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AGGIORNAMENTO AL 31.10.2016 |
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CHAPEAU!! |
PUBBLICO IMPIEGO: "Nove
anni di mobbing per le mie segnalazioni".
Una strada di 423 metri diventò magicamente di 1,7
chilometri. Non potevo restarmene zitto.
«Alla fine, dopo aver girato per
mezza Italia, l'Inail mi ha riconosciuto la malattia
professionale per mobbing».
L'ingegnere civile Vito Sabato sa bene qual è il
prezzo da pagare per chi denuncia le corruttele.
«Inizia tutto nel 2006 -racconta- quando feci una
prima segnalazione al Comune di Pavia perché
venivano truccate le gare dei lavori stradali:
pagavamo fino a tre volte lo stesso committente. In
un altro caso abbiamo sborsato soldi senza che fosse
eseguita la prestazione». Degli illeciti
continui, ai limiti dell'immaginazione.
«Una strada di 423 metri diventò magicamente di
un chilometro e sette». E poi, come se non
bastasse, nuove segnalazioni sulle irregolarità
nelle modalità di assunzione dei dirigenti comunali.
Con concorsi banditi e poi revocati «per
favoritismi clientelari».
L'ingegnere Sabato ha denunciato, salvo pagarne il
conto in termine di carriera e salute. «Siamo al
paradosso: mi hanno messo in un settore che non è il
mio. E mi sono ritrovato a fare fax e poco altro»,
racconta Sabato. Una situazione paradossale: «Pensi
che il Comune è arrivato a chiedere a me, che sono
ancora un suo dipendente, una consulenza su un
parcheggio sotterraneo».
L'anno scorso Sabato ha anche ricevuto un simbolico
premio produzione, poco meno di 200 euro: lui ha
pubblicato copia del bonifico su Facebook e l'ha
restituito. Perché sostiene di essere stato messo da
parte dal 2007, ormai nove anni fa.
«Cosa vuole che le dica? Io ci ho solo rimesso,
anche di salute. Ho subito delle violenze
psicologiche aggravate e continuate che hanno
influito sulla mia vita privata», racconta il
58enne. «Adesso ho la malattia professionale, ma
se tornassi indietro lo rifarei. Non è cambiato
nulla ma non potevo scendere a compromessi con la
mia coscienza. Forse -conclude Sabato- se la gente
si comportasse così in Italia avremmo un po' meno
corruzione» (articolo
La Stampa del 12.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
Basterebbe un solo dipendente così
"coraggioso"
(che, di questi tempi, significa semplicemente
essere "onesto" con sé stesso prima che con
gli altri) in ogni ente pubblico perché l'Italia sia
concretamente un Paese migliore.
Auguriamo, sentitamente, una buona vita al Collega ...
e non dimentichi che
"il tempo è galantuomo".
31.10.2016 - LA SEGRETERIA PTPL |
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IN EVIDENZA |
REGIONE LOMBARDIA:
ennesima
censura della Consulta circa la L.R. 11.03.2005 n. 12!! |
In principio il TAR
Lombardia-Milano così statuì: |
EDILIZIA PRIVATA: In
base all’art. 136 della Costituzione “quando la Corte
dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di
legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione
della decisione”.
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L’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità ha
effetti erga omnes e retroattivi che si dispiegano su tutti
i rapporti giuridici, salvo il limite invalicabile del
giudicato, e salvo altresì il limite derivante da situazioni
giuridiche comunque divenute irrevocabili: la dichiarazione
di illegittimità colpisce dunque la norma fin dalla sua
origine, eliminandola dall'ordinamento, ricalcandosi così un
fenomeno analogo a quello che si verifica in caso di
annullamento degli atti giuridici.
In applicazione dell’art. 136 della Costituzione,
la
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle
disposizioni di cui all’art. 27, primo comma, lett. d) della
l.r. 11.03.2005 n. 12 ed all’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7, pronunciata con sentenza n. 309/2011,
dovrebbe dunque valere anche per il passato.
---------------
Con l’art. 17, comma primo, della l.r. n.
7/2012, il legislatore lombardo ha dettato una disposizione
che appare in contrasto con gli illustrati principi,
stabilendo che “In relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte
Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, (…) i permessi di
costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…) devono
considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della
dichiarazione di fine lavori …”; e stabilendo quindi, nella
sostanza, che, in base a questa norma, la dichiarazione di
incostituzionalità non rileva per i titoli edilizi
rilasciati in epoca anteriore alla pubblicazione della
suindicata sentenza.
Con la disposizione in esame, si è dunque prevista
un’ipostesi di sanatoria legislativa diretta ad emendare i
titoli rilasciati prima della pubblicazione della sentenza
n. 309/2011 dal vizio derivante dell’essere tali atti
applicativi di disposizioni dichiarate incostituzionali.
Sembra pertanto sussistere il contrasto con i citati
artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale
09.02.1948 n. 1.
Si deve invero osservare che la Regione, con la
succitata disposizione, ha compresso il potere di autotutela
riservato alle autorità comunali, impedendo loro di
intervenire sui titoli edilizi già rilasciati per rendere
conforme l’attività di trasformazione del territorio alle
disposizioni normative vigenti nell’ordinamento.
Tale compressione si pone in antitesi con i principi di
legalità buon andamento della pubblica amministrazione
sanciti dalla suddetta norma costituzionale,
in
quanto sacrifica in maniera aprioristica i suddetti valori
senza richiedere una preventiva concreta comparazione degli
interessi coinvolti nel procedimento di autotutela;
comparazione invece normalmente richiesta per giustificare
il mantenimento in essere di provvedimenti non conformi a
legge.
Esempio emblematico di questo ultroneo sacrifico
potrebbe essere dato proprio dal caso in esame, nel quale
l’autorità amministrativa ha ritenuto di non potere
esercitare il proprio potere di autotutela nonostante la
fase esecutiva dell’attività edilizia assentita fosse ferma
alla fase iniziale e, dunque, non ancora cristallizzato in
capo al privato quell’affidamento che, in astratto,
giustifica il mantenimento in essere di un titolo
illegittimo.
In conclusione, ritiene questo Giudice rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n.
7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della
Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948
n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo, e
97 della stessa Costituzione.”.
---------------
...
per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune di Paderno Dugnano, Settore
Pianificazione del Territorio, prot. 25093 del 15.05.2012 a mezzo del quale è stata confermata “la validità del
permesso di costruire n. 11/10, proprietario sig. Fl.As., alla luce di quanto previsto dalla l.r. n. 7/2012,
art. 17, comma 1”;
- di ogni altro atto preordinato,
presupposto, consequenziale e/o comunque connesso, ivi
compreso il suddetto permesso di costruire n. 11/10
rilasciato al sig. Fl.As..
...
FATTO e DIRITTO
I – In ordine alla vicenda di cui in epigrafe giova, per
ogni profilo, riportare integralmente l’intero contenuto
della ordinanza di questa Sezione II (ordinanza
20.06.2013 n. 1588
– R.O.C.C. 260), con cui, al tempo, venne rimessa alla Corte
Costituzionale la questione di costituzionalità (o meno)
relativa al 1° c. dell’art. 17 della l.r. della Lombardia n.
7 del 18.04.2012:
“1. La sig.ra Ro.Ce., odierna ricorrente, è
proprietaria di un immobile situato sul territorio del
Comune di Paderno Dugnano.
2. L’immobile confina con un’area di proprietà del sig.
Fl.As. il quale, in data 09.11.2010, ha
ottenuto dal predetto Comune il rilascio di un permesso di
costruire per procedere alla ristrutturazione di un edificio
ivi insistente.
3. La ricorrente, in data 07.03.2012, ha rivolto
all’Amministrazione istanza di autotutela riguardante il
suddetto titolo edilizio.
4. Il Comune di Paderno Dugnano, con atto del 15.05.2012, ha respinto l’istanza confermando la validità del
permesso di costruire rilasciato.
5. Avverso tale atto ed avverso il citato permesso di
costruire è diretto il ricorso in esame.
6. Si sono costituiti in giudizio, per resistere al gravame,
il Comune di Paderno Dugnano ed il controinteressato, sig.
Fl.As..
7. La Sezione, con ordinanza n. 1188 del 24.08.2012, ha
accolto l’istanza cautelare.
8. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le
parti costituite hanno depositato memorie, insistendo nelle
loro conclusioni.
9. Tenutasi la pubblica udienza in data 03.04.2013, la
causa è stata trattenuta in decisione.
10. Come anticipato, con il ricorso in esame, viene
impugnato il provvedimento con il quale il Comune di Paderno
Dugnano ha respinto l’istanza di annullamento in autotutela
di un permesso di costruire rilasciato per la realizzazione
di un intervento di ristrutturazione di un edificio ubicato
su di un’area attigua a quella di proprietà della
ricorrente. Viene altresì impugnato il permesso di
costruire, a suo tempo rilasciato al controinteressato.
11. L’intervento oggetto del titolo edilizio avrebbe
consentito la demolizione e la ricostruzione dell’edificio
con sagoma diversa rispetto a quella originaria.
12. Secondo la parte ricorrente l’illegittimità del titolo
edilizio dipenderebbe proprio da quest’ultimo elemento, non
essendo ammissibili, a suo dire, interventi classificati
come ristrutturazione che comportino la demolizione e la
ricostruzione di manufatti senza il rispetto della sagoma
originaria.
13. Nell’istanza di autotutela, peraltro, l’interessata ha
invocato la sentenza della Corte Costituzionale 21.11.2011 n. 309, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale delle disposizioni contenute nell’art. 27,
comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della
Regione Lombardia n. 12/2005, come interpretato dall’art. 22
della legge della Regione Lombardia n. 7/ 2010, il quale
definisce ristrutturazione edilizia gli interventi di
demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma.
In particolare, tali disposizioni sono state ritenute dalla
Corte in contrasto con il principio fondamentale stabilito
dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, il
quale esclude che possa parlarsi di ristrutturazione nel
caso in cui la ricostruzione dell’immobile sia effettuata
senza il vincolo di sagoma, con conseguente violazione
dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
14. Con il provvedimento di rigetto dell’istanza,
l’Amministrazione intimata ha rilevato che, nonostante
l’intervento della Corte Costituzionale, l’annullamento del
permesso di costruire a suo tempo rilasciato al
controinteressato non poteva essere disposto; e ciò in
ragione del sopravvenuto art. 17, primo comma, della l.r. n.
7/2012, in forza del quale i titoli edilizi riguardanti gli
interventi oggetto della suindicata pronuncia, rilasciati
prima del 30.11.2011 e per i quali sia stata
protocollata comunicazione di inizio lavori prima del 30.04.2012, debbono ritenersi comunque validi.
15. L’interessata, nel proprio ricorso, sostiene che la
norma regionale da ultimo citata sia, e debba essere
dichiarata, incostituzionale per contrasto con l’art. 136
Cost. e per contrasto con il principio di retroattività
delle sentenze emanate dalla Corte Costituzionale.
16. Prima di affrontare i profili di costituzionalità, dai
quali dipende, per come sarà spiegato, l’esito del giudizio,
è tuttavia necessario ricostruire il quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento.
17. In base alla definizione data dall’art. 27, primo comma,
lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12, sono ricompresi fra
gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quegli
interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione
parziale o totale dell’edificio nel rispetto della
volumetria preesistente.
18. La norma, a differenza dell’art. 3, primo comma, lett.
d), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, non richiede
espressamente che la ricostruzione debba avvenire nel
rispetto della sagoma originaria.
19. La giurisprudenza di questo Tribunale aveva proposto
(cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 16.01.2009 n. 153)
una interpretazione armonizzatrice delle due disposizioni,
stabilendo che anche per la normativa regionale il rispetto
della sagoma fosse requisito imprescindibile ai fini della
definizione di ristrutturazione edilizia; e che la mancata
esplicita previsione in tal senso da parte della
legislazione regionale dovesse considerarsi lacuna colmabile
attraverso l’applicazione della norma statale.
20. Questa giurisprudenza è stata però sconfessata dall’art.
22 della l.r. 05.02.2010 n. 7 (recante “Interpretazione
autentica dell’articolo 27, comma 1, lett. d), della legge
regionale 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del
territorio»), il quale ha espressamente previsto che, per la
legislazione lombarda, ai fini della definizione di
ristrutturazione edilizia, la ricostruzione dell’edificio è
da intendersi senza vincolo di sagoma.
21. Come già anticipato, queste disposizioni sono state
censurate dalla Corte Costituzionale, la quale, partendo dal
presupposto che l’edilizia costituisce materia di
legislazione concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3,
Cost., con sentenza 21-23.11.2011, n. 309, ha
affermato che le disposizioni recate dalla normativa statale
in materia di definizione e classificazione degli interventi
edilizi costituiscono norme di principio; e che quindi la
legislazione regionale non può discostarsi da esse senza
scontare il contrasto con la predetta norma costituzionale.
22. Applicando le statuizioni contenute nella sentenza della
Corte Costituzionale il ricorso potrebbe essere, quindi,
accolto, giacché con esso l’interessata lamenta proprio che
il Comune, in applicazione della normativa regionale
dichiarata incostituzionale, abbia assentito un intervento
di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e
ricostruzione di un edificio senza il rispetto della sagoma
originaria.
23. Nel suddetto quadro legislativo si è tuttavia inserito
l’art. 17, comma 1, della l.r. 18.04.2012 n. 7, in base
al quale “In relazione agli interventi di ristrutturazione
edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale
del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il
legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi
di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…)
devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al
momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che
la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro
il 30.04.2012”.
24. Questa norma, come si vede, dichiara testualmente
“validi ed efficaci” i titoli edilizi riguardanti gli
interventi oggetto della succitata sentenza n. 309/2011, e
cioè gli interventi di ristrutturazione consistenti nella
demolizione e ricostruzione senza vincolo di sagoma, a
condizione: 1) che il titolo sia stato rilasciato prima del
30.11.2011; 2) che la comunicazione di inizio lavori
sia stata protocollata prima del 30.04.2012.
25. Il Collegio si è interrogato, innanzitutto,
sull’interpretazione da dare alla norma, per stabilire se di
essa si potesse dare una lettura costituzionalmente
orientata, tale da escludere la rilevanza della sollevata
questione ed evitare un rinvio il cui esito appariva
altrimenti scontato.
26. Si sarebbe potuto, infatti, ritenere che, con tale
disposizione, il legislatore lombardo avesse semplicemente
inteso affermare la persistente efficacia, sino a rimozione
giurisdizionale o amministrativa, dei titoli rilasciati; e
ciò nonostante l’intervento della Corte Costituzionale sulle
norme cui essi danno applicazione.
27. Letta così la norma non avrebbe affermato nulla di più
di quanto la dottrina pacificamente sostiene in ordine agli
effetti delle sentenze della Corte, che nonostante l’effetto
retroattivo delle sue pronunce non travolge né i rapporti
conclusi e le situazioni ormai consolidate né, ex se, i
provvedimenti adottati dall’amministrazione in base alla
norma dichiarata incostituzionale. L’effetto delle sentenze
della Corte che rimuovono le norme incostituzionali implica
infatti che, in tutte le situazioni in cui i provvedimenti
emessi (legittimamente) prima della caducazione della norma
sottostante continuino a produrre effetti (non inerendo a un
rapporto concluso), l’amministrazione ha il dovere di
intervenire in autotutela e di rimuoverli, poiché il
principio di affidamento, che pure è un valore
costituzionalmente garantito, cessa di essere tale nello
stesso momento in cui esso non poggia più su atti legittimi.
28. Se alla norma in questione si fosse data questo
significato, per vero assai riduttivo, sterilizzandola da
ogni volontà di intervenire per sanare tutti gli abusi
commessi prima e dopo la pronuncia della Corte, la
conclusione avrebbe potuto essere nel senso che, avendo
l’amministrazione intimata richiamato tale norma indicandola
espressamente come l’ostacolo all’esercizio del potere di
autotutela, il Collegio avrebbe definito il giudizio
annullando il provvedimento impugnato per il vizio (ove
dedotto) di violazione e/o erronea applicazione di detta
norma.
29. Questo esito non è invece possibile, con tutto quanto ne
consegue ai fini della rilevanza della questione di
costituzionalità che si verrà esponendo, perché
l’interpretazione costituzionalmente aderente in precedenza
profilata si scontra, a giudizio del Tribunale,, con due
argomenti ineludibili quanto dirimenti.
30. Il primo è di carattere letterale: come visto, l’art. 17
cit. non si limita a predicare l’efficacia dei titoli
rilasciati ma anche la loro validità (la norma afferma
testualmente che i permessi di costruire debbono intendersi
“validi ed efficaci”) sottendendo quindi che essi sono
intangibili per l’amministrazione che intendesse intervenire
in autotutela..
31. Il secondo argomento si basa su criteri logici di
interpretazione, ed in particolare sul principio secondo il
quale occorre dare alla legge, se possibile, un significato
utile. In proposito si osserva che, ove la previsione, come
già sopra rilevato, si limitasse a rimarcare la persistente
efficacia dei titoli rilasciati, la stessa dovrebbe
considerarsi del tutto inutile posto che, già per costante
insegnamento giurisprudenziale, la dichiarazione di
incostituzionalità di una legge non travolge automaticamente
il provvedimento che ne dà applicazione (cfr. Consiglio di
Stato, ad plen., 08.04.1983 n. 8).
32. Va peraltro osservato che questa interpretazione
limitativa non è stata minimamente seguita
dall’Amministrazione intimata, la quale ha ritenuto che
l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, lungi dal
limitarsi a confermare l’efficacia del titolo in concreto
rilasciato, avesse effetto paralizzante sull’esercizio dei
propri poteri di autotutela e per questa sola ragione ha
respinto l’istanza della ricorrente.
33. Occorre quindi, perché altro non resta, esaminare la
seconda opzione ermeneutica.
34. Orbene, se per dare un diverso senso alla norma, si deve
ritenere, come ha fatto il Comune di Paderno Dugnano, che la
stessa sia volta ad evitare l’annullamento dei titoli ormai
rilasciati, allora è chiaro che, indipendentemente dalle
modalità con tale effetto si realizza, il suo significato e
la sua efficacia deve intendersi nel senso della volontà del
legislatore regionale di sanare il titolo edilizio
rilasciato in spregio alla (o per meglio dire privando di
efficacia la) declaratoria di incostituzionalità contenuta
nella sentenza n. 309/2011.
35. Così argomentando altro non può ritenersi se non che il
legislatore regionale, con l’art. 17, comma primo, della
l.r. n. 7/2012, abbia voluto sanare ex post, in via
legislativa, i provvedimenti divenuti illegittimi a seguito
della suddetta pronuncia di incostituzionalità, impedendo
quindi, non solo all’amministrazione ma anche al giudice, di
pronunciarne l’annullamento.
36. Tale interpretazione, peraltro è anche la più aderente
al dato letterale della norma atteso che, come già rilevato,
la stessa afferma testualmente che i titoli rilasciati prima
della sentenza della Corte (sia pure a determinate
condizioni) debbono considerarsi “validi”.
37. Seguendo questa impostazione si potrebbe prospettare
anche una lettura della norma, utile ai soli fini della
prospettazione della non manifesta rilevanza della questione
di costituzionalità, per cui la volontà del legislatore
regionale non fosse tanto quella di introdurre un’ipotesi di
sanatoria ex lege, quanto quella di intervenire
surrettiziamente sul potere di autotutela riservato
all’autorità amministrativa, formulando una valutazione
astratta di prevalenza dell’interesse del privato al
mantenimento in essere dell’atto rilasciato su quello
pubblico volto al ripristino della legalità violata.
38. La disposizione in esame inciderebbe, in questo caso,
con effetti paralizzanti, solo sul potere di autotutela. Ma
l’effetto paralizzante non sarebbe provocato dalla sanatoria
dell’atto illegittimo (che conserverebbe la propria
illegittimità e sarebbe per ciò annullabile in sede
giurisdizionale) ma dalla suindicata astratta valutazione di
prevalenza dell’interesse privato su quello pubblico volto
all’annullamento; il che si dedurrebbe dando significativo
rilievo all’inciso “al fine di tutelare il legittimo
affidamento dei soggetti interessati”, contenuto nell’art.
17, comma primo, della l.r. n. 7/2012.
39. Illustrato in tal modo il quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento, il Collegio deve osservare
come, seguendo la seconda delle opzioni ermeneutiche sopra
proposte (come detto la prima non regge, se non alle
condizioni forzate sopra descritte), la questione di
legittimità costituzionale del suddetto art. 17, comma
primo, della l.r. n. 7/2012 sia, all’evidenza, rilevante e
non manifestamente infondata.
40. Prima di procedere oltre occorre, però, un’ulteriore
precisazione. Poiché come già detto, il Collegio ritiene che
l’interpretazione più aderente al dato letterale e, dunque,
più plausibile dell’art. 17 sia quella che attribuisce ad
esso (direttamente o indirettamente) effetti sananti, le
argomentazioni che verranno sviluppate nel prosieguo
muoveranno dal presupposto ovvio che si segua questa
interpretazione. In alcuni specifici passaggi si darà
peraltro conto delle questioni che si pongono qualora si
ritenga che la disposizione abbia solo effetto paralizzante
del potere di autotutela.
41. Ciò premesso, per ciò che concerne il profilo della
rilevanza si osserva quanto segue.
42. Come anticipato, con l’atto di archiviazione del
procedimento di autotutela qui impugnato, il Comune di
Paderno Dugnano ha consentito la realizzazione di una
ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e
ricostruzione di un edificio senza il rispetto del vincolo
di sagoma.
43. Applicando la normativa in vigore prima
dell’introduzione dell’art. 17 cit., come risultante a
seguito della pronuncia di incostituzionalità, il ricorso
sarebbe stato, quindi, accolto.
44. Applicando invece quest’ultima disposizione il ricorso
dovrebbe essere respinto posto che, nel caso concreto, il
permesso di costruire qui avversato è stato rilasciato in
data 09.04.2011 (dunque prima del 30.11.2011), ed
essendo la relativa comunicazione di inizio lavori stata
protocollata in data 14.07.2011 (dunque prima del 30.04.2012). Da qui la rilevanza della questione di
legittimità costituzionale ad essa afferente.
45. Prima di procedere oltre il Collegio ritiene, nondimeno,
opportuno formulare due ulteriori considerazioni.
46. La prima riguarda l’inciso “fino al momento della
dichiarazione di fine lavori”, contenuto nel ridetto art.
17, comma 1, della legge n. 7/2012.
47. Tale inciso, anche se interpretato nel senso (per la
verità poco comprensibile) che la validità e l’efficacia del
provvedimento vengano meno una volta ultimati i lavori, non
è decisivo ai fini della soluzione della presente
controversia, posto che nel caso concreto la comunicazione
di fine lavori, al momento di rilascio degli atti impugnati,
non era ancora intervenuta. L’effetto sanante (o
paralizzante sul potere di autotutela) della disposizione è
dunque ancora operante; con la conseguenza che, in
applicazione di essa, questo giudice dovrebbe comunque
disporre il rigetto del ricorso.
48. La seconda considerazione si ricollega alle eccezioni di
tardività ed inammissibilità sollevate dalle parti
resistenti.
49. Queste sostengono invero che il ricorso, nella parte in
cui si rivolge avverso il permesso di costruire, sarebbe
irricevibile per tardività della notifica; e che lo stesso
ricorso, nella parte in cui si rivolge avverso l’atto di
rifiuto dell’esercizio del potere di autotutela, sarebbe
inammissibile in quanto diretto contro un atto meramente
confermativo del precedente titolo edilizio.
50. Tale eccezione potrebbe considerarsi decisiva ai fini
della rilevanza della questione posto che:
a) secondo una
consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, le
pronunce della Corte Costituzionale che colpiscono le norme
applicate dalla pubblica amministrazione nell’esercizio dei
propri poteri autoritativi non incidono sui rapporti
esauriti;
b) devono considerarsi esauriti i rapporti
regolati da provvedimenti divenuti inoppugnabili per
decorrenza dei termini di impugnazione giurisdizionale (cfr.
Consiglio di Stato, ad. plen n. 8/1983 cit.);
c) e che
quindi il rigetto del presente ricorso potrebbe essere
disposto anche a prescindere dall’applicazione della norma
contenuta nell’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012, ove
si ritenesse che il rapporto fra p.a. e controinteressato
sia, nel caso concreto, definitivamente disciplinato dal
permesso di costruire n. 11/2010, ormai divenuto
inoppugnabile e, dunque, immune alle statuizioni contenute
nella sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011.
51. Ritiene tuttavia il Collegio che la regolazione del
rapporto fra p.a. e controinteressato, nel caso concreto,
non si sia cristallizzata nel succitato permesso di
costruire; e ciò in quanto il Comune, a seguito dell’istanza
della ricorrente, ha avviato un procedimento di annullamento
in autotutela del titolo edilizio rilasciato, culminato con
l’adozione del provvedimento di archiviazione, anch’esso
avversato in questa sede.
52. Attraverso il nuovo procedimento l’autorità
amministrativa ha quindi rinnovato l’istruttoria, nel corso
della quale sono stati valutati elementi in precedenza non
presi in considerazione, ed in particolare sono state per la
prima volta affrontate proprio le questioni di legittimità
connesse alla compatibilità costituzionale delle
disposizioni regionali che ascrivono alla categoria della
ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e
ricostruzione senza il vincolo di sagoma.
53. Il Comune, invero, invece di rilevare l’inutilità del
riesame, stante l’ininfluenza della sentenza della Corte
Costituzionale sul permesso di costruire rilasciato e ormai
divenuto inoppugnabile, ha delibato la questione giungendo
alla conclusione di non annullare l’atto in ragione del
sopravvenuto dettato legislativo (significativo in proposito
è l’atto di avviso di avvio del procedimento inoltrato al
controinteressato, nella parte in cui il Comune manifesta
esplicitamente l’intenzione di stabilire se sussistano i
presupposti per esercitare il potere di autotutela in
ragione dell’intervenuta sentenza di incostituzionalità
delle disposizioni che disciplinavano l’intervento).
54. Ne consegue che, in esito al suddetto procedimento, è
stato adottato un provvedimento che non può considerarsi
meramente confermativo del precedente permesso di costruire:
tale atto, difatti, pur confermando, attraverso
l’archiviazione del procedimento, il contenuto dispositivo
del precedente, fa ciò muovendo da nuove valutazioni ed in
applicazione di una normativa, l’art. 17, comma 1, della
l.r. n. 7/2012 , che all’epoca di adozione del primo
provvedimento non era neppure in vigore e che ha consentito
di ritenere la validità di un provvedimento altrimenti
suscettibile di di declaratoria di illegittimità.
55. Il provvedimento di archiviazione del procedimento di
autotutela va dunque qualificato come atto di natura
sostanziale con cui, mediante la formulazione di nuove
valutazioni espresse in seno ad una rinnovata istruttoria,
si è affermata la validità del permesso di costruire a suo
tempo rilasciato e si è, di conseguenza, confermato il suo
contenuto dispositivo.
56. In tale contesto non può negarsi la sussistenza di una
sopravvenuta manifestazione di volontà dell’Ente che si
aggiunge a quella originaria e che concorre con la prima nel
determinare la regolazione del rapporto intercorrente con il
controinteressato destinatario del titolo edilizio. Come
detto, l’atto in parola non può pertanto considerarsi
meramente confermativo del precedente.
57. Il rinnovato esercizio del potere ha dunque riaperto i
termini di impugnazione. Ne discende che, ai fini che qui
rilevano, il rapporto fra p.a. e controinteressato non può
dirsi esaurito (il provvedimento di archiviazione del
procedimento di autotutela è stato infatti ritualmente
impugnato); e che, quindi, il rigetto o l’accoglimento del
ricorso stesso non possono che dipendere dall’applicazione
del ridetto art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012.
58. Tutto il ragionamento sin qui svolto, si fonda, come
anticipato, sul presupposto che si segua l’interpretazione
dell’art. 17 preferita dal Collegio; tuttavia anche qualora
si ritenga che la suddetta norma abbia effetti meramente
paralizzanti sul potere di autotutela le conclusioni non
muterebbero.
59. Va invero osservato che, secondo la giurisprudenza,
l’intervenuta inoppugnabilità del provvedimento non
impedisce alla pubblica amministrazione di annullare l’atto
illegittimo per sopravvenuta dichiarazione di
incostituzionalità della norma applicata nell’esercizio del
potere: l’inoppugnabilità determina dunque l’esaurimento del
rapporto solo nei confronti del privato, interessato ad
ottenere l’annullamento del provvedimento in sede
giurisdizionale, ma non nei confronti della pubblica
amministrazione che, una volta intervenuta la sentenza
dichiarativa dell’illegittimità costituzionale, può sempre
esercitare i propri poteri di autotutela non soggetti a
limiti temporali di decadenza (cfr. Consiglio di Stato, sez.
VI, 09.06.2003 n. 3458; TAR Calabria Catanzaro, sez. II,
17.11.2007 n. 1721).
60. In proposito va peraltro soggiunto che, in base ad
un’opinione dottrinale, il potere di annullamento in
autotutela di un titolo edilizio non potrebbe più
esercitarsi quando i lavori siano ultimati, giacché in tal
caso il rapporto dovrebbe considerarsi esaurito. Tale
principio tuttavia non opera nel caso di specie posto che,
come anticipato, all’epoca di emanazione dell’atto di
archiviazione del procedimento di autotutela, i lavori non
erano ancora stati ultimati.
61. Da tutto ciò consegue che, anche se si volesse ritenere
che, nella fattispecie concreta, il predetto atto di
archiviazione del procedimento non abbia valenza di atto
sostanziale di conferma di validità del permesso di
costruire rilasciato (come sopra si è sostenuto), ma abbia
valenza di atto di rifiuto dell’esercizio del potere di
autotutela, anche in questo caso la questione di legittimità
costituzionale conserverebbe rilevanza, posto che tale
rifiuto è stato opposto alla ricorrente esclusivamente in
applicazione della disposizione di cui all’art. 17, comma
primo, della l.r. n. 7/2012, al quale dunque anche questo
giudice dovrebbe dare applicazione per rigettare il ricorso.
62. Va pertanto ribadita la rilevanza della questione di
legittimità costituzionale riguardante la suddetta norma.
63. Può ora passarsi all’esame del profilo inerente la non
manifesta infondatezza, in ordine al quale si svolgono le
seguenti considerazioni.
64. Ritiene innanzitutto il Collegio che l’art. 17, comma
primo, della l.r. n. 7/2012 possa essere in contrasto con
l’art. 136, comma primo, Cost. e con l’art. 1 della legge
costituzionale 09.02.1948 n. 1.
65. In base all’art. 136 della Costituzione “quando la Corte
dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di
legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione
della decisione”.
66. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 30, comma 3,
della legge 11.03.1953 n. 87.
67. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha
insegnato che, nonostante la loro non chiarissima
formulazione, la disposizioni suindicate debbono
interpretarsi, avuto anche riguardo al disposto dell’art. 1
della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nel senso
che l’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità ha
effetti erga omnes e retroattivi che si dispiegano su tutti
i rapporti giuridici, salvo il limite invalicabile del
giudicato, e salvo altresì il limite derivante da situazioni
giuridiche comunque divenute irrevocabili: la dichiarazione
di illegittimità colpisce dunque la norma fin dalla sua
origine, eliminandola dall'ordinamento, ricalcandosi così un
fenomeno analogo a quello che si verifica in caso di
annullamento degli atti giuridici (cfr. Corte Costituzionale
sent. 25.03.1970 n. 49; id. sent. 15.12.1966 n.
127).
68. In applicazione dell’art. 136 della Costituzione,
la
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle
disposizioni di cui all’art. 27, primo comma, lett. d) della
l.r. 11.03.2005 n. 12 ed all’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7, pronunciata con sentenza n. 309/2011,
dovrebbe dunque valere anche per il passato.
69. Sennonché, come visto, con l’art. 17, comma primo, della
l.r. n. 7/2012, il legislatore lombardo ha dettato una
disposizione che appare in contrasto con gli illustrati
principi, stabilendo che “In relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte
Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, (…) i permessi
di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…)
devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al
momento della dichiarazione di fine lavori …”; e stabilendo
quindi, nella sostanza, che, in base a questa norma, la
dichiarazione di incostituzionalità non rileva per i titoli
edilizi rilasciati in epoca anteriore alla pubblicazione
della suindicata sentenza.
70. Con la disposizione in esame, si è dunque prevista
un’ipostesi di sanatoria legislativa diretta ad emendare i
titoli rilasciati prima della pubblicazione della sentenza
n. 309/2011 dal vizio derivante dell’essere tali atti
applicativi di disposizioni dichiarate incostituzionali.
71. Sembra pertanto sussistere il contrasto con i citati
artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale
09.02.1948 n. 1.
72. Il Collegio ritiene inoltre che possa anche profilarsi
il contrasto con l’art. 117, comma terzo, della
Costituzione.
73. Difatti, nel sancire la validità dei permessi di
costruire rilasciati anteriormente al 30.11.2011,
l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012 interviene,
nella sostanza, ancora una volta sulla disciplina inerente
la definizione e classificazione degli interventi edilizi
(materia, come detto, ritenuta dalla Corte riconducibile a
quelle di legislazione concorrente), ribadendo la
possibilità di ascrivere alla categoria delle
ristrutturazioni interventi consistenti nella demolizione e
ricostruzione di edifici senza vincolo di sagoma, e ciò
perlomeno con riferimento agli interventi i cui titoli
autorizzativi siano stati rilasciati entro la predetta data.
74. Sembra pertanto che la normativa denunciata sia in
contrasto con la normativa statale di principio contenuta
nell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001
n. 380 (che, come detto, impone invece il rispetto del
limite di sagoma), e ripeta per ciò il vizio di violazione
dell’art. 117, comma terzo, Cost. già rilevato con la
sentenza n. 309/2011.
75. Da ultimo il Collegio osserva che, ove si ritenesse che
l’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012, abbia valenza non
già di norma sanante ma di norma meramente paralizzante il
potere di autotutela (come sopra precisato) possa, in tal
caso, profilarsi un evidente contrasto con l’art. 97 della
Costituzione.
76. Si deve invero osservare che la Regione, con la
succitata disposizione, ha compresso il potere di autotutela
riservato alle autorità comunali, impedendo loro di
intervenire sui titoli edilizi già rilasciati per rendere
conforme l’attività di trasformazione del territorio alle
disposizioni normative vigenti nell’ordinamento.
77. Tale compressione si pone in antitesi con i principi di
legalità buon andamento della pubblica amministrazione
sanciti dalla suddetta norma costituzionale (cfr. ex multis
Consiglio di Stato sez. IV, 26.02.2013 n. 1186),
in
quanto sacrifica in maniera aprioristica i suddetti valori
senza richiedere una preventiva concreta comparazione degli
interessi coinvolti nel procedimento di autotutela;
comparazione invece normalmente richiesta per giustificare
il mantenimento in essere di provvedimenti non conformi a
legge.
Esempio emblematico di questo ultroneo sacrifico
potrebbe essere dato proprio dal caso in esame, nel quale
l’autorità amministrativa ha ritenuto di non potere
esercitare il proprio potere di autotutela nonostante la
fase esecutiva dell’attività edilizia assentita fosse ferma
alla fase iniziale e, dunque, non ancora cristallizzato in
capo al privato quell’affidamento che, in astratto,
giustifica il mantenimento in essere di un titolo
illegittimo.
78. In conclusione, ritiene questo Giudice rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n.
7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della
Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948
n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo, e
97 della stessa Costituzione.”.
II – In esito a quanto sopra, come integralmente riportato,
veniva adottata dalla Corte Costituzionale l’Ordinanza n. 35
del 12.03.2015 con la quale sono stati rinviati i relativi
atti a questo remittente Giudice al fine di scrutare le
attualità della rilevanza della detta questione alla stregua
dell’intervento del legislatore statale che, con il DL n. 69
del 21.06.2013 (e.c. 98/13) –tramite il contenuto dell’art.
30–, ha tolto di mezzo l’obbligo, già disposto dall’art. 3,
1° c., del dpr 380 del 2001, del rispetto, nell’attività
edilizia connesse alla cd. ristrutturazione, della sagoma
strutturale in essere precedentemente.
II.1 – Sicché ed in necessaria sintesi, la sagoma
preesistente –ovviamente nell’ambito della suddetta
attività specifica di trasformazione materiale
dell’esistente– non rileva ora, come per il passato, quale
elemento che, se non rispettato, finiva coll’allocare l’opus
“rifatto” tra le nuove costruzioni; ciò secondo
giurisprudenza costante e del tutto consolidata.
II.2 – In buona sostanza il detto rinvio a questo Giudice è
il risultato di tale intervento normativo statale che, nello
specifico, altrimenti così finisce col ridefinire solo
sostantivi di specie analoghi a quelli di cui all’art. 27,
1° c., lett. d), della l.r. n. 12 del 2005.
III – Rileva così, per altro aspetto, il fatto che tale
ultima articolata normativa regionale sia stata annullata,
nella parte in cui il legislatore regionale stesso non aveva
previsto, al tempo ed in modo esplicito, l’obbligo del
rispetto delle sagome preesistenti nelle cd.
ristrutturazioni: tutto ciò rafforzando poi con
interpretazione autentica tramite l’art. 22 della l.r. n. 7
del 2010. In tale modo tuttavia provocando il rinvio
inerente di questo Giudice alla Corte Costituzionale che ha
poi preso posizione con la detta sentenza n. 309 del 2011.
La quale ultima ha sancito come incostituzionale la citata
norma regionale di cui all’art. 27, 1° c., lett. d, della L.
Lombardia n. 12 del 2005.
IV – Nel prosieguo il medesimo legislatore regionale ha,
tuttavia, approvato la l.r. citata sub I del 2012, la quale
ha determinato, nel corso della presente causa, il diverso
rinvio alla Corte ut supra delinato ancora sub 1 (l.r. n. 7
del 2012 art. 17).
V – Da quanto illustrato e riportato ne consegue la
necessità di scrutare se vi sia ancora rilevanza della
inerente questione, proprio alla luce degli apporti
normativi statali di cui al citato DL n. 69 del 2013.
VI – A tale ultimo specifico riguardo si osserva che il
contenuto statuitivo di cui all’art. 30 del d.l. n. 69 del
2003 (entrata in vigore il 22.06.2013), non ha portata
retroattiva intanto in quanto da luogo ad una diversa
composizione funzionale del concetto di ristrutturazione si
ampliarne, in modo del tutto nuovo, il contenuto materiale.
Parimenti si può escludere che tale norma statale proprio
per evidenti ragioni lessicali, assuma le caratteristiche di
interpretazione autentica. Del resto basta rifarsi alla
sentenza della Corte Costituzionale n. 209 del 2011.
VI – I – Inoltre la giurisprudenza amministrativa ha sempre
escluso che le attività di ristrutturazione edilizia
potessero legittimamente dar luogo ad una struttura
materiale del tutto non conforme a quella sagoma edilizia in
essere prima dell’intervento materiale finale.
VI – II – Inoltre questo stesso Giudice ha più volte escluso
che la detta nuova normativa statale del 2013, sopra
menzionata, fosse veicolo di interpretazione autentica
dell’art. 3, 1° c., del dpr 380 del 2001 (sentenza n. 617 del
2015 e n. 720 del 2015). La ratio legis di tale ultimo
intervento statale è poi ben noto ed è anche dovuto a
circostanze particolari di profilo economico e sociale:
quand’anche per necessità di semplificazione.
VII – Da tutto ciò consegue la persistente attualità della
rilevanza della questione al tempo veicolata con l’ordinanza
n. 1588 del 2013.
VII – I – D’altro canto non è possibile per questo Giudice
conferire ex se alla sentenza della Corte n. 309 del 2011
una portata tale da determinare la disapplicazione della
norma di cui all’art. 17 della l.r. n. 7 del 2012 che, nella
sostanza, finisce con lo sterilizzare ratione temporis la
portata di tale medesima sentenza della Corte.
VIII – Le ragioni della attualità della rilevanza di specie,
vanno così ritrovate e rinvenute in quelle stesse sopra
delineate con l’ordinanza n. 1588 del 2013. Analogo
riferimento può declinarsi con riguardo alla già scrutata
manifestata infondatezza. Del resto l’ostacolo normativo è,
anche ad oggi, insormontabile.
IX – E solo il caso di ricordare che tutte le eccezioni
postulate come ostacolo ad una trattazione di merito
specifico, sono state già superate e disattese.
X – E da tutto ciò ancora la sospensione del presente
giudizio con ritrasmissione degli atti relativi alla On.
Corte Costituzionale.
P.Q.M.
I Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Seconda) dichiara ancora rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n.
7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della
Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1,
nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo e 97
della stessa Costituzione.
Dispone la sospensione del presente giudizio.
Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale.
Ordine che, a cura della Segretaria della Sezione, la
presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al
Presidente della Giunta Regionale della Lombardia e
comunicata al Presidente del Consiglio Regionale della
Lombardia
(TAR Lombardia, Sez. II,
sentenza 05.11.2015 n. 2342
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
E la Consulta ha dato
ragione al TAR Milano:
|
EDILIZIA PRIVATA: Dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della
legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7.
---------------
Art. 17, c. 1, l.r. Lombardia n. 7/2012 – Interventi di
ristrutturazione edilizia oggetto della sent. Corte Cost. n.
309/2011 – Conservazione degli effetti della norma
dichiarata illegittima – Illegittimità costituzionale.
L’art. 17, comma 1, della legge della
Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita,
lo sviluppo e l’occupazione), nel prevedere, in relazione
agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della
sent. Corte Cost. n. 309 del 2011, che i permessi di
costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (data di
pubblicazione della sentenza citata), nonché le denunce di
inizio attività esecutive alla medesima data, siano
considerati titoli validi ed efficaci fino al momento della
dichiarazione di fine lavori, al fine di tutelare il
legittimo affidamento dei soggetti interessati, interviene
per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità
costituzionale, conservando o ripristinando gli effetti
della norma dichiarata illegittima.
Essa, infatti, mira a convalidare e a confermare
nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta
applicazione della precedente normativa regionale,
dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata
sentenza n. 309 del 2011, i cui effetti la disposizione
regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.
La disposizione regionale deve pertanto essere dichiarata
costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136
Cost. (massima
tratta da www.ambientediritto.it).
---------------
Considerato in diritto
1.– Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con ordinanza
05.11.2015 (r.o. n. 21 del 2016 -
sentenza 05.11.2015 n. 2342), solleva questioni
di costituzionalità dell’art. 17, comma 1, della
legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7
(Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione), il
quale, in relazione agli «interventi di ristrutturazione
edilizia oggetto della
sentenza n. 309 del 2011», «al fine di
tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati»,
prescrive che i permessi di costruire rilasciati alla data
del 30.11.2011 (data di pubblicazione della sentenza
citata), nonché le denunce di inizio attività esecutive alla
medesima data, siano considerati titoli validi ed efficaci
fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a
condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti
protocollata entro il 30.04.2012.
Ad avviso del rimettente, tale disposizione violerebbe
l’art. 136 della Costituzione e l’art. 1 della legge
costituzionale 09.02.1948, n. 1 (Norme sui giudizi di
legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza
della Corte costituzionale), in quanto limiterebbe gli
effetti per il passato della
sentenza di questa Corte n. 309 del 2011,
escludendo che la perdita di efficacia delle disposizioni,
dichiarate costituzionalmente illegittime da tale sentenza,
rilevi per i titoli edilizi rilasciati in base alle stesse
disposizioni prima della pubblicazione della sentenza (a
condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti
protocollata entro il 30.04.2012).
Sarebbe altresì violato l’art. 117, comma terzo, Cost., in
relazione all’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia – testo A) – nella versione anteriore alle
modifiche di cui all’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013,
n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98 – in quanto
verrebbero affermate la validità e l’efficacia di titoli
edilizi riferiti a interventi di ristrutturazione di edifici
mediante demolizione e ricostruzione con sagoma diversa, in
violazione del principio fondamentale della legislazione
statale, che la
sentenza n. 309 del 2011 ha desunto dall’art. 3,
comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2011, nel testo
allora vigente, secondo il quale rientravano nella
definizione di ristrutturazione edilizia solo gli interventi
di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e
di sagoma rispetto all’edificio preesistente.
In subordine, qualora il censurato
art. 17, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 7 del 2012
fosse interpretato nel senso (non di affermare la validità e
l’efficacia dei titoli edilizi ivi considerati, bensì più
limitatamente) di paralizzare in via generale e astratta il
potere di autotutela dell’amministrazione in relazione ad
atti basati sulle disposizioni legislative dichiarate
costituzionalmente illegittime dalla
sentenza n. 309 del 2011, sarebbe violato l’art.
97 Cost.: così intesa, la norma regionale sacrificherebbe
aprioristicamente la legalità e il buon andamento della
pubblica amministrazione, impedendo una comparazione in
concreto, in sede di autotutela, tra gli interessi generali
e quelli privati coinvolti in ciascuna fattispecie.
2.1.– Preliminarmente, considerato che il rimettente
ripropone questioni già sollevate dinanzi a questa Corte, in
relazione alle quali è stata disposta la restituzione degli
atti (ordinanza n. 35 del 2015), occorre verificare se il
giudice abbia assolto all’onere di riesaminare la rilevanza
e i termini delle stesse questioni, alla luce delle novità
normative, in termini non implausibili (ex plurimis,
sentenze n. 162 e n. 46 del 2014, n. 321 del 2011).
La verifica ha esito positivo. Il giudice ha esaminato
l’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla legge n.
98 del 2013, ne ha argomentato il carattere innovativo ed ha
escluso la sua applicabilità ai fatti di causa, in
particolare perché i provvedimenti impugnati sono anteriori
alla nuova normativa. Così facendo, il giudice ha fatto
plausibile applicazione del principio secondo cui «lo ius
superveniens non può venire in evidenza nel giudizio di
costituzionalità sollevato dai giudici amministrativi
poiché, secondo il principio tempus regit actum, la
valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va
condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto
esistente al momento della sua adozione”» (sentenza n.
49 del 2016; si veda anche sentenza n. 30 del 2016).
2.2.– Neppure osta all’ammissibilità la circostanza che il
TAR abbia fatto ampio riferimento alla propria precedente
ordinanza di rimessione, integralmente riportata nella
nuova, con l’aggiunta di considerazioni, sia pure
sintetiche, sul carattere innovativo e non retroattivo dello
ius superveniens.
Il giudice rimettente deve fornire, nell’atto di
promovimento, un’esauriente ed autonoma motivazione, mentre
il mero recepimento di argomenti sviluppati dalle parti o
rinvenuti nella giurisprudenza, anche costituzionale, non
basta di per sé a chiarire «le ragioni per le quali
“quel” giudice reputi che la norma applicabile in “quel”
processo risulti in contrasto con il dettato costituzionale»
(sentenza n. 22 del 2015). Ciò non impedisce che il
rimettente riferisca il contenuto di pronunce della Corte
costituzionale o di altri atti del procedimento a quo,
purché corroborato da proprie considerazioni con le quali
illustri, in relazione al giudizio principale, le ragioni
dei dubbi di legittimità costituzionale prospettate a questa
Corte (sentenze n. 51 e n. 10 del 2015).
3.–
Nel merito, la questione sollevata in
riferimento all’art. 136 Cost. e all’art. 1 della l. cost.
n. 1 del 1948 è fondata.
Questa Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis,
sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui
il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare
gli effetti di una pronuncia di illegittimità
costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in
parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima.
Tale è il caso della disposizione impugnata, emanata al
dichiarato «fine di tutelare il legittimo affidamento dei
soggetti interessati» in relazione agli «interventi
di ristrutturazione edilizia oggetto della
sentenza n. 309 del 2011». Essa, come risulta
esplicitamente dal suo tenore letterale, mira a convalidare
e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi
in diretta applicazione della precedente normativa
regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla
citata pronuncia di questa Corte, i cui effetti la
disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.
A nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti successivamente
intervenuti nella legislazione statale, che hanno rimosso il
divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni
edilizie, su cui si fondavano le dichiarazioni di
illegittimità costituzionale contenute nella
sentenza n. 309 del 2011: come già
precedentemente osservato, l’odierna questione e la norma
che ne costituisce oggetto concernono situazioni anteriori a
tale innovazione della legislazione statale e non sono da
essa interessate.
Per questi motivi la disposizione impugnata
deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per
violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta assorbito ogni
altro motivo di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia
18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e
l’occupazione)
(Corte Costituzionale,
sentenza 20.10.2016 n. 224). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte costituzionale ritorna sulle conseguenze della
violazione del c.d. giudicato costituzionale.
---------------
Corte costituzionale - Giudicato costituzionale –
Mantenimento in vigore di norme dichiarate incostituzionali
– Incostituzionalità.
E' incostituzionale, per violazione
dell'art. 136 Cost., la norma statale o regionale che
interviene al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia
di incostituzionalità, per conservare o ripristinare, in
tutto o in parte, quanto previsto dalla norma dichiarata
illegittima (fattispecie relativa all'art. 17, comma 1,
l.reg. Lombardia 18.04.2012, n. 7 che -in relazione agli
interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della
sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 2011-
prescrive che i titoli edilizi rilasciati alla data di
pubblicazione della sentenza stessa siano considerati titoli
validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di
fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio
lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012) (1).
---------------
(1)
Con una sentenza tanto snella quanto decisa, la Consulta
accoglie una questione di costituzionalità sollevata dal Tar
Milano (Sez. II,
sentenza 05.11.2015 n. 2342)
e con l’occasione ribadisce le regole fondamentali in tema
di giudicato costituzionale, in specie rispetto ai limiti
per il legislatore (nella specie regionale) che tenti di
ridare vita a norme già cadute sotto la censura di
incostituzionalità della stessa Corte.
La peculiarità della decisione deriva dal fatto che la norma
regionale oggetto di censura costituisce una riedizione di
una precedente disposizione già oggetto di declaratoria di
illegittimità costituzionale su rimessione del medesimo
giudice amministrativo.
Infatti, con
sentenza 23.11.2011, n. 309 (in Giur. cost. 2011,
6, 4311 con nota Gorlani, sempre su ordinanza di rimessione
del Tar per la Lombardia), la Corte aveva già dichiarato
costituzionalmente illegittime una serie di norme regionali,
fra cui l'art. 22, l.reg. Lombardia 05.02.2010, n. 7; in
particolare tale ultima disposizione –a propria volta
recante interpretazione autentica di altra precedente legge
regionale del 2005– nello stabilire che la ricostruzione
dell'edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma, è
stata reputata in contrasto con il riparto di competenza di
cui all’art. 117, comma 3, Cost., in materia di governo del
territorio, in quanto in contrasto con il principio
fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. d),
d.P.R. n. 380 del 2001 t.u. edilizia, che definisce gli "interventi
di ristrutturazione edilizia".
Il legislatore regionale, pur dinanzi a tale annullamento,
ha adottato la norma oggetto della sentenza in commento, in
base alla quale sono dichiarati “validi ed efficaci”
i titoli edilizi riguardanti gli interventi edilizi oggetto
della succitata
sentenza n. 309 del 2011, e cioè gli interventi
di ristrutturazione consistenti nella demolizione e
ricostruzione senza vincolo di sagoma, a condizione che:
a) il titolo sia stato rilasciato prima del 30.11.2011;
b) la comunicazione di inizio lavori sia stata protocollata prima
del 30.04.2012.
La Consulta -oltre a censurare l’ultra vigenza di titoli
adottati sulla base di una legge dichiarata
incostituzionale, per questa via ribadendo la competenza
legislativa statale in materia di definizione e
classificazione degli interventi edilizi (Corte cost.
09.03.2016, n. 49, in Rivista Giuridica dell'Edilizia 2016,
1-2, I, 8 con nota di STRAZZA, secondo cui: <<Nell’ambito
della materia concorrente “governo del territorio”, prevista
dall’art. 117, comma 3, cost., i titoli abilitativi agli
interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina
che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve
ritenersi valida anche per la d.i.a. e per la s.c.i.a. che,
seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in
una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di
legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi>>)-
conferma la palese illegittimità costituzionale della norma,
richiamando i propri precedenti applicativi dell’art. 136
Cost..
In particolare, la Corte ribadisce (da ultimo
16.07.2015 n. 169, in Giustizia civile, 2015, 27
luglio con nota di DI MARZIO) l’inammissibilità di
disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale,
intervenga al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia
di illegittimità costituzionale, per conservare o
ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma
dichiarata illegittima.
Più in generale, sul c.d. giudicato costituzionale merita di
essere altresì richiamata la più risalente giurisprudenza
costituzionale secondo la quale, perché vi sia violazione
del giudicato costituzionale, è necessario che una norma
ripristini o preservi l'efficacia di una norma già
dichiarata incostituzionale. In particolare il rigore del
citato precetto costituzionale impone al legislatore di “accettare
la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della norma
illegittima”, anziché “prolungarne la vita” sino
all'entrata in vigore di una nuova disciplina del settore e
che «le decisioni di accoglimento hanno per destinatario
il legislatore stesso, al quale è quindi precluso non solo
il disporre che la norma dichiarata incostituzionale
conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e
raggiungere, “anche se indirettamente”, esiti corrispondenti
a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione»
(19.07.1983, n. 223, in Foro it. 1983, I, 2057).
Per più recenti pronunce in materia di violazione del
giudicato costituzionale e sue conseguenze sulla
legislazione residua v. Corte cost. 23.04.2013, n. 72, in
Foro it., 2014, I, 2273, ivi gli ulteriori riferimenti di
dottrina e giurisprudenza; Cass. pen., sez. un., 28.07.2015,
n. 33040, Jazouli, id., 2015, II, 694, con nota di LO FORTE
(Corte
Costituzionale,
sentenza 20.10.2016 n. 224
- commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Illegittima
la sanatoria lombarda. Ristrutturazioni. La Consulta
boccia la legge sulle sagome anteriori al 2013.
Il giudice delle leggi rimprovera
la Regione Lombardia, pretendendo il rispetto delle
proprie pronunce:
con la
sentenza 20.10.2016 n. 224 la Consulta dichiara
illegittima la legge regionale 7/2012, in materia di
ristrutturazione edilizia. La materia del contendere
sono le costruzioni realizzate tra il 2011 ed il
2012, ma vi sono tuttavia importanti affermazioni
sul potere di autotutela, che in edilizia trova
spazio quando si chiede di intervenire su
provvedimenti taciti (Scia).
La Corte costituzionale si è occupata del concetto
di “sagoma” delle costruzioni: secondo la
Regione (Lr 12/2005, articolo 27) le
ristrutturazioni (demolizione e ricostruzione)
potevano avvenire anche con diversa sagoma, ad
esempio con disegno speculare o torrini e
piattaforme non presenti nel fabbricato demolito,
cosa esclusa dalla sentenza 309/2011 della Consulta
perché prevale il Testo unico statale dell’edilizia
(380/2001). Secondo la Corte, la Regione ha
competenza sul territorio, non sul paesaggio, al
quale appartiene il concetto di sagoma.
Nel 2013, il Dl 69 ha rimediato, consentendo
ristrutturazioni anche senza il rispetto della
sagoma preesistente. Per titoli edilizi con sagome
alterate rilasciati prima del Dl, la Lombardia ha
varato una sostanziale sanatoria (Lr 7/2012), sulla
quale la Consulta ritiene sia stato aggirato il
proprio orientamento del 2011.
Se il giudice delle leggi censura una norma, questa
perde efficacia fin dall’origine (articolo 136 della
Costituzione e 30 della legge 87/1953) e quindi si
intende annullata retroattivamente. Solo in rari
casi le sentenze della Consulta non hanno un effetto
integralmente demolitorio, come avvenuto con la
10/2015 sull’Ires. In questo caso, il contrasto col
legislatore lombardo avrà conseguenze limitate: si
discute di pochi manufatti e in particolare di un
edificio a Besozzo (9mila abitanti in provincia di
Varese), demolito e ricostruito con diversa sagoma,
generando il ricorso di un vicino proprietario.
L’edificio, secondo il principio espresso dalla
Consulta, non può considerarsi sanato dalla legge
statale 63/2013 (che ammette oggi ristrutturazioni
con diversa sagoma), ma probabilmente potrebbe
fruire di una sanzione relativamente modesta.
Infatti, pur essendo stato edificato con un titolo
illegittimo, potrebbe comunque essere ricostruito
con le stesse caratteristiche. Al vicino litigioso
spetta solo il risarcimento del danno per il periodo
in cui ha subìto il disagio di un fabbricato con
sagoma irregolare.
Più delicato il passaggio in cui la Corte si occupa
dell’interesse pubblico a reprimere abusi che
successivamente siano considerati irrilevanti. Il
principio della legge più favorevole è codificato
(articolo 2 del Codice penale) per le sanzioni
penali. Ma di fatto trova spazio anche nelle vicende
amministrative, sotto forma di ragionevole
motivazione sull’opportunità di ripristinare una
situazione superata da leggi sopravvenute (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Corte Costituzionale: è illegittima la L.R.
Lombardia 7/2012 "salva" ristrutturazioni edilizie
ante 30.11.2011 senza rispetto della sagoma.
Con
sentenza 21.11.2011 n. 309, la Corte
Costituzionale dichiarò l'incostituzionalità:
• dell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo,
della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio), nella
parte in cui escludeva l’applicabilità del limite
della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante
demolizione e ricostruzione; dell’art. 103 della
legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella
parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia)
(testo A);
• dell’art. 22 della legge della Regione Lombardia
05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per
l’attuazione della programmazione regionale e di
modifica ed integrazione di disposizioni legislative
– Collegato ordinamentale 2010),
confermando la fondatezza della eccezione di
illegittimità costituzionale sollevata dal TAR
Lombardia con l'ordinanza n. 5122 del 07.09.2010,
ossia che
non c'é spazio per una definizione di
ristrutturazione edilizia diversa da quella indicata
dal legislatore nazionale nell'articolo 3 del DPR
380/2011.
Al fine dichiarato di tutelare il legittimo
affidamento dei soggetti interessati, nel 2012 la
Regione Lombardia intervenne sulla legge n. 12 del
2005
disponendo la salvezza dei permessi di costruire
rilasciati alla data del 30.11.2011 nonché le
denunce di inizio attività esecutive alla medesima
data (Art. 17. "Disciplina dei titoli
edilizi di cui all'articolo 27, comma 1, lettera d),
della l. r. 12/2005 a seguito della sentenza della
Corte Costituzionale n. 309/2011", L.R.
08.04.2012, n. 7, Misure per la crescita, lo
sviluppo e l'occupazione).
Adito dalla proprietaria di un immobile, sito nel
territorio del Comune di Paderno Dugnano, confinante
con un’area nella quale il Comune ebbe ad
autorizzare, con permesso di costruire, un
intervento di ristrutturazione mediante demolizione
dell’edificio esistente e ricostruzione con sagoma
diversa, con ordinanza del 05.11.2015 il TAR
Lombardia sollevò la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma 1, della L.R.
7/2012, in riferimento al Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, nel testo anteriore alle modifiche
apportate dall’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013,
n. 69.
Con
sentenza 20.10.2016 n. 224, la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 17, comma 1, della L.R.
7/2012.
Stigmatizzando la norma lombarda, i giudici
costituzionali hanno condiviso la fondatezza della
questione di illegittimità costituzionale della
normativa lombarda sottolineando:
• che la Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis,
sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni
con cui il legislatore, statale o regionale,
interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia
di illegittimità costituzionale, per conservare o
ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della
norma dichiarata illegittima;
• tale è il caso della disposizione impugnata,
emanata al dichiarato «fine di tutelare il
legittimo affidamento dei soggetti interessati»
in relazione agli «interventi di ristrutturazione
edilizia oggetto della
sentenza n. 309 del 2011»;
• essa, come risulta esplicitamente dal suo tenore
letterale, mira a convalidare e a confermare
nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in
diretta applicazione della precedente normativa
regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima
dalla citata pronuncia di questa Corte, i cui
effetti la disposizione regionale vorrebbe
parzialmente neutralizzare;
• a nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti
successivamente intervenuti nella legislazione
statale, che hanno rimosso il divieto di alterazione
della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, su cui
si fondavano le dichiarazioni di illegittimità
costituzionale contenute nella
sentenza n. 309 del 2011: come già
precedentemente osservato, la questione e la norma
che ne costituisce oggetto concernono situazioni
anteriori a tale innovazione della legislazione
statale e non sono da essa interessate.
Per questi motivi la disposizione impugnata è stata
ritenuta costituzionalmente illegittima per
violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta
assorbito ogni altro motivo di censura (23.10.2016
- commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Intesa
sul regolamento edilizio unico. Entro sei mesi il
recepimento delle Regioni, poi altri sei mesi per l’adozione
nei Comuni.
Semplificazioni. Ieri la firma fra Infrastrutture,
governatori e sindaci - In arrivo 42 definizioni standard
valide per tutti gli enti locali
Accordo fatto sullo schema di
regolamento edilizio nazionale, la principale riforma
promessa dal governo Renzi in materia di semplificazione e
vero “pezzo forte” dell’agenda sulle semplificazioni
edilizie.
Il traguardo –storico– è stato raggiunto ieri in conferenza
unificata, dopo una lunga e non facile discussione avviata a
maggio del 2015 al tavolo presso il ministero guidato da
Graziano Delrio con i rappresentanti di Comuni e Regioni.
A partire da oggi le Regioni hanno sei mesi di tempo per
recepire lo schema di regolamento con un proprio
provvedimento (legge o delibera). A partire dal recepimento
regionale, gli enti locali avranno altri sei mesi per
adottarlo. In altre parole –se tutto fila liscio e al limite
massimo dei tempi fissati– in un anno il regolamento
edilizio standard si trasformerà in realtà nei vari municipi
d’Italia. C’è comunque da ricordare che l’impegno
sottoscritto ieri riguarda in prima battuta le Regioni a
statuto ordinario, ed è opzionale per quelle a statuto
speciale.
Lo
schema di regolamento edilizio approvato ieri si
compone di tre parti: lo schema guida per la redazione del
regolamento più due allegati.
Il cuore innovativo del regolamento sta negli allegati.
L’allegato “a” elenca le 42 definizioni standard «uniformi»
valide per tutti gli enti locali. È la prima volta che ci si
mette d’accordo su un vocabolario unico per definire, per
esempio, la «superficie netta», la «superficie utile» oppure
anche solo l’«altezza dell’edificio».
Altrettanto rivoluzionario l’allegato “b” che elenca 118
norme statali che hanno un impatto sull’edilizia. L’aspetto
innovativo sta nel fatto che, nel nuovo regolamento
comunale, qualsiasi norma statale viene richiamata
esclusivamente attraverso il rinvio all’allegato “b”. In
questo modo si mette fine alla prassi che ha finora visto i
Comuni accogliere e fissare nei loro regolamenti norme
statali –o anche solo pezzi di norme nazionali– che magari
venivano poi modificate dal legislatore statale.
In altre parole il regolamento unico spazza via l’attuale
babele che si è creata negli anni a causa della
“personalizzazione” municipale. Infine c’è lo schema unico,
che rappresenta una guida per la redazione, e ha la forma di
un indice, che spetta al Comune riempire di contenuti.
Fin qui lo schema generale. C’è da dire che il regolamento
unico in realtà non sarà unico. Ciascuna regione può infatti
aggiungere proprie norme che hanno incidenza sull’attività
edilizia, e di cui il comune dovrà tenere conto. Non solo.
Le regioni potranno, in via transitoria, modificare «le
definizioni (uniformi) aventi incidenza sulle previsioni
dimensionali» dei piani regolatori. La formula, spiegano i
tecnici, è stata concessa per consentire a un ristretto
numero di regioni (e solo in via transitoria) di non
impattare sulle volumetrie previste dagli strumenti
urbanistici.
Questo obiettivo, spiegano sempre i tecnici, può essere
conseguito con limitati interventi sulla definizione di
«superficie accessoria». L’accordo impegna tuttavia le
Regioni a ritornare alla versione originale della
definizione «nei propri provvedimenti legislativi e
regolamentari, che saranno adottati» dopo l’accordo firmato
ieri.
Poi ci sono gli Enti locali, che a loro volta potranno
integrare lo schema con proprie misure che vanno oltre le
regole comuni, per esempio in materia di performance
energetiche o materiali “bio”.
Se le Regioni recepiscono lo schema di regolamento, il
comune è anch’esso obbligato ad adottarlo; e se non lo fa,
scaduti i sei mesi, le definizioni uniformi e le norme
sovraordinate (statali e regionali) «trovano diretta
applicazione». Se invece le Regioni non si adeguano entro la
loro scadenza –ovviamente non sono previste sanzioni– il
comune può recepire il regolamento ma non è obbligato a
farlo (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
lingua comune in edilizia. Regolamento tipo con 42
definizioni standardizzate. La Conferenza unificata ha
sancito l'intesa sul decreto del ministero delle
infrastrutture.
Via libera definitiva dalla Conferenza unificata al
regolamento edilizio tipo. Sarà costituito da un unico
glossario per l'intero Paese e un elenco di titoli che
saranno il corpo dei regolamenti edilizi in tutti i comuni.
Le 42 definizioni allegate allo schema di regolamento
rappresentano una sorta di mini vocabolario per cui termini
come porticato, tettoia o veranda avranno lo stesso
significato in tutta la Penisola.
Suddiviso in due parti conterrà: un capitolo dedicato ai
princìpi generali e un secondo alle disposizioni
regolamentali comunali.
La Conferenza unificata del 20.10.2016 ha espresso parere
positivo allo schema di decreto del ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, Graziano Delrio, sul
regolamento edilizio tipo che contiene al suo interno le 42
definizioni standardizzate adottate già all'inizio
dell'anno.
Dal momento dell'accordo (tra regioni, governo e comuni
raggiunto il 20.10.2016), le regioni avranno 180 giorni
di tempo per recepire il regolamento edilizio tipo e
stabiliranno le scadenze a cui i comuni si dovranno attenere
per uniformarsi. Per favorire la conoscibilità della
disciplina generale dell'attività edilizia avente diretta e
uniforme applicazione, i comuni provvederanno alla
pubblicazione del link nel proprio sito istituzionale.
Doppia suddivisione del regolamento.
Il regolamento edilizio tipo si dividerà in due diversi
parti. Nella prima rubricata «principi generali e disciplina
generale in materia edilizia» è richiamata e non riprodotta
la disciplina generale dell'attività edilizia operante in
modo uniforme su tutto il territorio nazionale e regionale.
Nella seconda denominata «disposizioni regolamentari
comunali in materia edilizia» è raccolta la disciplina
regolamentare in materia edilizia di competenza comunale, la
quale, sempre, al fine di assicurare la semplificazione e
l'uniformità della disciplina edilizia, deve essere ordinata
nel rispetto di una struttura generale valevole su tutto il
territorio statale. I requisiti tecnici integrativi devono
essere espressi attraverso norme prestazionali, che fissino
risultati da perseguirsi nelle trasformazioni edilizie.
Le prestazioni da raggiungere potranno essere prescritte in
forma quantitativa, ossia attraverso l'enunciazione di
azioni da praticarsi affinché l'intervento persegua l'esito
atteso.
Prima parte regolamenti edilizi. Nella prima parte dei
regolamenti edilizi, al fine di evitare inutili duplicazioni
delle disposizioni nazionali e regionali, basterà richiamare
con apposita formula di rinvio, la disciplina relativa alle
materia di seguito elencate, la quale opererà direttamente
senza la necessità di un atto di recepimento nei regolamenti
edilizi:
- definizioni uniformi dei parametri urbanistici e edilizi;
- definizioni degli interventi edilizi e delle destinazioni
d'uso;
- procedimento per il rilascio e la presentazione dei titoli
abilitativi edilizi e le modalità di controllo degli stessi;
- modulistica unificata edilizia, gli elaborati e la
documentazione da allegare alla stessa;
- requisiti generali edilizi (ad esempio servitù militari,
accessi stradali e siti contaminati);
- disciplina relativa agli immobili soggetti a vincoli e
tutele di ordine paesaggistico, ambientale , storico
culturale e territoriale;
- discipline settoriali aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia, tra cui la normativa sui requisiti
tecnici delle opere edilizie e le prescrizioni specifiche
stabilite dalla normativa statale e regionale per alcuni
insediamenti e impianti.
Seconda parte regolamenti edilizi.
La seconda parte dei regolamenti edilizi, avrà per oggetto
le norme comunali che attengono all'organizzazione e alle
procedure interne dell'ente nonché alla qualità, sicurezza,
sostenibilità delle opere edilizie realizzate, dei cantieri
e dell'ambiente urbano, anche attraverso l'individuazione
dei requisiti tecnici e integrativi complementari, rispetto
alla normativa uniforme richiamata nella prima parte del
regolamento edilizio
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2016). |
CORTE DEI CONTI |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo ristretto. Vietato per
pagare tasse locali, non per multe e sanzioni. La Corte
conti lombarda con un parere sulle prestazioni a beneficio
della collettività.
