'eliminazione delle barriere architettoniche- questo risultato dovrà comunque essere raggiunto nel caso concreto -ove si determini una situazione di discriminazione (secondo quanto appresso si dirà)- ed, in mancanza di apposite regole tecniche di natura regolamentare, non potrà che essere conseguito con accorgimenti di natura tecnica, sufficienti allo scopo, non previsti dalla normativa secondaria, ma nondimeno obbligatori in base alla fonte primaria.
3.2.- Prima di passare all'esame della legge n. 67 del 01.03.2006 s'impongono le seguenti notazioni. La situazione oggetto di causa presenta la peculiarità che l'accesso al "bancomat" non è assimilabile ad un accesso ad un luogo o ad uno spazio di un edificio o di un'unità immobiliare, connotandosi piuttosto quale accesso ad un'<<attrezzatura>>, facente parte di un edificio privato, ma destinata a fornire un servizio al pubblico degli utenti (non solo dei correntisti della banca).
Quindi, non si tratta (solo) di garantire la possibilità di raggiungere l'apparecchio (nel caso di specie, garantita al Belli), ma di assicurare l'utilizzabilità del "bancomat", cioè l'accesso al corrispondente servizio bancario (essendo quella di "bancomat" la denominazione -costituente marchio registrato- di un servizio automatizzato che consente di effettuare operazioni bancarie mediante tessera magnetica personale - secondo la definizione contenuta in uno dei dizionari della lingua italiana più accreditati).
Al dispositivo ben si attagliano in primo luogo le previsioni delle leggi statali e regionali su richiamate, ed in specie l'art. 2, lett. d), della legge della Regione Toscana n. 47/1991, cui rinvia la legge regionale n. 1/2005, quanto all'obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche anche negli edifici e nei locali destinati ad attività produttive e commerciali di qualunque tipo.
Vi si attagliano altresì le previsioni del regolamento di cui al D.M. n. 236/1989, e precisamente:
- gli artt. 1 (che dispone anche per gli edifici privati, di nuova costruzione o ristrutturati) e 2, lett. A), punto b), quanto all'ambito di applicazione della normativa sull'eliminazione delle barriere architettoniche (essendo tali anche <<tutti gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di attrezzature>>) e l'art. 2, lett. G), quanto alla nozione di accessibilità (da intendersi come <<possibilità, anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria, non solo di raggiungere gli edifici>>, nonché -come appena detto- i locali destinati ad attività produttive e commerciali di qualunque tipo, ma anche «di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata autonomia»). La situazione di fatto di inaccessibilità concretamente accertata dal giudice di merito -in sé non contestata- è quindi riconducibile sia alle previsioni delle leggi statali n. 104/1992, art. 24, e n. 13/1989, sia alle previsioni della legge della Regione Toscana n. 1/2005, art. 37, sia alle previsioni del D.M. n. 236/1989, artt. 1 e 2, della cui immediata applicazione il giudice di merito si sarebbe dovuto fare carico.
Né può diversamente argomentarsi solo perché l'apparecchio "bancomat" è stato installato dall'istituto di credito in un edificio preesistente, ma non ristrutturato nell'occasione. La definizione regolamentare di "ristrutturazione", contenuta nell'art. 2, lett. L), del D.M. n. 236/1989, che rimanda alla categoria di interventi di cui al titolo IV art. 31, lett. d), della legge n. 457 del 1978, è sufficientemente estesa da comprendervi la modifica o la sostituzione, in un edificio preesistente, non solo dei suoi elementi costitutivi o degli impianti veri e propri, ma anche di elementi non necessariamente costitutivi, purché destinati ad incrementarne la fruizione in conformità alla destinazione impressa all'edificio (tra cui rileva, come detto, quella ad attività produttive e commerciali).
D'altronde, la disposizione regolamentare dell'art. 2, lett. L) va interpretata nel contesto delle altre disposizioni di cui si è detto sopra, per le quali costituiscono barriere architettoniche non soltanto gli ostacoli che impediscano il raggiungimento di luoghi e spazi, ma ogni altro ostacolo che impedisca o limiti l'utilizzazione autonoma e sicura di "attrezzature o componenti".
L'ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull'obbligo dell'eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime. E' perciò loro consentito il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o limitata, a prescindere, come si dirà, dall'esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi.
3.3. - Un dato di fatto ulteriore da sottolineare è la mancanza nel regolamento di cui al D.M. n. 236/1989 di una disposizione vincolante specificamente volta a dettare le caratteristiche tecniche dei dispositivi "bancomat" installati nei locali aperti al pubblico degli istituti di credito.
Siffatta mancanza, tuttavia, non consente affatto, come ritenuto dal giudice a quo, la mancata applicazione al caso di specie di norme di legge e di regolamento della cui obbligatorietà si è ampiamente detto.
Già per le ragioni fin qui esposte risultano fondati i primi due motivi di ricorso, per la parte in cui richiamano la normativa sull'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, nonché il terzo, limitatamente alle censure sub a), b) e c), in quanto va affermato il principio di diritto, secondo cui <<
In materia di eliminazione di barriere architettoniche, ai sensi della legge 05.02.1992 n. 104, art. 24, e della legge 09.01.1989 n. 13, oltre che delle leggi della Regione Toscana 03.01.2005 n. 1, art. 37 lett. g) e 09.09.1991, n. 47 (applicabili ratione temporís), qualora si verta in una situazione di fatto in cui le norme di queste leggi prevedano come obbligatoria l'accessibilità in favore delle persone con disabilità, questa dovrà comunque essere assicurata, anche in mancanza di norme regolamentari di dettaglio che dettino le caratteristiche tecniche che luoghi, spazi, parti, attrezzature o componenti di un edificio o di parti di questo debbano avere per consentire l'accesso.
Ne consegue che costituisce barriera architettonica, che va eliminata, l'ostacolo alla comoda ed autonoma utilizzazione, da parte di persone con ridotta o impedita capacità motoria, di un dispositivo "bancomat" installato da un istituto di credito nell'edificio privato, ma aperto al pubblico, in cui ha sede una propria agenzia, senza che rilevi che il regolamento di cui al D.M. 14.06.1989, n. 236, di esecuzione delle leggi statali e regionali predette, non contenga norme di dettaglio che prevedano specificamente la predisposizione da parte della banca dell'apparecchio, in modo tale da permettere al disabile dì espletare il servizio corrispondente
.>>.
4.- Una volta qualificata come barriera architettonica l'ostacolo all'utilizzazione da parte del Be. (persona con disabilità di cui all'art. 3 della legge 05.02.1992 n. 104) del dispositivo "bancomat" di nuova installazione, il mancato adeguamento dell'apparecchio in modo da consentirne l'utilizzazione da parte di persona con ridotta capacità motoria determina, attualmente, una discriminazione in pregiudizio di quest'ultima, riconducibile all'art. 2 della legge 01.03.2006 n. 67, come sostenuto col primo motivo di ricorso.
In un caso quale quello di specie, in cui, come si è visto, la legge n. 104/1992 e tutta la normativa in materia di eliminazione delle barriere architettoniche avrebbero assicurato comunque la tutela, la legge n. 67 del 2006 si pone come strumento di tutela ulteriore e più efficace, assicurata -per quanto qui rileva- dalle previsioni sulla tutela giurisdizionale contenute nell'art. 3.
Va premesso che la norma applicabile ratione temporis è quella vigente prima della modifica del primo comma dell'art. 3 e dell'abrogazione degli altri comma ai sensi dell'art. 34 del decreto legislativo 01.09.2011 n. 150, in quanto il presente giudizio è stato instaurato prima dell'entrata in vigore di questo decreto ed, a norma dell'art. 36, le norme abrogate o modificate continuano ad applicarsi alle controversie pendenti.
4.1. - La legge n. 67 del 2006 pone un divieto di discriminazione delle persone disabili non solo nei rapporti pubblici ma anche nei rapporti privati, atteso il disposto dell'art. 1. Questo, per un verso, richiama l'art. 3 della Costituzione, norma precettiva anche nei rapporti tra privati, e, per altro verso, pone come finalità della legge quella di «garantire ... il pieno godimento dei diritti civili, politici, economici e sociali>>, senza alcuna limitazione soggettiva dei destinatari dell'obbligo di non discriminazione.
Quanto alla nozione di discriminazione, l'art. 2, dopo aver richiamato al primo comma il principio di parità di trattamento, è chiaro nel richiedere, per l'accesso alla tutela antidiscriminatoria, la diversità di trattamento per motivi connessi alla disabilità (comma secondo, relativo alla discriminazione diretta) o la posizione di svantaggio in cui la persona con disabilità venga a trovarsi rispetto ad altre persone (comma terzo, relativo alla discriminazione indiretta).
In una prima approssimazione può dirsi che il limite oggettivo della tutela, soprattutto nei confronti dei privati, è dato dalla mancanza di giustificazione della diversità di trattamento o della posizione di svantaggio desumibile dalla legislazione vigente; vale a dire che l'una e l'altra di queste situazioni danno luogo alla tutela antidiscriminatoria ogniqualvolta esse non siano giustificate da norme di legge preminenti (fatto salvo il vaglio di legittimità costituzionale di queste ultime).
Nel caso di specie, peraltro, non è dato nemmeno discutere di deroghe al principio di parità di trattamento, e quindi di limiti soggettivi od oggettivi della tutela, dato che, per quanto detto sopra, nel caso dell'accessibilità da garantire ai disabili, è la stessa legislazione ordinaria, statale e regionale, ad imporre il correlato dovere sia ai soggetti pubblici che ai soggetti privati, fino al limite oggettivo costituito dall'impossibilità tecnica di realizzare detta accessibilità (cfr. Cass. n. 18147/2013, che, in riferimento all'accessibilità architettonica agli edifici privati in condominio, ha avuto modo di precisare che «Al fini della legittimità della deliberazione adottata dall'assemblea dei condomini ai sensi dell'art. 2 della legge 09.01.1989, n. 13, l'impossibilità di osservare, in ragione delle particolari caratteristiche dell'edificio (nella specie, di epoca risalente), tutte le prescrizioni della normativa speciale diretta al superamento delle barriere architettoniche non comporta la totale inapplicabilità delle disposizioni di favore, finalizzate ad agevolare l'accesso agli immobili dei soggetti versanti in condizioni di minorazione fisica, qualora l'intervento (nella specie, installazione di un ascensore in un cavedio) produca, comunque, un risultato conforme alle finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione»; cfr., nello stesso senso, anche Cass. n. 14096/2012).
4.2. - Essendo l'accessibilità, come sopra intesa, un obiettivo da realizzare per legge, possono dare luogo a discriminazione indiretta, ai sensi dell'art. 3, coma terzo, della legge n. 67 del 2006 (per il quale «si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone»), anche le disposizioni regolamentari che determinino o mantengano una situazione di inaccessibilità.
L'espressione «disposizione ... apparentemente neutra
» che mette «una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone», contenuta nel comma su richiamato, va perciò riferita anche ai regolamenti. Questi, a differenza della legge -che è assoggettabile al giudizio di legittimità costituzionale quando sospettata di creare discriminazioni in violazione dell'art. 3 della Costituzione-, se, nel dettare norme di dettaglio, creano discriminazione (soprattutto quando non siano fedeli alla legge cui danno attuazione), vanno disapplicati dal giudice ordinario, proprio in ossequio al disposto dell'art. 2, coma terzo, della legge n. 67 del 2006.
Parimenti, ove il regolamento ometta di provvedere su una obiettiva situazione di inaccessibilità per il disabile -che sia riconducibile alla nozione di barriera architettonica da eliminare- ci si troverà in presenza di una discriminazione indiretta da «comportamento» omissivo, cui il giudice deve porre rimedio ai sensi degli artt. 2, comma terzo, e 3 della legge n. 67 del 2006.
Quest'ultimo articolo, al comma terzo (applicabile ratione temporis), non solo consente, ma impone al giudice che abbia riscontrato una situazione di discriminazione di una determinata persona con disabilità di ordinarne la cessazione e di adottare <<ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione>>.
In tale eventualità, la tutela più efficace garantita dalla legge n. 67 del 2006 consente al giudice di dettare quegli accorgimenti tecnici che, nel caso concreto, consentano l'accesso altrimenti negato o reso difficile.
In conclusione, va affermato il principio di diritto per il quale <<
In materia di misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni, costituisce discriminazione, ai sensi dell'art. 2 della legge 01.03.2006 n. 67, la situazione di inaccessibilità ad un edificio privato aperto al pubblico determinata dall'esistenza di una barriera architettonica -tale qualificabile ai sensi della legge 09.01.1989 n. 13 e dell'art. 2 del D.M. 14.06.1989, n. 236- che ponga una persona con disabilità (di cui all'art. 3 della legge 05.02.1992 n. 104) in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.
E' perciò consentito anche nei confronti di privati il ricorso alla tutela antidiscriminatoria di cui all'art. 3 della legge n. 67 del 2006, applicabile ratione temporis, quando l'accessibilità sia impedita o limitata, a prescindere dall'esistenza di una norma regolamentare apposita che, attribuendo la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi, detti le norme di dettaglio per il suo adeguamento
>>.
5.- Le conclusioni dell'atto introduttivo della presente controversia sono riportate nei seguenti termini, sia nel ricorso che nel controricorso: «accertare e dichiarare la illegittimità dello sportello bancomat della Agenzia di Unieredit Banca S.p.a. "Firenze Baccio" di via Laccio da Plontelupo 32/e a Firenze rispetto alla normativa relativa alle barriere architettoniche ed al divieto di discriminazione delle persone disabili; accertare e dichiarare che la illegittima condizione dello sportello bancomat della Agenzia di Unicredit Banca S.p.a. "Firenze Baccio' di via Baccio da Montelupo 32/e a Firenze integra gli estremi di una condotta discriminatoria nel confronti del ricorrente, disabile; per l'effetto ordinare a Unicredit Banca S.p.a., la cessazione della condotta discriminatoria, emanando ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione, ivi compreso l'ordine di adottare, entro fissando termine, un plano di rimozione della discriminazione (anche disponendo l'obbligo di sostituire l'attuale apparecchio bancomat presente nella Agenzia di Unicredit Banca S.p.a. "Firenze Baccio" di via Baccio da Montelupo 32/e a Firenze con uno nel rispetto delle specifiche funzionali e dimensionali stabilite dalla legge)..».
Non è riscontrabile alcuna modifica di causa petendi e di petitum in corso di causa (come sostenuto dalla difesa della banca resistente, in appello e nella discussione orale dinanzi a questa Corte), atteso che, dato il petitum appena riportato (rimasto fermo per tutto il corso del giudizio), a fondamento dell'azione il Be. ha posto le normative sull'eliminazione delle barriere architettoniche e sulla tutela antidiscriminatoria.
Queste contengono tutti gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, mentre unico fatto rilevante ai fini della causa petendi è dato dall'impossibilità della persona con disabilità di cui all'art. 3 della legge n. 104/1992 di usufruire del servizio "bancomat": negli uni e nell'altro consiste la causa petendi (arg. ex art. 163 n. 4 cod. proc. civ.), essendo del tutto irrilevanti ai fini dell'individuazione della domanda le cause tecniche dell'inaccessibilità (piano d'appoggio troppo alto o altrimenti inadeguato, presenza di gradini, collocazione di cestino porta carta o di altri accessori e così via) e le modalità di intervento richieste per porvi rimedio (sulle quali si tornerà, precisandosi sin d'ora che la richiesta di parte non vincola in alcun modo il giudice).
5.1.- La sentenza di secondo grado che, pronunciando sulla domanda, ne ha confermato il rigetto ha violato entrambe le normative poste a suo fondamento. La violazione sussisterebbe anche a voler ritenere, così come ha ritenuto la Corte d'appello, l'applicabilità al caso di specie di determinate norme del regolamento di cui al D.M. n. 236/1989. Queste, ove constatate come inadeguate a raggiungere lo scopo, avrebbero dovuto essere disapplicate dal giudice perché fonte di discriminazione indiretta.
La violazione sussiste comunque anche ritenendo -secondo quella che risulta essere la linea difensiva dell'istituto di credito qui resistente- che, all'epoca dell'installazione del "bancomat", non vi fossero norme di dettaglio volte a disciplinare specificamente le caratteristiche tecniche del dispositivo, onde renderlo utilizzabile da parte di persona con un tipo di disabilità quale quella di cui è portatore il ricorrente.
Questa constatata mancanza di disposizioni regolamentari vincolanti comporta, a sua volta, una discriminazione indiretta, se, come nella specie, pone la persona con disabilità in una situazione di svantaggio la quale, non solo non è giustificata, ma è addirittura da rimuovere in forza delle disposizioni di legge vincolanti sull'eliminazione delle barriere architettoniche.
I criteri tecnici da seguire per siffatta rimozione vanno individuati dal giudice di merito, avvalendosi anche delle norme regolamentari sopravvenute, se idonee allo scopo, essendo rimessa alla sua discrezionalità l'adozione «di ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione» ai sensi dell'art. 3 della legge n. 67 del 2006.
I primi tre motivi di ricorso vanno perciò accolti (il terzo, per quanto di ragione) e la sentenza impugnata va cassata.

INCARICHI PROGETTUALI - LAVORI PUBBLICI: L'azione di responsabilità contabile nei confronti del direttore dei lavori va esercitata presso la Corte dei Conti, mentre per quella nei confronti del progettista sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
Il direttore dei lavori per la realizzazione di un'opera pubblica, appaltata da un'amministrazione comunale, in considerazione dei compiti e delle funzioni che gli sono devoluti, che comportano l'esercizio di poteri autoritativi nei confronti dell'appaltatore e l'assunzione della veste di "agente", deve ritenersi funzionalmente e temporaneamente inserito nell'apparato organizzativo della pubblica amministrazione che gli ha conferito l'incarico, quale organo tecnico e straordinario della stessa, con la conseguenza che, con riferimento alla responsabilità per danni cagionati nell'esecuzione dell'incarico stesso, è soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti ai sensi dell'art. 52, primo comma, r.d. 12.07.1934 n. 1214.
Detto rapporto di servizio non è invece configurabile tra la stazione appaltante ed il progettista di un'opera pubblica, il cui elaborato deve essere fatto proprio dall'amministrazione mediante specifica approvazione, versandosi in tal caso in un'ipotesi, non di inserimento del soggetto nell'organizzazione dell'amministrazione, ma di contratto d'opera professionale, con la conseguenza che, con riferimento alla responsabilità per danni cagionati all'amministrazione comunale dal progettista, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
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PREMESSO
La Procura regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Puglia ha convenuto davanti a detta Sezione gli ingegneri Fr.Ch. e Do.Fo. per responsabilità amministrativa nei confronti dei Comune di Andria, il quale era stato condannato in sede civile al risarcimento dei danni subiti dall'impresa appaltatrice a causa della inidoneità e inadeguatezza della progettazione dei lavori dalla stessa eseguiti per conto del Comune: lavori progettati e diretti dai predetti professionisti.
L'ing. Ch. ha presentato istanza di regolamento di giurisdizione contestando la giurisdizione della Corte dei conti e sostenendo invece quella dei giudice ordinario.
Le parti intimate non hanno svolto difese.
Il P.M. ha concluso per iscritto, ai sensi dell'art. 380-ter c.p.c., chiedendo dichiararsi la giurisdizione dell'a.g.o.
CONSIDERATO
Il direttore dei lavori per la realizzazione di un'opera pubblica, appaltata da un'amministrazione comunale, in considerazione dei compiti e delle funzioni che gli sono devoluti, che comportano l'esercizio di poteri autoritativi nei confronti dell'appaltatore e l'assunzione della veste di "agente", deve ritenersi funzionalmente e temporaneamente inserito nell'apparato organizzativo della pubblica amministrazione che gli ha conferito l'incarico, quale organo tecnico e straordinario della stessa, con la conseguenza che, con riferimento alla responsabilità per danni cagionati nell'esecuzione dell'incarico stesso, è soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti ai sensi dell'art. 52, primo comma, r.d. 12.07.1934 n. 1214 (norma che, in virtù dell'art. 58 l. 08.06.1990, n. 142, ora art. 93 d.lgs. 18.08.2000, n. 267, è divenuta applicabile agli amministratori ed al personale degli enti locali, la cui posizione era in precedenza regolata dalle disposizioni degli artt. 251 e ss. r.d. 03.03.1934, n. 383).
Detto rapporto di servizio non è invece configurabile tra la stazione appaltante ed il progettista di un'opera pubblica, il cui elaborato deve essere fatto proprio dall'amministrazione mediante specifica approvazione, versandosi in tal caso in un'ipotesi, non di inserimento del soggetto nell'organizzazione dell'amministrazione, ma di contratto d'opera professionale, con la conseguenza che, con riferimento alla responsabilità per danni cagionati all'amministrazione comunale dal progettista, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario (cfr., tra le molte, Cass. Sez. Un. 3165/2011, 28537/2008, 7446/2008, 340/2003, 188/1999).
Nella specie la responsabilità amministrativa dei convenuti deriva, secondo la Procura contabile, dalla condanna subita dal Comune per difetti riguardanti la progettazione dei lavori; dunque è basata sulla qualità di progettisti dei convenuti stessi.
Sussiste pertanto la giurisdizione del giudice ordinario (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 23.09.2016 n. 18691).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256, commi 1-3, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto".
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In tema di gestione di rifiuti, l'accertamento della pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 (richiamata dall'art. 8 del D.M. 05.02.1998), trattandosi di un insieme di disposizioni prive di portata generale vincolante, dirette unicamente allo scopo di disciplinare le analisi effettuate a cura del titolare dell'impianto di produzione dei rifiuti.
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3. I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza dei motivi.
L'accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto ai sensi dell'art. 183 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 costituisce una "quaestio facti", come tale demandata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (Sez. 3, n. 7037 del 18/01/2012 - dep. 22/02/2012, Fiorenza, Rv. 252445).
Nel caso di specie le sentenze di merito (doppia conforme) con motivazione adeguata, immune da manifeste illogicità o contraddittorietà, hanno accertato la natura di rifiuti (materiali provenienti da demolizioni) escludendo trattarsi di rocce o materiali da scavo; ciò sulla base della visualizzazione di documentazione fotografica, e della documentazione inerente lo smaltimento (vedi pagina 6 della sentenza impugnata) e dall'assenza di prova sulla totale provenienza del materiale dalla ditta Sa. s.r.l..
Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256, commi 1-3, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto" (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015 - dep. 08/07/2015, Favazzo e altro, Rv. 264121).
Le sentenze di merito hanno fatto buon uso di questo principio giurisprudenziale della Cassazione.
La presenza di amianto e la qualificazione di rifiuti viene desunta dalla Corte di appello, nella sentenza impugnata, dalla documentazione (carteggio) del Ci. e del Comune di Atri, sezione V Urbanistica ed Ambiente. Inoltre i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova della riutilizzazione del materiale di demolizione, tale da poterlo assimilare al regime previsto per rocce e terre da scavo.
In tema di gestione di rifiuti, l'accertamento della pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 (richiamata dall'art. 8 del D.M. 05.02.1998), trattandosi di un insieme di disposizioni prive di portata generale vincolante, dirette unicamente allo scopo di disciplinare le analisi effettuate a cura del titolare dell'impianto di produzione dei rifiuti (Sez. 3, n. 1987 del 08/10/2014 - dep. 16/01/2015, Zucca e altro, Rv. 261786) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.09.2016 n. 39372).

EDILIZIA PRIVATANelle controversie relative al rispetto delle distanze legali tra costruzioni:
- la giurisdizione del giudice ordinario presuppone che la lite si svolga tra privati, l'uno dei quali pretenda la reintegrazione del suo diritto di proprietà, che assume leso dalla costruzione eseguita dall'altro in violazione delle norme legislative o regolamentari in materia edilizia. In tal caso, il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione, vertendosi in tema di assunta violazione di un diritto soggettivo, può incidentalmente accertare l'eventuale illegittimità della concessione edilizia, al fine di disapplicarla;
- se, invece, la controversia sia insorta tra il privato e la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato detta concessione al fine di ottenerne l'annullamento nei confronti della seconda, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo.
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2) Il ricorso è infondato.
Queste Sezioni Unite hanno più volte avuto modo di affermare che, nelle controversie relative al rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la giurisdizione del giudice ordinario presuppone che la lite si svolga tra privati, l'uno dei quali pretenda la reintegrazione del suo diritto di proprietà, che assume leso dalla costruzione eseguita dall'altro in violazione delle norme legislative o regolamentari in materia edilizia.
In tal caso, il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione, vertendosi in tema di assunta violazione di un diritto soggettivo, può incidentalmente accertare l'eventuale illegittimità della concessione edilizia, al fine di disapplicarla. Se, invece, la controversia sia insorta tra il privato e la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato detta concessione al fine di ottenerne l'annullamento nei confronti della seconda, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo (cfr. Cass. Sez. Un. Cass. Sez. Un. 04.10.1996 n. 8688; Cass. Sez. Un. 01.07.2002 n. 9555; Cass. Sez. Un. 16.06.2014 n. 13673).
Nella specie, Pe.Fr. e In.Nu. hanno impugnato la concessione in sanatoria rilasciata dal Comune di Partitico in favore di In.Bi. e Mi.Ma., chiedendone l'annullamento.
La controversia, pertanto, avendo ad oggetto l'impugnazione di un provvedimento di una pubblica amministrazione in materia edilizia, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 22.09.2016 n. 18571).

ATTI AMMINISTRATIVIIl riconoscimento del danno da ritardo -relativo ad un interesse legittimo di ordine pretensivo- non può restare avulso da una valutazione di merito sulla spettanza del bene sostanziale della vita e deve essere, quindi, subordinato, tra l'altro, anche alla dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento sia probabilmente destinata ad un esito favorevole e, dunque, alla prova della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse.
L'art. art. 2-bis l. 241/1990, introdotto dall'art. 7, comma 1, lett. c), l. 18.06.2009, n. 69, non ha infatti elevato a distinto bene della vita suscettibile di un’autonoma protezione mediante il risarcimento del danno, l'interesse procedimentale al rispetto dei termini dell'azione amministrativa, scisso dal riferimento alla spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è finalizzato: del resto, rispetto al principio dell’atipicità dell’illecito civile, si tratta qui di una fattispecie sui generis, specifica e peculiare, da ricondurre alla clausola generale dell’art. 2043 Cod. civ. per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità civile.
Di conseguenza l’ingiustizia e la sussistenza del danno non possono, in principio, presumersi iuris tantum, in meccanica relazione al mero fatto temporale del ritardo o del silenzio nell’adozione del provvedimento; in aggiunta il danneggiato deve piuttosto, ex art. 2697 Cod. civ., dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito civile, dunque della sua domanda risarcitoria: in particolare sia degli elementi oggettivi (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia, nesso causale), sia dell’elemento soggettivo (dolo o colpa del danneggiante).
Così, ai fini risarcitori sono richiesti, in aggiunta alla violazione dei termini procedimentali, l’imputabilità della violazione a dolo o colpa dell’amministrazione, il nesso di causalità tra ritardo e danno patito, nonché la dimostrazione del pregiudizio lamentato.

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Merita accoglimento la censura con cui la Regione Molise deduce l’insussistenza del denunciato ritardo nella conclusione del procedimento.
L’art. 2-bis della legge 07.08.1990, n. 241 stabilisce: «Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento».
In linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, ritiene il Collegio che detta norma vada interpretata nel senso che il riconoscimento del danno da ritardo -relativo, come nella specie, ad un interesse legittimo di ordine pretensivo- non possa restare avulso da una valutazione di merito sulla spettanza del bene sostanziale della vita e che vada, quindi, subordinato, tra l'altro, anche alla dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento sia probabilmente destinata ad un esito favorevole e, dunque, alla prova della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse.
Il menzionato art. 2-bis, introdotto dall'art. 7, comma 1, lett. c), l. 18.06.2009, n. 69, non ha infatti elevato a distinto bene della vita suscettibile di un’autonoma protezione mediante il risarcimento del danno, l'interesse procedimentale al rispetto dei termini dell'azione amministrativa, scisso dal riferimento alla spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è finalizzato (cfr., fra le tante, Cons. Stato, III, 12.03.2015, n. 1287; IV, 01.07.2014, n. 3295 e 06.04.2016, n. 1371; V, 11.07.2016, n. 3059): del resto, rispetto al principio dell’atipicità dell’illecito civile, si tratta qui di una fattispecie sui generis, specifica e peculiare, da ricondurre alla clausola generale dell’art. 2043 Cod. civ. per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità civile; di conseguenza l’ingiustizia e la sussistenza del danno non possono, in principio, presumersi iuris tantum, in meccanica relazione al mero fatto temporale del ritardo o del silenzio nell’adozione del provvedimento; in aggiunta il danneggiato deve piuttosto, ex art. 2697 Cod. civ., dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito civile, dunque della sua domanda risarcitoria: in particolare sia degli elementi oggettivi (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia, nesso causale), sia dell’elemento soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) (Cons. Stato, V, 13.01.2014, n. 63).
Così, per quanto qui rileva in particolare, ai fini risarcitori sono richiesti, in aggiunta alla violazione dei termini procedimentali, l’imputabilità della violazione a dolo o colpa dell’amministrazione, il nesso di causalità tra ritardo e danno patito, nonché la dimostrazione del pregiudizio lamentato (Cons. Stato, IV, 26.07.2016, n. 3376 e 12.11.2015, n. 5143; III, 23.04.2015, n. 2040; V, 09.03.2015, n. 1182) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.09.2016 n. 3920 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Danni per cattiva esecuzione delle opere: responsabilità in solido tra appaltatore e direttore lavori.
Cassazione: la responsabilità solidale si configura anche se le negligenze dell'impresa e del direttore dei lavori sono autonome tra loro.

In tema di contratto di appalto, qualora il danno subito dal committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell'appaltatore e del direttore dei lavori, entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l'evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse.
Si è affermato, in particolare, che la solidarietà fra coobbligati trova fondamento nel principio di cui all'art. 2055 cod. civ., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all'ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale.

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RITENUTO IN FATTO
1. Il Condominio di via ... 3 a Torino convenne in lite l'impresa individuale Br.Ce., cui aveva commissionato opere di manutenzione del tetto e della facciata condominiale, e Ro.Ca., incaricato della direzione dei lavori, per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni derivati dalla cattiva esecuzione delle opere.
I convenuti si costituirono chiedendo il rigetto della domanda.
Il Ca., in particolare, evidenziò che le modalità esecutive delle opere erano state accertate nel corso di un procedimento per accertamento tecnico preventivo cui egli non aveva preso parte; ricondusse i danni lamentati da alcuni condòmini alle opere che gli stessi avevano effettuate in autonomia nelle rispettive proprietà; contestò la propria responsabilità e chiese, in ogni caso, che in caso di accoglimento della domanda fosse accertata la ripartizione delle responsabilità con l'impresa appaltatrice.
Il Tribunale accolse la domanda, condannando entrambi i convenuti in solido.
2. Sull'appello proposto dal Ca., la Corte d'Appello di Torino determinò la quota di responsabilità del predetto in misura del 30%, confermando per il resto la sentenza.
La corte, in particolare, rilevò che la cattiva esecuzione delle opere era emersa dall'istruttoria condotta nel corso del giudizio, ed in particolare dalla consulenza tecnica esperita nel contraddittorio di tutte le parti; ritenuto poi -in accordo col tribunale- che l'opera presentasse gravi difetti rilevanti ex art. 1669 c.c., ribadì la responsabilità solidale dell'impresa e del direttore dei lavori, ciascuno per avervi dato causa con le proprie azioni od omissioni; a tale proposito ritenne censurabile l'operato del Ca. per aver questi rilevata la presenza di vizi soltanto sei mesi dopo l'ultimazione delle opere e la consegna dell'immobile da parte dell'impresa; reputò infine tale comportamento incidente sui danni complessivi nella misura sopra indicata.
La Corte accolse peraltro anche il gravame incidentale interposto dal condominio in punto alla misura delle spese di causa, erroneamente liquidate dal tribunale con riferimento alla sola fase di istruzione preventiva.
3. Il Ca. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Il condominio e l'impresa Ce. hanno depositato controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
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6. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia violazione di legge in relazione all'affermazione della sua responsabilità in solido con quella dell'impresa appaltatrice.
Sostiene per un verso la ricorrenza di un'ipotesi che esclude la solidarietà fra coobbligati, fondandosi le rispettive responsabilità su un diverso titolo giuridico (ed in specie: il contratto di appalto concluso con l'impresa e il distinto incarico professionale conferitogli).
Sotto altro profilo, che investe anche l'aspetto della motivazione, lamenta poi che la corte lo avrebbe ritenuto responsabile per il sol fatto dell' inadempimento dell'impresa appaltatrice.
6.1 Sotto entrambi i profili il motivo è infondato.
Quanto all'ultimo, si è già osservato che la corte ha espressamente individuato e descritto l'autonoma condotta del Ca., connotandola di negligenza rispetto agli obblighi del professionista incaricato della direzione dei lavori.
Quanto al primo, poi, la corte ha fatto buon governo del principio giurisprudenziale secondo cui "in tema di contratto di appalto, qualora il danno subito dal committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell'appaltatore e del direttore dei lavori, entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l'evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse" (così fra le altre Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20294 del 14/10/2004); si è affermato, in particolare, che la solidarietà fra coobbligati "trova fondamento nel principio di cui all'art. 2055 cod. civ., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all'ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale" (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14650 del 27/08/2012) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 21.09.2016 n. 18521).

PUBBLICO IMPIEGOLa scelta della sede (lavorativa) in forza della legge n. 104 non è un beneficio che la normativa assicura permanentemente al dipendente che presta assistenza a un congiunto disabile, bensì si atteggia quale strumento derogatorio del principio di parità di trattamento vigente in materia di trasferimenti a domanda dei dipendenti, al limitato fine di garantire e rendere effettiva l’assistenza al congiunto disabile per il periodo in cui ciò si rende necessario, in specifica applicazione delle norme la cui ratio è solo quella di assicurare un adeguato sostegno alle persone in situazione di handicap grave.
Ne consegue che il provvedimento di trasferimento disposto ai sensi della legge 104 non determina un diritto autonomo del dipendente, dovendo invece sussistere a tali fini il presupposto della necessità dell’assistenza al congiunto disabile sia al momento dell’emanazione del trasferimento, ma anche per tutto il periodo di esecuzione dello stesso.
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Le considerazioni ora spese evidenziano che il provvedimento a suo tempo assunto (di trasferimento) non era idoneo a garantire al lavoratore una posizione definitiva, id est, immutabile nel tempo per cui è legittima la revoca del trasferimento per essere venuto meno il motivo dell'assistenza al congiunto (ndr: decesso), che tale provvedimento doveva soddisfare in applicazione della legge n. 104 del 1992.