No al baratto amministrativo come strumento per pagare le
tasse locali o come forma alternativa agli istituti
civilistici della datio in solutum o della transazione.
Discorso diverso per le entrate extratributarie (rette,
tariffe per servizi a domanda individuale, multe, sanzioni)
per le quali i comuni potranno prevedere la possibilità di
estinguere le obbligazioni pecuniarie con una prestazione
personale che comunque dovrà essere determinata chiaramente
in anticipo e tipizzata e dovrà essere svolta a beneficio
della collettività.
A mettere nuovamente i paletti all'istituto del baratto
amministrativo (introdotto dall'art. 24 del dl 133/2014 e
poi ripreso anche dal Codice appalti che ne ha completato la
regolamentazione attraendolo nella materia dei contratti
pubblici di partenariato sociale) è stata la Corte conti
Lombardia, sezione regionale di controllo, nel
parere 06.09.2016 n.
225 reso al comune di Casalpusterlengo (Lo).
I giudici
hanno ribadito che il baratto amministrativo necessita di
una “previa regolamentazione a carattere generale, riveste
natura temporanea, può essere applicato in ambiti
territoriali limitati e non può riguardare debiti tributari
pregressi”. E' proprio questa l'esclusione più significativa
perché, fin dal suo debutto, il baratto è stato percepito
dalle amministrazioni comunali come strumento per sgravare
dal carico fiscale contribuenti in difficoltà offrendo loro
la possibilità di estinguere il debito svolgendo attività
sostitutive a beneficio della cittadinanza.
Ebbene, secondo,
la Corte conti, ciò non è possibile perché “la riduzione
delle imposte non si può applicare su debiti pregressi
confluiti nella massa dei residui attivi accertati dall'ente
locale”.
Il baratto amministrativo, inoltre, non può essere
lasciato alla libera iniziativa del cittadino insolvente,
ancorché incolpevole. Costui non potrà scegliere in modo
autonomo la prestazione da eseguire, ma sarà l'ente a
doverlo fare preliminarmente, disciplinando i casi concreti
di attuazione e la tipologia di crediti a cui applicare il
baratto, nonché individuando la natura dei lavori e dei
servizi e i soggetti che possono avvalersi dell'istituto.
In
pratica, chiariscono i giudici lombardi, “deve escludersi
che il singolo cittadino, anche se insolvente incolpevole,
possa proporre interventi che non rientrino nella
programmazione dell'ente, potendosi invece effettuare
unicamente le attività già previste e finanziate in
bilancio”
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2016). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
Il DURC e il CIG.
DOMANDA:
A seguito
dell’approvazione del D.Lgs. 50/2015 si chiede:
a) se la disposizione che consentiva per le prestazioni di servizio
o forniture inferiori ad € 20.000,00 di acquisire
l’autocertificazione del durc o se lo stesso debba essere
sempre acquisito on-line;
b) se per gli affidamenti di patrocinio legale (es. incarichi per
resistere al Tar o giudice del lavoro) e consulenze affidate
in base al relativo regolamento a soggetti titolari di
partita iva debba essere acquisito il cig;
c) per le forniture economali es. acquisti sul mepa (il vigente
regolamento pone il limite di € 1.000,00) acquisite in base
al codice degli appalti debba essere acquisito il cig e se
deve provvedere agli adempimenti previsti D.Lgs. 33/2013 e
successive modificazioni pubblicazioni nella sezione
amministrazione trasparente ed in caso affermativo con quali
modalità.
RISPOSTA:
a)
L'art. 4, comma 2, D.L. n. 70/2011 aveva introdotto nel
previgente codice il comma 14-bis all'art. 38, che prevedeva
per i contratti di forniture e servizi fino a ventimila
euro, stipulati con la pubblica amministrazione e le società
in house, che i soggetti contraenti potessero produrre una
dichiarazione sostitutiva in luogo del DURC. La norma è
stata abrogata dal D.Lgs. 50/2016, per cui attualmente anche
per le acquisizioni di beni e servizi inferiori ad €
20.000,00 occorre acquisire il durc on-line.
b) In merito agli affidamenti di patrocinio legale, occorre
preliminarmente verificarne la natura giuridica, ossia se
costituiscono un appalto di servizi o una prestazione di
lavoro autonomo (ex art. 7, commi 6 e 6-bis del D.Lgs.
165/2001), ai quali l'amministrazione può ricorrere a
condizione della insussistenza di adeguate professionalità
interne e che la prestazione sia di natura temporanea e
altamente qualificata.
L’appalto di servizi viene in rilievo quando il
professionista sia chiamato a organizzare e strutturare una
prestazione di contenuto più ampio del patrocinio
giudiziale, concernente un complesso di attività legali. Il
patrocinio legale, cioè il contratto volto a soddisfare il
solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del
cliente, invece è inquadrabile nell’ambito della prestazione
d’opera intellettuale, in base alla considerazione per cui
il servizio legale, per essere oggetto di appalto, richieda
qualcosa in più, “un quid pluris per prestazione o
modalità organizzativa” (cfr. determinazione Avcp n.
4/2011; Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per
la Basilicata, deliberazione n. 19/2009/PAR).
I contratti di patrocinio legale, volti a soddisfare il solo
bisogno di difesa giudiziale del cliente, in quanto
inquadrabili come prestazioni d’opera intellettuale, sono
esclusi dall'obbligo di richiesta del codice CIG. Devono
invece ritenersi sottoposti agli obblighi di tracciabilità i
contratti per i servizi legali, ora regolati dall’art. 17
del D.Lgs. 50/2016.
c) Le Linee Guida dell’ANAC relative alle “Procedure per
l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore
alle soglie di rilevanza comunitaria”, nella parte in
cui si occupano dell’obbligo di adeguata motivazione per gli
affidamenti diretti di importo inferiore ad € 40.000,00
(art. 36, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 50/2016), ne
consentono una attenuazione per gli “affidamenti di
modico valore, ad esempio inferiori a 1000 euro, o quando
l’acquisizione avviene nel rispetto del regolamento di
contabilità dell’amministrazione, ovvero nel caso in cui la
stazione appaltante adotti un proprio regolamento redatto
nel rispetto dei principi contenuti nel Codice”.
Non è chiaro se con la dizione “forniture economali”
la scrivente amministrazione si riferisca alle spese
economali, ossia quelle effettuate dai cassieri delle
stazioni appaltanti mediante il fondo economale, con
l’utilizzo di contanti, a condizione che: - si tratti di
spese minute e di non rilevante entità, necessarie per
sopperire con immediatezza ed urgenza ad esigenze funzionali
della stazione appaltante; - si tratti di spese tipizzate
dalla stazione appaltante in un proprio regolamento; - non
si tratti di spese effettuate a fronte di contratti
d’appalto.
In presenza di tali presupposti, pertanto, le spese
economali sono sottratte alla disciplina della tracciabilità
ed escluse dall’obbligo di richiedere il codice CIG, in
quanto non originate da contratti di appalto. E’ importante
però distinguere tra gli acquisti in economia (afferenti
alla funzione degli appalti), che soggiacciono agli obblighi
di tracciabilità, e gli acquisti in economato (afferenti ad
una funzione distinta dagli appalti), che ne sono esenti
(link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito ad un intervento di manutenzione
ordinaria mura di cinta di età medioevale - Comune di Vico
nel Lazio (Regione Lazio,
parere 26.10.2016 n. 537945 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Parere in merito all'applicazione dell'art. 27, comma 3,
della l.r. 24/1998 concernente l'edificazione su lotti
inedificati e parzialmente boscati ricadenti in un comparto
di lottizzazione - Comune di Montebuono (Regione Lazio,
parere 26.10.2016 n. 537898 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI - VARI:
Interpretazione di norma statutaria relativa alla
verbalizzazione delle deliberazioni.
Il verbale, inteso come resoconto
dell'andamento delle sedute dell'organismo collegiale è un
atto di certificazione che assume carattere di atto
compiutamente formato con la sottoscrizione congiunta di
colui che lo redige e di colui che presiede la seduta.
In conformità con quanto stabilito dal regolamento sul
funzionamento del Consiglio (qualora l'organo ne sia
dotato), il verbale può essere più o meno esteso, e
contenere le trascrizioni delle dichiarazioni dei
consiglieri o disporre l'inserimento delle stesse attraverso
un documento da allegare.
Poiché la deliberazione costituisce atto di manifestazione
della volontà dell'organo collegiale, sostanziandosi quindi
in provvedimento amministrativo, essa esiste a prescindere
dall'atto verbale che ne riferisce i contenuti; tuttavia,
attraverso la verbalizzazione delle deliberazioni si dà
conto di una serie di elementi che consentono di verificare
la regolarità dell'iter di formazione della volontà
collegiale e di permettere il controllo delle attività
svolte, senza che sia necessaria una dettagliata indicazione
delle singole attività compiute e delle singole opinioni
espresse.
L'Azienda di servizi alla persona pone una serie di quesiti
sulla corretta interpretazione della disposizione del
proprio statuto relativa alle procedure di verbalizzazione
delle delibere e delle sedute del Consiglio di
amministrazione.
Preliminarmente corre l'obbligo di segnalare che l'esegesi
delle norme contenute nello statuto aziendale compete
esclusivamente al Consiglio di amministrazione dell'Azienda,
che ha sia l'onere di esercitare le attribuzioni che gli
vengono colà conferite, sia la facoltà di modificarlo per
renderlo più coerente con la propria attività e con gli
obiettivi aziendali. Inoltre, al Consiglio di
amministrazione compete l'approvazione dei regolamenti
interni, volti a disciplinare più nel dettaglio
l'organizzazione ed il funzionamento delle funzioni ad esso
attribuite [1].
Ribadita quindi la specifica competenza del Consiglio sulla
materia in esame, in via meramente collaborativa e generale,
senza quindi entrare nelle singole casistiche prospettate
dall'Ente, si forniscono i seguenti elementi di valutazione.
I dubbi dell'ASP riguardano, fondamentalmente, la
distinzione fra verbale della seduta e verbale della
deliberazione. Lo Statuto dell'Azienda, all'art. 10, dispone
che 'I verbali delle deliberazioni del Consiglio sono
redatti dal Direttore o, in caso di sua assenza o
impedimento, da altro funzionario precisato dal regolamento
di organizzazione ovvero da un membro del Consiglio
incaricato dal Consiglio stesso. Gli stessi sono
sottoscritti dal verbalizzante e da chi presiede l'adunanza'.
Questo Servizio ha già avuto modo, in passato
[2], di
affermare che il verbale, atto giuridico annoverabile nella
più ampia categoria degli atti certificativi, è un documento
finalizzato alla descrizione di atti e/o fatti rilevanti per
il diritto, compiuti alla presenza di un soggetto
verbalizzante, al fine di garantire la certezza della
descrizione degli accadimenti constatati, documentandone
l'esistenza.
Il verbale, inteso come resoconto dell'andamento delle
sedute dell'organismo collegiale (ove si riportano, ad
esempio, l'ordine del giorno, l'elenco dei presenti e
assenti, i motivi principali delle discussioni, il testo
integrale delle deliberazioni ed il numero di voti
favorevoli, contrari e astenuti su ogni proposta
[3]) è un
atto di certificazione che assume carattere di atto
compiutamente formato con la sottoscrizione congiunta di
colui che lo redige (Segretario o Direttore generale) e di
colui che presiede la seduta (o come eventualmente
disciplinato in via regolamentare).
In conformità con quanto stabilito dal regolamento sul
funzionamento del Consiglio, (qualora l'organo ne sia
dotato), questo documento può essere più o meno esteso, e
contenere le trascrizioni delle dichiarazioni dei
consiglieri o disporre l'inserimento delle stesse attraverso
un documento da allegare.
In via generale, la giurisprudenza [4]
ha affermato che non tutti gli atti o fatti devono essere
necessariamente documentati nel verbale, ma solo quelli che,
secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono
rilevanza in ordine alle finalità cui l'attività di
verbalizzazione è preposta. Permane, tuttavia, ai
consiglieri la facoltà, in particolari situazioni, di
richiedere espressamente che i propri interventi siano
riportati interamente a verbale.
Diversa funzione ha la deliberazione, che costituisce atto
di manifestazione della volontà dell'organo collegiale,
sostanziandosi quindi in provvedimento amministrativo, che
esiste a prescindere dall'atto verbale che ne riferisce i
contenuti [5].
Infatti, come affermato dal Consiglio di Stato
[6], 'L'esistenza
giuridica di una deliberazione collegiale è riconducibile
alla sola manifestazione di volontà indipendentemente dalla
verbalizzazione della stessa; sono, infatti, due momenti
distinti la manifestazione di volontà, che costituisce il
contenuto della deliberazione, e la verbalizzazione che
riproduce e documenta tale manifestazione attestandone
l'esistenza, ma che, sebbene necessaria, non è determinante
per la formazione della volontà dell'organo collegiale'.
L'attività di verbalizzazione delle deliberazioni è quindi
fondamentale perché dà conto di una serie di elementi che
consentono di verificare la regolarità dell'iter di
formazione della volontà collegiale e di permettere il
controllo delle attività svolte, senza che sia necessaria
una dettagliata indicazione delle singole attività compiute
e delle singole opinioni espresse.
Sulla distinzione fra verbale della seduta e verbale della
deliberazione, l'ANCI ha affermato che 'il verbale delle
adunanze come documento formale contenente il sunto generale
di quanto è successo nell'intera seduta, sia obbligatorio
soltanto se ed in quanto sia espressamente previsto da una
norma statutaria o regolamentare; i verbali delle
deliberazioni sono, invece, indispensabili per conferire
concretezza, efficacia e trasferibilità della conoscenza e
comprensibilità alle decisioni dell'organo collegiale.
[7]'
Sempre l'ANCI ha affermato che 'Normativa,
giurisprudenza, prassi e dottrina portano a privilegiare
l'obbligatorietà (della verbalizzazione, ndr) delle singole
deliberazioni, nelle quali soltanto si riscontra
l'obbligatorietà di un minimo indispensabile di contenuti
per poter dispiegare la propria efficacia; il verbale della
seduta è , in realtà, sempre stato ed è tuttora un elemento
secondario, valido più a fini storico statistici, che a fini
della concreta realizzazione dell'azione amministrativa di
competenza degli organi collegiali... La corretta
verbalizzazione delle singole deliberazioni, sugli argomenti
formalmente inseriti all'ordine del giorno, dovrebbe essere
sufficiente ad interpretare e concretizzare tutte le
esigenze delle previsioni normative in vigore; naturalmente
in assenza di una specifica norma regolamentare che
prescriva la stesura di un verbale di seduta espressamente
indicato come elemento distinto e diverso dalle singole
deliberazioni formali.' [8]
Alla luce di quanto espresso, si ritiene che l'Ente, nel
rispetto della norma statutaria relativa alla
verbalizzazione delle deliberazioni, possa comunque
prevedere ulteriori e più dettagliate disposizioni a livello
regolamentare, al fine di disciplinare l'eventuale
obbligatorietà di una verbalizzazione delle sedute, gli
elementi essenziali del verbale ed altre circostanze che
possono verificarsi durante le sedute dell'organo
collegiale.
---------------
[1] Ai sensi dell'art. 6, comma 2, della legge regionale
11.12.2003, n. 19, 'Il Consiglio di amministrazione esercita
le funzioni attribuite dallo statuto e, comunque, provvede
allo svolgimento dei seguenti adempimenti: (...) f)
approvazione delle modifiche statutarie e dei regolamenti
interni'.
[2] Si vedano i pareri prot. n. 29084 del 10.08.2011 e prot.
n. 3969 del 13.0.2009. Si veda, altresì, il parere prot. n.
5235 del 30.03.2010 espresso dal Servizio elettorale della
scrivente Direzione centrale. I testi dei i pareri sono
reperibili sul Portale delle autonomie locali al
seguente indirizzo.
[3] R. Nobile, 'Verbalizzazione e verbali delle sedute degli
organi e degli organismi collegiali negli enti locali',
reperibile al
seguente all'indirizzo.
[4] Si veda, ex multis, Consiglio di Stato, Sezione Quarta,
sentenza n. 4074 del 25.07.2001.
[5] G. Gentilini, 'Alcuni cenni sintetici sugli atti
verbalizzazioni degli organi collegiali' reperibile sul sito
www.diritto.it
[6] Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza n. 6208
dell'11.12.2001.
[7] ANCI, parere del 09.03.2005.
[8] Parere del 19.04.2003 (25.10.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Controlli cum grano salis. Verifiche limitate
all'attività di governo. Le
commissioni di garanzia sono disciplinate dal regolamento.
È legittima la convocazione della commissione garanzia e
controllo di un comune, richiesta da cittadini riunitisi in
comitato, per verificare l'eventuale violazione delle norme
sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di
carburanti nel territorio comunale?
In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni
obbligatorie (previste per legge come, ad esempio, la
commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative
(come le c.d. commissioni consiliari permanenti ex art. 38
del Tuel, dlgs n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva
composizione e il funzionamento si riconducono generalmente
alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle
disposizioni di legge o di regolamento, ovvero degli statuti
locali. È, pertanto, a tali previsioni che occorrerebbe fare
riferimento per dirimere la questione quale quella in esame.
Nel caso in esame, lo Statuto comunale si limita a stabilire
che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con
finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei
gruppi consiliari di opposizione, prevede la possibilità di
istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire
commissioni speciali per l'esame di problemi particolari,
demandando al consiglio la composizione, l'organizzazione,
le competenze, i poteri e la durata.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni
speciali e le commissioni di inchiesta; inoltre,
conformemente a quanto rilevato dal segretario generale
dell'ente, secondo cui la materia in esame esula dalle
competenze della commissione, dispone che le commissioni con
funzioni di garanzia e di controllo «effettuano verifiche
sull'attività di governo, sulla programmazione e sulla
pianificazione delle attività, sui risultati e sugli
obiettivi raggiunti».
Le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia
potrebbero considerarsi, così come sostenuto da una parte
della dottrina, una specie del medesimo genere delle
commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla
circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44
del Testo unico.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si
concretizza nell'affidamento della presidenza della
commissione permanente ad un consigliere dell'opposizione,
una volta costituita, l'attività istituzionale svolta da
tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni
permanenti, nel rispetto comunque delle competenze
amministrative demandate previamente agli uffici comunali.
Considerato che, nell'ipotesi in esame, lo Statuto e il
regolamento hanno previsto la possibilità di istituire anche
commissioni speciali con il compito di approfondire
«particolari questioni o problemi che interessino il
comune», la fattispecie relativa alla presunta violazione
delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un impianto
sul territorio comunale sembra incidere in particolare sulla
competenza di tali organismi, dovendo, invero, limitarsi
l'attività della commissione garanzia e controllo, alle
verifiche sull'attività di governo
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2016). |
TRIBUTI:
Autotutela tributaria su avviso accertamento ICI.
In materia tributaria, il potere
dell'amministrazione di provvedere in via di autotutela
all'annullamento o alla revoca degli atti illegittimi o
infondati è normato dall'art. 2-quater, D.L. n. 564/1994.
Nel potere di annullamento o di revoca deve intendersi
compreso anche il potere di disporre la sospensione degli
effetti dell'atto che appaia illegittimo o infondato (commi
da 1-bis ad 1-quinquies).
La giurisprudenza precisa che l'esercizio dell'autotutela,
nell'ambito del diritto tributario, incontra un limite
-oltre che nell'avvenuta formazione del giudicato sull'atto
viziato- nel decorso del termine decadenziale fissato per
l'accertamento.
La presentazione dell'istanza di sospensione in autotutela
non sospende i termini per proporre ricorso al Giudice
tributario; parimenti, si ritiene che l'esercizio
dell'autotutela sospensiva, ex art. 2-quater, comma
1-quinquies, D.L. n. 564/1994, non possa sospendere i
termini per impugnare, attesa l'indisponibilità di detti
termini perentori.
Il Comune riferisce di aver notificato (in data 08.08.2016)
un avviso di accertamento per omesso versamento ICI 2011,
fondato sul processo verbale di constatazione della Guardia
di Finanza, verbale sottoposto a giudizio penale, allo stato
in grado di appello.
Il legale del contribuente chiede al Comune di sospendere
l'avviso di accertamento in autotutela 'ai soli fini
della sua sospensione esecutiva', in attesa che sul
processo verbale di constatazione si formi il giudicato,
necessario, a suo dire, per aversi valido presupposto
dell'avviso di accertamento, e al fine di evitare, nel
frattempo, ulteriori attività giurisdizionali in sede
tributaria. Il Comune chiede, dunque, se la sospensione
dell'avviso di accertamento possa rientrare nell'istituto
dell'autotutela e se, concedendola, possa incorrere nella
decadenza della fase accertativa [1]
(al 31.12.2016, a fronte della probabile udienza penale nel
2017).
Il Comune chiede inoltre se il contribuente non debba
comunque proporre ricorso contro l'avviso di accertamento
notificato, stante la perentorietà dei termini al riguardo.
In via preliminare, si precisa che l'attività di consulenza
giuridico-amministrativa svolta da questo Servizio a favore
degli enti locali è finalizzata a fornire un'illustrazione
degli istituti giuridici nell'ambito dei quali sono
riconducibili le specifiche fattispecie prospettate, fermo
restando che compete all'amministrazione procedente
determinarsi in ordine alle scelte concrete da adottare caso
per caso.
In via meramente collaborativa, si esprimono pertanto alcune
considerazioni di carattere generale.
In materia tributaria, il potere dell'amministrazione di
provvedere in via di autotutela all'annullamento d'ufficio o
alla revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non
impugnabilità [2],
degli atti illegittimi o infondati, è espressamente
riconosciuto dall'art. 2-quater, D.L. n. 564/1994 (comma 1).
Specificamente, la sospensione in autotutela degli effetti
dell'atto è normata dalle previsioni aggiunte all'art.
2-quater dall'art. 27, c. 1, L. 18.02.1999, n. 28, che è
utile riportare:
- comma 1-bis: nel potere di annullamento o di revoca di cui
al comma 1 deve intendersi compreso anche il potere di
disporre la sospensione degli effetti dell'atto che appaia
illegittimo o infondato;
- comma 1-ter: le regioni, le province e i comuni indicano,
secondo i rispettivi ordinamenti, gli organi competenti per
l'esercizio dei poteri indicati dai commi 1 e 1-bis
relativamente agli atti concernenti i tributi di loro
competenza;
- comma 1-quater: in caso di pendenza del giudizio, la
sospensione degli effetti cessa con la pubblicazione della
sentenza;
- comma 1-quinquies: la sospensione degli effetti dell'atto
disposta anteriormente alla proposizione del ricorso
giurisdizionale cessa con la notificazione, da parte dello
stesso organo, di un nuovo atto, modificativo o confermativo
di quello sospeso; il contribuente può impugnare, insieme a
quest'ultimo, anche l'atto modificato o confermato.
Ciò premesso, si osserva che l'esercizio dell'autotutela
sospensiva ha lo scopo di impedire che l'atto, per il quale
esiste il sospetto di illegittimità o di infondatezza, possa
produrre i suoi effetti durante il procedimento di riesame,
in modo da evitare, da un lato, che si produca un danno
presumibilmente ingiusto al contribuente e, dall'altro, che
l'atto sia annullato prima del completamento di tutte le
necessarie indagini [3].
Come rilevato dall'Agenzia delle entrate
[4], il potere di
sospendere l'efficacia dell'atto è infatti strumentale a
quello di annullamento: gli uffici devono pertanto valutare
le concrete possibilità che l'atto sia revocato o annullato
in via amministrativa o contenziosa ed il pericolo per il
contribuente di subire un danno grave ed irreparabile a
seguito dell'esecuzione dello stesso.
L'accertamento della sussistenza dei presupposti
dell'autotutela tributaria, in cui è compresa quella
sospensiva, espressamente prevista qualora l'atto 'appaia
illegittimo o infondato' [5]
(comma 1-bis), è rimesso alla valutazione discrezionale
dell'Ente [6].
La sospensione dell'efficacia esecutiva dell'atto che appaia
illegittimo o infondato incide solo provvisoriamente sugli
effetti dell'atto impositivo. Ai sensi del comma 1-quinquies
dell'art. 2-quater, la sospensione degli effetti dell'atto
disposta anteriormente alla proposizione del ricorso
giurisdizionale cessa con la notificazione di un nuovo atto,
modificativo o confermativo di quello sospeso. Tale
cessazione si produce anche quando intervenga un atto
consistente nella mera eliminazione dell'atto illegittimo o
infondato senza l'emissione di un nuovo atto impositivo.
Come affermato dalla giurisprudenza, nell'ambito del diritto
tributario l'esercizio del potere di autotutela incontra un
limite -oltre che nell'avvenuta formazione del giudicato
sull'atto viziato- nel decorso del termine decadenziale
fissato per l'accertamento [7].
In particolare, l'esercizio del potere di autotutela non
implica consumazione del potere impositivo, sicché rimosso
con effetto 'ex tunc' l'atto di accertamento
illegittimo od infondato, l'Amministrazione finanziaria
conserva ed anzi è tenuta ad esercitare la potestà
impositiva, rispetto alla quale incontra i limiti del
termine decadenziale previsto per la notifica degli avvisi
di accertamento [8].
Per quanto riguarda la diversa questione del rapporto tra
procedimento amministrativo di accertamento tributario e
processo penale [9],
si osserva, in via generale, quanto segue.
La Corte di Cassazione [10]
ha affermato l'utilizzabilità in sede tributaria degli
elementi raccolti dalla Guardia di Finanza a carico del
contribuente, nell'ambito di indagini penali. In
particolare, il processo verbale di constatazione ha valore
probatorio, in sede tributaria, ai sensi dell'art. 2700 c.c.
[11],
quanto ai fatti in esso descritti.
E di interesse si rivela il percorso argomentativo della
Suprema Corte. Ed invero, in quella sede, ove il punto
controverso era il fatto che i militari avessero acquisito
gli elementi rilevanti ai fini fiscali senza il necessario
rispetto delle garanzie difensive prescritte per il
procedimento penale, la Corte di Cassazione ha affermato che
l'emersione di indizi di reato, e dunque la rilevanza penale
degli accertamenti tributari, non vanifica il valore
probatorio del processo verbale di constatazione in sede
tributaria, in ragione del principio dell'autonomia del
procedimento penale rispetto alle procedure
dell'accertamento tributario, già sancito, in linea di
principio, nel D.L. n. 429 del 1982, art. 12, e confermato
dal D.Lgs. 10.03.2000, n. 74, art. 20 [12],
in armonia con le disposizioni generali dettate dagli artt.
2 e 654 c.p.p. e 220 disp. att. c.p.p. [13].
Inoltre, muovendo dal principio dell'autonomia normato
dall'art. 20, D.Lgs. n. 74/2000, la Corte di Cassazione ha
altresì escluso l'automatica rilevanza del giudicato penale
nel giudizio tributario. Il Giudice tributario non può
estendere automaticamente gli effetti di una sentenza penale
irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in
materia di reati fiscali, con riguardo all'azione
accertatrice del singolo ufficio tributario, ancorché i
fatti esaminati in sede penale siano quelli stessi che
fondano l'accertamento, ma deve verificarne la rilevanza
nell'ambito specifico in cui esso è destinato ad operare
[14].
La pronuncia, seppur riferita al rapporto tra giudicato
penale e giudizio tributario, sembrerebbe suscettiva di
estendersi, in virtù del richiamo dell'art. 20, D.Lgs. n.
74/2000, anche al rapporto tra procedimento amministrativo
tributario e giudicato penale.
Va, altresì, precisato che il D.Lgs. n. 74/2000 reca la 'Nuova
disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul
valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge
25.06.1999, n. 205'. Peraltro, l'apprezzamento dei
Giudici di legittimità del principio dell'autonomia ivi
previsto (art. 20) in termini di continuità rispetto a
quanto già sancito in linea di principio dal D.L. n.
429/1982 [15],
e di coerenza con le disposizioni generali codicistiche
[16],
sembrerebbe poter far propendere, in un'ottica di
interpretazione sistematica, per la sua estensione generale
nel contesto dei procedimenti amministrativi di accertamento
tributario.
Per quanto concerne, infine, la necessità del rispetto da
parte del contribuente dei termini previsti per
l'impugnazione dell'avviso di accertamento, si rileva che la
presentazione dell'istanza di sospensione in autotutela non
sospende i termini per proporre ricorso al Giudice
[17].
Parimenti, si ritiene che l'esercizio dell'autotutela
sospensiva, ex art. 2-quater, comma 1-quinquies, D.L. n.
564/1994, non possa sospendere i termini per impugnare,
attesa l'indisponibilità di detti termini perentori
[18].
La Suprema Corte -se pur in un caso di silenzio opposto
dall'amministrazione sull'istanza di autotutela, e quindi di
mancato esercizio dell'autotutela- ha affermato che
l'efficacia ed esecutività del provvedimento impositivo è
condizionata soltanto al decorso del termine previsto dalla
legge per l'impugnazione che, in quanto termine di
decadenza, può essere validamente interrotto esclusivamente
con il compimento dell'atto (proposizione del ricorso)
previsto espressamente dalla legge (art. 2964 c.c.)
[19].
---------------
[1] Ai sensi dell'art. 1, comma 161, L. n. 296/2006, gli
enti locali notificano gli avvisi di accertamento, in
rettifica e d'ufficio, a pena di decadenza, entro il 31
dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la
dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto
essere effettuati.
[2] L'autotutela tributaria è possibile anche se l'atto è
divenuto ormai definitivo per avvenuto decorso dei termini
per impugnare (Cfr. Stefano Compagno, I limiti
all'autotutela tributaria su atti non impugnabili, in
Diritto&Diritti, settembre 2002).
[3] Cfr. Agenzia delle entrate, Direzione Regionale della
Calabria, Catanzaro 29.12.2010, n. 24477.
[4] Si veda Agenzia delle entrate, Direzione centrale
Normativa e Contenzioso, risoluzione 07.02.2007, n. 21, sia
pure con specifico riferimento alla sospensione della
riscossione, ai sensi dell'art. 39 DPR 602/1973, in cui si
precisa che 'ancor prima di accordare la sospensione della
riscossione, che deve essere richiesta nell'ambito della
procedura di autotutela, gli Uffici sono tenuti a valutare
le concrete possibilità che l'atto che ha dato origine
all'iscrizione al ruolo sia revocato o annullato in via
amministrativa o contenziosa (valutazione del c.d. fumus
boni juris). Inoltre occorre valutare il pericolo per il
contribuente di subire un danno grave ed irreparabile a
seguito della riscossione coattiva (c.d. periculum in
mora).'.
[5] L'illegittimità riguarda gli errori che attengono agli
aspetti procedimentali dell'attività istruttoria o alla
formale redazione dell'atto, nonché gli errori di diritto
(c.d. vizi dell'atto). L'infondatezza, invece, attiene agli
errori sui fatti oggetto d'imposizione ed alle questioni
estimative inerenti alla qualificazione e/o quantificazione
della materia imponibile (c.d. vizi della pretesa). Cfr.
Agenzia delle entrate, Direzione Regionale della Calabria,
n. 24477/2010, cit..
[6] La natura eminentemente discrezionale dell'autotutela
tributaria è rimarcata dalla Corte di cassazione, che
precisa che la posizione del contribuente in ordine ad un
atto di autotutela non costituisce diritto soggettivo ma
interesse legittimo, e può trovare tutela nell'ambito della
giurisdizione tributaria, ove il sindacato del giudice dovrà
limitarsi alla legittimità dell'operato dell'amministrazione
(anche in caso di inerzia) e non al merito, non essendo
possibile la sostituzione del Giudice tributario
all'Amministrazione nell'adozione di un atto di autotutela.
(Cass. civ, sez. trib., 29.12.2010, n. 26313. Conformi:
Cass. civ, sez. un., 27.03.2007, n. 7388).
Inoltre -afferma Cass. civ. n. 26814/2014, cit.- tanto
l'istanza di autotutela, quanto il silenzio opposto
dall'Amministrazione finanziaria, così come la sua
impugnazione (ove si voglia propendere per la sua
impugnabilità, secondo i ragionamenti giurisprudenziali
nella sentenza riassunti) non possono in alcun modo spiegare
effetti sul rapporto tributario fondato sull'avviso di
accertamento, destinato a divenire definitivo ed
incontestabile in difetto della tempestiva impugnazione, nel
termine di decadenza previsto dall'art. 21, c. 1, D.Lgs. n.
546/1992 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione
della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge
30.12.1991, n. 413). L'efficacia ed esecutività del
provvedimento impositivo -precisa la Suprema Corte- è
condizionata soltanto al decorso del termine previsto dalla
legge per la impugnazione che, in quanto termine di
decadenza può essere validamente interrotto esclusivamente
con il compimento dell'atto (proposizione del ricorso)
previsto espressamente dalla legge (art. 2964 c.c.).
[7] Cass. civ., sez. trib., 26.03.2010, n. 7335; Cass. civ.,
sez. trib., 22.02.2002, n. 2531.
[8] Cass. civ., sez. trib., 08.10.2013, n. 22827, che
richiama Cass. civ., sez. trib., 20.11.2006, n. 24620.
Conforme, Cass. civ., sez. trib., 16.07.2003, n. 11114.
[9] Nel caso in esame, la richiesta di autotutela del
contribuente è motivata dalla pendenza di un procedimento
penale avente ad oggetto il processo verbale di
constatazione della Guardia di Finanza, che -secondo quanto
asserito- per costituire valido presupposto dell'avviso di
accertamento dovrebbe essere accompagnato da una sentenza
definitiva, rappresentando mero elemento investigativo di
un'indagine condotta in autonomo giudizio.
[10] Cass. civ., sez. trib., 12.11.2010, n. 22984.
[11] Ai sensi dell'art. 2700 c.c. 'l'atto pubblico fa piena
prova, fino a querela di falso, della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché
delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il
pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui
compiuti'.
[12] Ai sensi dell'art. 20 in argomento, 'Il procedimento
amministrativo di accertamento ed il processo tributario non
possono essere sospesi per la pendenza del procedimento
penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui
accertamento comunque dipende la relativa definizione'.
[13] Cass. civ., n. 22984/2010, cit., osserva che gli artt.
2 c.p.p. e 654 c.p.p. affermano l'uno l'autonomia del
giudice penale nel decidere incidenter tantum le questioni
civili o amministrative, l'altro l'autonomia del giudice
civile o amministrativo quando sia diverso il regime
probatorio (anche Cass. civ., sez. trib., 27 febbraio 2013,
n. 4924, rileva che il processo penale e il processo
tributario poggiano su un sistema probatorio sostanzialmente
diverso). L'art. 220 disp. att. c.p.p. impone l'obbligo del
rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale,
quando nel corso di indagini ispettive emergano indizi di
reato, ma soltanto ai fini della 'applicazione della legge
penale'.
[14] Cass. civ., sez. trib., n. 4924/2013, cit..
[15] Recante 'Norme per la repressione della evasione in
materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per
agevolare la definizione delle pendenze in materia
tributaria'.
[16] Artt. 2 e 654 c.p.p. e 220 disp. att. c.p.p. richiamati
dalla Suprema Corte.
[17] Cfr. Cass. civ., sez. trib., 18.12.2014, n. 26814,
secondo cui l'istanza di autotutela non può spiegare effetti
sul rapporto tributario fondato sull'avviso di accertamento,
destinato a divenire definitivo ed incontestabile in difetto
della tempestiva opposizione nel termine di decadenza
previsto dall'art. 21, comma 1, del D.lgs. 546/1992.
[18] Così Baldassarre Gullo, L'autotutela sospensiva, uno
strumento poco noto, su Fisco oggi, 14.01.2008; Pasquale
Mirto, Manuale operativo per l'applicazione della IUC,
Maggioli, 2014, pag. 355, secondo cui il comune può
sospendere il pagamento di un atto di accertamento, ma non
può sospendere i termini di impugnazione, in quanto essendo
questi previsti dalla legge a pena di inammissibilità sono
termini indisponibili dalle parti. Si segnala, peraltro, che
parte della dottrina ritiene, in senso difforme, che si
tratti di un istituto cui consegue in via di eccezione la
sospensione dei termini per proporre ricorso giurisdizionale
(Massimo Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di
tutela. Lezioni sul processo tributario, Giappichelli, 2013,
p. 57; Augusto Fantozzi, Diritto tributario, Wolters Kluwer
Italia, 2012, p. 1014).
[19] Cassazione civ., sez. trib., n. 26814/2014, cit. (21.10.2016
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un consigliere comunale per lite pendente.
Nel caso di sussistenza della causa di
incompatibilità per lite pendente, il consigliere comunale
interessato, ai fini della sua rimozione, può rassegnare le
proprie dimissioni dalla carica di amministratore locale
nelle forme e modalità prescritte dalla legge o, in
alternativa, rimuovere la causa di incompatibilità
rinunciando alla lite in essere.
A tale ultimo riguardo, si rileva che la rinuncia agli atti
del giudizio, quale inequivoca manifestazione di volontà di
abbandono, sostanziale e incondizionata, della lite comporta
la rimozione della causa di incompatibilità di cui
all'articolo 63, comma 1, num. 4), del TUEL non essendo, a
tale fine, necessaria una formale pronuncia di estinzione
del procedimento da parte del giudice.
Il Comune chiede un parere in merito alla causa di
incompatibilità per lite pendente in cui verserebbe un
consigliere comunale. In particolare, premesso che
l'amministratore locale ha notificato al Comune un ricorso
in opposizione a una sanzione amministrativa comminatagli
per violazione delle norme dettate in tema di propaganda
elettorale, chiede chiarimenti in ordine a due possibilità
di cui il consigliere potrebbe avvalersi per rimuovere
l'indicata causa di incompatibilità: la presentazione di
dimissioni dalla carica di amministratore locale o, in
alternativa, la rinuncia alla lite.
L'articolo 63, comma 1, num. 4), del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 stabilisce che non può ricoprire la
carica di consigliere comunale colui che ha lite pendente,
in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo
con il comune. [1]
La giurisprudenza ha chiarito che la ratio
dell'incompatibilità in parola risiede nell'esigenza che
l'amministratore locale eserciti le funzioni istituzionali
in modo trasparente ed imparziale, senza prestare il fianco
al sospetto che la sua condotta possa essere orientata
dall'intento di tutelare il proprio interesse personale
contrapposto a quello dell'ente. [2]
Il successivo articolo 69 TUEL detta la procedura volta alla
contestazione, da parte del consiglio comunale, della causa
di incompatibilità. In particolare, il comma 2 dell'indicato
articolo prevede che: 'L'amministratore locale ha dieci
giorni di tempo per formulare osservazioni o per eliminare
le cause di [...] incompatibilità'. Il successivo comma
4 della medesima norma dà al consigliere un'ulteriore
possibilità di rimuovere la causa di incompatibilità
ritenuta esistente dal consiglio. [3]
Qualora, dunque, l'amministratore decidesse di rassegnare le
proprie dimissioni dalla carica dovrebbe farlo nelle forme e
con le modalità prescritte dall'articolo 38, comma 8, del
D.Lgs. 267/2000 ai sensi del quale: 'Le dimissioni dalla
carica di consigliere, indirizzate al rispettivo consiglio,
devono essere presentate personalmente ed assunte
immediatamente al protocollo dell'ente [...]. Esse sono
irrevocabili, non necessitano di presa d'atto e sono
immediatamente efficaci'.
In relazione alle modalità di presentazione, il Ministero
dell'Interno, con circolare 07.06.2004, prot. n.
25000/3038/20040149, ha chiarito che, in base al novellato
articolo 38, comma 8, del D.Lgs. 267/2000 assumono rilevanza
giuridica solo le dimissioni presentate personalmente al
protocollo dell'ente da coloro che intendono dismettere la
carica, precisando che, in alternativa alla presentazione
personale, la medesima norma stabilisce che l'atto di
dimissioni produce effetti giuridici solo se autenticato ed
inoltrato al protocollo per il tramite di persona delegata
con atto autenticato in data non anteriore a cinque giorni.
Pertanto, in considerazione degli adempimenti formali
introdotti dalla modifica legislativa, intesi a garantire
l'autenticità e l'attualità della volontà del consigliere di
dismettere la carica, si ritengono prive di efficacia le
dimissioni presentate con modalità diverse da quelle
previste dalla legge.
Con riferimento, invece, alla rinuncia alla lite, premesso
che la fattispecie in esame riguarda un'opposizione ad
un'ordinanza-ingiunzione di pagamento di una sanzione
amministrativa, [4]
si rileva che la norma di riferimento è l'articolo 306
c.p.c. (rubricato 'Rinuncia agli atti del giudizio')
il quale recita:
'Il processo si estingue per rinuncia agli atti del
giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite
che potrebbero aver interesse alla prosecuzione.
L'accettazione non è efficace se contiene riserve o
condizioni.
Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte
dalle parti o da loro procuratori speciali, verbalmente
all'udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre
parti.
Il giudice, se la rinuncia e l'accettazione sono regolari,
dichiara l'estinzione del processo.
[...]'.
Stante il disposto di cui al summenzionato articolo 306,
secondo comma, c.p.c., e in forza delle pronunce
giurisprudenziali che si sono espresse sull'argomento
[5], la
rinuncia può essere fatta anche mediante atto scritto
extraprocessuale debitamente notificato alle altre parti.
La rinuncia gli atti del giudizio, quale inequivoca
manifestazione di volontà di abbandono, sostanziale e
incondizionata, della lite comporta la rimozione della causa
di incompatibilità di cui all'articolo 63, comma 1, num. 4),
del TUEL non essendo, a tale fine, necessaria una formale
pronuncia di estinzione del procedimento da parte del
giudice. In tal senso si è espressa la giurisprudenza la
quale ha affermato che: '[...] con riguardo alla causa di
incompatibilità per lite pendente con il comune prevista
dall'art. 3 n. 4 legge n. 154 del 1981 cit.,[6] il momento
ultimativo per la sua rimozione mediante la rinunzia al
giudizio deve intendersi, anche nella nuova disciplina della
elezione diretta del sindaco, quello della prima seduta del
consiglio comunale indetta a norma dell'art. 1, comma 2-bis,
legge n. 81 del 1993 cit. senza che rilevi, una volta che la
rinuncia sia stata portata a conoscenza dell'Ente, il
compimento delle formalità necessarie per la dichiarazione
di estinzione del processo' [7].
Anche il Ministero dell'Interno, intervenuto sull'argomento,
ha fatto proprio l'orientamento giurisprudenziale affermando
che: '[...] si rappresenta che, per giurisprudenza
costante della Corte di Cassazione, per la rimozione della
causa di incompatibilità per lite pendente prevista per il
sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale,
provinciale e circoscrizionale dal citato art. 63, comma 1,
n. 4, non è necessaria una formale pronuncia di estinzione
del procedimento, ma è sufficiente che siano posti in essere
atti idonei a far venir meno il conflitto tra gli stessi
quali, ad esempio, la transazione e la rinuncia agli atti
del giudizio, nella fattispecie effettuata
dall'amministratore, cioè da parte del destinatario della
disposizione'. [8]
Da ultimo, con riferimento al procedimento volto alla
contestazione della causa di incompatibilità, disciplinato
dall'articolo 69 TUEL, si rileva che esso si articola in più
fasi che terminano, qualora la causa di incompatibilità sia
ritenuta esistente dal consiglio comunale e non sia stata
rimossa dall'amministratore, con la decadenza dello stesso
dalla carica (articolo 69, comma 5, TUEL).
Fino a quando non è adottata la deliberazione che dichiara
la decadenza, l'amministratore mantiene la sua qualità di
consigliere con tutti i diritti ed obblighi connessi.[9]
Segue che finché non interviene tale dichiarazione 'la
partecipazione del consigliere alle deliberazioni del
consiglio non ne vizia la legittimità e non determina
responsabilità per i componenti dell'organo'.
[10]
---------------
[1] Per completezza espositiva si segnala che il comma 3
dell'articolo 63 TUEL prevede che: 'L'ipotesi di cui al
numero 4) del comma 1 non si applica agli amministratori per
fatto connesso con l'esercizio del mandato.' La Corte di
Cassazione, in merito a detta esimente ha, con sentenza del
04.03.2016, n. 4258, affermato che: «[...] la deroga
correlata all'ipotesi in cui la lite riguardi un fatto
connesso con l'esercizio del mandato ha una 'ratio'
evidente, consistente nell'intento di escludere fra le cause
di incompatibilità quelle controversie insorte per il
perseguimento degli interessi generali e non già per fini
personali dell'amministratore, di talché deve tenersi
presente che detta deroga è volta a salvaguardare il libero
esercizio delle funzioni dal timore di incorrere in
situazioni di incompatibilità, magari artatamente
predisposte nell'ambito della lotta politica [...]».
[2] Corte di Cassazione, sez. I, sentenza del 04.05.2002, n.
6426.
[3] Recita, in particolare, l'articolo 69, comma 4, TUEL:
'Entro i 10 giorni successivi alla scadenza del termine di
cui al comma 2 il consiglio delibera definitivamente e, ove
ritenga sussistente la causa di ineleggibilità o di
incompatibilità, invita l'amministratore a rimuoverla o ad
esprimere, se del caso, la opzione per la carica che intende
conservare'.
[4] L'articolo 76 della legge regionale 18.12.2007, n. 28
(richiamato dall'articolo 77, comma 1, della legge regionale
05.12.2013, n. 19), al comma 5, recita: 'L'applicazione
delle sanzioni amministrative è disciplinata dalla legge
regionale 17.01.1984, n. 1 (Norme per l'applicazione delle
sanzioni amministrative regionali), e successive modifiche'.
La legge regionale 1/1984, all'articolo 19, primo comma,
prevede che: 'Contro l'ordinanza-ingiunzione di pagamento
[...], gli interessati possono proporre opposizione ai sensi
degli articoli 22 e 23 della legge 24.11.1981, n. 689'. In
particolare, l'articolo 22 della legge 689/1981 dispone che
l'opposizione è regolata dall'articolo 6 del decreto
legislativo 01.09.2011, n. 150 il quale ultimo recita: 'Le
controversie previste dall'articolo 22 della legge
24.11.1981, n. 689, sono regolate dal rito del lavoro, ove
non diversamente stabilito dalle disposizioni del presente
articolo'.
[5] Così, Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza del
13.08.1997, n. 7565 la quale afferma che: 'La rinuncia agli
atti del giudizio non deve necessariamente avere le forme di
un atto processuale, ma può essere contenuta in qualsiasi
atto sottoscritto dalle parti, anche stragiudiziale, che
dimostri sicuramente la loro volontà di porre fine al
giudizio'. Nello stesso senso, Cassazione civile, sez. I,
sentenza del 07.03.1984, n. 1581 la quale recita: 'La
rinuncia agli atti del giudizio è valida ed efficace anche
se compiuta mediante atto scritto extraprocessuale [...]'.
[6] L'articolo 3, n. 4 della legge 154/1981, abrogata
dall'articolo 274 del D.Lgs. 267/2000, conteneva una
previsione analoga all'articolo 63, comma 1, num. 4) TUEL.
[7] Cassazione civile, sez. II, sentenza del 13.09.1996, n.
8271. Nello stesso senso si veda Cassazione civile, sez. I,
sentenza del 30.04.1992, n. 5216 ove si afferma che:
'L'incompatibilità con la carica di consigliere comunale (di
cui all'art. 3, 1° comma, n. 4 l. 23.04.1981 n. 154) nei
confronti di colui che sia parte di un procedimento civile o
amministrativo contro il comune (per una lite effettivamente
pendente, e non meramente potenziale) è rimossa se, prima
della delibera di convalida dell'elezione, sono posti in
essere atti idonei a far venire meno, nella sostanza, il
conflitto, tra l'eletto e l'ente territoriale -quali la
transazione, la rinuncia agli atti del giudizio da parte
dell'eletto o (con riferimento alla disciplina anteriore
all'entrata in vigore della l. 08.06.1990 n. 142) l'espresso
diniego della ratifica, da parte del consiglio comunale,
della delibera della giunta con la quale era stata
autorizzata l'azione contro il privato- senza che sia
necessaria anche una formale pronuncia di estinzione del
procedimento, da parte del giudice investito della lite'.
Interessante anche la pronuncia della Cassazione civile,
sez. I, del 24.02.2005, n. 3904 ove si afferma che: '[...]
per la sua valida ed efficace rimozione [della causa di
incompatibilità], è necessario e sufficiente che il
soggetto, il quale versi in una situazione siffatta, ponga
in essere atti idonei anche se non formalmente perfetti
rispetto alla specifica disciplina che eventualmente li
regoli a far venir meno, nella sostanza, l'incompatibilità
d'interessi realizzatasi a seguito dell'instaurazione della
lite medesima (cfr., ad es., Cass. n. 5216 del 1992): e ciò,
in quanto se la ratio della causa di incompatibilità in
esame trova fondamento e giustificazione nel pericolo che il
conflitto d'interessi che ha determinato la lite, possa
condizionare le scelte del candidato o dell'eletto in
pregiudizio dell'ente territoriale, o, comunque, possa
ingenerare, all'esterno, sospetti al riguardo (cfr., Cass.
n. 12627 del 1998 e 10335 del 2001 cit.) il sostanziale ed
incondizionato abbandono della lite stessa (cfr., Cass. n.
1859 del 1982) elimina in radice questa ragione di
incompatibilità'.
[8] Ministero dell'Interno, parere del 06.07.2009.
[9] In questo senso ANCI, parere del 26.08.2005, nel quale
si afferma che 'il consigliere comunale non decade dalla
carica solo perché si è prodotta a suo carico la situazione
di incompatibilità. La decadenza si ricollega invece alla
instaurazione del procedimento ex art. 69 d.lgs. 267/2000 ed
al pronunciamento del consiglio Comunale sulla persistente
incompatibilità dell'amministratore locale'.
[10] In questo senso parere ANCI del 26.01.2007. Nello
stesso senso parere del 27.05.2009 (18.10.2016
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ENTI LOCALI:
I sussidi alle associazioni.
DOMANDA:
Con la presente si chiede di sapere se i contributi
economici erogati a Cooperative Sociali, Associazioni e
Parrocchie sono assoggettati o meno alla ritenuta di acconto
del 4% di cui all'ex art. 28 del d.p.r. n. 600/1973.
In particolare si precisa che in alcuni casi tali contributi
vengono erogati a fronte della stipula di una convenzione
che prevede l'impegno del beneficiario di garantire un
servizio.
Infine si rappresenta l'esigenza di sapere se tali sussidi
possono essere liquidati anticipatamente oppure solo ad
iniziativa conclusa previa esibizione di rendiconto spese.
RISPOSTA:
Va preliminarmente precisato che le cooperative sociali, in
quanto “onlus di diritto” ai sensi dell’art. 10, c.
8, del D.lgs. 460/1997, non sono in ogni caso soggette alla
ritenuta di cui all'art. 28 del DPR 600/1973, in quanto
l’art. 16 del predetto decreto 460 esclude tale prelievo
alla fonte per tutte le onlus.
Fatta la premessa, si fa osservare che al quesito,
riferendosi ad associazioni, parrocchie e, comunque, ad enti
non profit, può essere data una risposta in termini generali
dato che dovrebbero essere analizzati caso per caso i
rapporti giuridici sorti tra le parti.
Si deve innanzitutto verificare se gli eventi sovvenzionati
costituiscono attività commerciali o meno e, in caso
affermativo, se i proventi che ne derivano sono di
competenza del comune o dell’associazione. Ciò è
determinante in particolare per comprendere se
l’associazione sta effettuando un servizio per conto del
comune. Nel caso in cui quest’ultimo incassi direttamente i
proventi è presumibile che l’associazione sia obbligata a
svolgere un’attività che deve essere assoggettata ad IVA ex
artt. 3 e 4 DPR 633/1972, laddove avente carattere di
abitualità.
Se la titolarità dei proventi è dell’associazione e gli
stessi hanno rilevanza IRES e IVA in quanto riferiti a
cessioni di beni o prestazioni di servizi resi a soggetti
non soci (art. 148, c. 2, TUIR, art. 4, c. 5, DPR 633/1972),
il “contributo” comunale dovrà essere:
a) assoggettato a ritenuta d’acconto ex art. 28 DPR 600/73 se non
c’è diretta connessione tra la sovvenzione comunale e i
corrispettivi che i terzi dovranno pagare per fruire
dell’evento;
b) assoggettato a ritenuta e ad IVA (quella applicabile alle
prestazioni rese all’utenza) qualora la sovvenzione sia
calmieratrice dei corrispettivi dovuti dall’utenza, cioè sia
tale da essere in diretta connessione con i medesimi (art.
13, c. 1, DPR 633/1972).
Ciò avviene in particolare quando “il tariffario”
delle prestazioni è concordato tra comune e associazione.
Qualora non si sia in presenza di attività commerciale
(assenza di proventi) e l’organizzazione dell’evento sia
riferibile all’associazione, non si applicherà né ritenuta
né IVA sul contributo, stanti l’irrilevanza IRES (art. 149,
c. 1, lett. c, TUIR) e la carenza dei presupposti oggettivo
e soggettivo di cui ai predetti artt. 3 e 4 del decreto 633.
Riguardo alla tempistica di erogazione delle somme in
argomento, se trattasi di sussidi (soggetti a ritenuta ma
non ad IVA), l’erogazione dovrà essere effettuata nel
rispetto di quanto previsto dal regolamento ex art. 12 del
D.lgs. 241/1990.
Se, viceversa, si trattasse di corrispettivi, i principi
generali che regolano l’attività contrattuale della PA,
impongono che, al più, possano essere erogati acconti (da
regolamentare in sede contrattuale) per le forniture di
servizi, nelle more dell’esecuzione delle medesime, salvo
saldo finale. In assenza di previsione contrattuale, il
pagamento può avvenire soltanto ad ultimazione (link
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EDILIZIA PRIVATA:
La prescrizione degli oneri di urbanizzazione.
DOMANDA:
Nel 2002 una ditta ha presentato una pratica edilizia e
provveduto al versamento al Comune dei relativi oneri di
urbanizzazione nel marzo 2004. I lavori di cui alla pratica
non sono però mai stati eseguiti, l’ente non ha mai
rilasciato titolo abilitativo né il richiedente ha
presentato alcuna richiesta di rimborso degli oneri versati.
Nel dicembre 2004 la stessa ditta presentava una richiesta
di condono edilizio relativa allo stesso fabbricato. Il
Comune ha definendo la pratica di condono e richiede il
pagamento di quanto dovuto.
La ditta chiede la possibilità di compensare quanto deve
versare per il condono edilizio con la somma pagata a titolo
di oneri per la prima pratica edilizia con conseguente
recupero della differenza (il costo del condono è inferiore
a quanto versato a titolo di oneri di urbanizzazione).
Si chiede il vs. parere sulla possibilità da parte dell’Ente
di accettare tale compensazione anche alla luce della
prescrizione decennale.
RISPOSTA:
In via di principio le somme versate a titolo di oneri
concessori devono essere restituite all'interessato se alla
richiesta del titolo abilitativo non è poi effettivamente
seguita alcuna attività edilizia. Si tratta infatti di una
obbligazione strettamente connessa e fondata sul maggior
carico urbanistico che deriva dalla nuova costruzione la
quale, se non eseguita, fa quindi venir meno direttamente il
relativo presupposto applicativo.
Va tuttavia verificato se il credito non fosse già
prescritto al momento della richiesta di restituzione. Al
riguardo si osserva che, secondo i principi generali, il
termine dal quale inizia a decorrere il momento di
prescrizione decennale del diritto alla restituzione degli
oneri di urbanizzazione, derivante dal fatto che, a seguito
della intervenuta decadenza del titolo edilizio per mancato
inizio dei lavori nel termine di legge, l’intervento
edificatorio non è più stato realizzato, va individuato nel
momento in cui il diritto al rimborso può essere
effettivamente esercitato: coincidendo –detto termine– p.es.
nella data di scadenza del termine annuale di decadenza per
mancato inizio dei lavori relativi al titolo edilizio:
scaduto il termine per l’inizio dei lavori il privato ha
diritto di richiedere al Comune la restituzione delle somme
versate, non potendo dar corso all'intervento assentito
poiché i termini per potere iniziare i lavori sono scaduti,
senza incorrere nella decadenza.
In sostanza si ritiene in genere che il termine iniziale
della prescrizione decorra dalla data di rilascio del titolo
edilizio e cioè dal momento in cui il diritto al rimborso
poteva essere effettivamente esercitato. La giurisprudenza
amministrativa ha osservato che “per i diritti di
credito, la realizzazione dei quali esige un’attività del
creditore, la prescrizione decorre dal giorno in cui
l’attività poteva essere compiuta ed egli poteva, così,
mettersi in grado di esigere la prestazione dovuta … sia
perché l’inerzia del titolare del diritto assume rilevanza
dal momento in cui è possibile esercitare il diritto”
(v. Cons. Stato, Sez. V, 19.06.2003 n. 954; TAR Campania–SA-
Sez. II, 28.02.2008 n. 247).
D'altronde secondo lo stesso art. 2935 c.c., il termine di
prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il
diritto può essere fatto valere; pertanto, il diritto di
credito del titolare di una concessione edilizia non
utilizzata, di ottenere la restituzione dalla P.A. delle
somme corrisposte per oneri di urbanizzazione, decorre non
già dalla data del rilascio dell’atto di assenso
edificatorio, bensì dalla data in cui il titolare comunica
alla amministrazione la propria intenzione di rinunciare al
titolo abilitativo, o dalla data di adozione da parte della
P.A. del provvedimento che dichiara la decadenza del
permesso di costruire per scadenza dei termini iniziali o
finali o per l’entrata in vigore delle previsioni
urbanistiche contrastanti (TAR Lombardia–Milano, sez. II,
24.03.2010, n. 728).
Ciò premesso e con riguardo alla fattispecie oggetto del
quesito, laddove si espone che la concessione non sia stata
mai rilasciata, si ritiene opportuno pertanto verificare, ai
fini di stabilire correttamente la data di decorrenza della
prescrizione, le ragioni per le quali in concreto il
procedimento edilizio, pur dopo il versamento degli oneri,
non sia proseguito fino al rilascio del provvedimento e se
eventualmente siano intercorse eventuali rinunce
dell’interessato, archiviazioni della pratica ecc. (in
difetto delle quali la decorrenza potrebbe anche ipotizzarsi
dal compimento del tempo previsto come necessario alla
definizione del procedimento.
L’amministrazione avrà inoltre cura di accertare se nella
fattispecie la eccezione di compensazione possa trovare
comunque luogo sulla base della regola di cui all'art. 1242,
2° comma, cod. civ. secondo cui “la prescrizione non
impedisce la compensazione se non era compiuta quando si è
verificata la coesistenza dei due debiti” (link
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APPALTI:
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 31. Responsabile unico del
procedimento.
Il decreto legislativo 18.04.2016, n.
50, definisce, all'art. 31, ruolo e funzioni del
responsabile del procedimento negli appalti e nelle
concessioni. In particolare, al comma 5, rimette all'ANAC la
definizione di una disciplina di maggior dettaglio sui
compiti specifici del RUP 'nonché sugli ulteriori requisiti
di professionalità (...),' attraverso un atto da adottare
entro novanta giorni dall'entrata in vigore del codice.
Al momento l'ANAC non ha emanato la versione definitiva
delle Linee guida relative alla figura del RUP. Peraltro, in
attesa della versione definitiva delle Linee guida, si
ritiene applicabile la disposizione di cui all'art. 31,
comma 1, che rimette alla discrezionalità delle stazioni
appaltanti l'individuazione del RUP, sulla base
dell'inquadramento giuridico e delle competenze
professionali ritenute adeguate.
Il Comune chiede un parere in relazione ai requisiti
necessari per ricoprire l'incarico di responsabile unico del
procedimento (RUP), in particolare per quanto attiene
all'affidamento di appalti di forniture e servizi
sottosoglia, con specifico riferimento al requisito del
possesso di diploma di istruzione superiore di secondo grado
rilasciato da un istituto tecnico superiore al termine di un
corso di studi quinquennale.
Il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante il cd.
nuovo Codice dei contratti, definisce, all'art. 31, ruolo e
funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e
nelle concessioni. In particolare, per quanto attiene ai
requisiti per la nomina, al comma 1 si stabilisce che il RUP
'è nominato con atto formale del soggetto responsabile
dell'unità organizzativa, che deve essere di livello
apicale, tra i dipendenti di ruolo addetti all'unità
medesima, dotati del necessario livello di inquadramento
giuridico in relazione alla struttura della pubblica
amministrazione e di competenze professionali adeguate in
relazione ai compiti per cui è nominato.'
Successivamente, al comma 5, il legislatore rimette all'ANAC
la definizione di una disciplina di maggior dettaglio sui
compiti specifici del RUP 'nonché sugli ulteriori
requisiti di professionalità (...),' attraverso un atto
da adottare entro novanta giorni dall'entrata in vigore del
codice.
In data 29.04.2016 l'ANAC ha sottoposto a consultazione
pubblica, tra le altre, le linee guida relative a 'Nomina,
ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per
l'affidamento di appalti e concessioni'; inoltre
l'Autorità, in considerazione della rilevanza generale di
questa e di altre determinazioni assunte, ha deliberato di
acquisire ulteriori pareri (del Consiglio di Stato e delle
Commissioni parlamentari competenti) prima di procedere
all'approvazione finale e alla successiva pubblicazione dei
documenti definitivi.
Con specifico riferimento alla questione in esame, si
osserva che nella proposta di linee guida, al Capo IV, punto
1.3, lett. a), si dispone che 'Per i servizi e le
forniture di importo pari o inferiore alle soglie di cui
all'art. 35 del Codice, il RUP è in possesso di diploma di
istruzione superiore di secondo grado rilasciato da un
istituto tecnico superiore al termine di un corso di studi
quinquennale e un'anzianità di servizio ed esperienza di
almeno tre anni nell'ambito dell'affidamento di appalti e
concessioni di servizi e forniture'.
Tuttavia, in considerazione del fatto che l'ANAC non ha
ancora emanato la versione definitiva delle citate linee
guida, pare potersi ritenere applicabile, allo stato
attuale, la più generica disposizione di cui al citato art.
31, comma 1, che rimette alla discrezionalità delle stazioni
appaltanti l'individuazione del RUP, sulla base
dell'inquadramento giuridico e delle competenze
professionali ritenute adeguate [1].
---------------
[1] Corre l'obbligo di osservare che, a parere di chi
scrive, la disposizione transitoria contenuta nell'ultimo
periodo dell'art. 31, comma 5, laddove si dice che 'Fino
all'adozione di detto atto si applica l'articolo 216, comma
8' sembra riferirsi ai soli appalti di lavori, atteso che
quest'ultima norma opera un rinvio al regolamento di
attuazione del codice precedentemente in vigore ('Fino
all'adozione dell'atto di cui all'articolo 31, comma 5,
continuano ad applicarsi le disposizioni di cui alla parte
II, titolo I, capo I, del decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207'), segnatamente agli articoli
9 e 10, che riguardano la definizione di funzioni e compiti
del responsabile del procedimento per la realizzazione di
lavori pubblici. Peraltro, per quanto attiene proprio gli
appalti di lavori pubblici, si segnala che nella Regione
Friuli Venezia Giulia è tuttora vigente la legge regionale
31.05.2002, n. 14, a cui riferirsi per la disciplina del RUP (14.10.2016
-
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ENTI LOCALI:
Azienda pubblica servizi alla persona. Conferimento
congiunto incarico revisore dei conti e OIV.
L'ANAC ha precisato, in relazione alla
nomina dei componenti dell'OIV (organismo indipendente di
valutazione), di non poter esprimere parere favorevole nei
confronti di coloro che siano revisori dei conti presso la
medesima amministrazione.
Inoltre, le disposizioni introdotte in materia dall'art. 6
della l.r. 16/2010 si applicano esclusivamente alle
amministrazioni appartenenti al comparto unico del pubblico
impiego regionale e locale.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine ad alcuni dubbi emersi
sulla possibilità di conferire l'incarico di revisore dei
conti e di OIV (organismo indipendente di valutazione) in
capo al medesimo soggetto.
Si osserva a tal proposito che l'ANAC [1],
in merito alla sussistenza di conflitto d'interesse e cause
ostative alla nomina dei componenti dell'organismo in esame,
ha precisato che, in sede di formulazione dei criteri cui
ispirare le proprie decisioni, non avrebbe comunque espresso
parere favorevole (in analogia con le previsioni della l. n.
190/2012 e tenendo conto dello spirito che la anima) nei
confronti di coloro che siano revisori dei conti presso la
medesima amministrazione.
Premesso un tanto, si evidenzia che le disposizioni
introdotte all'art. 6 della l.r. 16/2010, nel dettare una
specifica disciplina in materia di valutazione della
prestazione organizzativa e individuale da parte di un
organismo all'uopo costituito, sono rivolte esclusivamente
alle amministrazioni del comparto unico del pubblico impiego
regionale e locale.
Inoltre il comma 4 del citato articolo stabilisce che, ai
fini del contenimento della spesa corrente degli enti
locali, nei Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti le
competenze attribuite all'organismo indipendente di
valutazione possono essere conferite all'organo di revisione
dell'ente.
Si rappresenta che la predetta norma derogatoria si
riferisce in modo specifico all'ente locale territoriale di
piccole dimensioni, come indicato, e non può trovare
estensione o applicazione analogica nei confronti di
amministrazioni pubbliche diverse, peraltro non appartenenti
-come sopra specificato- al comparto unico.
---------------
[1] Cfr. deliberazione n. 12 del 27.02.2013, Requisiti e
procedimento per la nomina dei componenti degli Organismi
indipendenti di valutazione (OIV), punto 3.5 (13.10.2016
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PATRIMONIO:
Applicabilità dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L.
98/2011 sulle operazioni di acquisto di immobili da parte
dei Comuni al contratto di transazione.
1) L'art. 12, comma 1-ter, del D.L.
98/2011, sulle operazioni di acquisto di beni immobili, pare
non potere trovare diretta applicazione riguardo ai beni
immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto
di transazione.
Tuttavia, nello spirito del contenimento delle operazioni di
acquisto di beni immobili, che caratterizza l'intervento
legislativo in discorso, appare necessario che l'ente locale
procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la
fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti
previsti dall'indicata normativa.
2) Quanto all'individuazione dell'organo comunale competente
all'approvazione dell'atto di transazione, comportante il
trasferimento della proprietà di beni immobili, si ritiene
che lo stesso debba individuarsi nel consiglio comunale.
Il Comune chiede un parere in merito all'applicabilità
dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, sulle
operazioni di acquisto di immobili da parte dei Comuni, a
contratti di transazione che lo stesso dovrebbe stipulare
con dei privati, tra le cui reciproche concessioni vi
sarebbe anche il trasferimento della proprietà di beni
immobili in capo all'Ente locale.
Desidera, altresì, sapere a quale organo competa
l'approvazione dell'atto di transazione avente tale natura
traslativa.
L'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011, n. 98
convertito con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1,
della legge 15.07.2011, n. 111 recita: 'A decorrere dal
01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio
sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di
immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente
l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal
responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è
attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle
spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia,
con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo
pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente'.
In via preliminare, si osserva che il contratto di
transazione, ai sensi dell'articolo 1965 c.c. è quello 'col
quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono
fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che
può sorgere tra loro'.
Si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive che
assume natura traslativa tutte le volte in cui l'oggetto
delle reciproche concessioni consiste nel trasferimento
della proprietà o di altro diritto reale.
La transazione può avere i contenuti più vari. Nel caso di
specie da essa scaturirebbe anche il trasferimento della
proprietà di beni immobili che verrebbero acquistati dalla
pubblica amministrazione.
Con specifico riferimento all'applicabilità, ad un contratto
di transazione avente effetti traslativi di diritti reali,
della norma di cui all'articolo 12, comma 1-ter, del D.L.
98/2011 si è espressa la Corte dei Conti Lombardia, con la
delibera 24.09.2015, n. 310, ove, a seguito di un articolato
iter argomentativo, cui si rimanda, si afferma che: «[...]
la disciplina limitativa, vigente dal 2014, all'acquisto di
beni immobili da parte degli enti locali, posta dall'art.