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Con ricorso trasmesso per la notifica a mezzo posta presso la sede legale il 09.09.2015, ricevuto dal Ministero della Giustizia in Roma in data 11 settembre, depositato presso la segreteria del TAR Molise il 10 settembre e rinotificato presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Campobasso in data 19.09.2015, il ricorrente, Assistente capo del Corpo di Polizia penitenziaria, già in servizio presso la casa circondariale di -OMISSIS-, ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe con il quale è stata disposta la revoca dell’assegnazione, per il beneficio previsto dall’art. 33, comma 5, legge n. 104 del 1992, alla casa circondariale di -OMISSIS-, in conseguenza dell’intervenuto decesso della madre da lui assistita.
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Il ricorso è infondato.
In identica fattispecie la più recente giurisprudenza ha avuto modo di chiarire quanto segue: “Come noto, l’art. 33, comma 5, legge n. 104 del 1992, sulla cui base era stato disposto il movimento del ricorrente nel 2013 dalla Casa di reclusione di Volterra alla sede di Civitavecchia, introduce per il lavoratore dipendente che assiste persona con handicap in situazione di gravità il diritto di scelta, ove possibile, della sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere, senza che questi possa essere successivamente trasferito in assenza del suo consenso ad altra sede; peraltro, il successivo comma 7-bis, del medesimo art. 33, prevede la decadenza dai diritti di cui alla norma in esame, “qualora il datore di lavoro o l'INPS accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti”.
Dunque, è la stessa legge n. 104 a evidenziare la natura temporanea e non definitiva dei trasferimenti dei lavoratori dipendenti, siano essi pubblici o privati, in quanto ancorata alla permanenza delle condizioni che ne avevano giustificato l’adozione.
Emerge, allora, con tutta evidenza che la scelta della sede in forza della legge n. 104 non è un beneficio che la normativa assicura permanentemente al dipendente che presta assistenza a un congiunto disabile, bensì si atteggia quale strumento derogatorio del principio di parità di trattamento vigente in materia di trasferimenti a domanda dei dipendenti, al limitato fine di garantire e rendere effettiva l’assistenza al congiunto disabile per il periodo in cui ciò si rende necessario, in specifica applicazione delle norme la cui ratio è solo quella di assicurare un adeguato sostegno alle persone in situazione di handicap grave.
Ne consegue che il provvedimento di trasferimento disposto ai sensi della legge 104 non determina un diritto autonomo del dipendente, dovendo invece sussistere a tali fini il presupposto della necessità dell’assistenza al congiunto disabile sia al momento dell’emanazione del trasferimento, ma anche per tutto il periodo di esecuzione dello stesso.
Le considerazioni ora spese evidenziano che, al contrario di quanto sostiene il ricorrente, il provvedimento a suo tempo assunto nei propri riguardi non era idoneo a garantirgli una posizione definitiva, id est, immutabile nel tempo per cui è legittima la revoca del trasferimento per essere venuto meno il motivo dell'assistenza al congiunto, che tale provvedimento doveva soddisfare in applicazione della legge n. 104 del 1992.
E’, per altrettanto, infondato il terzo motivo, con cui si deduce l’omesso bilanciamento di tutti gli interessi in gioco non essendo state prese in considerazione le esigenze familiari e personali del ricorrente oltre alle attuali condizioni di salute del medesimo, in atto convalescente, attesa l’inidoneità di tali ulteriori elementi a consentire alcuna deroga all’ordinario principio di parità di trattamento dei dipendenti che aspirano al trasferimento in una determinata sede, possibile solo in virtù della ratio derogatoria di cui alla normativa agevolativa dettata per il dipendente che presta assistenza a un congiunto disabile, di cui si è detto sopra
” (così TAR Lazio, I-quater, 23.03.2016, n. 3618; Cons. Stato, II, parere n. 3546 del 14.11.2014; Cons. Stato, IV, ord. 26.02.2016, n. 653).
Il collegio condivide il precedente richiamato che valorizza la ratio della norma derogatoria di cui all’art. 33 della legge n. 104/1992 e si pone in linea anche con circolare n. 457451-2012, con cui l’Amministrazione precisa che “Nel caso di cessazione dei presupposti l’amministrazione avvierà d’ufficio le procedure di revoca del trasferimento”.
Non può invece essere condiviso il diverso orientamento espresso dal TAR Puglia, Lecce, sent. n. 1942/2012 richiamato dal ricorrente e di recente recepito da TAR Ancona n. 509/2015, invero solo apparentemente di segno opposto, secondo cui “l’art. 33 della legge n. 104/1992 assicura al familiare lavoratore che assista con continuità un parente entro il terzo grado handicappato la possibilità di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio. Questa facoltà, corrispondente a un privilegio motivato da ragioni di natura solidaristica e assistenziale, costituisce un titolo di preferenza nella scelta della sede di lavoro e una volta esercitata nella forma del trasferimento (e non, ad esempio, di aggregazione o distacco) costituisce una situazione giuridica definitiva, non subordinata al mantenimento della situazione originaria (sempre che l’Amministrazione di appartenenza non abbia disciplinato specificamente il punto). Trattasi, pertanto, di situazione non modificabile se non, sussistendone i presupposti e secondo il regime proprio del rapporto d’impiego, applicando il regime del trasferimento d’ufficio che deve tener conto, nell’effettuare il bilanciamento degli interessi, oltre che delle esigenze di servizio anche delle situazioni di famiglia…”.
In particolare la giurisprudenza in parola afferma il carattere definitivo del trasferimento, non subordinandolo al mantenimento della situazione originaria, a condizione tuttavia che “l’Amministrazione di appartenenza non abbia disciplinato specificamente il punto”.
Nel caso di specie tuttavia non solo il provvedimento del 14.08.2013 con cui il ricorrente veniva assegnato alla casa circondariale di -OMISSIS- è stato dichiaratamene adottato “in applicazione della legge 05.02.1992, n. 104” –di fatto condizionandone l’efficacia al perdurare delle condizioni previste dall’art. 33, comma 5, della legge in parola– ma soprattutto è successivo alla adozione della circolare n. 457451 del 28.12.2012 che, con valenza generale, afferma che “Nel caso di cessazione dei presupposti l’amministrazione avvierà d’ufficio le procedure di revoca del trasferimento” in tal modo conformando con il carattere della temporaneità tutti i provvedimenti successivamente adottati ai sensi dell’art. 33, comma 5, della legge 104/1992.
Ne discende che anche secondo il diverso orientamento giurisprudenziale richiamato nel caso di specie non vi sono ragioni per ritenere definitivo il trasferimento disposto in data 14.08.2013 presso la casa circondariale di -OMISSIS-, con conseguente legittimità della revoca adottata una volta venute meno le condizioni ed i presupposti della sua adozione disciplinati dall’art. 33, comma 5, della legge n. 104/1992.
Essendo la revoca del trasferimento un atto sostanzialmente dovuto, anche per garantire il corretto svolgimento delle procedure di mobilità ordinarie, senza pregiudicare il personale con requisiti di anzianità potiori, non rilevano le doglianze con cui il ricorrente ha contestato l’omessa ponderazione con le esigenze di servizio della sua condizione personale e familiare, né l’effettiva consistenza del ruolo degli Agenti/Assistenti presso la casa circondariale di -OMISSIS- e neppure eventuali disparità di trattamento, in presenza di situazioni analoghe che peraltro il ricorrente omette di circostanziare ai fini di un possibile approfondimento istruttorio.
Alla luce delle motivazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto (TAR Molise, sentenza 21.09.2016 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIEvasore, ma sempre avvocato. Niente più sanzioni per il legale che non paga le tasse. Sentenza della Corte di cassazione applica il nuovo codice deontologico forense.
Niente cancellazione dall'albo per l'avvocato evasore. Il nuovo codice deontologico forense, infatti, non prevede più sanzioni per il legale che non paga le tasse. E salva i procedimenti in corso alla data di in vigore del nuovo codice, il 15.12.2014, perché a questi si applicano le disposizioni più favorevoli.

Lo afferma la Corte di Cassazione - Sezz. unite civili, con la sentenza 20.09.2016 n. 18394, che ha stabilito il rinvio della causa al Consiglio nazionale forense affinché riformuli la sanzione.
Entrando nel dettaglio, l'avvocato in causa si era reso colpevole dei reati di evasione di imposte ed effettuazione di prestiti, ma il procedimento penale era stato definito con sentenza di non luogo a procedere per intervenuta estinzione dei reati per prescrizione. Nel contempo, però, veniva ritenuto responsabile dal Consiglio dell'ordine degli avvocati territorialmente competente della violazione dell'art. 15 del codice deontologico, applicando la sanzione della cancellazione dall'albo.
Il ricorso dell'avvocato veniva poi rigettato dal Consiglio nazionale forense, motivo per cui il legale si è poi rivolto alla Cassazione. In particolare, secondo i giudici la sanzione applicata dal Cnf non tiene conto delle modificazioni introdotte dal codice deontologico forense che, ai sensi dell'art. 65, comma 5, della legge n. 247/2012 (nuovo ordinamento forense), si applicano anche ai procedimenti in corso se più favorevoli. Il nuovo codice, infatti, non prevede la sanzione della cancellazione e la sentenza impugnata «deve quindi essere cassata con riferimento alla sanzione applicata, con rinvio al Consiglio nazionale forense perché, in diversa composizione, provveda nuovamente in ordine al trattamento sanzionatorio applicabile per gli illeciti accertati».
Quanto invece alla valutazione della sussistenza dei fatti addebitati, secondo la Cassazione la sentenza impugnata ha rilevato che la valutazione del Coa era scaturita dall'esame di copiosa documentazione acquisita nell'ambito delle indagini preliminari, non disconosciuta dallo stesso ricorrente, il quale aveva ammesso di aver percepito per gli anni 1998, 1999 e 2000 redditi di gran lunga superiori a quelli dichiarati.
Motivo per cui, secondo i giudici, «appaiono prive di rilievo le censure svolte dal ricorrente in ordine a una asserita mancata ammissione di prove, avendo la sentenza impugnata dato atto che il Coa aveva concesso al ricorrente un termine per il deposito di una relazione tecnica, senza che a tale richiesta il ricorrente avesse poi dato seguito» (articolo ItaliaOggi del 21.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOEntrate, il concorso ko. Illegittimi riserva dei posti e esame per titoli. Il Tar Lazio censura il bando dell'Agenzia per l'assunzione di 403 dirigenti.
Il Tar Lazio ha annullato il concorso per 403 posti dirigenti dell'Agenzia delle entrate nella parte in cui il bando prevede una riserva dei posti per i dipendenti delle Entrate pari al 50% (il limite di legge è del 30%) e nella parte in cui prevedeva una valutazione particolare per i titoli.

La sentenza 20.09.2016 n. 9846 del TAR Lazio-Roma, Sez. III, che condanna l'Agenzia alla totale soccombenza delle spese processuali (3.000 euro) respinge però il motivo di ricorso di Dirpubblica di azzerare il bando in seguito alla sentenza della Corte costituzionale del 17/03/2015 sui dirigenti illegittimi. L'Agenzia dovrà invece riscrivere il bando senza quei criteri censurati.
La sentenza della Consulta, infatti, ha riconosciuto illegittima la procedura reiterata dell'amministrazione finanziaria di rinnovare incarichi dirigenziali a tempo a funzionari incaricati. Dopo la sentenza si è creata dunque l'esigenza di coprire i posti dirigenziali vacanti con un concorso. Nel 2015 due erano le strade aperte: quella del concorso per 403 dirigenti e un concorso per titoli e colloqui per 175 dirigenti. L'Agenzia ha tempo fino al 31.12.2016 per improrogabilmente sanare il vuoto di organico creatosi dopo la sentenza. Ma al momento le procedure, dopo la decisione del Tar Lazio, sono lontane dal chiudersi.
Attualmente infatti l'Agenzia delle entrate sta procedendo all'esame con un colloquio dei migliaia di curricula arrivati per il concorso per 175 dirigenti. Anche su questo concorso pende la decisione del Consiglio di stato, visto che, anche in questo caso la sigla sindacale Dirpubblica ha impugnato la procedura davanti al Consiglio di stato. Le commissioni d'esame dovranno sentire circa 9.000 candidati con una deadline al 31 dicembre che inevitabilmente sforerà alla primavera 2017.
La vicenda del concorso a 403 posti da dirigente è ancora più emblematica. In prima istanza Dirpubblica aveva presentato al Tar Lazio istanza per la sospensione cautelare della procedura. Il Tar Lazio aveva respinto l'azione e Dirpubblica si era rivolta al Consiglio di stato. Il Consiglio di stato ha rinviato nel merito l'esame della vicenda e ora è arrivata la decisione del Tar che ha dato parzialmente ragione a Dirpubblica annullando il concorso nei due punti della riserva dei posti troppo alta per i dipendenti dell'Agenzia e nel punteggio riservato ai titoli, punteggio per la cui assegnazione per i giudici amministrativi non è competente l'Agenzia.
Un'altra matassa da sbrogliare per l'Agenzia con la scadenza del 31 dicembre dietro l'angolo (articolo ItaliaOggi del 21.09.2016).

APPALTI: Procedura di gara, sì ad annullamento tardivo. Se la p.a. motiva l'interesse pubblico.
L'annullamento in autotutela di una procedura di gara deve essere frutto del contemperamento degli interessi in gioco; non può essere motivato dalla semplice esigenza di ripristino della legalità violata.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato (Cds), Sez. V, con la sentenza 20.09.2016 n. 3910.
L'interesse pubblico alla base del legittimo esercizio del potere di autotutela da parte della p.a. non può identificarsi nel mero ripristino della legalità violata, ma richiede una valutazione comparativa sulla qualità e concretezza degli interessi in gioco.
Nel procedere a distanza di anni all'annullamento di un atto ritenuto illegittimo per un errore commesso dalla stessa amministrazione, questa è tenuta a indicare le ragioni di pubblico interesse che, nonostante il notevole decorso del tempo e il consolidamento della situazione, giustificavano il provvedimento di autotutela.
L'orientamento giurisprudenziale, per i giudici, risulta sostanzialmente trasfuso nel testo del comma 1 dell'articolo 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 (nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 07.08.2015, n. 124), secondo cui «il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
Nel caso specifico, i giudici hanno affermato l'illegittimità del disposto annullamento d'ufficio (annullamento in autotutela degli atti di gara, annullava l'aggiudicazione e disponeva l'inefficacia del contratto) perché l'amministrazione non ha esposto alcuna ulteriore ragione, se non quelle connesse alla parziale illegittimità della lex specialis di gara.
Inoltre, il Cds ha affermato che il provvedimento di annullamento è illegittimo in quanto l'amministrazione non ha in alcun modo dato atto della ponderazione dei vari interessi in gioco. In particolare, avrebbe dovuto considerare lo stato di avanzamento dell'opera e il tempo trascorso dal provvedimento di aggiudicazione e dalla sottoscrizione del contratto (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).
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MASSIMA
Ebbene, tanto premesso sotto il profilo fattuale, ne emerge la correttezza di quanto statuito dai primi Giudici, secondo cui il provvedimento di annullamento in autotutela dell’intera procedura di gara risulta viziato per difetto di istruttoria e di motivazione e, in ogni caso, adottato in contrasto con il consolidato orientamento secondo cui il legittimo esercizio del potere di autotutela non può fondarsi unicamente sull’intento di ripristinare la legittimità violata, ma deve essere scrutinato in ragione della sussistenza di un interesse pubblico prevalente all’adozione del provvedimento di ritiro.
E’ stato affermato al riguardo che
l'interesse pubblico alla base del legittimo esercizio del potere di autotutela da parte della pubblica amministrazione non può identificarsi nel mero ripristino della legalità violata ma richiede una valutazione comparativa sulla qualità e concretezza degli interessi in gioco. Nel procedere a distanza di anni all'annullamento di un atto ritenuto illegittimo per un errore commesso dalla stessa amministrazione, questa è tenuta ad indicare espressamente le ragioni di pubblico interesse che, nonostante il notevole decorso del tempo e il consolidamento della situazione, giustificavano il provvedimento di autotutela (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 21.09.2015, n. 4379; id., VI, 20.09.2012, n. 4997; id., VI, 14.01.2009, n. 136).
L’orientamento in questione risulta sostanzialmente trasfuso nel testo del comma 1 dell’articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241 (nella formulazione, che qui rileva, anteriore alle modifiche introdotte dalla l. 07.08.2015, n. 124), secondo cui “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Ebbene, alla luce della richiamata disposizione (lo si ripete, recettiva di consolidati orientamenti giurisprudenziali)
emerge l’illegittimità del disposto annullamento d’ufficio:
i)
sia perché l’amministrazione non ha esposto alcuna ulteriore ragione, se non quelle connesse alla riconosciuta parziale illegittimità della lex specialis di gara;
ii)
sia perché l’amministrazione non ha in alcun modo dato atto della ponderazione dei vari interessi che nel caso in esame vengono in rilievo, anche alla luce dello stato di avanzamento dell’opera e del tempo trascorso dal provvedimento di aggiudicazione e dalla sottoscrizione del contratto.
Né può in alcun modo ritenersi che l’annullamento dell’intera procedura conseguisse in qualche modo agli obblighi conformativi rinvenienti dalla più volte richiamata sentenza n. 5811/2014, se solo si consideri che il ricorso introduttivo che ha condotto all’adozione di quella sentenza mirava unicamente all’annullamento dell’esclusione e non anche al travolgimento dell’aggiudicazione o alla declaratoria di inefficacia del contratto (domande, queste ultime, che l’odierna appellante riconosce anche nella presente sede di non aver in alcun modo formulato).
Del tutto
correttamente, quindi, il TAR ha riconosciuto l’illegittimità del provvedimento di annullamento d’ufficio impugnato in primo grado in quanto difforme sia rispetto ai consolidati acquis formatisi sul tema della legittimità degli atti di ritiro, sia rispetto agli obblighi conformativi rinvenienti dalla sentenza di appello che, pure, costituiva il dichiarato presupposto logico-fattuale per l’adozione del medesimo provvedimento di annullamento.
2.1. Né può giungersi a conclusioni diverse da quelle appena delineate in relazione al motivo di appello con cui si è lamentato che la It. avesse lamentato con il ricorso di primo grado la sola insussistenza dei presupposti per disporre l’inefficacia del contratto e non anche l’insussistenza dei presupposti per procedere all’annullamento in autotutela dell’intera procedura di gara.
2.1.1. Si osserva in primo luogo al riguardo che sussiste un evidente rapporto di continenza logico-giuridica fra le ragioni che impedivano la declaratoria di inefficacia del contratto e quelle che impedivano, ancora più a monte, di disporre il contestato annullamento in autotutela.
2.1.2. Si osserva in secondo luogo che può certamente convenirsi con l’appellante laddove afferma che ciò che nel caso di specie viene in rilievo è la correttezza dell’esercizio del potere di autotutela (il quale può intervenire anche a seguito della stipula del contratto, ma per ragioni afferenti la legittimità della procedura di gara –in tal senso: Cons. Stato, Ad. Plen. 20.06.2014, n. 14-). Ma il punto è che
l’esercizio concreto del potere di autotutela risultava nel caso di specie illegittimo per la rilevata contrarietà con i principi e le disposizioni che regolano le condizioni per la legittimità di tale esercizio.
Ai limitati fini che qui rilevano (e rinviando a quanto già in precedenza esposto) si osserva poi che
il testo dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 depone in senso affatto diverso a quanto opinato dalla società appellante, mentre il richiamo operato in sede di appello al testo dell’articolo 21-nonies nella formulazione successiva all’entrata in vigore della l. 124 del 2015 risulta inconferente ai fini del decidere, atteso che la novella normativa in questione è intervenuta successivamente all'adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio impugnato in primo grado.
2.1.3. Si osserva infine che, in applicazione dei generali principi della domanda e della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (certamente applicabili anche nel giudizio amministrativo anche alla luce del rinvio operato dall’articolo 39, comma 1, del cod. proc. amm.), la Milano-Serravalle non solo non avrebbe potuto annullare l’intera procedura, ma neppure avrebbe potuto disporre (come richiesto dall’appellante) il solo annullamento dell’aggiudicazione in favore della It. per l’assorbente ragione che tale annullamento non era stato in alcun modo richiesto in sede giurisdizionale.
Non può quindi trovare accoglimento il motivo –riproposto dalla Vi. nella presente sede di appello– secondo cui, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento di esclusione disposto a carico della stessa Vi. –e anche in assenza di una specifica domanda in tal senso– l’amministrazione avrebbe dovuto procedere sua sponte all’annullamento dell’aggiudicazione medio tempore disposta al fine di consentire l’aggiudicazione in favore della stessa Vitale.
3. La domanda risarcitoria riproposta nella presente sede di appello non può trovare accoglimento.
L’appellante ha (ri-)articolato la domanda in questione ipotizzando due possibili scenari: i) quello dell’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento impugnato in primo grado (ipotesi che qui non ricorre); ii) quello in cui tale provvedimento non fosse effettivamente impugnato in primo grado.
3.1. Va premesso al riguardo che, da quanto sembra emergere dall’atto di appello, i due scenari non vengono riferiti all’ipotesi di annullamento o meno del provvedimento di annullamento in autotutela (annullamento che, comunque, viene nella presente sede di appello confermato), bensì all’ipotesi di annullamento o meno dell’atto di aggiudicazione (annullamento che non può qui essere disposto per la dirimente ragione di non essere stato neppure richiesto al Giudice).
3.2. Tanto premesso,
deve quindi essere escluso in ogni caso il richiesto ristoro del danno in forma specifica (attraverso il subentro nelle lavorazioni previa declaratoria di inefficacia del contratto già stipulato con la It.).
Tanto, alla luce del comma 1 dell’articolo 124 del ‘Codice del processo amministrativo’, secondo cui l’accoglimento della domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122 (declaratoria di inefficacia che postula un’espressa richiesta di parte nell’ambito della domanda di annullamento che nel caso in esame non risulta proposta).
3.2. Ma
la mancata proposizione della domanda di annullamento dell’aggiudicazione preclude anche in radice il riconoscimento del danno per equivalente pecuniario.
L’appellante era infatti consapevole del fatto che la sola richiesta di annullamento del proprio provvedimento di esclusione non poteva condurre ad ottenere l’auspicata aggiudicazione della gara in assenza dell’impugnativa del provvedimento di aggiudicazione medio tempore adottato in favore di altra concorrente.
Ai sensi del comma 2 dell’articolo 124 del cod. proc. amm. la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda volta a conseguire l’aggiudicazione (nonché –scil.– la domanda volta ancora più a monte a contestare l’aggiudicazione disposta in favore di altri all’evidente fine di coltivare la sola opzione del ristoro per equivalente pecuniario) è valutata dal giudice ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile.
La disposizione in esame esplicita con maggiore ampiezza di implicazioni, nel particolare settore del ristoro del danno da aggiudicazione -in tesi– illegittima, il principio sancito dal comma 3 dell’articolo 30 del medesimo cod. proc. amm. secondo cui “
nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
E’ evidente al riguardo che,
laddove l’odierna appellante –invece di limitare la propria domanda di giustizia al solo provvedimento che l’aveva esclusa dalla gara– avesse esteso l’impugnativa anche al provvedimento di aggiudicazione medio tempore disposto in favore di altra impresa, avrebbe con ogni verosimiglianza potuto escludere in radice la ritrazione dei danni conseguenti alla mancata esecuzione dell’appalto per cui è causa.
Si tratta, come è evidente, di una circostanza in radice ostativa al richiesto risarcimento per equivalente pecuniario, non potendosi qui ammettere il ristoro di un pregiudizio (il danno rinveniente dalla mancata stipula ed esecuzione del contratto) che la stessa appellante ha contribuito in modo determinante a cagionare mercé la mancata attivazione degli strumenti di tutela espressamente richiamati dalle menzionate disposizioni codicistiche.
3.3. La reiezione della domanda risarcitoria per le ragioni appena evidenziate esime il Collegio dall’esame puntuale di motivi di appello riferiti al capo della sentenza con cui si è sancita altresì l’inammissibilità della domanda risarcitoria stante la pendenza dinanzi al TAR della Lombardia di un giudizio avente ad oggetto un’identica vicenda risarcitoria (con identità di parti, di petitum e di causa petendi).
4. Per le ragioni sin qui esposte l’appello in epigrafe deve essere respinto.

ESPROPRIAZIONEEspropri, valutazioni comparate. Cds.
L'adozione del provvedimento acquisitivo presuppone una valutazione comparata degli interessi in conflitto, qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale procedimento espropriativo.

È quanto sottolineato dai giudici della IV Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 19.09.2016 n. 3905.
Secondo i supremi giudici amministrativi la mancanza di ragionevoli alternative all'adozione del provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse pubblico richiamate dalla disposizione in esame, da considerare in comparazione con gli interessi del privato proprietario.
L'adozione dell'atto acquisitivo è consentita esclusivamente allorché costituisca l'extrema ratio per la soddisfazione di «attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico», come recita lo stesso art. 42-bis del T.u. delle espropriazioni.
Inoltre, l'art. 42-bis T.u. espropri, hanno osservato i giudici di palazzo Spada, prevede che sia l'amministrazione, prima che si formi il giudicato restitutorio, ad adottare il provvedimento di «acquisizione sanante», il quale deve essere «specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione».
Pertanto solo nel caso in cui siano state escluse, all'esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni e non sia ragionevolmente possibile la restituzione del bene al privato, sia essa totale o parziale, previa riduzione in pristino (articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).
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MASSIMA
3. In particolare, l’Adunanza Plenaria, per quello che in questa sede interessa, ha precisato che “
l’effetto inibente (all’emanazione del provvedimento di acquisizione) del giudicato restitutorio costituisce elemento essenziale dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bis nella lettura costituzionalmente orientata che ne ha fatto il giudice delle leggi in armonia con la CEDU: conseguentemente in presenza di un giudicato restitutorio il provvedimento di acquisizione non può essere emanato.
Si pone il problema della individuazione del giudicato restitutorio: nulla quaestio nel caso in cui il giudicato (amministrativo o civile) disponga espressamente, sic et simpliciter, la restituzione del bene, con l’unica precisazione che una tale statuizione restitutoria potrebbe sopravvenire anche nel corso del giudizio di ottemperanza. Si tratta di una conseguenza fisiologica della naturale portata ripristinatoria e restitutoria del giudicato di annullamento di provvedimenti lesivi di interessi oppositivi d’indole espropriativa.
In tutti questi casi è certo che l’Amministrazione non potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis
”.
Spiega, inoltre, la Plenaria che “
a diverse conclusioni deve giungersi allorquando, come verificatosi nella vicenda in trattazione, il giudicato rechi in via esclusiva o alternativa, la previsione puntuale dell’obbligo dell’Amministrazione di emanare un provvedimento ex art. 42-bis.
In realtà è bene subito precisare che non esiste la possibilità, tranne si versi in una situazione processuale patologica, che il giudice condanni direttamente in sede di cognizione l’Amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione: vi si oppongono, da un lato, il principio fondamentale di separazione dei poteri (e della riserva di amministrazione) su cui è costruito il sistema costituzionale della Giustizia Amministrativa, dall’altro, uno dei suoi più importanti corollari processuali consistente nella tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a. fra i quali non si rinviene tale tipologia di contenzioso
(cfr. negli esatti termini C.d.S., Ad. plen., 27.04.2015, n. 5).
A maggior ragione in una fattispecie in cui vengono in rilievo sofisticate valutazioni sulla ricorrenza delle circostanze eccezionali che giustificano l'acquisizione coattiva, cui si possono eventualmente riconnettere gravi ricadute in termini di responsabilità erariale
”.
L’art. 42-bis TU espropri prevede, infatti, che sia l’Amministrazione, prima che si formi il giudicato restitutorio, ad adottare il provvedimento di “acquisizione sanante” il quale deve essere “specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione”; prevedendo, altresì, che le disposizioni dell’articolo de quotrovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l’acquisizione”.
4. Tenuto conto dei riportati principi espressi dall’Adunanza Plenaria (che sul punto della ineludibile pienezza del contraddittorio ha richiamato le fondamentali acquisizioni della Corte costituzionale sviluppate nella menzionata sentenza n. 71 del 2015), e delle disposizioni sancite dall’art. 42-bis TU espropri, deriva la fondatezza dell’appello proposto dalla sig.ra Ma..
4.1. La ricorrente lamenta, in buona sostanza, la violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 114 commi 4, lett. d), 6 e 7, c.p.a., in quanto il commissario ad acta, sostituendosi all’Amministrazione, ha disposto l’acquisizione del terreno ex art. 43 (rectius 42-bis) TU espropri, senza acquisire i pareri delle parti in contraddittorio fra di loro e male interpretando, conseguentemente, la portata della stima effettuata dall’Agenzia del territorio.
Nel caso di specie
il commissario ad acta ha proceduto ad adottare il decreto di esproprio (rectius provvedimento ex art. 42-bis TU espropri), pretermettendo di accertare se il Comune di Villa Castelli, optasse per l’acquisizione del bene o la sua restituzione, nonché violando l’obbligo della motivazione rafforzata (in capo alla pubblica amministrazione procedente, ed eventualmente al commissario ad acta), che deve indicare tutte le circostanze rilevanti (a partire dalle esigenze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, per finire alla ostensione delle «attuali ed eccezionali» ragioni di interesse pubblico che giustificano l’emanazione dell’atto, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione).
In altri termini
l’adozione del provvedimento acquisitivo presuppone una valutazione comparata degli interessi in conflitto, qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale procedimento espropriativo. E l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione del provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse pubblico richiamate dalla disposizione in esame, da considerare in comparazione con gli interessi del privato proprietario.
L’adozione dell’atto acquisitivo è consentita esclusivamente allorché costituisca l’extrema ratio per la soddisfazione di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico”, come recita lo stesso art. 42-bis del T.U. delle espropriazioni.
Dunque,
solo quando siano state escluse, all’esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni (compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita, ipotesi nella specie non più praticabile a cagione delle preclusioni risultanti sul punto dalle precedenti sentenze irrevocabili emanate dal Tar), e non sia ragionevolmente possibile la restituzione del bene al privato, sia essa totale o parziale, previa riduzione in pristino.
4.2. Alla luce dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria e dalla Corte Costituzionale l’appello deve, pertanto, essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere annullato il decreto di esproprio (rectius il provvedimento di acquisizione) adottato dal commissario ad acta, con il quale è stato disposto il passaggio di proprietà a favore del Comune di Villa Castelli del terreno di proprietà della sig.ra Ma., con salvezza delle ulteriori determinazioni che saranno assunte nel rispetto dei principi formulati dalla presente sentenza.
4.3. Tutte le altre questioni, ivi comprese la liquidazione finale delle spese di lite e dei compensi eventualmente riconoscibili al commissario ad acta, nonché l’indicazione delle parti sulle quali farle gravare, saranno risolte dal TAR Puglia-Lecce a conclusione del giudizio di ottemperanza ancora pendente presso il medesimo ufficio (n.r.g. 1309/2011).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi dell'art. 873 c.c., il condono edilizio, esplicando i suoi effetti sul piano dei rapporti pubblicistici tra P.A. e privato costruttore, non ha incidenza nei rapporti tra privati, i quali hanno ugualmente facoltà di chiedere la tutela ripristinatoria apprestata dall'art. 872 c.c. per le violazioni delle distanze previste dal codice civile e dalle nonne regolamentari integratrici.
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Secondo l'insegnamento di questa Corte, in tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi dell'art. 873 c.c., il condono edilizio, esplicando i suoi effetti sul piano dei rapporti pubblicistici tra P.A. e privato costruttore, non ha incidenza nei rapporti tra privati, i quali hanno ugualmente facoltà di chiedere la tutela ripristinatoria apprestata dall'art. 872 c.c. per le violazioni delle distanze previste dal codice civile e dalle nonne regolamentari integratrici (Cass. 06.02.2009, n. 3031) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.09.2016 n. 18244).

EDILIZIA PRIVATA: Allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, della operatività del criterio cosiddetto della prevenzione.
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2.- Con il secondo motivo pane ricorrente deduce la nullità della sentenza per il mancato riconoscimento del criterio di prevenzione per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c..
Con il medesimo motivo parte ricorrente lamenta, altresì, la mancata ammissione della nuova c.t.u. richiesta in appello.
Il motivo è del tutto infondato.
La Corte territoriale ha dato correttamente conto della risultanza che il regolamento edilizio del Comune di Torre Annunziata prevede, per la zona B (ove si trovano i manufatti per cui è causa) una distanza minima delle costruzione di cinque metri dal confine.
Nel detto strumento urbanistico mancano prescrizioni che prevedono la possibilità di costruire in aderenza: pertanto è esclusa la possibilità di costruzione in base al principio della prevenzione con conseguente violazione, nella fattispecie, della normativa sulle distanze legali.
In proposito non può che rammentarsi e ribadirsi il condiviso orientamento più volte affermato da questa Corte, secondo cui "allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, della operatività del criterio cosiddetto della prevenzione" (Cass. civ., Sez. II, Sent. 22.02.2007, n. 4199) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.09.2016 n. 18244).

TRIBUTINotifica ko se al parente. Persona in un altro appartamento.
È nulla la notifica della cartella di pagamento consegnata a un parente che, pur vivendo presso lo stesso numero civico, abita in un altro appartamento.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione -Sez. V civile- che, con la sentenza 16.09.2016 n. 18202, ha accolto il ricorso di un contribuente che aveva impugnato l'atto impositivo consegnato dall'ufficiale giudiziario alla cognata, anche vicina di casa.
Il Collegio di legittimità ha dunque ribaltato il verdetto della Ctr di Firenze spiegando che quando la notificazione non avviene in mani proprie, il destinatario, giusta il disposto dei commi primo e secondo dell'art. 139 c.p.c., va ricercato nel comune di residenza e, precisamente, nella casa di abitazione o dove ha l'ufficio, e, nel caso in cui non venga trovato in tali luoghi, l'atto va consegnato ivi, a persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda.
Per gli Ermellini da ciò deriva che il presupposto per l'esecuzione di una valida notificazione con queste modalità è che la consegna avvenga nella casa di abitazione o presso il domicilio del notificando, mentre, se essa avviene in luoghi diversi, diventa irrilevante il rapporto tra il consegnatario e la persona cui l'atto è destinato e la notificazione deve considerarsi comunque nulla.
Infatti la notificazione dell'atto mediante consegna al familiare del destinatario è assistita da presunzione di ricezione, ai sensi dell'art. 139, secondo coma, c.p.c., solo se avvenuta presso l'abitazione del destinatario, non anche se effettuata presso l'abitazione del familiare (articolo ItaliaOggi del 20.09.2016).

VARIPatente da rifare sempre. Punti e posta.
La mancata comunicazione postale della variazione progressiva dei punti patente non invalida la successiva revisione della licenza di guida visto che in ogni multa collezionata dal trasgressore devono essere indicati chiaramente i punti sottratti. E a questo procedimento sanzionatorio non si applica la legge 241/1990 ma la legge 689/1981.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civ., con la sentenza 16.09.2016 n. 18174.
Un conducente incorso nei rigori del codice stradale ha proposto ricorso contro il provvedimento di revisione della patente di guida per azzeramento dei punti disponibili evidenziando una serie di irregolarità formali sulla mancata trasparenza del procedimento punitivo. La Corte ha rigettato tutte le censure condannando il trasgressore anche alle spese del procedimento.
Il provvedimento di revisione della patente di guida per azzeramento dei crediti disponibili a parere del collegio partecipa della medesima natura del procedimento di applicazione della sanzione accessoria della perdita dei punti, a seguito delle singole violazioni. In questo caso non si applicano gli artt. 7 e 8 della legge 241/1990 ma i principi della legge di depenalizzazione n. 689/1981. La decurtazione dei punti patente, prosegue la sentenza, è una conseguenza dell'accertamento di una infrazione stradale attestato dal verbale annotato con la decurtazione di punteggio.
La conseguente comunicazione della variazione di punteggio è un atto meramente informativo, privo di contenuto provvedimentale. In buona sostanza il provvedimento di revisione della patente si fonda sulla definitività delle multe ma non presuppone l'avvenuta comunicazione postale delle variazioni di punteggio. Questo dato l'interessato lo apprende subito, con il verbale di contestazione, e può sempre conoscere il suo saldo chiamando il servizio telematico della motorizzazione.
Il sistema permette dunque a ogni conducente incorso nei rigori della legge di conoscere il credito di punti patente per poter procedere quindi tempestivamente al recupero dei crediti smarriti prima dell'azzeramento dei bonus con conseguente richiesta di effettuazione di un nuovo esame di guida (articolo ItaliaOggi del 20.09.2016).