12, comma 1-ter, del D.L. n. 98 del 2011, convertito dalla
L. n. 111 del 2011, introdotto dall'art. 1, comma 138, della
legge di stabilità n. 228 del 2012, non possa trovare
diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a
seguito della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente, nello spirito del contenimento delle
operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza
l'intervento legislativo in discorso, appare necessario che
l'ente locale procedente osservi, nei limiti di
compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti
ed i requisiti previsti dall'esposta normativa. In
particolare, sotto il profilo della "indispensabilità e
indilazionabilità" dell'acquisizione di un immobile, risulta
necessario che il provvedimento di autorizzazione alla
stipula della transazione espliciti puntualmente i
presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta
necessario porre fine ad una controversia mediante la
necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene
immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti
da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal
protrarsi del contenzioso. Per quanto riguarda, inoltre,
l'apposita attestazione di congruità, anche se non appare
necessario, alla luce della differente conformazione della
fattispecie transattiva (in cui è assente un "prezzo" di
acquisto, di cui occorre valutare la "congruità"),
l'intervento di apposita stima da parte dell'Agenzia del
Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere
una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e
terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del
bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia
certificata dagli appositi uffici tecnici interni,
costituendo elemento della complessiva stima di convenienza
economica dell'accordo transattivo (sul quale, in generale,
va naturalmente assunto specifico parere dell'avvocatura
interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di
legge o regolamentari). Infine, si ritiene necessario, non
risultando incompatibile con la struttura dell'operazione
transattiva, l'apposita pubblicazione, con indicazione del
soggetto alienante, dell'immobile acquisito e degli altri
elementi essenziali dell'accordo transattivo, nel sito
istituzionale dell'ente».
In altri termini la Corte, nel far notare come la
disposizione in commento, a differenza di quanto disposto
per il 2013, non limita le operazioni di acquisto di beni
immobili ma le subordina ad una serie di condizioni e
modalità specificamente indicate in legge, afferma come, nel
caso del contratto di transazione, che comporti il
trasferimento della titolarità di beni immobili, non sia,
per certi versi, possibile il rispetto formale e pedissequo
dei presupposti indicati nel summenzionato articolo 12,
comma 1-ter del D.L. 98/2011. Pur tuttavia, da quanto emerge
nell'indicata delibera l'Ente dovrà cercare nei limiti del
possibile di rispettare le condizioni tutte indicate nella
norma. [1]
In generale, in favore del rispetto delle condizioni
indicate nell'articolo in commento, si rileva come la Corte
dei Conti, Regione Piemonte, [2]
in una recente delibera, abbia affermato, benché con
riferimento ad una differente fattispecie,
[3] che: 'L'art.
12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011, si applica a tutti gli
acquisti di immobili posti in essere dopo l'01/01/2014,
indipendentemente dalla natura dell'operazione d'acquisto
(e, quindi, anche dal tipo contrattuale utilizzato) e dal
momento in cui quest'ultima sia stata eventualmente
deliberata dal competente organo (il Consiglio, ex art. 42
TUEL), purché il momento perfezionativo dell'acquisto si
determini successivamente all'01.01.2014'.
[4]
Si fa presente, anche alla luce di quanto sopra esposto, che
non è dato conoscere l'orientamento della Corte dei Conti
del Friuli Venezia Giulia sull'argomento, di talché si
suggerisce all'Ente di assumere un atteggiamento
particolarmente prudenziale che si concreterebbe nel
rispettare, nei limiti del possibile, in coerenza alle
considerazioni sopra espresse, la norma di legge in
commento.
Passando a trattare della seconda questione posta,
consistente nell'individuazione dell'organo comunale
competente all'approvazione dell'atto di transazione in
riferimento, si ritiene che lo stesso debba individuarsi nel
consiglio comunale. Infatti, l'articolo 42, comma 2, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nell'individuare gli
atti di competenza consiliare, alla lett. l), ricomprende
gli acquisti e le alienazioni immobiliari.
Si può, pertanto, ritenere che sia necessaria una
deliberazione consiliare che si esprima in merito alla
transazione di cui trattasi, atteso l'oggetto della stessa
consistente nell'acquisto di beni immobili.
---------------
[1] Si veda, anche, il parere dell'Anci del 19.02.2014,
ove, con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in
esame, l'Associazione suggerisce di procedere con estrema
cautela, anche in considerazione del fatto che la Corte dei
conti molto probabilmente sarà chiamata a verificare come e
in che misura le disposizioni citate verranno applicate al
caso in concreto.
In tale parere, e in un'ottica più prudenziale rispetto a
quella fatta propria dalla Corte dei Conti Lombardia, con la
delibera 310/2015, si afferma che: «Chi scrive ritiene
prudente ed opportuno [...] acquisire 'la congruità del
prezzo attestata dalla agenzia del Demanio'. Poi, nel caso
di differenze rispetto ai valori inseriti nella transazione,
l'ente dovrà cercare di motivarne la ragione e la
convenienza da parte dell'amministrazione».
[2] Corte dei Conti Piemonte, sez. contr., delibera del
19.02.2016, n. 18.
[3] Si trattava di un caso di contratto di permuta senza
conguagli (c.d. permuta 'pura').
[4] Si ritiene di interesse rilevare che la questione della
applicabilità al contratto di permuta 'pura' dell'articolo
12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 non è univocamente risolta
dalle delibere di Corte dei Conti che si sono espresse
sull'argomento.
Così la stessa Corte dei Conti Piemonte si era espressa nel
senso dell'esclusione della permuta pura dall'ambito di
applicazione dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011
nella delibera del 28.10.2014, n. 203. Anche la delibera
della Corte dei Conti Veneto, del 04.05.2016, n. 264, che
richiama una precedente delibera di altra Corte dei Conti,
ha affermato che: «L'ambito oggettivo d'applicazione
dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011, non
comprende la permuta "pura", cioè quella in cui non vi sono
conguagli in denaro, giacché la norma si applica a quei
contratti che determinano una spesa a carico dell'ente.
Con riferimento a tale ultimo aspetto, la Sezione Emilia
Romagna, con Delib. n. 80 del 2015, ha però precisato che
"l'applicabilità della previsione di cui al ripetuto art.
12, comma 1-ter, D.L. n. 98 del 2011 si deve considerare
sussistente ogni qualvolta, a seguito dell'acquisizione,
l'amministrazione pubblica sia chiamata ad un esborso
finanziario, ancorché lo stesso discenda unicamente dalle
obbligazioni tributarie che l'atto traslativo comporta"».
La delibera della Corte dei Conti Lombardia 310/2015,
nell'affrontare la questione dell'applicabilità della norma
in riferimento al contratto di transazione, riporta, tra gli
altri, quale esempio di esclusione dall'ambito applicativo
dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011, proprio il
contratto di permuta 'pura', cioè senza conguaglio (11.10.2016
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GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «nei
procedimenti ad istanza di parte il responsabile del
procedimento o l’autorità competente, prima della formale
adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci
giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti
hanno il diritto di presentare per iscritto le loro
osservazioni, eventualmente corredate da documenti (….).
Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è
data ragione nella motivazione del provvedimento finale».
La norma in esame mira ad «instaurare un contraddittorio a
carattere necessario tra la p.a. ed il cittadino» al fine
sia di «aumentare le possibilità del privato di ottenere ciò
a cui aspira» sia di acquisire elementi che arricchiscono il
patrimonio conoscitivo dell’amministrazione, consentendo una
migliore definizione dell’interesse pubblico concreto che
l’amministrazione stessa deve perseguire.
La prescritta partecipazione svolge, pertanto, una funzione
difensiva e collaborativa. L’osservanza degli obblighi posti
dall’art. 10-bis potrebbe assolvere anche ad una importante
finalità deflattiva del contenzioso, evitando che si sposti
nel processo ciò che dovrebbe svolgersi nel procedimento.
Se, infatti, non si rende edotto il privato di tutte le
ragioni che depongono per il rigetto della sua istanza, al
fine di permettergli di esprimere, in ambito procedimentale,
il suo “punto di vista", si costringe l’interessato a
proporre ricorso giurisdizionale per fare valere in giudizio
ciò che avrebbe potuto essere oggetto di accertamento in
sede amministrativa.
La violazione di tale obbligo non comporta annullamento
dell’atto finale nel solo caso in cui, in presenza di
attività vincolata, l’amministrazione dimostra che il
provvedimento non avrebbe potuto avere altro contenuto.
---------------
6.– L’appello è fondato per violazione delle regole
procedimentali.
L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «nei
procedimenti ad istanza di parte il responsabile del
procedimento o l’autorità competente, prima della formale
adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci
giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti
hanno il diritto di presentare per iscritto le loro
osservazioni, eventualmente corredate da documenti (….).
Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è
data ragione nella motivazione del provvedimento finale».
La norma in esame mira ad «instaurare un contraddittorio
a carattere necessario tra la p.a. ed il cittadino» al
fine sia di «aumentare le possibilità del privato di
ottenere ciò a cui aspira» (Cons. Stato, sez. IV,
12.09.2007, n. 4828) sia di acquisire elementi che
arricchiscono il patrimonio conoscitivo dell’amministrazione
(Cons. Stato, sez. VI, 22.05.2008, n. 2452), consentendo una
migliore definizione dell’interesse pubblico concreto che
l’amministrazione stessa deve perseguire.
La prescritta partecipazione svolge, pertanto, una funzione
difensiva e collaborativa. L’osservanza degli obblighi posti
dall’art. 10-bis potrebbe assolvere anche ad una importante
finalità deflattiva del contenzioso, evitando che si sposti
nel processo ciò che dovrebbe svolgersi nel procedimento.
Se, infatti, non si rende edotto il privato di tutte le
ragioni che depongono per il rigetto della sua istanza, al
fine di permettergli di esprimere, in ambito procedimentale,
il suo “punto di vista", si costringe l’interessato a
proporre ricorso giurisdizionale per fare valere in giudizio
ciò che avrebbe potuto essere oggetto di accertamento in
sede amministrativa.
La violazione di tale obbligo non comporta annullamento
dell’atto finale nel solo caso in cui, in presenza di
attività vincolata, l’amministrazione dimostra che il
provvedimento non avrebbe potuto avere altro contenuto.
Nella fattispecie in esame, l’amministrazione non ha
correttamente adempiuto a tale obbligo, non mettendo in
condizione l’appellante di conoscere, in via procedimentale,
le ragioni ostative all’accoglimento della sua domanda.
L’amministrazione non ha dimostrato che tale violazione sia
stata ininfluente ai fini della definizione dell’assetto
sostanziale degli interessi di cui alla determinazione
finale adottata. Dalla prospettazione delle parti e dai
documenti in atti risultano oggettive incertezze in ordine
al contenuto e alle modalità con cui si è stata spedita,
ricevuta e protocollata la domanda di finanziamento della
società indirizza all’amministrazione.
Gli aspetti non chiari della vicenda avrebbero potuto essere
oggetto di contradditorio procedimentale, con possibilità
anche di un più agevole accesso al fatto e alla
documentazione necessaria per chiarire come si sia
concretamente svolta la vicenda in esame
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.10.2016 n. 4545 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Sul
diniego di accesso ai documenti concernenti attività
investigativa.
a) ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett.
a), della legge n. 241/1990 sono esclusi dal diritto di
accesso i documenti amministrativi coperti da segreto o da
divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge.
In particolare, i documenti dell’amministrazione che
costituiscono atti di polizia giudiziaria sono soggetti
esclusivamente alla disciplina stabilita dall’art. 329
c.p.p. in base alla quale “sono coperti da segreto fino a
quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque
non oltre la chiusura delle indagini preliminari"; tali atti
inoltre sono soggetti alla disciplina sul divieto di
pubblicazione stabilita dall’art. 114 ss. c.p.p.;
b) fermo restando quanto previsto dal c.p.p., la
giurisprudenza amministrativa sostiene che con riferimento
ai documenti per i quali il diritto di richiedere copie,
estratti, o certificati sia riconosciuto da singole
disposizioni del codice di procedura penale nelle diverse
fasi del procedimento penale, l’accesso vada esercitato
secondo le modalità previste dal medesimo codice;
c) l’art. 329 c.p.p. concerne gli atti di indagine compiuti
dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o
comunque su loro iniziativa; di conseguenza la
giurisprudenza amministrativa ritiene che tali atti, anche
se redatti da una pubblica amministrazione, siano sottratti
al diritto di accesso regolato dalla legge n. 241/1990.
---------------
Passando al merito della causa, prive di fondamento si
rivelano le censure dedotte in prime cure con l’unico mezzo
d’impugnazione e qui riprodotte pedissequamente dalla parte
appellata.
Con tali profili di doglianza parte appellante lamenta in
sostanza la violazione delle disposizioni di cui agli artt.
22 e 24 della legge n. 241/1990, rivendicando l’esercizio
del diritto di accesso ai documenti relativi all’attività
investigativa svolta dall’Arma dei carabinieri nei suoi
confronti, ma il vizio dedotto è insussistente per le
seguenti ragioni:
a) ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. a), della legge n.
241/1990 come sostituito dall’art. 16 della legge 11.02.2005
n. 15, sono esclusi dal diritto di accesso i documenti
amministrativi coperti da segreto o da divieto di
divulgazione espressamente previsti dalla legge. In
particolare, i documenti dell’amministrazione che
costituiscono atti di polizia giudiziaria sono soggetti
esclusivamente alla disciplina stabilita dall’art. 329
c.p.p. in base alla quale “sono coperti da segreto fino a
quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque
non oltre la chiusura delle indagini preliminari" (Cons.
Stato Sez. VI 10.04.2003 n. 1923); tali atti inoltre sono
soggetti alla disciplina sul divieto di pubblicazione
stabilita dall’art. 114 ss. c.p.p.;
b) fermo restando quanto previsto dal c.p.p., la giurisprudenza
amministrativa sostiene che con riferimento ai documenti per
i quali il diritto di richiedere copie, estratti, o
certificati sia riconosciuto da singole disposizioni del
codice di procedura penale nelle diverse fasi del
procedimento penale, l’accesso vada esercitato secondo le
modalità previste dal medesimo codice (così, Cons. Stato
Sez. VI n. 2780 del 2011; Cons. Stato Sez. VI 09/12/2008 n.
6117);
c) l’art. 329 c.p.p. concerne gli atti di indagine compiuti dal
pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o comunque su
loro iniziativa; di conseguenza la giurisprudenza
amministrativa ritiene che tali atti, anche se redatti da
una pubblica amministrazione, siano sottratti al diritto di
accesso regolato dalla legge n. 241/1990 (Cons. Stato sez.
VI 09/12/2008 n. 6117; Cons. Stato Sez. VI 10/04/2003 n.
1923).
Conclusivamente l’appello all’esame si rivela fondato e va,
pertanto, accolto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.10.2016 n. 4537 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: E'
illegittima l'ordinanza dirigenziale avente ad oggetto la
rimozione e smaltimento dei rifiuti abbandonati ex art. 192
d.lgs. 152/2006:
1) rilevandosi una chiara carenza di legittimazione attiva in capo
al dirigente responsabile, atteso che, a norma dell’art.
192, comma 3, del d.lgs. n. 192/2006, è unicamente “il
Sindaco (che) dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie”;
2) non potendosi configurare alcun potere sostitutivo in capo al
dirigente in relazione ad attribuzioni esclusivamente
sindacali affidate da fonte primaria e con norma di natura
speciale e successiva al disposto dell’art. 107 del TUEL.
Invero, va richiamato il condiviso e consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo il quale:
A) “l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, norma speciale
sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del d.lgs. n.
267/2000, attribuisce espressamente al Sindaco la competenza
a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla
rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, donde, in
applicazione degli ordinari criteri ermeneutici,
l'incompetenza del dirigente ad adottare il provvedimento
impugnato, non potendosi interpretare la normativa alla luce
del principio della separazione dei poteri in quanto la
disposizione, peraltro successiva al T.U. enti locali,
appare derogatoria rispetto al complessivo assetto delle
funzioni introdotto da quest’ultima normativa”;
B) “la competenza dei Sindaco, mantenuta espressamente dal
legislatore del 2006 anche dopo la ribadita attribuzione ai
dirigenti comunali del potere di ordinanza di cui all'art.
107, d.lgs. 267/2000 (T.U.E.L.), va interpretata come
volontà di riservare in via esclusiva all'organo apicale
dell'amministrazione comunale la competenza a emettere
ordinanze ex art. 192, d.lgs. n. 152/2006, con conseguente
annullabilità, per incompetenza, dell'ordinanza
eventualmente adottata dal dirigente comunale".
---------------
- Premesso che, con ordinanza n. 54 del 04.08.2016,
l’Amministrazione intimata, preso atto che la società non
era più proprietaria del suolo identificato al N.C.T. al fg.
3, p.lla 558 (già 73) per intervenuta acquisizione al
patrimonio dello stesso ente, ha provveduto a revocare
l’ordinanza n. 49 del 05.07.2016, avente ad oggetto, anche
per quell’area, la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti
abbandonati, sicché con riferimento a tale provvedimento, il
ricorso deve essere dichiarato improcedibile;
- Valutato, invece, che, con riferimento all’ordinanza prot.
63001.C_A024 registro ufficiale 24947 notificata il
01.06.2016 avente parimenti ad oggetto la rimozione e
smaltimento dei rifiuti abbandonati ex art. 192 d.lgs.
152/2006 ed adottata con riferimento al suolo identificato
al medesimo fg. 3, ma alla diversa p.lla 70, il ricorso sia
meritevole di accoglimento:
1) rilevandosi una chiara carenza di legittimazione attiva in capo
al dirigente responsabile, atteso che, a norma dell’art.
192, comma 3, del d.lgs. n. 192/2006, è unicamente “il
Sindaco (che) dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie”;
2) non potendosi configurare alcun potere sostitutivo in capo al
dirigente in relazione ad attribuzioni esclusivamente
sindacali affidate da fonte primaria e con norma di natura
speciale e successiva al disposto dell’art. 107 del TUEL;
- Richiamato, in proposito, il condiviso e consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo il quale:
A) “l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, norma speciale
sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del d.lgs. n.
267/2000, attribuisce espressamente al Sindaco la competenza
a disporre, con ordinanza, le operazioni necessarie alla
rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, donde, in
applicazione degli ordinari criteri ermeneutici,
l'incompetenza del dirigente ad adottare il provvedimento
impugnato, non potendosi interpretare la normativa alla luce
del principio della separazione dei poteri in quanto la
disposizione, peraltro successiva al T.U. enti locali,
appare derogatoria rispetto al complessivo assetto delle
funzioni introdotto da quest’ultima normativa” (TAR
Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 04.07.2014 n. 704; TAR
Liguria, Genova, sez. I, 15.12.2009 n. 3741);
B) “la competenza dei Sindaco, mantenuta espressamente dal
legislatore del 2006 anche dopo la ribadita attribuzione ai
dirigenti comunali del potere di ordinanza di cui all'art.
107, d.lgs. 267/2000 (T.U.E.L.), va interpretata come
volontà di riservare in via esclusiva all'organo apicale
dell'amministrazione comunale la competenza a emettere
ordinanze ex art. 192, d.lgs. n. 152/2006, con conseguente
annullabilità, per incompetenza, dell'ordinanza
eventualmente adottata dal dirigente comunale" (Cass.
pen., sez. III, 20.05.2014 n. 40212);
- Ritenuto che, in considerazione della violazione di un
chiaro dettato normativo senza che siano ravvisabili
significativi contrasti giurisprudenziali, il complessivo
regime delle spese unitamente all’assunzione dell’onere
relativo al pagamento del contributo unificato debbano
seguire la regola della soccombenza
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 27.10.2016 n. 4995 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
contestazione della legittimità della segnalazione all’ANAC
è inammissibile per carenza di interesse in quanto la
predetta segnalazione non è un atto autonomamente lesivo, ma
una mera comunicazione tra enti, i cui eventuali vizi
possono essere fatti valere soltanto in via derivata
impugnando il provvedimento finale dell’Autorità, unico atto
avente natura provvedimentale e carattere autoritativo.
Analogamente inammissibile appare anche l’impugnazione
dell’atto con cui è stato disposto l’incameramento della
cauzione provvisoria in quanto quest’ultima costituisce una
conseguenza automatica del provvedimento di esclusione
(tardivamente impugnato, ancorché limitatamente ai suoi
effetti) e, pertanto, non è suscettibile di alcuna
valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi
concreti e risulta, quindi, insensibile ad eventuali
valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa
della violazione che ha dato causa all'esclusione.
---------------
Appare dirimente dell’infondatezza del proposto gravame la
natura del termine indicato dall'art. 48, I comma, del DLgs
n. 163 del 2006 e, inoltre, la impossibilità di ricorrere al
soccorso istruttorio.
È stato osservato che “il soccorso
istruttorio riguarda la sola fase della verifica delle
dichiarazioni relative al possesso dei requisiti per
l’ammissione alla gara, ma non anche la fase del controllo
dei requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa il cui possesso sia stato dichiarato
nel segmento procedimentale anzidetto".
In altri termini, una cosa è verificare le dichiarazioni
relative ai requisiti necessari per l’ammissione alla gara,
altra cosa è verificare che i requisiti dichiarati
sussistono.
Il c.d. soccorso istruttorio, ivi compreso il soccorso
rinforzato, attiene alla fase della verifica delle
dichiarazioni relative al possesso dei requisiti generali e
speciali, non anche alla fase della comprova della loro
sussistenza. Infatti, l’art. 46, comma 1, obbliga le
stazioni appaltanti al soccorso nei limiti previsti dagli
articoli da 38 a 45 ed il terzo comma specifica che le
disposizioni sul c.d. soccorso istruttorio rinforzato si
applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o
irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni.
Ne consegue che la fase di comprova dei requisiti di
idoneità non è affatto contemplata nel perimetro di
applicazione del soccorso istruttorio.
D’altra parte, tale fase, in quanto connotata da particolare
rapidità al fine di consentire una sollecita conclusione del
procedimento, non potrebbe tollerare una ulteriore
interlocuzione con la stazione appaltante in ordine alla
sufficienza dei documenti prodotti per comprovare la
presenza dei requisiti, costituendo, invece, un obbligo (rectius:
un onere) per il concorrente produrre, nel termine
perentorio di dieci giorni, i documenti sufficienti alla
comprova attraverso le modalità specificate nella lex
specialis.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza
25.02.2014, n. 10, ha chiarito che il termine di 10 giorni
previsto dall’art. 48, I e II comma, del DLgs n. 163/2006,
entro il quale si deve presentare la documentazione
comprovante il possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, ha natura
perentoria.
In entrambi i casi –ha osservato l’Adunanza Plenaria- la
perentorietà del termine, pur non essendo espressamente
definita come tale dalla norma, si ricollega alle esigenze
di celerità insite nel procedimento di gara e nel carattere
automatico delle sanzioni previste per la sua inosservanza
(esclusione del concorrente, escussione della cauzione
provvisoria, segnalazione all’Autorità di Vigilanza,
determinazione della nuova soglia di anomalia e conseguente
eventuale nuova aggiudicazione), salva l’oggettiva
impossibilità –non ricorrente nel caso di specie- della
produzione della documentazione la cui prova grava
sull’impresa.
Sul punto, la sentenza dell’Adunanza Plenaria del
25.02.2014, n. 9, al punto d) dei principi di diritto ha
altresì affermato che “nelle procedure di gara disciplinate
dal codice dei contratti pubblici, il potere di soccorso
sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice (d.lgs.
12.04.2006, n. 163) -sostanziandosi unicamente nel dovere
della stazione appaltante di regolarizzare certificati,
documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di
completarli ma solo in relazione ai requisiti soggettivi di
partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori
materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole
ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti- non
consente la produzione tardiva del documento o della
dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa,
ove tali adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal
codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione
e dalle leggi statali”.
L’individuazione del termine come perentorio discende quindi
dalla sua ratio, consistente nella “esigenza di celerità
insita nella fase specifica del procedimento”, in coerenza
con la giurisprudenza prevalente secondo cui l’art. 152
c.p.c., che definisce i termini processuali come ordinatori
salvo quelli espressamente qualificati come perentori, “vale
esclusivamente per i termini processuali, mentre con
riguardo ai termini esistenti all’interno del procedimento
amministrativo il carattere perentorio o meno va ricavato
dalla loro ratio”.
In sostanza, l’imprenditore concorrente, nel presentare la
propria offerta, assume anche l’onere di comprovare, a
richiesta, il possesso dei requisiti di partecipazione
attraverso la presentazione della relativa documentazione
entro il termine perentorio di dieci giorni.
---------------
Considerato
- che parte ricorrente ha partecipato alla gara indetta dal
Provveditorato Interregionale delle Opere Pubbliche per la
Campania, Molise, Puglia e Basilicata per l’affidamento del
servizio di conferimento della frazione umida proveniente
dalla raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani del
Comune di Quarto;
- che con nota 11.02.2016 veniva invitata dalla stazione
appaltante “a rendere disponibili sul sistema AVCPASS,
entro 10 giorni dalla richiesta inoltrata al medesimo
sistema dal RUP del Comune di Quarto, le attestazioni di
buon esito di servizi analoghi a quelli oggetto
dell’appalto, dichiarati in sede di gara”, con
l’avvertimento che, in difetto della fornitura dei predetti
dati nei tempi richiesti, “questo Provveditorato
procederà all’esclusione del concorrente dalla gara”;
- che, atteso che la documentazione acquisita dal RUP a
mezzo AVCPASS era risultata inidonea a dimostrare il
possesso del requisito relativo al quantitativo (11.000
tonnellate) di raccolta differenziata di rifiuti richiesto
dal disciplinare ed espressamente dichiarato dalla
ricorrente, con provvedimento 09.06.2016 quest’ultima veniva
esclusa dalla procedura concorsuale: con successive
determinazioni del 05.07.2016 n.i 22926 e 22929, peraltro,
la stazione appaltante comunicava alla ricorrente di aver
provveduto ai sensi dell’art. 48, I comma, del DLgs n.
163/2006 all’incameramento della cauzione provvisoria e,
rispettivamente, alla segnalazione della vicenda all’ANAC;
- che con il presente gravame la ricorrente ha contestato
non già la propria esclusione dalla procedura concorsuale,
ma soltanto le determinazioni della stazione appaltante di
segnalare all’ANAC l’avvenuta esclusione per mancata
dimostrazione del possesso dei requisiti di capacità tecnico
professionale dichiarati in sede di gara e di incamerare la
cauzione provvisoria: osserva la ricorrente, a tal
proposito, che:
- atteso che l’esclusione era stata comminata sul presupposto (di
un errore di valutazione del RUP che aveva omesso di
estrapolare i certificati di regolare esecuzione dei servizi
svolti su commissione del Comune di Castello di Cesterna e
della ditta Am. spa del 2013 e, comunque) dell’inerzia
serbata dai Comuni sulla richiesta formulata dalla stazione
appaltante per accertare, disponendo un supplemento di
istruttoria, l’effettiva sussistenza del requisito relativo
alla quantità dei rifiuti trattati, gli impugnati
provvedimenti sarebbero stati adottati per il mancato
adempimento di un onere a cui essa non solo non era tenuta,
ma relativamente al quale nemmeno era stata interpellata;
- la documentazione comprovante il possesso dei requisiti, inoltre,
va acquisita, giusta l’art. 9, II comma, ultima parte della
delibera ANAC 24.02.2016 n. 157 (di attuazione dell’art.
6-bis del DLgs n. 163 del 2006), mediante la Banca dati con
procedure telematiche con le modalità ivi precisate;
- ancora, la legge di gara non indicava con precisione il periodo
temporale del “triennio precedente” relativamente al
quale si sarebbe dovuto dimostrare “di avere svolto
regolarmente e con buon esito” i “servizi analoghi”
nell’importo e nella quantità richiesti;
- infine, non era stata valutata la gravità del comportamento della
ricorrente ai fini dell’adozione degli impugnati
provvedimenti, “non essendo la misura sanzionatoria in
questione frutto di un’attività vincolata”;
- che il ricorso è infondato atteso che l'escussione della
cauzione provvisoria e la segnalazione del fatto
all'Autorità (per i provvedimenti di cui all’art. 6, XI
comma, del codice dei contratti vigente all’epoca) sono
state effettuate ai sensi della disposizione contenuta nel
penultimo periodo dell’art. 48, I comma, del DLgs n.
163/2006: alla luce di tale disciplina correttamente la
stazione appaltante, non avendo ricevuto nei termini
previsti la documentazione comprovante il possesso dei
requisiti, ha adottato gli atti impugnati comunicando
l'escussione della cauzione provvisoria e segnalando la
vicenda all'Autorità.
Ora –a prescindere dal fatto che la contestazione della
legittimità della segnalazione all’ANAC è inammissibile per
carenza di interesse in quanto la predetta segnalazione non
è un atto autonomamente lesivo, ma una mera comunicazione
tra enti, i cui eventuali vizi possono essere fatti valere
soltanto in via derivata impugnando il provvedimento finale
dell’Autorità, unico atto avente natura provvedimentale e
carattere autoritativo (cfr. TAR Milano, I, 06.07.2016 n.
1625 e 26.05.2015 n. 1235; TAR Roma, III, 05.02.2015 n.
2129; TAR Palermo, I, 17.07.2015, n. 1757; CdS, VI,
12.06.2012 n. 3428; CdS, I, 07.07.2011 n. 4826/2010); ed a
prescindere dal fatto che analogamente inammissibile appare
anche l’impugnazione dell’atto con cui è stato disposto
l’incameramento della cauzione provvisoria in quanto
quest’ultima costituisce, come si è accennato
precedentemente, una conseguenza automatica del
provvedimento di esclusione (tardivamente impugnato,
ancorché limitatamente ai suoi effetti) e, pertanto, non è
suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con
riguardo ai singoli casi concreti e risulta, quindi,
insensibile ad eventuali valutazioni volte ad evidenziare la
non imputabilità a colpa della violazione che ha dato causa
all'esclusione (cfr., tra le tante, CdS, Ap. 29.02.2016 n.
5; CdS, V, 26.05.2015 n. 2638; CdS, IV, 16.02.2012 n. 810;
nonché Corte Cost., ord. n. 211 del 13.07.2011)– appare
dirimente dell’infondatezza del proposto gravame la natura
del termine indicato dall'art. 48, I comma, del DLgs n. 163
del 2006 e, inoltre, la impossibilità di ricorrere al
soccorso istruttorio.
È stato osservato (cfr. TAR Roma, II, 22.03.2016 n. 3580 e
I-ter 02.05.2016 n. 4967) –e tali osservazioni il collegio
condivide pienamente e fa proprie– che “il soccorso
istruttorio riguarda la sola fase della verifica delle
dichiarazioni relative al possesso dei requisiti per
l’ammissione alla gara, ma non anche la fase del controllo
dei requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa il cui possesso sia stato dichiarato
nel segmento procedimentale anzidetto".
In altri termini, una cosa è verificare le dichiarazioni
relative ai requisiti necessari per l’ammissione alla gara,
altra cosa è verificare che i requisiti dichiarati
sussistono. Il c.d. soccorso istruttorio, ivi compreso il
soccorso rinforzato, attiene alla fase della verifica delle
dichiarazioni relative al possesso dei requisiti generali e
speciali, non anche alla fase della comprova della loro
sussistenza. Infatti, l’art. 46, comma 1, obbliga le
stazioni appaltanti al soccorso nei limiti previsti dagli
articoli da 38 a 45 ed il terzo comma specifica che le
disposizioni sul c.d. soccorso istruttorio rinforzato si
applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o
irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni. Ne
consegue che la fase di comprova dei requisiti di idoneità
non è affatto contemplata nel perimetro di applicazione del
soccorso istruttorio.
D’altra parte, tale fase, in quanto connotata da particolare
rapidità al fine di consentire una sollecita conclusione del
procedimento, non potrebbe tollerare una ulteriore
interlocuzione con la stazione appaltante in ordine alla
sufficienza dei documenti prodotti per comprovare la
presenza dei requisiti, costituendo, invece, un obbligo (rectius:
un onere) per il concorrente produrre, nel termine
perentorio di dieci giorni, i documenti sufficienti alla
comprova attraverso le modalità specificate nella lex
specialis.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza
25.02.2014, n. 10, ha chiarito che il termine di 10 giorni
previsto dall’art. 48, I e II comma, del DLgs n. 163/2006,
entro il quale si deve presentare la documentazione
comprovante il possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, ha natura
perentoria. In entrambi i casi –ha osservato l’Adunanza
Plenaria- la perentorietà del termine, pur non essendo
espressamente definita come tale dalla norma, si ricollega
alle esigenze di celerità insite nel procedimento di gara e
nel carattere automatico delle sanzioni previste per la sua
inosservanza (esclusione del concorrente, escussione della
cauzione provvisoria, segnalazione all’Autorità di
Vigilanza, determinazione della nuova soglia di anomalia e
conseguente eventuale nuova aggiudicazione), salva
l’oggettiva impossibilità –non ricorrente nel caso di
specie- della produzione della documentazione la cui prova
grava sull’impresa.
Sul punto, la sentenza dell’Adunanza Plenaria del
25.02.2014, n. 9, al punto d) dei principi di diritto ha
altresì affermato che “nelle procedure di gara
disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il potere di
soccorso sancito dall’art. 46, co. 1, del medesimo codice
(d.lgs. 12.04.2006, n. 163) -sostanziandosi unicamente nel
dovere della stazione appaltante di regolarizzare
certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero
di completarli ma solo in relazione ai requisiti soggettivi
di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori
materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole
ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti- non
consente la produzione tardiva del documento o della
dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa,
ove tali adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal
codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione
e dalle leggi statali”.
L’individuazione del termine come perentorio discende quindi
dalla sua ratio, consistente nella “esigenza di
celerità insita nella fase specifica del procedimento”,
in coerenza con la giurisprudenza prevalente secondo cui
l’art. 152 c.p.c., che definisce i termini processuali come
ordinatori salvo quelli espressamente qualificati come
perentori, “vale esclusivamente per i termini
processuali, mentre con riguardo ai termini esistenti
all’interno del procedimento amministrativo il carattere
perentorio o meno va ricavato dalla loro ratio” (cfr. Ap.
25.02.2014, n. 10).
In sostanza, l’imprenditore concorrente, nel presentare la
propria offerta, assume anche l’onere di comprovare, a
richiesta, il possesso dei requisiti di partecipazione
attraverso la presentazione della relativa documentazione
entro il termine perentorio di dieci giorni;
- che, dunque, per le suesposte considerazioni il ricorso va
respinto, le spese seguendo la soccombenza
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 27.10.2016 n. 4987 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Contratti della P.A. – Aggiudicazione – Impugnazione –
Rito – Art. 120, comma 6 bis, c.p.a. – Esclusione.
Contratti della P.A. – Disciplina – Nuovo Codice dei
contratti pubblici – Ambito temporale di applicazione.
Il nuovo rito introdotto, per i
ricorsi in materia di contratti pubblici, dall’art. 204 del
nuovo Codice dei contratti, approvato con d.lgs. 18.04.2016,
n. 50, che ha inserito il comma 6-bis all’art. 120 c.p.a.,
non si applica all’impugnazione dei provvedimenti di
aggiudicazione della gara, che restano disciplinati dal
comma 6 dello stesso art. 120, non essendo tali atti inclusi
nell’elenco individuato dal precedente comma 2-bis.
Ai sensi dell’art. 216, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 le
disposizioni del Codice si applicano alle procedure ed ai
contratti per i quali i bandi o avvisi sono pubblicati
successivamente alla data di entrata in vigore del Codice.
---------------
15. Si può cominciare dall’esame dell’appello di Cl. (n.
4551/2016).
16. Va anzitutto disattesa l’eccezione di tardività
sollevata da Ri. con riferimento al disposto dell’art. 120,
comma 6-bis, del cod. proc. amm., introdotto dall’art. 204
del d.lgs. 50/2016 (nuovo Codice dei contratti pubblici),
che prevede, per la proposizione dell’appello nei casi
considerati dal comma 2-bis (impugnazioni delle esclusioni o
delle ammissioni alla procedura di affidamento, all’esito
della valutazione dei requisiti soggettivi), un termine di
trenta giorni dalla comunicazione o notificazione della
sentenza.
Infatti, la sentenza gravata consegue all’impugnazione di un
provvedimento di aggiudicazione, e quindi è al di fuori
dell’ambito tematico considerato dal predetto comma 2-bis, e
comunque l’art. 216 del d.lgs. 50/2016 dispone che le
disposizioni del Codice si applicano alle procedure ed ai
contratti per i quali i bandi o avvisi sono pubblicati
successivamente alla data di entrata in vigore del Codice,
mentre l’avvio della procedura in esame risale al 2014
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 27.10.2016 n. 4528 - massima tratta da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Disciplina applicabile in caso di bando pubblicato nella
Gazzetta della Comunità europea nella vigenza del vecchio
Codice degli appalti e nella Gazzetta della Repubblica
italiana nella vigenza del nuovo Codice dei contratti.
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Gara - Disciplina applicabile - Nuovo o vecchio Codice
dei contratti - Riferimento alla pubblicazione del bando
sulla Gazzetta della Comunità europea o su quella della
Repubblica italiana - Individuazione.
Nel caso di bando di gara pubblicato
nella Gazzetta della Comunità europea nella vigenza del
vecchio Codice degli appalti e nella Gazzetta della
Repubblica italiana nella vigenza del nuovo Codice dei
contratti, approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50, alla gara
si applica la disciplina dettata dal d.lgs. n. 50, avendo la
prima pubblicazione mera valenza accessoria della seconda.
---------------
Il TAR Bologna, dopo aver ricordato che il nuovo Codice
disciplina la pubblicazione dei bandi a livello nazionale
nell’art. 73, ha affermato che due sono le tesi che
potrebbero sostenersi:
a) la prima, secondo cui fino all’entrata in vigore del regolamento
volto a disciplinare le modalità di pubblicazione dei bandi
sulla piattaforma telematica dell’ANAC continuano ad
applicarsi i principi elaborati in relazione all’art. 66,
comma 8, del vecchio Codice, dovendosi fare applicazione del
comma 11 dell’art. 216 del nuovo Codice, secondo il quale «Fino
alla data indicata nel decreto di cui all'articolo 73, comma
4, gli avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati nella
Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, serie speciale
relativa ai contratti. Fino alla medesima data (omissis) …
gli effetti giuridici di cui al comma 5 del citato articolo
73 continuano a decorrere dalla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale»;
b) la seconda, a tenore della quale il comma 11 dell’art. 216 del
nuovo Codice non prevede la pubblicazione in GURI come
centrale e la data di pubblicazione utile ai fini della
validità del bando è una qualunque pubblicazione, come per
altro affermato in un comunicato ANAC dell’11.05.2016.
Ad avviso del Tar Bologna proprio l’avvenuta pubblicazione
del bando in GUCE sotto la vigenza del vecchio Codice dei
contratti comporta che il principio cui far riferimento al
fine di stabilire a quale tipo di pubblicazione agganciare
la produzione degli effetti giuridici è la norma del vecchio
Codice, ovvero l’art. 66, comma 8, del medesimo, che
riconnette alla pubblicazione in GURI la produzione di
effetti giuridici in ambito nazionale.
Inoltre, è dirimente la considerazione che, secondo la
proposizione finale del comma 4 dell’art. 73, d.lgs. n. 50
del 2016, fino alla data indicata nel decreto previsto dal
medesimo comma si applica l'art. 216, comma 11, che
chiaramente riconnette la produzione di effetti giuridici in
ambito nazionale alla pubblicazione in GURI fino alla
predetta data, poiché fino alla stessa data gli avvisi e i
bandi devono anche essere pubblicati nella GURI, serie
speciale relativa ai contratti.
Stabilito, quindi, alla luce delle premesse su esposte, che
la pubblicazione rilevante ai fini dell’individuazione della
disciplina applicabile alla fattispecie, in quanto vigente a
tale momento, è esclusivamente quella nella GURI, la gara in
questione non poteva non essere disciplinata dal nuovo testo
del Codice dei contratti (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 26.10.2016 n. 883 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2. I ricorsi in epigrafe, con i quali vengono impugnati
gli atti del medesimo procedimento di evidenza pubblica,
vengono riuniti per essere decisi con unica sentenza, attesa
l’evidente connessione fra essi.
Con il ricorso n. 422/2016 la SGS innanzitutto contesta la
mancata applicazione alla gara in questione del nuovo codice
dei contratti pubblici, osservando che, ai sensi dell’art.
216 di detto testo normativo, alle gare i cui bandi sono
stati pubblicati in data successiva all’entrata in vigore
del codice stesso, si applica la disciplina recente. Il
bando di cui trattasi è stato pubblicato in GURI il
22.04.2016, quindi in data successiva all’entrata in vigore
del d.lgs. n. 50/2016 (19.04.2016).
Ciò implicherebbe l’imprevedibilità dell’esito della gara e
quindi la violazione del principio di affidamento, tenuto
conto delle notevoli differenze tra la disciplina previgente
e quella attualmente vigente.
La giurisprudenza ha affrontato il problema della pubblicità
dei bandi in relazione al momento iniziale di applicazione
di una nuova disciplina.
Orbene, è stato ritenuto, con riguardo a
questione analoga (applicabilità del nuovo testo dell’art.
38 del d.lgs. 163/2006, nel quale è stato introdotto dal
d.l. 90/2014 il comma 2-bis), che, ai sensi dell’art. 66/8
del (vecchio, ovviamente) codice dei contratti, «gli
effetti giuridici che l'ordinamento riconnette alla
pubblicità in ambito nazionale decorrono dalla pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana»
(cfr.: TAR Veneto, I, n. 1575/2011; Idem, n. 1791/2011,
confermata da Cons. Stato, n. 6028/2014; TAR
Lombardia–Brescia, II, n. 201/2015).
Irrilevante, dunque, ai fini qui considerati, deve ritenersi
la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Comunità
Europea, avente mera valenza accessoria della successiva
pubblicazione (per altro per estratto) sulla GURI. Pertanto,
stando alla norma in questione, ai fini degli effetti
giuridici ricollegati alla pubblicità (quale indubbiamente
quello dell’applicabilità delle nuove disposizioni) il
riferimento temporale da tenere in considerazione sarebbe
quello dell'avvenuta pubblicazione del bando nella GURI che,
nel caso in esame, è avvenuta senz’altro dopo la data di
entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016.
Nel caso che stiamo trattando la pubblicazione in GUCE è
avvenuta nella vigenza del vecchio codice dei contratti
pubblici, la pubblicazione in GURI successivamente
all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016.
Il nuovo codice così disciplina la pubblicazione dei bandi a
livello nazionale (come testualmente si legge nella rubrica
dell’art. 73):
«1. Gli avvisi e i bandi di cui agli articoli 70, 71 e 98
non sono pubblicati in ambito nazionale prima della
pubblicazione a norma dell'articolo 72. Tuttavia la
pubblicazione può comunque avere luogo a livello nazionale
qualora la stessa non sia stata notificata alle
amministrazioni aggiudicatrici entro quarantotto ore dalla
conferma della ricezione dell'avviso conformemente
all'articolo 72.
2. Gli avvisi e i bandi pubblicati a livello nazionale non
contengono informazioni diverse da quelle contenute negli
avvisi o bandi trasmessi all'Ufficio delle pubblicazioni
dell'Unione europea o pubblicate sul profilo di committente,
ma menzionano la data della trasmissione dell'avviso o bando
all'Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea o della
pubblicazione sul profilo di committente.
3. Gli avvisi di preinformazione non sono pubblicati sul
profilo di committente prima della trasmissione all'Ufficio
delle pubblicazioni dell'Unione europea dell'avviso che ne
annuncia la pubblicazione sotto tale forma. Gli avvisi
indicano la data di tale trasmissione.
4. Fermo restando quanto previsto all'articolo 72, gli
avvisi e i bandi sono, altresì, pubblicati senza oneri sul
profilo del committente della stazione appaltante e sulla
piattaforma digitale dei bandi di gara presso l'ANAC, in
cooperazione applicativa con i sistemi informatizzati delle
regioni e le piattaforme regionali di e-procurement. Con
decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti,
d'intesa con l'ANAC, da adottarsi entro sei mesi dalla data
di entrata in vigore del presente codice, sono definiti gli
indirizzi generali di pubblicazione al fine di garantire la
certezza della data di pubblicazione e adeguati livelli di
trasparenza e di conoscibilità, anche con l'utilizzo della
stampa quotidiana maggiormente diffusa nell'area
interessata. Il predetto decreto individua la data fino alla
quale gli avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati
nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, serie
speciale relativa ai contratti pubblici, entro il sesto
giorno feriale successivo a quello del ricevimento della
documentazione da parte dell'Ufficio inserzioni
dell'Istituto poligrafico e zecca dello Stato. La
pubblicazione di informazioni ulteriori, complementari o
aggiuntive rispetto a quelle indicate nel presente codice,
avviene esclusivamente in via telematica e non comporta
oneri finanziari a carico delle stazioni appaltanti. Fino
alla data indicata nel decreto di cui al presente comma, si
applica l'articolo 216, comma 11.
5. Gli effetti giuridici che l'ordinamento connette alla
pubblicità in ambito nazionale decorrono dalla data di
pubblicazione sulla piattaforma digitale dei bandi di gara
presso l'ANAC.»
A questo punto potrebbero in astratto sostenersi due
opposte tesi:
a) che fino all’entrata in vigore del regolamento volto a
disciplinare le modalità di pubblicazione dei bandi sulla
piattaforma telematica dell’ANAC continuano ad applicarsi i
principi elaborati in relazione all’art. 66/8 del vecchio
codice, dovendosi fare applicazione del comma 11 dell’art.
216 del nuovo codice, secondo il quale «Fino alla data
indicata nel decreto di cui all'articolo 73, comma 4, gli
avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati nella
Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, serie speciale
relativa ai contratti. Fino alla medesima data (omissis) …
gli effetti giuridici di cui al comma 5 del citato articolo
73 continuano a decorrere dalla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale» (questa è, in estrema sintesi, la tesi della
S.G.S.);
b) che detto comma undicesimo dell’art. 216 non prevede la
pubblicazione in GURI come centrale e che la data di
pubblicazione utile ai fini della validità del bando è una
qualunque pubblicazione, come per altro affermato in un
comunicato ANAC dell’11.05.2016.
Orbene, il Collegio ritiene che da un lato
proprio l’avvenuta pubblicazione del bando in GUCE sotto la
vigenza del vecchio codice dei contratti comporta che il
principio cui far riferimento al fine di stabilire a quale
tipo di pubblicazione agganciare la produzione degli effetti
giuridici è la norma del vecchio codice, ovvero l’art. 66/8
del medesimo, che riconnette alla pubblicazione in GURI la
produzione di effetti giuridici in ambito nazionale
(si veda anche la giurisprudenza su richiamata).
Inoltre, è dirimente la considerazione che,
secondo la proposizione finale del comma quarto dell’art. 73
del d.lgs. n. 50/2016, fino alla data indicata nel decreto
previsto dal medesimo comma si applica l'articolo 216, comma
11, che chiaramente riconnette la produzione di effetti
giuridici in ambito nazionale alla pubblicazione in GURI
fino alla predetta data, poiché fino alla stessa data gli
avvisi e i bandi devono anche essere pubblicati nella GURI,
serie speciale relativa ai contratti.
Stabilito,
quindi, alla luce delle premesse su esposte,
che la pubblicazione rilevante ai fini
dell’individuazione della disciplina applicabile alla
fattispecie, in quanto vigente a tale momento, è
esclusivamente quella nella GURI, la gara in questione non
poteva non essere disciplinata dal nuovo testo del codice
dei contratti.
Ne consegue che la disciplina di gara è illegittima sotto il
radicale profilo considerato, sicché, in accoglimento del
ricorso in esame, gli atti impugnati devono essere
annullati. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Al
al cospetto di un provvedimento sussumibile nel novero dei
c.d. provvedimenti plurimotivati, ossia fondati su più
motivi, ciascuno dei quali idoneo a giustificare la
decisione assunta dall’amministrazione, la giurisprudenza è
costante nell’affermare che “allorché sia controversa la
legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di
ragioni di diritto tra loro indipendenti, l’accertamento
dell’inattaccabilità anche di una sola di esse vale a
sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in
sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le
doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni”
soccorrendo, infatti, “al riguardo il consolidato principio
secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa
di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni,
ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in
modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse
passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale
perché il provvedimento nel suo complesso resti esente
dall’annullamento”.
Anche la Sezione si è posta negli stessi sensi e, più di
recente, ha ribadito che “In caso di provvedimento
plurimotivato, il rigetto di doglianza volta a contestare
una delle ragioni giustificatrici comporta la carenza di
interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori
doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici, atteso che, seppur tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente”.
---------------
3.2. Preliminarmente osserva il Collegio di essere al
cospetto di un provvedimento sussumibile nel novero dei c.d.
provvedimenti plurimotivati, ossia fondati su più motivi,
ciascuno dei quali idoneo a giustificare la decisione
assunta dall’amministrazione.
Nei casi come quello all’esame
la giurisprudenza è costante nell’affermare che “allorché
sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato
su una pluralità di ragioni di diritto tra loro
indipendenti, l’accertamento dell’inattaccabilità anche di
una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso,
sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per
carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le
restanti ragioni” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.05.2005,
n. 2767; in termini anche TAR Liguria, Sez. I, 17.03.2006,
n. 252; TAR Basilicata, Sez. I, 28.06.2010, n. 456)
soccorrendo, infatti, “al riguardo il consolidato principio
secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa
di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni,
ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in
modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse
passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale
perché il provvedimento nel suo complesso resti esente
dall’annullamento.” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010,
n. 4243).
Anche la Sezione si è posta negli stessi sensi (tra le
tante, TAR Campania-Napoli, Sez. III, 09.07.2012 n. 3300
e TAR Campania-Napoli, Sez. III, 27.09.2013 n. 4450) e
più di recente ha ribadito che “In caso di provvedimento plurimotivato, il rigetto di doglianza volta a contestare
una delle ragioni giustificatrici comporta la carenza di
interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori
doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici, atteso che, seppur tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 22/10/2015,
n. 4972) ed inattaccabile
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.10.2016 n. 4869 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La “realizzazione di un’autorimessa a
cielo aperto per la custodia giudiziaria di autoveicoli e
moto”, il cui intervento consiste:
- nella “Realizzazione di piazzale zona autorimessa previo
posa in opera di strato in tessuto geotessile impermeabile
(…), finitura con strato di asfalto bituminoso”, nonché in
“Realizzazione piazzale zona crash car, previo posa in opera
di strato tessuto geotessile impermeabile (…) con finitura
di pavimentazione in calcestruzzo”,
è incompatibile con la destinazione E agricola.
Osserva al riguardo il Collegio che il sempre più crescente
fenomeno di incremento delle attività industriali,
commerciali e, in genere, del settore terziario con la
consequenziale relativa attività edificatoria, produce e
concorre a causare sempre più consumo del suolo, erosione
del tessuto e del patrimonio naturale e della terra intesa
come primigenia risorsa dell’uomo, complesso di valori e
beni immateriali che possono essere riassunti nella
vivibilità ed amenità del territorio e che vanno preservati
dalla cementificazione sempre più diffusa che non a caso le
norme sul recupero e l’incentivazione del patrimonio
edilizio esistente mirano ad arginare.
Ma la delineata salvaguardia dei cennati valori e beni
immateriali non deve porre in ombra la considerazione, di
rilievo materiale, del territorio a destinazione agricola
quale sede di esercizio dell’attività agricola e sorgente
delle risorse alimentari che ne sono il portato, nonché
l’esigenza di salvaguardarlo.
Esigenza viepiù avvertita nel presente momento storico,
caratterizzato dalla scarsità della produzione agricola, con
il conseguente ricorso all’importazione con le connesse
preoccupazioni.
Orbene, la consumazione, in generale, del territorio che
l’edificazione, ancorché a scopo non residenziale, concorre
a determinare, si pone, a parere del Collegio, in palese
contrasto con la ratio insita nella destinazione di una
parte del territorio a zona agricola e relativa
classificazione negli strumenti urbanistici, risolvendosi in
ultima analisi in una frustrazione di tale ratio, che va
individuata nella salvaguardia delle potenzialità
immateriali e materiali intrinseche dei suoli agricoli e di
cui si è fatto cenno poc’anzi.
E’ di immediata evidenza, invero, come la stessa definizione
insita nella destinazione di un’area a “zona agricola”, non
può non indurre a ritenere incompatibili con tale
destinazione, usi della zona stessa radicalmente antitetici,
quali quello edificatorio ancorché per finalità non
residenziali.
Giova, peraltro, precisare che l’opzione qui sostenuta non
preclude quella limitata attività edificatoria che sia
collegata con le finalità agricole, “connessa con l'attività
di una azienda agricola ed avvenga nei limiti di
edificabilità previsti dalla relativa normativa”.
Segnala il Collegio che recente giurisprudenza di questo TAR
ha espresso il medesimo avviso che si ritiene di dover
formulare nel caso all’esame in virtù delle istanze di
tutela e salvaguardia del territorio più sopra illustrate.
Altra Sezione del Tribunale in una fattispecie
(realizzazione di un parcheggio scoperto in zona agricola)
similare a quella che ci occupa ha, infatti,
condivisibilmente sancito che “E' del tutto inconciliabile
con la finalità agricola, e non può essere ammissibile, la
realizzazione in area agricola di opere di battitura del
terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con
asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per
uno spessore di circa 50 cm. La realizzazione del
piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce
un intervento di permanente trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R.
n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di
costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le
destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona
agricola”.
---------------
Ciò posto, ritiene il Collegio di poter circoscrivere la
trattazione alla disamina delle censure svolte dalla
ricorrente avverso il vincolo di rischio idraulico e quello
di zona E agricola addotti nel provvedimento e nei
presupposti pareri, a ragioni del diniego, peraltro, come
avvertito, ciascuna autonomamente e singolarmente idonea a
giustificarlo.
3.3. Lamenta in proposito la deducente che il Comune non
rappresenta le ragioni per cui, in virtù della
classificazione dell’area de qua come “R1 – rischio
moderato”, l’intervento non sarebbe assentitile tenuto conto
delle norme del Piano Stralcio dell’Assetto idrogeologico
vigente, atteso che negli atti si opera il rifermento al PSAI 2011 (c.d. aggiornamento 2010), laddove con delibera n.
1 del 23.02.2015 dell’Autorità di Bacino regionale della
Campania centrale è stato approvato il PSAI 2015,
sostitutivo del precedente e valido ed efficace all’atto del
diniego impugnato.
Secondo la ricorrente, in sintesi, è risolutivo e sancisce
l’assentibilità dell’intervento oggetto della sua denegata
istanza, il disposto di cui all’art. 15, co. 3, del vigente PSAI 2015, a termini del quale “Nelle aree a rischio medio e
moderato ricadenti in aree a pericolosità idraulica moderata
(PI) sono consentiti tutti gli interventi e le attività
antropiche, compresa la realizzazione di volumi interrati ed
il loro uso, questi ultimi nei soli casi in cui sia
tecnicamente possibile garantire la tenuta idraulica dei
vani nei confronti dei fenomeni di allagamento individuati
dal Piano…”.
Secondo la deducente tale norma, invocata e richiamata anche
nella memoria di replica prodotta il 27.06.2016 (pag. 2), non
pone alcun limite, salvo per i volumi interrati.
3.4. Ritiene il Collegio che la sintetizzata censura, come
già delibato con l’Ordinanza cautelare n. 234/2016, sia
infondata.
Si profila, invero, ostativo all’effettuazione
dell’intervento funzionale all’attività cui aspira la
ricorrente ed oggetto della denegata istanza, il vincolo di
rischio idraulico, ancorché moderato, addotto nell’impugnato
presupposto parere della Direzione gestione del territorio
del Comune di Acerra prot. n. 11036 del 25.03.2015 ed ivi
affermato gravante per intero sulle particelle n. 75 e 76 e
in parte sulle particelle n. 77 e 78.
Riscontra, infatti, il Collegio che il Piano stralcio per
l’assetto idrogeologico (P.S.A.I.) approvato con Delibera di
Comitato Istituzionale dell’Autorità di Bacino regionale
della Campania n. 1 del 23.02.2015, prodotta in estratto
dalla stessa ricorrente (Doc. 9 del ricorso ), nelle Norme
di Attuazione, Titolo II – Rischio Idraulico, Capo I –
“Prescrizioni comuni per le aree a rischio idraulico e per
gli interventi ammissibili”, all’art. 8 punto 7, lettera f),
stabilisce che “Tutte le attività, opere o sistemazioni e
tutti i nuovi interventi consentiti nelle aree a rischio
idraulico devono essere tali da: f) limitare
l’impermeabilizzazione superficiale del suolo impiegando
tipologie costruttive e materiali tali da controllare la
ritenzione temporanea delle acque anche attraverso adeguate
reti di regimazione e di drenaggio”.
3.5. Contrasta, invece, con questa disposizione, che impone
di limitare l’impermeabilizzazione del suolo mediante
tecniche e materiali idonei a controllare la ritenzione
temporanea delle acque (anche predisponendo adeguate reti di
regimazione e drenaggio) l’intervento che la ricorrente
aspira ad effettuare mercé l’istanza respinta con il
provvedimento all’esame.
La “realizzazione di un’autorimessa a cielo aperto per la
custodia giudiziaria di autoveicoli e moto” oggetto di
diniego è, infatti, ben descritta nella relazione tecnica
del 09.01.2015 allegata al ricorso (Doc. 6).
Da tale elaborato e, in particolare, dal Capitolo 4 – Lavori
oggetto dell’intervento - pag. 2, il Collegio verifica che
l’intervento in analisi consiste, tra l’altro, nella
“Realizzazione di piazzale zona autorimessa previo posa in
opera di strato in tessuto geotessile impermeabile (…),
finitura con strato di asfalto bituminoso”, nonché in
“Realizzazione piazzale zona crash car, previo posa in opera
di strato tessuto geotessile impermeabile (…) con finitura
di pavimentazione in calcestruzzo” (punto successivo del
capitolo 4).
3.6. La prevista realizzazione di uno strato in tessuto
geotessile impermeabile, con finitura in strato di asfalto
bituminoso relativamente al piazzale autorimessa e con
finitura di pavimentazione in calcestruzzo relativamente al
“piazzale zona crash car”, confligge, dunque, con la
disposizione dell’art. 8, lett. f), delle norme di attuazione
del P.S.A.I. 2015 sopra riportata, la quale a parere del
Collegio prevale sull’art. 15, co. 3, invocato dalla
ricorrente anche nella memoria di replica, in quanto è
inserita nel Capo I che reca le “Prescrizioni comuni per le
aree a rischio idraulico”. Coerentemente con tale
collocazione sistematica nell’articolato normativo in
analisi, infatti, tutto l’art. 8, come recita la rubrica,
detta “Disposizioni generali per le aree a rischio idraulico
e per gli interventi ammissibili”.
Stante la nettezza del delineato contrasto, inoltre, a
parere del Collegio alcuna utilità avrebbe potuto derivare
alla istante dalla richiesta di un’integrazione documentale
o dal subordinare il rilascio del titolo edilizio alla
verifica di compatibilità dell’Autorità di Bacino, non
assumendo pertanto rilevanza, ai sensi dell’art. 21-octies,
co. 2, della L. n. 241 del 1990, la violazione dell’art. 6,
stessa legge, dedotta a pag. 17 del ricorso.
L’idoneità della ragione ostativa finora analizzata a
giustificare autonomamente l’impugnato diniego in virtù
della sua natura di provvedimento plurimotivato, esimerebbe
il Collegio dallo scrutinio dell’ultima censura del secondo
motivo di ricorso, dedicata alla confutazione della
rilevanza della classificazione dell’area a Zona agricola E.
Per completezza di trattazione, tuttavia, ritiene il
Collegio di dover esaminare anche tale tematica.
4.1. Si duole al riguardo la ricorrente che il Comune abbia
errato nell’esprimere parere negativo sull’assunto che le
particelle della ricorrente ricadono in zona E agricola del
vigente P.R.G, in quanto le zone agricole sono suscettibili
di usi diversi dalla coltivazione dei fondi, purché non
vengano destinate ad ampliamento degli insediamenti
residenziali.
Invoca a supporto della sua tesi varia giurisprudenza, nota
al Collegio, che ha espresso detto principio (tra cui TAR
Toscana, Sez. I, n. 4278/2005; Cons. di Stato, Sez. V, n.
968/1993 che ammise in zona agricola depositi di esplosivi;
la sentenza della Sezione n. 1134/2005 che ammise in tali
zone depositi di GPL; la sentenza della Sezione n. 3313/2012
che ritenne ammissibile in dette zone un deposito di oli
minerali; la sentenza della Sezione n. 2135/2011 espressasi
in termini generali sull’inesistenza di un obbligo di
destinare le zone agricole ad un’utilizzazione effettiva in
tal senso) talora condivisibilmente precisando che la
destinazione agricola è comunque ostativa a qualunque
edificazione, ancorché non residenziale, allorché si tratti
di insediamento agricolo consolidato, di particolare pregio,
attivo da tempo o favorito da bonifiche ovvero opere di
recupero (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 4861/2007).
4.2. Ritiene il Collegio di dover dissentire dall’esposto
orientamento, espresso anche dalla Sezione ma pur sempre in
fattispecie particolari.
E’ questo, ad esempio, il caso di TAR Campania–Napoli,
09.09.2015, n. 4403 –il cui richiamo non appare del tutto
pertinente- in materia di deposito di oli minerali, che è
stato dalla Sezione ritenuto ammissibile in zona agricola in
quanto “la motivazione sul punto da parte
dell’amministrazione comunale appare del tutto generica (…)
posto che, proprio in considerazione dell’assenza nel
territorio comunale di zone omogenee specifiche per impianti
della specie, è ben possibile che la scelta ricada in un
terreno a destinazione agricola”.
4.3. Osserva al riguardo il Collegio che il sempre più
crescente fenomeno di incremento delle attività industriali,
commerciali e, in genere, del settore terziario con la
consequenziale relativa attività edificatoria, produce e
concorre a causare sempre più consumo del suolo, erosione
del tessuto e del patrimonio naturale e della terra intesa
come primigenia risorsa dell’uomo, complesso di valori e
beni immateriali che possono essere riassunti nella
vivibilità ed amenità del territorio e che vanno preservati
dalla cementificazione sempre più diffusa che non a caso le
norme sul recupero e l’incentivazione del patrimonio
edilizio esistente mirano ad arginare.
Ma la delineata salvaguardia dei cennati valori e beni
immateriali non deve porre in ombra la considerazione, di
rilievo materiale, del territorio a destinazione agricola
quale sede di esercizio dell’attività agricola e sorgente
delle risorse alimentari che ne sono il portato, nonché
l’esigenza di salvaguardarlo.
Esigenza viepiù avvertita nel presente momento storico,
caratterizzato dalla scarsità della produzione agricola, con
il conseguente ricorso all’importazione con le connesse
preoccupazioni.
4.4. Orbene, la consumazione, in generale, del territorio
che l’edificazione, ancorché a scopo non residenziale,
concorre a determinare, si pone, a parere del Collegio, in
palese contrasto con la ratio insita nella destinazione di
una parte del territorio a zona agricola e relativa
classificazione negli strumenti urbanistici, risolvendosi in
ultima analisi in una frustrazione di tale ratio, che va
individuata nella salvaguardia delle potenzialità
immateriali e materiali intrinseche dei suoli agricoli e di
cui si è fatto cenno poc’anzi.
E’ di immediata evidenza, invero, come la stessa definizione
insita nella destinazione di un’area a “zona agricola”, non
può non indurre a ritenere incompatibili con tale
destinazione, usi della zona stessa radicalmente antitetici,
quali quello edificatorio ancorché per finalità non
residenziali.
Giova, peraltro, precisare che l’opzione qui sostenuta non
preclude quella limitata attività edificatoria che sia
collegata con le finalità agricole, “connessa con l'attività
di una azienda agricola ed avvenga nei limiti di
edificabilità previsti dalla relativa normativa” (TAR
Puglia–Bari, Sez. II, 09.07.2015, n. 1001).
4.5. Segnala il Collegio che recente giurisprudenza di
questo TAR ha espresso il medesimo avviso che si ritiene
di dover formulare nel caso all’esame in virtù delle istanze
di tutela e salvaguardia del territorio più sopra
illustrate.
Altra Sezione del Tribunale in una fattispecie
(realizzazione di un parcheggio scoperto in zona agricola)
similare a quella che ci occupa ha, infatti,
condivisibilmente sancito che “E' del tutto inconciliabile
con la finalità agricola, e non può essere ammissibile, la
realizzazione in area agricola di opere di battitura del
terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con
asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per
uno spessore di circa 50 cm. La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un
intervento di permanente trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R.
n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di
costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le
destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona
agricola.” (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, 10.03.2016, n. 1397).
Alla luce di quanto argomentato, dunque, anche le censure
articolate dalla ricorrente relativamente all’ostatività,
addotta nei provvedimenti e negli atti impugnati, della
destinazione a zona E agricola delle particelle in sua
titolarità, si prospettano infondate e vanno disattese.
In definitiva, sulla scorta delle considerazioni fin qui
svolte, il ricorso si profila infondato e va,
conseguentemente, respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.10.2016 n. 4869 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Elenco opere superspecialistiche, via libera dal Consiglio
di Stato al decreto del Mit.
Il Ministero delle Infrastrutture ha fornito adeguati
elementi istruttori in merito alle osservazioni e alle
proposte di modifica avanzate da Ance e Finco.
Il Consiglio di Stato ha espresso
parere favorevole -21.10.2016 n. 2189– sullo "Schema
di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti
recante individuazione delle opere per le quali sono
necessari lavori o componenti di notevole contenuto
tecnologico o di rilevante complessità tecnica e dei
requisiti di specializzazione richiesti per la loro
esecuzione, ai sensi dell’articolo 89, comma 11, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50”.
Il Consiglio di Stato ha chiarito che il decreto, sul cui
schema è stato chiesto il parere dal Ministero delle
Infrastrutture, reca la disciplina delle opere c.d.
superspecialistiche per le quali “non è ammesso l’avvalimento,
qualora il loro valore superi il dieci per cento
dell’importo totale dei lavori e per le quali … l’eventuale
subappalto non può superare il trenta per cento delle opere”,
individuando in particolare l’elenco di tali opere (art. 2)
e i “requisiti di specializzazione” che devono essere
posseduti per l’esecuzione delle opere in questione (art.
3).
Il decreto è finalizzato a superare -nelle more della
definizione, da parte dell’ANAC, del sistema unico di
qualificazione degli operatori economici previsto dall’art.
84 del Codice- il regime transitorio recato dall’art. 216,
comma 15, del Codice, il quale prevede che “fino alla
data di entrata in vigore del decreto di cui all'art. 89,
comma 11, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui
all'art. 12, d.l. 28.03.2014, n. 47, convertito, con
modificazioni, dalla l. 23.05.2014, n. 80”.
Con il parere interlocutorio reso nell’Adunanza del
21.09.2016 (LEGGI
TUTTO), Palazzo Spada ha rilevato che il
Ministero delle Infrastrutture, tramite la relazione in
epigrafe, non ha fornito alla Sezione “adeguati elementi
istruttori in merito alle osservazioni e alle proposte di
modifica” avanzate dall’Ance (Associazione nazionale
costruttori edili) e dalla Finco (Federazione industrie
prodotti impianti servizi ed opere specialistiche per le
costruzioni) nel corso delle consultazioni prodromiche alla
stesura dello schema di decreto e non ha esplicitato “la
sua posizione in merito alle succitate osservazioni e
proposte di modifica”.
Conseguentemente, la Sezione ha invitato il Ministero
proponente a predisporre “un supplemento d’istruttoria”,
fornendo alla Sezione stessa puntuali chiarimenti in merito
a quanto rilevato dalle succitate associazioni di settore.
I CHIARIMENTI DEL MIT.
Con la nota del 07.10.2016, prot. n. 37559, il Mit ha
adempiuto a quanto richiesto da questa Sezione, esplicitando
la propria posizione in merito alle osservazioni e alle
proposte di modifica del testo regolamentare formulate
dall’Ance e dalla Finco.
Per quanto riguarda le richieste di modifica avanzate dalla
Finco con la nota dell’11.07.2016 -concernenti le categorie
che ad avviso della predetta associazione sarebbero
meritevoli d’inserimento nell’elenco di cui al decreto in
esame, con i relativi requisiti di qualificazione- il
Ministero proponente, dopo aver evidenziato che tali
richieste “vanno nella direzione diametralmente opposta a
quella rappresentata dall’Ance”, in quanto volte ad una
“rivisitazione in aumento” delle categorie di opere
superspecialistiche, ha comunicato di non aver accolto tali
rilievi sia in ragione del fatto che l’elencazione già
recata dall’art. 12 del d.l. n. 47 del 2014 sarebbe fondata
su “criteri oggettivi ed indicativi del livello di
specializzazione richiesto per le opere riconducibili alle
singole categorie” sia in considerazione della
circostanza che le ulteriori categorie di opere di cui la
Finco ha richiesto l’introduzione nell’ambito dell’art. 2
sarebbero “caratterizzate da una minor complessità
tecnica” rispetto a quelle individuate dal decreto.