APPALTIParere precontenzioso vincolante per la p.a. e l'impresa. Appalti/il consiglio di stato licenzia lo schema di regolamento anac attuativo del codice contratti.
Pareri Anac di precontenzioso vincolanti per stazione appaltante e operatore economico per risolvere in anticipo le controversie. Da rivedere la norma del codice per chiarire la natura della decisione dell'Anac. Garanzie anche ai terzi interessati dalla decisione. Opportuno massimizzare le decisioni stesse.
Sono questi alcuni dei punti da evidenziati dal Consiglio di Stato nel parere 14.09.2016 n. 1920 sullo schema di regolamento dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) per il rilascio dei pareri di precontenzioso predisposto ai sensi dell'art. 211 del nuovo codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 50/2016).
Si tratta del regolamento che disciplina come debbano essere svolti i giudizi di precontenzioso attivati dalla stazione appaltante o da un operatore economico e la cui decisione ha efficacia vincolante se entrambe le parti, prima del parere Anac, si impegnano al rispetto della decisione.
Le questioni sottoposte dalle parti all'attenzione dell'Autorità (che deve decidere entro 30 giorni) possono riguardare «questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara» e il parere vincolante è impugnabile innanzi ai competenti organi della giustizia amministrativa. Il mancato adeguamento della stazione appaltante alla raccomandazione vincolante dell'Autorità entro il termine fissato è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria (che incide anche sulla qualificazione della stazione appaltante ai fini dell'iscrizione nell'apposito registro tenuto dall'Anac) entro il limite minimo di euro 250 e il limite massimo di euro 25 mila.
Il Consiglio di stato mette in evidenza la correttezza dell'impostazione del regolamento (qualificato come regolamento di organizzazione «essendo volto a disciplinare lo svolgimento della funzione precontenziosa definita dalla fonte primaria»), da cui si desume la natura di decisione amministrativa e, dunque, l'impugnabilità del parere. Qualche rilievo viene formulato rispetto all'efficacia della decisione dell'Anac, al termine dell'istruttoria sul caso concreto; a tale riguardo giudici di Palazzo Spada evidenziano che la procedura non è un processo, né può essere un nuovo grado del giudizio surrettiziamente voluto.
Nel parere si legge che al fine di ottenere la deflazione del contenzioso e di favorire la cultura dell'alternativa all'accesso alla giustizia statale «una cosa è la costruzione dell'intervento Anac come strumento cui lo Stato obbligatoriamente e preventivamente rimandi per l'esercizio del diritto di difesa in giudizio, che sarebbe stata estranea alla delega e di dubbia legittimità costituzionale, altra cosa è la costruzione di siffatto intervento come strumento generale normativamente predisposto, di cui lo Stato incoraggi o favorisca l'utilizzo, lasciando purtuttavia impregiudicata la libertà nell'apprezzamento degli interessati ad adirla».
Al di là di questo aspetto, che andrà definito in seguito, il parere richiede che l'istanza di precontenzioso deve essere comunque comunicata a tutti i soggetti potenzialmente interessati, essendo imprescindibile il rispetto del principio del contraddittorio, che anima il procedimento amministrativo, a maggior ragione quando assuma funzione precontenziosa.
Il Consiglio di stato chiede anche di reinserire la possibilità di audizione disposta dall'Autorità, valutata come uno strumento utile, da adottare per le controversie di maggior rilievo e da prevedere collocandolo dopo la scadenza del termine per prestare l'eventuale assenso al parere.
Infine il parere suggerisce di prevedere la massimazione dei pareri e la pubblicazione delle massime sul sito dell'Anac: «È attività di particolare utilità che contribuisce ad orientare i comportamenti di stazioni appaltanti e operatori e ad agevolare lo stesso lavoro dell'Anac». A tale attività deve seguire una adeguata pubblicità non solo per i pareri sul precontenzioso in ordine cronologico, prevedendone altresì la massimazione, o quanto meno la reperibilità per voci di classificazione (articolo ItaliaOggi del 20.09.2016).

APPALTI: Negli appalti commissioni immacolate. Parere cds.
Il Consiglio di Stato, con il parere 14.09.2016, n. 1919, si è espresso sulle Linee guida, adottate dall'Autorità nazionale anticorruzione, relative alle nuove regole di composizione delle commissioni giudicatrici nel settore degli appalti pubblici, fondate sulla preferenza per i commissari esterni rispetto a quelli interni alla stazione appaltante, al fine di garantire una maggiore attuazione dei principi di imparzialità e trasparenza.
Nel parere, si legge in una nota di Palazzo Spada, si è messo in rilievo l'esigenza di interpretare in modo rigoroso le condizioni, connesse alla particolare complessità dell'appalto, che consentono di derogare alla regola della nomina di commissari esterni. Ciò al fine di evitare una possibile elusione dei suddetti principi di garanzia.
Il Cds ha, inoltre, chiesto all'Autorità nazionale anticorruzione di ampliare le fattispecie di reato che impediscono a chi li ha commessi di fare parte della commissione mediante l'inserimento anche di altri reati ritenuti rilevanti, compresi quelli che il commissario ha compiuto proprio nel settore degli appalti pubblici (articolo ItaliaOggi del 17.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZIAffidamenti revocabili in autotutela.
L'ente ben può revocare in autotutela l'affidamento diretto del servizio se la Corte dei conti trova che i costi siano troppo onerosi per le casse pubbliche.

È quanto emerge dalla sentenza 12.09.2016 n. 1139, pubblicata dalla I Sez. del TAR Piemonte.
Il direttore generale di un'Asl dà il via all'affidamento diretto con procedura negoziata. Ma riceve subito una nota dalla magistratura contabile che gli ricorda come il ricorso alla trattativa privata deve essere considerato un'eccezione assoluta.
Tira aria di danno erariale e il dirigente annulla subito la delibera. E non c'è solo il ripristino della legalità alla base dell'annullamento in autotutela: il servizio di tesoreria, infatti, è svolto di solito gratis dalle banche, che ne ricavano un ritorno di immagine in termini di pubblicità.
E visto che con lo stop all'affidamento si riducono gli oneri per le finanze pubbliche l'annullamento in autotutela non ha bisogno neppure di motivazione (articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).
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MASSIMA
3) Nel merito il ricorso è infondato.
L’istituto di credito articola tre profili di illegittimità, lamentando l’assenza dei presupposti per il potere di autotutela e la lesione dell’affidamento.
3.1 Il primo profilo verte sulla insussistenza dei motivi per l’autotutela: sostiene parte ricorrente che l’Azienda si sarebbe limitata a richiamare le ragioni indicate dalla Corte dei Conti, contraddicendosi laddove afferma di aver a suo tempo ben operato. Le ragioni indicate non sono quindi riconducibili all’interesse pubblico, dal momento che la sola esigenza di ripristinare la legittimità violata non rappresenta un interesse in tal senso.
La censura non è condivisibile.
Come noto,
il potere di annullamento in autotutela viene esercitato al fine di garantire il ripristino della legalità, ma questa finalità non può integrare ex se, e tantomeno esaurire, l'ambito delle più ampie e articolate valutazioni che l'Amministrazione è chiamata ad operare, essendo invece imprescindibile una compiuta comparazione tra l'interesse pubblico e quello privato oltre alla ragionevole durata del tempo intercorso tra l'atto illegittimo e la sua rimozione.
Nel caso di specie due sono le ragioni dell’autotutela: il ripristino della legalità astrattamente violata, a causa dell’affidamento senza gara, e la necessità di adeguarsi al rilievo circa la eccessiva onerosità del contratto.
Quanto alla prima ragione dell’annullamento,
è incontestabile che il ricorso alla trattativa privata ex art. 57, comma 2, lett. a), del D. L.vo 163/2006 (la procedura negoziata è ammessa qualora, in esito all'esperimento di una procedura aperta o ristretta, non sia stata presentata nessuna offerta, o nessuna offerta appropriata, o nessuna candidatura), deve considerarsi una assoluta eccezione al principio generale della massima concorrenzialità, per cui il legislatore ha previsto una fase di indagine di mercato, anche solo al fine di consultare gli operatori economici del settore, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione.
Invero nel caso di specie, in disparte la questione se la gara indetta dalla federazione Sovranazionale fosse del medesimo oggetto o meno, l’Azienda ha omesso completamente la fase istruttoria preliminare, di indagine del mercato, pur essendo un servizio reso da più istituti bancari.
È quindi evidente la sussistenza di un procedimento che presenta profili di illegittimità, poiché
l’affidamento diretto non si giustifica quando si ravvisa anche un minimo spazio per poter utilmente esperire una procedura comparativa.
Ugualmente il secondo rilievo sollevato dalla Corte dei Conti circa le condizioni eccessivamente onerose, integra un valido presupposto per l’atto di autotutela, stante l’elevato onere che l’Azienda ha ritenuto di assumere, per un servizio che generalmente viene erogato anche gratuitamente.
Infatti nella prassi
il contratto di tesoreria è un contratto a titolo gratuito senza alcun corrispettivo, perché il beneficio e la remunerazione per la banca si riconducono ai positivi riflessi in termini di pubblicità e d'immagine con conseguente possibilità per il gestore di ampliare la clientela e di sviluppare le proprie attività nelle aree ove il servizio medesimo si svolge.
Ciò senza contare che,
secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, non vi è neppure bisogno di una particolare motivazione sull'interesse pubblico e sulla comparazione tra quest'ultimo e quello del privato allorché l'annullamento dell'atto in autotutela elimini l'indebita o ingiustificata erogazione di somme, sussidi e benefici a carico delle finanze pubbliche, in tal caso l'interesse pubblico essendo in re ipsa, senza che possa assumere rilievo in senso contrario neppure il decorso del tempo (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 12.11.2013, n. 5415; 23.10.20124, n. 5267; sez. III, 11.11.2014, n. 5539; 22.12.2014, n. 6310).
3.2 Queste argomentazioni portano al rigetto anche del secondo motivo, relativo alla asserita mancata valutazione dell'affidamento, sorto in capo alla ricorrente, che sta gestendo il servizio da due anni, con un ricavo (il canone annuo di è di € 350.000,00,) in base a condizioni che al momento della sottoscrizione erano state ritenute favorevoli.
La possibilità di un risparmio economico rende recessiva la posizione della ricorrente, anche con riferimento all'affidamento da essa vantato alla conservazione del servizio.
3.3 Da ultimo parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 21-octies, comma 2, L. 241/1990, perché non è stato notificato alcun preavviso di rigetto e l’Amministrazione non ha dimostrato che il provvedimento non avrebbe potuto avere un differente contenuto, stante la possibilità di rinegoziazione dei contenuti economici del contratto.
Anche questo motivo non può essere accolto, in quanto anche la rinegoziazione delle condizioni non avrebbero potuto sanare il vizio originario, della mancanza di indagine di mercato.
Si ricorda inoltre che
il mancato rispetto dell'obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, imposto dall'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, è inidoneo di per sé a giustificare l'annullamento di un atto, non essendo consentito, ai sensi del successivo art. 21-octies, l'annullamento dei provvedimenti amministrativi, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; ne consegue che -come nella fattispecie- laddove il ricorrente si limiti a contestare l'omessa comunicazione del preavviso, senza nemmeno allegare le circostanze che non avrebbe potuto incolpevolmente sottoporre all'Amministrazione, il motivo con cui si censura la mancata comunicazione deve intendersi inammissibile o, comunque, irrilevante per assoluta genericità (Tar Lazio, sez. III; 21.04.2015, n. 5823).
Pertanto il ricorso va respinto, unitamente alla domanda di risarcimento dei danni, stante la legittimità dell’operato dell’Azienda sanitaria.

APPALTIConcessioni, doppia garanzia. Dalle banche, nell'interesse pubblico.
Legittimo richiedere due referenze bancarie quando l'affidamento di una concessione deve garantire la tutela di esigenze imperative di interesse pubblico e sociale che possono prevalere sulla garanzia della massima concorrenza.

È quanto ha affermato la Corte di giustizia Ue, Sez. II, con la sentenza 08.09.2016 n. C-225/15, rispetto a una vicenda relativa a un appalto per l'affidamento di una concessione per la scommesse su eventi sportivi, inclusi quelli ippici. Veniva eccepito che l'imposizione, da parte delle autorità italiane, di rigidi requisiti di partecipazione alla gara avrebbe dovuto necessariamente conciliarsi con il principio della massima partecipazione alla gara.
La sentenza afferma che, in via generale, l'obbligo di fornire dichiarazioni da parte di due istituti bancari è «atto a garantire che l'operatore economico possegga una capacità economica e finanziaria che gli consenta di far fronte agli obblighi che potrebbe contrarre nei confronti dei vincitori delle scommesse». Su questo punto la Corte si era già espressa in passato affermando che il requisito della disponibilità di un capitale sociale di una certa entità può rivelarsi utile per accertare la capacità economica e finanziaria di un concorrente.
Nel caso esaminato (scommesse e gioco d'azzardo, settore non armonizzato dalle direttive Ue), la Corte europea ha precisato che, premesso che le autorità nazionali hanno molta discrezionalità nel determinare i requisiti a tutela del consumatore e dell'ordine sociale, l'obbligo di presentare due dichiarazioni provenienti da due istituti bancari distinti «non eccede quanto necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito laddove ciò risulti da una valutazione che deve essere effettuata alla luce degli obiettivi perseguiti dalle autorità e del livello di tutela che esse intendono assicurare».
Dunque, è la conclusione, tenuto conto della natura delle attività economiche dei giochi d'azzardo, il requisito imposto agli offerenti costituiti da meno di due anni, e i cui ricavi complessivi dell'attività di operatore di gioco fossero inferiori a 2 mln di euro negli ultimi due esercizi, di fornire dichiarazioni da almeno due istituti bancari, non risulta eccedere quanto necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
  
1) La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi e, in particolare, il suo articolo 47 devono essere interpretati nel senso che una normativa nazionale che disciplina il rilascio di concessioni nel settore dei giochi d’azzardo, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, non rientra nel loro ambito di applicazione.
   2) L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una disposizione nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che impone agli operatori che intendono rispondere ad una gara diretta al rilascio di concessioni in materia di giochi e di scommesse l’obbligo di comprovare la propria capacità economica e finanziaria mediante dichiarazioni rilasciate da almeno due istituti bancari, senza ammettere la possibilità di dimostrare tale capacità anche in altro modo, sempreché la disposizione di cui trattasi sia conforme ai requisiti di proporzionalità stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

PUBBLICO IMPIEGOTimbra il cartellino e poi se ne va via, recesso confermato. Licenziamenti. Sanzionato dipendente Asl.
Risulta legittima e proporzionata la misura sanzionatoria del licenziamento disciplinare, preceduta dal provvedimento di sospensione, irrogata nei confronti del pubblico dipendente assentatosi dal servizio dopo aver fatto risultare in modo fittizio la sua presenza attraverso la timbratura del cartellino marcatempo.

La Corte di Cassazione -Sez- lavoro- è pervenuta a questa decisione nel caso del dipendente di un’azienda sanitaria locale. Il lavoratore, a quanto si evince dalla sentenza 06.09.2016 n. 17637, dopo aver effettuato la timbratura del cartellino all’atto di entrare nella struttura ospedaliera, era uscito per dedicarsi ad attività estranea rispetto a quella lavorativa. Lo stesso dipendente risultava avere poi effettuato la timbratura in uscita al termine del turno di servizio previo rientro nella struttura ospedaliera. Per i giudici di legittimità, che hanno confermato il giudizio dei due gradi di merito, il lavoratore con questo comportamento si era reso responsabile di falsa attestazione della propria presenza in servizio.
La Corte rimarca che la condotta inadempiente realizza una delle fattispecie contemplate dal decreto 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego) in presenza delle quali è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento. L’articolo 55-quater del Testo unico prevede, in proposito, che incorre nel licenziamento, tra l’altro, il dipendente pubblico che si rende responsabile di «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente».
Ad avviso della Cassazione, nell’ambito di questa disposizione di legge rientra lo specifico comportamento del pubblico dipendente che effettua la timbratura del cartellino marcatempo, in entrata e in uscita, in assenza di una effettiva corrispondenza con la sua presenza in servizio, in quanto risultano integrati gli estremi della falsa attestazione sull’orario di lavoro mediante utilizzo di una dinamica fraudolenta.
La Cassazione osserva pure come la falsa attestazione circa l’effettiva presenza in servizio riportata sul cartellino marcatempo possa anche integrare gli estremi del reato di truffa aggravata, che si realizza nel caso in cui i periodi di assenza ingiustificata siano da considerare economicamente apprezzabili, ovvero siano tali da arrecare un pregiudizio valutabile in termini monetari a carico della pubblica amministrazione.
La sentenza è degna di nota per l’attualità del tema affrontato e si fa particolarmente apprezzare in relazione alle recenti modifiche previste dalla Riforma Madia con riferimento ai nuovi termini per la definizione del procedimento disciplinare diretto a sanzionare proprio le azioni dei dipendenti pubblici connotate da un utilizzo fraudolento degli strumenti di rilevazione delle presenze
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.09.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

VARI: Foglio di via per chi turba la convivenza civile.
Il Ministero dell'interno può emettere il foglio di via obbligatorio nei confronti di chi turbi la tranquillità della convivenza civile.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 06.09.2016 n. 3818.
La vicenda ha riguardato un uomo a cui è stato temporaneamente impedito di fare rientro nel Comune di Roma.
Ciò è avvenuto perché, una volta perso il lavoro, l'interessato è stato fatto oggetto di numerose denunce per reati contro l'ordine pubblico: manifestazione non autorizzata, inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità, resistenza a pubblico ufficiale, procurato allarme, interruzione di pubblico servizio, invasione di edifici ecc. Si cita un episodio di resistenza passiva o l'aver impedito col proprio corpo l'uscita della vettura del capo gabinetto di un ministero. Insomma l'interessato «da anni protesta» in vari modi contro il licenziamento.
Se si consulta il dato normativo ci si accorge che l'art. 1 del decreto legislativo n. 159 del 2011 prevede che le misure di prevenzione personali siano applicabili in alcuni casi, tra cui (lett. c) nei riguardi di coloro che per il loro comportamento offendono o mettono in pericolo... la sicurezza o la tranquillità pubblica.
Invece, per quanto riguarda il foglio di via obbligatorio (art. 2), viene richiamato come presupposto applicativo solo la sicurezza, e non anche la tranquillità pubblica. I giudici amministrativi hanno tuttavia dichiarato legittimo l'ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, peraltro anche valutando circostanze sopravvenute.
Palazzo Spada ha affermato che i fatti si sono tradotti non soltanto «in manifestazioni di protesta o anche comportamenti soltanto petulanti o fastidiosi», ma in condotte costituenti reato, lesive della tranquillità pubblica. Vi è da dire che il ragionamento espresso in sentenza sovrappone quindi i concetti di sicurezza e tranquillità pubblica (che parrebbe più sfuggente e meno intenso) come base applicativa della misura, mentre il dato normativo generale (art. 1) li prevede con particella disgiuntiva (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

APPALTIGara, ammesso chi paga la cartella a rate.
Cassazione. Non è punibile con l’esclusione chi certifica di non avere commesso violazioni tributarie e paga il debito dilazionato
L'imprenditore, che per partecipare a una gara pubblica certifica falsamente l'assenza di violazione tributarie definitivamente accertate, non commette il reato di falso se è stato ammesso alla rateazione del debito tributario dall'amministrazione finanziaria prima della partecipazione alla procedura e non sia inadempiente nel pagamento della varie rate.
A fornire questa interessante interpretazione è la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 05.09.2016 n. 36821.
Un imprenditore veniva condannato nei due gradi di giudizio per aver attestato falsamente nell'istanza di partecipazione a una gara per la fornitura di un'autovettura a un Comune, di non aver commesso violazioni definitivamente accertate rispetto agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse, nonostante fossero state definitivamente accertate nei suoi confronti numerose irregolarità fiscali.
Secondo i giudici di merito, la rateazione dei debiti tributari successiva al loro accertamento non faceva venir meno la mendacità della dichiarazione.
Ricorreva con successo per cassazione l'imputato. Innanzitutto la Cassazione rileva che la norma esclude dalla partecipazione alle gare pubbliche i soggetti che hanno commesso violazioni definitivamente accertate rispetto agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti, facendo specifico riferimento al pagamento di debiti tributari certi scaduti ed esigibili.
Come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa in varie pronunce ciò che rileva in materia non è la tutela corretta del prelievo fiscale ma l'affidabilità dei soggetti che contrattano con la Pa. Tale affidabilità potrebbe venir meno in presenza di omessi o ritardati pagamento ovvero di sottrazione di materia imponibile a imposizione. L'accesso alla rateazione per tali violazioni differisce in concreto l'esigibilità della scadenza dei debiti tributari iniziali.
Si tratta di un istituto che va incontro alle imprese in temporanea difficoltà economica: esse possono regolarizzare la propria posizione tributaria senza incorrere in rischi di insolvenza. In tale contesto è evidente che il contribuente ammesso alla rateazione del debito tributario conseguente a violazioni fiscali non commette alcun reato se dichiara di non aver commesso illeciti tributari definitivamente accertati.
A tal fine, secondo i giudici di legittimità, sono necessarie alcune condizioni: 1) la rateazione sia stata accordata con un provvedimento dell'amministrazione finanziaria antecedente alla istanza di partecipazione alla gara; 2) non risulti inadempiuta anche una sola rata ovvero il piano non sia stato revocato dall'amministrazione; 3) non deve trattarsi di transazione fiscale in quanto, operando nell'ambito di un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione del debito, per essere efficace richiede l'omologazione del Tribunale
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito esposte.
1.
Nessun dubbio sul fatto che le false dichiarazioni contenute nell'istanza di partecipazione ad una gara d'appalto, rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del dPR 445/2000 concretino il reato di cui agli artt. 76 dPR cit. e 483 cod. pen..
In tal senso è la costante giurisprudenza dì questa Corte, la quale insegna che
le dichiarazioni sostitutive di certificazioni, rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del predetto d. P.R. n. 445 dei 2000, si considerano come fatte a pubblico ufficiale, sicché la falsità delle stesse integra il reato di cui all'art. 483 cod. pen. (Cass., sez. 5, n. 18731 del 31/01/2012; Sez. 3, n. 7363 del 12/01/2012; Sez. 5, n. 12149 del 01/12/2011; Sez. 5, n. 3681 del 14/12/2010).
Conseguentemente,
anche la dichiarazione resa al Comune, all'atto di partecipazione ad una gara d'appalto, è rivolta a pubblico ufficiale ed è sanzionata -in caso di falsità- dall'art. 483 cod. pen..
2. E' fondato, invece, il secondo motivo di ricorso (e con esso il terzo).
Entrambi i giudici di merito hanno ritenuto irrilevante il fatto che i debiti tributari, maturati a carico del dichiarante negli anni 1998-2004, fossero stati oggetto di rateizzazione. Questo perché, si legge in sentenza, l'ammissione al beneficio -da parte dell'ente creditore- non aveva fatto venir meno gli inadempimenti precedenti e, in particolare, "le irregolarità definitivamente accertate", ma, anzi, le presupponeva, "avendo lo scopo di indirizzare verso forme meno invasive e sostanzialmente concordate con il contribuente l'attività di esazione" (pag. 6). Di conseguenza, l'ammissione al pagamento rateizzato non aveva fatto venir meno l'illecito precedentemente commesso.
2.1. Tale indirizzo non può essere condiviso.
Secondo il disposto dell'art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, come modificato dall'art. 1, comma 5, legge 26.04.2012, n. 44 -che esclude dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti dei lavori, forniture e servizi, i soggetti che hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti- costituiscono "violazioni definitivamente accertate quelle relative all'obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili".
Il riferimento alla "esigibilità" del debito tributario -introdotto nel 2012 dalla legge 44 citata- ha reso evidente che, nell'intenzione del legislatore, l'ostacolo alla partecipazione alle gare d'appalto è rappresentato da debiti indicativi di una situazione di irregolarità gestoria dell'impresa o di difficoltà finanziaria della stessa, che rendono incerta l'esecuzione dei lavori eventualmente affidati all'impresa partecipante alla gara.
Come è stato sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa,
ciò che rileva in materia non è la tutela del corretto prelievo fiscale come previsto nell'ordinamento tributario, ma soltanto l'affidabilità dei soggetti che contrattano con l'amministrazione, affidabilità che viene meno tanto nel caso di omessi e ritardati pagamenti quanto nel caso di sottrazione di materia imponibile caratterizzata da artifici e raggiri contabili e quale che sia l'entità dell'evasione accertata.
L'inaffidabilità dei soggetti che sono incorsi in violazioni di carattere tributario rimane sospesa, però, in caso di attivazione delle procedure amministrative o giurisdizionali di controllo, mentre l'affidabilità può essere ripristinata da sanatorie legislative, dall'adesione a procedure conciliative o dagli accordi intervenuti con l'ente impositore, tra cui la rateizzazione. Questa, rimodulando la scadenza dei debiti tributari e differendone l'esigibilità, cancella anche l'originario inadempimento dei destinatari delle cartelle esattoriali.
Il carattere novativo della rateizzazione di un debito tributario è, dunque, una manifestazione del favore legislativo verso i contribuenti in temporanea difficoltà economica, ai quali viene offerta la possibilità di regolarizzare la propria posizione tributaria senza incorrere nel rischio di insolvenza. In questa prospettiva la rateizzazione può essere considerata una misura di sostegno alle imprese (in questo senso: Cons. Stato, Sez. V, 18.11.2011, n. 6084; Cons. Stato Sez. III, Ordinanza 05.03.2013, n. 1332; TAR Lombardia Milano Sez. I, 14.06.2013, n. 1552; TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 10.12.2012, n. 1924; TAR Emilia-Romagna Bologna, Sez. I, 10.12.2010, n. 8108; TAR Toscana Firenze, Sez. I, 13.07.2010, n. 2529).
Ne è prova il fatto che in ambito diverso, ma affine a quello di cui si discute,
anche l'autorità amministrativa considera sufficiente, per ritenere sussistente il requisito della regolarità contributiva, la "richiesta di rateizzazione per la quale l'Istituto competente abbia espresso parere favorevole" (art. 5 D.M. 24.10.2007). Parimenti, l'Autorità Nazionale Anticorruzione ha, con deliberazione n. 1 del 12.01.2010, nello stabilire i requisiti di ordine generale per l'affidamento di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ai sensi dell'art. 38 d.lgs. 163/2006, previsto l'esclusione del concorrente per irregolarità fiscale, "salvo completa regolarizzazione".
Il principio espresso dalla giurisprudenza amministrativa va condiviso, perché individua correttamente la ratio dell'art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che non è volto a sanzionare le imprese inadempienti agli obblighi tributari, ma ad assicurare la partecipazione alle gare d'appalto di soggetti privi di pendenze col fisco, che mettano in discussione la capacità di realizzazione delle opere loro affidate.
2.2.
Affinché la rateizzazione del debito fiscale possa elidere la "violazione fiscale definitivamente accertata" sono necessarie, però, alcune condizioni, che vanno accertate in concreto.
E' necessario, innanzitutto:
- che la rateizzazione sia stata accordata con idoneo provvedimento dell'amministrazione finanziaria antecedente alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura di gara, non bastando che una domanda di rateizzazione, magari inadeguata o pretestuosa, sia stata presentata;
- che non risulti inadempiuta anche relativamente ad una sola rata o non risulti disdetta dall'autorità amministrativa;
- che non sia avvenuta nell'ambito di una transazione fiscale, la quale, operando dentro il concordato preventivo o l'accordo di ristrutturazione, per essere efficace, richiede l'omologazione da parte del Tribunale.

URBANISTICA: Il potere di pianificazione territoriale deve essere correlato ad un concetto di urbanistica che non è limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (relativamente ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che è volto a perseguire obiettivi economico-sociali della comunità locale, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali.
In particolare, il concetto di urbanistica non è strumentale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in relazione alle diverse tipologie di edificazione, ma è volto funzionalmente alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente tutelati.

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La richiesta di approvazione di una variante diretta a veder realizzato una grande struttura commerciale interessante una zona del territorio comunale, particolarmente sensibile per la gestione dell’intero territorio comunale posta com’è in una posizione strategica per la città (nei pressi della foce del fiume Metauro, nelle vicinanze del mare e luogo altresì di grande valenza ambientale), avuto riguardo -quindi- alle caratteristiche e alla valenza dei luoghi la scelta urbanistica del Comune in questa specifica ipotesi, ancorché diretta ad incidere formalmente su una singola area, in realtà va a riguardare le sorti di una importante, strategica porzione del territorio comunale sicché la previsione che si va ad adottare si inserisce in un più complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale.
Questo sta a significare che la motivazione di accordare o meno una tipizzazione del genere di quella richiesta da ... deve essere conforme al complesso di scelte da effettuarsi nella sede dello strumento urbanistico secondo criteri di sufficienza e congruità, rispetto alle quali la posizione del privato, per quanto meritevole in sé di apprezzamento, si appalesa senz’altro recessiva.
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E' granitico l'orientamento giurisprudenziale per cui le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica di carattere generale costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità se non per profili di manifesta illogicità ed irragionevolezza.
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4. L’appello è fondato e deve essere accolto.
Preliminarmente il Collegio osserva che, in aderenza ai principi sviluppati dalla Adunanza plenaria n. 5 del 2015, si presenta come maggiormente liquida (e dunque assorbente di altro profilo), la disamina del secondo motivo di appello che appunta le sue critiche sull’ordito motivazionale della sentenza qui gravata, lì dove il TAR, avallando le censure formulate dalla ricorrente di primo grado ha ritenuto generiche ed indimostrate le ragioni variamente esposte dal Consiglio comunale nella delibera n. 25/2015 a sostegno della determinazione di non approvazione della variante al PRG proposta da Ma.Po. s.r.l.
4.1. In particolare il primo giudice ha rilevato che le motivazioni rese in sede di dichiarazione di voto dall’assemblea consiliare ed inerenti alle esigenze di approfondire ulteriormente le problematiche urbanistiche dell’intero territorio comunale nonché agli aspetti della pianificazione commerciale fossero generiche ed apodittiche se non dilatorie, come tali non idonee a giustificare l’opposto diniego.
4.2. L’appellante Amministrazione comunale ritiene errate le osservazioni e prese conclusioni del Tar, rilevando la legittimità delle giustificazioni addotte dal Consiglio comunale a sostegno del proprio divisamento.
4.3. I profili di doglianza dedotti dalla parte appellante appaiono meritevoli di positivo apprezzamento.
Tutti i motivi accolti in prime cure, infatti, o sono inammissibili -perché impingono il merito di valutazioni e scelte di politica urbanistica ampiamente discrezionali al di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito previsti dall’art. 134 c.p.a. (cfr. Ad. plen., n. 5 del 2015)– o sono infondati, alla stregua delle risultanze istruttorie documentali versate in atti.
4.4. Il Collegio deve innanzitutto qui richiamare principi già espressi dalla giurisprudenza di questa Sezione in relazione all’esercizio del potere di pianificazione urbanistica ed alla natura della motivazione delle scelte in tal modo effettuate.
Questa Sezione con sentenza del 10.05.2012 n. 2710 (successivamente riconfermata nelle sue motivazioni) ha già avuto modo di osservare che il potere di pianificazione territoriale deve essere correlato ad un concetto di urbanistica che non è limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (relativamente ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che è volto a perseguire obiettivi economico-sociali della comunità locale, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali.
In particolare, il concetto di urbanistica non è strumentale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in relazione alle diverse tipologie di edificazione, ma è volto funzionalmente alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente tutelati (cfr. di recente, Sez. IV, n. 2221 del 2016).
Tanto premesso in linea generale, con riferimento alla fattispecie all’esame, la richiesta di approvazione di una variante diretta a veder realizzato una grande struttura commerciale va interessare una zona del territorio comunale, quella costituita dall’area dell’ex zuccherificio particolarmente sensibile per le gestione dell’intero territorio comunale posta com’è in una posizione strategica per la città di Fano (alle porte sud), nei pressi della foce del fiume Metauro, nelle vicinanze del mare e luogo altresì di grande valenza ambientale.
Avuto riguardo quindi alle caratteristiche e alla valenza dei luoghi la scelta urbanistica del Comune in questa specifica ipotesi, ancorché diretta ad incidere formalmente su una singola area, in realtà va a riguardare le sorti di una importante, strategica porzione del territorio comunale sicché la previsione che si va ad adottare si inserisce in un più complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale.
Questo sta a significare che la motivazione di accordare o meno una tipizzazione del genere di quella richiesta da Ma.Po. S.r.l. deve essere conforme al complesso di scelte da effettuarsi nella sede dello strumento urbanistico secondo criteri di sufficienza e congruità, rispetto alle quali la posizione del privato, per quanto meritevole in sé di apprezzamento, si appalesa senz’altro recessiva (Cons. Stato, Sez. IV, n. 5478 del 2008).
Se così è, tornando alla fattispecie all’esame deve darsi atto che la motivazione di negare la chiesta variazione di destinazione, come resa dal Consiglio Comunale di Fano attraverso le dichiarazioni di voto dei componenti dell’assemblea consiliare appare rispettosa dei su riportati principi giurisprudenziali dai quali il Collegio non ha motivo di discostarsi.
Invero, dalle articolate dichiarazioni di voto costituenti la motivazione per relationem della delibera per cui è causa, il Consiglio comunale ha formulato considerazioni che hanno riguardato due fondamentali aspetti della disciplina pianificatoria:
   a) quello relativo alle problematiche urbanistiche afferenti l’intero territorio comunale in relazione alle quali, coerentemente alle impostazioni generali del Piano l’assemblea comunale ha espresso la volontà di procedere ad una più generale riconsiderazione della disciplina riguardante la più vasta zona territoriale costituita dall’area ex zuccherificio ;
   b) quello riguardante la tematica commerciale lì dove ha il Consiglio comunale ha privilegiato le forme di commercio, quelle c.d. “di vicinato” rispetto al commercio di massa, il tutto nell’ambito di una nuova visione dell’assetto dell’area diretta a promuovere le variegate valenze del luogo e a superare le esigenze d’impresa.
Ora le valutazioni espresse dall’Organo consiliare non solo non sono generiche ed apodittiche, ma costituiscono parte consustanziale di una motivazione “politica” pienamente consentita oltre ché giustificata perché coerente con il complesso di scelte urbanistiche interessanti lo sviluppo di una “significativa” parte del territorio comunale, rimesse, come tali alla discrezionalità del massimo organo comunale (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 8682 del 2010) .
All’uopo è sufficiente richiamare il granitico orientamento giurisprudenziale per cui le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica di carattere generale (come quella qui in rilievo) costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità se non per profili di manifesta illogicità ed irragionevolezza, qui non rinvenibili (Cons. Stato, Sez. IV, n. 7492 del 2010).
Infine, vale qui far rilevare come non ricorra una particolare situazione che abbia creato aspettativa o affidamento in favore della Società richiedente la variazione urbanistica in contestazione, non potendo certo discendere una aspettativa giuridicamente qualificata dalla interlocuzione infra procedimentale e dalla esistente destinazione produttiva impressa all’area, come richiesto dalla Società originariamente ricorrente ed erroneamente pure sostenuto dal TAR (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. n. 9006 del 2009).
5.- In forza di quanto sin qui esposto, l’appello va accolto con riforma in parte qua dell’impugnata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza IV, sentenza 05.09.2016 n. 3806 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORORistrutturazioni: responsabilità ampia. La Cassazione su L’Aquila. Il compito dei professionisti va oltre l’intervento migliorativo.
Nelle indagini sul terremoto del 24 agosto, potrebbe diventare ancora più difficile la posizione dei professionisti che hanno ristrutturato gli edifici crollati: proprio ieri la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, ha depositato una sentenza che attribuisce loro ampie responsabilità, in questo caso sul sisma che il 06.04.2009 colpì L’Aquila.
Secondo i giudici, il loro compito va oltre quello che si potrebbe desumere dal fatto che i lavori consistono “solo” in interventi migliorativi parziali. E comprende l’obbligo di informare bene i proprietari sui potenziali rischi che un intervento parziale comporta, in modo che possano eventualmente commissionare ulteriori lavoro.
La
sentenza 01.09.2016 n. 36285
esamina le responsabilità penali di un tecnico incaricato da un condominio, sette anni prima del sisma, di progettare ed eseguire il rinforzo di sei pilastri in calcestruzzo armato. L’edificio è poi integralmente crollato.
Dunque, come in questi giorni tra Reatino ed Ascolano, anche in questo caso si discute di “adeguamento” e di “miglioramento” sismico, di analisi sulla struttura edilizia globale quando vi si esegue un parziale intervento (che potrebbe anche rafforzare alcune parti dell’edificio ma far gravare maggior peso su altre che vengono invece lasciate com’erano) e di “posizione di garanzia del direttore dei lavori” (intesa come obbligo di garantire sia la corretta esecuzione dei lavori sia la complessiva sicurezza del manufatto).
Il fulcro del ragionamento della Corte è l’autonomia tra le opere affidate e quelle già esistenti prima dei lavori sotto accusa: su queste ultime, evidentemente, non c’è un vero potere di intervento da parte del direttore dei lavori. Nonostante questo, secondo la Cassazione egli ha comunque l’obbligo giuridico di intervenire (articolo 40 del Codice penale), proprio perché a lui è attribuita una posizione di garanzia. Infatti, essa implica l’obbligo giuridico di impedire che si verifichi un evento (il crollo, in questo caso). E non impedire un evento pur avendo l’obbligo di farlo equivale a cagionarlo.
Nel caso specifico, il direttore dei lavori era stato condannato perché aveva l’obbligo di ben eseguire il mandato di rafforzare pilastri con gravi fragilità per errori di valutazione dei progettisti ed esecutori iniziali, in particolare sulla qualità del calcestruzzo.
Un intervento che esigeva un collaudo, necessariamente esteso all’intera struttura. Anche se si trattava di un intervento “migliorativo” secondo il Dm 16.01.1996, punto C.9.1.2., era infatti un risanamento strutturale e funzionale, con implicazioni importanti di natura statica. Nei miglioramenti va documentato l’adeguamento per le sole opere interessate, ma nella relazione tecnica va anche essere dimostrato che non si producano sostanziali modifiche nel comportamento strutturale globale dell’edificio.
Tutto ciò, comunque, non implica una condanna sicura per il professionista “negligente”: la Cassazione lo ha rinviato in Corte d’appello, per far stabilire se le vittime avrebbero commissionato altri e decisivi lavori, qualora informate dei rischi
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, meno lacci e lacciuoli. Ritocchi a prospetti e coperture senza ok paesaggistico. Lo prevede il dpr in materia di autorizzazione che ha avuto l'ok del Consiglio di stato.
L'autorizzazione paesaggistica versione light esonera prospetti e coperture degli edifici (se di modesta entità).