IL PARERE FAVOREVOLE DEL CONSIGLIO DI STATO.
La Sezione consultiva del Consiglio di Stato ha condiviso la
scelta del Mit di:
a) ribadire l’elenco delle opere superspecialistiche già recato
dalle previgenti disposizioni, e ciò in considerazione del
fatto che in attesa della predisposizione da parte dell’ANAC
del sistema unico di qualificazione di cui all’art. 84 del
Codice non sarebbe utile “provocare disallineamenti e
disfunzioni rispetto al vigente sistema di qualificazione”;
b) sottoporre l’atto normativo ad un periodo di monitoraggio di
dodici mesi all’esito del quale si procederà “all’aggiornamento”
del suo contenuto, e ciò sia in ragione della circostanza
che il contesto normativo nel quale si inserisce il decreto
potrebbe mutare a seguito della definizione, da parte dell’ANAC,
del sistema unico di qualificazione degli operatori
economici previsto dall’art. 84 del Codice, sia in
considerazione del fatto che tale previsione potrebbe
risultare utile al fine di superare le problematiche
paventate dalle Associazioni di settore nel corso del
procedimento prodromico alla stesura dello schema de quo
(art. 4 dello schema) (commento tratto da e link a
www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E'
legittima l'ordinanza contingibile ed urgente nei contri di
ANAS Spa per la
rimozione dei rifiuti contenenti amianto riferiti alla
piazzola del raccordo autostradale e alla scarpata raccordo
autostradale ed allo smaltimento/recupero degli
stessi, secondo la normativa vigente in materia,
ripristinando lo stato dei luoghi e le matrici ambientali,
ove necessario.
La norma dell’art. 14 della Codice della
Strada, intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari
delle strade”, e per essi dei concessionari, dispone che
detti proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire
la sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano
provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e pulizia
delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle
attrezzature, impianti e servizi”.
Anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di efficiente
operatività del servizio di raccolta rifiuti una diversa
interpretazione non trova apprezzabili riscontri, perché
sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al Comune il
dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su strada e sue
pertinenze, di proprietà di soggetto terzo, poiché la
relativa attività comporterebbe l’occupazione della
carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il trasporto
dei rifiuti, nonché il transito di operatori ecologici per
le altre attività proprie della raccolta rifiuti, che sono
oggettivamente incompatibili, o comunque interferenti, con
il normale flusso della circolazione stradale.
Sicché “è soltanto l’ente proprietario o gestore della
strada che […] può razionalmente ed efficacemente
programmare ed attuare in sicurezza la pulizia della strada
e delle sue pertinenze, poiché solo essi possono programmare
e gestire tutte le misure e le cautele idonee a garantire la
sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle
pulizie”.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene l’art. 14
della Codice della Strada norma speciale di settore che, per
sua natura, non può ritenersi derogata se non da altra norma
speciale che espressamente la privi della sua efficacia,
ovvero disponga diversamente per ipotesi individuate,
laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene previsioni
specifiche in materia di sicurezza stradale.
Non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a
ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi
dalla sede stradale e sue pertinenze.
L’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre,
prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio
del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed
espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità
della circolazione (co. 1) ed è incontestata la circostanza
che i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale,
possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della
circolazione”.
-----------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 1764/14 avendo ad
oggetto rimozione e smaltimento rifiuti speciali pericolosi;
...
Premesso che:
- con ordinanza n. 1764 del 14.04.2016 il Sindaco del
Comune di San Michele Serino ha ordinato all’ANAS s.p.a. la
rimozione dei rifiuti contenenti amianto riferiti alla
piazzola del raccordo autostradale Avellino-Salerno Km.
28+500 (direzione Avellino) e alla scarpata raccordo
autostradale Avellino Salerno (Km. 25+100, località Zappelle
(direzione Avellino), ed allo smaltimento/recupero degli
stessi, secondo la normativa vigente in materia,
ripristinando lo stato dei luoghi e le matrici ambientali,
ove necessario, entro il termine di gg. 60 dalla notifica;
- con ricorso tempestivamente notificato all’amministrazione
resistente e regolarmente depositato nella Segreteria del
Tar, l’Anas chiedeva l’annullamento di tale ordine, per i
seguenti motivi:
- violazione e falsa applicazione degli artt. 192 e 257
d.lgs. n. 152/2006, ed in particolare della direttiva
2004/35 CEE con particolare riferimento al principio “chi
inquina paga”, inesistenza del presupposto e difetto di
motivazione, non essendo di per sé sufficiente il dato non
controverso della proprietà dell’area interessata
dall’abbandono di materiale di rifiuto anche particolarmente
dannoso;
Considerato che, conformemente a quanto già deciso da questa
sezione con decisione n. 51 del 2016, il provvedimento qui
gravato può trovare adeguato fondamento nell’art. 14 del
Codice della Strada –come giustamente eccepito dalla difesa
della parte resistente– ed a cui può attingere comunque
l’ordinanza contingibile ed urgente disposta dal Sindaco del
Comune di Cassano Irpino per la semplice ed essenziale
evenienza legata al fatto che i rifiuti in contestazione, di
cui si ordina la rimozione all’ANAS, risultano collocati
lungo il raccordo autostradale sopra menzionato;
Considerato altresì che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada,
intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle
strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti
proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano
provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e pulizia
delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle
attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di
efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una
diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri,
perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al
Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su
strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo,
poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione
della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il
trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori
ecologici per le altre attività proprie della raccolta
rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque
interferenti, con il normale flusso della circolazione
stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o gestore
della strada che […] può razionalmente ed efficacemente
programmare ed attuare in sicurezza la pulizia della strada
e delle sue pertinenze, poiché solo essi possono programmare
e gestire tutte le misure e le cautele idonee a garantire la
sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle
pulizie” (Cons. di Stato, IV, sent. n. 2677/2011, che
conferma TAR Lazio, sent. n. 7027/2009, TAR Napoli,
sent. n. 7428/2006 e TAR Basilicata n. 441/2010);
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene
l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di
settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se
non da altra norma speciale che espressamente la privi della
sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi
individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene
previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a
ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi
dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre,
prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio
del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed
espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità
della circolazione (co. 1) ed è incontestata la circostanza
che i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale,
possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della
circolazione” (TAR Salerno, II, sent. n. 330/2013, n.
1373/2015 e TAR Puglia Sede d Bari, Sez. III, n. 65 del
2015);
Ritenuto, alla luce delle sopra esposte osservazioni, che il
ricorso è infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 20.10.2016 n. 2311 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La regolarità contributiva nel nuovo Codice dei contratti.
Negli pubblici appalti, alla luce del
nuovo Codice di contratti, approvato con d.lgs. 18.04.2016,
n. 50:
- in fase di esecuzione del contratto, la regolarità
contributiva è verificata d’ufficio da parte della stazione
appaltante prima del pagamento del prezzo dell’appalto, ma
in caso di DURC negativo non consegue la risoluzione del
contratto di appalto, bensì il pagamento diretto dei
contributi previdenziali da parte della stazione appaltante,
con trattenuta dal prezzo dovuto per l’appalto (artt. 30,
comma 5, e 105, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016);
- in fase di gara, il DURC non è più acquisito d’ufficio per
verificare l’autodichiarazione in gara, ma va chiesto ai
concorrenti (art. 86, comma 2, lett. b), n. 50 del 2016);
- in fase di gara, è causa di esclusione dalla
partecipazione alla procedura la commissione di “violazioni
gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi
relativi al pagamento (…) dei contributi previdenziali”
(art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016).
Ma costituiscono “violazioni gravi” non più quelle ostative
al rilascio del DURC ai sensi dell’art. 8, d.m. 24.10.2007
(vale a dire gli omessi versamenti con scostamenti superiori
al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a
ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno
scostamento superiore ad euro 100,00), bensì “quelle
ostative al rilascio del documento unico di regolarità
contributiva (DURC) di cui all’art. 8 del decreto del
Ministero del lavoro e della politiche sociali 30.01.2015”
(art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016), vale a dire le
violazioni anche di natura penale elencate nell’allegato A
al d.m. 30.01.2015; non vi è infatti coincidenza di contenuto
tra il previgente art. 8, d.m. 24.10.2007 e l’art. 8, d.m.
30.01.2015 ora richiamato dall’art. 80, comma 4, d.lgs. n.
50 del 2016 (l’art. 8, d.m. 24.10.2007 corrisponde invece
all’art. 3, d.m. 30.01.2015, che non è richiamato dall’art.
80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016)
(C.G.A.R.S.,
parere 19.10.2016 n. 1063
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Regione
Siciliana proposto da Ma.So.Ma. soc. coop e ditta Ar.Gi.,
avverso provvedimento Assessorato regionale attività
produttive n. 3250 del 21/01/2014 di diniego a subentro.
Istanza di sospensione.
...
6. Nel merito il ricorso è fondato.
6.1. Giova innanzi tutto premettere che il provvedimento di
concessione di finanziamenti pubblici, nazionali o europei,
non soggiace all’applicazione del codice dei contratti
pubblici (ratione temporis il d.lgs. n. 163/2006), e
alla disciplina ivi prevista in materia di regolarità
contributiva.
Per i soli pubblici appalti e concessioni (ratione temporis:
di lavori pubblici) la disciplina vigente in relazione ai
fatti di causa prescrive che la regolarità contributiva deve
sussistere per tutta la durata della procedura, e che il
DURC va acquisito d’ufficio, sicché è inapplicabile il
procedimento di regolarizzazione previsto dall’art. 7, c. 3, d.m. 24.10.2007 (c.d. preavviso di DURC negativo) e, in
prosieguo, dall’art. 31. c. 8, d.l. n. 69/2013 (in tal senso
Cons. St.., ad. plen., 29.02.2016 nn. 5 e 6).
6.2. Fuori dal campo di applicazione del codice appalti, e
in particolare per l’erogazione dei finanziamenti pubblici,
l’art. 31, c. 8-quater, d.l. n. 69/2013 e, già in
precedenza, l’art. 1, c. 553, l. n. 266/2005 (a tenore del
quale ”Per accedere ai benefici ed alle sovvenzioni
comunitarie per la realizzazione di investimenti, le imprese
di tutti i settori sono tenute a presentare il documento
unico di regolarità contributiva"),richiedono la regolarità
contributiva al fine della erogazione del contributo.
Dispone infatti il citato art. 31. c. 8-quater, d.l. n.
69/2013 : “Ai fini dell’ammissione delle imprese di tutti i
settori ad agevolazioni oggetto di cofinanziamento europeo
finalizzate alla realizzazione di investimenti produttivi,
le pubbliche amministrazioni procedenti anche per il tramite
di eventuali gestori pubblici o privati dell’intervento
interessato sono tenute a verificare, in sede di concessione
delle agevolazioni, la regolarità contributiva del
beneficiario, acquisendo d’ufficio il documentounico di
regolarità contributiva ( DURC)”.
E’ applicabile anche il c. 8 dell’art. 31, d.l. n. 69/2013, a
tenore del quale: “Ai fini della verifica per il rilascio
del documento unico di regolarità contributiva (DURC), in
caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale
documento gli Enti preposti al rilascio, prima
dell’emissione del DURC o dell’annullamento del documento
già rilasciato, invitano l’interessato, mediante posta
elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il tramite
del consulente del lavoro ovvero degli altri soggetti di cui
all’art. 1 della legge 11.01.1979, n. 12, a
regolarizzare la propria posizione entro un termine non
superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità”.
Sicché, la regolarità contributiva va autodichiarata in sede
di domanda di ammissione al contributo, e deve essere
accertata al momento dell’erogazione.
Sia che della produzione del DURC sia onerato il
concorrente, sia che lo stesso sia acquisito d’ufficio come
ora prescrive l’art. 31, c. 8-quater, d.l. n. 69/2013, trova
applicazione la possibilità di regolarizzazione di cui al c.
8 del citato art. 31, c. 8–quater, d.l. n. 69/2013 (secondo
quanto già prevedeva, in precedenza, l’art. 7, c. 3, d.m.
24.10.2007).
6.3. Nel caso in cui il concorrente ammesso a finanziamento
ceda la propria azienda ad un altro soggetto e venga chiesto
il subentro di quest’ultimo, è corretto anticipare la
verifica della posizione previdenziale al momento del
subentro, rispetto al momento fisiologico dell’erogazione
del contributo, al fine di evitare che attraverso la
cessione di azienda o operazioni societarie si possa eludere
la disciplina pubblicistica sui requisiti del concorrente.
Tuttavia occorrerà applicare le stesse regole che sarebbero
state applicate al fine della verifica della posizione
previdenziale del concorrente al momento della erogazione
del contributo: va cioè consentito al concorrente, prima
dell’emissione del DURC negativo, di regolarizzare la
propria posizione.
Pertanto la Regione non avrebbe potuto, come ha fatto,
verificare d’ufficio la posizione previdenziale del
concorrente alla data del 01.08.2012, ma invece
chiedergli di produrre il DURC, il che avrebbe consentito al
concorrente di regolarizzare la propria posizione.
E’ inoltre pacifico che il cessionario era in possesso di
tutti i requisiti prescritti.
6.4. Giova infine considerare, sul piano sistematico, che
l’ordinamento mira a conseguire l’obiettivo del pagamento
effettivo dei contributi previdenziali, e che le recenti
riforme consentono ampiamente la regolarizzazione e hanno
ridotto la possibilità di esclusione dei concorrenti dalle
procedure.
Negli stessi pubblici appalti, alla luce del sopravvenuto
d.lgs. n. 50/2016:
- in fase di esecuzione del contratto, la regolarità
contributiva è verificata d’ufficio da parte della stazione
appaltante prima del pagamento del prezzo dell’appalto, ma
in caso di DURC negativo non consegue la risoluzione del
contratto di appalto, bensì il pagamento diretto dei
contributi previdenziali da parte della stazione appaltante,
con trattenuta dal prezzo dovuto per l’appalto (artt. 30, c. 5
e 105, c. 9, d.lgs. n. 50/2016);
- in fase di gara, il DURC non è più acquisito d’ufficio per
verificare l’autodichiarazione in gara, ma va chiesto ai
concorrenti (art. 86, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 50/2016);
- in fase di gara, è causa di esclusione dalla
partecipazione alla procedura la commissione di “violazioni
gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi
relativi al pagamento (…)dei contributi previdenziali” (art.
80, c. 4, d.lgs. n. 50/2016).
Ma costituiscono “violazioni
gravi” non più quelle ostative al rilascio del DURC ai sensi
dell’art. 8 d.m. 24.10.2007 (vale a dire gli omessi
versamenti con scostamenti superiori al 5% tra le somme
dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di
paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento
superiore ad euro 100,00), bensì “quelle ostative al
rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC) di cui all’art. 8 del decreto del Ministero del lavoro
e della politiche sociali 30.01.2015” (art. 80, c. 4,
d.lgs. n. 50/2016), vale a dire le violazioni anche di
natura penale elencate nell’allegato A al d.m 30.01.2015; non vi è infatti coincidenza di contenuto tra il
previgente art. 8, d.m 24.10.2007 e l’art. 8 d.m. 30.01.2015 ora richiamato dall’art. 80, c. 4 d.lgs. n.
50/2016 (l’art. 8, d.m 24.10.2007 corrisponde invece
all’art. 3, d.m. 30.01.2015, che non è richiamato
dall’art. 80, c. 4, d.lgs. n. 50 /2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’art.
24, comma 7, l. n. 241/1990, nel prevedere, immediatamente
dopo l’individuazione a opera del comma 6 delle fattispecie
di documenti sottratti all’accesso, che “deve comunque
essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici”, ha sancito la
tendenziale prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche
sulle antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza
tecnica o commerciale delle parti contro-interessate>>.
I documenti di cui si richiede l’ostensione non sono coperti
da segreto istruttorio, provenendo essi dall’Amministrazione
scolastica e non trattandosi di atti posti in essere
nell’ambito di un’attività del Pubblico Ministero o della
Polizia Giudiziaria (circostanza che, ovviamente, avrebbe
potuto giustificare il diniego).
Sicché, deve dunque dichiararsi l’illegittimità del
‘differimento’ opposto dall’Amministrazione intimata e
conseguentemente ordinarsi allo stessa di esibire i
documenti oggetto dell’istanza ostensiva (purché formati,
come appena scritto, dall’Amministrazione scolastica e non
riferibili, invece, all’Autorità giudiziaria), con facoltà
per la ricorrente di estrarre copia di quelli di ritenuta
utilità.
---------------
... per l’annullamento del provvedimento prot. n.
MIUR.AOOUSPBR Registro Ufficiale del 10.03.2016, con il
quale è stato disposto, in luogo dell’accoglimento
dell’istanza di accesso agli atti avanzata dalla ricorrente
in data 27.02.2016, il differimento della medesima “in
funzione delle notizie relative a un’eventuale indagine da
parte della competente Procura”;
...
1.- Rilevato che la sig.ra Si., insegnante
presso l’Istituto Scolastico Comprensivo ‘Centro 1’ di
Brindisi, formulava -il 27.02.2016- istanza di accesso
relativamente agli accertamenti esperiti e agli atti
eventualmente adottati a seguito di un proprio precedente
esposto (del 12.06.2015, reiterato il 27.11.2015)
rivolto all’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia e al
Ministero.
2.- Considerato che l’Amministrazione intimata, pur dando
atto della legittimazione della Si. ad accedere agli
atti in parola, respingeva la relativa istanza (rectius: ne
differiva l’accoglimento, ex art. 9 d.p.r. 12.04.2006,
n. 184) evidenziando come sui fatti de quibus fosse in corso
un’indagine da parte della Procura della Repubblica presso
il Tribunale di Brindisi (a seguito di altro esposto,
consequenziale a quello citato, presentato dall’Istituzione
Scolastica ‘Centro 1’ di Brindisi).
3.- Osservato che:
- <<l’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel prevedere,
immediatamente dopo l’individuazione a opera del comma 6
delle fattispecie di documenti sottratti all’accesso, che
“deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, ha
sancito la tendenziale prevalenza del c.d. ‘accesso
difensivo’ anche sulle antagoniste ragioni di riservatezza o
di segretezza tecnica o commerciale delle parti
contro-interessate>> (TAR Puglia Lecce, II, 25.05.2016, n. 846; II,
02.07.2013, n. 1566).
- i documenti di cui si richiede l’ostensione non sono
coperti da segreto istruttorio, provenendo essi
dall’Amministrazione scolastica e non trattandosi di atti
posti in essere nell’ambito di un’attività del Pubblico
Ministero o della Polizia Giudiziaria (circostanza che,
ovviamente, avrebbe potuto giustificare il diniego).
4.- Ritenuto che:
- deve dunque dichiararsi l’illegittimità del ‘differimento’
opposto dall’Amministrazione intimata e conseguentemente
ordinarsi allo stessa di esibire i documenti oggetto
dell’istanza ostensiva (purché formati, come appena scritto,
dall’Amministrazione scolastica e non riferibili, invece,
all’Autorità giudiziaria), con facoltà per la ricorrente di
estrarre copia di quelli di ritenuta utilità.
- le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno
liquidate nella complessiva somma di euro 1.000,00
(mille/00), oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione
Seconda di Lecce, definitivamente pronunciando sul ricorso
n. 641 del 2016 indicato in epigrafe, lo accoglie e, per
l’effetto, ordina all’Amministrazione Scolastica intimata di
esibire i documenti oggetto della richiesta di accesso agli
atti avanzata dalla ricorrente il 27.02.2016 -a
esclusione di quelli eventualmente riferibili all’attività
del Pubblico Ministero o della Polizia Giudiziaria-, con
facoltà per la stessa di estrarne copia
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 18.10.2016 n. 1578 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla
decadenza di un consigliere comunale per reiterata assenza
ingiustificata.
La giurisprudenza, in materia, ha
elaborato i seguenti consolidati principi in materia:
- la decadenza dalla carica di consigliere comunale costituisce una
limitazione all’esercizio di un munus publicum, sicché la
valutazione delle circostanze cui è conseguente la decadenza
vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore;
- il carattere sanzionatorio del provvedimento, destinato ad
incidere su una carica elettiva, impone la massima
attenzione agli aspetti garantistici della procedura, anche
per evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di
discriminazione nei confronti delle minoranze;
- più specificamente, nessuna norma stabilisce che le assenze per
mancato intervento dei consiglieri dalle sedute del
consiglio comunale debbano essere giustificate
preventivamente di volta in volta, potendo pertanto essere
fornite successivamente, anche dopo la notificazione
all’interessato della proposta di decadenza, ferma restando
l’ampia facoltà di apprezzamento del consiglio comunale in
ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle
circostanze addotte a giustificazione delle assenze;
- per quanto riguarda propriamente la giustificabilità delle
assenze dalle sedute del Consiglio Comunale, esse possono
dar luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione
un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o
inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico
elettivo;
- in definitiva, visto che l’elettorato passivo trova tutela a
livello costituzionale (art. 51 Cost.), le ragioni che, in
relazione al modo di esercizio della carica, possono
comportare decadenza devono essere obiettivamente gravi
nella loro assenza o inconferenza di giustificazione ovvero
nella loro estrema genericità, tale da impedire qualsiasi
accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei
motivi stessi oltre che sfornita di qualsiasi principio di
prova.
---------------
Ulteriormente considerato, alla luce dei suddetti principi,
che:
- devono ritenersi cause giustificative delle assenze in
discorso gli impedimenti attinenti allo stato di salute,
senza che il vaglio in concreto delle giustificazioni
addotte dal consigliere interessato (che senz’altro compete
al Consiglio comunale) possa giungere a sindacare
nell’intrinseco il giudizio medico in sé;
- l’affermata impossibilità di saggiare l’autenticità dei
certificati medici avrebbe dovuto comportare l’ordine di
deposito degli originali, viepiù in assenza di una formale
attività di disconoscimento chiara e circostanziata ed in
considerazione della gravità delle conseguenze disposte.
----------------
Rilevato che:
- con deliberazione del Consiglio comunale di Maropati n. 23
del 17.08.2016, la ricorrente, consigliere comunale del
predetto Comune, è stata dichiarata decaduta dalla carica;
- con precedente delibera consiliare n. 22 del 23.07.2016 le
è stata contestata l’assenza senza giustificato motivo per
le quattro sedute consecutive del Consiglio comunale
tenutesi il 29 aprile, 30 aprile, 23 maggio e 06.06.2016;
- il Consiglio non ha ritenuto sufficienti le
giustificazioni dalla stessa addotte (n. 2 certificati
medici attestanti la necessità di riposo e cura nei giorni
del 29 e 30.04.2016 e del 06.06.2016 e dichiarazione
attestante la presenza ad Arezzo in qualità di
accompagnatrice della madre, invalida al 100%, ad una visita
di controllo);
- il provvedimento è stato gravato dalla ricorrente che
lamenta:
1) la violazione degli artt. 7 e 8 della l. n. 241/1990;
2) la violazione dell’art. 12, IV comma, dello Statuto e l’eccesso
di potere sotto diversi profili in quanto le giustificazioni
addotte dall’interessata sarebbero state disattese recependo
acriticamente le osservazioni svolte in precedenza dal
Sindaco ed all’esito di un non consentito controllo di
merito sui problemi di salute attestati dai certificati
medici trasmessi, con ciò dissimulando la reale finalità
perseguita con l’adozione dell’atto gravato di liberarsi di
un consigliere scomodo;
- il Comune di Maropati, costituitosi in giudizio, ha
contestato le suddette censure evidenziando la correttezza
procedimentale dell’iter di decadenza; l’inidoneità della
certificazione medica prodotta a giustificare le assenze non
essendo in essa indicate né la malattia contratta dalla
ricorrente né la necessità di riposo domiciliare assoluto
nonché l’impossibilità di saggiare l’autenticità della
certificazione medica in quanto prodotta in mera fotocopia;
Considerato che:
- come già osservato da questo Tribunale con sentenza n. 141
del 06.03.2014, la giurisprudenza ha elaborato i seguenti
consolidati principi in materia:
- la decadenza dalla carica di consigliere comunale costituisce una
limitazione all’esercizio di un munus publicum,
sicché la valutazione delle circostanze cui è conseguente la
decadenza vanno interpretate restrittivamente e con estremo
rigore;
- il carattere sanzionatorio del provvedimento, destinato ad
incidere su una carica elettiva, impone la massima
attenzione agli aspetti garantistici della procedura, anche
per evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di
discriminazione nei confronti delle minoranze;
- più specificamente, nessuna norma stabilisce che le assenze per
mancato intervento dei consiglieri dalle sedute del
consiglio comunale debbano essere giustificate
preventivamente di volta in volta, potendo pertanto essere
fornite successivamente, anche dopo la notificazione
all’interessato della proposta di decadenza, ferma restando
l’ampia facoltà di apprezzamento del consiglio comunale in
ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle
circostanze addotte a giustificazione delle assenze;
- per quanto riguarda propriamente la giustificabilità delle
assenze dalle sedute del Consiglio Comunale, esse possono
dar luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione
un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o
inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico
elettivo;
- in definitiva, visto che l’elettorato passivo trova tutela a
livello costituzionale (art. 51 Cost.), le ragioni che, in
relazione al modo di esercizio della carica, possono
comportare decadenza devono essere obiettivamente gravi
nella loro assenza o inconferenza di giustificazione ovvero
nella loro estrema genericità, tale da impedire qualsiasi
accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei
motivi stessi oltre che sfornita di qualsiasi principio di
prova (in tal senso, TAR Lombardia, Brescia, 10.04.2006, n.
383; Consiglio di Stato, Sez. V, 09.10.2007, n. 5277);
Ulteriormente considerato, alla luce dei suddetti principi,
che:
- devono ritenersi cause giustificative delle assenze in
discorso gli impedimenti attinenti allo stato di salute,
senza che il vaglio in concreto delle giustificazioni
addotte dal consigliere interessato (che senz’altro compete
al Consiglio comunale, cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. I,
14.03.2011, n. 464) possa giungere a sindacare
nell’intrinseco il giudizio medico in sé;
- l’affermata impossibilità di saggiare l’autenticità dei
certificati medici avrebbe dovuto comportare l’ordine di
deposito degli originali, viepiù in assenza di una formale
attività di disconoscimento chiara e circostanziata ed in
considerazione della gravità delle conseguenze disposte;
Ritenuto, pertanto, che:
- il secondo motivo di ricorso è fondato poiché l’atto
gravato è viziato da eccesso di potere per insufficienza e
contraddittorietà della motivazione in quanto le
giustificazioni addotte a sostegno delle tre assenze “per
malattia” non appaiono né estremamente generiche né
sfornite di prova;
Ulteriormente ritenuto, al contrario, che il primo motivo di
ricorso sia infondato, non ravvisandosi i dedotti vizi
procedimentali in quanto l’iter si è svolto nel rispetto
dell’art. 69 del T.U.E.L., testualmente richiamato dall’art.
12, V comma, dello Statuto comunale, ed anzi prendendo in
considerazione le giustificazioni presentate dalla
ricorrente in una fase precedente, a garanzia massima del
contradditorio;
Conclusivamente ritenuto, per tali motivi, di accogliere il
ricorso e di disporre sulle spese in base al principio della
soccombenza
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 18.10.2016 n. 1009 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
diritto alla privacy ed il (potenziale) risarcimento per
aver pubblicato deliberazioni all'albo pretorio comunale
on-line.
La pubblicazione e la divulgazione di atti che
determinino una diffusione di dati personali deve ritenersi
lecita
qualora prevista
da una norma di legge o di
regolamento, mentre il termine previsto dall'art. 124
D.lgs. 267/2000 (pubblicazione nell'albo pretorio per 15
giorni
consecutivi) non può ritenersi di natura perentoria (come
indirettamente confermato dalle linee guida contenute nel
D.Lgs. 33/2013 che, disciplinando la pubblicità per
finalità
di trasparenza, ne ha previsto la durata in 5 anni).
---------------
Il contenuto delle due delibere comunali -con
le
quali vennero, rispettivamente, riportati il nome e cognome
degli
odierni resistenti, oltre alla targa e al modello di
autovettura
di proprietà di uno di essi, ed i dati anagrafici della sola
Al., integrati dall'annotazione della lesione al
ginocchio destro riportata a seguito della caduta nell'atrio
comunale- non rende il soggetto "identificabile" se non
associato
ad altri elementi identificativi (data e luogo di nascita,
dimora,
residenza, domicilio, codice fiscale, attività lavorativa) e
se
calato in un contesto sociale ampio quale quello della città
di appartenenza dei resistenti.
La identificazione dei
soggetti
menzionati nella delibera avrebbe potuto, pertanto,
conseguire
soltanto ad operazioni di ricerca, anche attraverso banche
dati in
possesso di terzi, comportanti un dispendio di attività, di
energie e di spesa del tutto sproporzionato rispetto
all'interesse
all'identificazione di tre soggetti coinvolti in un banale
incidente d'auto ed in una altrettanto banale caduta in un
locale
do proprietà pubblica, non potendosi ragionevolmente
sostenere che
i dati contenuti nelle delibere comportassero ipso facto una
automatica e certa "identificabilità" rilevante ai fini
invocati
dagli Ad..
Nessun dato realmente sensibile può dirsi,
difatti,
colpevolmente ostentato sub specie di una sua rilevanza a
fini
risarcitori: né quello della mera indicazione dei nominativi
dei
danneggiati e del tipo di autovettura posseduta, né quello
relativo ad un banale infortunio al ginocchio, che non
rientra a
nessun titolo tra le notizie "idonee a rivelare lo stato di
salute" del danneggiato (tali essendo per converso, quelle
destinate a disvelare patologie, terapie, anamnesi
familiari,
accertamenti diagnostici).
---------------
I FATTI
Nel maggio del 2009 gli odierni resistenti convennero
dinanzi al
Tribunale di Marsala l'omonimo comune, chiedendo di essere
risarciti dei danni subiti, gli Ad. a seguito di un
sinistro
stradale, l'Al. in conseguenza di una caduta in un
locale
di proprietà dell'ente territoriale.
Il comune si costituì in giudizio previa emanazione di due
delibere di giunta, pubblicate sul sito internet
istituzionale, il
cui contenuto, a detta degli attori, violava il proprio
diritto
alla riservatezza - onde la richiesta di risarcimento dei
danni
non patrimoniali oggetto del presente procedimento.
Il Tribunale accolse la domanda.
Il comune di Marsala ha proposto ricorso per cassazione
sulla base
di 2 motivi di censura illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la famiglia Ad..
LE RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso è pienamente fondato.
Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione
di norme di diritto in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.,
in
relazione all'art. 4 D.lgs. 196/2003; omesso esame circa un
fatto
decisivo per il giudizio; nullità della sentenza per omessa
motivazione.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione
di norme di diritto in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.,
in
relazione all'art. 15 D.lgs. 196/2003, 2050, 2697 c.c.;
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio;
nullità della
sentenza per omessa motivazione.
I motivi che possono congiuntamente esaminarsi, attesane
l'intrinseca connessione, sono entrambi fondati sotto un triplice, concorrente profilo.
Da un canto, la pubblicazione e la divulgazione di atti che
determinino una diffusione di dati personali deve ritenersi
lecita
qualora prevista (come nella specie, poiché
l'Amministrazione
comunale non avrebbe potuto adempiere alla finalità
dell'atto in
modo diverso da quello attuato) da una norma di legge o di
regolamento, mentre il termine previsto dall'art. 124
D.lgs. 267/2000 (pubblicazione nell'albo pretorio per 15
giorni
consecutivi) non può ritenersi di natura perentoria (come
indirettamente confermato dalle linee guida contenute nel
Decreto
legislativo 33/2013 che, disciplinando la pubblicità per
finalità
di trasparenza, ne ha previsto la durata in 5 anni).
Dall'altro, il contenuto delle due delibere comunali -con
le
quali vennero, rispettivamente, riportati il nome e cognome
degli
odierni resistenti, oltre alla targa e al modello di
autovettura
di proprietà di uno di essi, ed i dati anagrafici della sola
Al., integrati dall'annotazione della lesione al
ginocchio destro riportata a seguito della caduta nell'atrio
comunale- non rende il soggetto "identificabile" se non
associato
ad altri elementi identificativi (data e luogo di nascita,
dimora,
residenza, domicilio, codice fiscale, attività lavorativa) e
se
calato in un contesto sociale ampio quale quello della città
di appartenenza dei resistenti.
La identificazione dei
soggetti
menzionati nella delibera avrebbe potuto, pertanto,
conseguire
soltanto ad operazioni di ricerca, anche attraverso banche
dati in
possesso di terzi, comportanti un dispendio di attività, di
energie e di spesa del tutto sproporzionato rispetto
all'interesse
all'identificazione di tre soggetti coinvolti in un banale
incidente d'auto ed in una altrettanto banale caduta in un
locale
do proprietà pubblica, non potendosi ragionevolmente
sostenere che
i dati contenuti nelle delibere comportassero ipso facto una
automatica e certa "identificabilità" rilevante ai fini
invocati
dagli Ad..
Nessun dato realmente sensibile può dirsi,
difatti,
colpevolmente ostentato sub specie di una sua rilevanza a
fini
risarcitori: né quello della mera indicazione dei nominativi
dei
danneggiati e del tipo di autovettura posseduta, né quello
relativo ad un banale infortunio al ginocchio, che non
rientra a
nessun titolo tra le notizie "idonee a rivelare lo stato di
salute" del danneggiato (tali essendo per converso, quelle
destinate a disvelare patologie, terapie, anamnesi
familiari,
accertamenti diagnostici).
Dall'altro ancora, nessun automatismo è lecito inferire tra
il
disposto dell'art. 4 del Codice della Privacy e la
predicabilità
di un danno non patrimoniale, fattispecie cui le sezioni
unite di
questa Corte hanno riservato un ampia e approfondita
disamina,
affermando il principio della irrisarcibilità di quelli che
non
superino una determinata soglia di serietà e gravità (con
esclusione dei danni cd. bagattellari, e di quelli
rientranti in una normale ed auspicabile dimensione di
tollerabilità dovuta alla
civile convivenza, come imposta dal contemperamento tra i
principi
costituzionali di solidarietà e tolleranza e quelli posti a
presidio della dignità libertà e salute dell'individuo),
e
comunque della irrisarcibilità di quelli che non risultino
puntualmente allegati e provati (allegazione e prova, nella
specie, del tutto assente), come ancora di recente affermato
da
questa Corte regolatrice (Cass. 15429 del 2014).
Il ricorso è pertanto accolto, e il procedimento rinviato al
Tribunale di Marsala, che, in persona di altro giudice, si
atterrà
ai principi di diritto sopra esposti
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 13.10.2016 n. 20615). |
COMPETENZE GESTIONALI: In
applicazione dell'art. 97 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (T.U.
Enti locali) al segretario comunale sono affidati compiti di
coordinamento dell'attività dei dirigenti e degli uffici cui
questi ultimi sono preposti, nonché di sovrintendenza allo
svolgimento delle relative funzioni, senza che, però, detti
dirigenti -cui è assegnata una sfera di attribuzioni
derogabile solo con norma primaria- assumano diretta
responsabilità nei confronti del segretario.
Pertanto, l'attribuzione al segretario comunale dei compiti
di sovrintendenza e di coordinamento non può essere intesa
nel senso che allo stesso sia concesso un potere di
sostituzione dei dirigenti nell'emanazione dei provvedimenti
amministrativi di loro competenza.
La norma dell'art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), al
terzo comma, affida invece ai dirigenti degli enti locali
tutti i compiti di gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica, compresa l'adozione degli atti che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, e segnatamente, rimette
alla competenza dei dirigenti i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura
discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla
legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo.
Nei comuni privi di dirigenti, detti compiti possono essere
attribuiti, con provvedimento sindacale, ai responsabili
degli uffici e servizi dell'ente, indipendentemente dalla
qualifica da essi posseduta (art. 109, comma 2).
---------------
... per l'annullamento della nota comunale prot. n.
20160002568 del 21.06.2016, a firma del Segretario generale,
con la quale il Comune di Nociglia ha rigettato le
osservazioni ex art. 10-bis, L. n. 241/1990 presentate dal
ricorrente, confermando la sussistenza di motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza di autorizzazione all'affitto
d'azienda;
...
Il ricorso è fondato.
In particolare, riveste carattere assorbente il difetto di
competenza del Segretario comunale ad adottare le note
impugnate.
Invero, in applicazione dell'art. 97 del d.lgs. 18.08.2000
n. 267 (T.U. Enti locali) al segretario comunale sono
affidati compiti di coordinamento dell'attività dei
dirigenti e degli uffici cui questi ultimi sono preposti,
nonché di sovrintendenza allo svolgimento delle relative
funzioni, senza che, però, detti dirigenti -cui è assegnata
una sfera di attribuzioni derogabile solo con norma
primaria- assumano diretta responsabilità nei confronti del
segretario. Pertanto, l'attribuzione al segretario comunale
dei compiti di sovrintendenza e di coordinamento non può
essere intesa nel senso che allo stesso sia concesso un
potere di sostituzione dei dirigenti nell'emanazione dei
provvedimenti amministrativi di loro competenza (Cons. Stato
Sez. IV, 04.02.2014, n. 494).
La norma dell'art. 107 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), al
terzo comma, affida invece ai dirigenti degli enti locali
tutti i compiti di gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica, compresa l'adozione degli atti che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, e segnatamente, rimette
alla competenza dei dirigenti i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura
discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla
legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo. Nei
comuni privi di dirigenti, detti compiti possono essere
attribuiti, con provvedimento sindacale, ai responsabili
degli uffici e servizi dell'ente, indipendentemente dalla
qualifica da essi posseduta (art. 109, comma 2).
Nella specie, le note impugnate, a firma del Segretario
comunale sono atti che, obiettivamente, impegnano
l’amministrazione verso l’esterno in quanto indicano le
ragioni della impossibilità di accogliere l’istanza
presentata dal ricorrente per la stipula di un contratto di
affitto di azienda. In particolare, la disamina della nota
21.5.2016 evidenzia la sua natura provvedimentale laddove
risultano espresse le seguenti conclusioni “rispetto alla
precedente comunicazione dell’11.05.2016 non risultano
acquisti nuovi elementi idonei alla ridefinizione della
richiesta del sig. Pu. e, pertanto, le osservazioni
presentate ex art. 10-bis della L. 241/1990 non possono
essere accolte”.
Dal che discende la sussistenza del vizio di competenza
censurato nel ricorso.
L’accoglimento del ricorso sotto l’aspetto suindicato
comporta l’assorbimento delle ulteriori censure ivi comprese
quelle dirette a censurare l’inerzia della P.A. comunale,
per non aver individuato il cessionario subentrante, atteso
che l’annullamento delle note citate comporta l’obbligo per
la P.A. di definire il procedimento in questione.
Tale circostanza comporta, altresì, allo stato, la reiezione
della domanda risarcitoria, potendo la stessa aver seguito
solo successivamente alla definizione del procedimento
medesimo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 13.10.2016 n. 1532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo
il diritto a percepire una retribuzione maggiore in funzione
delle più impegnative mansioni svolte. Le uniche ipotesi in
cui il principio di diritto non si applica si avverano in
presenza di prestazioni superiori svolte all’insaputa o
contro la volontà dell’ente.
In materia di pubblico impiego
contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento
di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura
indicata nell'art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001,
non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di
legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni
dei contratti collettivi, posto che una diversa
interpretazione sarebbe contraria all'intento dei
legislatore di assicurare comunque al lavoratore una
retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato,
in ossequio al principio di cui all'art. 36 della
Costituzione.
Invero, la suddetta norma va intesa nel
senso che l'impiegato cui sono state assegnate, al di fuori
dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in
conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale,
ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai
sensi dell'art. 36 Cost.; tale norma deve trovare integrale
applicazione -senza sbarramenti temporali di alcun genere-
pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le
mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il
profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e
sempre che, in relazione all'attività spiegata, siano stati
esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a
dette superiori mansioni.
Né la portata applicativa dei principio è
da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in
cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un
provvedimento di assegnazione, ancorché nullo; le Sezioni
Unite
hanno rilevato come l'obbligo di integrare il
trattamento economico del dipendente nella misura della
quantità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla
eventuale irregolarità dell'atto o dall'assegnazione o meno
dell'impiegato a mansioni superiori e come il mantenere, da
parte della pubblica amministrazione, l'impiegato a mansioni
superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini
una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato
della tutela collegata al rapporto -ai sensi dell'art. 2126
c.c. e, tramite detta disposizione, dell'art. 36 Cost.-
perché non può ravvisarsi nella violazione della mera
legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel
contrasto "con norme fondamentali e generali e con i
principi basilari pubblicistici dell'ordinamento", e che,
alla stregua della citata norma codicistica, porta alla
negazione di ogni tutela del lavoratore.
La Corte Costituzionale ha ripetutamente
affermato l'applicabilità anche al pubblico impiego
dell'art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al
lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale
riconoscimento, a norma dell'art. 2126 c.c., l'eventuale
illegittimità del provvedimento di assegnazione del
dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della
qualifica di appartenenza.
Neppure il principio dell'accesso agli
impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico
concorso è incompatibile con il diritto dell'impiegato,
assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di
percepire il trattamento economico della qualifica
corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione
sancito dall'art. 36 Cost...
Neppure vale a contrastare tale
principio la possibilità di abusi conseguenti al
riconoscimento del diritto ad un'equa retribuzione ex art.
36 Cost. al lavoratore cui vengano assegnate mansioni
superiori al di fuori delle procedure prescritte per
l'accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perché
"il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori
impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e
sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso
di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente
preposto alle gestione dell'organizzazione del lavoro, ma
non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in
alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si
è evidenziata la rilevanza costituzionale".
Il diritto a percepire una retribuzione
commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione
dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune
non è dunque condizionato all'esistenza di un provvedimento
del superiore gerarchico che disponga l'assegnazione. Le
uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto
alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte
ai casi in cui l'espletamento di mansioni superiori sia
avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente (invito
o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della
fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente
(cfr. Cass. n. 27887 del 2009).
In proposito, la Corte costituzionale ha osservato che
il potere attribuito al dirigente preposto
all'organizzazione del lavoro di trasferire temporaneamente
un dipendente a mansioni superiori per esigenze
straordinarie di servizio è un mezzo indispensabile per
assicurare il buon andamento dell'amministrazione; la
spettanza al lavoratore del trattamento retributivo
corrispondente alte funzioni di fatto espletate è un
precetto dell'art. 36 Cost., la cui applicabilità
all'impiego pubblico non può essere messa in discussione.
----------------
6. In ordine al conferimento dell'incarico di posizione
organizzativa (nono motivo del ricorso) -considerato che
l'art. 7 CCNI 1998-2001 prevede l'attribuzione del potere al
direttore generale mentre l'art. 83 CCNL non individua il
soggetto che "con atti scritti e motivati" deve
assumere la decisione- va rammentato che l'assegnazione
delle mansioni superiori che rientra nell'ambito di
applicazione dall'art. 52, comma 5, del d.lgs. 30.03.2001,
n. 165, attribuisce al lavoratore il diritto alla differenza
di trattamento economico previsto per la qualifica superiore
ricoperta.
Invero, in materia di pubblico impiego
contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento
di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura
indicata nell'art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001,
non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di
legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni
dei contratti collettivi, posto che una diversa
interpretazione sarebbe contraria all'intento dei
legislatore di assicurare comunque al lavoratore una
retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato,
in ossequio al principio di cui all'art. 36 della
Costituzione.
Nell'interpretazione fornita dalle Sezioni Unite della Corte
con la sentenza n. 25837 del 2007, la
suddetta norma va intesa nel senso che l'impiegato cui sono
state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni
superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza
della Corte costituzionale
(tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n.
236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una
retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell'art.
36 Cost.; tale norma deve trovare integrale applicazione
-senza sbarramenti temporali di alcun genere- pure nel
pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni
superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo
quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre
che, in relazione all'attività spiegata, siano stati
esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a
dette superiori mansioni
(v. pure Cass. n. 23741 del 17.09.2008 e molte altre
successive; tra le più recenti, Cass. n. 4382 del
23.02.2010).
Né la portata applicativa dei principio è
da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in
cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un
provvedimento di assegnazione, ancorché nullo; le Sezioni
Unite (cfr. Cass.
n. 27887 del 2009, che richiama Cass., Sez. Un., 11.12.2007
n. 25837 cit.), sulla base dei principi espressi dalla Corte
Costituzionale, hanno rilevato come
l'obbligo di integrare il trattamento economico del
dipendente nella misura della quantità del lavoro
effettivamente prestato prescinda dalla eventuale
irregolarità dell'atto o dall'assegnazione o meno
dell'impiegato a mansioni superiori e come il mantenere, da
parte della pubblica amministrazione, l'impiegato a mansioni
superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini
una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato
della tutela collegata al rapporto -ai sensi dell'art. 2126
c.c. e, tramite detta disposizione, dell'art. 36 Cost.-
perché non può ravvisarsi nella violazione della mera
legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel
contrasto "con norme fondamentali e generali e con i
principi basilari pubblicistici dell'ordinamento", e
che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla
negazione di ogni tutela del lavoratore
(Corte Cost. 19.06.1990 n. 296 attinente ad una fattispecie
riguardante il trattamento economico del personale del
servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di
mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n.
761 del 1979, art. 29, comma 2).
La Corte Costituzionale ha ripetutamente
affermato l'applicabilità anche al pubblico impiego
dell'art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al
lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale
riconoscimento, a norma dell'art. 2126 c.c., l'eventuale
illegittimità del provvedimento di assegnazione del
dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della
qualifica di appartenenza
(cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992,
n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003).
Neppure il principio dell'accesso agli
impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico
concorso è incompatibile con il diritto dell'impiegato,
assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di
percepire il trattamento economico della qualifica
corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione
sancito dall'art. 36 Cost.
(Corte Cost. 27.05.1992 n. 236).
Neppure vale a contrastare tale principio
la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del
diritto ad un'equa retribuzione ex art. 36 Cost. al
lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di
fuori delle procedure prescritte per l'accesso agli impieghi
ed alle qualifiche pubbliche, perché "il cattivo uso di
assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità
disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si
finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad
altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione
dell'organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul
piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di
un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la
rilevanza costituzionale"
(in tal senso, S.U., sent. n. 25837 del 2007, cit.).
Il diritto a percepire una retribuzione
commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione
dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune
non è dunque condizionato all'esistenza di un provvedimento
del superiore gerarchico che disponga l'assegnazione. Le
uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto
alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte
ai casi in cui l'espletamento di mansioni superiori sia
avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente (invito
o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della
fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente
(cfr. Cass. n. 27887 del 2009).
In proposito, la Corte costituzionale ha osservato (n. 101
del 1995) che il potere attribuito al
dirigente preposto all'organizzazione del lavoro di
trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni
superiori per esigenze straordinarie di servizio è un mezzo
indispensabile per assicurare il buon andamento
dell'amministrazione; la spettanza al lavoratore del
trattamento retributivo corrispondente alte funzioni di
fatto espletate è un precetto dell'art. 36 Cost., la cui
applicabilità all'impiego pubblico non può essere messa in
discussione (cfr.
sentenza n. 236 del 1992).
L'astratta possibilità di abuso di tale potere e delle sue
conseguenze economiche, nella forma di protrazioni
illegittime dell'assegnazione a funzioni superiori, non è
evidentemente un argomento che possa giustificare una
restrizione dell'applicabilità del principio costituzionale
di equivalenza della retribuzione al lavoro effettivamente
prestato.
Nel caso di specie, non ricorre alcuno dei presupposti che
-alla stregua dei principi sopra esposti e qui pienamente
condivisi e ribaditi- avrebbe potuto giustificare
l'esclusione del diritto della ricorrente alla retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato -e
del correlativo obbligo dell'Amministrazione di integrare il
trattamento economico della dipendente nella misura della
quantità del lavoro effettivamente prestato-, non risultando
nemmeno prospettato dall'Enac in primo grado che
l'attribuzione degli incarichi corrispondenti a posizioni
organizzative avvenne all'insaputa o contro la volontà
dell'Azienda (invito o proibente domino), né risultando
allegata altra specifica causa di esclusione, nel senso
sopra chiarito
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 12.10.2016 n. 20545). |
APPALTI: L'omessa
condanna esclude dalla gara. Non sanabile col soccorso
istruttorio.
La mancata dichiarazione di una condanna comporta senz'altro
l'esclusione dalla procedura di affidamento di un appalto
pubblico; si tratta di omissione non sanabile con il
soccorso istruttorio.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V,
nella
sentenza 12.10.2016 n. 4219 relativa a una
fattispecie (sotto la vigenza del Codice De Lise) inerente
all'applicazione dell'articolo 38 al comma 1, lett. c), la
norma, oggi sostituita dall'articolo 80 disponeva che sono
esclusi dalle gare i concorrenti che abbiano riportato
sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto
penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo
444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno
dello stato o della comunità che incidono sulla moralità
professionale (nonché i concorrenti che abbiano riportato
condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più
reati di partecipazione a un'organizzazione criminale,
corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti
comunitari citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva Ce
2004/18).
Il successivo comma 2 introduceva un vincolo dichiarativo ex lege che integrava automaticamente eventuali carenze della
disciplina di gara, prevedendo che il concorrente indicasse
«tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per
le quali abbia beneficiato della non menzione», ma anche «le
condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti
dopo la condanna stessa, né le condanne revocate, né quelle
per le quali è intervenuta la riabilitazione».
Non avendo il concorrente dichiarato una condanna diversa da
quelle elencate alla lettera c, i giudici hanno sentenziato
che tale omissione «comporta senz'altro l'esclusione dalla
gara, essendo impedito alla stazione appaltante di valutarne
la gravità». Inoltre, non è data neanche la possibilità di
utilizzo del soccorso istruttorio: «il soccorso
istruttorio non può essere utilizzato per sopperire a
dichiarazioni (riguardanti elementi essenziali) radicalmente
mancanti, pena la violazione della par condicio fra
concorrenti, ma soltanto per chiarire o completare
dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti
di gara»
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).
---------------
MASSIMA
E’ fondata la censura con cui l’appellante deduce che il
giudice di prime cure, ritenendo sanabile l’omessa
dichiarazione, da parte del legale rappresentante della
To.Do. & C. s.a.s., in ordine alle condanne penali
riportate, avrebbe male interpretato l’art. 38 del D. Lgs.
12/04/2006 n. 163.
Per quanto qui rileva il menzionato articolo 38 al comma 1,
lett. c), dispone: “Sono esclusi dalla partecipazione
alle procedure di affidamento delle concessioni e degli
appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere
affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi
contratti i soggetti:
omissis
c) nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di
condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo
444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno
dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità
professionale; è comunque causa di esclusione la condanna,
con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di
partecipazione a un'organizzazione criminale, corruzione,
frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari
citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva CE 2004/18;
l'esclusione e il divieto operano se la sentenza o il
decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del
direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei
soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in
nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore
tecnico se si tratta di società in accomandita semplice;
degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o
del direttore tecnico o del socio unico persona fisica,
ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno
di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o
consorzio. In ogni caso l'esclusione e il divieto operano
anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica
nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando di
gara, qualora l'impresa non dimostri che vi sia stata
completa ed effettiva dissociazione della condotta
penalmente sanzionata; l'esclusione e il divieto in ogni
caso non operano quando il reato è stato depenalizzato
ovvero quando è intervenuta la riabilitazione ovvero quando
il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero
in caso di revoca della condanna medesima”.
Il successivo comma 2 del medesimo articolo, il quale
introduce un vincolo dichiarativo ex lege che integra
automaticamente eventuali carenze della disciplina di gara
(Cons. Stato, A.P. 07/06/2012, n. 21), stabilisce poi: “Il
candidato o il concorrente attesta il possesso dei requisiti
mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle
previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di documentazione amministrativa,
di cui al decreto del Presidente della Repubblica
28.12.2000, n. 445, in cui indica tutte le condanne penali
riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia
beneficiato della non menzione. Ai fini del comma 1, lettera
c), il concorrente non è tenuto ad indicare nella
dichiarazione le condanne per reati depenalizzati ovvero
dichiarati estinti dopo la condanna stessa, né le condanne
revocate, né quelle per le quali è intervenuta la
riabilitazione”.
Orbene, dal combinato disposto delle due trascritte
disposizioni si ricava che
nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate
all’affidamento di un appalto pubblico, l'omessa
dichiarazione da parte del concorrente di tutte le condanne
penali eventualmente riportate, anche se attinenti a reati
diversi da quelli contemplati nell’art. 38, comma 1, lett.
c), ne comporta senz’altro l’esclusione dalla gara, essendo
impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità
(cfr., fra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 27/07/2016 n.
3402; 29/04/2016 n. 1641; 02/12/2015, n. 5451 e 02/10/2014,
n. 4932; Sez. IV, 29/02/2016, n. 834; Sez. III, 28/09/2016,
n. 4019).
Inoltre, come più volte confermato dalla giurisprudenza,
non c’è possibilità che l’omissione possa essere sanata
attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può essere
utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti
elementi essenziali) radicalmente mancanti –pena la
violazione della par condicio fra concorrenti- ma soltanto
per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già
comunque acquisiti agli atti di gara
(Cons. Stato, A.P. 25/02/2014 n. 9; Sez. V, 25/02/2015 n.
927).
Nel caso di specie, non è contestato che il legale
rappresentante della To.Do. & C. s.a.s. non abbia reso la
dichiarazione sui precedenti penali a proprio carico e
quindi correttamente è stato escluso dalla competizione.
Non vale in contrario osservare che nella fattispecie il
modulo su cui redigere la domanda di partecipazione
predisposto dalla stazione appaltante non consentiva di
rendere una dichiarazione che facesse riferimento a
qualunque reato, prevedendo come unica alternativa quella
tra dichiarazione positiva o negativa in ordine alla
sussistenza delle sole condanne per reati gravi incidenti
sulla moralità professionale.
Ed invero, il disciplinare di gara, al punto 3, intitolato “Requisiti
di partecipazione dei concorrenti”, dopo aver elencato
le cause di non ammissione alla gara, tra cui quelle
contemplate nell’art. 38, comma 1, lett. c), stabiliva
espressamente: “Il concorrente indica tutte le condanne
penali riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia
beneficiato della non menzione: non è tenuto ad indicare
nella dichiarazione le condanne quando il reato è stato
depenalizzato ovvero per le quali è intervenuta la
riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato
estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della
condanna medesima”.
Analogamente il modulo su cui redigere l’“istanza di
partecipazione” predisposto dalla stazione appaltante
stabiliva, alla lett. e), che il concorrente dovesse
dichiarare “che nei confronti dei soggetti richiamati
dall’art. 38, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 163/2006 e
ss.mm.ii. non è stata pronunciata sentenza di condanna
passata in giudicato o emesso decreto penale di condanna
divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della
pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di
procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o
della Comunità che incidono sulla moralità professionale
ovvero condanna con sentenza passata in giudicato per uno o
più reati di partecipazione a un'organizzazione criminale,
corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti
comunitari citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva CE
2004/18, comprese le condanne per le quali si è beneficiato
della non menzione”.
Aggiungendo, poi, come già specificato nel disciplinare di
gara, che “Il concorrente indica tutte le condanne penali
riportate, ivi comprese quelle per le quali ha beneficiato
della non menzione; non è tenuto ad indicare nella
dichiarazione le condanne quando il reato è stato
depenalizzato ovvero per le quali è intervenuta la
riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato
estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della
condanna medesima” (lett. e in fine).
Quindi, da una parte la lex specialis contemplava
espressamente, conformemente a quanto disposto dall’art. 38
del D.Lgs. n. 163/2006, l’obbligo di rendere la
dichiarazione per qualunque condanna penale riportata, anche
se relativa a reati non incidenti sulla moralità
professionale, dall’altra, il fatto che il modulo fosse
articolato in modo da non consentire (o meglio non
consentire agevolmente) la detta dichiarazione, non
esonerava il concorrente dal dovere di provvedervi
utilizzando allo scopo qualunque mezzo, anche aggiungendo,
per esempio, apposita postilla al modulo di domanda.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte è superfluo
verificare se nella specie sia versi in un caso di omessa
dichiarazione, ovvero in un’ipotesi di falsa dichiarazione,
perché in entrambi i casi la conseguenza non può che essere
l’esclusione dalla gara.
L’appello va in definitiva accolto. |
LAVORI PUBBLICI: La giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni
evidenziato le finalità dell'istituto della riserva
nell'appalto di opere pubbliche, come quella
di consentire all'amministrazione committente la
verifica dei fatti suscettibili di produrre un incremento
delle spese previste con l'immediatezza
che ne rende più sicuro e meno dispendioso l'accertamento,
ovvero di assicurare la continua evidenza
delle spese dell'opera, in relazione alla corretta
utilizzazione ed eventuale integrazione dei mezzi
finanziari all'uopo predisposti, nonché di mettere
l'amministrazione in grado di adottare tempestivamente
altre possibili determinazioni, in armonia
con il bilancio pubblico, fino ad esercitare la potestà
di risoluzione unilaterale del contratto.
Se per l'appaltatore l'iscrizione della riserva costituisce
un onere, al fine di non incorrere nella
decadenza per la proposizione delle proprie domande,
la stesse non possono considerarsi provate per
il semplice fatto dell'iscrizione stessa: l'ottemperanza
all'onere della riserva non esclude
il rispetto di quello previsto dall'art. 2697 cod.
civ., secondo cui chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono
il fondamento.
---------------
Le trattative per comporre bonariamente la vertenza,
le proposte, le concessioni e le rinunce
fatte dalle parti a scopo transattivo, se non raggiungono
l'effetto desiderato, e non comportino,
come nella specie, l'ammissione totale o parziale
della pretesa avversaria, non rappresentano riconoscimento
del diritto altrui, ai sensi dell'art.
2944 cod. civ., e non hanno efficacia interruttiva
della prescrizione.
---------------
2 - Con il primo motivo, deducendosi omessa, insufficiente
e contraddittoria motivazione circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, si
sostiene che la Corte di appello avrebbe, con evidente
contraddizione, da un lato escluso la decadenza
e la fondatezza dell'eccezione di prescrizione,
sulla base delle riserve iscritte nel Verbale
di compimento dei lavori, dall'altro avrebbe escluso
la sussistenza della relativa prova, del resto
male interpretando la motivazione della decisione
di primo grado, che aveva valorizzato l'omessa produzione
del libretto delle misure nell'ambito della
valutazione del comportamento dell'Amministrazione
complessivamente deponente nel senso del riconoscimento
dell'esecuzione dei lavori aggiuntivi.
2.1 - Con il secondo mezzo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ.,
pur in assenza di una specifico motivo di gravame
del Ministero circa la sussistenza del credito ritenuto
sussistente dal giudice di primo grado.
2.2 - La terza censura, con riferimento alla mancata
impugnazione specifica, da parte del Ministero,
della statuizione fondata sulle riserve, deduce
violazione dell'art. 2909 cod. civ., per essere
stato violato il giudicato formatosi sul punto.
3 - Il primo motivo è infondato.
Non esiste alcuna contraddizione tra l'aver preso
atto -ai fini dell'esclusione della relativa decadenza- delle riserve formulate dall'impresa in relazione alle
pretese concernenti i lavori aggiuntivi
e il rigetto della domanda a causa
dell'inottemperanza al relativo onere probatorio.
La giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni
evidenziato le finalità dell'istituto della riserva
nell'appalto di opere pubbliche, come quella
di consentire all'amministrazione committente la
verifica dei fatti suscettibili di produrre un incremento
delle spese previste con l'immediatezza
che ne rende più sicuro e meno dispendioso l'accertamento,
ovvero di assicurare la continua evidenza
delle spese dell'opera, in relazione alla corretta
utilizzazione ed eventuale integrazione dei mezzi
finanziari all'uopo predisposti, nonché di mettere
l'amministrazione in grado di adottare tempestivamente
altre possibili determinazioni, in armonia
con il bilancio pubblico, fino ad esercitare la potestà
di risoluzione unilaterale del contratto
(cfr. Cass., 07.07.2011, n. 15013; Cass., 17.03.2009, n. 6443; Cass.,
03.03.2006, n. 4702).
Se per l'appaltatore l'iscrizione della riserva costituisce
un onere, al fine di non incorrere nella
decadenza per la proposizione delle proprie domande,
la stesse non possono considerarsi provate per
il semplice fatto dell'iscrizione stessa: l'ottemperanza
all'onere della riserva non esclude
il rispetto di quello previsto dall'art. 2697 cod.
civ., secondo cui chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono
il fondamento (Cass.,
02.09.2005, n. 17702).
3.2 - Al di là dell'aspetto sopra evidenziato, la
motivazione della decisione impugnata appare adeguata
e immune da vizi di natura logico-giuridica:
la mancata produzione del libretto delle misure, in
assenza, per altro, di ordine di esibizione, è stata
ricondotta, come riconosce lo stesso ricorrente,
nella valutazione del complessivo comportamento
dell'amministrazione, e, come tale, è stata considerata
priva di significativa rilevanza.
Quanto, poi, all'invito rivolto al Ma. "per accordi
definitiva soluzione", l'assoluta carenza di
valenza probatoria attribuita, anche sotto tale
profilo, alla condotta del Ministero trova conferma
nel costante orientamento di questa Corte secondo
cui le trattative per comporre bonariamente la vertenza,
le proposte, le concessioni e le rinunce
fatte dalle parti a scopo transattivo, se non raggiungono
l'effetto desiderato, e non comportino,
come nella specie, l'ammissione totale o parziale
della pretesa avversaria, non rappresentano riconoscimento
del diritto altrui, ai sensi dell'art.
2944 cod. civ., e non hanno efficacia interruttiva
della prescrizione (Cass. 24.09.2015, n.
18879; Casa., 29.09.2011, n. 19872; Cass., 06.03.2008, n. 6034) (Corte di Cassazione, Sez. I
civile,
sentenza 04.10.2016 n. 19802). |
EDILIZIA PRIVATA:
Normativa antisismica e pericolosità delle costruzioni.
Ai fini della configurabilità delle
contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art.
95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le
costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in
quanto le contravvenzioni puniscono inosservanze formali e
la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del
controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie
in dette zone.
Anche dopo la entrata in vigore del d.P.R. 06.06.2001 n. 380
qualsiasi intervento edilizio, ad eccezione di quelli di
semplice manutenzione ordinaria, ove eseguito in zona
sismica, che non sia preceduto dalla previa denuncia al
competente ufficio con presentazione di un progetto redatto
da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato
rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano
stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato.
Il reato antisismico, inoltre, sussiste nel caso di opere
realizzate nelle zone sismiche senza adempimento
dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti
allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e
senza la preventiva autorizzazione scritta del competente
ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a
nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture ovvero la natura precaria
dell'intervento.
---------------
2.4. In relazione, infine, ai reati in materia di normativa
antisismica
contestati, va ricordato che ai fini della configurabilità
delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica
(art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le
costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in
quanto le contravvenzioni puniscono inosservanze formali e
la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del
controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie
in dette zone (Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Rv. 238007;
Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012, Rv. 252750; Sez. 3, n. 27876
del 16/06/2015, Rv. 264201).
Questa Corte ha pure affermato, che anche dopo la entrata in
vigore del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 qualsiasi intervento
edilizio, ad eccezione di quelli di semplice manutenzione
ordinaria, ove eseguito in zona sismica, che non sia
preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con
presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o
per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo,
i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di
professionista abilitato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014,
Rv. 261155; Sez. 3, n. 28514 del 29/05/2007, Rv. 237656;
Sez. 3, n. 45958 del 26/10/2005, Rv. 232649).
Il reato antisismico, inoltre, sussiste nel caso di opere
realizzate nelle zone sismiche senza adempimento
dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti
allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e
senza la preventiva autorizzazione scritta del competente
ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a
nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento
(Sez. 3, n. 30224
del 21/06/2011, Rv. 251284; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015,
Rv. 266033) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.10.2016 n. 41151 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La trasformazione di un balcone, anche di modesta
superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di
installazione di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza,
né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro,
ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso
di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo
abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R.
n. 380 del 2001.
Invero, tale opera non rientra tra gli interventi di
manutenzione straordinaria, comportando aumento della
superficie utile e mutamento dell'aspetto del fabbricato ed
è, quindi, soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso
di costruire. Essa esula, altresì, dalla nozione di
pertinenza, poiché, mentre quest'ultima deve essere
autonoma, il balcone costituisce parte integrante dello
stabile.
---------------
Circa la chiusura del torrino/vano scala con costruzione di
manufatto a protezione delle vasche per la riserva idrica,
la valutazione del Giudice di merito è in linea con la
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui integra il reato
edilizio previsto dall'art. 44, comma primo, lett. b),
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la realizzazione, senza permesso
di costruire di un volume tecnico di rilevante ingombro
destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo
sui luoghi esterni.
---------------
2. Alla luce dei principi enunciati in premessa, il primo
motivo di ricorso che censura l'affermazione di
responsabilità penale per le opere contestate è
inammissibile.
Nella specie, le motivazioni delle due sentenze si saldano
fornendo un'unica e complessa trama argomentativa, non
scalfita dalle censure mosse dal ricorrente che ripropone
gli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente
respinti in secondo grado.
La Corte di Appello di Caltanissetta, inoltre, non si è
limitata a
richiamare la sentenza di primo grado, ma ha risposto punto
per punto alle doglianze oggi riproposte, in linea con i
principi di diritto affermati da questa Corte in subiecta
materia.
2.1. In particolare, la Corte di merito ha adeguatamente
chiarito che la trasformazione di un balcone, anche di
modesta superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di
installazione di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza,
né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro,
ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso
di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo
abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R.
n. 380 del 2001 (Sez 3, n.1483 del 03/12/2013, dep.
15/01/2014, Rv. 258295; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Rv.
237532).
2.2. Inoltre, con riferimento alla realizzazione di un
balcone, la Corte territoriale ha correttamente ed
adeguatamente ribadito che tale opera non rientra tra gli
interventi di manutenzione straordinaria, comportando
aumento della superficie utile e mutamento dell'aspetto del
fabbricato ed è, quindi, soggetta a concessione edilizia
ovvero a permesso di costruire. Essa esula, altresì, dalla
nozione di pertinenza, poiché, mentre quest'ultima deve
essere autonoma, il balcone costituisce parte integrante
dello stabile (Sez. 3, n. 2627 del 20/05/1988, dep.
17/02/1989, Rv. 180562; Sez. 3, n. 42892 del 24/10/2008, Rv.
241542).
2.3. Con riferimento, poi, alla chiusura del torrino/vano
scala con costruzione di manufatto a protezione delle vasche
per la riserva idrica, la valutazione del Giudice di merito
è in linea con la giurisprudenza di questa Corte, secondo
cui integra il reato edilizio previsto dall'art. 44, comma
primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la
realizzazione, senza permesso di costruire di un volume
tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere
oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni
(Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 25/02/2011, Rv.
249529).
La sentenza impugnata richiama sul punto i chiari rilievi
fotografici e l'apprezzamento in fatto di tali emergenze
istruttorie costituisce censura di merito che non è
proponibile in sede di legittimità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.10.2016 n. 41151 -
tratto da www.lexambiente.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Le Sezioni Unite affidano al g.o. la giurisdizione delle
controversie con cui l’azione risarcitoria venga proposta
nei confronti non della p.a. ma solo del funzionario in
proprio.
Giurisdizione amministrativa – Risarcimento
danni - Domanda proposta nei confronti del funzionario
amministrativo - Esclusione.
In base agli artt. 103 Cost. e 7 c.p.a.,
il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le
controversie nelle quali sia parte una p.a. o un soggetto ad
essa equiparato; pertanto, la domanda risarcitoria proposta
da un privato nei confronti del funzionario cui sia imputata
l’adozione del provvedimento illegittimo è di competenza del
giudice ordinario. (1)
---
(1) Con la sentenza in epigrafe le Sezioni unite ribadiscono
(prendendo le mosse da Sez. un., 23.03.2011, n. 6594, in
Foro it., 2011, I, 2387, con nota di A. TRAVI;
successivamente fra le tante, oltre alle decisioni
richiamate in motivazione, cfr. Sez. un., 13.06.2006, n.
13659, id., 2007, I, 3181, con note di A. LAMORGESE e R. DE
NICTOLIS, ivi gli ulteriori riferimenti di dottrina e
giurisprudenza), che appartiene alla giurisdizione ordinaria
la domanda proposta nei confronti non dell’Amministrazione
titolare della competenza e del potere esercitato (nella
specie A.R.P.A. Lazio) ma dei singoli funzionari che, per
conto dell’ente stesso, hanno operato.