È quanto prevede lo schema di dpr (Atto del Governo n. 336 - Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento relativo all'individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata) sulla individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata (articolo 12 del dl 83/2014), che ha superato, con alcuni rilievi, il vaglio del parere 01.09.2016 n. 1824 del Consiglio di Stato.
La struttura dell'articolato del decreto evidenzia gli interventi paesaggisticamente irrilevanti o di lieve entità non soggetti ad autorizzazione paesaggistica e gli interventi di lieve entità sottoposti a una procedura autorizzatoria semplificata.
Il parere di palazzo Spada si sofferma sui primi, innanzi tutto, per formulare una opinione di congruità di massima. In effetti l'esonero dall'autorizzazione deve essere appannaggio degli interventi privi di rilevanza paesaggistica. E questo si verifica, ad esempio, per le opere interne che non alterano l'aspetto esteriore degli edifici.
Diverso è il caso di altri interventi, per i quali il Consiglio di stato eccepisce la non rispondenza al criterio della inesistenza di impatto paesaggistico.
Il parere si riferisce a quegli interventi che, per definizione, non possono ritenersi irrilevanti ai fini paesaggistici, fra i quali rientrano, sempre per esempio, gli interventi relativi ai prospetti e alle coperture degli edifici.
Il parere in commento, riferisce, però, che, in proposito, il ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ha rilevato che questi interventi non sono soggetti ad autorizzazione paesaggistica solamente qualora in relazione alla loro dimensione o alle modalità della loro realizzazione non assumano una specifica lesività nei confronti del contesto tutelato dal vincolo, rispettando «gli eventuali piani colore vigenti nel comune» e «le caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti».
Altri interventi pure liberalizzati, ma che, in astratto, sembrano poter incidere in maniera lesiva sul contesto paesaggistico, sono quelli «indispensabili per l'eliminazione delle barriere architettoniche», e quello concernente l'istallazione di «micro generatori eolici» di altezza inferiore a metri 1,5.
Anche in relazione a tali interventi, il ministero ha fatto delle precisazioni: la liberalizzazione opera per rispettare l'interesse della tutela della salute e dei soggetti diversamente abili e la promozione dell'utilizzo di fonti rinnovabili di produzione dell'energia.
Sulla scorta di queste deduzioni, il Consiglio di stato ha licenziato favorevolmente il parere, che si spinge a chiedere un coordinamento con altre norme in corso d'opera. In particolare il discorso riguarda il cosiddetto decreto «Scia/2». Anche quest'ultimo provvedimento precede semplificazioni amministrative e, in particolare, interventi liberalizzati e non ci devono essere contraddizioni.
Il decreto in esame, oltre a interventi e opere non soggetti ad autorizzazione paesaggistica, individua gli interventi, di regola inseriti fra quelli che necessitano di un'esplicita autorizzazione paesaggistica, che, però, possono essere realizzati senza l'acquisizione di tale provvedimento, nel caso in cui il decreto di vincolo o il piano paesaggistico prevedano specifiche prescrizioni d'uso. Infine ci sono interventi che non necessitano di autorizzazione paesaggistica, perché compresi nell'ambito applicativo di specifici «accordi di collaborazione» fra ministero, regione ed enti locali.
Il decreto elenca, infine, interventi e opere di lieve entità soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato.
Per il procedimento autorizzatorio semplificato sono previste tre diverse modalità di presentazione dell'istanza: l'invio, anche telematico, allo sportello unico per l'edilizia (Sue) nel caso di interventi edilizi; l'invio, anche telematico, allo sportello unico per le attività produttive (Suap); l'invio all'autorità procedente nei casi residuali. Il termine «tassativo» di conclusione del procedimento autorizzatorio semplificato è di sessanta giorni dal ricevimento della domanda da parte dell'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 03.09.2016).
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Al riguardo, si legga anche:
Intesa sullo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento, proposto dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, relativo all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164 (Conferenza Unificata, repertorio atti n. 90/CU del 07/07/2016);
Oggetto: Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento relativo all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, esame preliminare del 15.06.2016).

EDILIZIA PRIVATAAutorizzazione paesaggistica, disco verde dal Consiglio di Stato.
Il Consiglio di stato -Sezione consultiva atti normativi– con il parere 01.09.2016 n. 1824 ha espresso avviso favorevole, con alcune osservazioni e proposte di correttivi, sullo schema di decreto (Atto del Governo n. 336 - Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento relativo all'individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata) proposto dal Ministero per i beni culturali riguardante l'individuazione degli interventi che sono esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sono sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata.
Il decreto, spiega una nota di Palazzo Spada, si pone l'obiettivo di snellire il peso burocratico sulle iniziative dei privati, cittadini e imprese, e di restituire efficienza ed efficacia all'azione amministrativa in un ambito, quale quello della tutela paesaggistica, particolarmente delicato per la rilevanza costituzionale degli interessi pubblici coinvolti.
Il Consiglio di stato, tra le osservazioni formulate, ha precisato che qualora occorrano sia un'autorizzazione paesaggistica, sia un permesso di costruzione, in caso di disaccordo tra le amministrazioni rispettivamente competenti, si convoca una conferenza di servizi; e che in ogni caso è fatta salva, ove occorrente, la distinta autorizzazione da rilasciare a tutela dei beni di interesse storico, artistico o archeologico.
Inoltre i giudici di Palazzo Spada hanno osservato che anche per gli interventi «liberalizzati», le disposizioni del decreto hanno immediata applicazione per le regioni a statuto ordinario, laddove le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano hanno l'obbligo di darvi attuazione con proprie disposizioni, secondo i principi statutari.
Intanto, in attuazione del Codice appalti, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 293 del 31.08.2016 il dpcm 10.08.2016 recante «Composizione e modalità di funzionamento della Cabina di regia», previsto dall'articolo 212, comma 5, del nuovo Codice. La Cabina si riunisce per la predisposizione delle proposte di modifica e correttive al fine di garantire l'efficacia degli interventi normativi e regolatori nei settori degli appalti e delle concessioni e anche per la segnalazione all'Anac, l'Authority anticorruzione, prevista dall'art. 212, comma 2, del nuovo codice (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: La risarcibilità del danno scatta anche senza cauzioni o polizze. CONTRATTI PUBBLICI/ Sentenza del Consiglio di stato: principio generale.
Nei contratti pubblici il principio generale sulla risarcibilità del danno si applica pur se il bando non richiede il versamento della cauzione provvisoria o la presentazione della polizza fideiussoria.

Il principio è contenuto nella sentenza 31.08.2016 n. 3755 del Consiglio di Stato, Sez. III.
La vicenda, attinente a investimenti per il funzionamento di un nuovo ospedale, ha riguardato il rifiuto di stipulazione del contratto di mutuo da parte della banca risultata prima in graduatoria. La stazione appaltante ha quindi disposto lo scorrimento della graduatoria individuando il nuovo contraente in altro istituto di credito, che però prevedeva uno spread meno favorevole. Per questo motivo è stato richiesto il risarcimento del danno emergente risultante dal differenziale tra il primo e il secondo spread.
In primo luogo il collegio ha ritenuto la giurisdizione affermando che «in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva l'amministrazione pubblica ben può agire con un ricorso, a tutela di un proprio diritto soggettivo». In secondo luogo il rifiuto di stipulare il contratto a seguito della presentazione della migliore offerta vincolante è stato qualificato come un fatto illecito, e ciò al di là del fatto che nella specie non vi era nemmeno stata l'aggiudicazione. I giudici amministrativi hanno proseguito affermando che l'ordinamento ha tradizionalmente disciplinato il caso in cui l'aggiudicatario di una gara d'appalto poi si rifiuti di stipulare il contratto.
In tal caso non rilevano le discussioni concernenti la natura della sua responsabilità e si prevedono forme di tutela «rafforzata» della stazione appaltante: cauzione provvisoria e richiesta di pagamento «a prima richiesta» al garante. Tuttavia, anche se il bando non prevede tali forme di tutela la p.a. può chiedere al giudice di disporre la condanna dell'autore del fatto illecito.
In pratica «mentre nel diritto privato il codice civile del 1942 ha previsto regole per i casi di responsabilità precontrattuale, nel diritto pubblico la normativa sulla contabilità di stato e i codici sui contratti pubblici (2006 e 2016) hanno posto regole specifiche sullo specifico caso in cui l'aggiudicatario violi i principi di buona fede e di correttezza» (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il parere vincolante impedisce il dietrofront.
L'amministrazione non può impugnare un proprio provvedimento amministrativo adottato in base a un parere vincolante: o sollecita la revisione del parere oppure fa ricorso contro quest'ultimo.

Lo ha affermato il TAR Campania-Salerno, Sez. II, con la sentenza 31.08.2016 n. 2040.
La questione riguarda i poteri dell'Autorità decidente nei casi in cui la legge prevede la richiesta di un parere vincolante, il cui contenuto deve essere recepito in sede di provvedimento finale.
I giudici hanno ritenuto che «per non incorrere in una insanabile contraddizione logica» l'amministrazione non può prescindere dai pareri vincolanti in caso di decorrenza del termine, in quanto a essi non si applica l'art. 16 legge n. 241 del 1990.
In secondo luogo viene affrontata la problematica del vincolo contra legem: cioè le regole operanti nel caso in cui l'Autorità competente all'adozione del provvedimento conclusivo dubiti della legittimità del parere vincolante in base al quale l'atto finale deve essere (senza possibilità di dissenso) adottato. Il collegio ha deciso che l'autorità decidente può sollecitare una determinazione revisionale dell'organo consultivo (doverosa nell'an ma incerta negli esiti) e semmai aggredire il parere in sede giurisdizionale.
Ciò anche perché il parere vincolante ha funzione decisoria e quindi il rapporto tra autorità decidente e autorità «consultata» si atteggia come decisione pluristrutturata (co-decisione), sempre alla luce dell'onere di «leale cooperazione» tra amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).
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MASSIMA
1.- Il ricorso, così come articolato, è inammissibile.
Importa anzitutto rammentare e ribadire, alla luce della narrativa in fatto che precede, che il Comune di Cava de’ Tirreni ha inteso impugnare, con il ricorso articolato in principalità, il parere contrario reso in data 19.03.2014 dalla Soprintendenza nel corso di detta conferenza dei servizi, indetta dallo stesso Comune perché fosse accertato l’eventuale contrasto dei fabbricati realizzati abusivamente ed acquisiti al patrimonio comunale, con i rilevanti interessi urbanistici e ambientali, e ciò avendo l’Ente locale deciso di escludere l’abbattimento di tali opere, ricorrendo, nel caso di specie, quei prevalenti interessi pubblici (previsti dall’art. 31, comma 5, del DPR 380/2001) che ne avrebbero consentito il mantenimento per finalità sociali.
Congiuntamente ai pareri negativi espressi dalla Soprintendenza, l’Ente locale ha, comunque, impugnato anche il provvedimento finale (n. 43338 di prot.) di conclusione dei lavori, adottato dal Dirigente del V Settore-Governo del Territorio dello stesso Comune in data 16.05.2014, con il quale tale Dirigente, nel prendere atto del parere negativo espresso dalla Soprintendenza, aveva, per l’appunto, dichiarato conclusi i lavori della conferenza dei servizi.
2.- Orbene, sotto un primo ordine di profili, va osservato come il gravame (unitamente ai motivi formulati per aggiunzione avverso il successivo esito negativo della rinnovata valutazione conferenziale), appare inammissibilmente formalizzato, ad opera della ricorrente Amministrazione comunale, nei sensi della formale impugnativa di un proprio stesso provvedimento a connotazione negativa, adottato dall’organo dirigenziale.
Il punto –sia pure, come si dirà nell’immediato profilo, non dirimente– richiede un indugio sulla complessa questione dei poteri dell’autorità decidente nei casi in cui, come quello di specie, la normativa di settore preveda, in chiave predecisionale, l’obbligo di richiedere un parere c.d. vincolante. E ciò perché, in effetti, è del tutto evidente come il dirigente comunale non abbia fatto altro che adeguarsi, nella determinazione conclusiva del procedimento, alla valutazione insuperabile espressa dalla Soprintendenza, stimolando –tuttavia– la non plausibile vicenda della successiva autoimpugnativa da parte dell’Amministrazione di appartenenza, a cui sono imputabili i relativi effetti della fattispecie.
Come è noto –in conformità ad una tradizionale, seppur non incontrastata, opinione dottrinaria– deve ritenersi che i pareri cc.dd. vincolanti non possano rientrare nell’ambito applicativo della disposizione di cui all’art. 16 della l. n. 241/1990: tali essendo quei pareri che non solo sono doverosi (e, dunque, tecnicamente vincolati) perché, in base alla legge regolativa del procedimento e nella prospettiva della doverosità dell’iniziativa procedimentale, il responsabile è giuridicamente tenuto a non ometterne la richiesta, ma sono parimenti e più incisivamente obbligatori (ed in questo senso perché vincolanti) perché, dal punto di vista degli effetti, l’autorità decidente è altresì tenuta (pur sempre in base a quella legge: donde la diffusa e condivisibile massima alla cui stregua, ove non sia espressamente chiarito, l’obbligatorietà del parere attiene solo alla sua giuridica necessità) a recepirne gli esiti nel formale provvedimento conclusivo.
Plurime sono, come è noto, le ragioni che concorrono ad espungere, dall’ambito applicativo dell’art. 16 cit., tali pareri (tra le quali ragioni, peraltro, non parrebbe possibile annoverare –come pure diffusamente si fa– la circostanza che la norma richiami solo i pareri obbligatori e quelli facoltativi, senza appunto far cenno a quelli vincolati, trattandosi di rilievo di per sé destinato a provare troppo, una volta chiarito che la distinzione tra pareri facoltativi ed obbligatori si muove su una linea di demarcazione che guarda alla doverosità della richiesta, disinteressandosi del consequenziale profilo effettuale: onde, in buona sostanza, il silenzio della previsione normativa è anodino, non legittimando l’argomentazione a contrariis).
La prima considerazione fa leva sul rilievo che i pareri in questione si collochino propriamente nella fase decisionale. E in verità, se ci si limita ad una prospettiva formalistica (valorizzata, per esempio, da Cass., sez. I, 27.06.2005, n. 13749) si può ancora soggiungere che il parere vincolante abbia un contenuto «sempre e soltanto valutativo e non volitivo e decisionale», comportando un obbligo di conformarsi ma non di attuare l’altrui volontà (con il che –non potendo riguardarsi il provvedimento finale, costitutivo degli effetti, quale meramente esecutivo del parere– questo conserverebbe la sua autonomia, dovendo nettamente distinguersi dagli atti della fase decisoria).
E però –se si guarda alla sostanza e ci si muove in prospettiva funzionale (in ordine alla quale merita incidentalmente evidenziare come il dibattito sia, in fondo, condizionato da una sostanziale divergenza nei criteri di interpretazione degli amministrativi, secondo che guardino, rispettivamente, alla natura dell’atto e, dunque, ad un dato di struttura, ovvero, in prospettiva funzionale, agli effetti giuridici–
il parere vincolante incide necessariamente e direttamente sul contenuto del provvedimento, onde, lungi dal collocarsi nella fase preparatoria, appartiene già al momento decisionale: ed euristicamente apprezzabile si rivela, a tal fine, l’evidenziazione di una (in certo senso autonoma) fase c.d. predecisionale, tecnicamente distinta sia dalla fase istruttoria che dalla momento della giuridica costituzione degli effetti.
Su tale premessa,
i pareri in questione restano fuori dell’art. 16 non già perché (negativamente) la norma non li richiami, ma perché (positivamente) richiama solo i pareri resi nell’esercizio di attività (tecnicamente) consultiva e non decisoria: strumentale e servente la prima, finale ed autonoma la seconda.
Se ne trae persuasiva conferma (e, circolarmente, forte argomento ex positivo jure a sostegno della argomentata opzione dogmatica per la collocazione nella fase predecisionale) dal corretto e diffuso rilievo per cui
ricomprendere i pareri vincolati nella sfera di operatività dell’art. 16 condurrebbe ad una insanabile contraddizione logica, in quanto un parere definito per legge come vincolante finirebbe di fatto col perdere tale sua qualificazione se si riconoscesse all’Amministrazione attiva la possibilità di prescinderne (con il che, per un verso, si finirebbe per annullare l’effetto dello spostamento, preteso dalla legge, del potere decisorio dall’Amministrazione attiva a quella consultiva e, per altro verso, si eliderebbe, in fatto, la logica per la quale, se il legislatore ha previsto un determinato parere come vincolante, ha evidentemente ritenuto quegli apprezzamenti di cui l’atto consultivo è veicolo di emersione contenuto essenziale, e come tale non eludibile, della decisione).
Ciò consente anche, al fine di prendere, con meno sommario discorso, posizione sulla più generale problematica (palesemente evocata dal caso di specie) del vincolo (pretesamente) contra legem: ovvero, appunto, delle regole operanti nel caso in cui l’Autorità competente alla adozione del provvedimento conclusivo dubiti della correttezza e della legittimità del parere vincolante in base al quale il provvedimento conclusivo deve essere (senza possibilità di dissenso) adottato.
In effetti,
in via puramente astratta, e pur nella consapevolezza della complessità del problema, possono ammettersi le seguenti soluzioni:
a) o che l’autorità competente, ove ritenga illegittimo il «parere» vincolante, adotti determinazione conclusiva a contenuto negativo, che attesti l’impossibilità di una «convergenza di volontà» tra gli organi deputati alla definizione dell’assetto di interessi;
b) ovvero che –non potendo come che sia mai ammettersi che l’autorità decidente risulti vincolata ad un esito decisionale sia pur eventualmente contra legem– si legittimi, in tal caso, la motivata «disapplicazione» del parere;
c) ovvero ancora –ove, per un verso, si neghi l’ammissibilità, nella prima ipotesi inevitabile, di un arresto procedimentale contrario ai principi (arg. ex art. 2 l. n. 241/1990) e, per altro verso, si neghi la prospettabilità di un meccanismo di disapplicazione di ordine provvedimentale, espressivo di una sorta di potere di controllo intestato all’autorità decidente– si ritenga che l’autorità decidente possa sollecitare una determinazione revisionale dell’organo consultivo (doverosa nell’an ma, ovviamente, incerta negli esiti).
La soluzione sub b) evita implausibili stasi procedimentali, ma appare priva di necessaria base normativa; la soluzione sub a) confligge con l’obbligo di adottare comunque un provvedimento (a contenuto non soprassessorio) definitivo del procedimento; la soluzione sub c) non impedisce che il rifiuto o l’inerzia dell’organo deputato a rendere il parere vincolante paralizzi, di fatto, il procedimento.
Peraltro,
il rilievo che il parere vincolante abbia, come chiarito, funzione decisoria e che, per tal via, il rapporto tra autorità decidente e autorità «consultata» si atteggino in termini di decisione pluristrutturata (co-decisione), rende, in ogni caso, senz’altro preferibile l’opzione sub c), la quale valorizza, a differenza di quella sub a), l’onere di «leale cooperazione» tra le amministrazioni coinvolte, senza autorizzare –come la non plausibile ipotesi sub b)– la prevalenza, normativamente non autorizzata in un contesto decisionale sostanzialmente equiordinato, dell’una sull’altra: con la precisazione che ad eventuali e definitivi arresti procedimentali potrà rimediarsi con gli strumenti di reazione al silenzio-inadempimento di cui all’art. 2, trattandosi appunto (come importa ribadire) di «rifiuto di provvedere».
In definitiva,
deve escludersi che l’Amministrazione decidente possa adottare il provvedimento conclusivo (conformandosi al parere vincolante) e, di seguito, impugnare la sua stessa determinazione: l’unica possibilità essendo quella di sollecitare una revisione del parere (possibile, giusta le espresse conclusioni, trattandosi propriamente di autotutela decisoria e non implausibile rinnovo di attività tutoria) ovvero, e semmai, l’impugnazione in sede giurisdizionale del parere, in quanto fonte di immediato vincolo pregiudizievole.
3.- Le esposte considerazioni –pur idonee a legittimare, su un piano rigorosamente formale, declaratoria di non recevoir del gravame– sono, in ogni caso, assorbite da ulteriore e concorrente ragione di inammissibilità.
Trattandosi, invero, di impugnativa di parere negativo (id est, di sostanziale dissenso) reso in sede di conferenza di servizi ad opera di amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la questione, ai sensi dell’art. 14-quater della l. n. 241/1990, avrebbe dovuto essere rimessa dall'Amministrazione procedente alla prevista deliberazione del Consiglio dei Ministri.
Sotto questo profilo, deve perciò ritenersi che il parere soprintendizio –a dispetto della sua natura vincolante chiarita supra– non avrebbe proprio potuto essere impugnato, esibendo, sotto il profilo in questione, mera connotazione endoprocedimentale: la relativa questione dovendo, complessivamente, intendersi rimessa al Consiglio dei Ministri per la relativa e conclusiva determinazione finale.
4.- Sulle esposte considerazione, il ricorso, non meno che i motivi aggiunti, devono perciò dichiararsi inammissibili.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLimiti all'avvocatura unica tra più enti.
Sì all'avvocatura unica fra più comuni, ma soltanto se ogni legale segue unicamente gli affari dell'ente di appartenenza. Deve invece essere annullata la delibera adottata dal consiglio con cui si mette il personale dell'avvocatura comunale a disposizione di altri enti locali, per esempio perché sono più piccoli e dispongono di meno risorse: la possibilità di aderire convenzionandosi al progetto, infatti, è contraria ai paletti contenuti nella riforma forense, mentre la Finanziaria 2008 autorizza sì gli enti locali a coalizzarsi per tagliare le spese, ma solo a patto che gli avvocati provenienti dagli enti convenzionati trattino esclusivamente gli affari legali delle rispettive amministrazioni.

È quanto emerge dalla sentenza 26.08.2016 n. 1608, pubblicata dalla III Sez. del TAR Lombardia-Milano
Va in fumo, almeno per ora, l'iniziativa di «federalismo legale». A far annullare la delibera incriminata è un gruppo di avvocati amministrativisti che non vede di buon occhio il progetto del comune più grande offerto ai paesi vicini.
E in effetti il nuovo statuto della professione forense approvato con la legge 247/2012 non ha mutato il quadro delle incompatibilità per gli avvocati con il lavoro subordinato: i legali che operano nell'ufficio dell'ente devono iscriversi all'elenco speciale e possono trattare soltanto le cause dell'amministrazione di riferimento. Altrettanto vale per le consulenze da svolgere. In occasione della riforma forense il legislatore ben poteva ampliare il campo delle deroghe. Ma non l'ha fatto. Così come da anni, ormai, manca una disciplina organica delle avvocature e dunque anche per i legali degli enti bisogna fare riferimento alla legge professionale.
Le norme della Finanziaria 2008 sono dettate per ridurre la spesa pubblica e devono essere interpretate in modo compatibile con la disciplina dell'ordinamento forense: la convenzione tra comuni è valida a condizione che la struttura unitaria operi a livello amministrativo, mentre gli avvocati dei vari enti aderenti devono conservare la loro indipendenza.
Il risparmio sui costi previsto dall'articolo 2, comma 12, della legge 244/2007 scatta con le economie di scala che si ottengono concentrando in una sede sola il personale distaccato dagli enti e le risorse strumentali e le attività collaterali da svolgere, per esempio quelle di cancelleria. Non è però prevista alcuna modifica delle mansioni degli avvocati. Bisogna infatti ricordare che la disciplina dell'ordinamento della professione forense costituisce una legislazione speciale, che come tale non può essere derogata da una normativa generale successiva (visto che la legge 247/2012 non innova sulle incompatibilità fra avvocati e lavoro dipendente).
Inoltre la disciplina delle deroghe al regime di incompatibilità, per sua natura, è di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione. Spese di giudizio compensate per l'assoluta novità della questione affrontata dai giudici (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).
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MASSIMA
La disciplina delle incompatibilità della professione forense era stabilita dall’art. 3, comma 2, del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, che prevedeva, appunto, l’incompatibilità della professione di avvocato «con qualunque impiego o ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato […] ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica», fatta salva la deroga prevista per gli avvocati degli uffici legali degli enti pubblici, solo «per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera» e a condizione che fossero iscritti nell’elenco speciale annesso agli albi professionali.
Tale deroga è stata interpretata in termini restrittivi dalla giurisprudenza ritenendo che gli avvocati dipendenti da enti pubblici fossero abilitati a svolgere attività professionale solo in relazione agli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera, non essendo consentito ritenere “propri” dell’ente pubblico datore di lavoro le cause e gli affari di un ente diverso, dotato di distinta soggettività, restando irrilevanti gli eventuali provvedimenti del primo ente che prevedano la possibilità di utilizzazione del proprio ufficio legale da parte del secondo (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite, 19.08.2009, n. 18359; 14.03.2002, n. 3733; 15.12.1998, n. 12560; 26.11.1996, n. 10490; Cass. Sez. Tributaria 08.09.2004 n. 1809).
La novella sull’ordinamento della professione forense (L. 31.12.2012, n. 247) ha anzitutto ribadito il regime d’incompatibilità della professione d’avvocato con qualsiasi attività di lavoro subordinato, anche se con orario limitato (art. 18, comma 1, lettera d), e ha poi precisato le condizioni nel rispetto delle quali, in deroga al principio generale di incompatibilità, è consentito agli avvocati degli uffici legali istituiti presso gli enti pubblici di svolgere attività professionale per conto dell’ente di cui sono dipendenti (artt. 19 e 23).
Per quanto rileva nell’ambito del presente giudizio,
gli avvocati dipendenti di enti pubblici sono abilitati alla «trattazione degli affari legali dell’ente stesso», a condizione che siano incardinati in un ufficio legale stabilmente costituito e siano incaricati in forma esclusiva dello svolgimento di tali funzioni.
La sopravvenuta nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense non ha, dunque, mutato il quadro di riferimento del regime delle incompatibilità e delle relative deroghe, confermando che
lo ius postulandi degli avvocati iscritti all’elenco speciale non è generale, ma limitato alla difesa e rappresentanza dell’Ente presso il quale il professionista presta la sua opera.
Sotto un profilo cronologico tra i due testi normativi sopra richiamati
si interpone la previsione di cui all’art. 2, comma 12, della L. 244/2007, che consente l’istituzione di uffici unici di avvocatura attraverso le convenzioni tra enti locali di cui all’art. 30 del D.lgs. 267/2000.
Ad avviso del Collegio
non può ritenersi che tale norma abbia sostanzialmente operato un ampliamento dell’ambito oggettivo della deroga al regime dell’incompatibilità della professione di avvocato, consentendo che gli avvocati dell’ufficio legale di un ente possano prestare la loro attività professionale a favore di un ente diverso per la trattazione degli affari legali di quest’ultimo.
Invero va rilevato, in primo luogo, che
la disciplina dell’ordinamento professionale costituisce una legislazione speciale, che come tale non può essere derogata da una normativa generale successiva. Inoltre la disciplina delle deroghe al regime di incompatibilità, per la sua natura, è di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione.
In secondo luogo, il che appare dirimente,
il legislatore, intervenendo con la novella del 2012, successiva alla L. 244/2007, ha ritenuto di confermare il medesimo regime previgente di incompatibilità e relative deroghe, non includendovi l’ipotesi, così come interpretata dai Comuni resistenti, dell’art. 2, comma 12, della L. 244/2007.
In sostanza dunque non può ritenersi che si sia operata una sorta di modifica della disciplina dell’ordinamento forense, in quanto ciò non è stato espressamente previsto dalla successiva e speciale L. 247/2012. Invero il legislatore statale, titolare, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., della competenza legislativa di principio in materia di professioni, ben avrebbe potuto, in occasione della novella, ampliare il campo di applicazione delle deroghe al regime dell’incompatibilità tra la professione forense e le attività di lavoro subordinato (cfr. Corte Cost. n. 91/2013), ma così non è stato.
In effetti il legislatore non è mai intervenuto con una disciplina organica delle avvocature e, più in generale, degli uffici legali degli enti pubblici, dovendosi quindi –allo stato- fare esclusivo riferimento alla legge professionale anche per tale categoria di professionisti.
L’attuazione del disposto di cui all’art. 2, comma 12, della L. 244/2007 deve quindi avvenire nel pieno rispetto della L. 247/2012, ed in particolare della previsione secondo cui gli avvocati dipendenti da enti pubblici possono svolgere attività professionale solo in relazione agli affari propri dell’ente presso il quale sono incardinati, secondo l’interpretazione stretta più volte ribadita dalla giurisprudenza.
Tale necessaria interpretazione, ad avviso del Collegio, non svilisce la portata applicativa dell’art. 2, comma 12, della L. 244/2007 (e da ciò consegue l’irrilevanza, ai fini del giudizio, della questione di costituzionalità dell’art. 2, comma 12, della L. 244/2007, prospettata dai ricorrenti, seppur in via subordinata, in relazione agli artt. 117, 24 e 42 Cost.).
La disposizione richiamata che, in quanto inserita nel corpus della legge Finanziaria per il 2008, deve ritenersi preordinata a realizzare un contenimento della spesa corrente, e volta a disciplinare l’istituzione di uffici unici di avvocatura sotto un profilo organizzativo.
La norma, in altri termini, si presta ad essere applicata in modo compatibile con la disciplina dell’ordinamento forense, mediante l’istituzione di un ufficio unico che abbia un sistema organizzativo unitario, sotto il profilo del personale amministrativo dedicato (distaccato dagli enti partecipanti), delle risorse strumentali assegnate, dei locali da adibire a sede, delle attività collaterali da svolgere (es. attività di cancelleria), prevedendo tuttavia che gli avvocati provenienti dagli enti convenzionati trattino esclusivamente gli affari legali dell’ente di appartenenza, e osservando gli altri presupposti previsti dalla normativa (indipendenza dell’ufficio, esclusiva attribuzione della trattazione delle cause, etc.).
Il modello operativo posto in essere dal Comune di Busto risulta, invece, in contrasto con la disciplina dell’ordinamento forense, e con lo stesso art. 2, comma 12, della L. 244/2007, avendo di fatto previsto non già un ufficio unico tra più enti, bensì una convenzione aperta con possibilità di adesioni successive, in base alla quale si mette a disposizione degli altri enti l’Avvocatura del Comune di Busto Arsizio, i cui avvocati assegnati tratterebbero così gli affari legali degli enti convenzionati, in palese contrasto con l’art. 23 della L. 247/2012.
In conclusione, per le ragioni che precedono, il ricorso proposto merita accoglimento e per l’effetto va disposto l’annullamento degli atti impugnati.