Muovendo dai principi affermati dalla Corte costituzionale
nelle celebri sentenze n. 204 del 2004 e n. n. 191 del 2006,
nel decidere il proposto regolamento preventivo di
giurisdizione, le Sezioni unite affermano che l’estensione
della giurisdizione amministrativa alla tutela risarcitoria
presupponga la presenza dell’ente pubblico quale parte in
causa.
In dettaglio, il ragionamento seguito dalla Suprema Corte
viene basato sull'evoluzione della disciplina normativa in
tema di riparto di giurisdizione, iniziata con il d.lgs. n.
80 del 1998, consolidatasi con la 1. n. 205 del 2000 e
cristallizzata, infine, dall’art. 7 c.p.a.
Preso quindi atto che nell’àmbito della giurisdizione
esclusiva rientrano sia le pretese risarcitorie da lesione
di interessi legittimi che da lesione di diritti soggettivi,
viene ribadito il principio di diritto secondo cui l'art.
103 Cost. non consente di ritenere che il giudice
amministrativo possa conoscere di controversie di cui non
sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la
pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario
in proprio, cui si imputi l'adozione del provvedimento
illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario.
Tale lettura riduttiva dell’estensione della giurisdizione
amministrativa viene quindi fondata sul dato testuale
dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a. in specie laddove,
nell'individuare la giurisdizione del giudice amministrativo
sulle controversie nelle quali si faccia questione di
interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti
soggettivi, riferisce tali controversie a «l'esercizio o il
mancato esercizio del potere amministrativo» e le afferma
come «riguardanti provvedimenti, atti, accordi o
comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio
di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni».
Tale ultimo inciso viene quindi valorizzato come limite
all’estensione della giurisdizione amministrativa.
Per completezza, si segnala:
a) circa il riparto di giurisdizione in materia risarcitoria, Corte
cost. 5 febbraio 2010, n. 35, in Giur. cost. 2010, 1, 432
con note di SCOCA E CROCE;
b) sulla portata dell’art. 7 c.p.a., Cons. St., A.P., 29.01.2014,
n. 6, in Foro it., 2014, III, 518, secondo cui «salvo
deroghe normative espresse, nell’ordinamento processuale
vige il principio generale della inderogabilità della
giurisdizione per motivi di connessione»; 25.05.2016, n.
10, di cui alla News US in data 31.05.2016, in punto di
effettività e concentrazione della tutela innanzi al G.A.
(commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it -
Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 03.10.2016 n. 19677).
---------------
MASSIMA
Ritenuto quanto segue:
§1. La R.I.D.A. Ambiente s.r.l. ha proposto regolamento
preventivo di
giurisdizione riguardo al giudizio introdotto davanti al
Tribunale di Roma con
citazione del luglio 2013 contro Ma.Ri. e Cr.Ba. (o
Ba.), nella qualità di dirigenti dell'ARPA
Lazio-Agenzia Regionale
protezione Ambientale del Lazio, contro Ma.Gr.Po. e
Ga.Fr., la prima nella qualità di dirigente ed il secondo in
quella di
funzionario dell'Area Ciclo Integrato Rifiuti della
Direzione Regionale
Territorio Urbanistica Mobilità e Rifiuti della regione
Lazio, e contro Lu.Fe., nella qualità a suo tempo rivestita di direttore
del Dipartimento
Istituzionale e territorio della Regione Lazio ed in quella
a suo tempo rivestita
di direttore generale della indicata direzione regionale.
§2. 11 giudizio era stato introdotto dalla ricorrente per
fare accertare, in
via principale la responsabilità solidale dei convenuti
nelle dedotte qualità ed
in via subordinata per la parte imputabile a ciascuno, i
danni asseritamente
sofferti dall'attrice -nella sua posizione di società
operante da oltre un
ventennio nel settore dei rifiuti e di titolare di un
impianto sito in Aprilia,
autorizzato sin dal 1999 al trattamento ed al recupero dei
rifiuti non pericolosi- in dipendenza di attività provvedimentale e di
comportamenti, tenuti nelle
indicate qualità dai convenuti nello svolgimento delle
funzioni loro
commesse.
§3. Costituendosi in giudizio, la Po. ed il Fr. hanno
eccepito il
difetto di giurisdizione del giudice ordinario e la
sussistenza della
giurisdizione del giudice amministrativo.
Nel giudizio sono stati chiamati in garanzia dalla Pompa gli
Assicuratori
Lloyd's ed è volontariamente intervenuta l'ARPA.
§4. Nel ricorso per regolamento preventivo la ricorrente
chiede
dichiararsi la giurisdizione sulla controversia del giudice
ordinario ed all'uopo
ribadisce innanzitutto le ragioni in tal senso esposte già
nella citazione introduttiva del giudizio, le quali erano
state fondate sull'invocazione delle
norme degli artt. 22 e 23 del d.P.R. n. 3 del 1957 e della
decisione di queste
Sezioni Unite n. 13659 del 2006.
La ricorrente fa
riferimento, altresì, a
sostegno della sua prospettazione, ad altre decisioni, cioè
alla sentenza n.
11932 del 2010, all'ordinanza n. 5914 del 2008 ed alla
sentenza n. 738 del
2015. Adduce, poi, che l'orientamento, di cui a dette
decisioni, ha trovato
conferma nel c.p.a., atteso che l'art. 7 di esso riferisce
la giurisdizione
amministrativa sempre ad atti, provvedimenti o comportamenti
posti in essere
da pubbliche amministrazioni e considerato che l'art. 133
del detto codice
nemmeno nelle materie di giurisdizione esclusiva consente di
ritenere che gli
atti illeciti dei pubblici funzionari possano considerarsi
espressione di
pubblico potere, com'è richiesto per la sussistenza di
quella giurisdizione.
§4.1. Al ricorso per regolamento preventivo hanno resistito
con separati
controricorsi la Po. e l'ARPA.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
§5. Richieste le conclusioni al Pubblico Ministero presso la
Corte ai
sensi dell'art. 380-ter c.p.c., all'esito del loro deposito
è seguita la fissazione
dell'odierna adunanza in camera di consiglio.
§6. La ricorrente ha depositato memoria.
Considerato quanto segue:
§1. 11 Pubblico Ministero presso la Corte nelle sue
conclusioni ha chiesto
dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo,
adducendo che <<la
domanda è stata proposta per il risarcimento dei danni
derivanti da esercizio
di attività amministrativa riconducibile comunque ad
espletamento di funzioni
autoritative>>.
§2. Nel suo controricorso la Po. ha invocato la
sussistenza della
giurisdizione del giudice amministrativo, adducendo che gli
illeciti addebitati
ai convenuti deriverebbero dalla lesione di posizioni di
interesse legittimo
della ricorrente verso l'Amministrazione e che Cass. sez.
un. n. 13659 del 2006 non legittimerebbe la prospettazione
della ricorrente. La resistente ha,
poi, invocato Cons. Stato n. 3891 del 2006 ed una decisione
di merito del
Tribunale di Roma.
§3. L'ARPA, nel suo controricorso, svolgendo considerazioni
relative
alla posizione dei convenuti Ba. e Ri. ha sostenuto
la sussistenza
della giurisdizione ordinaria.
§4. L'istanza di regolamento preventivo dev'essere decisa
con
l'affermazione della giurisdizione del giudice ordinario.
A seguito dell'evoluzione del riparto di giurisdizione
iniziata con il d.lgs.
n. 80 del 1998 e, quindi, consolidatasi con la l. n. 205 del
2000 e l'assetto
emerso dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte
costituzionale, nonché dalla
n. 191 del 2006, queste Sezioni Unite, proprio
nell'ordinanza n. 13659 del
2006, di fronte all'estensione dell'àmbito della
giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo alle pretese risarcitorie da lesione
di interessi legittimi
e all'estensione della giurisdizione esclusiva con la
conseguente attrazione ad
essa anche delle pretese risarcitorie da lesione di diritti
soggettivi, hanno
affermato il principio di diritto secondo cui
l'art. 103
Cost. non consente di
ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di
controversie di cui
non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati,
sicché la pretesa
risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in
proprio, cui si imputi
l'adozione del provvedimento illegittimo, va proposta
dinanzi al giudice
ordinario.
Come emerge dalla motivazione della decisione,
l'affermazione delle
ragioni, per cui non è dato ipotizzare la sussistenza della
giurisdizione
amministrativa rispetto a pretese risarcitorie contro
dipendenti pubblici, fu di
assoluta chiarezza, sicché non si comprende come la
resistete Po. ne abbia
dubitato.
Successivamente il principio di diritto espresso dalla
decisione del 2006
è stato confermato da Cass. sez. un. n. 5914 del 2008. Di
seguito si registrano
nei medesimi sensi Cass. sez. un. nn. 11932 del 2010 e 5408
del 2014.
§4.1.
Nella specie la causa petendi dell'azione risarcitoria
esercitate
dalla ricorrente contro i funzionari pubblici trae titolo
dal loro agire
nell'esercizio delle loro funzioni e la questione del se in
tale agire essi siano
ricaduti in responsabilità secondo la lege aquilia, ledendo
posizioni di diritto
soggettivo o di interesse legittimo della ricorrente si da
dare origine a
responsabilità è una questione che, non inerendo alla
responsabilità della
Pubblica Amministrazione per cui essi hanno agito (rompendo
o meno il c.d.
rapporto organico), non può rientrare né nella giurisdizione
del giudice
amministrativo riguardo alla tutela della lesione degli
interessi legittimi estesa
al profilo risarcitorio né nella giurisdizione esclusiva del
giudice
amministrativo estesa anche ai diritti soggettivi e, quindi,
estesa anche al
profilo risarcitorio.
Presupposto della giurisdizione amministrativa secondo la
Carta
costituzionale è, infatti, che la tutela giurisdizionale
coinvolgente le situazioni
giuridiche nella giurisdizione di legittimità ed in quella
esclusiva debba avere
luogo con la partecipazione in posizione attiva o passiva
della pubblica
amministrazione del soggetto che, pur non facendo parte
dell'apparato
organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni
dell'Amministrazione, così
ponendosi come pubblica amministrazione in senso oggettivo.
§4.2. Rilevano le Sezioni Unite che il profilo della
giurisdizione
amministrativa in questi termini trova conferma nel codice
del processo
amministrativo, atteso che, come del resto ha rimarcato la
ricorrente, l'art. 7,
comma 1, nell'individuare la giurisdizione del giudice
amministrativo sulle
controversie nelle quali si faccia questione di interessi
legittimi e, nelle
particolari materie, di diritti soggettivi, riferisce tali
controversie a
«l'esercizio o il mancato esercizio del potere
amministrativo» e le dice «riguardanti provvedimenti, atti,
accordi o comportamenti riconducibili
anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in
essere da pubbliche
amministrazioni>>.
Il riferimento al potere amministrativo, potrebbe, per la
verità suggerire
che il legislatore abbia voluto riferirsi anche alle
controversie in cui tale
potere venga in discussione in quanto esercitato dai
soggetti
all'Amministrazione legati da rapporto organico, cioè
considerandosi il solo
dato che il loro agire si è esplicato formalmente come
espressione del potere
amministrativo.
Tuttavia, questo suggerimento è subito contraddetto, in modo
decisivo,
dalla successiva precisazione che le forme dell'esercizio
del potere
specificamente indicate sono considerate siccome poste in
essere da
"pubbliche amministrazioni": tale precisazione evidenzia in
modo
indubitabile che la controversia riguarda quelle forme di
esercizio del potere
in quanto poste in essere dall'Amministrazione, il che non
lascia dubbi sul
fatto che soggettivamente la controversia esige che una
delle parti sia la
pubblica amministrazione e l'altra il soggetto che faccia la
questione
sull'interesse legittimo o sul diritto soggettivo.
Il dubbio sulla possibilità che la controversia possa
riguardare la lesione
di interessi legittimi o di diritti soggettivi fra tale
soggetto e colui che agisca
per l'Amministrazione con nesso di rappresentanza organica
è, pertanto,
chiaramente fugato.
Lo è ancora di più quando si legge il comma 2 dello stesso
articolo, là
dove esso proclama che «per pubbliche amministrazioni, ai
fini del presente
codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o
comunque tenuti al
rispetto dei principi del procedimento amministrativo.>>: è
nuovamente
palese che ci si riferisce al profilo oggettivo della
pubblica amministrazione o
di chi ad essa è equiparato.
V'è da notare, in fine, che il catalogo delle ipotesi di
giurisdizione
esclusiva di cui all'art. 133 del c.p.a. a sua volta, quando
nelle varie sue
previsioni non pone in evidenza il riferimento alla pubblica
amministrazione
dell'ipotesi di giurisdizione esclusiva, va inteso
necessariamente al lume di
quanto emerge dell'art. 7 nei sensi poco sopra indicati.
§5. Dev'essere, dunque, dichiarata la giurisdizione
dell'autorità
giudiziaria ordinaria sulla controversia. |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione e morte del responsabile.
L'ordine demolitorio, diversamente dalla
pena, non si estingue per morte del reo sopravvenuta alla
irrevocabilità della sentenza ma si trasmette agli eredi del
responsabile e dei suoi aventi causa che a lui subentrino
nella disponibilità del bene.
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente
infondato.
3. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte,
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo,
impartito dal giudice ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R.
n. 380 del 2001 con la sentenza di condanna per il reato di
costruzione abusiva, ha natura amministrativa e non si
estingue per il decorso del tempo ex art. 173 cod. pen.,
atteso che quest'ultima disposizione si riferisce
esclusivamente alle sole pene principali
(così già Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale, Rv.
226573; più recentemente, nello stesso senso, Sez. 3, n.
43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, n. 19742
del 14/04/2011, Mercurio, Rv. 250336; Sez. 3, n. 36387 del
07/07/2015, Formisano, Rv. 264736)
3.1. Tale orientamento è stato ancor più recentemente
ribadito sul rilievo espresso che le
caratteristiche dell'ordine di demolizione escludono la sua
riconducibilità anche alla nozione convenzionale di "pena"
come elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU
(così, Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, Rv. 265540
che ha annullato l'ordinanza del Tribunale di Asti del
03/11/2014, più volte richiamata dal ricorrente a sostegno
delle proprie tesi).
3.2. Il Collegio condivide e fa proprie le articolate
considerazioni sviluppate, con il supporto di ampia
giurisprudenza anche amministrativa, nella motivazione della
sentenza (alla quale rimanda), non mancando di rimarcare, in
questa sede, la decisiva osservazione che
l'ordine demolitorio, diversamente dalla pena, non si
estingue per morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità
della sentenza
(Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci, Rv. 249317;
Sez. 3, n. 3720 del 24/11/1999 - dep. 2000, Barbadoro, Rv.
215601), ma si trasmette agli eredi del
responsabile (v.,
ad es., Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 3206 del 30.05.2011)
e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella
disponibilità del bene
(v., ad es. Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 2266 del
12.04.2011; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 6554 del
24.12.2008).
3.3. Peraltro, come ricorda anche Sez. 3, n. 49331 del 2015,
già con la sentenza Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti
e altri, Rv. 245918, questa Corte, in base alle
argomentazioni sviluppate dalla stessa Corte e.d.u. (in essa
richiamate), aveva chiaramente affermato che «la
demolizione, a differenza della confisca, non può
considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della
CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un
danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per
impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni
stabilite dalla legge».
Si osservava, inoltre, che la sentenza «nel
mentre ha ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo
perseguito dalla norma, ossia mettere i terreni interessati
in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni
urbanistiche, la confisca (anche di terreni non edificati)
in assenza di qualsiasi risarcimento, ha invece
espressamente ritenuto giustificato e conforme anche alle
norme CEDU un ordine di demolizione delle opere abusive
incompatibili con le disposizioni degli strumenti
urbanistici eventualmente accompagnato da una dichiarazione
di inefficacia dei titoli abilitativi illegittimi. Sembra
quindi confermato che la invocata sentenza della Corte di
Strasburgo non solo non ha escluso un sequestro o un ordine
di demolizione dell'opera contrastante con le norme
urbanistiche nei confronti di chiunque ne sia in possesso,
anche qualora si tratti di terzo acquirente estraneo al
reato, ma ha addirittura implicitamente ritenuto che una
tale sanzione ripristinatoria può considerarsi giustificata
rispetto allo scopo perseguito dalle norme interne di
assicurare una ordinata programmazione e gestione degli
interventi edilizi e non contrastante con le norme CEDU
richiamate dai ricorrenti».
3.4. I primi due motivi di ricorso sono perciò totalmente
destituiti di fondamento.
4. Lo è di conseguenza anche il terzo che presuppone
l'erroneo concorso tra una inesistente sanzione penale
(l'ordine di demolizione ingiunto dal giudice) e quella
amministrativa (l'ordine di demolizione disposto dal
Comune).
4.1. Va piuttosto ribadito, richiamando quanto sul punto già
affermato dalla citata Sez. 3, n. 49331 del 2015, che
la demolizione ordinata dal giudice penale
costituisce atto dovuto, «esplicazione
di un potere autonomo e non alternativo al quello
dell'autorità amministrativa, con il quale può essere
coordinato nella fase di esecuzione
(cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv.
258518; Sez.3, n. 37906 del 22/05/2012, Mascia ed altro, non
massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994, Sorrentino Rv.
198511 ed altre prec. conf. Ma si vedano anche Sez. U, n. 15
del 19/06/1996, RM. in proc. Monterisi, Rv. 205336; Sez. U,
n. 714 del 20/11/1996 (dep.1997), Luongo, Rv. 206659)»
(così in motivazione), un potere che si
pone a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo
(cfr. Corte Cost. ord. 33 del 18/1/1990; ord. 308 del
09/07/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di
Gennaro, Rv. 185699) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.09.2016 n. 40675 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione - Estinzione per
morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della
sentenza - Esclusione - Trasmissione agli eredi - Artt. 31
c. 9, 44 lett. e), d.P.R. n. 380/2001.
L'ordine demolitorio, diversamente dalla pena, non si
estingue per morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità
della sentenza (Sez.3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci;
Sez. 3, n. 3720 del 24/11/1999 - dep. 2000, Barbadoro), ma
si trasmette agli eredi del responsabile (Consiglio di
Stato, Sez. 6, n. 3206 del 30.05.2011) e dei suoi aventi
causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene
(Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 2266 del 12.04.2011; Consiglio
di Stato, Sez. 4, n. 6554 del 24.12.2008).
Natura amministrativa dell'ordine di
demolizione del manufatto abusivo - Giurisprudenza della
Corte EDU.
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito dal
giudice ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del
2001 con la sentenza di condanna per il reato di costruzione
abusiva, ha natura amministrativa e non si estingue per il
decorso del tempo ex art. 173 cod. pen., atteso che
quest'ultima disposizione si riferisce esclusivamente alle
sole pene principali (Cass. Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003,
Pasquale; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela; Sez. 3,
n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio; Sez. 3, n. 36387 del
07/07/2015, Formisano).
Pertanto, le caratteristiche
dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità
anche alla nozione convenzionale di "pena" come elaborata
dalla giurisprudenza della Corte EDU (così, Sez. 3, n. 49331
del 10/11/2015, Delorier)
Differenza tra demolizione e confisca -
DIRITTO PROCESSUALE EUROPEO - Giurisprudenza.
La demolizione, a differenza della confisca, non può
considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un
danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per
impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni
stabilite dalla legge».
Inoltre, la Corte di Strasburgo «nel
mentre ha ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo
perseguito dalla norma, ossia mettere i terreni interessati
in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni
urbanistiche, la confisca (anche di terreni non edificati)
in assenza di qualsiasi risarcimento, ha invece
espressamente ritenuto giustificato e conforme anche alle
norme CEDU un ordine di demolizione delle opere abusive
incompatibili con le disposizioni degli strumenti
urbanistici eventualmente accompagnato da una dichiarazione
di inefficacia dei titoli abilitativi illegittimi».
Sicché,
la invocata sentenza della Corte di Strasburgo non solo non
ha escluso un sequestro o un ordine di demolizione
dell'opera contrastante con le norme urbanistiche nei
confronti di chiunque ne sia in possesso, anche qualora si
tratti di terzo acquirente estraneo al reato, ma ha
addirittura implicitamente ritenuto che una tale sanzione ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo
scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una
ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi
e non contrastante con le norme CEDU richiamate dai
ricorrenti (Sez. 3, n. 49331 del 2015; Sez. 3, n. 48925 del
22/10/2009, Viesti e altri).
Demolizione ordinata dal giudice penale
- Natura di atto dovuto autonomo - Potere che si pone a
chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo.
La demolizione ordinata dal giudice penale costituisce atto
dovuto, <<esplicazione di un potere autonomo e non
alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il
quale può essere coordinato nella fase di esecuzione>> (Cass.
Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo; Sez. 3,
n. 37906 del 22/05/2012, Mascia ed altro; Sez. 6, n. 6337 del
10/03/1994, Sorrentino; Cass. Sez. U., n. 15 del 19/06/1996,
RM. in proc. Monterisi; Sez. U. n. 714 del 20/11/1996
(dep. 1997), Luongo (così in motivazione), un potere che si
pone a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo
(Corte Cost. ord. 33 del 18/01/1990; ord. 308 del 09/07/1998;
Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.09.2016 n. 40675 - link a
www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Infortunio mortale sul lavoro: la responsabilità non è del
committente se c’è il coordinatore.
Infortunio mortale sul lavoro: la Cassazione esclude la
responsabilità del committente in caso di conferimento
dell’incarico ad un’impresa appaltatrice e di nomina del
coordinatore della sicurezza
Nessuna condanna per il committente se
conferisce l’incarico per la realizzazione dei lavori ad
un’altra impresa, assicurando la sua totale estraneità al
compimento dell’opera e se nomina un tecnico come
coordinatore per la sicurezza.
Questo quanto ribadito dalla IV Sez. penale della Corte di
Cassazione nella
sentenza 27.09.2016
n. 40033, in merito ad un caso di decesso di un
lavoratore dipendente di un’impresa subappaltatrice.
Infortunio mortale sul lavoro, il fatto
Il caso in esame riguarda la morte di un lavoratore,
deceduto a causa di un infortunio mortale per gravi
violazioni delle misure di sicurezza sul cantiere.
In particolare, la società committente dei lavori per la
costruzione di una palazzina di civile abitazione
subappaltava i lavori ad altra impresa. Quest’ultima, a sua
volta, subappaltava ad altre 2 imprese:
1. i lavori per la realizzazione opere di muratura;
2. i lavori per la realizzazione intonaco e verniciatura.
Un lavoratore dipendente dell’impresa subappaltatrice di
intonacatura, durante la sua attività, precipitava nel vano
ascensore causandone il decesso.
Infortunio mortale sul lavoro, la decisione del Tribunale
di Milano
Il Tribunale di Milano, accertata l’assenza di qualsiasi
misura di protezione contro il rischio di caduta dall’alto,
condannava i seguenti soggetti per la morte del lavoratore:
• il committente, quale amministratore unico della società
committente dei lavori;
• il direttore tecnico dei lavori, ossia l’amministratore
della società appaltatrice dei lavori;
• il direttore di fatto dei lavori per la società cui erano
state subappaltate le opere.
In particolare, riteneva il committente responsabile del
suddetto reato in quanto (in violazione degli artt. 90,
comma 2, del dlgs 81/2008 e 2087 del cc) ometteva di
valutare adeguatamente la idoneità e completezza del PSC,
con riguardo all’assenza nel predetto PSC di misure di
prevenzione del rischio di caduta nel vuoto.
Responsabile anche il direttore tecnico dei lavori perché,
in violazione degli artt. 97, comma 1, 2 e 3, 26, 146, comma
3, del dlgs 81/2008 e 2087 del cc., ometteva di:
• vigilare sulla sicurezza dei lavori affidati in subappalto
alla società di intonacatura
• verificare l’idoneità tecnica di tale società e
l’adeguatezza del suo POS che non prevedeva adeguate misure
di protezione contro il rischio di caduta nel vuoto
• coordinare gli interventi di cui agli artt. 95-96 dlgs
81/2008 e di promuovere il coordinamento e la cooperazione
delle imprese esecutrici ai fini della sicurezza
• provvedere affinché, durante l’intonacatura delle predette
aree, le aperture sul vano ascensore fossero adeguatamente
protette, ossia sbarrate
Infine, riteneva responsabile il direttore di fatto del
cantiere in quanto, in violazione degli artt. 146, co. 3,
dlgs 81/2008, 2087 cc.:
• ometteva di provvedere affinché, durante l’intonacatura
delle aree di sbarco, le aperture sul vano ascensore fossero
adeguatamente protette contro il rischio di caduta nel
vuoto;
• disponeva, invece, che i lavoratori procedessero alla
intonacatura previa rimozione delle tavole poste a
protezione del suddetto vano.
Pertanto, il Tribunale di Milano condannava i 3 soggetti.
Condannava anche le rispettive società per non aver adottato
misure di protezione.
Infortunio mortale sul lavoro, Corte di appello di Milano
I condannati proponevano appello dinanzi la Corte di appello
di Milano che, in parziale riforma dell’impugnata sentenza
assolveva solo la società della committenza e quella
appaltatrice.
Confermava nel resto l’impugnata sentenza; gli altri
ricorrenti avanzavano, quindi, ricorso per cassazione.
Infortunio mortale sul lavoro, Corte di Cassazione,
sentenza 40033/2016
La Corte di Cassazione annulla la sentenza nei confronti del
committente per non aver commesso il fatto. Rigetta, invece,
gli altri ricorsi.
In base a quanto osservato dalla Cassazione, la società
committente si era limitata a conferire l’incarico per la
costruzione senza prendere parte ad essa. Inoltre, aveva
nominato il coordinatore per la sicurezza in fase di
progettazione e il coordinatore per la sicurezza in fase di
esecuzione, destinatario degli obblighi previsti.
Per quanto riguarda, invece, l’appaltatore dei lavori, egli
è destinatario di specifici obblighi di vigilanza sulla
sicurezza dei lavori effettuati dalla imprese
subappaltatrici.
Tra gli obblighi, la valutazione circa l’adeguatezza del POS
adottato dalle stesse.
Nel caso specifico, nel piano di sicurezza dell’impresa
subappaltatrice, alle cui dipendenze era il lavoratore
deceduto, non vi era alcuna misura di prevenzione dai rischi
circa le lavorazioni in prossimità delle aperture vicino gli
ascensori. Solo generiche previsioni relative al rischio di
caduta dall’alto (commento tratto da http://biblus.acca.it).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato per i motivi di seguito illustrati.
Occorre innanzitutto rilevare che nel quadro delle
molteplici posizioni di garanzia previste dalla normativa di
settore al fine del rafforzamento del sistema della
prevenzione e sicurezza sul lavoro, attraverso la sinergia
di interventi di diversi soggetti destinatari degli obblighi
di protezione, è prevista la figura del committente,
introdotta dal d.lgs. 14.08.1996 n. 494, (riguardante i
cantieri mobili o mobili), le cui norme sono state trasfuse
nel Testo Unico per la sicurezza del lavoro (d.lgs.
09.04.2008 n. 81).
Tale normativa, oltre a prevedere la figura del datore di
lavoro e dei suoi ausiliari (preposto,
direttore di cantiere) individua, come portatore di una
specifica posizione di garanzia, anche la figura del
committente, cui si aggiunge quella di altri garanti
costituenti una sua promanazione: il responsabile dei
lavori, il coordinatore per la salute e sicurezza in
fase di progettazione e il coordinatore per la salute
e sicurezza in fase di realizzazione.
Come questa Corte ha avuto modo di rilevare,
normalmente è il datore di lavoro il
personaggio che riveste una posizione di vertice nel sistema
della sicurezza, in quanto titolare del rapporto di lavoro e
al contempo titolare dell'impresa esecutrice dei lavori, con
compiti quindi organizzativi ed economici inerenti
l'attività dell'impresa che lo vedono direttamente coinvolto
anche nella predisposizione ed osservanza delle misure
antinfortunistiche. Tuttavia, nella previsione di una
pluralità di soggetti che concorrono al rafforzamento della
sicurezza del lavoro, il d.lvo n. 494/1996 introduce,
affiancandola al datore di lavoro con i suoi
collaboratori, la figura del committente.
Anche il committente, che assume
l'iniziativa della realizzazione dell'opera, provvedendo a
programmarla e a finanziarla, sebbene l'esecuzione venga
affidata a terzi, assume una quota di responsabilità in
materia di prevenzione antinfortunistica collocandosi
accanto al datore di lavoro nella titolarità degli
obblighi di protezione, con la possibilità demandarli ad
altra figura, questa ausiliaria, del responsabile dei
lavori, anziché occuparsene direttamente.
Per gli aspetti tecnici delle competenze
facenti capo al committente in materia
antinfortunistica, lo stesso, o per lui il responsabile
dei lavori, può avvalersi di figure specializzate,
distinte per la fase della progettazione e della
realizzazione dei lavori, che sono appunto il
coordinatore per la salute e sicurezza in fase di
progettazione e il coordinatore per la salute e
sicurezza in fase di realizzazione (denominati, il
primo, coordinatore per la progettazione, il secondo,
coordinatore per l'esecuzione dei lavori).
Tali figure professionali devono essere dotate di
particolari requisiti (art. 10 d.lvo 494/1996) ed assolvono
compiti delicati, quali, per il coordinatore in fase di
progettazione, redigere il piano di sicurezza e di
coordinamento e predisporre il fascicolo contenente le
informazioni utili per la prevenzione e la protezione dai
rischi (art. 4 cit. d.lvo); per il coordinatore per la
sicurezza in fase di esecuzione:
1) controllare l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici e
dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti
contenute nel piano di sicurezza e coordinamento e la
corretta applicazione delle relative procedure di lavoro;
2) verificare l'idoneità del piano operativo di sicurezza redatto
dal datore di lavoro dell'impresa esecutrice come piano di
dettaglio, ed assicurarne la coerenza col PCS;
3) adeguare il piano di coordinamento e sicurezza e il fascicolo di
valutazione dei rischi in relazione all'evoluzione dei
lavori e all'eventuali modifiche intervenute;
4) organizzare tra i datori di lavoro operanti nello stesso
cantiere la cooperazione ed il coordinamento delle attività
all'interno del cantiere;
5) infine segnalare al committente o al responsabile dei lavori le
inosservanze delle disposizioni di legge riferite ai datori
di lavoro o ai lavoratori autonomi, previa contestazione
scritta alle imprese ed ai lavoratori autonomi interessati
(art. 5 d.lvo n. 494/1996).
Trattasi di figure, quelle dei coordinatori
per la sicurezza, le cui posizioni di garanzia non si
sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel
campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano
per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura
unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la
massima garanzia dell'incolumità dei lavoratori
(sez. 4, n. 7443 del 17/01/2013 Rv. 255102, sez. 4, n. 18472
del 04/03/2008, Rv. 240393)
La designazione dei tecnici coordinatori
per la sicurezza nelle due fasi della progettazione e
dell'esecuzione può esonerare da responsabilità il
committente o, per lui, il responsabile dei lavori,
se nominato, fatta salva la verifica dell'adempimento da
parte dei responsabili per la sicurezza degli
obblighi ad essi facenti carico, fra i quali, in primis,
la redazione del piano di coordinamento e di sicurezza e del
documento di valutazione dei rischi per il coordinatore
della sicurezza in fase di progettazione e, per il
coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione,
l'azione di coordinamento e di controllo circa l'osservanza
delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di
coordinamento e la verifica del piano di sicurezza.
Così individuato il contenuto dei compiti
facenti carico al committente, nel panorama delle posizioni
di garanzia per la prevenzione degli infortuni sul lavoro
quella del committente può definirsi,
come ripetutamente affermato in diverse pronunce di questa
Corte, una funzione tecnica di "alta
vigilanza" sulla sicurezza del cantiere che riguarda la
generale configurazione delle lavorazioni e non il puntuale
e continuo controllo di esse, né la specificità di
determinati rischi connessi alla particolarità o complessità
della lavorazione, controlli facenti capo ad altri soggetti,
destinatari di ben più pregnanti obblighi di protezioni,
quale il datore di lavoro, il preposto, il
direttore di cantiere.
Con la nomina dei coordinatori per la
sicurezza, il committente trasferisce tale
funzione di alta vigilanza a dette figure che assumono gli
obblighi al medesimo facenti carico di modo che il
committente rimane titolare di una posizione di garanzia
limitata alla verifica che il tecnico nominato adempia al
suo obbligo (sez.
quarta n. 37738 del 28.05.2013, rv 256637, imp. Gandolla).
Difatti, secondo l'art. 93 09.04.2008 n. 81 (testo Unico in
materia della salute e della sicurezza) "il
committente è esonerato dalle responsabilità connesse
all'adempimento degli obblighi limitatamente all'incarico
conferito al responsabile dei lavori".
Così delineata la posizione di garanzia del committente,
passando all'esame del caso di specie, osserva questo
Collegio che Co. era, all'epoca dei fatti, amministratore
unico della Fe.Ma. s.r.l. società committente dei lavori per
la costruzione di una palazzina di civile abitazione
appaltati alla IC. s.r.l., la quale li aveva a sua volta
subappaltati alla G.Co., per quanto riguarda le opere di
muratura, e alla società PJ.CO. srl, di cui era dipendente
il lavoratore deceduto, per quanto riguarda le opere di
intonacatura e verniciatura.
E' dunque evidente che la società rappresentata dal Co. si
era limitata a conferire l'incarico per la costruzione senza
prendere parte ad essa. Il Co., nella sua qualità di legale
rappresentante della società committente, aveva peraltro
nominato il coordinatore per la sicurezza in fase di
progettazione e il coordinatore per la sicurezza in fase di
esecuzione, funzioni conferite entrambe all'ing. Po.,
divenuto quindi destinatario degli obblighi previsti dagli
art. 4 e 5 d.lvo 494/1996 (trasfusi negli art. 91 e 92 del
d.lgs. n. 81/2008) .
Di conseguenza, data la totale estraneità alla realizzazione
dell'opera e considerata comunque la presenza di un tecnico
che rappresentava la committenza, destinatario degli
obblighi di protezione previsti a carico delle figure dei
coordinatori responsabili della sicurezza, nessun addebito
può essere mosso al Co.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata senza
rinvio limitatamente alla posizione del predetto imputato
per non aver commesso il fatto.
Tale epilogo decisorio esonera il Collegio dall'esame del
secondo motivo dedotto dalla difesa di Co. concernente il
mancato riconoscimento della attenuante del risarcimento de
danno.
2. Quanto al ricorso di Ma., amministratore unico della
ditta IC., i motivi 1-4 —tramite i quali si contesta la
ritenuta responsabilità dello stesso in relazione
all'incidente verificatesi stante la sua qualifica di
Direttore tecnico del cantiere— devono ritenersi
infondati.
Innanzitutto, come risulta dall'imputazione e dalla stessa
sentenza impugnata, il predetto viene considerato
responsabile del reato attribuitogli in quanto
subcommittente. Difatti all'epoca dei fatti il Ma. era
l'amministratore unico della IC. cui la Fe.Ma. aveva
commissionato la costruzione della Palazzina destinata a
civile abitazione. Per l'esecuzione di detta opera, il Ma.
aveva subappaltato i lavori a due imprese la G. e la PJ.,
mantenendo però un controllo sulla realizzazione dell'opera
quale Direttore Tecnico del Cantiere.
Ora, a prescindere da tale denominazione che non trova
riscontro nei testi legislativi, ciò che rileva è che lo
stesso sia qualificabile come sub committente/subappaltatore
e, quindi, destinatario di specifici obblighi di vigilanza
sulla sicurezza dei lavori effettuati dalla imprese
subappaltatrici. Obblighi comprensivi anche di una
valutazione circa l'adeguatezza del piano operativo di
sicurezza adottato dalle stesse.
E nel caso di specie certamente è mancata una approfondita
valutazione del POS della PJ.: tale documento infatti, come
già si è detto, non conteneva alcuna previsione di misure di
prevenzione dai rischi inerenti le lavorazioni —come appunto
la intonacatura— da effettuarsi in prossimità delle aperture
prospicienti le trombe degli ascensori ma soltanto delle
generiche previsioni relative al rischio di caduta
dall'alto, nonostante la prevedibilità di cadute nel vuoto
in prossimità delle aree di sbarco dell'ascensore, non
ancora posizionato, soprattutto in relazione alla specifica
attività di intonacatura.
Quanto alla sussistenza della responsabilità del
committente appaltatore nonostante la nomina di
specifiche figure preposte alla sicurezza del cantiere, e i
profili di diritto intertemporale, si richiama
l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale
in tema di prevenzione degli infortuni, l'appaltatore
che procede a subappaltare l'esecuzione delle opere non
perde automaticamente la qualifica di datore di lavoro
ciò neppure se il subappalto riguardi formalmente la
totalità dei lavori. Egli continua ad essere responsabile
del rispetto della normativa antinfortunistica qualora, come
nel caso di specie, eserciti una continua ingerenza e
controlli la prosecuzione dei lavori
(Cass. Sez. III n. 50996/2013 RV 258299; Cass. Sez. IV n.
7954/2014 RV 259274).
Ed infatti, come messo in evidenza nella sentenza di
appello, il Ma. non solo effettuava personalmente
sopralluoghi in cantiere, ma vi mandava quotidianamente il
suo dipendente, il geom. Pa., il quale si occupava di
redigere il giornale di cantiere, di tenere i contatti con i
fornitori e di controllare le lavorazioni svolte. Dunque non
si può affermare, come vorrebbe la difesa, che il Ma. non
svolgesse alcuna funzione se non quella di acquisto e messa
a disposizione del materiale.
Al pari infondati risultano il quinto ed il sesto motivo
inerenti la sussistenza del nesso di causalità tra la
condotta del Ma. e la verificazione dell'incidente nonché le
modalità della caduta.
Va osservato in proposito che la normativa
antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del
lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o
fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue
stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle
istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo
svolgimento dell'attività lavorativa.
La Suprema Corte ha però costantemente precisato che,
in caso di infortunio sul lavoro originato
dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione,
nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al
comportamento del lavoratore infortunato, che abbia
eventualmente dato occasione all'evento, quando questo sia
da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle
cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il
rischio di siffatto comportamento
(Sez. 4, n. 23729 del 19/04/2005 Ud. Rv. 231736).
"La prospettazione di una causa di
esenzione da colpa connessa alla condotta imprudente del
lavoratore, non rileva allorché chi la invoca versa in re
illicita, per non avere negligentemente impedito l'evento
lesivo, che è conseguito, nella specie, dall'avere la
vittima operato in condizioni di rischio note all'azienda e
non eliminate da chi rivestiva la posizione di garanzia"
(in motivazione Sez. 4, n. 16890 del 14/03/2012 Rv. 252544).
Quindi l'eventuale colpa concorrente del
lavoratore non può spiegare alcun effetto esimente per il
datore di lavoro che abbia provocato l'infortunio per
violazione delle prescrizioni in materia antinfortunistica,
giacché la relativa normativa è appunto diretta a prevenire
gli effetti della condotta colposa dei lavoratori per la cui
tutela è dettata.
Proprio in considerazione della finalità delle norme sulla
prevenzione degli infortuni sul lavoro testé illustrate,
dirette a tutelare il lavoratore anche in ordine ad
incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza
e imperizia, la responsabilità del
datore di lavoro e, in generale, del destinatario
dell'obbligo di adozione delle misure di prevenzione può
essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di
un comportamento del lavoratore del tutto imprevedibile che
presenta i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e
dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle
precise direttive ricevute; tale si è definito il
comportamento posto in essere da quest'ultimo del tutto
autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni
affidategli, al di fuori delle prestazioni inerenti una
determinata lavorazione -e pertanto al di là di ogni
prevedibilità e possibilità di controllo per il datore di
lavoro- ovvero, pur rientrando nelle mansioni che gli sono
proprie, sia consistito in un qualcosa di radicalmente,
ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili imprudenti
scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.
Per contro, nell'ipotesi di infortunio sul
lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di
prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la
responsabilità del datore di lavoro, può essere
attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che
abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da
ricondurre alla mancanza o insufficienza di quelle cautele
che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio
di siffatto comportamento
(sez. 4, Sentenza n. 36339 del 2005).
Nel caso in esame, come condivisibilmente rilevato nella
sentenza impugnata, deve escludersi la sopravvenienza di
fattori causali legati al comportamento del lavoratore,
idonei ad interrompere il nesso di causalità fra la condotta
omissiva e l'evento.
Sia nella sentenza di primo grado sia in quella di appello,
sono state descritte le circostanze e le ragioni dell'evento
mortale avvenuto in data 30.07.2009 verso le 10:30. Sulla
base delle deposizioni degli operai presenti nel cantiere è
emerso, infatti, che la vittima, mentre effettuava
l'intonacatura della aree di sbarco dell'ascensore al quarto
piano, perdeva l'equilibrio precipitando nel vano scale in
quel momento privo di alcuna protezione e perdeva la vita a
seguito della caduta.
Quanto alla sussistenza del nesso eziologico la condotta
dell'imputato e l'evento, occorre rilevare che sicuramente
la caduta nel vuoto del Lu. è da collegarsi all'assenza di
adeguate misure di protezione. Difatti, anche le cesate
poste davanti alle porte del vano ascensore e, poi rimosse
per effettuare l'intonacatura, erano del tutto inadeguate
alla lavorazione in atto al momento dell'infortunio, in
quanto troppo basse per evitare le cadute in caso di lavori
in quota (cioè interventi operati ad un'altezza superiore ai
due metri quali quello che stava effettuando il Lu.).
Le stesse, essendo alte soltanto 1,10 metri, non sbarravano
l'intero vano ascensore per tutta la sua altezza ed inoltre,
essendo costituite da tavole inchiodate al muro ai lati
delle porte in senso orizzontale o verticale, non erano
idonee a contrastare cadute accidentali di persone di medio
peso.
Questa manchevolezza è da addebitarsi ad una deficienza del
POS della PJ. il quale, come già accennato, non prevedeva
specifiche misure di protezione contro il rischio di caduta
nel vuoto durante le operazioni di intonacatura anche delle
aree di sbarco dell'ascensore; POS che il Ma., nella sua
qualità di sub committente- appaltante avrebbe dovuto
controllare facendo in modo che, durante l'intonacatura
delle predette aree, le aperture sul vano ascensore fossero
adeguatamente protette contro il rischio di caduta nel vuoto
tramite parapetto munito di tavole fermapiede ovvero
altrimenti sbarrate (così come prescritto dall'art. 146 Dlvo
81/2008).
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte territoriale
ha correttamente ritenuto sussistente il nesso eziologico
tra la condotta omissiva dell'odierno imputato e
l'infortunio che ha condotto al decesso del Lu..
...
3. Quanto al ricorso presentato dalla difesa del Pe., il
primo motivo con il quale si contesta il riconoscimento in
capo allo stesso di una posizione di garanzia quale preposto
di fatto appare infondato.
Come è noto, infatti, in tema di
prevenzione degli infortuni, il capo cantiere, la cui
posizione è assimilabile a quella del preposto,
assume la qualità di garante dell'obbligo di assicurare la
sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività,
impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive
ricevute e ne controlla l'esecuzione. Di conseguenza egli
risponde delle lesioni occorse ai dipendenti
(ex multis Cass. Sez. IV n. 9491/2013 RV. 254403).
Orbene tale qualifica —di preposto o
capocantiere— dev'essere attribuita, più che in base
a formali qualificazioni giuridiche o alla sussistenza di
specifiche deleghe, con riferimento alle mansioni
effettivamente svolte dal soggetto all'interno del cantiere.
Ne consegue che chiunque abbia assunto, in qualsiasi modo,
posizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, così
da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul
lavoro da eseguire, deve essere considerato, per ciò stesso,
tenuto all'osservanza ed all'attuazione delle prescritte
misure di sicurezza ed al controllo del loro rispetto da
parte dei singoli lavoratori
(Cass. Sez. IV n. 35666/2007 RV 237468).
In altri termini, per quanto qui interessa,
risponde della violazione delle norme
antinfortunistiche non solo colui il quale non le osservi o
non le faccia osservare essendovi istituzionalmente tenuto,
ma anche chi, pur non avendo una veste istituzionale
formalmente riconosciuta, si comporta di fatto come se
l'avesse e impartendo ordini nell'esecuzione dei quali il
lavoratore subisca danni per il mancato rispetto della
normativa a presidio della sua sicurezza
(Cass. Sez. IV n. 43343/2002 RV 226339).
Orbene, nel caso di specie è stata indubbiamente accertata
la concreta ingerenza da parte dell'imputato —ancorché privo
di attribuzioni formali o deleghe all'interno
dell'organizzazione del cantiere— nell'attività della Pj.
cui, peraltro, la G. forniva assistenza, come risulta dal
giornale di cantiere, per la movimentazione del materiale
necessario tramite la gru.
In particolare, come si evidenzia nell'impugnata sentenza ed
in quella di primo grado, i lavoratori della PJ. hanno
riferito che le disposizioni sulle lavorazioni erano loro
impartite dal geometra Ba. che le riceveva dal Pe. ovvero,
in caso di assenza del predetto geometra, direttamente
dall'imputato. Né si può affermare che il Pe. si sia
limitato a prendere atto di un'attività, quella di
intonacatura, decisa ed autonomamente gestita dagli operai
della PJ. atteso che, come risulta dalle suddette
deposizioni, egli stesso dette le indicazioni sulle misure
delle porte per apporre i paraspigoli.
Peraltro un aspetto che vale la pena richiamare è la
presenza del Pe. presso il cantiere il giorno dell'incidente
nonostante i lavori di muratura —di competenza della G.—
fossero terminati e per la movimentazione del materiale
necessario per l'intonacatura fosse necessaria solo la
presenza del gruista. Ciò è indice inequivocabile del ruolo
di fatto svolto dall'imputato, quale capocantiere di fatto e
punto di riferimento anche degli operai dell'altra ditta
subappaltatrice.
Del resto, i numerosi testi sentiti in dibattimento sono
stati concordi nel riferire delle sue sollecitazioni a
rimettere le sbarre di protezione alle aperture del vano
ascensore, una volta finita l'intonacatura, della sua
costante presenza in cantiere e della sua immediata
reperibilità quale referente cui comunicare la notizia del
tragico accadimento.
Tutti questi elementi hanno giustamente condotto la Corte di
appello a ritenere che gli operai della PJ. incaricati
dell'intonacatura abbiano svolto la loro attività anche con
riferimento all'area di sbarco degli ascensori secondo una
loro operatività ma sempre seguendo indicazioni impartite
dal Pe. Dunque quest'ultimo deve considerarsi anche nei
confronti di tali lavoratori titolare di una posizione di
garanzia e quindi responsabile di eventuali infortuni loro
accorsi. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla precarietà, o meno, di un gazebo.
I gazebo non precari, ma funzionali
a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati
manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro
incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo
non precario non è deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare
esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere
permanente e non stagionale dell'attività svolta.
In tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula
un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la
sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del
manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e
contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso
è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del
comma 1 dell'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, che include tra
le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che
siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee”.
E’ stato ancora precisato che “Non implica precarietà
dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal
permesso di costruire, il carattere stagionale di essa,
quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non
provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua
funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli destinati ad
un'utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante), anche se con la reiterazione della presenza
del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione”.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 57 del 10.03.2009
del Comune di Termoli, notificata il 21.03.2009, mediante la
quale è stata disposta a carico della ricorrente la "immediata
rimozione dell'opera abusivamente realizzata e la riduzione
in pristino dello stato dei luoghi", nonché di tutti gli
atti preordinati consequenziali e comunque presupposti tra i
quali il verbale di accertamento della P.M. del 04.03.2009
n. 6/09.
...
Il ricorso è infondato.
Si verte al cospetto di un gazebo che richiedeva il permesso
di costruire avendo dimensioni significative di ml. 5,00 x
3,00, per un totale di 15 mq., con altezza di ml. 2,50
circa, e posto sul confine di proprietà, a distanza non
regolamentare e come tale idoneo a ridurre la visuale e la
luminosità delle abitazioni limitrofe con affaccio sulla
corte dove è stato posto, come peraltro contestato da
proprietario confinante che ha segnalato l’abuso edilizio.
Diversamente da quanto allegato dalla ricorrente, è stata
realizzata una vera e propria casetta chiusa, sui diversi
lati, con pannelli di legno (o comunque in profili di
PLET-plastica riciclata eterogenea) pieni nella parte
inferiore e grigliati in quella superiore e munita di telo
di copertura, come tale idonea a creare un volume edilizio
di indubbio impatto anche per le caratteristiche della corte
edilizia dove è stato collocato, secondo quanto chiaramente
evincibile dalla documentazione fotografica allegata al
verbale del Comando della Polizia Municipale del 04.03.2009
in atti.
Si tratta, in particolare, di un manufatto leggero per il
quale è richiesto il permesso di costruire, di cui all’art.
10 del DPR n. 380/2001, in forza del disposto di cui
all’art. 3, comma 1, lettera e.5 -secondo quanto
espressamente contestato con il verbale della polizia
municipale del 4.03.2009 richiamato nella ordinanza
impugnata- essendo privo del carattere della temporaneità in
quanto stabilmente destinato ad attività al servizio della
abitazione principale (quale locale di servizio, deposito,
adibito allo svago o di vero e proprio “salotto
all’aperto”, secondo quanto riferito dalla stessa
ricorrente con la relazione tecnica di parte in atti).
L’assenza del requisito della temporaneità si desume, in
particolare, dalla sua non facile amovibilità di cui la
solida struttura in legno ne è indice certamente grave e
preciso, tant’è che la stessa relazione tecnica di parte,
nel descrivere le caratteristiche costruttive del manufatto,
parla di elementi autoportanti bullonati tra loro costituiti
da pannelli verticali e da “travi perimetrali,
orizzontali e centrali di copertura”.
In presenza di simili caratteristiche costruttive,
oggettivamente incompatibili con il parametro legale della
temporaneità, a nulla vale opporre che la struttura non
sarebbe ancorata ma solo poggiata a terra.
La giurisprudenza prevalente ritiene che i gazebo non
precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti,
vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi,
con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla
rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie,
posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo
uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per
soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal
carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta
(in termini Cons. Stato, Sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; Sez.
VI, 03.06.2014, n. 2842; TAR Perugia, 16.02.2015, n. 81).
In tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula
un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la
sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del
manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e
contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso
è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del
comma 1 dell'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, che include tra
le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che
siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee” (Cons. Stato,
Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
E’ stato ancora precisato che “Non implica precarietà
dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal
permesso di costruire, il carattere stagionale di essa,
quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non
provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua
funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli destinati ad
un'utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante), anche se con la reiterazione della presenza
del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione”
(Cfr. Cons. Stato, VI, 01.12.2014, n. 5934).
Nel caso di specie il requisito della temporaneità manca sia
dal punto di vista strutturale, stante la non facile
amovibilità del manufatto, sia da quello funzionale stante
la sua idoneità ad assolvere in modo duraturo nel tempo una
molteplicità di funzioni a servizio dell’abitazione
principale.
Alla luce delle motivazioni che precedono il ricorso deve
pertanto essere respinto, non potendo giovare alla
ricorrente neppure il richiamo alla sentenza di questo TAR
n. 66/2014 con la quale la necessità del preventivo rilascio
del permesso di costruire è stata esclusa in presenza di una
struttura in legno “aperta sui lati”, per di più “rientrante
nella previsione del progetto di cui alla concessione
edilizia n. 278/1983” e quindi munita di titolo edilizio
autorizzatorio (TAR Molise,
sentenza 21.09.2016 n. 353
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
edilizia, il proprietario pro quota non è legittimato
all’istanza di rilascio.
Il Consiglio di Stato precisa che il soggetto legittimato
alla richiesta del titolo abilitativo è colui che ha la
totale disponibilità del bene.
Il soggetto legittimato alla richiesta del titolo
abilitativo deve essere colui che abbia la totale
disponibilità del bene, cioè l’intera proprietà dello stesso
e non solo una parte o quota di esso.
Tra i requisiti indefettibili per il rilascio del titolo, va
annoverata anche la circostanza che l’istanza di sanatoria
provenga da un soggetto qualificabile come proprietario
dell’edificio oggetto degli interventi della cui sanatoria
giuridica si tratti.
La regola sopra esposta deve essere ulteriormente precisata
nel senso che il soggetto legittimato alla richiesta del
titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale
disponibilità del bene, pertanto l’intera proprietà dello
stesso e non solo una parte o quota di esso.
Non può invece riconoscersi legittimazione, al contrario, al
semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di
un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente
considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe
pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei
soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica
sul bene oggetto di provvedimento.
In caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile,
di conseguenza, la domanda di rilascio di titolo edilizio
-sia esso o meno titolo in sanatoria di interventi già
realizzati- dovrà necessariamente provenire congiuntamente
da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà
sull’immobile, potendosi ritenere d’altra parte legittimato
alla presentazione della domanda il singolo comproprietario
solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di
fatto esistente sul bene consenta di supporre l’esistenza di
una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari
comproprietari.
In carenza della situazione da ultimo descritta, il titolo
edilizio, volto alla realizzazione o al consolidamento dello
stato realizzativo di operazioni (incidenti su parti non
rientranti nell’esclusiva disponibilità del richiedente) non
potrà essere né richiesto –non avendo il soggetto titolo per
proporre tale istanza– né, ovviamente, rilasciato -non
sussistendo i presupposti per l’emissione dello stesso- in
modo legittimo dalla P.A..
-------------
2.4. Tuttavia, deve precisarsi che, in sede di procedimento
per rilascio di titolo edilizio in sanatoria, deve formare
oggetto di valutazione da parte del Comune di Lavagna la
sussistenza di tutti i presupposti cui la legge condiziona
il rilascio del provvedimento stesso.
Ebbene, tra i requisiti indefettibili per il rilascio del
titolo, va annoverata anche la circostanza che l’istanza di
sanatoria provenga da un soggetto qualificabile come
proprietario dell’edificio oggetto degli interventi della
cui sanatoria giuridica si tratti (cfr. sul punto in
questione e sui limiti ed obblighi che incontra il comune
nel vagliare gli ostacoli di ordine civilistico al rilascio
del titolo edilizio ordinario, o per accertamento di
conformità, o per condono edilizio straordinario, Cons.
Stato, Sez. IV, n. 2116 del 2016; n. 4818 del 2014; Sez. V,
n. 5894 del 2011, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2,
lett. d), c.p.a.).
La regola sopra esposta deve essere ulteriormente precisata
nel senso che il soggetto legittimato alla richiesta del
titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale
disponibilità del bene, pertanto l’intera proprietà dello
stesso e non solo una parte o quota di esso. Non può invece
riconoscersi legittimazione, al contrario, al semplice
proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un
immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente
considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe
pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei
soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica
sul bene oggetto di provvedimento.
In caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile,
di conseguenza, la domanda di rilascio di titolo edilizio
-sia esso o meno titolo in sanatoria di interventi già
realizzati- dovrà necessariamente provenire congiuntamente
da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà
sull’immobile, potendosi ritenere d’altra parte legittimato
alla presentazione della domanda il singolo comproprietario
solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di
fatto esistente sul bene consenta di supporre l’esistenza di
una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i
vari comproprietari.
In carenza della situazione da ultimo descritta, il titolo
edilizio, volto alla realizzazione o al consolidamento dello
stato realizzativo di operazioni (incidenti su parti non
rientranti nell’esclusiva disponibilità del richiedente) non
potrà essere né richiesto –non avendo il soggetto titolo per
proporre tale istanza– né, ovviamente, rilasciato -non
sussistendo i presupposti per l’emissione dello stesso- in
modo legittimo dalla P.A. (Cons. Stato Sez. VI, 10.10.2006
n. 6017; Cons. Stato Sez. V, 24.09.2003 n. 5445; Cons. Stato
Sez. V, 05.06.1991 n. 883).
Ebbene, nel caso all’esame del Collegio, come rilevato da
ambo le parti private del giudizio, la sig.ra Va.Pa.
-comproprietaria dell’immobile di via Antica Romana n. 76-
si era da sempre e in più occasioni esplicitamente opposta a
qualsiasi forma di intervento sull’immobile di comproprietà
con la MI. s.a.s., tanto da rendere necessario procedere a
un accordo transattivo con la stessa, al fine di consentire
e non ostacolare la realizzazione di quelle opere di
recupero, risanamento e consolidamento resesi necessarie
dopo il periodo di incuria e abbandono cui l’edificio era
stata lasciato per molti anni.
Il citato accordo di transazione, tuttavia, poteva
comportare una presunzione di accettazione da parte
dell’odierna appellante all’espletamento delle opere
descritte nel capitolato allegato allo stesso accordo, ma di
certo non anche delle ulteriori operazioni realizzate in
carenza di titolo abilitativo.
A ciò si aggiunga che in altre occasioni, come affermato e
comprovato dalla sig.ra Va.Pa. e non smentito dalle
controparti, la stessa aveva manifestato al Comune di
Lavagna il proprio interesse al rigetto della domanda di
sanatoria proposta dalla MI. s.a.s.
Ne deriva che, in un tale contesto, l’Amministrazione non
aveva base alcuna per presumere che, al momento della
presentazione dell’istanza di sanatoria, potesse sussistere
quel pactum fiduciae di cui si è già detto e in
assenza del quale la domanda di provvedimento doveva essere
rigettata per carenza di titolarità da parte dell’istante
alla richiesta del titolo abilitativo in sanatoria.
Sotto questo profilo, in effetti, il provvedimento oggetto
di ricorso e di odierno appello, risulta illegittimamente
emesso dal Comune di Lavagna in carenza dei presupposti di
legge, con conseguente fondatezza del motivo di appello
dedotto.
3. Da quanto sopra specificato, in definitiva, deriva
l’accoglimento del proposto appello e, per l’effetto, in
riforma della sentenza n. 1166/2006 del Tar per la Liguria,
l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria
rilasciata in favore della MI. s.a.s. da parte del Comune di
Lavagna in data 30.03.2001 (prat. ed. n. 1993/0259/06),
rimanendo d’altro canto impregiudicato il potere da parte
del Comune di riprovvedere, in caso di nuova istanza
congiunta presentata dai comproprietari dell’edificio di Via
... n. 76, alla luce delle regole urbanistico-edilizie
vigenti al momento della presentazione della nuova domanda
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.09.2016 n. 3823 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accoglimento della Ctu, il giudice non si
giustifica.
Il giudice non è obbligato a chiarire le sue motivazioni
sull'accoglimento della consulenza tecnica d'ufficio, né a
rispondere alle obiezioni sollevate.
Lo chiarisce la Corte di cassazione, nella sentenza
06.09.2016 n. 17644 in cui una donna, sofferente di
una gravissima obesità, chiedeva all'Inps un assegno di
invalidità.
Il legale della paziente, nel secondo motivo del
ricorso, ha lamentato le omesse motivazioni del giudice
sull'accoglimento della c.t.u., che certificava uno stato di
invalidità del 71% invece del 75% richiesto. La Corte di
cassazione ha chiarito la questione, secondo cui il giudice
può omettere di pubblicare le sue motivazioni
sull'accoglimento o meno della perizia.
«Il giudice non è
tenuto a esporre in modo specifico le ragioni del suo
convincimento», spiegano i porporati nella sentenza, «perché
l'accettazione del parere del consulente, delineando il
percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione
adeguata, non suscettibile di censure in sede di
legittimità».
I risultati dell'accertamento richiesto
includono nel suo nucleo, concettuale e logico, le
motivazioni del giudice, che quindi non ha bisogno neppure
di replicare a tutte le opposizioni sollevate dalle parti.
Gli Ermellini, infine, spiegano che «l'obbligo della
motivazione è assolto con l'indicazione della fonte
dell'apprezzamento espresso, senza la necessità di
confutare, dettagliatamente, le contrarie argomentazioni
della parte, che devono considerarsi implicitamente
disattese»
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).
---------------
MASSIMA
6. Neppure il secondo motivo è fondato.
Basta qui richiamare il principio consolidato secondo il
quale
il giudice del merito, qualora condivida i risultati della
consulenza tecnica d'ufficio, non è tenuto ad esporre in
modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che
la decisione di aderire alle risultanze della consulenza
implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle
parti, mentre l'accettazione del parere del consulente,
delineando il percorso logico della decisione, ne
costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di
censure in sede di legittimità
(Cass., 22.02.2006, n. 3881).
In tal caso l'obbligo della motivazione è assolto con
l'indicazione della fonte dell'apprezzamento espresso, senza
la necessità di confutare dettagliatamente le contrarie
argomentazioni della parte, che devono considerarsi
implicitamente disattese
(cfr. fra le tante, Cass. 09.03.2001, n. 3519). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Un militare può permettersi di fare politica.
L'Arma, invece, ne aveva vietato la militanza attiva. Il Tar
del Piemonte ha accolto il ricorso di un ex sottufficiale e
segretario di partito.
Anche un militare può buttarsi in politica.
L'ha stabilito, in settimana, il TAR Piemonte (Sez. I,
sentenza 05.09.2016 n. 1127), che ha
accolto il ricorso presentato da un maresciallo dei
carabinieri, Ca.Ca., ora in congedo, al quale, nel
2010, era stata vietata dall'Arma l'iscrizione al Partito
per gli operai della sicurezza e della difesa (Pds). Il
sottufficiale non era un militante qualunque, dato che ha
ricoperto la carica di segretario regionale del partito
prima di aderire alla Lega Nord.
Per il suo impegno politico, a Ca., originario di
Fossano (Cuneo), erano stati inflitti cinque giorni di
consegna di rigore per incompatibilità con l'adempimento dei
suoi doveri di sottufficiale. All'ex rappresentante
dell'Arma, inoltre, era stato comunicato «che, in caso
d'inottemperanza, sarebbe stato avviato il procedimento per
la diffida ministeriale ed eventuale successiva decadenza
dal servizio».
«Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente
in partiti per concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale». Così recita l'articolo
49 della Costituzione. Secondo l'Arma dei carabinieri, però,
«l'iscrizione e l'assunzione di carica sociale in seno a
partito politico costituisce comportamento suscettibile di
assumere rilievo sotto il profilo disciplinare», si legge in
una nota pubblicata da Repubblica Torino. «Le Forze armate
debbono, in ogni circostanza, mantenersi al di fuori delle
competizioni politiche».
Il maresciallo Ca., assistito da un avvocato con un
passato da ufficiale dell'Arma, Gi.Ca., ha impugnato
il procedimento a suo carico davanti al tribunale
amministrativo regionale del Piemonte. E i giudici gli hanno
dato ragione. «La questione oggetto del presente giudizio è
stata, da ultimo, approfondita da alcuni arresti
giurisprudenziali che, per fattispecie del tutto analoghe, e
in considerazione del complessivo quadro normativo
(costituzionale e legislativo) vigente, sono giunti alla
condivisibile conclusione di ritenere illegittimo il
divieto, per i militari, d'iscriversi in partiti politici e
di assumere nel loro ambito cariche direttive, alla luce di
un'interpretazione letterale e sistematica delle norme».
Per i giudici, «il legislatore non ha mai stabilito, per i
militari, un esplicito divieto d'iscrizione ai partiti
politici: ciò non ha fatto, espressamente, né nella legge n.
382 del 1978 (recante «Norme di principio sulla disciplina
militare»), né nel Regolamento di disciplina militare».
«Di conseguenza», si legge nella sentenza, «il ricorso
introduttivo dev'essere accolto e deve, per l'effetto,
disporsi l'annullamento dell'atto di ammonimento a recedere
dalla carica politica rivestita. Parimenti, risultando
fondata la censura di illegittimità derivata, e con
assorbimento delle ulteriori censure, vanno accolti anche i
motivi aggiunti, con conseguente annullamento della sanzione
disciplinare inflitta al ricorrente (pari a giorni cinque di
consegna di rigore)».
Secondo il Tar del Piemonte, quindi, l'articolo 49 della
Costituzione sull'associazione ai partiti vale per tutti i
cittadini italiani. Anche per quelli in anfibi e alta
uniforme
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2016). |
APPALTI:
Accorpare contratti non garantisce le pmi.
Consip censurato dal Tar Lazio.
Contrasta con la tutela delle piccole e medie imprese la
scelta di accorpare in 13 lotti una pluralità di appalti da
eseguire sul territorio nazionale.
È questo il principio
sotteso alla pronuncia del TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la
sentenza 30.08.2016 n. 9441 ha censurato la scelta
di Consip di suddividere il territorio nazionale in lotti di
dimensioni tali da richiedere un fatturato specifico per la
partecipazione in possesso solo degli operatori più
rilevanti del mercato (pari alla somma di quanto richiesto
per la partecipazione ai singoli lotti).
Ad avviso dei
giudici la scelta compiuta (13 lotti) viola il fondamentale
principio del favor partecipationis limitando in modo
irragionevole la facoltà di presentazione individuale delle
offerte e non garantendo in tal modo né l'esplicarsi di un
piena apertura del mercato alla concorrenza né i risparmi di
spesa potenzialmente derivanti da una più ampia gamma di
offerte relative ai singoli lotti.
Secondo il Tar, l'ambito territoriale ottimale, in
definitiva, dovrebbe consentire il funzionamento di un
mercato in cui la facoltà di presentare offerte in forma
singola sia concessa non solo ai player dello stesso, ma
anche, per quanto possibile, alle pmi al fine di incentivare
una concorrenza piena, con possibilità per ogni impresa di
incrementare le proprie qualificazioni e la propria
professionalità, e di trarre i potenziali benefici in
termini di qualità di servizi resi e di prezzi corrisposti.
Nella sentenza i giudici esprimono articolate considerazioni
sulla funzione della normativa in materia di appalti, anche
alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, chiarendo
ad esempio, che con il decreto 50/2016 risulta evidente che
la funzione proconcorrenziale delle regole di evidenza
pubblica ha assunto ancora maggiore rilievo ed è divenuta il
baricentro del sistema.
Per i giudici il principio del favor partecipationis «è stato scolpito a chiare lettere anche
nella disciplina legislativa» e le stazioni appaltanti
devono, ove possibile ed economicamente conveniente,
suddividere gli appalti in lotti funzionali, ma anche fare
in modo che i criteri di partecipazione alle gare siano tali
da non escludere le piccole e medie imprese (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).
---------------
MASSIMA
3. Il ricorso è fondato e va di conseguenza accolto
secondo quanto di seguito indicato.
3.1
Un contratto di appalto stipulato da una amministrazione
pubblica si distingue da un analogo contratto stipulato tra
soggetti privati sia per la rilevanza giuridica assunta dai
motivi che spingono la parte pubblica a contrarre sia e
soprattutto per le modalità di scelta del contraente.
La libertà di scelta del contraente costituisce uno dei
fondamentali pilastri dell’autonomia privata, per cui il
contraente privato, di norma, può scegliere
discrezionalmente con chi contrarre; la pubblica
amministrazione, invece, è tenuta a scegliere il proprio
contraente in esito ad una apposita procedura (rectius:
procedimento) ad evidenza pubblica.
Il corpus normativo di disciplina dell’evidenza
pubblica era originariamente costituito dalla legge di
contabilità di Stato, R.D. 18.11.1923, n. 2440, e dal suo
regolamento di attuazione, R.D. 23.05.1924, n. 827, ed era
finalizzato alla individuazione del “giusto”
contraente dell’amministrazione, vale a dire del contraente
in grado di offrire le migliori prestazioni e garanzie alle
condizioni più vantaggiose, per cui la ratio della
normativa sull’evidenza pubblica era volta esclusivamente al
controllo della spesa pubblica per il miglior utilizzo del
denaro della collettività (cd. concezione contabilistica).
A tale esigenza di tutela degli interessi pubblici si è
aggiunta, sotto la spinta dei principi e delle direttive
comunitarie, l’esigenza di tutela della libertà di
concorrenza e di non discriminazione tra le imprese.
Di talché,
la concorrenzialità nell’aggiudicazione,
che ha il suo elemento cardine nel principio di massima
partecipazione alla gara delle imprese in possesso dei
requisiti richiesti, in origine funzionale al solo interesse
finanziario dell’amministrazione, nel senso che la procedura
competitiva tra imprese era (ed è) ritenuta la modalità più
efficace per garantire la migliore spendita del denaro
pubblico,
è diventata un’espressione dell’ondata neoliberista degli
ultimi decenni dello scorso secolo, che ha portato le
autorità comunitarie a prendere in considerazione -ai fini
della tutela della concorrenza, che dovrebbe garantire
l’efficiente allocazione delle risorse sul mercato-
l’impatto concorrenziale prodotto dalle amministrazioni
pubbliche in qualità di committenti o di concedenti, per cui
ogni singola gara diviene uno specifico e temporaneo
micromercato nel quale le imprese di settore possono
confrontarsi.
La compresenza della duplice esigenza volta alla tutela
della concorrenza tra le imprese ed al buon uso del denaro
della collettività è stata chiaramente delineata dalla
giurisprudenza europea la quale, nel dichiarare che uno
degli obiettivi della normativa comunitaria in materia di
appalti pubblici è costituito dall’apertura alla concorrenza
nella misura più ampia possibile e che è nell’interesse del
diritto comunitario che venga garantita la più ampia
partecipazione possibile di offerenti ad una gara d’appalto,
ha aggiunto che siffatta apertura alla concorrenza è
prevista non soltanto con riguardo all’interesse comunitario
alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, ma
anche nell’interesse stesso dell’amministrazione
aggiudicatrice che disporrà così di un’ampia scelta circa
l’offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della
collettività pubblica interessata.
L’art. 2 del d.lgs. 163/2006, in tale ottica, oltre ad
indicare che l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori
pubblici, servizi e forniture ai sensi del “codice”
deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
tempestività e correttezza (principi ispirati alla tutela
della pubblica amministrazione per il controllo ed il
miglior utilizzo delle finanze pubbliche), ha specificato
che l’affidamento deve altresì rispettare i principi di
libera concorrenza, parità di trattamento, non
discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità
(principi ispirati alla tutela delle imprese concorrenti e
del corretto funzionamento del mercato).
Con il nuovo codice degli appalti pubblici e delle
concessioni (d.lgs. n. 50 del 2016), risulta evidente che la
funzione proconcorrenziale delle regole di evidenza pubblica
ha assunto ancora maggiore rilievo ed è divenuta il
baricentro del sistema.
L’art. 2 del nuovo codice, in particolare, sancisce che le
disposizioni ivi contenute sono adottate nell’esercizio
della competenza legislativa esclusiva statale in materia di
tutela della concorrenza, sicché è consequenziale ritenere
che i provvedimenti adottati in applicazione del codice dei
contratti ove non realizzino detta finalità violano le
regole stesse ed i principi di libera concorrenza.
La considerazione che il centro di gravità del settore degli
appalti pubblici è ormai costituito dalla necessità di
garantire il libero esplicarsi della concorrenza, peraltro,
non determina la regressione del coesistente interesse
pubblico alla scelta del miglior contraente al fine di
garantire il migliore utilizzo possibile delle risorse
finanziarie della collettività, interesse che -sebbene non
più indicato in modo espresso come nell’art. 2 d.lgs. n. 163
del 2006- è ontologicamente presente nel sistema ed è
comunque richiamato nel nuovo codice.
Le due “anime” della normativa sostanziale
dell’evidenza pubblica, in linea di massima, possono e
devono essere perseguite contemporaneamente, atteso che la
massima partecipazione alla gara è funzionale alla
realizzazione di entrambe le finalità.
Il principio del favor partecipationis, pertanto, è
stato scolpito a chiare lettere anche nella disciplina
legislativa.
L’art. 2-bis del d.lgs. n. 163 del 2016 stabilisce non solo
che, nel rispetto della disciplina comunitaria in materia di
appalti pubblici, al fine di favorire l’accesso delle
piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti devono, ove
possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli
appalti in lotti funzionali, ma anche che i criteri di
partecipazione alle gare devono essere tali da non escludere
le piccole e medie imprese; l’art. 83, comma 2, d.lgs. n. 50
del 2016 stabilisce altresì che i requisiti e le capacità
per partecipare alle gare sono attinenti e proporzionati
all’oggetto dell’appalto, tenendo presente l’interesse
pubblico ad avere il più alto numero di partecipanti, nel
rispetto dei principi di trasparenza e rotazione.
Tale fondamentale principio riguarda a maggior ragione le
centrali di committenza considerata l’elevata incidenza che
gli appalti dalla stessa affidati, per il loro valore e per
l’estensione delle amministrazioni che se ne avvalgono, sono
destinati ad avere sui relativi mercati. |
PUBBLICO IMPIEGO:
La graduatoria non blocca la mobilità volontaria.
Le pubbliche amministrazioni possono avviare procedure di
mobilità volontaria anche se hanno graduatorie valide cui
attingere.
È quanto affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, nella recente
sentenza
23.08.2016 n. 3677. L'indicazione è importante perché
ribalta un consolidato orientamento della stessa
giurisprudenza amministrativa.
Quest'ultima, infatti, ha finora affermato che lo
scorrimento della graduatoria prevale sulla mobilità. Al
riguardo, è sufficiente richiamare la sentenza n. 4329/2015
di Palazzo Spada, confermata di recente anche in primo grado
(Tar Puglia, sentenza n. 30/2016).
Quest'ultima pronuncia,
fra l'altro, era scattata a seguito del ricorso di un
soggetto utilmente posizionato in una graduatoria aperta e
che era stato superato da un bando di mobilità riservato ai
lavoratori provinciali in esubero. In questa prospettiva,
fra i due percorsi era da privilegiare l'attingimento dalla
graduatoria in essere, perché (a differenza della mobilità,
che comporta degli oneri amministrativi) è del tutto a costo
zero.
Secondo l'ultimo arresto, invece, «l'esistenza di una
graduatoria ancora valida limita quando non esclude
l'indizione di un nuovo concorso, nondimeno non incide sulla
potestà di avviare una procedura di mobilità: la mobilità è
infatti alternativa all'assunzione di personale nuovo
rispetto al concorso o allo scorrimento delle relative
graduatorie; con la mobilità il personale non viene assunto,
ma solamente trasferito con il consenso della
amministrazione di appartenenza, che esercita una
valutazione circa la necessità di mantenere presso di sé
determinati soggetti».
Del resto, evidenziano i giudici, le leggi che hanno
bloccato le nuove assunzioni fin dagli anni 90, non hanno
impedito le procedure di mobilità. Ciò rafforza la
neutralità delle procedure di mobilità, che secondo la Corte
dei conti sfuggono anche ai limiti al turnover, non essendo
configurabili come nuove assunzioni purché riguardino
amministrazioni tutte soggette a vincoli di spesa (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).
---------------
MASSIMA
5. Il primo motivo di appello è infondato.
5.1. La Sezione ha avuto modo di pronunciarsi recentemente
su identica questione con la sentenza n. 2929 del
28.06.2016, puntualizzando in punto giurisdizione che
l'istituto del cosiddetto "scorrimento della graduatoria"
presuppone necessariamente una decisione
dell'amministrazione di coprire il posto; quindi l'obbligo
di servirsi della graduatoria entro il termine di efficacia
della stessa preclude all'amministrazione di bandire una
nuova procedura concorsuale ove decida di reclutare
personale, ma non la obbliga tout court
all'assunzione dei candidati non vincitori in relazione a
posti che si rendano vacanti e che l'amministrazione stessa
non intenda coprire, restando inoltre escluso che la volontà
dell'amministrazione di coprire il posto possa desumersi da
un nuovo bando concorsuale, poi annullato, ovvero da
assunzioni di personale a termine
(v. Cass., SS.UU., 12.11.2012, n. 19595).
In definitiva,
allorquando la controversia ha per oggetto il controllo
giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale
operata dell'amministrazione, la situazione giuridica
dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli
interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice
cui spetta il controllo del potere amministrativo ai sensi
dell'art. 103 Cost., poiché in tale ipotesi, la controversia
non riguarda il "diritto all'assunzione".
5.2. Correttamente i primi giudici hanno pertanto
correttamente declinato la giurisdizione quanto alla
richiesta di scorrimento della graduatoria ai fini
dell’assunzione ed altrettanto correttamente hanno ritenuto
la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione
alla controversia concernente la legittimità degli atti di
natura organizzatoria con cui è stato individuato il posto
vacante di agente di polizia municipale ed è stato disposto
di coprirlo mediante la procedura di mobilità esterna.
6. E’ invece fondato il secondo motivo di gravame.
6.1. Invero
la fondamentale esigenza di contenimento della spesa
pubblica osta a che possa ritenersi superato il primato
dell’art. 30, comma 1, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, il quale
recita: “Le amministrazioni possono ricoprire posti
vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti
di cui all’articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica
corrispondente in servizio presso altre amministrazioni, che
facciano domanda di trasferimento, previo assenso
dell’amministrazione di appartenenza (…)”.
Tale modalità di assunzione del personale costituisce una
ipotesi normale di reclutamento dei pubblici dipendenti,
come precisato dalla Corte costituzionale con la sentenza
30.07.2012, n. 211 che, in occasione dello scrutinio di
legittimità dell’art. 13 della legge della Regione
Basilicata 04.08.2011, n. 17, ha ritenuto che la predetta
disciplina regionale prescriveva correttamente il ricorso
obbligatorio alle procedure di mobilità dell’art. 30, comma
1, del d.lgs. n. 165 del 2001, prima di procedere
all’utilizzazione delle graduatorie degli altri concorsi
precedentemente espletati, oppure, in mancanza, di indirne
di nuovi.
6.2. In realtà
l’esistenza di una graduatoria ancora valida limita quando
non esclude l’indizione di un nuovo concorso, nondimeno non
incide sulla potestà di avviare una procedura di mobilità:
la mobilità è infatti alternativa all’assunzione di
personale nuovo rispetto al concorso o allo scorrimento
delle relative graduatorie; con la mobilità il personale non
viene assunto, ma solamente trasferito con il consenso della
amministrazione di appartenenza, che esercita una
valutazione circa la necessità di mantenere presso di sé
determinati soggetti. Del resto, le leggi che hanno bloccato
le nuove assunzioni fin dagli anni ‘90, non hanno impedito
le procedure di mobilità
(cfr. per tutto Cons. Stato, Ad. plen., 28.07.2011, n. 14).
7. Alla stregua delle predette osservazioni l’appello deve
essere in parte accolto e, per l’effetto, in parziale
riforma della sentenza, ferma restando la declaratoria di
difetto di giurisdizione quanto alla domanda di assunzione
per scorrimento della graduatoria, deve essere respinto il
ricorso per la parte concernente l’impugnazione dell’avviso
di mobilità. |
TRIBUTI:
Una sanzione ogni anno per l'omessa dichiarazione
Imu.
La violazione dell'obbligo di dichiarazione Ici e Imu non ha
natura istantanea ma si ripete nel corso degli anni, fino a
che il contribuente non provvede a regolarizzarla
presentando la denuncia al comune. Dunque, finché perdura
l'inadempimento il contribuente è soggetto al pagamento
della sanzione per ogni singola annualità. Il fatto che vi
sia per gli immobili posseduti un unico obbligo di
presentare la dichiarazione, non comporta che anche la
sanzione debba essere irrogata solo una volta. La sanzione
va applicata per ogni singola annualità e può essere
arrestata la catena delle violazioni con l'adempimento
dell'obbligo previsto dalla legge.
Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
05.08.2016 n. 16484.
Per i giudici di legittimità l'obbligo posto dalla norma di
legge (articolo 10 decreto legislativo 504/1992) di
dichiarare il possesso e il valore degli immobili incidente
sulla determinazione dell'Ici, o dell'Imu poiché la regola è
la stessa, «non cessa allo scadere del termine fissato dal
legislatore con riferimento all'inizio del possesso ma
permane finché la dichiarazione (o la denuncia di
variazione) non sia presentata, e l'inosservanza determina,
per ciascun anno di imposta, un'autonoma violazione
punibile». Del resto, «la violazione dell'obbligo di
denuncia non ha natura istantanea e non si esaurisce con la
mera violazione del primo termine».
Pertanto, precisa la Cassazione, se la dichiarazione non
viene presentata per un anno d'imposta, l'obbligo non viene
meno per le annualità successive, «sicché la sanzione può
essere evitata solo con la presentazione di una denuncia
valida anche ai fini della annualità considerata».
La Cassazione ha già avuto modo di chiarire che una volta
presentata la dichiarazione Ici e Imu non ci sono più
obblighi successivi, fino a che non intervengano variazioni
dei dati comunicati all'ente impositore. La dichiarazione
per le imposte locali è stata qualificata ultrattiva, vale a
dire produce effetti anche per le annualità successive se il
contribuente non presenta una denuncia di variazione.
Questo
criterio vale anche per il valore di mercato delle aree
edificabili dichiarato, che potrebbe subire delle variazioni
nel corso del tempo. La violazione dell'omessa
dichiarazione, invece, si ripete per ogni anno d'imposta pur
essendo unico l'obbligo imposto al contribuente. Ma
l'obbligo è unico nel momento in cui viene assolto. In caso
contrario si riproduce annualmente l'inadempimento. E se
l'omissione riguarda diverse annualità è irrogabile una
sanzione per ogni anno. La catena delle violazioni si blocca
solo quando l'interessato si decide a comunicare
all'amministrazione comunale i dati degli immobili posseduti
e il relativo valore.
Obbligati e esonerati.
Va però evidenziato che non tutti i
contribuenti sono obbligati a denunciare per l'Imu gli
immobili di cui sono titolari, così come non lo erano ai
tempi di vigenza dell'Ici. Non sono infatti tenuti a
presentare la dichiarazione Imu i possessori di immobili
adibiti a abitazione principale, con relative pertinenze, e
coloro che hanno già presentato la dichiarazione Ici.
I contribuenti che invece hanno ceduto o acquistato immobili
o la titolarità di altri diritti reali a partire dal 2012
devono inoltrare la dichiarazione al comune, a meno che gli
elementi rilevanti ai fini dell'imposta non siano
acquisibili attraverso la consultazione della banca dati
catastale o gli enti non siano già in possesso delle
informazioni necessarie per verificare il corretto
adempimento dell'obbligazione tributaria. Vanno denunciate,
per esempio, le riduzioni d'imposta sia se si acquista sia
se si perde il relativo diritto.
In generale, l'obbligo deve essere assolto da coloro che
vantino il diritto a fruire di agevolazioni. Quindi, sono
tenuti all'adempimento i titolari di fabbricati inagibili o
inabitabili e di fatto non utilizzati, coloro che possiedono
immobili di interesse storico o artistico e via dicendo (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla
cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche i
ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione
in materia di acque pubbliche.
Ebbene, qualora il provvedimento dell’amministrazione sia
motivato in base alla dislocazione dell’immobile oggetto di
sanatoria a distanza inferiore da quella minima dall’argine
o dalla sponda di un fiume, rileva una situazione incidente
in maniere diretta e immediata sulla regolamentazione delle
acque pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul
regolare regime delle stesse, il che implica la
giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche,
atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo
apprestata dall’ordinamento.
Ed invero, più in generale, secondo la giurisprudenza
costante della Cassazione e del Consiglio di Stato: “L’art.
143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, in tema di giurisdizione
del TSAP, si attaglia a tutti i provvedimenti amministrativi
che, pur costituendo esercizio di un potere non prettamente
attinente alla materia, riguardino comunque l’utilizzazione
del demanio idrico, incidendo in maniera diretta ed
immediata sul regime delle acque pubbliche, restando escluse
solo le controversie in cui tale incidenza si manifesti in
via del tutto marginale o riflessa”.
---------------
...
per l'annullamento
quanto al ricorso n. 3880 del 1997:
del provvedimento del Comune di Chiampo n. rep. 5897/86 prat. edilizia n. 96C/0554/MA prot. n. 22669 emesso in data
13.10.1997 e notificato in data 17.10.1997 con il quale
si comunicava il diniego della richiesta di concessione
edilizia in sanatoria ai sensi l. n. 45/1985.
...
Ritiene il Collegio che le controversie in esame -che
possono essere riunite per evidenti ragioni di connessione-
rientrino nella speciale giurisdizione del TSAP.
Ed infatti, l’elemento che il Comune ha ritenuto ostativo
alla regolarizzazione dell’opera abusiva è la presenza di un
corso d’acqua pubblico, come tale rientrante nell’ambito di
applicazione del R.D. n. 523/1904.
E’ altresì pacifico che tale diniego di condono è stato
emesso esclusivamente sulla base del parere negativo
vincolante espresso dall’Ufficio dl Genio Civile della
Regione Veneto, parere congiuntamente impugnato e reso, ai
sensi del R.D. n. 523/1904, da un’autorità amministrativa
preposta alla tutela del buon regime delle acque pubbliche.
Con la conseguenza che entrambi i provvedimenti impugnati
con il ricorso n. 3880/1997, nonché il conseguente ordine di
demolizione impugnato con ricorso n. 3336/1998, sono
giustificati in base alla dislocazione dell’intervento di
nuova costruzione in esame a distanza inferiore a dieci
metri lineari dall'argine del corso d’acqua “Valle S. Martino”,
in violazione dell'art. 96, comma 1, lettera f), del R.D. n.
523 del 1904, così palesando la diretta incidenza dell’opera
sul regime delle acque pubbliche.
Ciò precisato, occorre considerare che, ai sensi
dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla
cognizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche i
ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione
in materia di acque pubbliche.
Ebbene, qualora il provvedimento dell’amministrazione sia
motivato, come nel caso di specie, in base alla dislocazione
dell’immobile oggetto di sanatoria a distanza inferiore da
quella minima dall’argine o dalla sponda di un fiume, rileva
una situazione incidente in maniere diretta e immediata
sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con
conseguente diretta interferenza sul regolare regime delle
stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale
Superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere
inderogabile della tutela all’uopo apprestata
dall’ordinamento (Cass., S.U., 12.05.2009, n. 10845;
TAR Veneto Venezia Sez. II, 26.01.2015, n. 63; 09.10.2014, n. 1289 e 09.07.2014, n. 993; TAR Toscana, III, 27.03.2013, n. 510; TAR Campania, Napoli, VIII,
07.12.2009, n. 8602).
Ed invero, più in generale, secondo la giurisprudenza
costante della Cassazione e del Consiglio di Stato: “L’art.
143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, in tema di
giurisdizione del TSAP, si attaglia a tutti i provvedimenti
amministrativi che, pur costituendo esercizio di un potere
non prettamente attinente alla materia, riguardino comunque
l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera
diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche,
restando escluse solo le controversie in cui tale incidenza
si manifesti in via del tutto marginale o riflessa” (cfr.
Cass., SS. UU., 27.04.2005, n. 8696, che richiama SS. UU. 18.12.1998, n. 12076, e 15.07.1999, n. 403;
Cons. St., V, 14.05.2004, n. 3139).
Affermata quindi la giurisdizione del TSAP in entrambi i
ricorsi qui riuniti, per il principio della "translatio
iudicii" sono salvi gli effetti sostanziali e processuali
della domanda se il giudizio è riassunto davanti al giudice
indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione entro
il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato
di detta pronuncia
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 08.03.2016 n. 257 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Appartiene
alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque
pubbliche, prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933 n. 1775,
la cognizione sui provvedimenti che, pur se promananti da
autorità diverse da quelle specificamente preposte alla
tutela delle acque, incidono direttamente sul regolare
regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere
inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica
di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei
fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
---------------
Il ricorso in esame, trasposto a seguito di opposizione al
ricorso straordinario da parte del resistente Comune di
Pisa, viene proposto dai signori Ca., i quali chiedono
l’annullamento del diniego di sanatoria di cui al
provvedimento dirigenziale n. 502 del 16.06.1999.
Il Comune di Pisa ha eccepito l’inammissibilità del ricorso
per genericità delle censure e ne ha chiesto comunque la
reiezione per infondatezza.
Alla pubblica udienza del 12.01.2016 la causa venne
rinviata per consentire alle parti di esplicare le proprie
difese sulla questione di giurisdizione, sulla quale
d’ufficio il Collegio si è interrogato.
Con memoria depositata il 19.01.2016 i ricorrenti hanno
sostenuto essi stessi che la giurisdizione in materia
appartiene al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche.
il provvedimento impugnato è motivato con riguardo al
vincolo, gravante sull’area in cui ricade l’immobile oggetto
dell’istanza di sanatoria, ai sensi del r.d. n. 523/1904,
art. 2, commi 1 e 2.
Le disposizioni su menzionate prevedono il potere
dell’amministrazione di regolare e vigilare sul buon regime
delle acque pubbliche e, per quanto qui rileva, «sulle
condizioni di regolarità dei ripari ed argini od altra opera
qualunque fatta entro gli alvei e contro le sponde. »
Nel caso in esame, nel 1981 è stato realizzato un manufatto
con destinazione abitativa, interamente in legno con
struttura portante in ferro, copertura in lastre ondulate in
fibrocemento e infissi in alluminio anodizzato e vetro,
delle dimensioni di m 8,10 x 6 e altezza di m 2,90, situato
in golena del fiume Arno sulla sponda sinistra.
Il competente Ministero dei Lavori pubblici – Provveditorato
regionale alle Opere pubbliche per la Toscana (Ufficio
territoriale di Pisa), cui la pratica di sanatoria avviata
con istanza del 01.04.1987, è stata sottoposta –ai
sensi dell’art. 32, comma primo, l. n. 47/1985– ha espresso
parere contrario al mantenimento delle opere di cui
trattasi, in quanto esse ricadono in un tratto di fiume
fortemente antropizzato e incidono negativamente sul
recupero delle golene ai fini cui le stesse sono destinate.
Orbene, il fiume Arno è un corso d’acqua pubblico e come
tale rientra nell’ambito di applicazione del r.d. n.
1775/1933 e del r.d. n. 523/1904.
Ai sensi dell’art. 143 del r.d. n. 1775/1933, appartengono
alla cognizione del Tribunale Superiore delle Acque
pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi
dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Non vi è dubbio che l’edificazione oggetto della
controversia (e il diniego di sanatoria di essa) incidano in
modo immediato e diretto sulla regolamentazione delle acque
pubbliche, con conseguente diretta interferenza sul regolare
regime delle stesse; ne consegue l’appartenenza della
giurisdizione al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che «Appartiene alla
giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche,
prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933 n. 1775, la
cognizione sui provvedimenti che, pur se promananti da
autorità diverse da quelle specificamente preposte alla
tutela delle acque, incidono direttamente sul regolare
regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere
inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica
di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei
fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici» (TAR Lombardia–Milano, III, n. 2078/2011; TAR Sicilia-Catania, III,
06.07.2012, n. 1722; TAR Toscana, II, n. 1241/2015; Cass.
SS.UU., ord. n. 13692/2006; Cass. SS.UU., 12.05.2009 n.
10845).
Pertanto, il ricorso in epigrafe deve essere dichiarato
inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, appartenendo essa al TSAP ai sensi dell’art.
143, comma primo, lett. a, r.d. 11.12.1933 n. 1775. Ai
sensi dell’art. 11 c.p.a., il processo potrà essere
riassunto dinanzi al competente TSAP nei termini precisati
dal comma secondo di detta norma
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 24.02.2016 n. 317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
parziale tombatura del fosso non incide sul divieto assoluto
di edificare nella fascia di rispetto.
Invero, il divieto di costruzione a una certa distanza dagli
argini dei corsi d'acqua demaniali –c.d. fascia di servitù
idraulica– ha carattere assoluto ed inderogabile, sicché
nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto
con tale divieto trova applicazione l'art. 33 della legge
28.02.1985, n. 47 sul condono edilizio, senza che rilevi la
tombatura del corso d’acqua.
Infatti il divieto non è posto soltanto a tutela dello
sfruttamento delle acque e del loro libero deflusso, bensì
anche alla necessità di consentire uno spazio di manovra per
lo svolgimento di attività manutentive.
---------------
3. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano
la violazione del r.d. n. 523/1904 e dell’art. 1, comma
primo, della l.r. n. 21/2012, sostenendo che il Comune di
Carrara non avrebbe svolto un’adeguata istruttoria e che il
richiamo alla disciplina predetta sarebbe inconferente,
atteso che il tratto del fosso di Casalina interessato dagli
abusi oggetto di controversia sarebbe tombato e intubato a
seguito di regolare autorizzazione idraulica.
Va rilevato che è lecito dubitare della giurisdizione del
giudice amministrativo su questo particolare aspetto della
controversia, per la stretta attinenza della questione della
distanza delle opere realizzate da un corso d’acqua pubblica
e quindi con il regime delle acque pubbliche (cfr.: TAR
Toscana, III, n. 1004/2015; si veda anche Cass. civ., SS.UU.,
n. 10845/2009).
In ogni caso, anche a prescindere dall’inammissibilità della
questione in questa sede giurisdizionale, è agevole
osservare che la parziale tombatura del fosso di Casalina
non incide sul divieto assoluto di edificare nella fascia di
rispetto (si veda la decisione del TSAP n. 246/2014, in cui
si afferma che il divieto di costruzione a una certa
distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali –c.d.
fascia di servitù idraulica– ha carattere assoluto ed
inderogabile, sicché nell'ipotesi di costruzione abusiva
realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione
l'art. 33 della legge 28.02.1985, n. 47 sul condono
edilizio, senza che rilevi la tombatura del corso d’acqua;
infatti il divieto non è posto soltanto a tutela dello
sfruttamento delle acque e del loro libero deflusso, bensì
anche alla necessità di consentire uno spazio di manovra per
lo svolgimento di attività manutentive)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.11.2015 n. 1555 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La quota del terreno è stata innalzata di almeno
2 m ed è stato anche realizzato un muro di contenimento in
cemento armato della lunghezza di 70 mt.
L’entità delle opere non consente quindi di definire le
stesse come modesto livellamento del terreno in pendenza. La
giurisprudenza in casi analoghi ha ritenuto che si trattasse
di nuova costruzione con conseguente soggezione alle
distanze legali (nella fattispecie di mt. 5,00 dal confine).
---------------
4. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti contestano la
parte della motivazione del diniego impugnato che attiene
alla distanza del terrapieno dal confine, sostenendo che non
ha senso parlare di confine tra la terra e il muro.
Tuttavia, a prescindere dalla non troppo chiara formulazione
dell’enunciato motivazionale di cui trattasi, è evidente che
il senso dell’espressione usata (“mancanza di distanza dal
confine del terrapieno con il relativo muro di terrapieno”)
è che sia il terrapieno sia il relativo muro di contenimento
non rispettano la distanza legale dal confine della
proprietà.
Orbene, come già si è detto la quota del terreno è stata
innalzata di almeno 2 m ed è stato anche realizzato un muro
di contenimento in cemento armato della lunghezza di 70 m.
L’entità delle opere non consente quindi di definire le
stesse come modesto livellamento del terreno in pendenza.
La
giurisprudenza in casi analoghi ha ritenuto che si trattasse
di nuova costruzione (cfr.: TAR Marche, I, n. 579/2015,
motivata anche con riferimento all’impatto tutt’altro che
lieve del manufatto realizzato), con conseguente soggezione
alle distanze legali (Cass. civ., II, n. 12578/2015, con
ampio ragguaglio di giurisprudenza).
In applicazione dei su esposti principi alla fattispecie
controversa, il Collegio ritiene le opere realizzate
abusivamente dai signori Co. e To. soggette alla
distanza regolamentare di 5 metri dal confine (allegato D,
punto D3, comma primo, lettera a) del Regolamento Edilizio
del Comune di Carrara).
In conclusione il ricorso in esame va respinto
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.11.2015 n. 1555 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Unico
rimedio a disposizione del Comune per sanzionare una
costruzione non conforme alle prescrizioni urbanistiche, ma
pur sempre realizzata in forza di un titolo abilitativo
edilizio, ancorché illegittimo, è l’annullamento del titolo
medesimo, e non già l’emanazione dell’ordinanza di
demolizione, che avrebbe potuto essere adottata soltanto per
opere edilizie eseguite in difformità dal permesso di
costruire.
---------------
È illegittimo e deve essere annullato il provvedimento
regionale con il quale –sulla base di un verbale di
accertamento il quale attesta in modo assolutamente
generico, l’esistenza di un manufatto e di una parte
indeterminata di recinzione a distanza non regolamentare da
un corso d’acqua– è ordinato, al Comune titolare della
realizzazione, la demolizione delle opere ed il ripristino
del tratto demaniale che si assume violato, senza alcuna
ulteriore istruttoria, intesa a definire in termini puntuali
l’entità dell’infrazione.
---------------
Osserva il Tribunale che in vista dell’odierna udienza
pubblica, nessun elemento di valutazione è stato portato
all’attenzione del Collegio, ulteriore rispetto a quelli,
tenuti presenti in sede di valutazione dell’istanza
cautelare; ne deriva che vanno integralmente confermate le
considerazioni, espresse nella prefata ordinanza cautelare,
non fatte segno di alcuna controdeduzione, le quali non
possono non condurre all’annullamento dell’ordinanza di
demolizione gravata, senza che si ravvisi l’opportunità di
disporre la c.t.u. richiesta, in subordine, da parte
ricorrente.
Ciò in quanto carattere dirimente assumono, nella specie, le
incontestate circostanze dell’allegazione dei titoli
abilitativi edilizi, in base ai quali le opere asseritamente
abusive sono state realizzate, titoli non fatti segno di
alcun provvedimento d’annullamento, in autotutela, da parte
del Comune intimato, stando a quanto dedotto in ricorso
(cfr. in giurisprudenza, la massima che segue: “Unico
rimedio a disposizione del Comune per sanzionare una
costruzione non conforme alle prescrizioni urbanistiche, ma
pur sempre realizzata in forza di un titolo abilitativo
edilizio, ancorché illegittimo, è l’annullamento del titolo
medesimo, e non già l’emanazione dell’ordinanza di
demolizione, che avrebbe potuto essere adottata soltanto per
opere edilizie eseguite in difformità dal permesso di
costruire” – TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 08/10/2009,
n. 5199); e dell’inidoneità della relazione topografica di
parte, a fondare l’accertamento dell’evidenziata violazione
della fascia di rispetto delle vasche de quibus, dal
piede dell’argine del Vallone Malnome, in assenza di
autonomo approfondimento istruttorio, da parte del Comune di
Roccadaspide, al riguardo (in giurisprudenza, cfr., per
l’espressione di un principio analogo, la decisione
seguente: “È illegittimo e deve essere annullato il
provvedimento regionale con il quale –sulla base di un
verbale di accertamento il quale attesta in modo
assolutamente generico, l’esistenza di un manufatto e di una
parte indeterminata di recinzione a distanza non
regolamentare da un corso d’acqua– è ordinato, al Comune
titolare della realizzazione, la demolizione delle opere ed
il ripristino del tratto demaniale che si assume violato,
senza alcuna ulteriore istruttoria, intesa a definire in
termini puntuali l’entità dell’infrazione” – Tribunale
Sup. Acque, 23/06/2000, n. 96).
All’accoglimento del ricorso segue l’annullamento del
provvedimento impugnato, fatto salvo ovviamente l’eventuale
riesercizio del relativo potere da parte del Comune di
Roccadaspide, ma previo annullamento dei titoli abilitativi
già rilasciati e previa l’effettuazione di un rigoroso
accertamento, circa la violazione della fascia di rispetto
di cui sopra, e la condanna dell’ente al pagamento, in
favore della ricorrente, delle spese di lite, liquidate come
in dispositivo, oltre che alla restituzione, in favore della
medesima, del contributo unificato versato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.09.2015 n. 2005 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'insegnamento di questa Corte è nel senso che il muro di
sostegno di un terrapieno, in quanto
costituente vera e propria costruzione, è da considerare
alla stregua di un muro di fabbrica ai
fini delle distanze legali.
Invero, in tema di distanze legali:
- rientrano
nel concetto di "costruzione", agli
effetti dell'art. 873 c. c., il terrapieno ed i locali in
esso ricompresi, avendo il medesimo
terrapieno la funzione essenziale di stabilizzare il piano
di campagna posto a quote differenti
dal fondo confinante, mediante un manufatto eretto a
chiusura statica del terreno;
- il muro di sostegno di un
terrapieno, in quanto costituente
vera e propria costruzione ai fini delle distanze legali,
deve considerarsi come muro di
fabbrica e non come muro di cinta che, a norma dell'art. 878
c.c., è quello destinato alla protezione e delimitazione del
fondo con altezza non superiore a tre metri e con le due
facce
isolate.
---------------
Se le
n.t.a. del p.r.g. dispongono quanto segue:
"le distanze da confini di proprietà
possono essere diminuite a condizione che tra i confinanti
venga determinata una servitù di
inedificabilità sul terreno vicino con apposita convenzione
da trascriversi nei registri
immobiliari, in modo che la distanza minima tra fabbricati
prescritta dalle norme di zona sia
sempre rispettata",
è senz'altro possibile che si costruisca a
distanza dal confine inferiore a quella
prescritta, subordinatamente tuttavia ad una duplice
condizione.
Ovvero alla condizione per cui sia in ogni caso rispettata
la distanza minima tra i
fabbricati ed alla condizione per cui sia stata siglata dai
confinanti un'apposita convenzione —da trascriversi nei registri immobiliari— costitutiva
evidentemente di una servitù a carico del
fondo le cui eventuali sovrastanti costruzioni dovranno
essere posizionate a distanza dal
confine superiore a quella minima, sì che sia in ogni caso
garantita l'osservanza del distacco
minimo tra i fabbricati.
---------------
Secondo l'insegnamento di
questa Corte, non può
essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza
delle distanze legali, il muro che,
nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il
fondo, assolve anche alla funzione di
sostegno e contenimento del declivio naturale.
---------------
In
materia di distanze legali sussiste
un diritto soggettivo al rispetto delle stesse, che sorge
indipendentemente dalla possibilità di
costruire e sussiste senza riguardo all'effettiva esistenza
di un danno attuale e concreto.
Invero, le norme sulle
distanze sono rivolte alla tutela di interessi
pubblicistici, sicché non lasciano alcun margine di
valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti dalla loro
inosservanza, onde nessuna indagine
è ammissibile per accertare se il fondo del vicino sia o non
edificabile, sussistendo il diritto al
rispetto delle distanze indipendentemente dalla possibilità
di costruire e dall'esistenza di un
danno attuale e concreto).
E' fuor di dubbio, nondimeno, che la violazione delle distanze
legali nelle costruzioni integra una molestia al possesso
del fondo finitimo, contro la quale è
data l'azione di manutenzione, perché, anche quando non ne
comprime di fatto l'esercizio,
apporta automaticamente modificazione o restrizione delle
relative facoltà.
---------------
Con il primo motivo la ricorrente principale deduce
"violazione dell'art. 360 n. 3 e 5 per
erronea e falsa interpretazione dell'art. 26 delle N.T.A.
del Comune di Malcesine in relazione
all'art. 12 delle preleggi" (così ricorso principale, pag.
5).
Adduce che l'art. 26 delle n.t.a. del p.r.g. del comune di
Malcesine impone il rispetto della
distanza di 5 m. dal confine unicamente per i fabbricati,
termine con il quale "si intendono
solitamente solo gli edifici o quei manufatti agli stessi
riconducibili non certo i terrapieni"
(così ricorso principale, pag. 5); che la corte di merito
nemmeno ha "motivato tale sua
interpretazione contro il testo letterale della norma
essendosi limitata a dire che tale distanza è
pacificamente prescritta dalla disposizione in esame" (così
ricorso principale, pag. 5); che ciò
tanto più che la corte veneziana ha ordinato "l'arretramento
del <parapetto>, opera mai
costruita dalla ricorrente ed attinente ad un'ipotetica
servitù di veduta la cui domanda è stata
ritenuta tardiva" (così ricorso principale, pag. 6).
Con il secondo motivo la ricorrente principale deduce
"violazione dell'art. 360 n. 3 e 5
per erronea e falsa applicazione dell'art. 26 delle N.T.A.
del Comune di Malcesine in
relazione agli artt. 873 e 1170 c.c." (così ricorso
principale, pag. 6).
Adduce che "l'errata interpretazione della norma non può che
portare alla falsa
applicazione della stessa attesa la diversa fattispecie
oggetto di causa rispetto a quella regolata
dalla norma tecnica" (così ricorso principale, pag. 6); che
invero "le opere per cui è causa,
(...) non essendo fabbricati, non possono ritenersi soggette
alla distanza dal confine né in
forza del citato art. 26 delle N.T.A. né in forza
dell'articolo 873 c.c." (così ricorso principale,
pag. 6); che "la mancanza di una distanza dal confine da
applicare, esclude ex se la
sussistenza della lesione possessoria" (così ricorso
principale, pag. 7).
Il primo ed il secondo motivo sono strettamente connessi.
Se ne giustifica, perciò, la disamina congiunta.
Ambedue i motivi, comunque, sono immeritevoli di seguito.
Si rileva esaustivamente -e contrariamente a quanto assume
la ricorrente- che l'insegnamento di questa Corte è nel senso che il muro di
sostegno di un terrapieno, in quanto
costituente vera e propria costruzione, è da considerare
alla stregua di un muro di fabbrica ai
fini delle distanze legali (cfr. Cass. 26.11.1987, n. 8787;
cfr. altresì Cass. 13.5.2013, n.
11388, secondo cui, in tema di distanze legali, rientrano
nel concetto di "costruzione", agli
effetti dell'art. 873 c. c., il terrapieno ed i locali in
esso ricompresi, avendo il medesimo
terrapieno la funzione essenziale di stabilizzare il piano
di campagna posto a quote differenti
dal fondo confinante, mediante un manufatto eretto a
chiusura statica del terreno; Cass.
15.06.2001, n. 8144, secondo cui il muro di sostegno di un
terrapieno, in quanto costituente
vera e propria costruzione ai fini delle distanze legali,
deve considerarsi come muro di
fabbrica e non come muro di cinta che, a norma dell'art. 878
c.c., è quello destinato alla protezione e delimitazione del
fondo con altezza non superiore a tre metri e con le due
facce
isolate).
Con il terzo motivo la ricorrente principale deduce
"violazione dell'art. 360 n. 3 e 5 e
falsa applicazione dell'art. 873 c.c. e per errata
interpretazione delle N.T.A. vigenti nel
Comune (art. 26) in relazione all'art. 1170 c.c." (così
ricorso principale, pag. 7).
Adduce che le n.t.a. consentono la costruzione in deroga
alla distanza dal confine che al
contempo prescrivono, sicché "l'unica distanza ritenuta
inderogabile dallo strumento
urbanistico locale è quella fra fabbricati e non dal
confine" (così ricorso principale, pag. 7);
che al contempo "sul fondo Romani (...) non esisteva e non
esiste alcuna costruzione che
potesse e possa impedire (...) la costruzione in confine"
(così ricorso principale, pag. 7); che
"la costruzione Ca., in ogni caso, sconta (...) il
diritto del preveniente, regolato
dall'art. 873 c.c." (così ricorso principale, pag. 7).
Con il quarto motivo la ricorrente principale deduce
"violazione dell'art. 360 n. 3-5 per
omessa applicazione degli artt. 877 e 873 c.c. in relazione
all'art. 1170 c.c." (così ricorso
principale, pag. 8).
Adduce che la corte territoriale non ha considerato che la
nuova costruzione è stata
realizzata sul confine "in aderenza ad opera preesistente"
(così ricorso principale, pag. 8)
ovvero in aderenza al "muro di confine che sorregge il fondo
superiore" (così ricorso
principale, pag. 8), "il tutto come prescrive l'art. 873
c.c. e come l'art. 877 consente in ogni
momento" (così ricorso principale, pag. 8); che, "a fronte
di tale possibilità la natura
artificiale del terrapieno (...), appare irrilevante viste
le norme citate" (così ricorso principale,
pag. 8).
Il terzo ed il quarto motivo del pari sono strettamente
correlati.
Il che analogamente ne suggerisce l'esame contestuale.
Entrambi i motivi, in ogni caso, non sono meritevoli di
seguito.
Segnatamente, in relazione al terzo motivo, è sufficiente il
riferimento —siccome prospetta
la controricorrente (cfr. controricorso, pag. 10)— al
testuale dettato dell'art. 26, 3° co., delle
n.t.a. del p.r.g. del comune di Malcesine, alla cui stregua
"le distanze da confini di proprietà
possono essere diminuite a condizione che tra i confinanti
venga determinata una servitù di
inedificabilità sul terreno vicino con apposita convenzione
da trascriversi nei registri
immobiliari, in modo che la distanza minima tra fabbricati
prescritta dalle norme di zona sia
sempre rispettata".
E' senz'altro possibile, quindi, che si costruisca a
distanza dal confine inferiore a quella
prescritta, subordinatamente tuttavia ad una duplice
condizione.
Ovvero alla condizione per cui sia in ogni caso rispettata
la distanza minima tra i
fabbricati ed alla condizione per cui sia stata siglata dai
confinanti un'apposita convenzione —da trascriversi nei registri immobiliari— costitutiva
evidentemente di una servitù a carico del
fondo le cui eventuali sovrastanti costruzioni dovranno
essere posizionate a distanza dal
confine superiore a quella minima, sì che sia in ogni caso
garantita l'osservanza del distacco
minimo tra i fabbricati.
Orbene, siccome la controricorrente ha debitamente posto in
risalto, non si è acquisito
alcun riscontro della stipula dell'imprescindibile
convenzione.
Né, ulteriormente, vi è margine, al cospetto della
disciplina dettata dall'art. 26 cit.,
indiscutibilmente diretta ad assicurare comunque la
sussistenza di uno spazio libero tra le
costruzioni, perché operi il principio della prevenzione.
Segnatamente, in relazione al quarto motivo, non può non
condividersi il profilo di
contraddittorietà ed incongruenza che la controricorrente ha
puntualmente posto in luce
(l'affermazione secondo cui la costruzione è "avvenuta in
confine (...) in aderenza ad opera
preesistente" —così ricorso, pag. 8— "appare del tutto
contraddittoria ed incoerente con
quanto affermato in precedenza laddove l'edificazione a
confine è sostenuta sul presupposto dell'assenza di
fabbricati a distanza inferiore di ml. 10 posti sulla
proprietà della resistente":
così controricorso, pag. 11).
In ogni caso, non vi è motivo per negare che "a confine tra
le due proprietà non esiste
alcun corpo di fabbrica nei confronti del quale costruire in
aderenza, trattandosi del naturale
declivio del terreno rivestito nella parte finale da pietre
per evitare fenomeni di smottamento"
(così controricorso, pag. 12), giacché è la medesima
ricorrente che parla di "un terrapieno
costruito in aderenza al muro di sostegno del fondo
superiore, ossia ad un altro terrapieno
sovrastante" (così ricorso, pag. 10).
Su tale scorta è sufficiente ribadire l'insegnamento di
questa Corte secondo cui non può
essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza
delle distanze legali, il muro che,
nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il
fondo, assolve anche alla funzione di
sostegno e contenimento del declivio naturale (cfr. Cass.
15.06.2001, n. 8144).
Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce
"erronea e falsa applicazione
dell'art. 873 c.c. e degli artt. 112 e 115 c.p.c. in
relazione all'art. 360 n. 3-5 c.p.c." (così
ricorso principale, pag. 9).
Adduce che non vi è margine per far luogo all'applicazione
dell'art. 873 c.c., allorché
"l'entità, l'ubicazione e le caratteristiche strutturali
delle opere realizzate risultino
obiettivamente tali da non essere in contrasto con la (...)
finalità" (così ricorso principale,
pag. 9) di evitare l'insorgere di intercapedini; che, in
questi termini, la realizzazione di un
terrapieno in aderenza al muro di sostegno del fondo
superiore in nessun modo vale a
determinare l'insorgere di una intercapedine; che
conseguentemente tale omessa valutazione,
da un lato, induce a ritenere che la corte territoriale non
ha "a sufficienza e logicamente
motivato la sua decisione" (così ricorso principale, pag.
10), dall'altro, che se tale valutazione
fosse stata compiuta, si sarebbe acquisita "conferma che
nessun pregiudizio può derivare alla posizione della Romani
e pertanto l'insussistenza di qualsiasi turbativa" (così
ricorso
principale, pag. 10).
Con il sesto motivo la ricorrente principale deduce "errata
applicazione dell'art. 873 c.c.
ed insufficiente ed omessa motivazione in ordine a fatto
decisivo per la decisione del giudizio
in relazione all'art. 360 n. 3-5 c.p.c." (così ricorso
principale, pag. 11).
Adduce che la corte territoriale, pur considerando
unitariamente l'opera realizzata da ella
ricorrente, "ha però omesso di trarre (...) la giuridica
conseguenza della possibilità di
costruire in aderenza" (così ricorso principale, pag. 11);
che invero la corte di Venezia "ha
(...) omesso di motivare in ordine (...) alla susseguente
idoneità dell'opera a creare
intercapedini" (così ricorso principale, pag. 11).
Il quinto ed il sesto motivo parimenti sono in stretta
connessione.
Se ne giustifica dunque il vaglio simultaneo.
Ambedue i motivi, comunque, sono immeritevoli di seguito.
Ed invero si ammetta pure che il terrapieno artificiale
costruito da Ma.Fr.Ca. "in aderenza al muro di sostegno del fondo
superiore" (così ricorso, pag. 10) non
abbia dato luogo ad alcuna intercapedine.
E' fuor di dubbio, nondimeno e per un verso, che l'art. 26
delle n.t.a. del p.r.g. del comune
di Malcesine impone il rispetto della distanza di 5 m. dal
confine, con possibilità di deroga
che —siccome premesso in sede di vaglio del terzo e del
quarto motivo— non si configura
però nella fattispecie.
E' fuor di dubbio, nondimeno e per altro verso, che in
materia di distanze legali sussiste
un diritto soggettivo al rispetto delle stesse, che sorge
indipendentemente dalla possibilità di
costruire e sussiste senza riguardo all'effettiva esistenza
di un danno attuale e concreto (cfr.
Cass. 13.10.1976, n. 3417; cfr. altresì Cass. 17.04.1998, n.
3886, secondo cui le norme sulle
distanze sono rivolte alla tutela di interessi
pubblicistici, sicché non lasciano alcun margine di
valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti dalla loro
inosservanza, onde nessuna indagine
è ammissibile per accertare se il fondo del vicino sia o non
edificabile, sussistendo il diritto al
rispetto delle distanze indipendentemente dalla possibilità
di costruire e dall'esistenza di un
danno attuale e concreto).
E' fuor di dubbio, nondimeno e per altro verso ancora, che
la violazione delle distanze
legali nelle costruzioni integra una molestia al possesso
del fondo finitimo, contro la quale è
data l'azione di manutenzione, perché, anche quando non ne
comprime di fatto l'esercizio,
apporta automaticamente modificazione o restrizione delle
relative facoltà (cfr. Cass.
19.03.1991, n. 2927)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.06.2015 n. 12578). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 33, comma 1, lettera d), della legge n.
47/1985 non sono suscettibili di sanatoria le opere in
contrasto con “ogni altro vincolo che comporti l’inedificabilità
delle aree”, imposto prima dell’esecuzione delle opere
stesse.
E’ vero che, ai sensi dell’art. 31 della l. n. 47/1985, “per
le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali
era richiesto, ai sensi dell’art. 31, primo comma, della L.
17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il
rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai
commi primo e terzo del presente articolo conseguono la
concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di
oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34
della presente legge”.
Tuttavia, le richiamate prescrizioni dell’art. 33 l. 1985 n.
47 si applicano anche agli edifici costruiti prima del 1967.
---------------
Il ricorso deve essere rigettato, dal momento che non era
sanabile l’abuso edilizio realizzato in violazione del
vincolo di inedificabilità assoluta sancito dall’art. 96,
lettera f), del R.D. n. 523/1904.
Nel caso di specie, vertendosi per l’appunto nell’ipotesi di
cui all’art. 33 della l. 28.02.1985 n. 47, era espressamente
escluso che sulla domanda di sanatoria potesse operare il
meccanismo procedimentale del silenzio-assenso (cfr. art.
35, comma 18, della l. n. 47 del 1985).
La sanzione della riduzione in pristino stato, ai sensi
dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, è dunque legittima.
---------------
IV. Tanto premesso, i motivi di ricorso non possono essere
accolti.
IV.1. In primo luogo, il manufatto da demolirsi è
sufficientemente identificato, alla stregua dei puntuali
riferimenti, contenuti nel provvedimento, all’autorimessa
oggetto della domanda di sanatoria presentata da Gi.Ge..
IV.2. E’ dirimente, ai fini del rigetto della domanda di
condono, la circostanza (pacifica tra le parti) per cui la
costruzione in esame si colloca all’interno della fascia di
rispetto stabilita dall’art. 96, comma 1, lettera f), del
R.D. n. 523/1904 in favore delle acque pubbliche (come deve
qualificarsi anche il corso d’acqua denominato “Lusert”:
cfr. il n. 92 dell’Elenco delle acque pubbliche della
Provincia di Como, formato dal Ministero dei Lavori
pubblici, Corpo reale del Genio civile, di cui al doc. 10
all. ricorrente; cfr. anche l’elenco dei corsi d’acqua
pubblici, di cui al doc. 11 all. resistente), nel cui
perimetro è inibita qualsiasi edificazione.
Difatti, ai
sensi dell’art. 33, comma 1, lettera d), della legge n.
47/1985 non sono suscettibili di sanatoria le opere in
contrasto con “ogni altro vincolo che comporti l’inedificabilità
delle aree”, imposto prima dell’esecuzione delle opere
stesse. Il vincolo qui è sicuramente preesistente, in quanto
risale addirittura al 1904.
IV.3. E’ vero che, ai sensi dell’art. 31 della l. n.
47/1985, “per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell’art. 31,
primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei
regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di
costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del
presente articolo conseguono la concessione in sanatoria
previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma
determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”.
Tuttavia, le richiamate prescrizioni dell’art. 33 l. 1985 n.
47 si applicano anche agli edifici costruiti prima del 1967.
IV.4. Non sussiste il parere favorevole dell’amministrazione
preposta alla tutela del vincolo, essendosi (a suo tempo) i
competenti uffici della Regione espressi in senso negativo
(cfr. doc. n. 6).
IV.5. Lo stesso Reticolo Idrico Minore (approvato con
deliberazione del Consiglio comunale n. 31 del 16.05.2008), lungo il tratto di roggia, ha confermato la fascia di
rispetto di metri 10, assoggettata al vincolo di inedificabilità assoluta (cfr. doc. nn. 13 e 14: ai sensi
dell’art. 9 delle norme tecniche di attuazione, nella
“fascia di rispetto 1” sono vietate le nuove edificazioni).
Il fatto, poi, che la cartografia allegata abbia rilevato
l’esistenza fisica dell’autorimessa, di per sé, non può
evidentemente produrre alcun effetto di sanatoria. Neppure
la sanatoria edilizia può ritenersi “implicita” nelle norme
tecniche che consentono di realizzare taluni interventi (di
manutenzione ordinaria e straordinaria, ovvero di restauro e
risanamento conservativo che non comportino aumenti
volumetrici) all’interno della fascia di rispetto (anche
considerando l’espresso divieto contenuto nella citata norma
di fonte primaria).
IV.6. La buona fede degli aventi causa, per giurisprudenza
costante, non “vale” a fondare alcun diritto al
conseguimento del titolo edilizio in deroga alle imperative
prescrizioni urbanistiche, tanto più che l’attività di
repressione degli abusi edilizi, come è noto, non è soggetta
a termini di prescrizione o decadenza.
IV.7. Gli argomenti appena esposti dimostrano l’infondatezza
anche della connessa domanda risarcitoria.
V. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, dal
momento che non era sanabile l’abuso edilizio realizzato in
violazione del vincolo di inedificabilità assoluta sancito
dall’art. 96, lettera f), del R.D. n. 523/1904. Nel caso di
specie, vertendosi per l’appunto nell’ipotesi di cui
all’art. 33 della l. 28.02.1985 n. 47, era
espressamente escluso che sulla domanda di sanatoria potesse
operare il meccanismo procedimentale del silenzio-assenso
(cfr. art. 35, comma 18, della l. n. 47 del 1985). La
sanzione della riduzione in pristino stato, ai sensi
dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, è dunque legittima.
V.1. Può assorbirsi l’eccezione preliminare di tardività,
sollevata dal Comune resistente in ordine alla impugnazione
degli “atti presupposti” dell’ingiunzione di demolizione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.05.2015 n. 1079 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
condivisibile orientamento interpretativo, «la c.d. fascia
di servitù idraulica imposta dall'art. 96 lett. f), r.d.
25.07.1904, n. 523 […] ha carattere assoluto e non
derogabile in relazione a qualsiasi costruzione (recinzioni,
strade, depuratore e quant’altro)», il che si giustifica in
quanto, «come afferma costantemente la giurisprudenza, il
divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi
d'acqua, previsto dalla lett. f) dell'art. 96, è informato
alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la
possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche
(e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei
fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
Pertanto, rientrano tra le fabbriche di cui all’art. 96 cit.
pure i semplici muretti (cfr., in termini, Cass. pen., sez.
III, 20.03.2001, n. 16104: «nell’accezione di “fabbriche”,
termine adoperato dal legislatore del 1904, rientrano
certamente anche i muretti di recinzione […]. La ratio della
norma, infatti, è quella di consentire la disponibilità di
una idonea fascia libera per intervenire sugli argini in
caso di esondazione, e dunque tale finalità può certamente
restare frustrata anche dall'edificazione di muri di
recinzione nella detta fascia di rispetto»).
---------------
L'art. 96, lett. f), r.d.
25.07.1904, n. 523 non può non
essere interpretato mettendolo anche in relazione con il
secondo comma dell’art. 93 (collocato nel medesimo Capo del
r.d. n. 523/1904, dedicato alla polizia delle acque
pubbliche) in cui si chiarisce che «formano parte degli
alvei i rami o canali, o diversivi dei fiumi, torrenti, rivi
e scolatoi pubblici, ancorché in alcuni tempi dell'anno
rimangono asciutti».
La questione potrebbe semmai assumere rilevanza ai diversi
fini della sussistenza anche del vincolo paesaggistico, di
cui alla disciplina confluita nell’art. 142 del d.lgs.
22.01.2004, n. 42 (su cui, con specifico riferimento alla
questione dell’interpretazione dei termini “fiume”,
“torrente”, “corso d’acqua” e relative implicazioni, cfr.
C.d.S., sez. VI, 04.02.2002, n. 657).
---------------
17. – L’oggetto del giudizio resta così circoscritto alla
questione della legittimità dei provvedimenti adottati
dall’amministrazione comunale in relazione alla denuncia
d’inizio attività per la realizzazione del predetto muretto
di cinta e del cancello scorrevole, così come posta con le
censure articolate a fondamento della domanda di
annullamento nel ricorso introduttivo.
Passando, allora, all’esame delle singole censure, già
riassunte al § 4 della presente decisione, nessuna coglie
nel segno, alla luce della contrarietà dell’intervento –teso unitariamente alla delimitazione materiale dell’area
antistante le unità immobiliari al piano terra e
seminterrato- al vincolo idrico che deriva dalla prossimità
dell’area al torrente di Casamarciano.
E’ questa la principale ragione ostativa all’esecuzione dei
lavori che è stata addotta dal Comune nella motivazione del
provvedimento impugnato (cfr. supra, § 3), cui si aggiunge,
con portata autonoma, la questione dell’esistenza anche di
un vincolo ambientale.
In base al richiamato art. 96 del R.D. n. 523 del 25.07.1904, infatti, «sono lavori ed atti vietati in modo assoluto
sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i
seguenti: … f) le piantagioni di alberi e siepi, le
fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza
dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore
di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse
località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza
minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del
terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi».
Nella specie, il provvedimento impugnato prot. n. 1513 del
21.03.2014 ha cura di motivare in fatto che «la parte
finale dell'opera edilizia, sul lato nord, ricade
all'interno della fascia di rispetto di ml. 10,00, dalla
sponda del corso d'acqua», il che trova conferma nella
suddetta Tavola 3, da cui risulta che il realizzando muretto
di cinta dovrebbe essere perpendicolare al vecchio muro di
delimitazione del compendio immobiliare che corre lungo
l’alveo del torrente Casamarciano, posizionandosi anch’esso,
sia pure in parte, all’interno della fascia di servitù
idrica.
Parte ricorrente non contesta il parziale posizionamento
dell’opera all’interno della suddetta fascia (tanto è vero
che, come si è visto, non ha neppure prodotto, in senso
contrario, la Tavola 1B con i grafici di progetto), quanto
l’applicabilità stessa della norma vincolistica al caso in
esame.
In particolare nei motivi aggiunti, infatti, sostiene che il
divieto dell’art. 96, lett. f) cit. riguarda solo le
“fabbriche”, nel cui novero non potrebbero essere ricompresi
i muretti di cinta oggetto della d.i.a., in quanto manufatti
isolati e con le facce libere e con altezza inferiore a 3
metri, che, in ragione del combinato disposto degli artt.
873 e 878 c.c., non potrebbero essere ritenuti una
costruzione; e, in maniera ancora più radicale nel ricorso
introduttivo, chiede che in via incidentale venga vagliata
in questa sede la legittimità del provvedimento con il quale
l’alveo di Casamarciano, che sarebbe stato da sempre un
corso d’acqua (un “lagno”, controfosso dei Regi Lagni) e per
il quale non sarebbero previste limitazioni e prescrizioni
di sorta, sarebbe stato poi classificato come “torrente”,
pur essendo un fosso in realtà privo di acqua.
Entrambi gli assunti sono privi di pregio.
Quanto alla prima questione, infatti, per condivisibile
orientamento interpretativo, «la c.d. fascia di servitù
idraulica imposta dall'art. 96 lett. f), r.d. 25.07.1904, n. 523 […] ha carattere assoluto e non derogabile
(Consiglio Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814) in
relazione a qualsiasi costruzione (recinzioni, strade,
depuratore e quant’altro)» (cfr. C.d.S., sez. I, 30.06.2011, n. 2620/11, affare n. 1203/2011), il che si giustifica
in quanto, «come afferma costantemente la giurisprudenza, il
divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi
d'acqua, previsto dalla lettera f) dell'art. 96, è informato
alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la
possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche
(e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei
fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass.
civ., SS.UU., 30.07.2009, n. 17784)» (cfr. C.d.S., sez. IV,
05.11.2012, n. 5619; T.S.A.P. 29.04.2002, n.
58, che richiama anche la finalità di consentire l’agevole
svolgimento di lavori di manutenzione).
Pertanto, rientrano
tra le fabbriche di cui all’art. 96 cit. pure i semplici
muretti (cfr., in termini, Cass. pen., sez. III, 20.03.2001, n. 16104: «nell’accezione di “fabbriche”, termine
adoperato dal legislatore del 1904, rientrano certamente
anche i muretti di recinzione […]. La ratio della norma,
infatti, è quella di consentire la disponibilità di una
idonea fascia libera per intervenire sugli argini in caso di
esondazione, e dunque tale finalità può certamente restare
frustrata anche dall'edificazione di muri di recinzione
nella detta fascia di rispetto»).
Quanto alla seconda questione, è la stessa parte ricorrente
a riconoscere che l’alveo di Casamarciano è sempre stato un
corso d’acqua, sicché il fatto (peraltro non dimostrato) che
possa presentarsi privo d’acqua non assume rilievo alcuno
per escludere l’applicabilità della fascia di servitù
idraulica, una volta tenuto conto che l'art. 96, lett. f), non
può non essere interpretato mettendolo anche in relazione
con il secondo comma dell’art. 93 (collocato nel medesimo
Capo del r.d. n. 523/1904, dedicato alla polizia delle acque
pubbliche) in cui si chiarisce che «formano parte degli
alvei i rami o canali, o diversivi dei fiumi, torrenti, rivi
e scolatoi pubblici, ancorché in alcuni tempi dell'anno
rimangono asciutti».
La questione potrebbe semmai assumere rilevanza ai diversi
fini della sussistenza anche del vincolo paesaggistico, di
cui alla disciplina confluita nell’art. 142 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (su cui, con specifico riferimento alla
questione dell’interpretazione dei termini “fiume”,
“torrente”, “corso d’acqua” e relative implicazioni, cfr.
C.d.S., sez. VI, 04.02.2002, n. 657).
Tuttavia, la rilevanza di quella questione resta assorbita
dall’applicazione dell’art. 96 cit., di per sé sufficiente a
sorreggere le determinazioni qui impugnate, che su
quest’ultima previsione parimenti si fondano.
Inoltre, una compiuta disamina della questione del vincolo
paesaggistico non potrebbe prescindere da approfondimenti
istruttori, incompatibili con basilari principi di economia
processuale una volta che, per quanto si è detto, l’esito
dell’impugnazione è comunque segnato.
Infatti, una volta acclarato che l’intervento oggetto della
d.i.a. –intervento che, si ripete, deve essere considerato
in questa sede nella sua evidente unitarietà– non rispetta,
sia pure in parte, la fascia di servitù idraulica, le
censure riguardanti il vincolo paesaggistico non potrebbero
valere, comunque, a travolgere i provvedimenti impugnati, né
potrebbe acquisirsi in una conferenza di servizi l’assenso
del Genio civile su opere giammai non consentibili (cfr.
art. 96 cit.: «sono lavori ed atti vietati in modo assoluto
…»), né, infine, potrebbe assumere rilievo invalidante la
lamentata compressione del diritto al contraddittorio
procedimentale, stante il disposto dell’art. 21-octies,
comma primo, primo periodo, della legge n. 241/1990.
Infine, per quanto riguarda la censura con la quale parte
ricorrente ha dedotto che i provvedimenti impugnati
avrebbero eluso la portata conformativa della sentenza n.
476 del 2014 per non aver tenuto conto degli effetti
sostanziali di accertamento di fatto e di diritto della
medesima, è sufficiente rilevare, in senso contrario, che la
richiamata pronuncia non statuisce alcunché sulla situazione
di fatto qui esaminata e sui suoi riflessi giuridici.
18. – Per le esposte ragioni, in conclusione, il ricorso
deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 25.02.2015 n. 1275 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la quaestio juris se il muro definito dalla ricorrente “contrafforte” non possa
essere considerato come “argine” del torrente dal quale
computare detta distanza, trovandosi l’alveo vero e proprio
del torrente a notevole distanza da tale muro,
per costante giurisprudenza tale distanza deve
essere determinata riferendosi alla delimitazione effettiva
del corso d’acqua, partendo dal ciglio della sponda, quale
confine naturale dell’ordinaria portata d’acqua, e non già
dal piede esterno dell’argine ogni qual volta esso non
esplichi una funzione analoga alla sponda nel contenere
l’acqua, bensì rappresenti, come nel caso di specie, una
barriera esterna artificiale eretta a difesa del territorio
nell’ipotesi del verificarsi di piene eccezionali.
---------------
Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione di difetto
di giurisdizione formalmente dedotta da entrambi i
controinteressati.
A tal proposito, il Collegio –nel reputare, come già
espresso in precedenza da questa stessa Sezione interna, che
la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque
pubbliche si fondi “sulla ragione pubblicistica di
assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali e il libero deflusso della acque scorrenti nei
fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici” (in tal senso,
sentenza n. 1234/2014, che richiama, tra l’altro, Cass. Civ. SS.UU. n. 10845/2009)– è dell’avviso che nel caso di specie
sussista la giurisdizione di legittimità dell’adito TAR,
non incidendo il provvedimento impugnato in maniera diretta
ed immediata sul regolare regime delle acque pubbliche,
anche a fronte di quanto evidenziato e documentato dai controinteressati in merito alla distanza, maggiore della
fascia di rispetto di cui all’art. 96, lett. f), del r.d. n.
523/1904, intercorrente tra la sponda del torrente ed il
realizzando manufatto.
Passando, quindi, ad esaminare il merito della controversia,
ritiene il Collegio che il ricorso sia infondato e non
possa, pertanto, essere accolto.
1. Per quel che concerne il primo motivo di ricorso, con cui
la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione
dell’art. 96, lett. f), del r.d. n. 523/1904 e dell’art. 142
del d.lgs. n. 42/2004, sostenendo che la costruzione dei
controinteressati verrebbe a trovarsi “ad una distanza
inferiore ai 10 metri dall’argine e dal contraffare del
torrente Montagnareale”, innanzi tutto, risulta agli atti di
causa come, invece, l’area di sedime del realizzando
manufatto si trovi ad una distanza del tutto regolare in
relazione al citato art. 96.
Assume, in particolare, a tal proposito rilievo la perizia
giurata prodotta in giudizio dal controinteressato An.Sc., in cui si attesta come “la distanza intercorsa tra
la sponda naturale del torrente Montagnareale e la sponda
artificiale dello stesso, lungo il Corso Matteotti, più
precisamente all’altezza dell’immobile di cui in oggetto, è
di ml. 16,50, oltre lo spessore della sponda realizzata in
muratura di pietrame e malta cementizia che è di cm. 80”,
nonché la documentazione fotografica, anch’essa versata in
atti dal medesimo controinteressato, da cui risulta come il
muro definito dalla ricorrente “contrafforte” non possa
essere considerato come “argine” dal quale computare detta
distanza, trovandosi l’alveo vero e proprio del torrente a
notevole distanza da tale muro.
In tal senso, osserva il Collegio come, infatti, per
costante giurisprudenza tale distanza deve essere
determinata riferendosi alla delimitazione effettiva del
corso d’acqua, partendo dal ciglio della sponda, quale
confine naturale dell’ordinaria portata d’acqua, e non già
dal piede esterno dell’argine ogni qual volta esso non
esplichi una funzione analoga alla sponda nel contenere
l’acqua, bensì rappresenti, come nel caso di specie, una
barriera esterna artificiale eretta a difesa del territorio
nell’ipotesi del verificarsi di piene eccezionali (in tal
senso, ex multis, TAR Emilia Romagna, Parma, n.
435/2010).
Relativamente, poi, all’asserita violazione della fascia di
rispetto di centocinquanta metri di cui al citato art. 142,
comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, tale rilievo risulta
anch’esso infondato, omettendo la ricorrente di considerare
come il comma 2 del medesimo articolo escluda
dall’applicazione di detta distanza “le aree che alla data
del 06.09.1985 … erano delimitate negli strumenti
urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee … B” e avendo
documentato il controinteressato Antonino Scaffidi come
l’area di intervento, a tale data, nella vigenza del P.R.G.
approvato con D.A. n. 244/1981, ricadesse in zona “B2” (in
tal senso, l’attestazione dell’U.T.C. del Comune resistente
dell’08.01.2015, in atti)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 29.01.2015 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La regola del rispetto della distanza dei dieci
metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968, si
riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
---------------
3. Con riferimento, infine, alla censura riguardante il
mancato rispetto della distanza di dieci metri fra la parete
asseritamente finestrata dell’edificio di proprietà della
ricorrente e l’erigenda costruzione (terzo motivo di
doglianza), deve anch’essa essere rigetta, risultando dalla
documentazione fotografica in atti, nonché dall’atto di
acquisto dell’edificio oggetto di demolizione e
ricostruzione prodotta in giudizio dai controinteressati,
come l’apertura in questione, delle “dimensioni di ml. 2,20
x ml. 0,80”, non possa essere qualificata come veduta, bensì
come mera apertura lucifera.
Infatti, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, dal quale il Collegio non intende
discostarsi, “la regola del rispetto della distanza dei
dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 02.04.1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di
finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche
quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere”
(recentemente, Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4451/2013).
A ciò si aggiunga che, come dedotto e documentato dai
controinteressati, la realizzazione dell’erigenda
costruzione in aderenza alla parete in questione risulta
essere stata espressamente autorizzata al momento
dell’acquisto dell’edificio oggetto di demolizione e
ricostruzione da parte venditrice, allora proprietaria
dell’intero fabbricato in cui si trova l’appartamento ora di
proprietà della ricorrente (in tal senso il relativo atto di
compravendita, in data 10.09.2007)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 29.01.2015 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.10.2016 |
ã |
Sul
costo (da sopportare) della perizia di stima circa
l'eventuale aumento di valore dell’immobile valutato
dall’Agenzia del Territorio (oggi Agenzia delle
Entrate) ex
art. 37, comma 4, DPR n. 381/2001
(piuttosto che
art. 33, comma 2, oppure
art. 34, comma 2, ed anche
art. 38, comma 1):
la Corte dei
Conti rispose tempo fa "quesito inammissibile"
... ora, il Consiglio di Stato risponde che "paga
il comune". |
La quaestio juris l'avevamo evidenziata tre
anni or sono con due pronunciamenti della
Magistratura contabile (Corte
dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 25.03.2013 n. 20 e
Corte dei Conti, Sez.
controllo Lombardia,
parere 08.05.2013 n. 201) laddove, in
verità, la stessa non si espresse in ordine ai
puntuali interrogativi formulati. |
Ma, in concreto, di che si tratta?? |
Si tratta che per
alcune fattispecie edilizie abusive di cui al DPR n.
380/2001, normate come sopra ricordato, il comune
debba "obbligatoriamente"
richiedere una perizia di stima all'ex Agenzia del
Territorio (ora Agenzia delle Entrate) che risulta
essere "preliminare" alla
quantificazione della sanzione pecuniaria in luogo
della rimessione in pristino (demolizione delle
opere abusivamente realizzate).