COMPETENZE PROGETTUALIGeometri e ingegneri, spazio alla collaborazione. Progettazione e calcoli. Sentenza del Tar Napoli.
Professioni tecniche in agitazione, per una serie di rischi connessi alla progettazione con uso del cemento armato in zone sismiche.
Oltre alla sentenza su L’Aquila, che attribuisce ampie responsabilità ai professionisti incaricati della ristrutturazione in aree a rischio (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), la
sentenza 23.08.2016 n. 4092 del TAR Campania-Napoli -Sez. VIII- ha deciso su una lite relativa a ristrutturazione e ampliamento in zona sismica.
Il caso
Il caso in questione riguarda la parte residenziale di un fabbricato, oggetto di ristrutturazione e ampliamento, attraverso l’annessione di un nuovo corpo di fabbrica in cemento armato. La parte relativa ai calcoli strutturali del cemento armato è stata curata da un ingegnere, mentre la progettazione delle restanti parti architettoniche recava la firma del geometra.
Nel caso di strutture in cemento armato, la normativa limita l’intervento progettuale dei geometri alle piccole costruzioni accessorie di edifici rurali, o di industrie agricole, in cui, peraltro, non siano richieste particolari operazioni di calcolo, o non si profilino situazioni di pericolo per le persone. Secondo il Tar, tali prerogative sono rispettate scindendo la progettazione ed affidando la parte relativa alle strutture di cemento armato a un ingegnere abilitato e le altre parti al geometra, rimanendo sempre nella sfera delle costruzioni per civile abitazione di «modeste dimensioni».
Opere modeste
In conclusione, in caso di complessiva modestia dell’opera, si ritiene legittimo il permesso di costruire, qualora i calcoli relativi alle opere in cemento armato siano stati curati da un professionista abilitato, anche su un progetto redatto da un geometra.
Non basta poi la circostanza che l’opera ricada in zona sismica per escludere, di per sé, che la costruzione civile possa ritenersi modesta ai fini della competenza del geometra nella progettazione, anche per le parti non interessate dalle strutture di cemento armato. Nelle zone interessate da rischio sismico, il requisito della “modestia” della costruzione (Consiglio di Stato 7477/2015) va valutato con maggiore rigore, ma non può essere escluso automaticamente.
La svolta orientativa
Con questa sentenza il Tar di Napoli ha superato l’orientamento ostile ad attività autonome ma coordinate, che distingue le opere riconducendole in parte a ingegneri o architetti, e in parte a geometri: il Tar ammette la separazione tra progettazione dell’ossatura e attività che diano forma al corpo che deve esserne sorretto, scindendo nella progettazione l’ossatura (struttura portante) di un edificio, dimensionata per reggere le sollecitazioni statiche, dinamiche, verticali e orizzontali. Se un ingegnere o un architetto si assume le responsabilità di tali aspetti, l’ulteriore attività progettuale si risolve nella definizione di elementi di chiusura della stessa, mediante tamponamenti interni ed esterni, di natura essenzialmente architettonica.
In altri termini, le opere volte a delimitare gli spazi in cui si svolge l’attività umana e che non richiedono il possesso di specifiche competenze strutturali, possono restare al geometra
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti, stop alle sanzioni per irregolarità essenziali.
Il nuovo codice consente di evitare l'irrogazione della sanzione per le irregolarità essenziali, diversamente dal vecchio codice del 2006.

È quanto mette in evidenza il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 22.08.2016 n. 3667 per gara di appalto integrato in cui un'impresa di costruzioni era stata esclusa per l'incompletezza delle dichiarazioni rese dal progettista da essa indicato in relazione al possesso dei requisiti di capacità tecnica previsti dal bando.
L'impresa aveva manifestato la volontà di non aderire al soccorso istruttorio e di dar corso all'esclusione dalla gara conseguente al fatto di essere incorsa in un'irregolarità essenziale; viceversa la stazione appaltante comminava la sanzione e la confermava anche dopo che l'impresa aveva dimostrato il possesso dei requisiti da parte dei progettisti. Si trattava quindi di decidere se la sanzione fosse irrogabile anche nel caso in cui il concorrente avesse deciso non avvalersi del soccorso istruttorio.
I giudici confermano la correttezza dell'operato della stazione appaltante (per una gara precedente il nuovo codice dei contratti pubblici) perché la ratio dell'articolo 38, comma 2-bis del vecchio e abrogato decreto 163/2006 che applicava la sanzione anche nel caso in cui il concorrente abbia presentato una offerta mancante di una dichiarazione e di un documento prescritto, mentre è irrilevante se decide di avvalersi del soccorso istruttorio o meno.
Nel nuovo codice, invece (articolo 83, comma 9, del dlgs 18.04.2016, n. 50), la sanzione pecuniaria, prevista dal bando di gara in caso di mancanza, incompletezza e ogni altro caso di irregolarità essenziale della documentazione di gara, è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione.
Esiste, diversamente dal regime precedente, la possibilità di integrazione documentale non onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della domanda perché la norma, discostandosi dal precedente articolo 38 del codice, è innovativamente incentrata sul concetto di sanatoria conseguente al soccorso istruttorio e non separa il momento procedimentale da quello sanzionatorio.
I giudici concludono che il principio di irretroattività della nuova legge impedisce di dar rilievo alla circostanza che il decreto 50/2016 preveda, all'art. 83, comma 9, che «la sanzione è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione»: l'art. 38, comma 2-bis, del dlgs n. 163 del 2006, resta quindi applicabile «ratione temporis» (articolo ItaliaOggi del 03.09.2016).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire per realizzare le cabine in spiaggia. Tar Palermo. Rapporti demanio-concessionari.
È necessario un permesso di costruire per realizzare cabine o capanne stagionali in stabilimenti balneari: lo sottolinea il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, con sentenza 09.08.2016 n. 2038, affermando che tale permesso è oneroso.
La questione si inserisce nel più vasto contesto relativo alla durata dei rapporti tra demanio e concessionari: fino al 2020 il Dl 179/2012 (convertito in legge numero 221) garantisce continuità; incombe tuttavia la pronuncia della Corte giustizia Ue - 14/07/2016, in causa C-458/14 - secondo la quale è necessaria una procedura di gara per assegnare le successive concessioni demaniali.
Proprio uno dei punti delicati del rapporto tra vecchie e nuove concessioni è la valutazione delle strutture che formano l’azienda balneare, che andrebbero indennizzate a carico del subentrante. Di qui l’importanza del titolo edilizio che legittima la collocazione delle opere, anche se precaria, poiché l’azienda può variare di consistenza e quindi di valore a seconda dei provvedimenti rilasciati dal Comune.
La vicenda esaminata dal Tar di Palermo riguarda uno stabilimento con rilevanti strutture fisse, cui si aggiungevano circa 300 capanne stagionali: per tali capanne i giudici ritengono necessario il titolo edilizio, indipendentemente dal consenso del Demanio e della Soprintendenza. Non hanno importanza la ciclicità di impianto, l’identità di caratteristiche nei vari anni, né la collocazione all’interno di un complesso ricettivo. Il permesso di costruire, secondo il Tar, sarebbe superfluo solo per le opere assolutamente precarie, mentre ciò che viene ciclicamente installato e rimosso, manca di precarietà.
L’argomento è tuttora controverso, perché da un lato la Corte costituzionale ritiene che la precarietà oggettiva dell’intervento (i materiali utilizzati) vada distinta dalla precarietà funzionale, caratterizzata dalla temporaneità (sentenze 278/2010 e 189/2015 in tema di roulottes e campeggi), con autonome competenze regionali. Dall’altro, il legislatore nazionale, con l’articolo 3, lettera e), del Dpr 380/2001 ritiene interventi di nuova costruzione (che richiedono il permesso) l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico.
Quindi, non solo le cabine temporanee vanno smontate ma è necessario anche ottenere il permesso di costruire con i relativi oneri che, però, riguardano solo l’importo parametrato alle urbanizzazioni necessarie
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
4.2. Ciò precisato, e con specifico riferimento alla seconda questione, deve rilevarsi che, sebbene dall’esame complessivo delle note impugnate sia agevole evincere il ripetuto riferimento a tali previsioni di piano - quanto meno nell’affermata necessità di postergare il rilascio di titoli edilizi soltanto alla definitiva approvazione del piano medesimo - nondimeno non può condividersi l’assunto di parte ricorrente secondo il quale il Comune avrebbe ritenuto necessaria la concessione edilizia onerosa, in virtù soltanto delle previsioni del redigendo piano.
Può semmai convenirsi sul fatto che la riconducibilità delle capanne nel novero delle “nuove costruzioni”, necessitanti dunque di concessione edilizia onerosa, non sia suffragata nei provvedimenti impugnati, da esaustiva motivazione ( facendosi ivi riferimento, invero, alle sole tipologie costruttive di “stabilimento balneare” o di “opere precarie destinate alla diretta fruizione del mare” ) che viene, infatti, irritualmente sviluppata ed integrata, in via postuma dal Comune, con le memorie difensive.
Con gli ulteriori motivi di ricorso, pertanto, la società ricorrente si duole proprio della qualificazione delle “capanne” in legno alla stregua di “nuove costruzioni” edilizie, con conseguente assoggettamento dell’allocazione stagionale delle medesime al regime della concessione edilizia onerosa.
La società ha preliminarmente evidenziato che il proprio stabilimento balneare è già in possesso, per quanto riguarda le principali opere strutturali (piattaforme per cabine in legno e prefabbricate, n. 60 cabine in muratura, piscine, servizi igienici, docce e spogliatoi) delle prescritte licenze e concessioni edilizie rilasciate dal Comune di Palermo a partire dagli anni ‘50, sicché, nel caso in esame, la stessa ritiene che tutti i provvedimenti impugnati non riguardino lo stabilimento nel suo complesso bensì, in definitiva, l’assoggettamento delle sole capanne balneari in legno (allestite per tre mesi l’anno) al regime della concessione edilizia onerosa.
Sostiene, inoltre, la ricorrente:
- che la concessione edilizia onerosa è stata introdotta dalla L. n. 10/1977 (Legge Bucalossi) la quale, nel suo articolarsi, fa sempre riferimento agli “edifici”, tra i quali certamente non possono comprendersi le capanne balneari;
- che anche la l.r. 71/1978 concerne gli “immobili”, nel cui ambito non rientrano logicamente le capanne;
- che, inoltre, il decreto dell’Assessore per lo sviluppo economico dell’11/11/1977 – (approvazione della tabella relativa alla quota del contributo sul costo di costruzione) prende ad oggetto gli “edifici”, e, nella tabella allegata si riferisce alle “costruzioni”, differenziandole secondo le varie tipologie edificatorie, dalle quale restano necessariamente escluse le capanne in questione, per nulla equiparabili alle costruzioni.
Orbene,
se può affermarsi con certezza che nell’articolata normativa di settore manchi una disciplina specifica che preveda l’assoggettamento delle capanne stagionali in sé considerate al regime della concessione edilizia, deve però rilevarsi che la giurisprudenza amministrativa ha da sempre escluso la natura precaria dello stabilimento balneare; e ciò, nella considerazione che lo stesso non comporti una alterazione del territorio soltanto temporanea, precaria e irrilevante: mancherebbe infatti il requisito della precarietà funzionale, cioè la possibilità di una pronta rimozione dopo un uso contingente e momentaneo (TAR Ancona, 26.11.2015 n. 862; Tar Liguria, 27.01.2009 n. 119; Tar Puglia (Lecce), Sez. I, 07.07.2005 n. 3650; TAR Veneto sez. II 10.07.2003 n. 3691; Tar Marche, 18/04/1985 n. 118).
Il Consiglio di Stato ha, poi, ritenuto necessaria la concessione edilizia per costruzioni destinate ad attività stagionali, che, seppure non infisse al suolo, ma solo aderenti ad esso in modo stabile, sono destinate ad una utilizzazione perdurante nel tempo, anche se intervallate da pause stagionali; in tal caso l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons. Stato, sez. V, 24.02.1996, n. 226).
Deve poi osservarsi che un chiaro riferimento alla necessità del titolo edilizio è offerto dalla l.r. n. 15 del 2005, la quale all’art. 1 stabilisce che “la concessione dei beni demaniali marittimi può essere rilasciata, oltre che per servizi pubblici e per servizi e attività portuali e produttive, per l'esercizio delle seguenti attività: a) gestione di stabilimenti balneari […]” (comma 1).
Il successivo comma 4 stabilisce che, ai fini di quanto stabilito dalla stessa legge, le “opere […] destinate alla diretta fruizione del mare quando previste nei piani di utilizzo delle aree demaniali marittime […]” sono soggette ai “provvedimenti edilizi abilitativi […]”.
Pertanto, fermo restando quanto sopra già rilevato in ordine alla inapplicabilità della suddetta disciplina alle aree già oggetto di concessione, sul punto la disposizione sembra avere natura meramente ricognitiva in ordine all’assoggettamento delle opere di cui trattasi a “provvedimenti edilizi abilitativi” rilasciati dai comuni competenti per territorio.
In tale prospettiva,
non appare dirimente la distinzione tra “stabilimento balneare” inteso come complesso di strutture precarie e non, funzionali al servizio della balneazione, e le singole capanne in legno (o in materiale prefabbricato) atteso che, secondo la condivisibile definizione offerta dalla giurisprudenza, la necessità del titolo edilizio riguarda tutte le strutture coperte destinate alla suddetta attività stagionale che, seppure non infisse al suolo, ma solo aderenti in modo stabile, sono destinate ad una utilizzazione perdurante nel tempo, anche se intervallate da pause stagionali.
Nel caso in esame deve, pertanto, ritenersi che le capanne in legno costituiscano strutture precarie (nel senso già precisato) funzionali all’esercizio di attività di balneazione svolta dallo stabilimento balneare -del quale fanno parte altre strutture fisse già assistite da autonoma concessione edilizia ed appartenenti all’annesso complesso ricettivo alberghiero– ma non per questo esse risultano ricomprese nei titoli edilizi già rilasciati e, pertanto, necessitano del titolo edilizio abilitativo.
4.3.
Acclarata la necessità del titolo edilizio anche per le opere precarie funzionali all’esercizio degli stabilimenti balneari, deve darsi risposta al terzo punto sottoposto all’esame del Collegio, ossia alla connessa questione relativa all’onerosità del titolo edilizio, avendo la ricorrente dedotto l’illegittimità della pretesa di assoggettare le capanne al contributo sul costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione.
Infatti, con nota del 17.07.2014 (impugnata con i primi motivi aggiunti) il Comune di Palermo ha richiesto il pagamento del contributo del costo di costruzione, pari ad € 67.782,85, e degli oneri di urbanizzazione, pari ad € 31.007,72.
Sul punto, il Collegio condivide l’opzione ermeneutica (cfr. da ultimo, Tar Marche n. 862 del 2015) secondo cui
deve tenersi conto delle peculiarità proprie degli stabilimenti balneari in ordine alla natura delle opere e/o alle loro modalità esecutive e di utilizzo.
4.3.1. Va in primo luogo osservato che per il titolo edilizio abilitativo non è dovuto il contributo commisurato al costo di costruzione, ai sensi dell’articolo 17 del d.P.R. 380/2001: la circostanza che nel caso di specie si verta su opere che sorgono in area demaniale esclude l’imposizione di tale obbligo.
Infatti,
la quota di contributo commisurata al costo di costruzione costituisce una obbligazione di natura paratributaria, determinata tenendo conto della produzione di ricchezza generata dallo sfruttamento del territorio che, per sua natura, non è ravvisabile nelle costruzioni su area demaniale, in quanto non suscettibili di commercializzazione e destinate, alla cessazione del rapporto concessorio a permanere nella titolarità dell’amministrazione concedente. Quest’ultima, invero, ha facoltà di chiedere il ripristino dello stato dei luoghi a spese del privato concessionario che deve lasciare libera l’area demaniale (almeno per ciò che riguarda eventuali opere permanenti, poiché le capanne in legno e le altre opere precarie vengono, per obbligo contrattuale, comunque rimosse al termine di ogni stagione).
Con riferimento a tale aspetto non appare ultroneo rilevare che la concessione demaniale n. 4/2012 di cui è titolare la società ricorrente ha una durata di cinque anni (oggi prorogata) ed impone alla concessionaria l’obbligo di corrispondere all’Erario, in riconoscimento della demanialità del bene ed in corrispettivo della concessione (dunque della fruizione del bene demaniale) un canone annuo. E come chiarisce il Comune in memoria, alla scadenza della concessione l’area dovrà essere assegnata con procedura ad evidenza pubblica, di talché potrebbe non essere più assegnata alla società ricorrente.
4.3.2.
A differente conclusione si perviene con riguardo alla quota di contributo commisurata agli oneri di urbanizzazione, trattandosi di corrispettivo di diritto pubblico di natura non tributaria, posto a carico del privato a titolo di partecipazione dei costi delle opere di urbanizzazione “in proporzione” all’insieme dei benefici che la nuova costruzione o opera ne trae.
Difatti, per giurisprudenza pressoché costante,
ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, se ne muti la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico socio-economico, che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori (Cons. St., Sez. V, n. 4326 del 2013).
Ne segue l'irrilevanza della natura del titolo edilizio ai fini dell’obbligo contributivo di che trattasi, rilevando, invece, l’incremento sostanziale del carico urbanistico correlato alla natura dell'opera ed alle sue modalità di esecuzione. In definitiva, l'obbligo di contribuzione va correlato al presupposto sostanziale dell'aumento del carico urbanistico connesso all'intervento edilizio anziché alla natura del titolo abilitativo.
In linea di fatto,
l'intervento edilizio in esame -comportante la realizzazione di n. 309 capanne in legno stagionali a completamento della parte di stabilimento balneare già munito dei necessari titoli edilizi- per la sua natura certamente costruttiva e funzionale comporta un’incidenza sul carico urbanistico del territorio, sicché va ritenuta legittima la richiesta dell’amministrazione di assoggettarne la relativa allocazione agli oneri di urbanizzazione i quali, come di seguito sarà precisato, devono, tuttavia, essere commisurati in ragione dell’effettivo carico urbanistico.
4.4. In definitiva, per quanto fin qui argomentato, le note (impugnate con il ricorso introduttivo e con il primo e il terzo ricorso per motivi aggiunti) non resistono alle censure prospettate nella parte in cui esigono, per il rilascio del titolo edilizio, oltre agli oneri di urbanizzazione, anche il contributo per il costo di costruzione.
Sul punto deve peraltro rilevarsi come con la nota del 17.07.2014 (impugnata con il primo ricorso per motivi aggiunti) il Comune si sia limitato a calcolare gli oneri di urbanizzazione sull’intera cubatura delle capanne, senza valutare che almeno una parte di esse viene allestita ogni estate su apposite piattaforme di cemento già munite di concessione edilizia.
5. Per evidenti ragioni di connessione logica con quanto appena spiegato, deve esaminarsi il quarto ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto la deliberazione del Consiglio comunale n. 74 del 2015 avente ad oggetto l’adeguamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione per gli anni 2011-2012-2013-2014, e con la quale sono state assoggettate al rilascio della concessione edilizia onerosa “tutte le strutture precarie finalizzate alla gestione di stabilimenti balneari”.
Deduce, la ricorrente, l’illegittimità della delibera per violazione dell’art. 17 della l.r. n. 4 del 2003 e per eccesso di potere, sotto il profilo dello sviamento della causa tipica, stante che il Comune avrebbe adottato la delibera solo apparentemente per adeguare gli oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione, mentre, in realtà, con essa sarebbe introdotto o esteso, per la prima volta, il regime degli oneri concessori a carico delle strutture precarie finalizzate alla gestione di stabilimenti balneari, peraltro, con effetto retroattivo.
In disparte l’atipico utilizzo della deliberazione di “adeguamento” di tali oneri per disciplinare una situazione giuridica (quella su cui si controverte) -in relazione alla quale in passato il Comune non aveva mai preteso oneri concessori, e fermo restando quanto già rilevato in ordine alla non debenza del contributo sul costo di costruzione-, la delibera in questione risulta affetta dal dedotto vizio di difetto di motivazione.
Dalla stessa, infatti, può evincersi soltanto che
i due parametri sulla base dei quali è stata determinata l’incidenza degli oneri di urbanizzazione dovuti dagli stabilimenti balneari sono: a) la somma delle superfici lorde dei pavimenti delle strutture commerciali (bar e ristorazione); b) il volume delle strutture destinate alla fruizione del mare (dunque le capanne e gli altri fabbricati precari).
Osserva però il Collegio che
i predetti oneri non possono che essere parametrati tenendo conto della reale incidenza del carico urbanistico delle capanne (e delle eventuali altre opere precarie costituenti nel complesso lo stabilimento balneare) sul territorio e, dunque, avuto riguardo anche alla stagionalità della loro messa in opera (sono allestite per tre mesi l’anno) e alla “durata” limitata nel tempo della concessione demaniale, elementi di valutazione -che però– non sono tenuti in considerazione nella tabella di calcolo allegata alla delibera impugnata.
Tale ultima considerazione, peraltro, trova anche riscontro normativo nell’art. 1, comma 4, della l.r. n. 15 del 2005 il quale, nello stabilire che gli stabilimenti balneari sono soggetti ai provvedimenti edilizi abilitativi nei comuni competenti per territorio, “validi per tutta la durata delle concessioni demaniali marittime, anche se rinnovate senza modifiche sostanziali” ha, appunto, previsto il rilascio, da parte dei Comuni, di titoli edilizi di durata limitata nel tempo poiché destinati a decadere per legge allo scadere delle concessioni demaniali marittime.

TRIBUTIImu e Tasi si pagano anche se il terreno è molto piccolo.
Anche le aree che non hanno le dimensioni minime per essere edificate sono soggette al pagamento di Ici, Imu e Tasi. Le dimensioni ridotte del terreno o la sua particolare conformazione non incidono sulla natura dell'area, poiché è possibile accorpare il lotto con un fondo vicino della zona o asservirlo a un fondo attiguo che ha la stessa destinazione urbanistica.

È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 05.08.2016 n. 16485.
Per i giudici di piazza Cavour la natura edificabile ai fini Ici, ma lo stesso principio vale per Imu e Tasi, non viene meno «per le ridotte dimensioni e/o la particolare conformazione del lotto, che non incidono su tale qualità». Chiariscono, inoltre, che è «sempre possibile l'accorpamento con fondi vicini della medesima zona, ovvero l'asservimento urbanistico a fondo contiguo avente identica destinazione». In effetti, il proprietario dell'area potrebbe cedere il diritto a edificare sul lotto o acquisire la titolarità di altro terreno limitrofo, al fine di raggiungere le dimensioni minime.
La stessa posizione è stata assunta di recente dalla Cassazione (ordinanza 12169/2015) riguardo ai limiti amministrativi posti nei piani regolatori comunali. In presenza di limiti non viene meno il regime fiscale dei suoli edificabili. Nello specifico, i giudici di legittimità hanno precisato che i divieti amministrativi posti dal comune per l'edificazione di un'area e i vincoli ambientali che gravano su di essa non escludono che l'immobile sia soggetto al pagamento delle imposte locali.
Tuttavia, la presenza di vincoli ha comunque un'incidenza sul valore venale in comune commercio dell'area e sulla base imponibile. L'imposta va versata in misura ridotta, in quanto per quantificare il valore dell'area occorre fare riferimento anche alla zona territoriale di ubicazione, all'indice di edificabilità e alla destinazione d'uso consentita.
In senso contrario si è espressa sempre la Cassazione con la sentenza 25672/2008 e con altre pronunce, con le quali ha invece ritenuto che qualora il piano regolatore generale del comune preveda che un'area sia destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al privato di poter edificare. L'area, dunque, non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità risulta dallo strumento urbanistico (articolo ItaliaOggi del 06.09.2016).

INCARICHI PROFESSIONALISulle parcelle legali legittima l’imposizione Iva. Corte Ue. Compatibilità con la normativa europea.
Via libera alla soppressione dell’esenzione dall’Iva per i servizi prestati dagli avvocati. Nessuna violazione del diritto Ue nella decisione di uno Stato che, con legge, modifica il sistema interno e passa da un meccanismo di esenzione all’obbligo di versare l’imposta.

Lo ha precisato la Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 28.07.2016 C-543/14 con la quale Lussemburgo ha tracciato i contorni della direttiva 2006/112 sul sistema comune d’imposta sul valore aggiunto in rapporto all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che assicura il diritto a un ricorso effettivo, nel quale è incluso quello di farsi assistere da un avvocato.
Questi i fatti. Le autorità nazionali belghe avevano adottato una legge che poneva fine all’esenzione dall’Iva per i servizi prestati dagli avvocati nell’esercizio della loro attività abituale. Si era passati da un sistema di esenzione dell’aliquota Iva del 21% all’obbligo di versamento, con esclusione di chi usufruisce del gratuito patrocinio.
Il provvedimento legislativo era stato impugnato dinanzi alla Corte costituzionale belga, che ha sospeso il procedimento e chiesto alla Corte Ue di interpretare alcune disposizioni della direttiva 2006/112 (recepita in Italia, dopo le modificazioni, con Dlgs 18/2010) e della Carta dei diritti fondamentali.
Nodo centrale della questione è se l’aumento dell’Iva è compatibile con il diritto a un ricorso effettivo e con il principio della parità delle armi, visto che l’introduzione dell’aliquota non colpisce chi beneficia del gratuito patrocinio gravando, così, solo su una parte.
La Corte di giustizia riconosce che i costi di un procedimento giudiziario, inclusa l’Iva, «ben possono influire sulla decisione dell’individuo di far valere i propri diritti in giudizio facendosi rappresentare da un avvocato» e che la tassazione può essere messa in discussione se i costi sono insormontabili, rendendo impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio di diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.
Detto questo, però, la Corte ritiene che poiché agli avvocati è riconosciuto un diritto di detrazione per l’acquisto di beni e servizi non è certa la misura in cui i legali riversino l’onere dell’Iva sui propri onorari e, quindi, sui clienti. Se poi il sistema interno è basato sulla libera negoziazione degli onorari e sulla concorrenza, gli avvocati «sono indotti a tener conto della situazione economica dei propri clienti» e procedere a una riduzione degli importi.
Di qui la conclusione, anche tenendo conto che l'importo dell’Iva non è la «frazione più significativa dei costi afferenti a un procedimento giudiziario», del via libera all’inserimento dell’imposta proprio perché non è stata dimostrata la sua incidenza sul diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. Stessa conclusione per il principio della parità delle armi, tanto più che questo –osservano gli eurogiudici– non implica l’obbligo di un’assoluta parità per i costi finanziari sopportati nel processo.
È vero che l’assoggettamento a un’imposta, a parità di importo dell’onorario, procura un vantaggio «pecuniario all’individuo con qualità di soggetto passivo rispetto all’individuo non soggetto passivo», ma questo non pregiudica l’equilibrio processuale delle parti
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
  
1) Dall’esame dell’articolo 1, paragrafo 2, e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28.11.2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, alla luce del diritto a un ricorso effettivo e del principio della parità delle armi sanciti all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non è emerso alcun elemento atto a inficiare la validità di tali disposizioni nella parte in cui esse assoggettano all’imposta sul valore aggiunto i servizi prestati dagli avvocati a individui che non beneficino del gratuito patrocinio nell’ambito di un regime nazionale di gratuito patrocinio.
   2) L’articolo 9, paragrafi 4 e 5, della convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, firmata ad Aarhus il 25.06.1998, non può essere evocato al fine di valutare la validità dell’articolo 1, paragrafo 2, e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/112.
   3) L’articolo 132, paragrafo 1, lettera g), della direttiva 2006/112 deve essere interpretato nel senso che i servizi prestati dagli avvocati a individui che beneficino del gratuito patrocinio nell’ambito di un regime nazionale di gratuito patrocinio, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, non sono esentati dall’imposta sul valore aggiunto.

APPALTILe pendenze fiscali escludono dalla gara. Rateazione valida solo se già accettata.
Non può essere ammesso a una procedura di appalto pubblico l'appaltatore che, in presenza di un accertamento fiscale, abbia fatto richiesta di rateizzazione del debito tributario prima della presentazione dell'offerta; per considerare il concorrente regolare dal punto di vista fiscale è necessario che il procedimento si sia concluso con un provvedimento favorevole.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 26.07.2016 n. 3375 con la quale è stato affrontato il tema della regolarità fiscale ai fini della partecipazione a gare di appalto pubblico e della definitività dell'accertamento dell'irregolarità.
La sentenza chiarisce che nelle gare di appalto, un'irregolarità contributiva può ritenersi definitivamente accertata solo quando, alla data di scadenza del termine di proposizione delle domande di partecipazione alla gara, siano scaduti i termini per la contestazione dell'infrazione, ovvero siano stati respinti i mezzi di gravame proposti avverso la medesima.
La pronuncia del collegio giudicante richiama la giurisprudenza formatasi in materia comunitaria in base alla quale il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l'istanza di rateizzazione sia stata accolta con l'adozione del relativo provvedimento costitutivo.
Pertanto, ai fini dell'integrazione del requisito della regolarità fiscale di cui all'art. 38, comma 1, lettera g), del vecchio codice dei contratti pubblici (il dlgs 12.04.2006, n. 163), il Consiglio di stato ha affermato che non è sufficiente che, entro il termine di presentazione dell'offerta, sia stata presentata da parte del concorrente istanza di rateazione del debito tributario, ma occorre invece che il relativo procedimento si sia concluso con un provvedimento favorevole. Non basta la domanda, occorre la conclusione positiva del procedimento.
La sentenza conclude quindi che non sia ammissibile la partecipazione alla procedura di gara del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell'istanza di rateizzazione (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATACartelloni vietati nello «spazio aereo». Immobili confinanti. Tribunale di Milano.
Il cartello pubblicitario non può essere collocato sulla parte più alta del muro divisorio tra due condomìni e va rimosso. La proprietà fondiaria, oltre ad avere una estensione orizzontale, ne ha anche una verticale, cioè sia verso il basso che verso l’alto. Ma sino a che punto?
Il TRIBUNALE di Milano - Sez. IV civile (dopo alcuni interventi della Cassazione), con sentenza 25.07.2016 n. 9292, ha confermato e chiarito il principio.
Un condominio chiedeva di condannare il condominio confinante a rimuovere un cartellone pubblicitario installato sulla parte più alta del muro divisorio. Il Tribunale ha anzitutto respinto la domanda preliminare di difetto di legittimazione attiva dell’amministratore, perché il condominio non rivendicava la comproprietà del muro divisorio, ma dichiarava la lesione della sua proprietà in senso verticale.
Nel merito, poi, il Tribunale dava ragione al condominio che protestava, perché «ai sensi dell’art. 840 cod. civ., lo spazio aereo sovrastante un’area appartiene al proprietario dell’area stessa, che, tuttavia, non può escludere attività di terzi quando siano tali da non pregiudicare alcun suo legittimo interesse, in relazione alle concrete possibilità di utilizzazione di tale spazio aereo», che nella fattispecie «è certamente concretamente ipotizzabile (ad esempio: per realizzare un intervento di sopraelevazione, di recupero del sottotetto, di restauro,…), anche se non attuale (ad esempio: per la normativa edilizia vigente,…), con la conseguenza che è legittima l’opposizione all’installazione del cartellone pubblicitario (...)».
Il condominio “perdente” ha dovuto anche pagare le spese di giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio.
Il dolo del reato di abuso d'ufficio sussiste ogni qualvolta l'ingiusto vantaggio proprio o altrui, ovvero l'ingiusto danno altrui, siano stati rappresentati e voluti dall'agente come obiettivo primario della propria condotta.
Tale intenzione va desunta dal complessivo svolgersi dei comportamenti, soprattutto quando sia stato rilevato un iter procedimentale illegittimo e caratterizzato da plurime condotte omissive e dilatorie dell'imputato.
La reiterazione dei comportamenti, la evidente illegittimità di essi e le altre circostanze afferenti i rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato, costituiscono evidenti indici della sussistenza del dolo, anche se non è necessario che il fine che deve animare l'agente sia esclusivo.

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1. Va premesso che
in relazione all'elemento soggettivo nel delitto di abuso di ufficio, è stato affermato che "la prova del dolo intenzionale deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente" (cfr. Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
E' stato anche precisato che
è necessario che il perseguimento dell'interesse pubblico costituisca il fine primario dell'agente affinché possa essere ritenuto insussistente l'elemento soggettivo del dolo (in tal senso: Sez. 6, n. 14038/2015 del 02/10/2014, De Felicis e altro, Rv. 262950).
2. In sintesi,
il dolo sussiste quando l'ingiusto vantaggio proprio od altrui, ovvero l'ingiusto danno altrui siano stati rappresentati e voluti dall'agente come obiettivo primario della propria condotta. Tale intenzione va desunta dal complessivo svolgersi dei comportamenti, soprattutto quando, come nel caso di specie, sia stato rilevato -concordemente dai giudici di primo e secondo grado- un iter procedimentale illegittimo e caratterizzato da plurime condotte omissive e dilatorie dell'imputato. La reiterazione dei comportamenti, la evidente illegittimità di essi, nonché le altre circostanze afferenti i rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato ed, in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi (cfr. Sez. 6, n. 41365 del 09/11/2006, Fabbri, Rv. 235434), costituiscono, pertanto, evidenti indici della sussistenza del dolo, anche se non è necessario che il fine che deve animare l'agente sia esclusivo.
3. Come già questa Corte ha affermato,
ritenere che l'agente debba agire "al solo scopo di", equivarrebbe ad una sostanziale disapplicazione della fattispecie delittuosa (in tal senso: Sez. 3, n. 13735 del 26/02/2013,p.c. in proc. Fabrizio e altro, Rv. 254856).
Di fatti,
va ribadito il principio che, poiché l'abuso di ufficio è un reato proprio che può essere commesso solo dal pubblico ufficiale od incaricato di un pubblico servizio nell'esercizio delle proprie rispettive funzioni, in qualche modo finisce per risultare sempre manifestata una finalità pubblicistica, e ciò non solo quando tale pubblica finalità sia utilizzata per mascherare il vero, ma diverso, fine di avvantaggiare il soggetto privato, ma anche quando il medesimo obiettivo pubblico venga strumentalizzato quale scusante o limite del mancato riconoscimento delle ragioni o diritti del privato, e quindi con l'intenzione di provocare al privato un danno.
4. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno omesso di svolgere il menzionato giudizio di "finalità prevalente" in merito all'iter procedimentale dagli stessi riconosciuto illegittimo, in quanto hanno ritenuto che mancassero elementi di prova relativi alla sussistenza, in capo all'imputato, dell'obiettivo di danneggiare l'attività imprenditoriale della parte offesa, danneggiamento in verità avvenuto, posto che a seguito dell'illegittimo procedimento mai più concluso -fatto non riconducibile ad alcuna finalità pubblicistica, visto che il procedimento di intesa ai sensi del Piano paesaggistico regionale era stato promosso per altra coeva iniziativa edilizia- era stato provocato uno stato di incertezza tale da porre nel nulla il progettato intervento imprenditoriale volto alla realizzazione di strutture ricettivo-turistiche (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.07.2016 n. 31865).