L'Agenzia delle Entrate, tuttavia, non lavora "gratis"
sicché richiede preliminarmente al comune la
sottoscrizione di un "protocollo d'intesa"
relativo all'attività estimativa da espletare con
l'indicazione dei relativi costi sostenuti da
rifondere tenuto conto che l’art.
64, comma 3-bis, del d.lgs. 30.07.1999 n. 300
dispone quanto segue: “3-bis.
Ferme le attività di valutazione immobiliare per le
amministrazioni dello Stato di competenza
dell'Agenzia del demanio, l'Agenzia delle entrate è
competente a svolgere le attività di valutazione
immobiliare e tecnico-estimative richieste dalle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
e dagli enti ad esse strumentali. Le predette
attività sono disciplinate mediante accordi, secondo
quanto previsto dall'articolo 15 della legge
07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni.
Tali accordi prevedono il rimborso dei costi
sostenuti dall'Agenzia, la cui determinazione è
stabilita nella Convenzione di cui all'articolo 59
”.
Recentemente, l'Agenzia delle Entrate -Ufficio
provinciale di Milano-Territorio- ha rappresentato a
tutti i comuni del proprio ambito territoriale di
competenza l'obbligatorietà -per i comuni stessi-
del rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia
menzionando, all'uopo, due sentenze (rectius: pareri) del
Consiglio di Stato.
Ebbene, ecco a seguire la nota dell'Agenzia delle
Entrate milanese:
|
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Trasmissione Protocollo d'intesa in corso di stipula
relativo all'attività estimativa per abusi edilizi
prevista dal DPR 380/2001 (Agenzia delle
Entrate, Ufficio provinciale di Milano-Territorio,
nota 27.07.2016 n. 22078 di
prot.). |
Ed ancora, di seguito, le
due pronunce del Consiglio di Stato:
|
EDILIZIA PRIVATA: Le
spese conseguenti alle richieste
comunali alla competente Agenzia delle Entrate (quale
incorporante dell'Agenzia del Territorio) circa le
valutazioni degli incrementi del valore venale degli
immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle
sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi ovvero
l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per
l'accertamento di conformità, sono in capo
all'Amministrazione comunale stessa.
---------------
Appurato il carattere di prestazione obbligatoria del
"rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia", la menzionata
pretesa economica ricade sull’ente e non sul privato la
quale non ha alcuna valenza sanzionatoria, essendo
chiaramente finalizzata al ristoro degli oneri sopportati
dall’Agenzia.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica,
integrato da motivi aggiunti, proposto dal COMUNE DI GENOVA,
in persona del Sindaco Prof. Ma.Do., per l'annullamento,
quanto al ricorso principale:
1. delle note dell'Ufficio Provinciale di Genova
dell’Agenzia delle Entrate, in materia di valutazioni
immobiliari effettuate dalla citata Agenzia nel contesto
delle "attività sanzionatorie" esercitate dal Comune
di Genova in materia di abusi edilizi (in particolare, delle
note prot. n. 1437/13/1837-13 del 15/02/2013; prot. n.
1440/13/1835-13 del 15/02/2013; prot. n. 1442/13/1825/2013
del 15/02/2013; prot. n. 1474/13/1916/2013 del 18/02/2013;
prot. n. 2205/13/2826 del 02/04/2013; prot. n. 1474/3915 del
03/04/2013; prot. n. 3825/13/5942 del 24/5/2013; prot. n.
3823/13/5943 del 24/05/2013);
2. degli atti connessi e, in particolare, per l'annullamento
in parte qua della "Convenzione Triennale per gli
Esercizi 2012/2014", stipulata tra il Ministero
dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia del Territorio;
quanto ai relativi motivi aggiunti:
3. delle "note di addebito" notificate dall'Agenzia
delle entrate, Direzione Centrale Amministrazione,
Pianificazione e Controllo (in particolare, delle note prot.
n. 24249 del 18/06/2013; prot. n. 26484 e n. 26487 del
04/07/2013; prot. n. 32196 del 05/09/2013; prot. n. 33322,
n. 33304, n. 33320 e n. 33305 del 18/09/2013);
4. delle ulteriori comunicazioni dell'Agenzia delle entrate,
Ufficio Provinciale di Genova, Settore Gestione Banche Dati
e Servizi (in particolare, delle note prot. n. 4461/13/7783
del 05/07/2013; prot. n. 3877/13/7799 e n. 7209/13/7789 del
08/07/2013; prot. n. 8391/13/8615 del 30/07/2013; prot. n.
8575/13/8796 del 02/08/2013; prot. n. 5945/2013/9440 del
26/08/2013; prot. n. 6395/13/9394 e n. 7211/2013/9444 del
26/08/2013; prot. n. 74749/13/9966 del 12/09/2013; prot. n.
7724/10393 del 25/09/2013; prot. n. 8389/13/10505, n.
8390/13/10493 e n. 10097/13/10511 del 27/09/2013; prot. n.
6439/13/10729 del 02/10/2013; prot. n. 8387/13/10751 del
03/10/2013; prot. n. 8034/2013/10828 del 04/10/2013; prot.
n. 10727/13/11091, n. 10580/2013/11104 e n. 9742/2013/11101
del 10/10/2013).
...
Premesso:
Il Comune di Genova, nell'esercizio della propria attività
istituzionale in materia edilizia, richiede ordinariamente
alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante
dell'Agenzia del Territorio, ex art. 23-quater del D.L.
06.07.2012, n. 95, inserito dalla Legge di conversione
07.08.2012, n. 135) le valutazioni degli incrementi del
valore venale degli immobili, al fine di poter procedere
alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli
abusi edilizi, ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di
procedimenti per l'accertamento di conformità.
Tale procedura è contemplata dagli artt. 33 e ss. del D.P.R
06.06.2001, n. 380, nonché dagli artt. 43 e ss. della L.R.
Liguria 06.06.2008, n. 16.
Con una serie di note di analogo contenuto, l’Ufficio
Provinciale della predetta Agenzia dava riscontro a diverse
richieste (riferite a distinti interventi edilizi),
richiamando il disposto del D.Lgs. 30.07.1999, n. 300, art.
64, comma 3-bis (comma aggiunto dall'art. 6 del D.L.
02.03.2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla Legge
26.04.2012, n. 44), ai sensi del quale "…l'Agenzia del
territorio è competente a svolgere le attività di
valutazione immobiliare e tecnico-estimative richieste dalle
Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad
esse strumentali. Le predette attività sono disciplinate
mediante accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15
della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni.
Tali accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti
dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella
Convenzione di cui all'articolo 59" (Convenzione
triennale tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e
l'Agenzia).
Il suddetto Ufficio Provinciale comunicava, pertanto, la
necessità di procedere alla preliminare stipula di specifici
accordi (“protocolli d’intesa”) per il rimborso dei
costi sostenuti. A tali riscontri, il Comune di Genova, nel
considerare tale attività istruttoria una funzione
istituzionale obbligatoria, rappresentava all'Agenzia che un
simile comportamento ostruzionistico avrebbe potuto arrecare
gravi responsabilità per l'Ente locale.
Il menzionato Ufficio, con nota in data 02.04.2013,
comunicava al Comune che avrebbe, comunque, proceduto ad
espletare le attività valutative richieste, nelle more del
perfezionamento dell'accordo, ma sempre dietro
corresponsione di un rimborso dei costi, nel limite massimo
del 50% della sanzione. Tale comunicazione richiamava le
direttive in materia, emanate dalla competente Direzione
Centrale Osservatorio Mercato Immobiliare e Servizi
Estimativi dell’Agenzia delle Entrate.
Con successive note l'Agenzia ribadiva la propria posizione
per altre singole pratiche.
Contro i citati atti, come meglio individuati in epigrafe,
insorge il Comune di Genova, il quale affida il proprio
gravame ai seguenti motivi di diritto:
1. violazione o falsa applicazione art. 23 della Costituzione;
violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis,
D.Lgs. 30/07/1999, n. 300.
Il Comune ritiene che l’attività esercitata dall'Agenzia,
tesa a fornire aggiornate valutazioni immobiliari ai fini
dell'applicazione delle sanzioni pecuniarie per violazioni
edilizie o procedimenti di accertamento di conformità,
rientri nell’ambito delle funzioni istituzionali
attribuitele dalla legge (artt. 33 e ss. del D.P.R n.
380/2001 e corrispondenti norme regionali, artt. 43 e ss.
della Legge Regione Liguria n. 16 del 2008). Da tale
evidenza discenderebbe il carattere gratuito delle
prestazioni dovute in forza delle richiamate disposizioni,
come confermato, a suo tempo, dalla stessa Direzione
Centrale dell'Agenzia con nota prot. n. 27110 del
03.05.2011.
La previsione di cui al citato comma 3-bis dell'art. 64 del
D.Lgs. n. 300/1999, deve, pertanto, "intendersi riferita
alle sole attività ulteriori rispetto a quelle già previste
da precedenti norme di legge e, quindi, non rientranti nella
normale attività istituzionale dell'Agenzia. Ciò per almeno
due ordini di ragioni:
- una prima ragione è di ordine logico-sistematico
giacché, in caso contrario, il citato art. 3-bis [rectius
comma 3-bis], nella parte in cui attribuisce la competenza
alle valutazioni immobiliari e tecnico-estimative, sarebbe
stato introdotto nell'art. 64 D.Lgs. n. 300/1999 del tutto
inutilmente, trattandosi di previsioni già contemplate da
precedenti norme di legge;
- la seconda ragione deve essere invece individuata
nella necessità di fornire un’interpretazione dell'art. 64,
comma 3-bis, che sia conforme a Costituzione.
A tale ultimo proposito, il Comune rammenta come le norme di
legge, che contemplano l’imposizione di prestazioni
patrimoniali, al fine di soddisfare il principio della
riserva di legge ex art. 23 Costituzione, devono contenere
un minimo di elementi necessari alla determinazione delle
prestazioni. La norma in commento, invece, non predetermina
alcun criterio, costituendo “implicita dimostrazione
dell'assoluta discrezionalità con la quale l'imposizione in
esame può essere determinata”.
Un'interpretazione costituzionalmente orientata della
suddetta previsione legislativa, dunque, determinerebbe la
necessità di limitarne l’applicazione alle sole ipotesi in
cui l’attività dell'Agenzia non sia resa in attuazione di
attività istituzionali, ma riguardi attività ulteriori, come
l'erogazione di specifici servizi resi non nell'interesse
della collettività ma di singoli. Solo per queste ultime
ipotesi, secondo il ricorrente, non opererebbe il principio
della "riserva di legge".
Nell’ipotesi in cui non si ritenesse corretta
l'interpretazione del sopra citato comma 3-bis dell'art. 64
D.Lgs. n. 300/1999, viene chiesto di sollevare preliminare
questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale
della suddetta norma, per la prospettata violazione
dell'art. 23 della Costituzione e del principio della
riserva relativa di legge.
2. Violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis,
D.Lgs. n. 300/1999 sotto ulteriore profilo; violazione del
principio di ragionevolezza, violazione art. 3 della
Costituzione.
Il Comune ricorrente richiama una pronuncia del TAR Liguria
(sentenza della Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004), con la
quale i giudici amministrativi si sono espressi in materia
di provvedimenti tariffari in relazione a prestazioni rese
dalla ASL nell'ambito di procedimenti di competenza del
Comune, resi nell'interesse di singoli o della collettività.
In particolare, viene richiamato il principio, espresso in
tale pronuncia, secondo il quale le prestazioni rese
dall'ente pubblico nell'interesse di un privato devono far
carico al privato istante, in quanto beneficiario
dell'attività. Il Comune sostiene che "quand'anche il
pagamento debba intendersi dovuto, non si vede la ragione
per cui non si debba fare applicazione del principio
individuato dalla richiamata sentenza: l'eventuale costo
della prestazione ... dovrebbe al più far carico unicamente
allo stesso privato ... in quanto beneficiario
dell'attività, mentre appare del tutto ingiustificato porre
l'onere in questione in capo al Comune".
Inoltre, secondo l'ente locale, "sia nell’ipotesi in cui
l'onere venisse posto in capo al Comune sia allorché venisse
posto in capo al privato, la sanzione pecuniaria
predeterminata per legge verrebbe comunque irragionevolmente
modificata dall'obbligo di pagare un’ulteriore somma … non
determinata per legge ma lasciata all'arbitrio
dell'Amministrazione finanziaria”.
Anche in questo caso viene chiesto di sollevare preliminare
questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale
della citata norma, per la prospettata violazione:
- del principio di ragionevolezza e dell'art. 3 della
Costituzione (laddove dalla sua interpretazione se ne
dovesse ricavare come facente capo al Comune e non al
privato l’onere di rifondere l’Agenzia dei costi sostenuti
per l’attività in esame);
- dell’art. 23 della Costituzione e del correlato principio
di determinatezza della sanzione.
3. Violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis,
D.Lgs. n. 300/1999 sotto ulteriore profilo.
Gli atti gravati violerebbero tale norma, poiché l'Agenzia
ha chiesto il rimborso dei costi anche in assenza della
stipula dell'accordo, che, invero, e a norma di legge,
dovrebbe costituire il presupposto per esercitare la citata
pretesa economica.
4. Irragionevolezza e contraddittorietà intrinseca dell'art. 64,
comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999; violazione dell'art. 3
della Costituzione; violazione del principio di leale
collaborazione tra Enti pubblici; violazione art. 118 della
Costituzione; illegittimità parziale della Convenzione
triennale per gli esercizi 2012-2014 stipulata.
Con tale motivo di impugnazione il Comune ricorrente
censura, in primo luogo, la contraddittorietà della norma,
che, da una parte, stabilisce che l'attività svolta
dall'Agenzia in favore dei Comuni debba essere regolata
mediante accordi da stipulare con le singole Amministrazioni
locali e, dall'altro, rimanda, per la determinazione dei
costi, alla stipula di una Convenzione tra Agenzia e
Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Il sistema delineato costituirebbe, inoltre, una violazione
del principio di leale collaborazione tra enti, come
ricavabile dall’art. 118 della Costituzione, poiché
determina un’immotivata riduzione delle risorse attribuite
ai Comuni per lo svolgimento delle attività di vigilanza in
materia edilizia.
Si duole, poi, del fatto che la "determinazione dei costi
contenuti nella Convenzione Triennale stipulata tra M.E.F.
ed Agenzia ... è priva di qualsiasi motivazione e di
qualsiasi collegamento a qualsiasi dato oggettivo certo. Si
tratta invero della determinazione di un importo che appare
elevato e sproporzionato e che sembra andare bel oltre la
semplice individuazione dei costi sostenuti, rappresentando
piuttosto un vero prezzo che l'Amministrazione Finanziaria
pretende, così come potrebbe pretendere un qualsiasi
operatore privato, trasformando di fatto l’attività svolta
in una vera e propria attività commerciale, avente un
effetto lucrativo ...".
In merito, il Comune conclude evidenziando che, se potesse
rivolgersi al mercato per una simile attività, otterrebbe
prezzi più vantaggiosi, considerando l’onerosità dei
parametri individuati in sede di Convenzione M.E.F.-
Agenzia, laddove è previsto che il "costo standard per
giorno-uomo" è pari a 423,00 euro (da moltiplicare per i
''giorni-uomo di prodotto richiesto").
Il Ministero ritiene il ricorso infondato nel merito.
Ritiene, in particolare, che l'intervento legislativo di cui
al D.L. n. 16/2012 (che ha aggiunto il comma 3-bis all’art.
64 del D.Lgs. n. 300/1999) avrebbe una portata più ampia di
quella ritenuta dal ricorrente, il quale circoscrive
l'ambito di applicazione del menzionato comma 3-bis alle
sole attività "non rientranti nella normale attività
istituzionale dell'Agenzia". In realtà, la descritta
modifica normativa si inserisce nell’ambito di un più
generale intervento, che ha eliminato la possibilità per
l'Agenzia di effettuare attività estimative di natura "commerciale",
facendo salve le sole attività di valutazione immobiliare a
favore delle Amministrazioni dello Stato.
In tal senso, la normativa sopravvenuta si caratterizza per
il carattere di generalità con il quale ha inteso
regolamentare il settore, disciplinando in maniera uniforme
la materia oggetto di intervento, tanto che le nuove
competenze dell’Agenzia sono rivolte a tutte le pubbliche
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n.
165 del 2001. Nello stesso tempo, proprio il carattere
generale ed istituzionale della nuova previsione normativa
non esclude che, nel rapporto tra diverse norme succedutesi
nel tempo, possano essere considerate ancora in vigore
quelle che contemplino previsioni più specifiche, in ragione
del principio di specialità.
Pertanto, continua il Ministero, laddove previgenti norme
espressamente dispongano che le valutazioni estimative
dell'Agenzia vengono svolte gratuitamente, queste
continueranno a dispiegare i propri effetti (come accade, ad
esempio, per le attività in favore del concessionario della
riscossione in relazione ai beni oggetto di incanto). Con
riferimento all'ipotesi di cui trattasi, invece, non si
rinvengono pregresse previsioni normative, che espressamente
prevedano la gratuità del servizio.
In tale ottica, privo di pregio sarebbe il richiamo della
nota prot. n. 27110 del 03.05.2011, che faceva riferimento
alla gratuità delle prestazioni valutative eseguite
nell'ambito degli abusi edilizi, giacché la stessa era stata
emanata in epoca precedente rispetto alla novella operata
dal D.L. n. 16/2012.
Per quanto concerne gli asseriti profili di non conformità
della nuova normativa con i dettami costituzionali, viene
osservato come il principio di riserva di legge, di cui
all'art. 23 Costituzione, secondo cui la norma deve
contenere criteri e indicazioni per la determinazione
dell'imposizione, sarebbe rispettato, prevedendo che sia la
convenzione triennale con il M.E.F. a determinare il
rimborso dei costi. Peraltro, viene rammentato che
l'impugnata Convenzione ministeriale ha passato il vaglio
della Corte dei Conti, venendo regolarmente registrata in
data 19.09.2012.
Con riferimento al secondo ordine di censure, il
Ministero giudica inconferente il richiamo alla citata
sentenza del TAR Liguria, poiché quest’ultima fa riferimento
ad attività effettuate su istanza di un privato. La
questione in esame, invece, prescinderebbe da istanze del
privato.
Né sarebbe corretta l'osservazione del Comune, secondo cui "la
sanzione pecuniaria predeterminata per legge verrebbe
modificata”, in quanto la somma da versare per
l'espletamento dell'attività valutativa non ha rilevanza
sanzionatoria, rivestendo la funzione di ristorare
l'Amministrazione finanziaria dei costi sostenuti.
Avuto riguardo al terzo motivo di diritto, il
Ministero puntualizza che gli accordi, cui fa riferimento il
più volte citato comma 3-bis, sono funzionali alla
regolamentazione delle attività da svolgere e non alla
determinazione dei costi da rimborsare all'Agenzia, che è,
invece, rimessa (dalla medesima disposizione) alla
Convenzione M.E.F. – Agenzia. Per questo motivo, nella
corrispondenza intercorsa con l'ente locale, l’Agenzia
avrebbe legittimamente preteso il rimborso dei costi, pur in
assenza dell'accordo con l’ente locale.
Per quanto riguarda, infine, il quarto ordine di
doglianze, il Ministero richiama i provvedimenti che
hanno condotto all’individuazione, in seno alla predetta
Convezione, dei criteri di determinazione dei costi da
chiedere a rimborso. Precisa, in merito, che la
quantificazione dei costi è effettuata sulla base di due
fattori: il “costo standard per giorno-uomo” e il
numero di “giorni-uomo” necessari per la prestazione.
In ordine a quest'ultimo fattore, la determinazione dipende
dal grado di complessità della valutazione ed per questo
stabilita da ogni singolo Ufficio.
Il “costo standard per giorni-uomo” (fissato in euro
423,00) è stato, invece, determinato in sede convenzionale,
considerando le voci di costo che ragionevolmente sono
necessarie per garantire lo svolgimento "normale"
dell'attività. E’ stato, in particolare, valutato l’apporto
sia delle risorse umane, sia di quelle materiali e
immateriali (che il Ministero indica compiutamente nella
propria relazione), anche di quelle che incidono in maniera
indiretta, in ogni caso in ragione dell'inerenza di tali
voci alla produzione del servizio. Vengono, altresì,
spiegati i motivi per i quali è stata esclusa una serie di
ulteriori costi (di natura generale) che avrebbe
ragionevolmente fatto lievitare l’importo riferito al citato
costo standard.
Con nota prot. n. 37495 in data 29.10.2013 il Comune di
Genova ha trasmesso all’Agenzia delle Entrate ricorso per
motivi aggiunti avverso gli atti, in epigrafe indicati,
concernenti note di addebito dell’Agenzia e comunicazioni,
sopraggiunte in data successiva alla proposizione del
ricorso. Con tale atto l’ente locale non introduce elementi
sostanziali di novità rispetto al ricorso straordinario
principale. L’Ufficio finanziario ha provveduto a
trasmettere a questo Consiglio di Stato i menzionati motivi
aggiunti, rimettendosi alle eccezioni già formulate nella
relazione con la quale è stato chiesto il parere a questo
Consiglio di Stato.
Con nota prot. n. 257224 in data 11.08.2015 il Comune di
Genova ha inviato a questo Consiglio di Stato (e per
conoscenza all'Agenzia delle Entrate e al Ministero
dell'Economia e delle Finanze) le proprie repliche alla
relazione ministeriale, alle quali non sono seguite
osservazioni da parte del Ministero riferente.
In esse, con riferimento al primo motivo di diritto, viene
evidenziato come non risulti contestato dalla richiamata
relazione la natura di prestazione patrimoniale "imposta"
(soggetta a riserva relativa di legge, ai sensi dell'art. 23
della Costituzione) delle prestazioni economiche richieste
dall'Agenzia delle Entrate, in costanza del fatto che le
stesse sono somme richieste in ragione di attività
istituzionale obbligatoria. Tali, importi, pertanto,
sarebbero stati ingiunti in violazione del sopra richiamato
principio costituzionale, in costanza di una norma di legge
(art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999) che non
predetermina alcun criterio, né alcun limite in ordine alla
discrezionalità dell'Amministrazione statale nel determinare
l'entità dell'importo dovuto. Del tutto inconferenti,
inoltre, sarebbero le argomentazioni del Ministero
concernenti la successione delle leggi nel tempo, rispetto
al dedotto vizio di violazione dell'art. 23 della
Costituzione.
In merito alle eccezioni ministeriali relative al secondo
motivo di diritto (riguardante l’attinenza al caso di specie
della citata sentenza del Tar Liguria), sottolinea, fra
l’altro, come il procedimento di "sanatoria" richieda
necessariamente l'istanza del privato. Simili considerazioni
vengono effettuate anche per quanto concerne i procedimenti
sanzionatori, avviati in seguito ad attività illecite di
singoli privati.
Nel ribadire quanto, nella sostanza, già dedotto nel ricorso
principale, con riferimento al terzo motivo di diritto,
evidenzia, in ordine al quarto motivo di doglianza, che il
Ministero ha omesso di contestarne il merito, peraltro,
introducendo ex post un apparato motivazionale teso a
dimostrare le modalità di determinazione della tariffa
applicata.
Considerato:
Il ricorso è infondato.
L’ente locale ricorrente, con articolate argomentazioni,
tenta di delimitare l’alveo di applicazione del comma 3-bis
dell’art. 64, D.Lgs. n. 300/1999, ai soli corrispettivi
dovuti per l'erogazione di servizi resi non nell'interesse
della collettività ma di singoli, escludendo quelli connessi
alle attività istituzionali dell'Agenzia, comprese quelle su
cui si controverte, concernenti la valutazione immobiliare e
tecnico-estimativa, ex artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001,
n. 380 e artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n.
16, necessaria ai fini della liquidazione delle sanzioni
pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero
dell'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per
l'accertamento di conformità.
Il fine dell’esclusione di queste tipologie di attività
dalla novella legislativa di cui all’art. 6 del D.L.
02.03.2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla Legge
26.04.2012, n. 44), che ha introdotto il citato comma 3-bis,
è quello di limitare l'onerosità degli interventi
dell'Agenzia alle sole ipotesi in cui l’attività sia
eseguita a favore di terzi privati, con il conseguente
trattamento gratuito delle richieste pervenute dalle altre
Amministrazioni dello Stato, trattandosi, in questo caso, di
attività resa in attuazione di obblighi istituzionali, che
imporrebbero il venir meno del presupposto impositivo.
A sostegno dell’impostazione ermeneutica formulata dal
ricorrente, quest’ultimo rammenta che, prima dell’intervento
normativo in parola, la stessa Agenzia aveva fornito
indicazione in tal senso nella citata nota prot. n. 27110
del 03.05.2011.
La necessità di circoscrivere l’ambito di applicazione della
citata norma deriverebbe da una lettura costituzionalmente
orientata della stessa, nel rispetto del principio della
riserva di legge ex art. 23 Costituzione, la cui osservanza
richiede, ad avviso del ricorrente, che siano almeno
predeterminati, in via legislativa, criteri idonei a
quantificare la misura della prestazione patrimoniale
imposta e a delimitare l'ambito della discrezionalità
dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità
dell'importo dovuto.
Il citato comma 3-bis, invece, non predeterminerebbe alcun
criterio, lasciando al potere discrezionale
dell’Amministrazione la possibilità di determinare
unilateralmente il livello di imposizione, il cui concreto
esercizio, sempre secondo il ragionamento della parte
ricorrente (vds. quarto motivo di diritto), ha fatto sì che
fosse impossibile commisurare la prestazione pecuniaria alla
quantità e qualità del servizio reso dall'Agenzia.
Il Collegio ritiene che la pretesa interpretazione
costituzionalmente orientata della norma in commento,
offerta dal ricorrente, e le connesse censure dedotte
avverso gli atti impugnati appaiono manifestamente
infondate, alla stregua di quanto già rilevato dalla stessa
Corte Costituzionale in diverse pronunce.
In particolare, non è in dubbio che le
prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate
(ex Agenzia del Territorio) possano annoverarsi nel genus
delle prestazioni patrimoniali imposte, soggette a riserva
relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione.
Trattasi di prestazioni che (analogamente
alle tariffe richieste da talune Amministrazioni per le
attività di consulenza e supporto tecnico nei confronti dei
privati e degli enti locali
– vds. nel senso sia la sentenza del TAR Liguria, Sez. I, n.
1076 del 07/07/2004, citata dal ricorrente, sia la sentenza
della Corte Costituzionale n. 180/1996, richiamata, a sua
volta, nella pronuncia del TAR ligure) sono
determinate con unilaterale atto autoritativo, alla cui
adozione non concorre la volontà della controparte, la quale
si limita ad avvalersi di un servizio normativamente
riservato alla mano pubblica e a corrispondere, in
contropartita, una predeterminata prestazione economica.
Come è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale,
la prestazione si qualifica come "obbligatoria"
quando questa è istituita da un atto di autorità
(sent. 08.07.1957, n. 122) a carico del
soggetto tenuto, senza che la volontà di questo vi abbia
concorso (sent.
27.06.1959, n. 36).
Con riferimento a tale elemento, è da rilevare, nella
giurisprudenza della Corte, un processo estensivo rispetto
alle fattispecie originariamente determinate, allorché
vennero annoverate tra le "prestazioni imposte" le
tariffe telefoniche.
Non ostano, secondo tale orientamento, alla inclusione nella
suddetta categoria, il carattere privatistico del rapporto
in cui la prestazione si inserisce, né la circostanza che la
richiesta del servizio (in esclusiva allo Stato) sia
correlata ad un atto privato. Quando si
tratta di un servizio "riservato alla mano pubblica"
e l'uso di esso "sia da considerare essenziale ai bisogni
della vita", la determinazione delle tariffe deve
assimilarsi ad una vera e propria imposizione patrimoniale.
La libertà di stipulare il contratto è
meramente formale, in quanto si riduce alla possibilità di
scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bisogno
essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi
unilateralmente e autoritativamente prefissati. In base a
questo indirizzo, il carattere unilaterale ed autoritario
della prestazione viene ad identificare come obbligatorie
anche le prestazioni su richiesta, quando esse siano
connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di
monopolio.
Sicché, quel che viene in considerazione
sotto il profilo costituzionale è solo la previsione, quale
corrispettivo del servizio stesso, di un prezzo imposto
(sent. 07-15.03.1994, n. 90), che, nel caso
di specie, è comprensivo dell’ammontare dei costi sostenuti
dall’Agenzia e che l’ente richiedente il servizio è chiamato
a rifondere.
Appurato il carattere di prestazione
obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti
dall'Agenzia",
è necessario verificare se tale parametro rispetti il
principio della riserva relativa di legge, la quale non
esige che la prestazione sia imposta "per legge" (da
cui risultino espressamente individuati tutti i presupposti
e gli elementi), ma richiede soltanto che essa sia istituita
"in base alla legge" (sentenze nn. 236 e 90 del 1994,
e n. 180/1996). Sicché, la norma costituzionale deve
ritenersi rispettata anche in assenza di un'espressa
indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli
sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità
della pubblica amministrazione, purché gli stessi siano
desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero
dalla composizione e dal funzionamento degli organi
competenti a determinarne la misura (sentenze n. 182/1994 e
n. 507/1988), secondo un modulo procedimentale idoneo ad
evitare possibili arbitrii.
Nel caso di specie, dalla citata norma
emergono non solo l'espressa compiuta identificazione dei
soggetti tenuti alla prestazione e dell'oggetto, nonché
dello scopo di questa, ma implicitamente anche quei limiti e
controlli sufficienti a impedire che il potere di
imposizione sconfini nell'arbitrio.
È vero, infatti, che la norma in esame prescrive “il
rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia”, la cui
determinazione, in via convenzionale, è rimessa dalla stessa
norma ad organi dell’Amministrazione, dotati di spiccata
competenza tecnica, che forniscono garanzia di oggettività
nella concreta determinazione dell'onere e di adeguata
ponderazione tecnica dei molteplici elementi implicati nella
valutazione. Quest’ultima presuppone che vengano
motivatamente considerati i costi complessivamente sostenuti
dall’Agenzia, restando, anche sotto tale profilo, soggetta
ai controlli, non escluso quello contabile.
In merito, è appena il caso di sottolineare che l'impugnata
Convenzione ministeriale, che si è occupata della
determinazione dei costi, è stata sottoposta al vaglio della
Corte dei Conti, prima di essere ritualmente registrata.
Alla luce di quanto sopra, deriva, quindi, che risulta
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla parte ricorrente, in ordine
alla pretesa violazione dell’art. 23 della Costituzione ad
opera dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999.
Per tali stessi motivi manifestamente infondato appare anche
il secondo ordine di censure e la conseguente questione di
costituzionalità.
Come evidenziato, non assume alcun rilievo,
ai fini dell’osservanza dell'art. 23 della Costituzione, la
circostanza che una norma imponga determinate prestazioni
economiche ad un privato o a un soggetto pubblico.
Ciò premesso, il ragionamento del ricorrente appare
contraddittorio nella parte in cui, con riferimento al
primo motivo di diritto insiste sull’attività
istituzionale dell’Agenzia in quanto svolta verso altro ente
pubblico nell’interesse della collettività, salvo poi
affermare che, laddove il pagamento dovesse intendersi
dovuto, l'eventuale costo della prestazione “dovrebbe al
più far carico unicamente allo stesso privato”,
contraddicendosi nuovamente nel momento in cui ammette che
tali valutazioni sono finalizzate, fra l’altro,
all’applicazione di sanzioni o quando si afferma che le
stesse incidono sulle risorse pubbliche a disposizione del
Comune, richiamando nuovamente la circostanza che l’attività
posta in essere dall’Agenzia è un’attività istituzionale
resa nell'interesse della collettività.
Del tutto fuorviante, appare quindi, l’asserita violazione
del principio della determinatezza della sanzione, poiché,
come osservato, a prescindere dal surrettizio e
contraddittorio ragionamento sviluppato dal ricorrente,
la menzionata pretesa economica ricade sull’ente e
non sul privato e non ha alcuna valenza sanzionatoria,
essendo chiaramente finalizzato al ristoro degli oneri
sopportati dall’Agenzia.
Con riferimento al terzo motivo di diritto, con il
quale il ricorrente si duole della circostanza che l'Agenzia
ha chiesto il rimborso dei costi senza aspettare che fossero
stipulati i prescritti accordi, è sufficiente constatare che
la citata norma rimette la determinazione dei costi da
rimborsare all'Agenzia alla Convenzione M.E.F. – Agenzia in
ragione dei servizi richiesti. Gli accordi, di cui viene
fatta menzione, sempre nella stessa norma, sono preordinati,
ai sensi dell’art. 15 della Legge n. 241/1990, a “disciplinare
lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse
comune”, che, pur rilevando nella fase attuativa, non
incidono sulla legittimità della pretesa economica in
ragione del presupposto individuato dalla norma.
Il fatto, poi, che la norma contempli espressamente la
necessità che si formalizzino tali intese tra l’Agenzia e
l’ente che richiede i servizi, contrariamente a quanto
sostiene il ricorrente nel quarto motivo, appare
proprio finalizzato a dare la massima attuazione al
principio di leale collaborazione tra enti.
Né tale principio può in qualche modo essere posto in
discussione in ordine alla determinazione del quantum
debeatur, atteso il principio dell’“obbligatorietà”
delle prestazioni patrimoniali imposte. Né, ancora, all’ente
impositore si richiede una particolare motivazione in ordine
alla quantificazione dell’importo da chiedere a rimborso,
essendo sufficiente, come dimostrato dal Ministero, che
siano stati compiutamente indicati i costi, che direttamente
o indirettamente hanno inciso per lo svolgimento delle
attività richieste.
Peraltro, l’importo richiesto a rimborso, nella fase
transitoria, ossia in attesa della stipula dei menzionati
accordi, non può essere giudicato irragionevolmente oneroso,
dal momento che l’Agenzia ha imposto ai propri uffici
territoriali una soglia massima commisurata al 50% della
sanzione.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba
essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 03.02.2016 n. 224 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
comune che, nell'esercizio della propria attività
istituzionale in materia edilizia, richiede alla competente
Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del
Territorio) le valutazioni degli incrementi del valore
venale degli immobili, al fine di poter procedere alla
liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli
abusi edilizi ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di
procedimenti per l'accertamento di conformità, è tenuto a
rifondere alla stessa i relativi costi sostenuti di perizia.
---------------
Non può il Comune validamente
sostenere che l’onerosità del servizio potrebbe recare un
eventuale depotenziamento dell'attività di controllo e
vigilanza degli Enti locali.
Si tratta, infatti, di considerazioni che attengono
all’opportunità politica delle scelte operate dal
legislatore, potendosi validamente sostenere anche il
contrario, ossia che la gratuità dei servizi in commento
comporterebbero il depotenziamento delle agenzie fiscali.
---------------
Ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica, proposto dal
COMUNE DI SANT’OLCESE, in persona del Sindaco pro-tempore
Sig. An.Ca., per l'annullamento delle note prot. n.
14343/2013/1991/2013 del 19/02/2013; prot. n. 2850.13 del
11/03/2013; prot. n. 2850/13/3842 del 03/04/2013; prot. n.
3842/13/6872 del 13/06/2013; prot. n. 2407/2013/2652-13;
prot. n. 2924/2013/3009; prot. n. 3841; prot. n.
5832/13/6890; e di ogni altro atto presupposto, connesso e/o
consequenziale, compresa in parte qua, della
Convenzione triennale per gli esercizi 2012-2014
sottoscritta il 30.07.2012 tra l'Agenzia delle Entrate ed il
Ministero dell'Economia e delle Finanze.
...
Premesso:
Il Comune di Sant’Olcese, nell'esercizio della propria
attività istituzionale in materia edilizia, richiede
ordinariamente alla competente Agenzia delle Entrate (quale
incorporante dell'Agenzia del Territorio, ex art. 23-quater
del D.L. 06.07.2012, n. 95, inserito dalla Legge di
conversione 07.08.2012, n. 135) le valutazioni degli
incrementi del valore venale degli immobili, al fine di
poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie
previste per gli abusi edilizi, ovvero l'oblazione dovuta
nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di
conformità.
Tale procedura è contemplata dagli artt. 33 e ss. del D.P.R
06.06.2001, n. 380, nonché dagli artt. 43 e ss. della L.R.
Liguria 06.06.2008, n. 16.
Con note di analogo contenuto, l’Ufficio Provinciale della
predetta Agenzia dava riscontro a diverse richieste
(riferite a distinti interventi edilizi), richiamando il
disposto del D.Lgs. 30.07.1999, n. 300, art. 64, comma 3-bis
(comma aggiunto dall'art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16,
convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44),
ai sensi del quale "…l'Agenzia del territorio è
competente a svolgere le attività di valutazione immobiliare
e tecnico-estimative richieste dalle Amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad esse
strumentali. Le predette attività sono disciplinate mediante
accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15 della
legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni. Tali
accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti
dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella
Convenzione di cui all'articolo 59" (Convenzione
triennale tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e
l'Agenzia).
Il suddetto Ufficio Provinciale comunicava, pertanto, la
necessità di procedere alla preliminare stipula di specifici
accordi (“protocolli d’intesa”) per il rimborso dei
costi sostenuti. A tali riscontri, il Comune di Genova, nel
considerare tale attività istruttoria una funzione
istituzionale obbligatoria, rappresentava all'Agenzia che un
simile comportamento ostruzionistico avrebbe potuto arrecare
gravi responsabilità per l'Ente locale.
Il menzionato Ufficio, con nota in data 02.04.2013,
comunicava al Comune che avrebbe, comunque, proceduto ad
espletare le attività valutative richieste, nelle more del
perfezionamento dell'accordo, ma sempre dietro
corresponsione di un rimborso dei costi, nel limite massimo
del 50% della sanzione. Tale comunicazione richiamava le
direttive in materia, emanate dalla competente Direzione
Centrale Osservatorio Mercato Immobiliare e Servizi
Estimativi dell’Agenzia delle Entrate.
Con successive note l'Agenzia ribadiva la propria posizione
per altre singole pratiche.
Contro i citati atti, come meglio individuati in epigrafe,
insorge il Comune di Genova, il quale affida il proprio
gravame ai seguenti motivi di diritto:
1. violazione e/o falsa applicazione del disposto dell'art. 64,
comma 3-bis, del D.Lgs. n. 300 del 1999; violazione
dell'art. 23 della Costituzione; violazione del principio di
riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali
imposte.
Il Comune ritiene che l’attività esercitata dall'Agenzia,
tesa a fornire aggiornate valutazioni immobiliari ai fini
dell'applicazione delle sanzioni pecuniarie per violazioni
edilizie o procedimenti di accertamento di conformità,
rientri nell’ambito delle funzioni istituzionali
attribuitele dalla legge (artt. 33 e ss. del D.P.R n.
380/2001 e corrispondenti norme regionali, artt. 43 e ss.
della Legge Regione Liguria n. 16 del 2008). Da tale
evidenza discenderebbe il carattere gratuito delle
prestazioni dovute in forza delle richiamate disposizioni,
come confermato, a suo tempo, dalla stessa Direzione
Centrale dell'Agenzia con nota prot. n. 27110 del
03.05.2011.
Il disposto di cui al citato comma 3-bis dell'art. 64 del
D.Lgs. n. 300/1999, deve, pertanto, "intendersi riferito
alle sole attività ulteriori rispetto a quelle,
istituzionali, già previste da anteriori disposizioni
normative… Diversamente, da un punto di vista
logico-sistematico la disposizione in questione risulterebbe
del tutto inutile. In secondo luogo, la previsione di legge
in esame non predetermina alcun criterio, né alcun limite o
controllo, idonei a circoscrivere l'ambito di
discrezionalità dell’Amministrazione statale nel commisurare
l'importo asseritamente dovuto e, ancor prima, la sfera di
applicazione della ritenuta onerosità delle prestazioni in
materia di valutazioni immobiliari. Ed anzi, la stessa
entità degli oneri ..., fissata in virtù di una semplice
convenzione tra Ministero dell’Economia e Agenzia del
Territorio, costituisce implicita dimostrazione
dell’assoluta discrezionalità -al limite dell’arbitrio- in
base alla quale l'imposizione in esame potrebbe essere
determinata".
Un'interpretazione costituzionalmente orientata della
suddetta previsione legislativa, dunque, determinerebbe la
necessità di limitarne l’applicazione alle sole ipotesi in
cui l’attività dell'Agenzia non sia resa in attuazione di
attività istituzionali, ma riguardi attività ulteriori, come
l'erogazione di specifici servizi resi non nell'interesse
della collettività ma di singoli. Solo per queste ultime
ipotesi, secondo il ricorrente, non opererebbe il principio
della "riserva di legge".
2. violazione dell'art. 97 della Costituzione; violazione del
principio di ragionevolezza dell'azione amministrativa;
eccesso di potere; contraddittorietà; manifesta esosità;
assenza di causa.
Le pretese avanzate dall’Agenzia delle Entrate
contrasterebbero con il principio di ragionevolezza, poiché
subordinano il rilascio di atti concernenti attività
istituzionali al previo pagamento di “indebite somme di
denaro”. Il Comune ricorrente richiama una pronuncia del
TAR Liguria (sentenza della Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004),
con la quale i giudici amministrativi si sono espressi in
materia di provvedimenti tariffari in relazione a
prestazioni rese dalla ASL nell'ambito di procedimenti di
competenza del Comune, resi nell'interesse di singoli o
della collettività.
Lamenta, inoltre, la "manifesta esosità" delle
pretese economiche, affermando come, "nonostante la loro
qualificazione in termini di mero rimborso-costi, la
consistenza degli importi richiesti da parte dell’Agenzia
-oltre 400 euro al giorno per persona- è tale da comportare
che detti emolumenti debbano necessariamente intendersi come
vere e proprie retribuzioni (per quanto eccessivamente
sproporzionate) dell'attività svolta".
3. Violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui all'art.
8, comma 1, del D.Lgs. n. 300 del 1999.
Il comportamento dell’Agenzia non sarebbe in linea con la
menzionata disposizione, ove si fa riferimento alle Agenzie
quali strutture che svolgono attività di interesse
nazionale, al servizio delle Amministrazioni pubbliche.
4. Violazione delle disposizioni in materia di vigilanza
urbanistica e di controllo dell'abusivismo edilizio.
Con tale motivo di impugnazione il Comune ricorrente lamenta
il fatto che sottoporre "ad oneri particolarmente gravosi
per le Amministrazioni comunali l'attività di irrogazione
delle sanzioni in materia di abusivismo edilizio ha come
riflesso immediato il depotenziamento - e lo svilimento -
dell'attività di controllo e vigilanza degli Enti locali".
Il Ministero ritiene il ricorso infondato nel merito.
Ritiene, in particolare, che l'intervento legislativo di cui
al D.L. n. 16/2012 (che ha aggiunto il comma 3-bis all’art.
64 del D.Lgs. n.300/1999) avrebbe una portata più ampia di
quella ritenuta dal ricorrente, il quale circoscrive
l'ambito di applicazione del menzionato comma 3-bis alle
sole attività "non rientranti nella normale attività
istituzionale dell'Agenzia". In realtà, la descritta
modifica normativa si inserisce nell’ambito di un più
generale intervento, che ha eliminato la possibilità per
l'Agenzia di effettuare attività estimative di natura "commerciale",
facendo salve le sole attività di valutazione immobiliare a
favore delle Amministrazioni dello Stato.
In tal senso, la normativa sopravvenuta si caratterizza per
il carattere di generalità con il quale ha inteso
regolamentare il settore, disciplinando in maniera uniforme
la materia oggetto di intervento, tanto che le nuove
competenze dell’Agenzia sono rivolte a tutte le pubbliche
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n.
165 del 2001. Nello stesso tempo, proprio il carattere
generale ed istituzionale della nuova previsione normativa
non esclude che, nel rapporto tra diverse norme succedutesi
nel tempo, possano essere considerate ancora in vigore
quelle che contemplino previsioni più specifiche, in ragione
del principio di specialità. Pertanto, continua il
Ministero, laddove previgenti norme espressamente dispongano
che le valutazioni estimative dell'Agenzia vengono svolte
gratuitamente, queste continueranno a dispiegare i propri
effetti (come accade, ad esempio, per le attività in favore
del concessionario della riscossione in relazione ai beni
oggetto di incanto). Con riferimento all'ipotesi di cui
trattasi, invece, non si rinvengono pregresse previsioni
normative, che espressamente prevedano la gratuità del
servizio.
Per quanto concerne gli asseriti profili di non conformità
della nuova normativa con i dettami costituzionali, viene
osservato come il principio di riserva di legge, di cui
all'art. 23 Costituzione, secondo cui la norma deve
contenere criteri e indicazioni per la determinazione
dell'imposizione, sarebbe rispettato, prevedendo che sia la
convenzione triennale con il M.E.F. a determinare il
rimborso dei costi. Peraltro, viene rammentato che
l'impugnata Convenzione ministeriale ha passato il vaglio
della Corte dei Conti, venendo regolarmente registrata in
data 19.09.2012.
Con riferimento al secondo ordine di censure, il
Ministero richiama i provvedimenti che hanno condotto
all’individuazione, in seno alla predetta Convezione, dei
criteri di determinazione dei costi da chiedere a rimborso.
Precisa, in merito, che la quantificazione dei costi è
effettuata sulla base di due fattori: il “costo standard
per giorno-uomo” e il numero di “giorni-uomo”
necessari per la prestazione.
In ordine a quest'ultimo fattore, la determinazione dipende
dal grado di complessità della valutazione e, per questo,
stabilita da ogni singolo Ufficio.
Il “costo standard per giorni-uomo” (fissato in euro
423,00) è stato, invece, determinato in sede convenzionale,
considerando le voci di costo che ragionevolmente sono
necessarie per garantire lo svolgimento "normale"
dell'attività. E’ stato, in particolare, valutato l’apporto
sia delle risorse umane, sia di quelle materiali e
immateriali (che il Ministero indica compiutamente nella
propria relazione), anche di quelle che incidono in maniera
indiretta, in ogni caso in ragione dell'inerenza di tali
voci alla produzione del servizio. Vengono, altresì,
spiegati i motivi per i quali è stata esclusa una serie di
ulteriori costi (di natura generale) che avrebbe
ragionevolmente fatto lievitare l’importo riferito al citato
costo standard.
Avuto riguardo al terzo motivo di diritto, il
Ministero giudica generica ed apodittica la doglianza
relativa alla presunta inosservanza del citato articolo 8.
Inoltre, rammenta come, nel sistema di riforma delineato dal
D.Lgs. n. 300/1999, alle agenzie fiscali è stata riservata
una disciplina specifica, nell’ambito della quale l’art. 10
dello stesso decreto legislativo prevede che "le agenzie
fiscali sono disciplinate, anche in deroga agli articoli 8 e
9, dalle disposizioni del Capo II del Titolo V del presente
decreto ...".
Infine, in ordine all’ultima censura, viene rilevato
“come l'attività di controllo e di vigilanza demandata
dall'ordinamento non possa subire depotenziamenti o
svilimenti a causa delle modalità fissate dal medesimo
ordinamento per giungere alla repressione degli illeciti ed
alla correlata irrogazione delle sanzioni”.
Considerato:
Il ricorso è infondato.
L’ente locale ricorrente tenta di delimitare l’alveo di
applicazione del comma 3-bis dell’art. 64, D.Lgs. n.
300/19999, ai soli corrispettivi dovuti per l'erogazione di
servizi resi non nell'interesse della collettività ma di
singoli, escludendo quelli connessi alle attività
istituzionali dell'Agenzia, comprese quelle su cui si
controverte, concernenti la valutazione immobiliare e
tecnico-estimativa, ex artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001,
n. 380 e artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n.
16, necessaria ai fini della liquidazione delle sanzioni
pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero
dell'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per
l'accertamento di conformità.
Il fine dell’esclusione di queste tipologie di attività
dalla novella legislativa di cui all’art. 6 del D.L.
02.03.2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla Legge
26.04.2012, n. 44), che ha introdotto il citato comma 3-bis,
è quello di limitare l'onerosità degli interventi
dell'Agenzia alle sole ipotesi in cui l’attività sia
eseguita a favore di terzi privati, con il conseguente
trattamento gratuito delle richieste pervenute dalle altre
Amministrazioni dello Stato, trattandosi, in questo caso, di
attività resa in attuazione di obblighi istituzionali, che
imporrebbero il venir meno del presupposto impositivo.
La necessità di circoscrivere l’ambito di applicazione della
citata norma deriverebbe da una lettura costituzionalmente
orientata della stessa, nel rispetto del principio della
riserva di legge ex art. 23 Costituzione, la cui osservanza
richiede, ad avviso del ricorrente, che siano almeno
predeterminati, in via legislativa, criteri idonei a
quantificare la misura della prestazione patrimoniale
imposta e a delimitare l'ambito della discrezionalità
dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità
dell'importo dovuto. Il citato comma 3-bis, invece, non
predeterminerebbe alcun criterio, lasciando al potere
discrezionale dell’Amministrazione la possibilità di
determinare unilateralmente il livello di imposizione, il
cui concreto esercizio, sempre secondo il ragionamento della
parte ricorrente (vds. quarto motivo di diritto), ha fatto
sì che fosse impossibile commisurare la prestazione
pecuniaria alla quantità e qualità del servizio reso
dall'Agenzia.
Il Collegio ritiene che la pretesa interpretazione
costituzionalmente orientata della norma in commento,
offerta dal ricorrente, e le connesse censure dedotte
avverso gli atti impugnati appaiono manifestamente
infondate, alla stregua di quanto già rilevato dalla stessa
Corte Costituzionale in diverse pronunce.
In particolare, non è in dubbio che le
prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate
(ex Agenzia del Territorio) possano annoverarsi nel genus
delle prestazioni patrimoniali imposte, soggette a riserva
relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione.
Trattasi di prestazioni che (analogamente alle tariffe
richieste da talune Amministrazioni per le attività di
consulenza e supporto tecnico nei confronti dei privati e
degli enti locali
– vds. nel senso sia la sentenza del TAR Liguria, Sez. I, n.
1076 del 07/07/2004, citata dal ricorrente, sia la sentenza
della Corte Costituzionale n. 180/1996, richiamata, a sua
volta, nella pronuncia del TAR ligure) sono
determinate con unilaterale atto autoritativo, alla cui
adozione non concorre la volontà della controparte, la quale
si limita ad avvalersi di un servizio normativamente
riservato alla mano pubblica e a corrispondere, in
contropartita, una predeterminata prestazione economica.
Come è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale,
la prestazione si qualifica come "obbligatoria",
quando questa è istituita da un atto di autorità
(sent. 08.07.1957, n. 122) a carico del
soggetto tenuto, senza che la volontà di questo vi abbia
concorso (sent.
27.06.1959, n. 36).
Con riferimento a tale elemento, è da rilevare, nella
giurisprudenza della Corte, un processo estensivo rispetto
alle fattispecie originariamente determinate, allorché
vennero annoverate tra le "prestazioni imposte" le
tariffe telefoniche.
Non ostano, secondo tale orientamento, alla inclusione nella
suddetta categoria, il carattere privatistico del rapporto
in cui la prestazione si inserisce, né la circostanza che la
richiesta del servizio (in esclusiva allo Stato) sia
correlata ad un atto privato. Quando si
tratta di un servizio "riservato alla mano pubblica"
e l'uso di esso "sia da considerare essenziale ai bisogni
della vita", la determinazione delle tariffe deve
assimilarsi ad una vera e propria imposizione patrimoniale.
La libertà di stipulare il contratto è
meramente formale, in quanto si riduce alla possibilità di
scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bisogno
essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi
unilateralmente e autoritativamente prefissati. In base a
questo indirizzo, il carattere unilaterale ed autoritario
della prestazione viene ad identificare come obbligatorie
anche le prestazioni su richiesta, quando esse siano
connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di
monopolio.
Sicché, quel che viene in considerazione
sotto il profilo costituzionale è solo la previsione, quale
corrispettivo del servizio stesso, di un prezzo imposto
(sent. 07-15.03.1994, n. 90), che, nel caso
di specie, è comprensivo dell’ammontare dei costi sostenuti
dall’Agenzia e che l’ente richiedente il servizio è chiamato
a rifondere.
Appurato il carattere di prestazione
obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti
dall'Agenzia",
è necessario verificare se tale parametro rispetti il
principio della riserva relativa di legge, la quale non
esige che la prestazione sia imposta "per legge" (da
cui risultino espressamente individuati tutti i presupposti
e gli elementi), ma richiede soltanto che essa sia istituita
"in base alla legge" (sentenze nn. 236 e 90 del 1994,
e n. 180/1996). Sicché, la norma costituzionale deve
ritenersi rispettata anche in assenza di un'espressa
indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli
sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità
della pubblica amministrazione, purché gli stessi siano
desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero
dalla composizione e dal funzionamento degli organi
competenti a determinarne la misura (sentenze n. 182/1994 e
n. 507/1988), secondo un modulo procedimentale idoneo ad
evitare possibili arbitrii.
Nel caso di specie, dalla citata norma
emergono, non solo l'espressa compiuta identificazione dei
soggetti tenuti alla prestazione e dell'oggetto, nonché
dello scopo di questa, ma implicitamente anche quei limiti e
controlli sufficienti a impedire che il potere di
imposizione sconfini nell'arbitrio.
È vero, infatti, che la norma in esame prescrive “il
rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia”, la cui
determinazione, in via convenzionale, è rimessa dalla stessa
norma ad organi dell’Amministrazione, dotati di spiccata
competenza tecnica, che forniscono garanzia di oggettività
nella concreta determinazione dell'onere e di adeguata
ponderazione tecnica dei molteplici elementi implicati nella
valutazione. Quest’ultima presuppone che vengano
motivatamente considerati i costi complessivamente sostenuti
dall’Agenzia, restando, anche sotto tale profilo, soggetta
ai controlli, non escluso quello contabile.
In merito, è appena il caso di sottolineare che l'impugnata
Convenzione ministeriale, che si è occupata della
determinazione dei costi, è stata sottoposta al vaglio della
Corte dei Conti, prima di essere ritualmente registrata.
Per tali stessi motivi manifestamente infondato appare anche
il secondo ordine di censure, non essendo richiesto all’ente
impositore una particolare motivazione in ordine alla
quantificazione dell’importo a rimborso, essendo
sufficiente, come dimostrato dal Ministero, che siano stati
compiutamente indicati i costi, che direttamente o
indirettamente hanno inciso per lo svolgimento delle
attività richieste.
Peraltro, l’importo a rimborso, nella fase transitoria,
ossia in attesa della stipula dei menzionati accordi, non
può essere giudicato irragionevolmente oneroso, dal momento
che l’Agenzia ha imposto ai propri uffici territoriali una
soglia massima commisurata al 50% della sanzione.
Assolutamente infondate appaiono il terzo e quarto
motivo di diritto.
In particolare, l'art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 300/1999,
ritenuto essere stato asseritamente violato, può, invero,
essere derogato per espressa previsione dell’art. 10, ove è
specificato che “le agenzie fiscali sono disciplinate,
anche in deroga agli articoli 8 e 9, dalle disposizioni del
Capo II del Titolo V del presente decreto legislativo ed
alla loro istituzione si provvede secondo le modalità e nei
termini ivi previsti”.
Con riferimento all’ultimo motivo di diritto,
non può il Comune validamente sostenere che
l’onerosità del servizio potrebbe recare un eventuale
depotenziamento dell'attività di controllo e vigilanza degli
Enti locali.
Si tratta, infatti, di considerazioni che attengono
all’opportunità politica delle scelte operate dal
legislatore, potendosi validamente
sostenere anche il contrario, ossia che la gratuità dei
servizi in commento comporterebbero il depotenziamento delle
agenzie fiscali.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba
essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 03.02.2016 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
QUINDI?? |
Quindi, si possono trarre due certezze sulla
quaestio juris qui in disamina e cioè:
1) le
spese conseguenti alle richieste comunali alla
competente Agenzia delle Entrate
(quale incorporante dell'Agenzia del Territorio)
circa le valutazioni degli incrementi del valore
venale degli immobili, al fine di poter procedere
alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste
per gli abusi edilizi ovvero
l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per
l'accertamento di conformità,
sono in capo
all'Amministrazione comunale stessa;
2) appurato il carattere di prestazione obbligatoria
del "rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia",
la
menzionata pretesa economica ricade sull’ente e non
sul privato
la quale non ha alcuna valenza sanzionatoria,
essendo chiaramente finalizzata al ristoro degli
oneri sopportati dall’Agenzia.
Sicché, ignorando i suddetti pronunciamenti giurisprudenziali, sono
destituite di fondamento le tesi (contrarie)
prospettate:
a) dal sito www.entionline.it, nella propria
circolare 02.09.2016 -di aggiornamento Area
Tecnica-, laddove -dopo aver concluso la
dissertazione- così recita: "In
definitiva, la risoluzione del contrasto tra
l'Agenzia delle entrate ed il Comune va risolta a
favore della Agenzia delle entrate, con
pagamento del rimborso in applicazione dei citati
artt. 64, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n.
300/1999 e 1372 c.c., e del principio di leale
collaborazione da pubbliche amministrazioni. Il
pagamento va effettuato secondo le modalità previste
nell'accordo-convenzione, a seguito dell'effettivo
svolgimento dell'attività estimativa, e nell'importo
previsto in convenzione, indipendentemente dalla
acquisizione, in atti, delle pezze giustificative."-
si sostiene quanto segue: "Ciò
premesso, il “contraccolpo” negativo derivante da
tale risoluzione del contrasto è costituito dalla
minore entrata da sanzioni di cui il Comune può
beneficiare, che può essere neutralizzata dal Comune
ponendo a carico dell'autore dell'abuso i costi
dell'attività estimativa svolta dall'Agenzia delle
Entrate, non potendo tale costo rimanere
accollato al Comune medesimo, posto che si tratta di
una conseguenza diretta ed immediata derivante
dall'illecito edilizio, in quanto tale imputabile
all'autore dell'illecito medesimo. In altri termini,
l'importo del rimborso va addebitato al
richiedente la sanatoria edilizia unitamente alla
sanzione pecuniaria. In tal modo, il Comune
consegue, non attraverso un contenzioso con
l'Agenzia che sarebbe in contrasto con le
disposizioni in precedenza citate e con il principio
di leale collaborazione, ma direttamente attraverso
la propria attività amministrativa, l'obiettivo di
beneficiare, in misura integrale, delle entrante
derivanti dalle sanzioni pecuniarie per gli abusi
edilizi.";
b) dal sito http://portale.ancitel.it, riscontrando
al quesito di un comune, laddove nella propria
risposta 03.09.2016, in primis, si
afferma che "...l’Agenzia
delle Entrate territorialmente competente è
legittimata a chiedere che le attività peritali
d’interesse siano oggetto di appositi accordi
(convenzione, protocollo d’intesa, ecc.).
L’organo tecnico individuato dalla stessa legge,
se pure in un ambito istituzionale di collaborazione
tra enti pubblici, è quindi autorizzato a
richiedere il rimborso dei costi (effettivamente)
sostenuti per lo svolgimento dell’attività peritale
richiestagli" concludendo, tuttavia,
che "Per
quanto concerne infine la possibilità di trasferire
sul soggetto che ha commesso l’abuso anche il costo
della perizia, chi scrive ritiene che tutto ciò
sia praticabile a condizione che in sede di
richiesta di sanatoria, lo stesso soggetto dichiari
espressamente di volersi accollare, in aggiunta alle
eventuali spese contrattuali e a quella della
sanzione pecuniaria inflitta, anche l’onere
economico, già convenzionalmente definito con
l’Agenzia delle Entrate territorialmente competente,
per lo svolgimento dell'attività di valutazione
immobiliare del proprio immobile. Sotto il
profilo contabile, il Comune incamererà ed impegnerà
questa specifica somma sull’apposito capitolo di
spesa "Spese anticipate per conto di altri”,
evidenziato ciò al solo fine di ripristinare il
corretto "modus operandi" sicché gli
operatori dell'UTC non debbano trovarsi a
risponderne in prima persona trascinati in cause di
giustizia.
11.10.2016 - LA SEGRETERIA PTPL |
|
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
CdS sconfessa il TAR-BS circa il corretto modus
procedendi per la quantificazione della sanzione
ex art. 167 dlgs 42/2004.
Il
calcolo della sanzione, computata sul valore di
quella parte dell’immobile oggetto dell'intervento
(così come evidenziato nella relazione allegata al
provvedimento impugnato in primo grado), non pare
corrispondere al criterio legislativo (art. 167,
comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42) fissato nel
maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione.
Detto altrimenti, nel caso di accertata
compatibilità paesaggistica (art. 167 dlgs 42/2004),
il "profitto conseguito" non corrisponde
all’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare
ottenuto violando le regole che tutelano il bene
vincolato.
---------------
... per la riforma dell'ordinanza
cautelare 23.05.2016 n. 376 del TAR
Lombardia, sezione staccata di Brescia, resa tra le
parti, concernente pagamento di una sanzione
pecuniaria a seguito di accertamento di
compatibilità paesistica.
...
Considerato che il calcolo della sanzione, computata
sul valore di quella parte dell’immobile oggetto
dell'intervento (così come evidenziato nella
relazione allegata al provvedimento impugnato in
primo grado), non pare corrispondere al criterio
legislativo (art. 167, comma 5, del d.lgs.
22.01.2004, n. 42) fissato nel maggiore importo tra
il danno arrecato e il profitto conseguito mediante
la trasgressione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta) accoglie l'appello (ricorso numero:
5818/2016) e, per l'effetto, in riforma
dell'ordinanza impugnata, accoglie l'istanza
cautelare in primo grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente
ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita
fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art.
55, comma 10, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
ordinanza 30.09.2016 n. 4285 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167
D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi
art. 164 D.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che
l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a
vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno),
che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un
danno ambientale.
---------------
E’ stata più volte affermata la pacifica applicabilità anche
a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della
l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le
somme dovute per le violazioni amministrative punite con
pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal
giorno in cui è stata commessa la violazione”.
Disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso
dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con
sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in
sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n.
689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in
materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con
sanzione pecuniaria.
---------------
Quanto all'individuazione del dies a quo della decorrenza
della prescrizione, occorre tener conto della particolare
natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e
paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di
opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni,
hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la
commissione degli illeciti medesimi viene meno solo con il
cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il
conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
Pertanto, si è ritenuto che “…il principio di autonomia
delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica)
deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria
dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà
sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma
non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla
permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente
individuazione del dies a quo nel momento in cui viene
eliminata la violazione con l’emissione degli atti di
sanatoria”.
Sotto tale specifico profilo, va comunque rilevato che il
C.G.A., con sentenza n. 123 del 13.03.2014, ha modificato il
proprio precedente indirizzo, ritenendo preferibile
l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione
deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa
cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio
osservato … e cioè quello della intervenuta concessione
edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione
di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e
territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità
che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”;
cosicché “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione
della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a
quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il
momento della intervenuta concessione edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
deve ritenersi ormai consolidata, posto che, dopo la
sentenza di segno contrario n. 143/2014, lo stesso CGA si è
nuovamente espresso in senso favorevole all’applicazione del
termine prescrizionale, con decorrenza dalla concessione
edilizia in sanatoria e non dalla data di irrogazione della
sanzione.
---------------
... per l'annullamento del D.D.S. n. 819 del 24.03.2015,
emesso dalla Regione Siciliana, Dipartimento Beni Culturali
e dell'Identità Siciliana Servizio Tutela, notificato il
29.05.2015 , a mezzo del servizio postale , per il pagamento
della somma di € 7.247,58 a titolo di INDENNITA' Pecuniaria
ex. art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, come sostituito dall'art. 27
del dlgs n. 157/2006, nonché di tutti gli atti a tale
comunque preliminari, connessi, coordinati e conseguenti.
...
C. - Il ricorso merita accoglimento, essendo fondata
l’eccezione di prescrizione sollevata dal ricorrente ai
sensi dell’art. 28 l. n. 689/1981.
Ed infatti, per ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 (già art. 15
l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 D.lgs. n. 490/1999)
va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi
edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce
vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di
risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla
sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Cons.
St., VI, 28.07.2006, n. 4690 e 03.04.2003, n. 1729; sez. IV,
15.11.2004, n. 7405 e 12.11.2002, n. 6279).
Nel caso di specie, poi, con nulla osta prot. prot. 7285 del
07/08/1997 (allegato n. 1 della produzione dell’Avvocatura
erariale), la Soprintendenza di Messina aveva dichiarato che
le opere realizzate arrecavano danno, se pur lieve, alle
valenze paesaggistiche dell’area protetta.
D. - E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa
Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del
principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981,
secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per
le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione”; disposizione,
quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo,
a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative
pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una
sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche
agli illeciti amministrativi in materia urbanistica,
edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (vd.
TAR Palermo, I, 23.10.2015, n. 2645; Id, 02.04.2015, n. 812;
23.07.2014, n. 1942 e 13.05.2013, n. 1098; vd. anche TAR
Reggio Calabria, 21.04.2015, n. 395; TAR Napoli, VI,
13.02.2015, n. 1092).
E. - Quanto all'individuazione del dies a quo della
decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della
particolare natura degli illeciti in materia urbanistica,
edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella
realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e
autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti,
sicché la commissione degli illeciti medesimi viene meno
solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a
dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni (vd.
Cons. St., VI, 12.03.2009, n. 1464).
Pertanto -pur dandosi atto del diverso orientamento assunto
in precedenza dal C.G.A. secondo il quale “…la permanenza
cessa o con l’eliminazione dell’opera abusiva; o, in
alternativa, con il pagamento della sanzione pecuniaria”
(vd. C.G.A., 13.09.2011, n. 554)- si è ritenuto che “…il
principio di autonomia delle due tipologie di violazioni
(edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato
precedente, deve essere inteso nel senso che l’intervenuta
sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la
potestà sanzionatoria per la diversa violazione
paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna
incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con
conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui
viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di
sanatoria” (cfr. TAR Sicilia, n. 2645/2015 e n.
1098/2013 cit.).
Sotto tale specifico profilo, va comunque rilevato che il
C.G.A., con sentenza n. 123 del 13.03.2014, confermando la
sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo
all’orientamento espresso sia dal Consiglio di Stato
(decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni
riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha
modificato il proprio precedente indirizzo, ritenendo
preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine
in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto
che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento
edilizio osservato … e cioè quello della intervenuta
concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove
ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti
urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la
permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua
realizzazione”; cosicché “…appare conforme ad una più
attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare
assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione
qui in discussione il momento della intervenuta concessione
edilizia…” .
Questa più recente esegesi del giudice d’appello siciliano
(ma così anche il Consiglio di Stato in sede consultiva: in
termini, tra le tante, da ultimo Cons. St., II, n. 2091/2015
e data 16/07/2015), deve ritenersi ormai consolidata, posto
che, dopo la sentenza di segno contrario n. 143/2014, cui si
richiama in memoria la difesa dell’Amministrazione, lo
stesso CGA si è nuovamente espresso in senso favorevole
all’applicazione del termine prescrizionale, con decorrenza
dalla concessione edilizia in sanatoria e non dalla data di
irrogazione della sanzione (cfr. parere n. 1000/2015 del
19.10.2015).
F. - Accolto e riaffermato il superiore principio
interpretativo, non rimane che prendere atto che nella
vicenda in esame la cessazione della permanenza
dell’illecito si è verificata in data 12.01.2004, allorché è
stata rilasciata al ricorrente la concessione edilizia in
sanatoria n. 1/2004, sicché la prescrizione dell’illecito
era già maturata quando col decreto D.D.S. n. 819 del
24/03/2015, qui impugnato, è stata irrogata la sanzione ex
art. 167 D.lgs. n. 42/2004.
Né può rilevare, in contrario, la clausola contenuta nel
nullaosta del 1997, dato che nella fattispecie il Comune ha
rilasciato formale concessione edilizia nel 2004, così
determinando la data di cessazione dell'illecito e dunque la
decorrenza del termine prescrizionale. Per altro, nel caso
in esame è pure documentata in atti la nota del 14/12/2005
con cui è stata data comunicazione, tanto al Comune quanto
alla soprintendenza di Messina, della ultimazione dei lavori
di cui alla concessione edilizia in sanatoria n. 1/2004 e
N.O. della Soprintendenza n. 7285 del 07/08/1997.
G. - Il decreto è, dunque, illegittimo secondo quando
dedotto con il secondo motivo del ricorso in trattazione.