EDILIZIA PRIVATA: L'interesse all'accoglimento del ricorso proposto avverso l'ordine di demolizione di fabbricato abusivo permane a prescindere dall'avvenuta presentazione della domanda di sanatoria (che non rende ex se improcedibile il ricorso avverso l’ordinanza di demolizione).
Il ricorrente infatti, anche in caso di favorevole esito del procedimento di sanatoria, ha comunque interesse all'accoglimento del ricorso, visto che ai sensi dell'art. 36, comma 2, del DPR n. 380 del 2001 ben diverse sono le conseguenze, anche di ordine economico, che discendono dall'autorizzazione ex post di un intervento edilizio, rispetto all'accertamento della conformità ab origine del manufatto.
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1. Va premesso che le opere oggetto dell’ordinanza di demolizione sono un gazebo delle dimensioni di metri 4,2x5,5 h 2,5,2,5 con struttura in legno e copertura in tela poggiato su piattaforma in cemento delle dimensioni di 8,1x7,5 mt. e una tamponatura della tettoia lato mare delle dimensioni di circa m. 7,3x27,4 h. 2.30, mediante posa di pannelli metallici ed infissi in parte in alluminio.
1.1 Inizialmente era stato contestato alla ricorrente anche il rifacimento del manto di copertura, in realtà autorizzato con permesso di costruire n. 219 del 2008.
I descritti manufatti vengono utilizzati a servizio del ristorante e sono stati, successivamente alla notifica del ricorso, oggetto di istanza di accertamento di conformità. In ragione di ciò questo Tribunale, con ordinanza ex articolo 73, comma 3, cod. proc. amm., ha rilevato la possibile sussistenza di una causa di improcedibilità, cui la ricorrente ha controdedotto con memoria depositata in data 20.03.2015, affermando il proprio interesse al ricorso medesimo, argomentando che l’istanza di accertamento di conformità non avrebbe compreso tutte le opere oggetto dell’impugnata ordinanza.
Tale istanza è stata dichiarata improcedibile dal Comune di Ancona, con diniego impugnato tramite successivo ricorso 462/2015, in discussione in questa stessa udienza.
In ogni caso deve ritenersi che l'interesse all'accoglimento del ricorso proposto avverso l'ordine di demolizione di fabbricato abusivo permane a prescindere dall'avvenuta presentazione della domanda di sanatoria (che, come affermato dal questo Tribunale, non rende ex se improcedibile il ricorso avverso l’ordinanza di demolizione, cfr., da ultimo, sentenza 02.04.2016, n. 206): il ricorrente infatti, anche in caso di favorevole esito del procedimento di sanatoria, ha comunque interesse all'accoglimento del ricorso, visto che ai sensi dell'art. 36, comma 2, del DPR n. 380 del 2001 ben diverse sono le conseguenze, anche di ordine economico, che discendono dall'autorizzazione ex post di un intervento edilizio, rispetto all'accertamento della conformità ab origine del manufatto (Tar Marche Ancona 24.07.2015 n. 579) (TAR Marche, sentenza 22.07.2016 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non si vede come il gazebo esterno (che insiste su una piattaforma in cemento realizzata in assenza di titolo) e la tamponatura della veranda esterna possano essere considerate opere di manutenzione ordinaria, le quali, anche se realizzate in area sottoposta a vincolo paesaggistico, non richiedono alcun titolo.
In tutta evidenza, la tamponatura realizzata con pannelli metallici e infissi non può essere considerata come una mera protezione della tettoia aperta.
Per costante giurisprudenza la tamponatura di una tettoia costituisce intervento di ristrutturazione edilizia, a maggior ragione in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Analoghe considerazioni vanno espresse per un gazebo poggiante su una piattaforma in cemento.
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È evidente come il tipo di tamponatura usata sia idonea ad alterare lo stato dei luoghi, in particolare negli stretti limiti della presenza di un vincolo paesaggistico ai sensi dell’articolo 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42. Non è rilevante che essa possa essere rimossa durante la bella stagione, dato che ricorrente non ha l’autorizzazione ad una struttura chiusa.
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2. Con riguardo al primo motivo di ricorso, non si vede come il gazebo esterno (che insiste su una piattaforma in cemento realizzata in assenza di titolo) e la tamponatura della veranda esterna possano essere considerate opere di manutenzione ordinaria, le quali, anche se realizzate in area sottoposta a vincolo paesaggistico, non richiedono alcun titolo.
In tutta evidenza, la tamponatura realizzata con pannelli metallici e infissi non può essere considerata come una mera protezione della tettoia aperta. L’opera ha ben pochi punti di contatto con la semplice barriera di protezione autorizzata con concessione n. 12 del 2008, presentandosi del tutto diversa per sagoma e materiali.
Per costante giurisprudenza la tamponatura di una tettoia costituisce intervento di ristrutturazione edilizia, a maggior ragione in area sottoposta a vincolo paesaggistico (tra le numerose decisioni, Tar Marche Ancona 13.01.2012 n. 39).
Analoghe considerazioni vanno espresse per un gazebo poggiante su una piattaforma in cemento.
2.1 Allo stesso modo è infondata la censura di eccesso di potere per carenza e contraddittorietà della motivazione, con particolare riguardo alla rappresentazione dello stato dei luoghi. La censura risulta del tutto generica. È evidente come il tipo di tamponatura usata sia idonea ad alterare lo stato dei luoghi, in particolare negli stretti limiti della presenza di un vincolo paesaggistico ai sensi dell’articolo 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42. Non è rilevante che essa possa essere rimossa durante la bella stagione, dato che ricorrente non ha l’autorizzazione ad una struttura chiusa.
Resta fermo che eventuali diverse soluzioni –proposte successivamente alla rimozione dei pannelli abusivi– dovranno essere valutate dalle amministrazioni competenti (compresa l’autorità investita della tutela del vincolo) (TAR Marche, sentenza 22.07.2016 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOAnimali da compagnia senza veti. Il Codice civile non distingue tra le «leggi» condominiali.
La riforma. Per il Tribunale di Cagliari sono superati anche i divieti del regolamento contrattuale.
Il TRIBUNALE di Cagliari, Sez. II civile, ha definitivamente sentenziato (ordinanza 22.07.2016, data udienza) che nessuna norma condominiale può vietare di detenere animali domestici in condominio, indipendentemente dalle previsioni contrattuali dell’edificio in cui il proprietario dell’animale domestico risiede.
Per Ilaria Innocenti, responsabile Lav Area Animali Familiari, che ha segnalato questa pronuncia si tratta di una decisione «resa possibile dalla legge di riforma del condominio, fortemente voluta dalla Lav che nel 2008 aveva presentato una proposta di legge per la modifica del Codice civile di cui la citata riforma è un positivo risultato».
In particolare, il giudice ha chiarito per la prima volta in modo esplicito che anche il regolamento di natura contrattuale, ossia quello deliberato all’unanimità o predisposto dal costruttore dello stabile condominiale ed allegato ai singoli atti di compravendita, è affetto da nullità sopravvenuta sia in relazione alla legge di riforma del condominio che ha introdotto l’articolo 1138, ultimo comma, del Codice civile, sia in quanto contraria ai principi di «ordine pubblico».
Quindi, sia i regolamenti contrattuali che si sono formati prima della legge 220/2012 che quelli redatti successivamente alla sua entrata in vigore sono nulli nella parte in cui prevedono il divieto di detenere animali domestici in condominio.
Il ragionamento del giudice è chiaro. L’articolo 1138, ultimo comma, del Codice civile prevede che il regolamento non possa vietare di possedere animali domestici, senza specificare di quale regolamento si sta parlando; quindi non è legittimo ridurre autonomamente la portata di questo precetto al solo regolamento assembleare. Inoltre l’articolo 155 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile dispone che «cessano di avere effetto le disposizioni del regolamento di condominio che siano richiamate nell’ultimo comma dell’articolo 1138 del Codice», sancendo definitivamente la correttezza della tesi della nullità del regolamento contrario al divieto.
Il giudice poi, così come più volte dichiarato anche dalla Lav, ha richiamato la legislazione italiana ed europea che hanno sancito quei principi di «ordine pubblico» già operanti nel diritto vivente, frutto della evoluzione e della rinnovata considerazione del rapporto uomo-animale assurto a espressione dei più generali diritti inviolabili di cui all’articolo 2 della Costituzione.
Parliamo, in ordine cronologico, della legge 281/1991, che prevede la condanna agli atti di crudeltà, maltrattamento e abbandono di animali, seguita dalla legge 189/2004 che ha introdotto i nuovi delitti di animalicidio e maltrattamento di animali e dal nuovo Codice della Strada che ha disposto l’obbligo di fermarsi a soccorrere l’animale ferito in caso di incidente.
A livello europeo la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il 13.11.1987 e ratificata in Italia con la legge 201/2010 ha sancito l’importanza degli animali da compagnia ed il loro valore per la società proprio per il contributo da essi fornito alla qualità della nostra vita.
«La grandezza di una nazione ed il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui essa tratta gli animali» (Mahatma Gandhi). Ormai questo pensiero trova condivisione non solo negli uomini ma anche nella giurisprudenza
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2016).

APPALTICertificati antimafia anche se l’importo è sotto la soglia. Consiglio di Stato. Appalti e incentivi.
Poiché la pubblica amministrazione può sempre accertare «se l’impresa meriti la “fiducia delle istituzioni”», può richiedere la certificazione antimafia per le aziende che accedono ad appalti, contratti o incentivi pubblici. Quindi gli uffici possono non limitarsi ad attivare il controllo prefettizio nei casi obbligatori, o meglio, solo quando i valori economici superano le soglie di legge.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza 20.07.2016 n. 3300, depositata dalla III Sez., ha così ritenuto legittima un’informativa interdittiva emessa contro un’impresa agricola che si era aggiudicata un finanziamento pubblico di poco più di 130mila euro, quindi per un importo sotto il limite minimo di 150mila euro oltre il quale il Codice antimafia impone all’amministrazione di acquisire l’informazione antimafia prima del “via libera” a qualsiasi rapporto (comma 1, articolo 91, Dlgs 159/2011).
I giudici hanno accolto il ricorso del ministero dell’Interno secondo cui, una volta che la Pa chiede la verifica al prefetto, quest’ultimo deve attivarsi anche se l’ammontare considerato non la prevede. E la stessa amministrazione è tenuta a bloccare contratti o contributi se si accerta che l’impresa è “a rischio infiltrazioni” o che non può ottenerli per via di misure di prevenzione personali definitive. Il ministero contestava l’esito del giudizio di primo grado, secondo cui la verifica sui “mini” rapporti con la Pa è «sostanzialmente inutile» poiché, aumentando la quantità degli affari da trattare, verrebbe meno la qualità generale del controllo che in realtà va garantita concentrandosi sui casi economicamente più importanti.
Il collegio ha spiegato che la lettura “rigida” del Tar «sovvertirebbe il principio che impone di assicurare, in sede interpretativa, effettività e concretezza alla tutela del bene protetto, soprattutto laddove, come avviene per le informazioni antimafia, questo assuma un ruolo assolutamente primario». Lo scopo dei dettami sulle soglie di valore è infatti «conformare, anche ai fini delle conseguenti responsabilità, il buon andamento delle attività delle pubbliche amministrazioni procedenti», sia nei casi in cui l’informazione antimafia è d’obbligo sia quando «non è comunque richiesta» o, tra gli altri, per «i provvedimenti gli atti, i contratti e le erogazioni il cui valore complessivo non supera i 150.000 euro» (lettera e, comma 3, articolo 83).
Pure a prescindere dall’eventuale firma di un «protocollo di legalità», in questi casi la richiesta della certificazione prefettizia non può essere vietata: il Codice mira a «evitare radicalmente l'erogazione di risorse pubbliche a soggetti esposti ad infiltrazioni di tipo mafioso, e che pertanto mal tollera che ciò possa avvenire solo entro determinati limiti quantitativi».
Il principio è sempre valido al di là del valore del rapporto. Lo stesso Consiglio di Stato l’ha applicato finora per appalti e contratti con importi sotto le soglie comunitarie come invocato in giudizio dalla ditta interdetta (tra le ultime, la sentenza 2799/2013) -cioè per somme a partire dagli attuali 209mila euro per forniture e servizi nei settori ordinari escludendo gli appalti assegnati dagli enti governativi centrali-, o per incentivi pubblici oltre il limite di 150mila euro (sentenza 3386/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2016).
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MASSIMA
5. L’appello è fondato e deve pertanto essere accolto.
6. Ai sensi dell’art. 10, comma 1, del d.P.R. 252/1998, applicabile ratione temporis alla presente controversia), le Pubbliche Amministrazioni «devono acquisire» le informazioni antimafia in relazione a determinate soglie di valore, corrispondenti:
- per gli appalti di lavori, servizi e forniture, ad un valore pari o superiore a quello di rilevanza comunitaria (lettera a);
- per le concessioni di beni pubblici, ovvero di contributi, finanziamenti ed altre erogazioni dello stesso tipo (lettera b), nonché per l’autorizzazione di subcontratti, cessioni o cottimi concernenti la realizzazione di lavori pubblici o la prestazione di servizi o forniture pubbliche (lettera c), ad un valore superiore ai 300 milioni di lire.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, lettera e), la documentazione antimafia «non è comunque richiesta» per i provvedimenti gli atti, i contratti e le erogazioni il cui valore complessivo non supera i 300 milioni di lire.
Analoghe disposizioni sono oggi contenute negli artt. 91, comma 1, e 83, comma 3, lettera e) del d.lgs. 159/2011, applicabile a decorrere dal 13.02.2013; in particolare, l’art. 91, comma 1, per gli appalti (lettera a), conferma il richiamo alla soglia di rilevanza comunitaria pro tempore vigente, e prevede negli altri casi (lettere b) e c) la soglia di 150.000 euro, mentre l’art. 83, comma 3, prevede che la documentazione antimafia non è comunque richiesta fino ad una soglia di 150.000 euro.
7.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare, ancorché con riferimento al limite di valore dettato (dalla lettera a) in materia di appalti, come la scelta di un’amministrazione pubblica di avvalersi della possibilità di richiedere l’informativa non è preclusa dall’art. 10, comma 1, del d.P.R. 252/1998 (che impone l’obbligo di acquisire le informazioni, qualora l’importo della gara o della concessione superi la soglia normativamente posta), non essendovi un divieto di richiedere informazioni al di sotto della soglia indicata (in tal senso, cfr. Cons. Stato, V, n. 4533/2008; VI, n. 240/2008; III, n. 2798/2013 – si tratta delle sentenze invocate dalle parti, pronunciate in giudizi in cui l’interdittiva incideva su appalti, per i quali, a differenza di quanto avviene per le altre ipotesi, esiste una “zona grigia” tra la soglia minima che comporta la “doverosità” dell’acquisizione, e quella massima generale di “esclusione” della richiesta).
Sempre in relazione ad un appalto al di sotto di detta soglia, questa Sezione ha affermato più di recente che,
a prescindere dalla legittimità della richiesta d’informazione antimafia, il contenuto interdittivo della stessa valga a precludere la nascita di un rapporto contrattuale tra la stazione appaltante ed i soggetti coinvolti dall’informativa o, ancora, a paralizzare le sorti di un rapporto già sorto tra le parti (cfr. III, n. 2040/2014).
Ancora più di recente, questa Sezione si è pronunciata in ordine ad un’interdittiva emessa in relazione ad una situazione del tutto analoga a quello oggi in esame (in quanto, anche in quel caso, si trattava di un contributo di 35.000 euro, a valere sulla «Misura 112 del PSR Calabria 2007/2013», comportante l’obbligo di attivazione della «Misura 121», per la quale era concesso un ulteriore contributo).
In tale occasione, la Sezione, dopo aver sottolineato che il valore complessivo dell’incentivazione superava la soglia di rilevanza di 150.000 euro, ha anche affermato che,
a prescindere dalla questione sull’ammontare del contributo, la richiesta di informazioni fatta alla Prefettura, anche se non obbligatoria, non poteva ritenersi certo illegittima, osservando come ciò sia coerente con la finalità dell’informativa interdittiva, in quanto volta ad evitare che l’Amministrazione possa avere rapporti contrattuali o anche erogare risorse pubbliche ad imprese, per le quali è stato accertato il rischio di condizionamento da parte della criminalità organizzata (cfr. Cons. Stato, III, n. 3386/2014).
8. Il Collegio (pur osservando che, nel caso in esame, l’ulteriore contributo concesso in relazione alla «Misura 121» è pari a 95.204,69 euro, e quindi, sommato all’altro oggetto di revoca, non comporta il superamento della soglia di valore dei 150.000 euro) ritiene preferibile l’orientamento espresso da tale ultima pronuncia.
8.1. Infatti (anche valorizzando le considerazioni svolte da TAR Lazio, I, n. 7566/2012, richiamata nell’appello),
deve ritenersi che le disposizioni sulle «soglie di valore»:
- nel costituire, in un caso (artt. 10, comma 1, del d.P.R. 252/1998, e 91, comma 1, del d.lgs. 159/2011), la fonte di un obbligo assoluto dell’amministrazione procedente, e nell’altro (artt. 1, comma 2, del d.P.R. 252/1998 e 83, comma 3, del d.lgs. 159/2011), quella di un’esenzione da tale obbligo, si propongono di conformare, anche ai fini delle conseguenti responsabilità, il buon andamento delle attività delle pubbliche amministrazioni procedenti;
- non possono essere interpretate nel senso che vi sarebbe una diminuzione dell’attenzione del legislatore nei confronti del pericolo di condizionamento delle imprese da parte di associazioni criminali, ostativo all’instaurazione di un rapporto con l’amministrazione.

Tale interpretazione, infatti, urterebbe contro la ratio della complessiva disciplina in materia (che mira a delimitare i rapporti economici con le Amministrazioni, solo quando l’impresa meriti la «fiducia» delle Istituzioni) e sovvertirebbe il principio che impone di assicurare, in sede interpretativa, effettività e concretezza alla tutela del bene protetto, soprattutto laddove, come avviene per le informazioni antimafia, questo assuma un ruolo assolutamente primario.
Per i rapporti «sotto soglia», possono dunque esservi le acquisizioni delle informazioni antimafia, sia quando si dia attuazione ad un «protocollo di legalità», sia quando questo non sia stato concluso.
Infatti,
potendosi sempre accertare se l’impresa meriti la «fiducia delle Istituzioni», si può attivare il procedimento volto alla verifica della sussistenza o meno del tentativo di infiltrazione della criminalità organizzata, con il conseguente esercizio dei poteri della Prefettura.
8.2. Dunque,
il principio generale da applicare -ai sensi dell'art. 10, comma 2, del d.P.R. 252/1998 e, oggi, dell’art. 94, comma 1, del d.lgs. 159/2011- è quello per cui, quando emergono elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite le relative informazioni «non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni».
Tale conclusione è l’unica coerente con le complessive finalità della disciplina delle informazioni antimafia, che è volta ad evitare radicalmente l’erogazione di risorse pubbliche a soggetti esposti ad infiltrazioni di tipo mafioso, e che pertanto mal tollera che ciò possa avvenire solo entro determinati limiti quantitativi.
9. In conclusione, anche al di là dei casi in cui vi è l'obbligo per l'amministrazione procedente di richiedere le informazioni antimafia, essa è legittimata a richiederle, con i conseguenti poteri-doveri della Prefettura.

APPALTI: Trasparenza nelle procedure telematiche.
I principi di trasparenza e pubblicità delle operazioni di gara non possono essere messi in discussione nel caso si sia trattato di procedure a evidenza pubblica, anche se svolte con modalità telematiche. I suddetti principi abbiano valenza fondamentale e siano posti a tutela degli interessi non solo degli operatori economici, ma anche della stessa stazione appaltante.

È questo il principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 20.07.2016 n. 3266.
Il caso sottostante la decisione citata riguardava una procedura indetta dalla Regione Calabria e relativa la fornitura per tre anni di medicazioni generali ospedaliere, da affidarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Secondo l'ente, trattandosi di gara telematica, sarebbe stato possibile derogare all'obbligo d'apertura in seduta pubblica delle buste amministrative, tecniche ed economiche.
I supremi giudici amministrativi hanno confermato la sentenza di primo grado, affermando che lo svolgimento delle operazioni di gara in seduta pubblica non hanno la funzione d'evitare la possibile manomissione o alterazione dei plichi contenenti la documentazione amministrativa o l'offerta tecnico/economica, ma anche si prefiggono lo scopo di assicurare la tutela della concorrenza, affinché non si determinino alterazioni delle offerte o possibili disparità di trattamento tra i concorrenti (articolo ItaliaOggi del 21.09.2016).

PUBBLICO IMPIEGOFerie non godute? Vanno sempre pagate. L'intervento della corte di giustizia.
I diritti sociali del dipendente trovano tutela presso la Corte di Giustizia.
Con la
sentenza 20.07.2016 causa C-341/15, l'organo giudiziario dell'Unione Europea ha riconosciuto in capo al lavoratore il diritto di percepire una indennità finanziaria nel caso in cui egli non abbia potuto godere, in tutto o in parte, delle ferie annuali retribuite.
La questione va precisata nel senso che tale situazione emerge nel momento della cessazione del rapporto di lavoro, e per i casi nei quali il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie, anche per frazione di anno, a causa di assenza dal servizio per malattia. I giudici europei hanno replicato la prevalenza della Direttiva n. 2003/88 sulle normative nazionali ove essa dispone (art. 7) che il diritto alle ferie annuali retribuite deve essere considerato come «un principio particolarmente importante del diritto sociale dell'Unione conferito a ogni lavoratore, indipendentemente dal suo stato di salute».
La tematica è stata prontamente ripresa dalle associazioni sindacali italiane per la scuola che rivendicano questo diritto per i supplenti assunti fino al termine delle attività didattiche e che sono esortati al ricorso al giudice del lavoro per ottenere ristoro economico delle ferie compromesse. La norma nazionale contestata è quella del cosiddetto patto di stabilità del 24.12.2012 n. 228, articolo 1, commi 54, 55 e 56 che limitano i diritti alle ferie del personale scolastico, peraltro sottraendoli, d'imperio, alla contrattazione collettiva.
La sentenza lussemburghese, precisa che quando è cessato il rapporto di lavoro, e allorché la fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite non è più possibile, la Direttiva comunitaria ha previsto che il lavoratore abbia diritto a un'indennità finanziaria per evitare che, a causa di tale impossibilità, il lavoratore non riesca in alcun modo a godere di tale beneficio neppure in forma pecuniaria.
Lo stesso articolo 7 (primo comma) pone altresì come limite minimo, per tutte le normative nazionali, un periodo di quattro settimane a titolo di ferie annuali. Il caso era arrivato alla Corte del Lussemburgo con la procedura di «rinvio pregiudiziale», ossia era stato il giudice nazione (nella specie, quello austriaco) a rimettere gli atti all'organo dell'U.E. per chiedere l'interpretazione del diritto comunitario al fine di verificarne la conformità con la normativa nazionale.
La Corte di giustizia, nella sua funzione istituzionale, non risponde con un semplice parere ma attraverso una sentenza o un'ordinanza motivata, alla quale, quindi, il giudice territoriale è vincolato nel definire la controversia dinanzi ad esso pendente. Inoltre, la sentenza europea vincola egualmente gli altri giudici nazionali che devono esprimersi su identiche questioni.
Quanto al grado di partecipazione presso questo organo giurisdizionale, va annotato come ciascun cittadino europeo può far chiarire le norme dell'Unione che lo riguardano, anche se detto rinvio possa essere effettuato solo dalla magistratura territoriale, infatti tutte le parti già costituite nel giudizio nazionale possono poi partecipare al procedimento innanzi alla Corte di giustizia (articolo ItaliaOggi del 06.09.2016).

EDILIZIA PRIVATALa deroga al principio generale per il quale, in materia paesaggistica, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, fissata dall'art. 146, comma dodicesimo, d.lgs. 42/2004, è limitata agli interventi minori individuati dall'art. 181, comma 1-ter, del medesimo d.lgs., per i quali soltanto non si applicano le sanzioni penali di cui al comma primo del medesimo art. 181, ferme restando quelle amministrative di cui all'art. 167 del predetto d.lgs..
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Il reato di cui all'art. 181 d.lgs. 42/2004 ha natura di reato di pericolo e si consuma con la sola realizzazione di lavori, attività o interventi in zone vincolate senza la prescritta autorizzazione paesaggistica, a prescindere da ogni accertamento in ordine alla avvenuta alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio, ed anche delle condizioni della zona sottoposta al vincolo ed interessata dagli interventi, in quanto per la sua configurabilità è sufficiente che l'agente faccia del bene protetto dal vincolo un uso diverso da quello cui esso è destinato, atteso che il vincolo posto su certe parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al governo del territorio stesso
.
Il reato in esame non è configurabile esclusivamente in quelle eccezionali occasioni nelle quali si realizzi un intervento di entità talmente minima ed irrilevante che lo stesso non sia neppure astrattamente idoneo a porre in pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, ovvero che si tratti di un intervento ontologicamente estraneo al paesaggio ed all'ambiente.
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Il ricorso è infondato.
1. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione ed errata applicazione dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, in quanto avrebbe dovuto essere ravvisata la diversa ipotesi contravvenzionale di cui al primo comma di tale disposizione, escludendo i presupposti di cui al comma 1-bis, in considerazione dello stato di degrado dell'area interessata dagli interventi e dai lavori, ed avrebbe, comunque, dovuto essere rilevata l'intervenuta estinzione del reato a seguito della dichiarazione di compatibilità paesaggistica postuma rilasciata dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Agrigento in data 08.04.2009, va anzitutto ricordato che
la deroga al principio generale per il quale, in materia paesaggistica, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, fissata dall'art. 146, comma dodicesimo, d.lgs. 42/2004, è limitata agli interventi minori individuati dall'art. 181, comma 1-ter, del medesimo d.lgs., per i quali soltanto non si applicano le sanzioni penali di cui al comma primo del medesimo art. 181, ferme restando quelle amministrative di cui all'art. 167 del predetto d.lgs. (così Sez. 3, n. 35965 del 05/02/2015, Seratoni Gualdoni, Rv. 264875, relativa alla coltivazione di una cava, nella quale è stata esclusa la sussistenza di un intervento minore, data la notevole entità volumetrica del materiale abusivamente estratto, rispetto a quanto originariamente autorizzato; conf. Sez. 3, n. 15053 del 23/01/2007, Bugelli, Rv. 236337).
Ora, nella specie, la Corte d'appello di Palermo ha, conformemente al ricordato principio, escluso l'applicabilità della causa di non punibilità derivante dall'accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi dei commi 1-ter e 1-quater dell'art. 181 cit., ed anche di quella di estinzione del reato conseguente alla rimessione in pristino, ai sensi del comma 1-quinquies della medesima disposizione, rilevando correttamente che tali previsioni riguardano solamente la diversa ipotesi contravvenzionale di cui al comma 1 dell'art. 181 citato, nella specie non ravvisabile. La Corte territoriale ha, inoltre, sottolineato l'insufficienza ai fini della valutazione di compatibilità paesaggistica del nulla osta a posteriori rilasciato dalla Soprintendenza e l'irrilevanza della rimessione in pristino, in quanto non volontaria ma eseguita per imposizione del giudice quale condizione per ottenere il dissequestro dell'area.
Il rilievo, peraltro attinente alla ricostruzione in fatto della vicenda e dello stato dei luoghi e formulato per la prima volta mediante il ricorso per cassazione, secondo cui avrebbe dovuto essere ravvisata la meno grave ipotesi contravvenzionale di cui al primo comma dell'art. 181 d.lgs. 42/2004, in considerazione dello stato di abbandono dell'area interessata dagli interventi disposti con l'ordinanza contingibile ed urgente emanata dal Sindaco De Ru., con la conseguente rilevanza del nulla osta paesaggistico e della rimessione in pristino, risulta inconferente, non rilevando le condizioni dell'area oggetto dell'intervento ma solo l'esistenza o meno del vincolo paesaggistico, nella specie pacificamente esistente, in quanto
il reato di cui all'art. 181 d.lgs. 42/2004 ha natura di reato di pericolo e si consuma con la sola realizzazione di lavori, attività o interventi in zone vincolate senza la prescritta autorizzazione paesaggistica, a prescindere da ogni accertamento in ordine alla avvenuta alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio, ed anche delle condizioni della zona sottoposta al vincolo ed interessata dagli interventi, in quanto per la sua configurabilità è sufficiente che l'agente faccia del bene protetto dal vincolo un uso diverso da quello cui esso è destinato, atteso che il vincolo posto su certe parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al governo del territorio stesso (Sez. 3, n. 564 del 17/11/2005, Villa, Rv. 233012).
Il reato in esame non è configurabile esclusivamente in quelle eccezionali occasioni nelle quali si realizzi un intervento di entità talmente minima ed irrilevante che lo stesso non sia neppure astrattamente idoneo a porre in pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, ovvero che si tratti di un intervento ontologicamente estraneo al paesaggio ed all'ambiente (ex multis, Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia, Rv. 263289; Sez. 3, n. 37337 del 16/04/2013, Ciacci, Rv. 257347; Sez. 3, n. 39049 del 20/03/2013, Bortini, Rv. 256426; Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009, Soverini, Rv. 245908).
Nella specie tale minima entità non è in alcun modo ravvisabile, essendo state posate nell'area sottoposta a vincolo vasche per l'accumulo di acque e lo scarico di reflui, realizzato un parcheggio a raso a cielo aperto, collocato un camion attrezzato per la vendita di alimenti e bevande ed una pedana in legno a servizio del camion, aperto un varco in un muro di confine per facilitare l'accesso al punto di ristoro, create zone d'ombra e docce per i turisti e rimossa un'aiuola, interventi chiaramente idonei a porre in pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, in quanto il piccolo bar realizzato nella struttura ecocompatibile assentita dall'ente gestore della riserva era stato trasformato in un vero e proprio punto di ristoro dotato di alimentazione elettrica ad alta tensione, di una struttura in legno ad esclusivo servizio per allocarvi tavoli e sedie, di un'ampia area di parcheggio e di altri servizi collaterali, quali docce alimentate da vasche idriche.
Deve, pertanto, concludersi per l'infondatezza del primo motivo di ricorso, essendo stata correttamente affermate la sussistenza del delitto paesaggistico e la conseguente irrilevanza del nulla osta ambientale postumo e della rimessione in pristino per ordine del giudice (Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza 12.07.2016 n. 28938).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAConsuma il reato di "abuso d'ufficio" il sindaco che, con ordinanza contingibile ed urgente ex art. 54 d.lgs. 267/2000, mette in atto un espediente per aggirare le prescrizioni connesse al vincolo ambientale e realizzare un intento illecito, e cioè favorire l'attività di ristorazione ivi esistente, essendo risultati del tutto artificiosi i riferimenti ad incidenti stradali verificatisi nella zona, non essendo derivati dal traffico estivo, e non essendo correlate alle esigenze della circolazione le opere diverse dalla realizzazione del parcheggio autorizzate con la medesima ordinanza, volte invece a favorire l'afflusso di clienti presso l'esercizio commerciale e ad ampliarne e rendere più attrattiva l'attività, ritenendo di conseguenza viziato da violazione di legge tale provvedimento, in quanto non caratterizzato da eccesso di potere (nel senso del compimento di non corrette valutazioni discrezionali) ma dalla assoluta mancanza dei presupposti legittimanti l'esercizio di tale potere, artificiosamente prospettati nella ordinanza stessa.
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Il ricorso è infondato.
...
2. Il secondo motivo di ricorso, mediante il quale
è stata prospettata violazione di legge, ed in particolare dell'art. 54 d.lgs. 267/2000, in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 323 cod. pen., sul rilievo che l'ordinanza contingibile ed urgente emanata dal De Ru. quale Sindaco di Lampedusa e Linosa per consentire la realizzazione del parcheggio era stata adottata per risolvere i problemi di congestione del traffico veicolare nell'area prospiciente la spiaggia dell'Isola dei Conigli, dunque in relazione ad una situazione di pericolo per la sicurezza e l'incolumità pubblica, risulta anch'esso infondato.
Al riguardo la Corte d'appello di Palermo ha sottolineato
le anomalie della procedura conclusasi con l'emissione di detta ordinanza, ritenuta un espediente per aggirare le prescrizioni connesse al vincolo ambientale e realizzare un intento illecito, e cioè favorire l'attività di ristorazione del Cu., essendo risultati del tutto artificiosi i riferimenti ad incidenti stradali verificatisi nella zona, non essendo derivati dal traffico estivo, e non essendo correlate alle esigenze della circolazione le opere diverse dalla realizzazione del parcheggio autorizzate con la medesima ordinanza, volte invece a favorire l'afflusso di clienti presso l'esercizio commerciale del Cu. e ad ampliarne e rendere più attrattiva l'attività, ritenendo di conseguenza viziato da violazione di legge tale provvedimento, in quanto non caratterizzato da eccesso di potere (nel senso del compimento di non corrette valutazioni discrezionali) ma dalla assoluta mancanza dei presupposti legittimanti l'esercizio di tale potere, artificiosamente prospettati nella ordinanza stessa.
A fronte di tali considerazioni il ricorrente si è limitato a ribadire l'esistenza di una situazione di pericolo conseguente all'intenso traffico veicolare nella zona, omettendo di confrontarsi con i suddetti rilievi della Corte d'appello, circa la pretestuosità di tale indicazione e la sua inconferenza rispetto al complesso degli interventi e dei lavori autorizzati, con la conseguente infondatezza della censura, risultando corretta la riconducibilità del vizio di detta ordinanza alla categoria della violazione di legge, in quanto emessa in totale assenza dei presupposti legittimanti, e cioè una situazione di pericolo per la sicurezza e l'incolumità pubblica, esclusa in punto di fatto ed in relazione alla quale, comunque, gli interventi autorizzati risultavano inconferenti.
L'ampliamento del piccolo bar di cui il Cu. era titolare, mediante trasformazione in un vero e proprio punto di ristoro, con parcheggio e docce, determinava un evidente vantaggio patrimoniale per il gestore, conseguente alla radicale trasformazione del suo esercizio commerciale, in termini di dimensioni, caratteristiche e maggiori servizi offerti ai turisti, con la conseguenza che risulta corretta la valutazione compiuta dalla Corte d'appello circa lo scopo di procurare tale vantaggio al Cu. insito nella adozione della ordinanza d'urgenza da parte del De Ru..
Infine risulta infondata anche la censura sollevata in relazione alla condanna del ricorrente al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita,
avendo l'imputato esorbitato dalle sue attribuzioni di Sindaco, emettendo una ordinanza in mancanza dei presupposti legittimanti l'esercizio del relativo potere, e dovendo, di conseguenza, rispondere delle conseguenze di tale atto anche sul piano risarcitorio, essendo venuto meno per effetto dell'illecito il rapporto di rappresentanza ed immedesimazione organica con l'ente.
In conclusione il ricorso in esame deve essere respinto, stante l'infondatezza di entrambi i motivi cui è stato affidato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione alla parte civile di quelle dalla stessa sostenute nel grado, liquidate come da dispositivo (Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza 12.07.2016 n. 28938).

EDILIZIA PRIVATA: Smaltimento fumi con perizia. Con attestato sì a impianti alternativi alle canne fumarie. Il Tar Lazio: serve l'attestazione di un professionista che abbia le conoscenze necessarie.
Il ristorante di carne nel centro può riaccendere la griglia nel centro storico, in mezzo a edifici antichi e immobili di pregio. Ma solo se dimostra con una perizia che l'impianto più moderno di smaltimento fumi, di cui vuole dotarsi è un'alternativa valida alla canna fumaria. E ad attestarlo deve essere un professionista in possesso delle conoscenze necessarie per le misurazioni richieste.

È quanto emerge dalla sentenza 12.07.2016 n. 7971, pubblicata dalla Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
Placet procedimentale. Accolto il ricorso della società proprietaria del locale pubblico contro lo stop all'attività decretato da Roma Capitale, in una zona della città molto frequentata dai turisti. Il tutto per contrarietà all'articolo 64 del regolamento di igiene del comune. Non è possibile installare la canna fumaria e il gestore preme per una via alternativa per lo smaltimento. E il fatto che la sua censura trovi ingresso presso i giudici amministrativi non lo autorizza a riprendere automaticamente il servizio come prima.
Sull'impianto più moderno che l'esercizio pubblico dice di voler installare si deve comunque pronunciare l'amministrazione nella sede procedimentale prevista. È anzitutto necessario rispettare le norme tecniche di costruzione. Ma serve anche produrre una perizia che attesta come la via di fumo alternativa risulta equipollente se non addirittura più efficiente della vecchia canna fumaria. E a firmarla può essere solo un professionista dotato di strumenti riconosciuti per la valutazione.
Le vie di fumo dei locali pubblici sono un tradizionale terreno di scontro con i vicini. Ma attenzione: via libera alla sanatoria per la canna fumaria della pizzeria anche senza il consenso dei condomini. I confinanti del ristorante non riescono a far annullare la sanatoria concessa dal comune per il permesso di costruire: il condotto per l'esalazione dei fumi costituisce un volume tecnico e l'amministrazione non può che concedere il titolo edilizio.
Per l'installazione della struttura lungo la facciata non serve il consenso dei condomini, a meno che non risulti dannosa per il decoro architettonico dell'edificio. È quanto emerge dalla sentenza 10/2015, pubblicata dalla prima sezione del Tar Marche.
Niente da fare per la famiglia che abita sulla verticale della pizzeria: dovrà rassegnarsi a convivere con gli effluvi che provengono dal basso. E ciò al di là del caso specifico rappresentato dal locale pubblico: la struttura per lo smaltimento dei fumi deve infatti essere considerata un volume tecnico che è necessario per l'utilizzo di impianti termici, i quali sono indispensabili negli edifici moderni. Un problema si potrebbe porre per strutture di grandi dimensioni, ma non è il caso di specie, laddove risulta innestato un tubo di piccolo diametro.
La necessità dell'autorizzazione dei condomini risulta nuovamente esclusa sulla base dell'articolo 1102 c.c., comma 1: «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa». E nel caso specifico è escluso la canna fumaria possa nuocere alle linee architettoniche del fabbricato. I vicini pagano le spese di giudizio al titolare della pizzeria.
Ancora. I vicini non possono bloccare la realizzazione della canna fumaria lungo la facciata dell'edificio che serve al ristorante di un loro condomino. A meno che il condotto non risulti in contrasto con il decoro architettonico del fabbricato. È così che il comune non può negare l'autorizzazione alla società che chiede di installare il condotto da mettere al servizio del locale pubblico motivando sul mero dissenso espresso dagli altri condomini e non sull'impatto di natura antiestetica della struttura sul prospetto del palazzo.
È quanto emerge dalla sentenza 1308/2014, pubblicata a dicembre dalla prima sezione del Tar Lombardia, sede di Brescia. È accolto in base all'articolo 1102 c.c. il ricorso della società relativamente al locale che somministra al pubblico alimenti e bevande e ha bisogno di convogliare i fumi più in alto possibile: deve essere annullato il provvedimento del dirigente del settore Attività produttive dell'ente locale.
La regola parla chiaro: ciascun partecipante alla comunione o il condominio può servirsi della cosa comune, a patto che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
E ogni condomino può apportare a sue spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. In astratto l'opera sulle parti comuni può essere realizzata da un condomino senza il consenso degli altri, a condizione che non risulti pregiudicata l'armonia delle linee architettoniche (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).
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MASSIMA
Considerato in diritto che:
- l’attività di cottura esercitata nell’esercizio concerne, come dichiarato in ricorso, la preparazione di cibi caldi per l’attività di ristorazione ivi svolta;
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la vigente normativa in materia di criteri di realizzazione e di utilizzo delle canne fumarie attiene alla tutela della salute e pubblica igiene (cfr. sul principio Cons. Stato n. 1/2015) e quindi è ripartita tra la competenza non esclusiva dello Stato e quella concorrente delle Regioni;
-
è tuttora vigente il D.M. 05.09.1994 che fissa l’elenco delle industrie insalubri di prima e seconda classe, includendo nell’elenco di seconda classe le “friggitorie”;
- la L.r. Lazio n. 21 del 2006, concernente la “disciplina dello svolgimento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande” demanda, per la sua attuazione, ad un regolamento regionale (art.7) “le previsioni di salvaguardia per gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, con riferimento alle norme in materia di destinazione d'uso e ai regolamenti urbanistici ed edilizi, nell'ambito di contesti urbani di particolare pregio artistico ed architettonico”; mentre rimette alla regolamentazione comunale “l'utilizzo, da parte dei locali in cui si svolge attività di somministrazione di alimenti e bevande, di più moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi, di preferenza senza immissione in atmosfera, e per la diminuzione dell'inquinamento acustico, con particolare riferimento ai centri storici”;
- l’art. 12 del Reg. Reg. n. 1/2009 dispone che i Comuni, nell'ambito degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi garantiscono l'equilibrio tra le esigenze di tutela dei contesti urbani di particolare pregio artistico-architettonico e quelle di tutela della libera iniziativa economica e dei diritti acquisiti dagli esercizi già operanti all'interno dei contesti stessi; ulteriormente prevedendo che gli esercizi di cui al comma 1 (e cioè quelli che operano all’interno dei contesti urbani di particolare pregio artistico-architettonico) “possono utilizzare, in alternativa alle canne fumarie, altri strumenti o apparati tecnologici aspiranti e/o filtranti per lo smaltimento dei fumi, la cui idoneità è accertata secondo la normativa vigente in materia” implicitamente, dunque, riconoscendo la possibilità del ricorso all’impiego di sistemi alternativi (e cioè di “di più moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi”) alla via di fumo tradizionale (id est: canna fumaria), ma subordinandolo alla circostanza (da accertarsi, dunque, in concreto) che esso assicuri un’efficienza di rendimento pari o superiore all’impiego della canna fumaria: esegesi questa che del resto si impone anche alla luce dei principi di derivazione comunitaria di precauzione e prevenzione (sulla conferma di una tale interpretazione in fattispecie del tutto simile a quella in trattazione, ved. Cons. St. n. 442 del 2008); e tanto fermo restando che:
   1 -
gli esercizi autorizzati, in linea di principio, ad avvalersi di vie di fumo diverse da quelle tradizionali sono solamente quelli siti in determinati contesti urbani di particolare pregio (e si rammenta a tal riguardo che, per le zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale sottoposte a tutela, l'apertura o il trasferimento di sede degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, di cui alla l. n. 287 del 1991, sono soggetti ad autorizzazione e non a scia: vedi art. 64 commi 1 e 3 del d.lgs. n. 59/2010 come sostituito dall’art. 2 del d.lgs. n. 147 del 2012); ne consegue che gli esercizi esterni a tali contesti non beneficiano di analoga alternativa e sono tenuti, inevitabilmente, a dotarsi di canne fumarie (e tanto anche a mente del comma 6 dell’art. 64 citato che subordina l'avvio e l'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande “al rispetto delle norme urbanistiche, edilizie, igienico-sanitarie e di sicurezza nei luoghi di lavoro”);
   2 -
l’idoneità degli impianti alternativi va accertata in concreto e secondo la normativa vigente in materia, che include tanto la normativa comunitaria quanto quella regolamentare (posto che la prescrizione in esame si limita a richiamare la normativa vigente, senza altre specificazioni); del resto un’interpretazione costituzionalmente orientata delle predette norme regionali secondo ragionevolezza non può prescindere nella sua applicazione dal considerare le locali norme regolamentari, che, secondo i consueti principi di sussidiarietà e prossimità dei livelli di governo, assicurano l’effettività di tutela delle concrete esigenze dello specifico contesto territoriale, così evitando le conseguenze abnormi di un’applicazione del dato legislativo uguale per tutte le realtà urbane (come sarebbe, si immagini, la situazione in cui ci si troverebbe laddove, applicando acriticamente ed in maniera generalizzata il principio secondo il quale la canna fumaria deve sovrastare di una certa distanza il colmo dell’edificio vicino, si dovesse pretendere un’altezza superiore a quella anche del più alto grattacielo confinante: cfr., sul principio, Cons. St. n. 1/2015 cit.; vedi altresì Cons. St. sez. V, 17.06.2014, n. 3081 ove si afferma che <<ai sensi dell'art. 272, comma 1, del D.L.vo 03.04.2006 n. 152 e successive modifiche, la canna fumaria in questione è considerata scarsamente inquinante, con conseguente suo assoggettamento ai "piani e programmi di qualità dell'aria previsti dalla vigente normativa" di fonte locale, ovvero ad una disciplina di fonte regionale à sensi dell'art. 271, comma 3, dello stesso T.U. e successive modifiche>>: disciplina che nella Regione Lazio tuttavia non risulta a tutt'oggi emanata se non nei termini sopra indicati);
Considerato ancora che:
- a livello regolamentare locale l’art. del 59 Reg. Ed. dispone quanto ai “Condotti di fumo” che “Ferme restando le disposizioni contenute nel Regolamento di igiene, è vietato di far esalare il fumo inferiormente al tetto o stabilire condotti di fumo con tubi esterni ai muri prospettanti sul suolo pubblico" (per quanto attiene alla correlazione tra la disciplina del commercio e quella urbanistico-edilizia, e tra queste ed il regolamento igienico-sanitario comunale, cfr. Tar Lazio, Roma, sez II-ter n. 11129/2015; Cons. St. sez. V, n. 3262/2009; Tar Campania, Napoli, n. 10058/2008 e n. 556/2010); mentre, sempre al medesimo livello normativo, l’art. 64 del Reg. Igiene non impone necessariamente l’utilizzo della canna fumaria; esso difatti, all’ultimo periodo, dispone che “L'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per caso, quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei carboni magri o di apparecchi fumivori”.
Dunque, e fermo restando l’impiego ordinario delle vie di fumo tradizionali, la disciplina normativa consente anche il ricorso a vie di fumo alternative che dovranno essere valutate caso per caso. Tale disciplina è da considerarsi tuttora vigente in quanto non in contrasto con l’art. 12 del Reg. reg. 1/2009 che prescrive l’accertamento dell’idoneità della via di fumo alternativa “secondo la normativa vigente in materia” (e dunque non pregiudica l’operatività di detta norma regolamentare).
Né può ritenersi implicitamente abrogato l’art. 64 dall’art. 15 del Reg. reg. citato: e ciò in quanto tale previsione nulla dispone con riguardo alle conseguenze della mancata adozione, entro il termine di 90 giorni prescritto, della normativa regolamentare locale di adeguamento (che può essere sollecitata da chi vi abbia interesse con il ricorso ai normali strumenti processuali); va solo meglio chiarito che un adeguamento si impone allorché la norma locale pre-esistente sia incompatibile con la superiore previsione regionale, ma ciò è da escludersi nel caso di specie, non vietando il locale Regolamento d’Igiene il ricorso a “più moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi” ma, semplicemente, limitandosi ad imporne -a tutela di un interesse primario quale, come in precedenza rilevato, quello della salute- il preventivo accertamento); al che accede la chiara infondatezza delle censure che poggiano sulla assunta disapplicazione dell’art. 64 del Reg. d’Igiene nonché sull’interpretazione di tale disposizione così come dedotto in gravame (nessun dubbio sulla vigenza dell’art. 64 citato è sollevato nella decisione del Cons. St., sez. III, 05/10/2011, n. 5474 laddove si afferma che “la ratio di tale norma sia quella di evitare che le canne fumarie provochino immissioni nocive o comunque disturbo a terzi e pertanto, laddove, come nel caso in esame, per la peculiare configurazione architettonica a scaloni, lo stabile abbia due o più piani di copertura di diverso livello, le canne fumarie debbono innalzarsi oltre l'ultimo piano al fine di evitare immissioni nocive a terzi”);
- a livello comunitario, vengono in considerazione più normative tecniche (vedi UNI EN 15251:2008, recante “Criteri per la progettazione dell’ambiente interno e per la valutazione della prestazione energetica degli edifici, in relazione alla qualità dell’aria interna, all’ambiente termico, all’illuminazione e all’acustica” e applicabile ad abitazioni individuali, condomini, uffici, scuole, ospedali, alberghi e ristoranti, impianti sportivi, edifici ad uso commerciale all’ingrosso e al dettaglio; UNI EN 15239:2008 e UNI EN 15240:2008 entrambe descriventi una metodologia per l’ispezione degli impianti); e fra queste in particolare la normativa UNI EN 13779:2008 (Requisiti prestazionali dei sistemi per l’edilizia non residenziale) che prevede dettagliate classificazioni di aria nell’ambiente, in particolare l’aria esterna (ODA) e l’aria interna (IDA) e che classifica quest’ultima in quattro categorie collocando all’interno di quella più dannosa per la salute umana (“aria estratta con altissimo livello di inquinamento”), l’aria proveniente, fra l’altro, da cappe aspiranti per uso professionale, piani cottura e scarichi locali di cucine “in quanto contenente odori ed impurità dannosi per la salute in concentrazioni sensibilmente più elevate di quelle permesse per l’aria interna nelle zone occupate”;
- le predette norme UNI EN, elaborate dal CEN (Comité Européen de Normalisation) sono preordinate ad uniformare la normativa tecnica in tutta Europa e devono ritenersi (non solo regole di buona tecnica ma, altresì) norme vincolanti in presenza di leggi o di regolamenti di recepimento (cfr. sul principio, Corte Cost., 18.06.2015, n.113 nonché Corte Cass., seconda sezione civile, sentenza 15.12.2008, n. 29333; Cons. St. sez. V, 17.06.2014, n. 3081 cit., laddove con riguardo alle modalità di intubamento della canna fumaria asservita ad una pizzeria con forno a legna sottolinea la necessità di renderla sicuramente conforme alla tuttora vigente norma UNI 10683 Ed. marzo 1998 "Generatori di calore a legna. Requisiti di installazione", nonché l'ulteriore disciplina tecnica susseguentemente intervenuta);
- la normativa tecnica “UNI EN 13779 Ventilazione degli edifici non residenziali - Requisiti di prestazione per i sistemi di ventilazione e di climatizzazione” è espressamente richiamata nell’all. B. al d.m. 26.06.2009 (vedi altresì, in precedenza, art. 7 dell’abrogata legge n. 46 del 1990 nonché, per quanto riguarda le attività di installazione degli impianti all'interno degli edifici, il d.m. n. 38 del 2007, all’art. 5, comma 3, e all’art. 6, c. 1) e quindi trova applicazione nel vigente Ordinamento (con infondatezza della doglianza che ne esclude la vincolatività); e preso atto che la norma tecnica che essa indica in tutti i casi di scarico dell’aria esausta diversa da quella della cat. EHA 1 (che è nella catalogazione sopra richiamata quella considerata la meno dannosa per la salute ed è qualificata come “aria estratta con basso livello di inquinamento” da ambienti come uffici, classi scolastiche, scalinate, corridoi ecc) è data dalla seguente prescrizione: “In tutti gli altri casi lo scarico dovrebbe essere posto sulla cima del tetto. Come regola, l’aria esausta è condotta sopra la sezione più alta dell’edificio e scaricata verso l’alto”;
- in forza di quanto sin qui esposto,
deriva (in tutti i casi di scarico non collocabili nella predetta cat. EHA 1) l’obbligo di dotare gli impianti dei locali di cottura all’interno dei locali di ristorazione di sistemi di scarico posti sulla cima del tetto ovvero sulla sezione più alta dell’edificio: vincolo questo che rende inapplicabile alla fattispecie il disposto dell’art. 19, comma 1, della legge n. 241 del 1990, a norma del quale sono esclusi dall’ambito dell’applicazione della segnalazione ivi meglio disciplinata i casi in cui sussistano (i) “vincoli” ivi individuati tra i quali quelli imposti dalla normativa comunitaria;
- conseguentemente, al fine di superare tale vincolo, il Collegio, rimeditando precedenti orientamenti, ritiene che
non può considerarsi sufficiente la dichiarata idoneità dell’impianto alternativo a sostituire le vie di fumo tradizionali, dovendosi esigere l’accertamento –da parte di professionisti che possiedono le conoscenze tecnico-scientifiche idonee per effettuare, con i necessari strumenti, le misurazioni dei fumi e vapori evacuati dalla via di fumo alternativa utilizzata– che il sistema di scarico sia, concretamente, di efficienza e funzionalità tale da garantire (nel tempo e/o anche tramite gli interventi manutentivi da debitamente documentare e comprovare) una resa di livello pari o maggiore di quello assicurato da una via di fumo tradizionale e che tale accertamento, in sintonia con quanto previsto dall’art. 64 citato (“L'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per caso, quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei carboni magri o di apparecchi fumivori”) sia condotto nel procedimento amministrativo con le competenti autorità e concluso prima dell’avvio dell’attività imprenditoriale; considerazione cui accede l’infondatezza della generica doglianza imperniata sul convincimento che la ricorrente possa considerarsi autorizzata (in forza di Scia sanitaria) all’utilizzo di via di fumo alternativa (in fattispecie del tutto assimilabile a quella in trattazione, il Cons. St. con la citata sent. n. 4428/2008 ha testualmente affermato: “In altri termini, il tecnico ha dichiarato che le emissioni non sono nocive o lesive e non limitano i diritti dei terzi, ma non che l’impianto sia ‘idoneo sotto il peculiare aspetto della uguaglianza dei suoi effetti di neutralizzazione di fumi, vapori ed odori di cucina a quelli del sistema tradizionale. Né tanto è attestato nelle altre relazioni, che anzi non si basano neppure su prove effettuate in concreto, bensì su un “plausibile” valore complessivo di abbattimento delle emissioni”);
Considerato che:
- nel caso di specie, non risulta effettuato detto accertamento preventivo da parte dell’autorità amministrativa né rilasciato alcun provvedimento espresso di autorizzazione ex art. 64 citato all’uso di impianti alternativi alla canna fumaria, per cui deve escludersi che possa essersi formato il titolo abilitativo a seguito di presentazione della Scia c.d. “sanitaria”;
- la praticabilità della Scia (sanitaria) in subiecta materia neppure potrebbe essere predicata in forza del regime di liberalizzazione delle attività economiche, tenuto conto delle espresse deroghe contemplate nella relativa legislazione a tutela del bene “salute” e della “sicurezza dei lavoratori”; e difatti dall’esame della normativa vigente al riguardo si evince che:
   a) il d.l. n. 223 del 2006 (c.d. decreto Bersani) laddove, all’art. 3 (Regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale), consente (in applicazione delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione) che le attività commerciali, come individuate dal d.lgs. n. 114/1998, e di somministrazione di alimenti e bevande, siano svolte senza i limiti e prescrizioni ivi individuati, eccettuate da tali limiti e prescrizioni le ipotesi che riguardano, fra l’altro, sia l'iscrizione a registri abilitanti ovvero il possesso di requisiti professionali soggettivi per l'esercizio di attività commerciali (ove sono fatti salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande), che (lett. f-bis) l'ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie;
   b) il d.l. n. 138 del 2011 all’art. 3 (Abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche) pur impegnando Comuni, Province, Regioni e Stato ad adeguare i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata, ammette dei limiti alla liberalizzazione delle attività economiche nei soli casi ivi individuati fra i quali annovera la presenza di vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e le disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; ulteriormente consentendo la sopravvivenza di quelle disposizioni normative statali che, in quanto dettate a tutela e protezione della salute umana (e degli ulteriori valori sopra richiamati), prevedono regimi autorizzatori differenti dalla Scia;
   c) il d.l. 06.12.2011, n. 201, all’art. 31 (relativo agli esercizi commerciali), ribadisce il noto principio di liberalizzazione, ma consente a Regioni ed enti locali la possibilità di prevedere senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali;
   d) il d.l. 24.02.2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), all’art. 1 (Liberalizzazione delle attività economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese) comma 2, dopo aver richiamato il principio della libertà dell’iniziativa economico privata e l’esigenza che le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche si interpretino in senso tassativo, ha ribadito che il principio costituzionale di libertà predetto ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica (ved. sul punto anche sent. Corte Cost. 23.01.2013, n. 8);
   e) in tal senso, la Corte Costituzionale, investita della verifica di legittimità in ordine alla disposizione di cui all’art. 3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2011, conv. con mod. dalla legge n. 148 del 2011, ha rilevato (sentenza 20.07.2012, n. 200) che <<il Legislatore ha inteso stabilire alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all'interno della cornice delineata dai principi costituzionali. Così, dopo l'affermazione di principio secondo cui in ambito economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», segue l'indicazione che il legislatore statale o regionale può mantenere forme di regolazione dell'attività economica volte a garantire, tra l'altro –oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell'ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica– in particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della dignità umana, a presidio dell'utilità sociale di ogni attività economica, ai sensi l'art. 41 Cost.. La disposizione impugnata afferma il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore statale ha elencato all'art. 3, comma 1>>; ulteriormente osservando, con considerazione che si dimostra pienamente espandibile anche alle previsioni di cui ai decreti legge n. 201 del 2011 e n. 1 del 2012, che “il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall'altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale” (cfr. anche Corte Cost. n. 8 del 2013 citata);
   f) quale logico corollario, va esclusa la presenza di profili di inconciliabilità della regolamentazione comunale all’esame rispetto al quadro normativo di rango primario sopra declinato; e va –ancora una volta– ribadita la piena esercitabilità di un potere di regolamentazione, in ragione della tutela degli interessi precedentemente illustrati, delle caratteristiche e/o modalità da osservare nell’esercizio delle attività di cottura funzionale alla somministrazione di alimenti e bevande “nell’ambito di contesti urbani di particolare pregio artistico ed architettonico”;
Rilevato che:
- anche in un settore (pur parallelo, ma) diverso da quello degli impianti di scarico utilizzati dagli esercizi di ristorazione, la normativa più recente (Legge n. 90 del 2013, entrata in vigore il 04.08.2013) ha stabilito nuove disposizioni riguardanti l'evacuazione dei prodotti della combustione degli impianti termici.
In particolare, l'art. 17-bis "Requisiti degli impianti termici", al comma 9 e ss., privilegia espressamente il ricorso alle canne fumarie stabilendo ammettendo lo scarico a parete solo in tre casi specifici (sostituzione dell'impianto con uno già esistente prima del 01.09.2013 che scaricava a parete o era allacciato a canna collettiva ramificata; se lo scarico a tetto risulta incompatibile con norme di tutela degli edifici; se si dimostra, con un'asseverazione del progettista, che è impossibile tecnicamente realizzare uno sbocco a tetto) ed a condizione che gli impianti siano di classe 4 e 5 stelle nel rispetto delle norme UNI EN 297, UNI EN 483 e UNI EN 15502 e delle prescrizioni della UNI 7129:2008;
- pertanto, il potere di controllo esercitato nella circostanza dall’intimata Amministrazione trova titolo nello svolgimento di una attività economica (somministrazione alimenti: cottura cibi) in assenza di requisiti oggettivi, ovvero di canna fumaria, ed in carenza di autorizzazione all’uso di impianto alternativo che asseveri l’idoneità dell’impianto medesimo sotto il profilo della sua “equipollenza” alla via di fumo tradizionale;
Considerato ancora che
la più accreditata giurisprudenza, allorquando ha affrontato la tematica in argomento, non ha mai dubitato della legittimità delle norme e dei conseguenti provvedimenti amministrativi che imponevano l’impiego di canne fumarie (cfr. Cons. St. sez. V, 17.06.2014, n. 3081 che ha ritenuto legittima l’ordinanza, adottata ai sensi degli artt. 50 e 54 del D.L.vo 18.08.2000, n. 267, che prescriveva "di sospendere l'utilizzo del forno a legna fino a quando non sia provveduto all'esecuzione delle opere necessarie alla risoluzione dell'inconveniente, quali una accurata pulizia della canna fumaria e l'eventuale installazione di dispositivi atti a trattenere le particelle di fuliggine, nonché una periodica manutenzione della stessa; Cons. Stato n. 304 del 2013: che ha ritenuto legittima la prescrizione del regolamento locale di Igiene impositiva dell’utilizzo di canna fumaria anche nel caso di impiego di forni elettrici; Cons. Stato, sez. III, 05.10.2011, n. 5474 che ha ritenuto legittima, in applicazione dell’art. 64 del Reg. Igiene del comune di Roma, la prescrizione che le canne fumarie debbono innalzarsi oltre l'ultimo piano al fine di evitare immissioni nocive a terzi; Cons. Stato n. 4428 del 2008, che riguarda fattispecie ampiamente assimilabile a quella qui in trattazione, in cui l’esercente si era avvalso di un (contestato) sistema di scarico alternativo alla canna fumaria, ha dato risalto alle carenze della relazione peritale evidenziando che il tecnico si è limitato ad attestare ad attestare che <<dalle rilevazioni effettuate emerge il ridottissimo impatto delle emissioni sull’ambiente esterno che non solo non mostrano caratteristiche di nocività, ma anche non possono essere ritenute lesive della qualità ambientale e/o limitative dei diritti dei terzi. In altri termini, il tecnico ha dichiarato che le emissioni non sono nocive o lesive e non limitano i diritti dei terzi, ma non che l’impianto sia “idoneo sotto il peculiare aspetto della uguaglianza dei suoi effetti di neutralizzazione di fumi, vapori ed odori di cucina a quelli del sistema tradizionale. Né tanto è attestato nelle altre relazioni, che anzi non si basano neppure su prove effettuate in concreto, bensì su un “plausibile” valore complessivo di abbattimento delle emissioni>>. Ancora il Supremo Consesso ha precisato che è “evidente che la norma regolamentare imponga al privato una siffatta dimostrazione, e non all’Amministrazione di comprovare il contrario”);
Ritenuto, pertanto, che le censure in premessa sintetizzate non sono meritevoli di accoglimento alla luce delle considerazioni ed argomentazioni sopra declinate, ad eccezione del solo profilo di doglianza incentrato sulla violazione dell’art. 64 del Reg. d’Igiene il quale, come dianzi evidenziato, ammette la possibilità del ricorso a vie di fumo alternative “quando sia necessario” e previo accertamento da condurre “caso per caso”; possibilità invece negata dalla resistente amministrazione laddove (non si limita solo a riscontrare l’assenza di canna fumaria a servizio dell’esercizio della ricorrente, ma) conclude precisando che “L’utilizzo di impianti alternativi, pertanto, non risulta, allo stato attuale, legittimato da alcuna fonte normativa”;
Considerato, peraltro, di precisare, ex art. 34, c.p.a., che all’accoglimento del ricorso non consegue che alla società ricorrente può ritenersi automaticamente consentito l’avvio o l’esercizio di attività di cottura in locali sprovvisti di canna fumaria richiesta dall’art. 64 del locale Regolamento d’Igiene, dal momento che,
come sopra articolatamente argomentato, sia l’art. 9, c. 2, del Reg. Reg. n. 1 del 2009 che l’art. 64 citato non ostano all’esercizio di un’attività di cottura dotata di via di fumo alternativa a quella tradizionale, ma solo a condizione che tale impianto alternativo (non solo rispetti le nome tecniche di costruzione richieste, ma) sia rispetto a quello tradizionale dotato di maggiore o pari efficienza, condizione questa che va documentata dalla società attraverso una produzione peritale redatta da professionista dotato delle conoscenze scientifiche e degli strumenti necessari per le misurazioni richieste ai fini della prova del citato rapporto di equivalenza/equipollenza e che va sottoposta (anche a mente dell’art. 64 citato) alla valutazione delle competenti autorità che dovranno determinarsi espressamente o rendere il proprio parere nella sede procedimentale prevista, ulteriormente precisandosi che l’opposta evenienza espone la società alle misure inibitorie che l’Amministrazione potrà adottare in quanto l’esercente risulta sprovvisto sia di canna fumaria che di via di fumo alternativa debitamente e previamente autorizzata;
Considerato, conclusivamente, che il ricorso va accolto nei termini sopra indicati;
quanto alla domanda di risarcimento dei danni la stessa non può essere accolta in quanto genericamente formulata: difetta una effettiva prospettazione del danno emergente sicché, per tale capo, la domanda va respinta per difetto di argomentazione e prova non essendo utilizzabile il potere del giudice di far luogo a criteri equitativi per colmare carenze imputabili alla parte.

EDILIZIA PRIVATATrasferimento delle volumetrie per chi riqualifica. Consiglio di Stato. Immobili residenziali.
È vietata la demolizione di volumetrie con trasferimento del titolo edilizio in una zona distante e con una destinazione d’uso diversa da quella originaria degradata se l’intervento non comporta in alcun modo la riqualificazione dell’area da demolire oltre a quella nello spazio urbano.
A chiarirlo è il Consiglio di Stato -sentenza 11.07.2016 n. 3071 - Sez. IV– che ha respinto così l’appello di un privato al quale un Comune aveva negato il permesso di costruire tre fabbricati a uso residenziale in un’area urbana utilizzando quasi la stessa volumetria di un proprio capannone industriale dismesso in una zona extraurbana.
Il ricorrente, al contrario della Pa, sosteneva che le norme del decreto Sviluppo che incentivano queste operazioni (o Piano città - comma 9, articolo 5, Dl 70/2011, poi legge 106/2011) vietano solo le opere su edifici abusivi, nei centri storici o nelle aree di inedificabilità assoluta (escluse le sanatorie), e che la «compatibilità» richiesta va riferita non agli edifici ma alle aree, e che il capannone era solo formalmente in un’«area extraurbana a disciplina pregressa», poiché di fatto urbanizzata (meno di 1 km da un borgo) ed equiparata a zona “D” per impianti industriali o assimilati (Dm 1444/1968).
I giudici hanno spiegato che in questi casi il tema della compatibilità o della «complementarietà» della destinazione d’uso non riguarda la zona, ma in senso stretto le tipologie degli edifici, per cui «altro sarebbe se si trattasse di edificio da demolire a destinazione terziaria e direzionale, complementare se non addirittura compatibile con una destinazione di tipo residenziale, altro è un edificio a destinazione dichiaratamente industriale».
Gli invocati altri casi in cui palazzo Spada ha “approvato” simili delocalizzazioni (sentenza 3180/2015) riguardavano interventi differenti –volumetrie di ambito extraurbano su aree a standard– e soprattutto non privi, come in questo caso, di un certificato di destinazione urbanistica che inquadrava l’area originaria nello spazio urbano.
Il collegio, confermando le tesi di primo grado (Tar Potenza 366/2013) secondo cui queste modifiche, in base alla citata disciplina sulle costruzioni private, devono essere compatibili «tra loro» e non semplicemente con la destinazione d’uso della “nuova” zona, ha precisato che in questo caso il ricorrente proponeva in realtà una «mera edificazione nuova in un contesto urbano che non risulta degradato», mentre una tale demolizione è autorizzabile «solo se ricorre lo scopo alternativo di “razionalizzazione del patrimonio edilizio” o “riqualificazione dell’area urbana degradata”», posto che lo scopo di quest’ultima «deve riferirsi…(almeno) anche all’area di localizzazione della volumetria da trasferire».
In questo caso il Comune aveva ritenuto la riqualificazione dell’area del capannone (da bonificare per elementi in amianto) un recupero a verde «a esclusivo beneficio dell’interessato, in quanto distante e avulsa dal contesto cittadino» -sedime trasformato in piazzale di stoccaggio di materiali di costruzione-, in più non aveva concesso il “via libera” poiché, nel dettaglio, era lo stesso Piano casa regionale a vietare cambi di destinazione d’uso a residenziale per edifici in zone “D”, consorzi industriali o piani d’insediamento produttivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Si può vincere l'appalto senza gli oneri di sicurezza.
Confermata la vittoria dell'appalto per le imprese che pure non hanno indicato gli oneri di sicurezza aziendale nell'offerta. Possibile? Sì, se la gara è strutturata con un accordo quadro che regola i successivi interventi da realizzare con un importo massimo prefissato per ogni lotto.
E ciò perché si tratta di lavori di manutenzione da effettuare in immobili pubblici che ancora non si conoscono con esattezza: l'obbligo di puntuale indicazione, dunque, resta escluso in capo alle società partecipanti, che possono limitarsi a offrire una percentuale di ribasso rispetto al prezziario approvato dalla regione.

È quanto emerge dalla sentenza 28.06.2016 n. 7477, pubblicata dalla II-ter Sez. del TAR Lazio-Roma.
Due componenti. L'impresa tagliata fuori da un lotto importante di opere non riesce a far annullare l'aggiudicazione ai rivali. Gli oneri di sicurezza costituiscono una percentuale del prezzo dell'appalto che è riconducibile alle spese generali. E gli oneri a carico delle imprese hanno una componente gestionale e un'altra operativa: nella prima rientrano ad esempio le spese mediche e la formazione, nella secondo le misure di prevenzione legate a uno specifico appalto, dalle impalcature alle tettoie.
L'accordo quadro, poi, si pone come un contratto normativo che disciplina i successivi interventi di manutenzione negli immobili da affidare di volta in volta. La stazione appaltante, dunque, non può calcolare da prima i costi di sicurezza da rischi di interferenza nel cantiere fra le varie società. Ma anche le imprese non possono prevedere gli esborsi, almeno per la componente operativa.
Stima impossibile, È questa, in effetti, la peculiarità del manutentore unico, un sistema che si fonda sulla stipula di un accordo quadro per un determinato ambito di territorio, il quale consente poi di affidare i futuri interventi sulla base di singoli contratti attuativi; un sistema, spiega la stazione appaltante, che è stato approvato anche dall'Anac-Avcp: un parere dell'autorità conferma che in tali casi non risulta possibile una stima degli oneri di sicurezza.
D'altronde lo stesso capitolato d'appalto «incriminato» non prevede in modo esplicito l'onere di specificare in anticipo gli esborsi per la sicurezza aziendale. Spese di giudizio compensate per la novità e la complessità della questione (articolo ItaliaOggi del 15.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato e pertanto deve essere respinto alla luce delle considerazioni di seguito riportate, cosicché è possibile non esaminare le eccezioni di rito sollevate dalle società controinteressate.
1.1. Preliminarmente il Collegio rileva che l’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 3 del 2015, condividendo sul punto l’ordinanza di rimessione, menziona
due tipologie di costi per la sicurezza:
-
quelli da interferenze, contemplati dagli articoli 26, commi 3, 3-ter e 5, del d.lgs. 09.04.2008, n. 81 (Attuazione dell'articolo 1 della legge 03.08.2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) e 86, comma 3-ter, 87, comma 4, e 131 del Codice dei contratti pubblici, che:
   a)
servono a eliminare i rischi da interferenza, intesa come contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell’appaltatore, oppure tra il personale di imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti;
   b)
sono quantificati a monte dalla stazione appaltante, nel D.U.V.R.I (documento unico per la valutazione dei rischi da interferenze, art. 26 del d.lgs. n. 81 del 2008) e, per gli appalti di lavori, nel P.S.C. (piano di sicurezza e coordinamento, art. 100 D.Lgs. n. 81/2008);
   c)
non sono soggetti a ribasso, perché ontologicamente diversi dalle prestazioni stricto sensu oggetto di affidamento;
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quelli interni o aziendali, cui si riferiscono l’art. 26, comma 3, quinto periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 e gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, secondo periodo, del Codice dei contratti pubblici, che:
   a)
sono quelli propri di ciascuna impresa connessi alla realizzazione dello specifico appalto, sostanzialmente contemplati dal D.V.R., documento di valutazione dei rischi;
   b)
sono soggetti a un duplice obbligo in capo all’amministrazione e all’impresa concorrente.
Gli oneri di sicurezza aziendali costituiscono una percentuale del prezzo dell’appalto, riconducibile alle “spese generali”.
Va dunque rilevato che
i costi interni o aziendali hanno una componente c.d. “gestionale”, comprendente i costi annuali che l’operatore economico sostiene per l’esercizio della sua impresa (spese mediche, formazione, ecc.) e una componente c.d. “operativa”, comprendente tutte le misure di prevenzione per la gestione dei rischi connesse allo specifico appalto (spese di adeguamento del cantiere, spese relative agli impianti, alla gestione dei rifiuti di cantiere, cartellonistica, impalcature, tettoie, utenze, ecc.).
Tale distinzione (tra una componente gestionale e una operativa) è presente anche nel Prezziario della Regione Lazio, rispetto al quale le offerte di cui alla gara in esame sono state formulate e che, come si è detto, ricomprende per ciascuna voce anche la percentuale relativa alle spese generali, comprensiva a sua volta degli oneri di sicurezza aziendali.
Il Prezziario della Regione Lazio prevede infatti la seguente classificazione degli costi relativi alla sicurezza:
- costi della sicurezza connessi alla specificità di ogni singolo cantiere, che derivano dalla stima dei costi e delle misure preventive e protettive finalizzate alla sicurezza e salute dei lavoratori effettuata nel Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC) ai sensi dell'art. 100 del D.Lgs. 81/2008 e secondo le indicazioni dell'allegato XV specifico, in particolare al punto 4. Tali costi sono elencati nel capitolo “S” della presente Tariffa;
- oneri della sicurezza afferenti all'esercizio dell'attività svolta da ciascuna impresa (rischi specifici propri dell'appaltatore), strumentali all'esecuzione in sicurezza delle singole lavorazioni e non riconducibili ai costi stimati previsti al punto 4 dell'allegato XV del D.Lgs. 81/2008 (quali D.P.I., sorveglianza sanitaria, formazione dei lavoratori ecc.) contenuti nella quota percentuale prevista nel regolamento attuativo dei contratti pubblici, ossia quali quota - parte delle spese generali (art. 32 del D.P.R. 207/2010)
.”
La citata pronuncia dell’Ad. Plenaria n. 3 del 2015 ha specificato che
solo per i costi di interferenzala stazione appaltante è tenuta ad effettuare una stima e ad indicarli nei bandi di gara, procedendo ad una loro quantificazione sulla base delle misure individuate nei documenti di progetto (PSC o analisi della Stazione appaltante quando il PSC non sia previsto). Tale stima dovrà essere congrua, analitica, per singole voci, riferita all’apposito capitolo della Tariffa o nel caso di specifiche voci non presenti nella Tariffa o non perfettamente rispondenti in termini prestazionali alle specifiche necessità, si farà riferimento ad elenchi prezzi standard o specializzati o ad analisi desunte da ricerche di mercato (come previsto nell'Allegato XV del D.Lgs. 81/2008).
Questi costi devono essere tenuti distinti dall'importo soggetto a ribasso d'asta in quanto rappresentano la quota da non assoggettare a ribasso, ai sensi dell'art. 131, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006. Non sono inoltre soggetti ad alcuna verifica di congruità essendo stati quantificati e valutati a monte dalla stazione appaltante e, pertanto, congrui per definizione
.”

Sicuramente
i costi aziendali da interferenza possono essere stimati solo in relazione allo specifico appalto cui si riferiscono, mediante la redazione di specifici P.S.C., quando si tratta di appalti di lavori, o nel D.U.V.R.I.
Ed infatti, in base a quanto previsto dall’Allegato XV – Contenuti minimi dei piani di sicurezza nei cantieri temporanei o mobili – punto 4, recante: “stima dei costi della sicurezza”, si prevede che: “4.1.1. Ove é prevista la redazione del PSC ai sensi del Titolo IV, Capo I, del presente decreto, nei costi della sicurezza vanno stimati, per tutta la durata delle lavorazioni previste nel cantiere, i costi:
a) degli apprestamenti previsti nel PSC;
b) delle misure preventive e protettive e dei dispositivi di protezione individuale eventualmente previsti nel PSC per lavorazioni interferenti;
c) degli impianti di terra e di protezione contro le scariche atmosferiche, degli impianti antincendio, degli impianti di evacuazione fumi;
d) dei mezzi e servizi di protezione collettiva;
e) delle procedure contenute nel PSC e previste per specifici motivi di sicurezza;
f) degli eventuali interventi finalizzati alla sicurezza e richiesti per lo sfasamento spaziale o temporale delle lavorazioni interferenti;
g) delle misure di coordinamento relative all’uso comune di apprestamenti, attrezzature, infrastrutture, mezzi e servizi di protezione collettiva.

Lo stesso articolo, al punto 4.3. precisa inoltre che “Le singole voci dei costi della sicurezza vanno calcolate considerando il loro costo di utilizzo per il cantiere interessato che comprende, quando applicabile, la posa in opera ed il successivo smontaggio, l’eventuale manutenzione e l’ammortamento.”
Appare chiaro dunque sia i costi per la sicurezza da interferenza (non soggetti a ribasso) che quelli aziendali, quanto meno per la componente c.d. operativa, possono essere specificamente individuati solo in relazione allo specifico singolo intervento da eseguire.
Correttamente, pertanto, la stazione appaltante ha previsto all’art. A.3. del Capitolato, che “
i costi della sicurezza e quelli della manodopera, non soggetti a ribasso, saranno valutati e computati nel dettaglio per ogni singolo contratto, e comunque già compresi nell’importo massimo già stimato”.
Ad avviso del Collegio, tale articolo del Capitolato si riferisce in primo luogo ai costi di sicurezza da interferenza, in quanto sarà solo con la redazione dei successivi PSC (o altri analoghi strumenti), in relazione agli specifici interventi manutentivi da realizzare, che detti costi potranno essere individuati in concreto.
La necessità che i costi di sicurezza siano identificati successivamente dalla stazione appaltante fa sì che il Disciplinare, al punto B1) sull’offerta economica, preveda che “Ai fini della quantificazione dell’importo dei singoli contratti attuativi, si precisa che il ribasso offerto verrà applicato sul prezziario e sarà determinato al netto degli importi per oneri della sicurezza e per spese relative al costo del personale, entrambi non soggetti al ribasso.”
Tuttavia, la peculiare configurazione dell’Accordo quadro -il quale è strutturato come un contratto normativo volto a regolare successivi e non previamente individuati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, per un importo massimo prefissato per ciascun lotto, rimettendo ad una fase successiva l’individuazione dei singoli interventi da porre in essere in concreto- fa sì che l’offerta debba essere quantificata mediante l’indicazione di un ribasso percentuale, calcolata, come già rilevato sul prezziario della Regione Lazio.
In questo quadro, dunque, deve concludersi che: così come non è possibile per la stazione appaltante determinare ex ante, ovvero prima della individuazione del singolo intervento manutentivo da eseguire, i costi di sicurezza da interferenza così, quanto meno per quanto attiene alla componente c.d. operativa, una tale possibilità deve dirsi oggettivamente esclusa anche per i costi di sicurezza aziendale, non potendosi effettuare alcuna stima precisa di detti costi senza conoscere l’esatta natura dell’appalto da eseguire, ferma restando però l’indicazione, mediante al rinvio delle singole voci del Prezziario, della percentuale di oneri aziendali ricompresa nel novero delle spese generali.
Ed infatti, nessuna norma del Capitolato prevede un tale onere di specificazione a carico dei partecipanti, limitandosi il Disciplinare a chiedere che l’offerta sia formulata in termini di un unico ribasso.
Deve pertanto ritenersi che non sussista, nel caso di specie, un espresso onere di specificazione anticipata degli oneri di sicurezza aziendale dettato dal Capitolato per le imprese concorrenti.
Né può ritenersi tale obbligo integrato ex lege sulla scorta delle pronunce dell’Adunanza Plenaria nn. 3 e 9 del 2015, le quali non si occupano di Accordi quadro ma di specifici appalti di lavori.
Infatti, le stesse Adunanze plenarie nn. 3 e 9 del 2015
espressamente legano l’obbligo di specifica indicazione dei costi di sicurezza aziendali in capo alle aziende partecipanti alla gara alla conoscenza dello specifico appalto da realizzare, in quanto gli oneri aziendali sono definiti appunto come “propri di ciascuna impresa connessi alla realizzazione dello specifico appalto, sostanzialmente contemplati dal D.V.R., documento di valutazione dei rischi. Peraltro, nell’impianto logico delle pronunce dell’Ad. Plenaria sopra citate, l’espressa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali si lega inscindibilmente alla indicazione, da parte della stazione appaltante, dei costi di sicurezza non ribassabili, essendo entrambi da individuare con riferimento alle specificità del singolo appalto e dunque solo nella fase successiva della stipula dei contratti attuativi.
Deve pertanto dedursi che anche secondo il dettato delle pronunce dell’Ad. Plenaria nn. 3 e 9 del 2015,
l’obbligo di specifica indicazione dei costi di sicurezza aziendale sia da circoscriversi alle ipotesi in cui sia possibile individuare uno specifico appalto da realizzare e non si applichi dunque anche ai casi di stipula di Accordi quadro, il cui contenuto è destinato ad essere di volta in volta integrato al momento dell’affidamento del singolo contratto attuativo.
Va poi comunque ribadito che
una indicazione in termini percentuali (sia pure indiretta) dei costi aziendali interni si ha, come detto, in ogni caso, mediante il rinvio alle voci del Prezziario regionale. Infatti il ribasso offerto riguardi anche le voci ricomprese nel Prezziario e riferibili ai costi di sicurezza aziendali, compresi nelle spese generali.
Peraltro,
una anticipata indicazione degli oneri di sicurezza interni al momento della presentazione dell’offerta, da effettuarsi ovviamente in termini assolutamente presuntivi, come sostenuto dalla stessa ricorrente nella memoria difensiva, non sarebbe comunque di utilità a fronte della mancata previsione dei costi da interferenza e del PSC, cosicché comunque non sarebbe possibile valutarne la congruità. Si tratterebbe dunque solo di assolvimento di un obbligo meramente formale, privo di utilità ai fini di una valutazione di congruità e attendibilità dell’offerta.
Viceversa, le pronunce dell’Ad. Plenaria del 2015
sembrano porre l’obbligo di espressa dichiarazione degli oneri di sicurezza aziendale, proprio in vista di una loro valutazione di congruità alla luce dei costi da interferenza.
Si riporta a tal fine il seguente passaggio tratto dalla Ad. Plen. n. 3 del 2015: “
Per ciò che concerne la stazione appaltante, gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del Codice si riferiscono necessariamente agli oneri di sicurezza aziendali, poiché considerano eventuali anomalie delle offerte e giudizi di congruità incompatibili con i costi di sicurezza da interferenze, fissi e non soggetti a ribasso. Ne deriva che per tali oneri la valutazione che si impone all’amministrazione non è la relativa predeterminazione rigida ma il dovere di stimarne l’incidenza, secondo criteri di ragionevolezza e di attendibilità generale, nella determinazione di quantità e valori su cui calcolare l’importo complessivo dell’appalto.”
Naturalmente,
al momento dell’affidamento del singolo intervento di manutenzione, mediante la stipula del contratto attuativo, dovranno essere espressamente indicati sia i costi di sicurezza da interferenza (da parte dell’appaltatore) che gli oneri di sicurezza aziendale, da parte delle imprese aggiudicatarie dell’Accordo quadro, fermo restando che l’importo indicato in quella sede dovrà essere congruo e comunque senza che in questo modo si possa superare l’importo massimo stimato, per ciascun lotto, nel Capitolato.
In sostanza, può dirsi, che data la peculiare natura dell’Accordo quadro sopra illustrata, l’obbligo di espressa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali c.d. interni può essere imposto solo una volta conosciuta l’esatta natura dell’intervento da realizzare, unitamente alla individuazione degli oneri da interferenza (in tal senso, cfr. Tar Campania, I, ord. n. 332/2016; Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, sent. n. 246/2016).
Peraltro,
ciò non significa che tali oneri non siano presi in considerazione dalle imprese nella presentazione della loro offerta, essendo essi compresi in una quota percentuale delle spese generali computata nel prezziario regionale, ma solo che l’esatta individuazione di essi debba essere posticipata al momento dell’affidamento del singolo contatto attuativo.

PATRIMONIO - VARI: Contratto di locazione: o registrato o niente.
Il contratto di locazione, anche se già stipulato e firmato tra le parti, non è valido almeno fino a quando non viene registrato presso l'Agenzia delle entrate, che concede ai contribuenti i classici trenta giorni per validarlo anche, e principalmente, dal lato civilistico.

Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Milano che, con la sentenza 15.06.2016 n. 6782, particolarmente, esclude anche una sua convalida una volta che siano trascorsi i fatidici trenta giorni.
Dunque, ai fini fiscali, secondo la decisione del Tribunale, neppure il ricorso alla procedura del ravvedimento operoso è suscettibile di validare, ai fini civilistici, il contratto di locazione registrato oltre i 30 giorni consentiti dal momento della stipula tra le parti (locatore/conduttore).
Sono, invece, validi i contratti stipulati tra le parti prima dell'entrata in vigore della legge 208/2015 (legge di Stabilità 2016). Occorre, però, che la registrazione sia avvenuta antecedentemente alla «proposizione della domanda giudiziale».
Peraltro, la nuova disciplina, che è in vigore dal 01.01.2016, non rischia censure di natura costituzionale. La questione non è stata, quindi, rimessa alla Consulta, come era stato, invece, richiesto nel caso di specie.
Il legislatore, prima con la legge 80/2014 e poi con la legge 208/2015 che hanno inciso notevolmente sulla disciplina in materia (art. 13, legge 431/1998), ha inteso «scudare» i contratti di locazione facendo emergere le c.d. locazioni in nero.
Il tribunale milanese osserva che il negozio giuridico (contratto di locazione stipulato tra le parti) non è valido fin dall'origine. Per cui neppure può parlarsi di atto valido ed efficace dal momento della sua stipula che poi diverrebbe nullo dopo la scadenza del termine dei trenta giorni se non registrato ai fini fiscali.
Si tratta di una sorte di sanzione (invalidità già dalla stipula che si sana con la registrazione nei 30 giorni) che, precisa il tribunale, il legislatore ha voluto introdurre nel contesto prima giuridico (artt. 1418 e seguenti c.c.) e riflesso in quello fiscale.
Viene così ed essere esclusa la successiva convalida del contratto locativo «abusivo» (art. 1423 c.c.) a causa del tardivo adempimento fiscale (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).

EDILIZIA PRIVATA: l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto la sanzione demolitoria ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dagli artt. 33 e 34, comma 2, DPR n. 380/2001 con riferimento alle ristrutturazioni edilizie abusive o in totale difformità ed agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) deve essere verificato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente deve emanare l’ordine di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dal permesso di costruire.
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Comunque, al riguardo, pur tenendo conto della perizia, redatta il 26.10.2015 dagli ingegneri Fr.Na. e Fr.Ru., va rilevato che secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr. C.d.S. Sez. V Sentenza n. 1650 dell’08.04.2014; TAR Napoli Sez. IV Sentenze n. 5927 del 23.12.2015, n. 3533 del 02.07.2015, n. 3120 del 09.06.2015 e n. 4703 del 26.10.2001; TAR Napoli Sez. VI Sentenze n. 5153 del 05.11.2015 e n. 2184 del 16.04.2015; TAR Napoli Sez. VIII Sentenze n. 1087 del 20.02.2014 e n. 884 del 07.02.2014; TAR Lazio Sez. I-ter Sentenza n. 4454 del 23.03.2015, Sez. I-quater Sentenze n. 12719 del 15.12.2014, n. 9525 del 09.09.2014 e n. 3106 del 04.04.2012; TAR Bologna Sez. I Sentenza n. 1065 del 03.12.2015; TAR Molise Sentenza n. 455 del 04.12.2015; TAR Piemonte Sez. II Sentenza n. 154 del 27.03.2014; TAR Pescara Sentenza n. 28 del 23.01.2013; TAR Toscana Sez. III Sentenza n. 853 del 02.05.2012; TAR Milano Sez. II Sentenza n. 3210 del 16.12.2011; TAR Lecce Sez. III Sentenza n. 1143 del 24.06.2011; TAR Palermo Sez. III Sentenza n. 1073 dell’08.06.2011; TAR Catania Sez. I Sentenza n. 4611 del 03.12.2010; TAR Marche Sentenze n. 835 del 16.07.2008 e n. 259 del 29.04.2002), condiviso anche da questo Tribunale (cfr. TAR Basilicata Sentenze n. 173 del 03.03.2016, n. 329 del 06.06.20013, n. 538 del 04.12.2012, n. 159 del 06.04.2011, n. 36 del 04.02.2010, n. 921 del 29.11.2008, n. 713 del 07.12.2007, n. 266 del 04.10.2007 e n. 779 del 14.09.2005), l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto la sanzione demolitoria ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dagli artt. 33 e 34, comma 2, DPR n. 380/2001 con riferimento alle ristrutturazioni edilizie abusive o in totale difformità ed agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) deve essere verificato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente deve emanare l’ordine di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dal permesso di costruire (TAR Basilicata, sentenza 01.06.2016 n. 586 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: In materia di appalto di opere pubbliche sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e), n. 1), c.p.a., le sole controversie relative alle procedure di affidamento dei lavori -procedure che si concludono appunto con l'aggiudicazione- mentre per le controversie che traggono origine dall'esecuzione del contratto non v'è alcuna deroga alla giurisdizione del giudice ordinario, riprendendo vigore il criterio generale di riparto basato sulla consistenza della posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, la quale, con riferimento ai rimborsi conseguenti alla consegna (id est esecuzione) anticipata dei lavori, è indubbiamente di diritto soggettivo, come del resto espressamente previsto dall'art. 11, comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006, cit. (ora art. 32, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50).
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CONSIDERATO
- che il Consorzio Tr.Ro. s.c. a r.l. ottenne, il 09.02.2007, dal Comune di Vico Equense l'aggiudicazione dell'appalto dei lavori di sistemazione di una zona del centro storico interessata da un crollo, cui segui la consegna dei lavori in via di urgenza;
- che, a seguito della revoca dell'aggiudicazione in sede di autotutela da parte del Comune, il Consorzio convenne quest'ultimo davanti al Tribunale di Torre Annunziata, Sezione distaccata di Sorrento, chiedendo il pagamento di € 157.427,11 per le opere eseguite, i materiali utilizzati e le spese sostenute per effetto della consegna dei lavori in via di urgenza, ai sensi dell'art. 11, comma 9, d.lgs. 12.04.2006, n. 163;
- che con sentenza 03.12.2012, n. 342 il Tribunale dichiarò il proprio difetto di giurisdizione in favore dei giudice amministrativo;
- che il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, adito in riassunzione dal Consorzio, ha sollevato conflitto negativo di giurisdizione ritenendo che la controversia rientri invece nella giurisdizione del giudice ordinario, poiché in materia di appalti pubblici la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo riguarda, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a., le sole controversie relative alle procedure di determinazione del contraente privato, mentre nella specie si fa questione del diritto soggettivo ai compensi di cui al richiamato art. 11, comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006;
- che il solo Consorzio Tr.Ro. ha presentato memoria;
- che il Procuratore Generale ha concluso, ai sensi dell'ad. 380-ter c.p.c., per la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario;
- che la tesi dei Tribunale Amministrativo rimettente è fondata;
- che, infatti, in materia di appalto di opere pubbliche sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e), n. 1), c.p.a., le sole controversie relative alle procedure di affidamento dei lavori -procedure che si concludono appunto con l'aggiudicazione- mentre per le controversie che traggono origine dall'esecuzione del contratto non v'è alcuna deroga alla giurisdizione del giudice ordinario (Cass. Sez. Un. 9391/2005), riprendendo vigore il criterio generale di riparto basato sulla consistenza della posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, la quale, con riferimento ai rimborsi conseguenti alla consegna (id est esecuzione) anticipata dei lavori, è indubbiamente di diritto soggettivo, come del resto espressamente previsto dall'art. 11, comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006, cit. (ora art. 32, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50);
- che va pertanto dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario e cassata la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata, Sezione distaccata di Sorrento (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 31.05.2016 n. 11368).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIL’appaltatore è responsabile solo per difetti gravi. Tribunale Firenze. Acquisto di immobili.
Nessuna responsabilità dell’appaltatore verso il committente per i difetti dell’immobile non così gravi da compromettere in modo apprezzabile il godimento del bene, la cui piena abitabilità non può dirsi esclusa.
Lo puntualizza il TRIBUNALE di Firenze, Sez. III civile, con sentenza 16.05.2016 n. 1879 (giudice Maione Mannamo).
A muovere il caso, è una donna che decide di chiamare in giudizio una Srl per chiederne la condanna, quale società venditrice/costruttrice, al risarcimento dei danni derivanti dai gravi difetti dell’immobile acquistato. Secondo la signora, l’appartamento presentava, fin dalla presa in possesso, diverse anomalie e vizi di costruzione: montaggio del bagno difforme al modello, installazione della caldaia tale da non consentirne il collaudo e infiltrazioni d’acqua dalle finestre.
Ma la società respinge ogni addebito. I difetti contestati, afferma, sono inesistenti. Ad ogni modo, i lavori di ristrutturazione erano stati eseguiti, dietro contratto di appalto, da un’altra ditta. Di qui, la richiesta della srl di essere autorizzata a chiamare in causa –per errata esecuzione degli interventi– l’appaltatrice e il direttore dei lavori.
Il Tribunale, esaminati i carteggi, concorda e rigetta la domanda dell’attrice. Non sussiste –spiega il giudice– l’asserita responsabilità del venditore/costruttore in base all’articolo 1669 del Codice civile, vista «la marginalità dei pochi vizi e difformità riscontrati». Secondo il perito d’ufficio, in effetti, l’unità immobiliare era conforme ai parametri di legge: i singoli vizi riscontrati dal consulente tecnico erano di «modesto rilievo».
Da escludersi, dunque, quei «gravi difetti che, ai sensi dell’articolo 1669 del Codice civile, fanno sorgere la responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente e dei suoi aventi causa», intesi dai giudici di legittimità (tra le altre pronunce, la sentenza della Cassazione n. 19868/2009) come «alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura».
Del resto, nella vicenda concreta –prosegue il Tribunale– nessuno dei difetti era idoneo a compromettere in modo apprezzabile il godimento del bene, essendo vizi che poco incidevano sulla fruibilità dell’immobile, la cui piena abitabilità non poteva dirsi esclusa dai difetti riscontrati. Manca, in sintesi, il riscontro di anomalie tanto serie da privare «il bene della sua funzione economica e pratica», risultando l’immobile «pienamente abitabile anche in presenza dei citati vizi realizzativi».
Peraltro, si legge in sentenza, il fatto che il venditore fosse anche il costruttore del bene venduto non valeva ad attribuirgli le veste di appaltatore nei confronti dell’acquirente, così come non valeva ad attribuire a quest’ultimo la qualità di committente. L’acquirente, perciò, non avrebbe potuto agire per l’adempimento del contratto d’appalto e l’eliminazione dei difetti dell’opera, trattandosi di domanda spettante –a differenza di quella extracontrattuale prevista dall’articolo 1669 del Codice civile, operante sia a carico dell’appaltatore nei confronti del committente che a carico del costruttore nei confronti dell’acquirente– solo al committente del contratto d’appalto
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAL’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
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L’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 rimette all’esclusiva iniziativa della parte interessata l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato, e ciò anche al fine di non ingenerare equivoci sul valore e sulla finalità delle istanze proposte.

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7. Il Collegio ritiene di richiamare sin d’ora il principio giurisprudenziale recepito secondo il quale “l’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare” (Cons. Stato, V, 11.06.2013, n. 3235).
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11. Con il terzo motivo l’appellante sostiene che, alla luce dell’art. 37, comma 4, del T.U. sull’edilizia, la domanda avente ad oggetto integrazione e variante in corso d’opera prot. 6034 del 03.03.2009, doveva esplicare i medesimi effetti di una domanda di sanatoria.
Anche tale motivo non può trovare accoglimento in quanto, così come evidenziato dal giudice di primo grado, l’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 rimette all’esclusiva iniziativa della parte interessata l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato, e ciò anche al fine di non ingenerare equivoci sul valore e sulla finalità delle istanze proposte (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1948 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: La competenza all’emanazione di sanzioni demolitorie si reputa appartenente al Sindaco fino al 1998, essendo stata trasferita ai dirigenti e comunque all’apparato amministrativo degli enti locali ai sensi dell’art. 2, comma 12, L. 16.06.1998 n. 191.
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9. Con il primo motivo l’appellante sostiene che, in mancanza di una normativa regolamentare di attuazione della disciplina legislativa, negli enti locali la competenza ad adottare provvedimenti sanzionatori spetterebbe ancora al sindaco e non al competente dirigente.
Il motivo è infondato.
In ordine a tale censura il Collegio non può che confermare quanto deciso dal giudice di primo grado per il quale la competenza all’emanazione di sanzioni demolitorie si reputa appartenente al Sindaco fino al 1998, essendo stata trasferita ai dirigenti e comunque all’apparato amministrativo degli enti locali ai sensi dell’art. 2, comma 12, L. 16.06.1998 n. 191.
L’ordinanza impugnata, essendo stata emanata nell’anno 2009, ricade pienamente nella nuova disciplina del riparto di competenze, che ha sancito l’attribuzione all’apparato amministrativo degli enti locali ed in particolare alle figure dirigenziali, tra gli altri, anche dei compiti sanzionatori in materia edilizia.
Va sottolineato che l’appellante si è limitato a riproporre la censura di primo grado senza confutare quanto deciso nella sentenza appellata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1948 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn relazione al condono edilizio, la disciplina rilevante è contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge 28.02.1985, n. 47.
In particolare, l’art. 32 della predetta legge dispone che «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo», quale è quello in esame, «è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».
Invero, il predetto parere ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge n. 1497 del 1939, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario.

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... per la riforma della sentenza 13.06.2012, n. 2286, del TAR Campania, Sezione staccata di Salerno, Sez. II.
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6.– L’appello è fondato.
7.– In via preliminare è necessario ricostruire il quadro normativo rilevante.
In relazione alla disciplina dell’autorizzazione paesaggistica, la legge 29.06.1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali) prevedeva che i proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, di immobili vincolati, ai sensi delle previsioni contenute nella stessa legge, avrebbero dovuto ottenere una apposita autorizzazione dalle autorità competenti per i lavori che intendessero eseguire.
L’art. 16 del regio decreto 03.06.1940, n. 1357 (Regolamento per l’applicazione della legge 29.06.1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali) disponeva che la predetta autorizzazione «vale per un periodo di cinque anni, trascorso il quale, l’esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione». Il potere di annullamento ministeriale era in origine disciplinato dall’art. 82 d.p.r. 24.07.1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22.07.1975, n. 382).
Il decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 08.10.1997, n. 352), ha abrogato la legge n. 1497 del 1939, ribadendo, all’art. 151, la necessità, in presenza di immobili vincolati, del rilascio dell’autorizzazione ad effettuare lavori, con potere ministeriale di annullare la predetta autorizzazione. L’art. 161 dello stesso decreto ha previsto che «restano in vigore, in quanto applicabili, le disposizioni del regolamento approvato con regio decreto 03.06.1940, n. 1357» e, pertanto, per quanto interessa in questa sede, anche l’art. 16 che dispone la durata quinquennale dell’autorizzazione.
L’intera materia è oggi regolata dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137). L’art. 159, applicabile ratione temporis, ha introdotto un regime transitorio operante sino al 31.12.2009, stabilendo che:
i) l’autorizzazione paesaggistica è rilasciata dall’amministrazione competente locale entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla relativa richiesta (comma 2);
ii) la predetta amministrazione «dà immediata comunicazione alla Soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall’interessato, nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti» (comma 2);
iii) la Soprintendenza, se ritiene l’autorizzazione non conforme alla normativa sulla tutela del paesaggio, «può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa, documentazione» (comma 3).
In relazione al condono edilizio, la disciplina rilevante è contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali). In particolare, l’art. 32 della predetta legge dispone che «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo», quale è quello in esame, «è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».
La giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che il predetto parere ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge n. 1497 del 1939, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario (Cons. Stato, VI, 15.03.2007, n. 1255; tale equiparazione opera anche per le autorizzazioni paesaggistiche disciplinate dagli artt. 151 e 159 del d.lgs. n. 490 del 1999 e per il parere previsto dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel ritenere che la «mera sistemazione interna degli spazi» non determinata aumento di superficie o volumi.
... per la riforma della sentenza 07.06.2012, n. 2712, del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, Sezione VII.
...
7.– Con un secondo motivo l’appellante deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittimo l’atto della Soprintendenza n. 28516 del 2011, nel quale si afferma che non è possibile rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria perché l’intervento avrebbe comportato un aumento di superficie e di volume. L’appellante ha dedotto che non vi sarebbe stata alcuna modifica esteriore rilevante sul piano paesaggistico.
Il motivo è fondato.
L’art. 146, quarto comma, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137) ha disposto che «fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi».
Il richiamato articolo 167 ha stabilito che tale divieto non opera nei casi in cui: a) i lavori eseguiti non hanno determinato la «creazione di superficie utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati»; b) sono stati impiegati «materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica»; c) gli interventi eseguiti sono qualificabili quali «interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria».
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel ritenere che la «mera sistemazione interna degli spazi» non determinata aumento di superficie o volumi (Cons. Stato, sez. VI, 31.07.2014, n. 4052).
Nella fattispecie in esame, dagli atti del processo nonché dalla perizia di parte dell’appellante e dalla relazione tecnica redatta da un consulente tecnico d’ufficio nominato, in un giudizio civile (n. 18385 del 2010, nominato dal Giudice unico del Tribunale di Torre Annunziata), avente ad oggetto lo stesso immobile consulenza tecnica d’ufficio, risulta che non vi è stata una rilevante modificazione della parte esterna del manufatto, con la conseguenza che lo stesso è suscettibile di sanatoria anche sul piano paesaggistico (Consiglio di Stato Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1940 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIMeno tempo per riavere la patente.
Dopo la revoca per guida in stato d'ebbrezza il condannato può ottenere una nuova patente a tre anni dall'accertamento del reato che ha commesso e non dal passaggio in giudicato della sentenza che lo sanziona. Sbaglia la Motorizzazione civile ad ancorare la decorrenza del termine al passaggio in giudicato della pronuncia di condanna a carico dell'automobilista: un'interpretazione del genere crea disparità fra gli imputati perché fa dipendere la durata della sanzione dai tempi della giustizia, che sono diversi a seconda della causa. I tre anni di stop, invece, sono uguali per tutti se la revoca scatta dalla data in cui è contestata al conducente la violazione da parte dell'organo accertatore, ad esempio la polizia stradale.

È quanto emerge dalla sentenza 15.04.2016 n. 393, pubblicata dalla III Sez. del TAR Veneto.
Accolto il ricorso dell'automobilista che ha causato anche un incidente stradale dopo essersi messo al volante ubriaco. Il sinistro risale al 29.06.2012 e la patente è sospesa in via immediata.
Il decreto di condanna arriva il 20.02.2014, passando in giudicato il primo ottobre 2015. E sarebbe da quest'ultima data che secondo la Motorizzazione deve partire il termine triennale. Ma l'interpretazione dell'amministrazione non è coerente con la lettera né con la ratio della norma di cui all'articolo 219-ter Cds. E soprattutto non risulta conforme alla Costituzione perché la sanzione sarebbe soggetta a elementi variabili e diversi per ciascun reato, in funzione della maggiore o minore durate dei procedimenti penali. Sul punto si è pronunciato pure l'ufficio del massimario della Cassazione. Per l'automobilista, nella specie, i tre anni della revoca sono passati da un pezzo.
Nessun dubbio, infine, per la sussistenza della giurisdizione amministrativa: l'uso della patente deve essere considerato un interesse legittimo e non un diritto soggettivo.
E ciò perché c'è un interesse pubblico alla sicurezza delle strade e l'amministrazione ha discrezionalità nei controlli sulla licenza di guida. Le spese di giudizio sono compensate per il contrasto di giurisprudenza esistente, ma il ministero dei trasporti paga il contributo unificato aggiuntivo (articolo ItaliaOggi del 14.09.2016).

EDILIZIA PRIVATAAutotutela in termini blindati. Non si sgarra sui 18 mesi per l'annullamento dell'atto. Per il Tar Puglia il comune non può far finta che la riforma Madia non esista.
Il comune non può far finta che non sia stata mai approvata la legge Madia, con la sua profonda riforma della pubblica amministrazione. Il termine di diciotto mesi previsto dalla legge 124/2015 per l'annullamento in autotutela dell'atto deve ritenersi perentorio e all'ente locale non basta comunicare entro un anno e mezzo il solo avvio del provvedimento per ritenersi in regola: diversamente si approderebbe a «un'interpretazione sostanzialmente abrogativa» della novella.

È quanto emerge dalla sentenza 17.03.2016 n. 351, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Natura perentoria. Materia del contendere sono le modifiche all'articolo 21-nonies della legge 241/1990. Accolto il ricorso della società immobiliare dopo la rimozione in autotutela del permesso di costruire che le era stato rilasciato dal comune.
Al momento in cui è adottato l'atto di secondo grado era già in vigore la legge Madia, divenuta operativa il 28.08.2015, e dunque alla fattispecie devono essere applicate le modifiche apportate dalla riforma al procedimento amministrativo. Il permesso rettificato risale al 14.04.2014, mentre il provvedimento di annullamento arriva soltanto il 19.11.2015, dunque oltre i 18 mesi indicati dalla legge 124/2015.
Inutile per il comune sostenere che il termine sarebbe stato rispettato con l'adozione di una nota emessa il 01.10.2015 perché si tratta della comunicazione di avvio dell'autotutela: il tenore letterale della norma è chiaro, è il provvedimento di annullamento che deve arrivare entro un anno e mezzo, altrimenti il termine risulterebbe non perentorio, contro le intenzioni del legislatore.
Il Tar Puglia fa riferimento alla sua stessa giurisprudenza sulla modifica da parte della legge Madia sulla normativa che disciplina il procedimento degli enti ricordando che il legislatore ha voluto dare certezza e stabilità ai rapporti che hanno titolo in atti amministrativi, individuando nel termine massimo di 18 mesi il limite per l'annullamento d'ufficio, il quale sarebbe senz'altro illegittimo se sopravvenuto dopo il decorso del termine.
Il fatto che la legge Madia non abbia sostituito le parole «termine ragionevole» con le parole «comunque non superiore a 18 mesi», che invece si aggiungono, induce a ritenere che si tratta di un'operazione meramente interpretativa con la quale si è inteso specificare che il termine ragionevole non può superare i 18 mesi, dovendosi invece riconoscere portata innovativa agli interventi di modifica che sostituiscono una disposizione o parte di essa e producono una norma diversa dalla precedente.
Il comune paga le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 03.09.2016).

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