Per le suesposte considerazioni, il ricorso, assorbito
quant’altro, va accolto con conseguente annullamento del
D.D.S. n. 819 del 24/03/2015 adottato dal Dipartimento
regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana,
Servizio Tutela, fatte salve le prescrizioni di cui all’art.
2 dello stesso decreto (che richiama e rinvia alle
prescrizioni impartite).
Il Collegio, avuto riguardo ai peculiari profili della
controversia e alle sopra indicate oscillazioni
giurisprudenziali, ancora presenti nel momento di adozione
dell’atto impugnato, oltre che al vantaggio conseguito dalla
parte ricorrente per l’acclarata prescrizione del credito
vantato dalla P.A., ritiene doversi compensare tra le parti
le spese di giudizio
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 28.09.2016 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’area
di intervento (Parco Lombardo della Valle del Ticino), è
pacificamente sottoposta sia alle norme di cui alla L. n.
394/1991 recante “Legge quadro sulle aree protette”, sia a
quelle di cui al D.lgs. n. 42/2004 “Codice dei beni
culturali e del paesaggio”, ai sensi dell’art. 10 della
legge 06.07.2002, n. 137.
Nello specifico, l’art. 13 della L. 394/1991 dispone che il
rilascio di concessioni o autorizzazioni per interventi,
impianti ed opere all’interno del parco debba essere
sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco,
verificata la conformità tra l’intervento richiesto e le
disposizioni del piano per il parco, avente il preciso scopo
di perseguire la tutela dei valori naturali ed ambientali
nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali (art.
12, legge n. 394/1991).
La prescrizione è confermata dalla L.R. Lombardia
11.03.2005, n. 12, ove all’art. 80, comma 5, si stabilisce
che le funzioni amministrative per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, nei territori compresi
all’interno dei perimetri dei parchi regionali, siano
esercitate dagli enti gestori dei parchi.
Inoltre, in materia si è costantemente pronunziata la
giurisprudenza, rilevando che “per la realizzazione di
interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi
nazionali, regionali, riserve naturali) occorrono tre
distinti autonomi provvedimenti: la concessione
edilizia, l’autorizzazione paesaggistica e, ove
necessario, il nulla osta dell’ente parco. Questi
ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da
legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a
compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la
loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio”.
Analogamente, anche questa Sezione ha statuito che “spetta
in via autonoma all’Ente Parco … ai sensi dell’art. 13 della
L. n. 394/1991 … di verificare la conformità dell’intervento
edilizio alle disposizioni del piano per il parco ed al
proprio regolamento” nonché “di reagire avvalendosi della
potestà all’uopo conferitagli dall’art. 6, comma 6, della L.
06.12.1991 n. 394, alla realizzazione di opere realizzate
senza la preventiva autorizzazione dell’ente medesimo e
senza il permesso di costruire … e dunque in violazione
della normativa finalizzata alla tutela dell’area protetta”.
Tale orientamento è stato, da ultimo, recentissimamente
confermato (parere n. 1905/2016, reso nella medesima
adunanza dell’08.06.2016), osservando come l’impianto della
l. 394/1991 sia chiaramente rivolto a tutelare alcune
porzioni di territorio, in quanto “aree protette”, per il
loro particolare interesse naturalistico, ambientale o
storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi, ambienti
e porzioni di paesaggio di rilievo tale da richiedere un
intervento istituzionale anche per salvaguardare gli habitat
naturali e garantire, quindi, la conservazione della
biodiversità animale e vegetale, spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente
coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene
rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del
vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost.. Né la
giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che
il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione
paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla
competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di
interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento,
dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la
necessità del nulla osta dell’Ente parco.
Di contro, le Regioni, in collaborazione con le
Soprintendenze per i beni culturali, tenute al rilascio del
parere vincolante di cui all’art. 167, comma 5, del Codice,
“sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio,
approvando piani paesaggistici, ovvero piani
urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei
valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio
regionale […]” (art. 135 Codice dei beni culturali e del
paesaggio).
I piani paesaggistici, oltre a definire specifiche misure
per il “mantenimento delle caratteristiche, degli elementi
costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti a tutela
…”, individuano le “linee di sviluppo urbanistico ed
edilizio compatibili con il principio del minor consumo del
territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio
paesaggistico di ciascun ambito”.
Di talché, si ritiene che il rapporto tra i diversi piani,
sulla cui base sono espressi i pareri delle competenti
autorità pianificatrici, debba essere propriamente
considerato in termini di competenza e non di gerarchia.
Ciascuno di essi si occupa della cura di uno specifico
interesse, concorrendo a determinare cumulativamente il
regime di utilizzazione di una determinata porzione di
suolo.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dall’azienda agricola Da Ro. Pa., in persona della
medesima titolare e legale rappresentante pro tempore,
contro Consorzio Parco Lombardo della Valle del Ticino, per
l’annullamento del provvedimento di diniego di accertamento
della compatibilità paesaggistica prot. n. 580/12 del
18.01.2012, per la realizzazione di un ampliamento di un
edificio agricolo in difformità all’autorizzazione
paesaggistica prot. n. 645 – 12839/96 del 20.12.2006,
sull’area sita in Comune di Mezzanino (PV), Cascina Venesia;
della comunicazione resa ai sensi dell’art. 10-bis della L.
241/1990 prot. n. 11663/11 – 149/4211/11/CP/ID/ER del
24.10.2011; del verbale della commissione per il paesaggio
n. 25 del 18.10.2011; del rapporto di servizio del Settore
Vigilanza del 19.09.2011; nonché di ogni altro atto
presupposto, connesso e conseguenziale;
...
Considerato.
Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce
dell’infondatezza delle censure dedotte e constatata la
piena legittimità e correttezza dell’operato
dell’Amministrazione.
In primis, si rileva come la contestata mancanza di
verifica in loco dei presupposti di legge per l’emissione
del provvedimento impugnato sia irrilevante nel caso che ci
occupa, ove l’accertamento è avvenuto sulla base del
contenuto della documentazione (cfr. allegati alla relazione
ministeriale), con la quale gli enti preposti hanno
accertato quali fossero le opere realizzate in assenza di
titolo abilitativo, nonché quelle poste in essere in totale
difformità rispetto all’autorizzazione paesaggistica prot.
n. 645 – 12839/06 del 20.12.2006 ed al permesso di costruire
rilasciato il 15.02.2007.
Infatti, solo in conseguenza di tale accertamento e tenuto
altresì conto dell’avvenuto cambio di destinazione d’uso di
uno degli immobili individuati sul mappale n. 681, foglio 8,
del Comune di Mezzanino – località Cascina Venesia, l’Ente
Parco ha provveduto ad adottare gli atti di propria
competenza nell’ambito del procedimento paesaggistico di cui
al D.lgs. n. 42/2004, conclusosi con l’emissione di
provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi prot. n.
5684/2012.
In particolare, all’esito dei numerosi sopralluoghi eseguiti
dal competente personale tecnico e di vigilanza del Comune
di Mezzanino e del Parco del Ticino, è stato accertato il
mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da agricolo a
ristorante–agriturismo.
Come ben evidenziato nel definitivo provvedimento
sanzionatorio paesaggistico (ordinanza di ripristino dello
stato dei luoghi ai sensi dell’art. 167 del d.lgs.
22.01.2004, n. 42) “[…] è di tutta evidenza, a seguito
dei molteplici sopralluoghi eseguiti dagli organi tecnici e
da quelli di vigilanza del Comune di Mezzanino e del Parco
del Ticino … che l’ampliamento del fabbricato, di cui
all’Autorizzazione Paesaggistica n. 645 – 12839706 del
20/12/2006, originariamente richiesto “da utilizzare per il
ricovero dei mezzi agricoli”- “chiuso su tre lati, mentre
sul lato sud è prevista una grossa apertura per garantire un
facile accesso ai macchinari agricoli” (testualmente dalla
Relazione Tecnica, Allegato C, all’originaria richiesta di
Autorizzazione Paesaggistica) successivamente AL CONTRARIO
il fabbricato in ampliamento è stato sostanzialmente
modificato, in grave e palese contrasto con l’autorizzazione
paesaggistica ricevuta nel 2006, con interventi che non solo
sono in contrasto con la originaria destinazione agricola
ma, inoltre, hanno comportato aumento di volumetria e
superficie utile […]”.
In relazione al parere favorevole espresso dalla
Soprintendenza di settore, ed al presunto contrasto con il
provvedimento di diniego emesso dall’Ente Parco, si osserva
quanto segue.
In primo luogo, l’area di intervento (Parco Lombardo della
Valle del Ticino), è pacificamente sottoposta sia alle norme
di cui alla L. n. 394/1991 recante “Legge quadro sulle
aree protette”, sia a quelle di cui al D.lgs. n. 42/2004
“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ai sensi
dell’art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137.
Nello specifico, l’art. 13 della L. 394/1991 dispone che il
rilascio di concessioni o autorizzazioni per interventi,
impianti ed opere all’interno del parco debba essere
sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente Parco,
verificata la conformità tra l’intervento richiesto e le
disposizioni del piano per il parco, avente il preciso scopo
di perseguire la tutela dei valori naturali ed ambientali
nonché storici, culturali, antropologici, tradizionali (art.
12, legge n. 394/1991).
La prescrizione è confermata dalla L.R. Lombardia
11.03.2005, n. 12, ove all’art. 80, comma 5, si stabilisce
che le funzioni amministrative per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, nei territori compresi
all’interno dei perimetri dei parchi regionali, siano
esercitate dagli enti gestori dei parchi.
Inoltre, in materia si è costantemente pronunziata la
giurisprudenza, rilevando che “per la realizzazione di
interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi
nazionali, regionali, riserve naturali) occorrono tre
distinti autonomi provvedimenti: la concessione
edilizia, l’autorizzazione paesaggistica e, ove
necessario, il nulla osta dell’ente parco. Questi
ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da
legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a
compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la
loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio” (Cass. Pen., III, 12.05.2003, n. 20738,
in senso conforme n. 12917/1998 e n. 9138/2000).
Analogamente, anche questa Sezione (parere Sez. II n.
4093/2010 reso il 24.11.2010), ha statuito che “spetta in
via autonoma all’Ente Parco … ai sensi dell’art. 13 della L.
n. 394/1991 … di verificare la conformità dell’intervento
edilizio alle disposizioni del piano per il parco ed al
proprio regolamento” nonché “di reagire avvalendosi
della potestà all’uopo conferitagli dall’art. 6, comma 6,
della L. 06.12.1991 n. 394, alla realizzazione di opere
realizzate senza la preventiva autorizzazione dell’ente
medesimo e senza il permesso di costruire … e dunque in
violazione della normativa finalizzata alla tutela dell’area
protetta”.
Tale orientamento è stato, da ultimo, recentissimamente
confermato (parere n. 1905/2016, reso nella medesima
adunanza dell’08.06.2016), osservando come l’impianto della
l. 394/1991 sia chiaramente rivolto a tutelare alcune
porzioni di territorio, in quanto “aree protette”,
per il loro particolare interesse naturalistico, ambientale
o storico-culturale. Aree che contengono ecosistemi,
ambienti e porzioni di paesaggio di rilievo tale da
richiedere un intervento istituzionale anche per
salvaguardare gli habitat naturali e garantire, quindi, la
conservazione della biodiversità animale e vegetale, spesso
minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente
coesistono interessi diversi e la disciplina unitaria viene
rimessa alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi del
vigente art. 117, comma 2, lett. s), Cost.. Né la
giurisprudenza amministrativa è titubante nell’affermare che
il nulla osta dell’Ente parco e l’autorizzazione
paesaggistica siano atti diversi e concorrenti, rimessi alla
competenza di autorità diverse, deputate alla tutela di
interessi solo in parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato annullamento,
dell’autorizzazione paesaggistica non fa venir meno la
necessità del nulla osta dell’Ente parco.
Di contro, le Regioni, in collaborazione con le
Soprintendenze per i beni culturali, tenute al rilascio del
parere vincolante di cui all’art. 167, comma 5, del Codice,
“sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio,
approvando piani paesaggistici, ovvero piani
urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei
valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio
regionale […]” (art. 135 Codice dei beni culturali e del
paesaggio).
I piani paesaggistici, oltre a definire specifiche misure
per il “mantenimento delle caratteristiche, degli
elementi costitutivi e delle morfologie dei beni sottoposti
a tutela …”, individuano le “linee di sviluppo
urbanistico ed edilizio compatibili con il principio del
minor consumo del territorio, e comunque tali da non
diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito”.
Di talché, si ritiene che il rapporto tra i diversi piani,
sulla cui base sono espressi i pareri delle competenti
autorità pianificatrici, debba essere propriamente
considerato in termini di competenza e non di gerarchia.
Ciascuno di essi si occupa della cura di uno specifico
interesse, concorrendo a determinare cumulativamente il
regime di utilizzazione di una determinata porzione di
suolo.
Orbene, alla luce di quanto suddetto, emerge come il parere
espresso dall’Ente Parco sia solo in apparente contrasto con
quello della Soprintendenza.
Invero, pur irritualmente, la Soprintendenza ha inteso
compiere direttamente una valutazione di merito, rimettendo
all’Ente Parco la preventiva valutazione circa
l’ammissibilità degli interventi alla procedura di
accertamento di compatibilità ex post, ed anzi
subordinando agli esiti di detto giudizio l’efficacia della
propria favorevole valutazione.
Correttamente, del resto, nel parere di cui alla nota prot.
n. 8432 del 06.09.2011, la Soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici di Milano si esprime
favorevolmente ai sensi degli artt. 167 e 181 del D.lgs.
42/2004 citato, “per quanto di competenza … fatta salva
la verifica dell’ammissibilità dell’istanza da parte
dell’autorità competente”.
Il ricorso, per tutto quanto sopra esposto, non può essere
accolto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 14.09.2016 n. 1908 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' notoria la ben differente natura
giuridica dei due provvedimenti, ovvero
autorizzazione paesaggistica e nulla osta
dell’Ente parco, in relazione ai quali non è
consentita l’assimilazione.
Invero, l’autorizzazione paesaggistica
attiene alla tutela del paesaggio in senso stretto,
mentre il nulla osta dell’Ente parco tutela
un sistema di valori più vasto e complesso,
identificato, come da art. 12, comma 1, l. 394/1991
(e succ. mod.), nella “tutela dei valori naturali ed
ambientali, nonché storici, culturali,
antropologici, tradizionali”.
In tale contesto, dunque, possono trovare spazio le
valutazioni negative di ordine anche paesaggistico
espresse nel provvedimento impugnato, in cui ci si
sofferma, infatti, sul diffuso fenomeno
dell’erosione del paesaggio agrario campano, e sulle
rilevanti ripercussioni che tale fenomeno crea sulla
conservazione dell’ambiente naturale.
L’impianto della l. 394/1991 è chiaramente rivolto a
tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto
“aree protette”, per il loro particolare interesse
naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree
che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di
paesaggio di rilievo tale da richiedere un
intervento istituzionale anche per salvaguardare gli
habitat naturali e garantire, quindi, la
conservazione della biodiversità animale e vegetale,
spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente
coesistono interessi diversi e la disciplina
unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello
Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett.
s), Cost..
Né la giurisprudenza amministrativa è titubante
nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e
l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e
concorrenti, rimessi alla competenza di autorità
diverse, deputate alla tutela di interessi solo in
parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato
annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non
fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente
parco, come accaduto nel caso di specie.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal Sig. Gi.Na. contro l’Ente Parco
Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, in persona
del legale rappresentante p.t., per l’annullamento
del provvedimento prot. n. 6949 del 14.05.2009, con
il quale l’Ente Parco ha respinto l’istanza di
autorizzazione presentata dal ricorrente per la
realizzazione di un fabbricato rurale nel Comune di
Castellabate, in località Valle, nonché di ogni
altro atto o provvedimento presupposto, connesso e
conseguente, se ed in quanto lesivo per gli
interessi del ricorrente medesimo.
...
Sulla base, soprattutto, degli ultimi elementi
acquisiti, emerge chiaramente, infatti, che è vero
che la competente Soprintendenza abbia emesso un
parere favorevole ex art. 159, comma 3, d.lgs.
42/2004, ma tale circostanza non può rilevare in
maniera decisiva rispetto al caso di specie, attesa
la ben differente natura giuridica dei due
provvedimenti, ovvero autorizzazione
paesaggistica e nulla osta dell’Ente parco,
in relazione ai quali non è dunque consentita
l’assimilazione.
Come ricorda l’Amministrazione, l’autorizzazione
paesaggistica attiene alla tutela del paesaggio
in senso stretto, mentre il nulla osta dell’Ente
parco tutela un sistema di valori più vasto e
complesso, identificato, come da art. 12, comma 1,
l. 394/1991 (e succ. mod.), nella “tutela dei
valori naturali ed ambientali, nonché storici,
culturali, antropologici, tradizionali”.
In tale contesto, dunque, possono trovare spazio le
valutazioni negative di ordine anche paesaggistico
espresse nel provvedimento impugnato, in cui ci si
sofferma, infatti, sul diffuso fenomeno
dell’erosione del paesaggio agrario campano, e sulle
rilevanti ripercussioni che tale fenomeno crea sulla
conservazione dell’ambiente naturale.
L’impianto della l. 394/1991 è chiaramente rivolto a
tutelare alcune porzioni di territorio, in quanto “aree
protette”, per il loro particolare interesse
naturalistico, ambientale o storico-culturale. Aree
che contengono ecosistemi, ambienti e porzioni di
paesaggio di rilievo tale da richiedere un
intervento istituzionale anche per salvaguardare gli
habitat naturali e garantire, quindi, la
conservazione della biodiversità animale e vegetale,
spesso minacciata.
Non a caso nell’ambito del bene giuridico ambiente
coesistono interessi diversi e la disciplina
unitaria viene rimessa alla potestà esclusiva dello
Stato, ai sensi del vigente art. 117, comma 2, lett.
s), Cost..
Né la giurisprudenza amministrativa è titubante
nell’affermare che il nulla osta dell’Ente parco e
l’autorizzazione paesaggistica siano atti diversi e
concorrenti, rimessi alla competenza di autorità
diverse, deputate alla tutela di interessi solo in
parte coincidenti.
Ne deriva che il rilascio, ed il mancato
annullamento, dell’autorizzazione paesaggistica non
fa venir meno la necessità del nulla osta dell’Ente
parco, come accaduto nel caso di specie.
In ogni caso, va altresì evidenziato, in punto di
fatto, che sebbene la Soprintendenza abbia espresso
nella fattispecie, in punto di valutazione di
stretta legittimità, parere favorevole (in realtà
trattasi di formalizzato mancato esercizio del
potere di annullamento dell’autorizzazione
comunale), sull’intervento in argomento, al contempo
essa ha evidenziato una serie di anomalie rispetto
alla realizzazione del fabbricato rurale proposto,
tanto da richiedere all’Ufficio tecnico comunale
appositi pregnanti accertamenti e stringenti ed
incisive verifiche, con riguardo in particolare al
dimensionamento del fabbricato rurale in relazione
alle effettive esigenze di coltivazione.
E va considerato anche che l’intervento previsto
ricadeva in zona in cui l’approvando Piano del parco
avrebbe consentito un siffatto intervento edilizio
solo in funzione degli usi agricoli, agrituristici e
residenziali dell’imprenditore agricolo, e comunque
nei limiti delle esigenze adeguatamente dimostrate.
Tutti elementi carenti nel caso in questione.
La previsione di una tale forma di tutela per l’area
oggetto dell’intervento va certamente a consolidare
le valutazioni espresse dall’Ente parco circa la
particolare valenza ambientale del sito.
Rammentato ciò, va ribadito anche, come da
consolidato orientamento, che l’Ente parco ha la
possibilità di denegare il proprio nulla-osta di
pertinenza prescindendo dalla preventiva definitiva
approvazione del Piano del parco.
Alla stregua di tutto quanto sopra riportato, non
ravvisandosi altri vizi rilevanti ai fini del
decidere, nemmeno per quanto attiene all’istruttoria
ed ai profili motivazionali del provvedimento
impugnato, difettando le censure dedotte dei
necessari presupposti di consistenza, il ricorso può
essere in definitiva respinto (Consiglio
di Stato, Sez. II,
parere 14.09.2016 n. 1905 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
non compatibilità paesaggistica circa l'abusiva
realizzazione di:
piscina; volumi, definiti come locali termici; sistemazioni
esterne.
La questione riferita alla sanabilità paesaggistica postuma
dei volumi tecnici è irrilevante rispetto al caso di specie,
in cui viene in rilievo una piscina esterna ed i collegati
vani tecnici (oltre che la sistemazione a verde esterna, del
pari servente alla medesima) non potendo, ad avviso del
Collegio, la piscina di cui è causa e dunque le relative
opere accessorie essere annoverate fra i volumi tecnici per
il fondamentale rilievo che <<"la nozione di 'volume
tecnico”, non computabile nella volumetria ai fini in
questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo">>, laddove, ad avviso del Collegio la piscina
esterna non può considerarsi come strettamente connessa alle
esigenze tecnico funzionali della struttura alberghiera ed è
in grado di esprimere una propria autonomia funzionale (si
pensi al fatto che molte strutture alberghiere consentono
l’accesso a pagamento alla piscina anche a persone non
rientranti nella clientela dell’hotel).
Ciò senza sottacere tra l’altro di considerare che come già
ritenuto da questa Sezione “tutti gli elementi strutturali
concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano
essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi
ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile
come pertinenza in senso urbanistico in ragione della
funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a
quella propria dell'edificio al quale accede” e ferma
restando la vexata e ancora non risolta questione della
sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici (fra i
quali ad avviso della Sezione non rientrano le piscine
esterne, sia pure con volume interrato) richiama il seguente
principio di portata generalizzante in materia: “…la Sezione
richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata
giurisprudenza, per la quale -come si desume dall’articolo
167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo
paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come
per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono
realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio
della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia
riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una
propria rilevanza paesaggistica per le opere da
realizzare.”.
----------------
... per l'annullamento della nota prot. n. 14826 del
17.09.2015, notificata il 22.09.2015, recante il parere di
non compatibilità paesaggistica relativo alla domanda di
permesso a costruire in sanatoria assunto al protocollo
comunale n. 49133 dell'08.10.2010, riguardante la
realizzazione, in assenza di titolo edilizio, presso la
struttura ricettiva Hotel E. sita in C/mare di Stabia alla
via ... n. 12 sull'area catastalmente identificata al foglio
15 - p.11a 64, di una piscina interrata, locali tecnici,
sistemazione a verde dell'area esterna e diversa
distribuzione degli spazi interni dell'ultimo livello del
predetto Hotel; nonché di ogni altro provvedimento
preordinato, connesso e consequenziale comunque lesivo degli
interessi del ricorrente.
...
9. Il ricorso è infondato, nel senso di seguito precisato.
10. Parte ricorrente lamenta l’illegittimità del gravato
parere soprintendizio per violazione del combinato disposto
degli artt. 147 e 167, comma 4, D.lgs. 42/2004, deducendo
che i volumi tecnici e la piscina interrata di cui è causa
sfuggirebbero al divieto di sanatoria paesaggistica postuma
recato da tali norme, non rientrando nel concetto di volume
e superficie utile posto come profilo ostativo dalle
medesime.
10.1 A sostegno dei propri assunti richiama, oltre a una
nutrita giurisprudenza, tra cui anche la sentenza di questa
Sezione n. 2763/2013, che si era pronunciata in ordine alle
medesime opere di cui è causa nel contenzioso con il Comune,
avente ad oggetto il diniego di istanza di accertamento di
conformità di cui all’art. 36 D.P.R. 380/2001, la Circolare
del Mibac n. 33 del 2009 che esclude dal concetto di volume,
rilevante in senso ostativo ai sensi del richiamato art.
167, comma 4, Dlgs. 42/2004, i volumi tecnici.
10.2. Va peraltro chiarito come la richiamata sentenza di
questa Sezione n. 2763/2013, pur avendo ad oggetto le
medesime opere di cui è causa, non possa avere rilevanza
diretta nell’odierno contenzioso, in quanto riferita non
alla sanatoria paesaggistica, ma a quella urbanistica di cui
all’art. 36 D.P.R. 380/2001 e al relativo atto di diniego
comunale, fondato sul distinto profilo del contrasto dei
medesimi interventi con le previsioni urbanistiche, sulla
base peraltro di un errata considerazione della loro
collocazione in una determinata zona di PRG.
E’ pur vero che nella medesima sentenza si afferma la
sanabilità di tali opere anche da un punto di vista
paesaggistico postumo ex art. 167 Dlgs. 42/2004, ma trattasi
di affermazione incidenter tantum in quanto relativa
ad un profilo non oggetto di disamina ad opera dell’atto
impugnato e dunque di annullamento ad opera dell’indicata
sentenza, nonché di affermazione comunque intervenuta in un
contenzioso in cui non è stata parte la Soprintendenza per i
Beni ambientali e che pertanto non può assumere alcuna
rilevanza diretta nell’odierna sede, come già evidenziato
dalla Sezione in sede cautelare, posto che il giudicato si
forma solo inter partes.
11. Giova preliminarmente precisare che il gravato parere
soprintendizio, pur non recando alcuna specifica motivazione
in ordine all’insanabilità delle sistemazioni esterne
diverse dalla realizzazione dei volumi tecnici e della
piscina interrata, sia riferito anche a tali sistemazioni
esterne, stante il loro carattere di accessorietà rispetto
alle citate opere considerate quale “nuova costruzione”
essendo motivato sulla base di questi rilievi:
“CONSTATATO che si chiede sanatoria ex art. 167 del D.Lvo
42/2004 per le seguenti opere:
cambio di destinazione d'uso dell'ultimo piano:
realizzazione di piscina;
realizzazione di volumi, definiti come locali termici;
sistemazioni esterne;
RICORDATO che l'art. 167 al comma 4 prevede l'accertamento
di compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dell'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica;
c) per lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
PRECISATO che le opere di sistemazione interna per cambio di
destinazione d'uso non rilevano ai fini paesaggistici;
SI ESPRIME parere di non compatibilità paesaggistica posto
che sia la piscina, in quanto nuova costruzione, sia i
volumi realizzati ex novo, non rientrano nei casi dai citato
comma 4 dell'art. 167. Di conseguenza le opere di
sistemazione esterna conseguenziali alle suddette nuove
costruzioni non possono essere assentite”.
Deve pertanto ritenersi che la sistemazione a verde
dell’area esterna, pur non rientrante nel concetto di nuova
costruzione, invocato dalla Soprintendenza quale profilo
ostativo all’applicabilità della sanatoria paesaggistica
postuma, e pur non essendo inclusa fra le opere di
sistemazione interna per cambio di destinazione d’uso,
considerate per contro irrilevanti da un punto di vista
paesaggistico dalla Soprintendenza, sia del pari esclusa
dalle opere suscettibili di sanatoria paesaggistica postuma,
in quanto consequenziale (rectius accessoria) alle
suddette nuove costruzioni.
12. In ordine a tale profilo motivazionale peraltro parte
ricorrente non ha sollevato alcuna autonoma censura, con la
conseguenza inattaccabilità in parte qua del gravato
parere soprintendizio, avversato solo nella parte relativa
all’insanabilità dei locali tecnici e della piscina
interrata, con la conseguenza che la sorte del gravato
parere in parte qua non potrà che essere relazionata a
quella delle distinte tipologie di “nuove costruzioni”
(locali tecnici da un lato e piscina interrata dall’altro)
rispetto alle quali le aree a verde si presentano
accessorie.
13. Giova peraltro precisare come da una attenta disamina
dell’istanza di accertamento di conformità (avente ad
oggetto le medesime opere di cui all’istanza di sanatoria
paesaggistica oggetto del gravato parere soprintendizio) si
evinca come i locali tecnici oggetto della medesima e siti
nella corte della struttura alberghiera non siano serventi
rispetto alla struttura alberghiera autonomamente
considerata (essendo i relativi locali tecnici siti nel
piano seminterrato), ma rispetto alla piscina interrata, del
pari oggetto dell’istanza di accertamento di conformità e
del gravato atto soprintendizio, trattandosi di locali
tecnici per gruppo elettrogeno, serbatoio di accumulo acqua
e pompa antincendio nonché di pannelli sandwich (locali
tecnici adibiti a gruppo elettrogeno, riserva idrica,
autoclave e aspiratore).
L’accessorietà di tali locali tecnici rispetto alla piscina
si evince peraltro dallo stesso posizionamento dei medesimi
nelle vicinanza della piscina, come desumibile dal quadro
d’insieme prodotto in allegato all’istanza di accertamento
di conformità.
14. Ciò posto, in riferimento alla problematica della
sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici il
Collegio non ignora come già in passato presso i giudici di
prime cure si siano fronteggiati due distinti orientamenti
giurisprudenziali, ovvero un orientamento di segno negativo
(fra le prime pronunce TAR Umbria sentenza n. 388 del
29.11.2011), fondato sulla irrilevanza a fini paesaggistici
di concetti quali “volume tecnico” e “superficie
utile” ed uno favorevole (ex multis TAR
Campania-Salerno, 25.06.2013, n. 1429) pure in passato
seguito dalla Sezione (ex multis sentenza n. 3381 del
12/07/2012 con richiamo ai precedenti della Sezione TAR
Campania Napoli Sez. VII, Sent., 10.05.2012, n. 2173, TAR
Campania Napoli Sez. VII, n. 27380/2010; 6827/2009;
1748/2009) fondato sul presupposto dell’esclusione dei
volumi tecnici dal divieto di cui all’art. 167 Dlgs.
42/2004, sulla base del presupposto che i volumi tecnici,
proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono,
siano inidonei ad introdurre un impatto sul territorio
eccedente la costruzione principale e, come tali, siano
ininfluenti ai fini del calcolo degli indici di
edificabilità.
Ne conseguirebbe, in tale ultima prospettiva, che la stessa
ratio che in materia urbanistica ha indotto ad
escludere i volumi tecnici del calcolo della volumetria
edificabile dovrebbe valere anche in materia paesistica per
sottrarre tali volumi dal divieto di rilasciare
l’autorizzazione paesistica in sanatoria (in senso conforme
a tale orientamento tra le altre TAR Campania, Napoli, Sez.
IV, 21.09.2010, n. 17491, che peraltro ha escluso dagli
interventi assentiti ex post quelli comportanti
sostanziali modifiche della sagoma e traslazione
dell’immobile, in quanto incidenti sul contesto vincolato e
TAR Emilia Romagna, Parma, 15.09.2010, n. 435, secondo cui
peraltro non si configura come volume tecnico l’aumento
dell’altezza del sottotetto non giustificato da esigenze
funzionali).
14.1. La Sezione peraltro successivamente, preso atto del
contrario e prevalente orientamento alla tutela alla
sanatoria paesaggistica postuma dei volumi tecnici e
interrati, espresso in particolare dal giudice di “seconde
cure”, cui si è fatto riferimento in sede cautelare,
secondo il quale il divieto di incremento di volumi
esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude
qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di
volume, senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico ed altro tipo di volume ovvero tra volume in
superficie e volume interrato (in termini cfr. Cons. Stato,
sez. VI n. 4348 del 02.09.2013; Sez. VI, n. 4114 del
06/08/2013; sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; cfr., inoltre,
Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110; sez. IV,
11.05.2005, n. 2388; Tar Puglia, Lecce, TAR Lecce Puglia
sez. I n. 218 del 23.01.2014) ha mutato il proprio
orientamento giurisprudenziale (ex multis tra le
prime pronunce in tal senso sent. n. 5981 del 23.12.2013
fondata sul rilievo che “Per la consolidata
giurisprudenza del Consiglio di Stato infatti -come si
desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice-
hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e
seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di
sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il
comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica
quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura),
così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le
opere da realizzare".
“Pertanto, per tali volumi (e per le relative superfici)
si applicano i divieti di realizzare nuove opere (divieti
disposti per l’area in questione dal Piano paesaggistico)
ovvero, in loro assenza, l’autorità statale competente può
valutare se la modifica dello stato dei luoghi abbia una
negativa incidenza dei valori paesaggistici coinvolti“
(cfr. in tal senso la sentenza citata del Consiglio di Stato
sez. VI, n. 4503 del 2013)”.
14.2. Non ignora peraltro il Collegio come il Consiglio di
Stato (cfr. sentt. Consiglio di Stato sez. VI n. 1945/2016
riferita alla realizzazione di un abbaino nel sottotetto;
Consiglio di Sato sez. III n. 1613/2016 riferita alla
realizzazione di box prefabbricati; Consiglio di Stato sez.
VI, n. 5932 del 2014 riferita alla realizzazione, in
difformità dal permesso di costruire relativo alla
apposizione di un ascensore condominiale, di un torrino,
funzionale a consentire il prolungamento della corsa sino
all'ultimo piano) più di recente abbia sposato la tesi
favorevole alla sanabilità paesaggistica dei volumi tecnici,
già in passato seguita dalla Sezione, sulla base del rilievo
che “nei casi in cui l’opera nuova rientra nella nozione
del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di
autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale
rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a
pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba
valutare la compatibilità dell’intervento con i valori
paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter
opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta
valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e
nuovi volumi”.
In tale prospettiva il Supremo Consesso ha pertanto ritenuto
che “Non può dunque essere condiviso l’assunto
dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile
corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della
tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume
tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di
concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito
normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del
paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a
quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare
una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare
un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni
tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici”
a seconda della loro diversa applicazione nel campo
urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni
modificazione alla realtà preesistente determina “di per
sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del
paesaggio, non è suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono
specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via
esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei
lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m.
02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991;
art. 6 d.m. 05.08.1994), dove la superficie utile (SU)
coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile
(superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di
murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e
finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi)
mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti
dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine,
locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze,
balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi
vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della
superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani
per le relative altezze effettive misurate da pavimento a
pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si
riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che
hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente
essenziale, in relazione all’uso della costruzione
principale, senza assumere il carattere di vani chiusi
utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di
Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di
‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini
in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo”.
Quindi "non può essere ipotizzato -nella locuzione
“superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini
atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per
giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta
preclusione normativa rispetto a una valutazione che va
invece ragionevolmente espressa in funzione della
essenzialità dell’abbaìno di che trattasi, in modo da porlo
in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche
alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo
giudizio di compatibilità paesaggistica, rispetto al
contesto paesaggistico tutelato” (in tal senso Consiglio
di Stato sez. VI n. 1945/2016 cit.).
14.3. Non può peraltro sottacersi che il Consiglio di Stato
anche di recente abbia aderito al diverso orientamento
giurisprudenziale, da ultimo sposato dalla Sezione
(Consiglio di Stato sez. VI n. 3289/2015 di riforma della
Sentenza di questa Sezione n. n. 6827/2009 riferita alla
realizzazione dell’innalzamento per circa 90 cm del torrino
ascensore e del solaio di copertura, necessario per il
rispetto di norme tecniche, secondo la quale “il vigente
art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del
paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in
sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi
natura (anche ‘interrati'): il divieto di incremento dei
volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio,
si riferisce infatti a qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia possibile
distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia
esso interrato o meno. Tale preclusione, all’evidenza, vale
tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, i nuovi
volumi siano del tutto esterni.
Del resto, avvalora questa conclusione la stessa lettera
della norma in discorso che, nel consentire l’accertamento
postumo della compatibilità paesaggistica, si riferisce
esclusivamente ai “lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”: non è
quindi consentito all’interprete ampliare la portata di tale
norma, che costituisce eccezione al principio generale delle
necessità del previo assenso codificato dal precedente art.
146, per ammettere fattispecie letteralmente, e senza
distinzione alcune, escluse”).
15. Peraltro il Collegio, pur prendendo atto dei contrari
orientamenti giurisprudenziali, sussistenti anche
all’interno della medesima Sezione del Consiglio di Stato,
riferita alla questione della sanabilità paesaggistica ex
post dei volumi tecnici a seconda del loro inserimento o
meno nel raggio di azione ostativo della previsione di cui
all’art. 167, comma 4, Dlgs. cit., riferito alla
realizzazione di nuovi volumi, ritiene che la questione sia
irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene in
questione, come innanzi precisato, la sanatoria
paesaggistica ex post di una piscina esterna (sia
pure con volume completamente interrato) e di vani tecnici
posti a servizio della medesima piscina, come è dato
evincere dall’istanza di autorizzazione in sanatoria ex art.
36 D.P.R. 380/2001 prodotta in atti.
Parte ricorrente, cui peraltro incombeva il relativo onere
di allegazione, prima ancora che probatorio, non ha inoltre
dedotto, come era suo onere, che i vani tecnici di cui è
causa fossero a servizio della struttura principale
dell’albergo e non, come è dato evincere dall’istanza di
sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001, della piscina di cui è
causa.
15.1. Ritiene pertanto il Collegio che la questione riferita
alla sanabilità paesaggistica postuma dei volumi tecnici sia
dunque irrilevante rispetto al caso di specie, in cui viene
in rilievo (giova ribadirlo) una piscina esterna ed i
collegati vani tecnici (oltre che la sistemazione a verde
esterna, del pari servente alla medesima) non potendo ad
avviso del Collegio, la piscina di cui è causa e dunque le
relative opere accessorie essere annoverate fra i volumi
tecnici per il fondamentale rilievo che come innanzi
accennato (cfr., Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), <<"la
nozione di 'volume tecnico”, non computabile nella
volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera
priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo
potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di
impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa,
come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa-
quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici
interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno
di carico territoriale o di impatto visivo">>, laddove,
ad avviso del Collegio la piscina esterna non può
considerarsi come strettamente connessa alle esigenze
tecnico funzionali della struttura alberghiera ed è in grado
di esprimere una propria autonomia funzionale (si pensi al
fatto che molte strutture alberghiere consentono l’accesso a
pagamento alla piscina anche a persone non rientranti nella
clientela dell’hotel).
In questa prospettiva risulta irrilevante anche il richiamo
alla Circolare MIBAC n. 33/2009 invocata da parte
ricorrente.
15.2. Ciò senza sottacere tra l’altro di considerare che
come già ritenuto da questa Sezione con orientamento che qui
si ribadisce (Tar Campania/Napoli - sez. VII - nr. 2088 del
21.04.2009; TAR Campania, Napoli, sez. VII n. 1 del
07/01/2014) “tutti gli elementi strutturali concorrono al
computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati
o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la
piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in
senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è
in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio
al quale accede” e ferma restando la vexata e
ancora non risolta questione della sanabilità paesaggistica
postuma dei volumi tecnici (fra i quali ad avviso della
Sezione non rientrano le piscine esterne, sia pure con
volume interrato) richiama il seguente principio di portata
generalizzante in materia (CdS sez. VI – sent. nr. 4503
dell’11.09.2013 cit): “…la Sezione richiama e ribadisce
in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la
quale -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del
medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi
interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile
il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo
(perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria
paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di
qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza
paesaggistica per le opere da realizzare.”.
16. Il ricorso va dunque rigettato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 06.09.2016 n. 4172 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa ha chiarito che, ai
sensi dell’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n.
42/2004, la sanabilità dell’opera sotto l’aspetto
paesaggistico è esclusa in presenza di qualsiasi
incremento volumetrico, indifferentemente dalla
connotazione dello stesso in termini di volume
tecnico ed, altresì, dalla circostanza che si tratti
di un volume interrato.
In particolare, è stato affermato che: “Il vigente
art. 167, comma 4, del codice dei beni culturali e
del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni
in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi
di qualsiasi natura (anche ’interrati'). Il divieto
di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini
di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi
nuova edificazione comportante creazione di volume,
senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o
meno”.
Tale esegesi della norma si mostra corrispondente
alla finalità di preservazione, posta alla base
della tutela paesaggistica, dovendosi pertanto
ricomprendere nel suo ambito ogni creazione di nuovo
volume (oppure l’aumento di quelli assentiti, come
precisato dall’art. 167 citato), che determina la
compromissione del valore tutelato, attraverso la
realizzazione di nuovi ingombri in zona ove è
vietata l’edificazione.
Peraltro, non sfugge che parte della giurisprudenza,
anche di questo Tribunale, ha considerato
ammissibile la compatibilità paesaggistica per i
volumi tecnici.
In relazione a ciò, è tuttavia necessario precisare
(alla luce di quanto chiarito in giurisprudenza) che
ricorre la nozione di volume tecnico, suscettibile
di accertamento di compatibilità paesaggistica, solo
allorquando manchi una qualsivoglia autonomia
funzionale e si rinvenga l’esclusiva destinazione ad
ospitare impianti occorrenti alla funzionalità
dell’edificio:
- “Occorre osservare che la nozione di ‘volume tecnico', non
computabile nella volumetria ai fini in questione,
corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché
è destinata a solo contenere, senza possibilità di
alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi
di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali della medesima. In
sostanza, si tratta di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in
alcun modo ubicati all'interno di questa, come
possono essere —e sempre in difetto
dell'alternativa— quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione
senza generare aumento alcuno di carico territoriale
o di impatto visivo”;
- “Secondo una consolidata giurisprudenza, per l'identificazione
della nozione di volume tecnico rilevano tre
parametri: il primo, positivo e di tipo funzionale,
costituito dall'esistenza di un rapporto di
strumentalità necessaria tra il manufatto e
l'utilizzo della costruzione a cui accede; il
secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un
lato all'impossibilità di soluzioni progettuali
diverse, nel senso che tali costruzioni non devono
poter essere ubicate all'interno della parte
abitativa, e dall'altro, ad un rapporto di
necessaria proporzionalità fra tali volumi e le
esigenze effettivamente presenti. Pertanto rientrano
in tale nozione solo le opere edilizie completamente
prive di una propria autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa”.
---------------
Il d.lgs. n. 42/2004, nell’assegnare alla
Soprintendenza il potere di valutare la rispondenza
dell’opera edilizia alla normativa paesaggistica,
configura l’esercizio di un potere autonomo cosicché
non può predicarsi alcun obbligo di esaminare e
confutare le motivazioni assunte dalla Commissione
Edilizia Integrata comunale e la conclusione a cui
la stessa era giunta nell’apporre condizioni.
---------------
Il procedimento che ha condotto al diniego di
sanatoria (ex art. 167) è ad istanza di parte
(essendo stato attivato dall’interessato con la
presentazione della domanda di accertamento di
conformità), cosicché è escluso l’obbligo della
comunicazione di avvio ed altresì, stante il suo
carattere vincolato, il diniego conseguente al
parere negativo della Soprintendenza non è
invalidato dall’omissione del preavviso ex art.
10-bis della legge n. 241/1990.
Per altro verso, l’intervento dell’Autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico si colloca
all’interno dello stesso procedimento ed è regolato
dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, che non
prefigura alcun obbligo di preventiva comunicazione.
---------------
... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) dell’atto prot. n. 26301 del
07/12/2010 con cui la Soprintendenza ha espresso
parere contrario ai fini della compatibilità
paesaggistica, per le opere oggetto di permesso di
costruire in sanatoria; nonché di tutti gli atti
preordinati, consequenziali o comunque connessi;
- (quanto ai motivi aggiunti) della disposizione
prot. n. 1617 del 17/02/2011 con cui il Caposettore
Tecnico del Comune di Boscotrecase ha rigettato la
richiesta di permesso di costruire in sanatoria;
nonché di ogni altro atto preordinato, conseguente o
comunque connesso, in quanto lesivo.
...
2.- Si può quindi passare all’esame del ricorso e
dei motivi aggiunti.
2.1- Con le censure rivolte con il ricorso al parere
negativo della Soprintendenza si sostiene che:
- le opere riguardano esclusivamente la
realizzazione di un box auto, per la maggior parte
interrato ed insuscettibile di produrre nuove
volumetrie (come si ricava dall’avviso favorevole
della Commissione locale per il paesaggio);
- va altresì considerata la disciplina dettata in
tema di parcheggi pertinenziali, assoggettati alle
disposizioni della legge n. 122/1989 e della L.R. n.
19/2001 (che escludono la costituzione di nuovi
volumi, ammettendo la costruzione di parcheggi e box
auto in deroga agli strumenti urbanistici vigenti);
- la Soprintendenza ha omesso ogni considerazione
sulle motivazioni che avevano indotto il Comune di
Boscotrecase al rilascio dell’autorizzazione, senza
valutare il percorso logico-giuridico condotto
(essendo suscettibili di accertamento di
compatibilità paesaggistica le opere che non
incidono sul vincolo, quali soppalchi, volumi
interrati e volumi tecnici);
- il parere negativo richiama contraddittoriamente
un giudizio di incompatibilità espresso ben 28 anni
prima.
2.2- Con i motivi aggiunti avverso il rigetto del
permesso di costruire è denunciata l’illegittimità
derivata del provvedimento, ribadendo e deducendo
inoltre che:
- le opere di cui è stata chiesta la sanatoria non
hanno determinato creazione di superfici utili o
volumi maggiori di quelli autorizzati (trattandosi
per lo più di irrilevanti modifiche della sagoma del
fabbricato e di lievissimi incrementi
planovolumetrici, non computabili perché di
carattere meramente accessorio, quali locali tecnici
e box pertinenziale, peraltro realizzato in uno
spazio in buona parte interrato, già assentito con
il nulla osta relativo alla concessione edilizia n.
17/1972);
- anche in ragione della modestissima entità delle
difformità, si imponeva all’Amministrazione di
valutare l’irrilevanza dei presunti incrementi
planovolumetrici, sotto il profilo dei carichi
urbanistici e, soprattutto, dal punto di vista
paesaggistico;
- la Soprintendenza aveva del tutto omesso di
verificare se le opere rientrino nelle ipotesi di
deroga previste dall’art. 167, quarto comma, del
d.lgs. n. 42/2004, come da valutazione effettuata
dalla Commissione Edilizia Integrata all’esito di
approfondite indagini;
- il parere deve riferirsi al contrasto con il
vincolo alla data attuale e non può fondarsi
sull’ipotizzato contrasto con la situazione dei
luoghi di quaranta anni addietro, senza alcun
riferimento ai grafici di progetto, alla
documentazione inviata dal Comune, alla relazione
illustrativa del competente organo e al parere
espresso dalla C.E.I.;
- manca nel provvedimento del Soprintendente
qualsiasi verifica sulla possibilità di interventi
che rendano l’abuso conforme al dettato normativo
(come ravvisato dalla Commissione comunale nel
parere favorevole del 27/04/2010);
- non sono state assicurate le garanzie
partecipative e non è stato formulato il preavviso
di diniego.
3.- Tanto premesso, va osservato che, nel proprio
parere, la Soprintendenza ha ritenuto che “la
richiesta di sanatoria contrasta palesemente con
quanto previsto dall'art. 167, comma 4, lett. a),
[d.lgs. n. 42 del 2004], dove viene enunciato che
l'autorità amministrativa competente può accertare
la compatibilità paesaggistica solo allorquando "i
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, (...) non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati"”.
L’opposta tesi dei ricorrenti fa leva sulla
considerazione secondo cui nella specie non è
configurabile la realizzazione di nuovi volumi, in
quanto:
- il box auto è in maggior parte interrato ed è
stato ricavato in uno spazio esistente;
- parimenti, le modifiche alla sagoma del fabbricato
e gli incrementi planovolumetrici non sono
computabili ai fini della compatibilità
paesaggistica, poiché di carattere meramente
accessorio.
La tesi non può essere condivisa.
La giurisprudenza amministrativa, condivisa dal
Collegio, ha infatti chiarito che, ai sensi
dell’art. 167, quarto comma, del d.lgs. n. 42/2004,
la sanabilità dell’opera sotto l’aspetto
paesaggistico è esclusa in presenza di qualsiasi
incremento volumetrico, indifferentemente dalla
connotazione dello stesso in termini di volume
tecnico ed, altresì, dalla circostanza che si tratti
di un volume interrato.
In particolare, è stato affermato che: “Il
vigente art. 167, comma 4, del codice dei beni
culturali e del paesaggio preclude il rilascio di
autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati
realizzati volumi di qualsiasi natura (anche
’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi
esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio,
si riferisce a qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico e altro
tipo di volume, sia esso interrato o meno”
(Cons. Stato, sez. VI, 02/07/2015 n. 3289).
Tale esegesi della norma si mostra corrispondente
alla finalità di preservazione, posta alla base
della tutela paesaggistica, dovendosi pertanto
ricomprendere nel suo ambito ogni creazione di nuovo
volume (oppure l’aumento di quelli assentiti, come
precisato dall’art. 167 citato), che determina la
compromissione del valore tutelato, attraverso la
realizzazione di nuovi ingombri in zona ove è
vietata l’edificazione.
Peraltro, non sfugge che parte della giurisprudenza,
anche di questo Tribunale, ha considerato
ammissibile la compatibilità paesaggistica per i
volumi tecnici (cfr. TAR Campania, sez. VII,
10/05/2012 n. 2173).
In relazione a ciò, è tuttavia necessario precisare
(alla luce di quanto chiarito in giurisprudenza) che
ricorre la nozione di volume tecnico, suscettibile
di accertamento di compatibilità paesaggistica, solo
allorquando manchi una qualsivoglia autonomia
funzionale e si rinvenga l’esclusiva destinazione ad
ospitare impianti occorrenti alla funzionalità
dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 31/03/2014
n. 1512: “Occorre osservare che la nozione di
‘volume tecnico', non computabile nella volumetria
ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva
di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo
potenziale, perché è destinata a solo contenere,
senza possibilità di alternative e comunque per una
consistenza volumetrica del tutto contenuta,
impianti serventi di una costruzione principale per
essenziali esigenze tecnico-funzionali della
medesima. In sostanza, si tratta di impianti
necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di
questa, come possono essere —e sempre in difetto
dell'alternativa— quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione
senza generare aumento alcuno di carico territoriale
o di impatto visivo”; cfr., altresì, TAR Lazio,
sez. I, 15/07/2013 n. 6997: “Secondo una
consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Campania
Napoli, Sez. IV, 13.05.2008, n. 4258; TAR Lombardia
Milano, Sez. II, 25.03.2008, n. 582), per
l'identificazione della nozione di volume tecnico
rilevano tre parametri: il primo, positivo e di tipo
funzionale, costituito dall'esistenza di un rapporto
di strumentalità necessaria tra il manufatto e
l'utilizzo della costruzione a cui accede; il
secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un
lato all'impossibilità di soluzioni progettuali
diverse, nel senso che tali costruzioni non devono
poter essere ubicate all'interno della parte
abitativa, e dall'altro, ad un rapporto di
necessaria proporzionalità fra tali volumi e le
esigenze effettivamente presenti. Pertanto rientrano
in tale nozione solo le opere edilizie completamente
prive di una propria autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa”).
Nel caso in esame, è evidente che non ricorrono tali
condizioni, in presenza di interventi concretatisi
nella realizzazione di un box auto (dotato di
autonoma utilizzabilità e la cui funzionalità è
separata dall’immobile) e di incrementi volumetrici
che hanno prodotto la modifica della sagoma del
fabbricato (arrecando quindi un non trascurabile
impatto visivo e che non sono destinati a ospitare
impianti al servizio del fabbricato).
Anche le ulteriore censure sono prive di fondamento,
in quanto:
- non assume rilievo il richiamo alle leggi in tema
di parcheggi pertinenziali, stante l’autonomia delle
discipline regolanti gli aspetti urbanistici e
paesaggistici, per cui la possibilità di costruire
parcheggi e box auto in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti non esclude l’accertamento della
compatibilità paesaggistica dell’intervento;
- il d.lgs. n. 42/2004, nell’assegnare alla
Soprintendenza il potere di valutare la rispondenza
dell’opera edilizia alla normativa paesaggistica,
configura l’esercizio di un potere autonomo (nella
specie, esercitato con compiuta cognizione dei fatti
e degli elementi forniti, come emerge dal parere),
cosicché non può predicarsi alcun obbligo di
esaminare e confutare le motivazioni assunte dalla
Commissione Edilizia Integrata comunale e la
conclusione a cui la stessa era giunta nell’apporre
condizioni (peraltro, inconciliabili con l’assoluta
preclusione a realizzare nuovi volumi);
- l’ampia premessa, contenuta nel parere negativo,
mette in luce e rafforza l’elemento
dell’incompatibilità paesaggistica (evidenziando che
già nel 1972 era stata ritenuta in contrasto
l’eccessiva volumetria, ciò nonostante realizzata),
senza che possa dirsi che l’attuale parere si limiti
a richiamare il precedente giudizio (essendo lo
stesso reso in base a quanto disposto dal citato
art. 167, quarto comma, e per di più con l’espressa
menzione che l’intervento contrasta “tutt’ora con
la tutela del paesaggio”).
Quanto alle censure di ordine formale, svolte nei
motivi aggiunti, occorre considerare che il
procedimento che ha condotto al diniego di sanatoria
è ad istanza di parte (essendo stato attivato
dall’interessato con la presentazione della domanda
di accertamento di conformità), cosicché è escluso
l’obbligo della comunicazione di avvio ed altresì,
stante il suo carattere vincolato, il diniego
conseguente al parere negativo della Soprintendenza
non è invalidato dall’omissione del preavviso ex
art. 10-bis della legge n. 241/1990 (cfr. in termini
generali, su entrambi gli aspetti, da ultimo TAR
Campania, sez. IV, 01/06/2016 n. 2783); per altro
verso, l’intervento dell’Autorità preposta alla
tutela del vincolo paesaggistico si colloca
all’interno dello stesso procedimento ed è regolato
dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, che non
prefigura alcun obbligo di preventiva comunicazione
(cfr. TAR Lazio, sez. I, 15/07/2013 n. 6997, cit.).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il
ricorso e i motivi aggiunti vanno respinti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 30.08.2016 n. 4124 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Soprintendenze, bandite nuove valutazioni
sostitutive. Sentenza del tribunale
amministrativo regionale per la Calabria.
La Soprintendenza non può svolgere una nuova valutazione
sostitutiva di quella svolta dall'ente competente nel
merito, mentre l'oggetto del giudizio alla stessa spettante
appare limitato al profilo della legittimità dell'atto.
È quanto sottolineato dai giudici della I Sez. del
TAR Calabria-Catanzaro con la
sentenza 29.08.2016 n. 1674.
I giudici calabresi hanno poi citato anche un altro
orientamento giurisprudenziale secondo cui «l'annullamento
del nulla osta paesaggistico comunale (Consiglio di stato n.
2176 del 2016), da parte della Soprintendenza, ha ad oggetto
l'esercizio della funzione di controllo della legittimità
del nulla osta rilasciato dall'ente locale delegato e
risulta, quindi, riferibile a qualsiasi vizio di legittimità
riscontrato nella valutazione formulata in concreto
dall'ente territoriale (in senso conforme Consiglio di stato
n. 1764 del 2016)».
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi
catanzaresi vedeva Tizio che con l'atto introduttivo del
giudizio chiedeva: l'annullamento del decreto del
Soprintendente con cui era annullato il provvedimento del
dirigente del settore tutela ambientale della Provincia
contenente nulla osta paesaggistico.
Tizio stesso riferiva di essere proprietario di un terreno
oggetto di ricorso e che aveva stipulato una convenzione
edilizia con il comune e che, volendo edificare, aveva
richiesto nulla osta paesaggistico. Dopo istruttoria, veniva
rilasciato il nulla osta in suo favore, ma successivamente,
la soprintendenza annullava il nulla osta rilasciato in
precedenza dalla Provincia.
Pertanto Tizio impugnava il provvedimento.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale l'unico limite
che la Soprintendenza competente incontra in tema di
annullamento dell'autorizzazione paesaggistica è costituito
dal divieto di effettuare un riesame complessivo delle
valutazioni compiute dall'ente competente tale da consentire
la sovrapposizione o la sostituzione di una nuova
valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio
dell'autorizzazione.
Nel caso di specie, la Soprintendenza aveva
annullato il nulla osta a suo tempo adottato
evidenziando che dalla documentazione trasmessa si
evinceva che l'ipotesi progettuale del fabbricato
non poteva considerarsi idonea per le
caratteristiche dell'ambito, rendendo ancor di più
condizionata la realtà esistente dei luoghi, ancora
sgombro nella porzione oggetto di intervento. Nel
provvedimento si precisava che l'opera
necessiterebbe di una riduzione dell'ingombro
planimetrico e volumetrico per ridurre l'ampiezza
visiva.
Pertanto secondo i giudici l'accertamento svolto
andava oltre il profilo della mera legittimità,
incidendo sul merito e comportando la sostituzione
della propria valutazione a quella operata dall'ente
competente (articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).
---------------
MASSIMA
1. Con l’atto introduttivo del giudizio, la parte
ricorrente chiedeva: l’annullamento del decreto del
Soprintendente del 01.08.2007 con cui era annullato
il provvedimento del dirigente del settore tutela
ambientale della Provincia di Vibo Valentia
contenente nulla osta paesaggistico.
Riferiva: di essere proprietario del terreno
descritto in ricorso; che aveva stipulato una
convenzione edilizia con il comune di Ricadi; che,
volendo edificare, aveva richiesto nulla osta
paesaggistico; che, dopo istruttoria, veniva
rilasciato il nulla osta in suo favore; che,
tuttavia, successivamente, la soprintendenza
annullava il nulla osta rilasciato in precedenza
dalla Provincia.
Impugnava il provvedimento per: violazione dell’art.
7 della l. n. 241 del 1990, dell’art. 159 del d.lgs.
n. 42 del 2004, dell’art. 97 cost. e del principio
di imparzialità; difetto di istruttoria; violazione
dell’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990;
violazione degli artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42
del 2004; violazione dell’art. 146, sesto comma, del
d.lgs. n. 42 del 2004; difetto di motivazione,
travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e
contraddittorietà, come precisato in ricorso.
Si costituiva il Ministero resistente chiedendo di
rigettare il ricorso.
2. Il ricorso proposto deve trovare accoglimento.
Nel corso del giudizio, veniva accolta, con
ordinanza del Tar, confermata dal Consiglio di
Stato, l’istanza cautelare proposta da parte
ricorrente.
In particolare, merita accoglimento, come già
sottolineato nel provvedimento di conferma
dell’ordinanza cautelare da parte del Consiglio di
Stato, il terzo motivo di ricorso formulato da parte
ricorrente, in base al quale
la Soprintendenza, sostanzialmente, non può svolgere
una nuova valutazione sostitutiva di quella svolta
dall’ente competente nel merito, mentre l’oggetto
del giudizio alla stessa spettante appare limitato
al profilo della legittimità dell’atto.
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha annullato
il nulla osta a suo tempo adottato evidenziando che
dalla documentazione trasmessa si evince che
l’ipotesi progettuale del fabbricato non può
considerarsi idonea per le caratteristiche
dell’ambito, rendendo ancor di più condizionata la
realtà esistente dei luoghi, ancora sgombro nella
porzione oggetto di intervento.
Nel provvedimento si precisa ancora che l’opera
necessiterebbe di una riduzione dell’ingombro
planimetrico e volumetrico per ridurre l’ampiezza
visiva. L’accertamento svolto trascende il profilo
della mera legittimità, incidendo sul merito e
comportando la sostituzione della propria
valutazione a quella operata dall’ente competente.
In senso conforme, si esprime, d’altro canto, la
giurisprudenza amministrativa prevalente, con
orientamento che si ritiene pienamente
condivisibile.
In particolare (Tar Campania Salerno, n. 1104 del
2016) si evidenzia in giurisprudenza che
l’unico limite che la Soprintendenza competente
incontra in tema di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare
un riesame complessivo delle valutazioni compiute
dall'ente competente tale da consentire la
sovrapposizione o la sostituzione di una nuova
valutazione di merito a quella compiuta in sede di
rilascio dell'autorizzazione. L’annullamento del
nulla osta paesaggistico comunale
(Cons. St. n. 2176 del 2016),
da parte della Soprintendenza, ha ad oggetto
l'esercizio della funzione di controllo della
legittimità del nulla osta rilasciato dall'ente
locale delegato e risulta, quindi, riferibile a
qualsiasi vizio di legittimità riscontrato nella
valutazione formulata in concreto dall'ente
territoriale
(in senso conforme Cons. St. n. 1764 del 2016).
Il provvedimento adottato deve pertanto essere
annullato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riguardo all’irrogazione della
sanzione della rimessa in pristino, il regime
sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in
conformità al principio generale tempus regit actum,
quello vigente al momento dell’irrogazione della
sanzione, non già quello in vigore all’epoca di
realizzazione dell’abuso e l’ordinanza impugnata è
stata adottata sotto la vigenza dell’art. 167 del
richiamato d.lgs. n. 42 del 2004 nella sua nuova
formulazione.
Detta ultima norma stabilisce, al comma 1, che “In
caso di violazione degli obblighi e degli ordini
previsti dal Titolo I della Parte terza, il
trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in
pristino a proprie spese, fatto salvo quanto
previsto al comma 4”.
Anche a voler far riferimento alla disciplina di cui
al previgente art. 167, comma 1, cit. (ante novella
del 2006), la scelta tra la rimessione in pristino a
spese del trasgressore o il pagamento di una somma
equivalente al maggiore importo tra il danno
arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione risponde ad una valutazione di
opportunità rimessa esclusivamente all’autorità
amministrativa preposta alla tutela paesaggistica
nell’“interesse dei beni indicati nell’art. 134”.
Sicché, ove quest’ultima opti per la rimessione in
pristino, che rappresenta la prima forma attraverso
cui si realizza in maniera piena la protezione dei
beni ambientali interessati, tale valutazione
impinge nel merito dell’azione amministrativa e,
come tale, se assistita da congrua motivazione, non
può essere sindacata in sede giurisdizionale.
--------------- 2.2 Con riguardo all’irrogazione della sanzione della rimessa in pristino, il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio generale
tempus regit actum, quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di realizzazione dell’abuso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.04.2000, n. 2544; Tar Liguria 26.11.2012) e l’ordinanza impugnata è stata adottata sotto la vigenza dell’art. 167 del richiamato d.lgs. n. 42 del 2004 nella sua nuova formulazione.
Detta ultima norma stabilisce, al comma 1, che “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”.
Anche a voler far riferimento alla disciplina di cui al previgente art. 167, comma 1, cit. (ante novella del 2006), la scelta tra la rimessione in pristino a spese del trasgressore o il pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione risponde ad una valutazione di opportunità rimessa esclusivamente all’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica nell’“interesse dei beni indicati nell’art. 134”; sicché, ove quest’ultima opti per la rimessione in pristino, che rappresenta la prima forma attraverso cui si realizza in maniera piena la protezione dei beni ambientali interessati, tale valutazione impinge nel merito dell’azione amministrativa e, come tale, se assistita da congrua motivazione, non può essere sindacata in sede giurisdizionale (Tar Lazio Roma
02.10.2008, n. 8716) (TAR Marche, sentenza 22.07.2016 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
è ammissibile la compatibilità paesaggistica (ex
art. 167 dlgs 42/2004) per:
ampliamento fabbricati, realizzazione di una piscina
e dell’annesso locale dei relativi impianti,
realizzazione di una strada asfaltata.
Con riferimento alla realizzazione abusiva del
cancello di ingresso e di due barbecue, sotto
l’aspetto edilizio, tali opere edilizie, essendo
assentibili con SCIA ai sensi dell’art. 37 DPR n.
380/2001, non possono essere demolite ma devono
essere assoggettate al pagamento della sanzione
pecuniaria stabilita dalla predetta norma. Anche
sotto il profilo paesaggistico, i suddetti
interventi edilizi non possono essere demoliti.
---------------
Sotto l'aspetto paesaggistico,
tutte le altre opere edilizie realizzate
abusivamente (ampliamento di entrambi i fabbricati,
la realizzazione di una piscina e dell’annesso
locale dei relativi impianti, realizzazione di una
strada asfaltata -con diramazioni- verso
l’abitazione ed il garage) non possono sfuggire alla
rimessione in pristino, sancita dall’art. 167, comma
1, D.Lg.vo n. 42/2004.
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli
artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4,
lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, l’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria non può essere rilasciata
“successivamente alla realizzazione, anche parziale,
degli interventi”, quando le opere realizzate hanno
“determinato la creazione di superfici utili o
volumi ovvero l’aumento di quelli legittimamente
realizzati”.
Al riguardo, va evidenziato che la nozione di
superficie e/o volume utile va interpretata nel
senso di qualsiasi opera edilizia calpestabile e/o
che può essere sfruttata per qualunque uso, atteso
che il concetto di utilità ha un significato
differente nella normativa in materia di tutela del
paesaggio rispetto alla disciplina edilizia.
Ed invero, sono soggette all’autorizzazione
paesaggistica tutte le opere edilizie, che hanno una
visibilità esterna e che perciò sono potenzialmente
capaci di deturpare il paesaggio, in quanto, ai
sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n.
42/2004, sono esentati dall’autorizzazione
paesaggistica soltanto gli interventi di
manutenzione ordinaria e/o straordinaria e di
restauro conservativo “che non alterano lo stato dei
luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Ad ulteriore riprova delle notevoli differenze tra
la materia dell’edilizia e quella della tutela del
paesaggio, va sottolineato che per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n.
380/2001 risulta sufficiente il presupposto della
cd. doppia conformità, cioè la conformità degli
abusi alla disciplina vigente sia al momento della
loro realizzazione, sia al momento della
presentazione della domanda di sanatoria, mentre
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai
sensi del suddetto combinato disposto di cui agli
artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4,
lett. a), b) e c), D.Lg.vo n. 42/2004, può essere
rilasciata soltanto per le opere che non hanno
determinato la creazione di superfici e/o volumi
utili, per l’impiego di materiali difformi da quelli
indicati nell’autorizzazione paesaggistica e per gli
interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
---------------
Nella specie, mentre il cancello di ingresso ed i
barbecue non hanno determinato la creazione di
alcuna superficie e/o volume utili, tutte le altre
opere edilizie abusive costituiscono superfici e/o
volume utili.
Ed infatti nel sopralluogo del 30.08.2013 è stato
accertato l’ampliamento di 186,96 mq. e di 546,91 mc.
del fabbricato, destinato ad abitazione, e di 8,35
mq. e di 64,65 mc. del fabbricato, destinato a
garage e ad intercapedine circostante.
Incontestabilmente costituiscono creazione di
superficie utile anche la piscina, avente la
superficie di 29,67 mq., e la strada asfaltata dal
cancello di ingresso con diramazioni verso
l’abitazione ed il garage.
Parimenti, hanno determinato la creazione di
superfici e/o volume utili la costruzione abusiva
del locale pompe a servizio della piscina, avente la
superficie di 8,60 mq. e l’altezza di 2,40 m., e del
box attrezzi, avente la superficie di 4,71 mq. e
l’altezza di 1,85 m. alla linea di gronda e di 2,17
m. alla linea di colmo.
---------------
... per l'annullamento:
●
quanto al ricorso n. 51 del 2015:
- del provvedimento prot. n. 17120 del 14.11.2014 (notificato il
21.11.2014), con il quale il Responsabile del
Settore Urbanistica del Comune di Maratea ha
respinto l’istanza di permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 del 29.08.2013;
- della nota prot. n. 16051 del 27.10.2014, con la quale il
Responsabile del Settore Tutela del Paesaggio del
Comune di Maratea ha trasmesso alla Soprintendenza
per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della
Basilicata ed al sig. -OMISSIS- l’atto di pari data,
di accertamento dell’incompatibilità paesaggistica
delle opere edilizie, indicate nella predetta
domanda di autorizzazione paesaggistica in sanatoria
del 29.08.2013, in quanto avevano determinato la
creazione di superfici e/o volumi utili, con la
precisazione che tale nota costituiva comunicazione
dell’avvio del procedimento ex art. 167 D.Lg.vo n.
42/2004;
- della nota prot. n. 17727 del 25.11.2014, con la quale il
medesimo Responsabile del Settore Tutela del
Paesaggio specificava che il procedimento ex art.
167 D.Lg.vo n. 42/2004 si sarebbe concluso dopo aver
acquisito il parere vincolante della Soprintendenza;
- nonché per la condanna del Comune di Maratea al risarcimento dei
danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e
subendi, derivanti dai provvedimenti e/o atti
impugnati e dall’illecito comportamento
dell’Amministrazione resistente, con riserva di
dimostrali e quantificarli nel corso del giudizio;
●
quanto al ricorso n. 284 del 2015:
- dell’Ordinanza n. 120 del 22.12.2014 (notificata il 09.01.2015),
con il quale il Responsabile del Settore comunale
Urbanistica, ai sensi dell’art. 31 DPR n. 380/2001,
ha ingiunto al sig. -OMISSIS- la demolizione delle
opere edilizie, per le quali il comproprietario sig.
-OMISSIS- con istanza del 29.08.2013 aveva chiesto
la sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001;
- nonché per la condanna del Comune di Maratea al risarcimento dei
danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e
subendi, derivanti dai provvedimenti e/o atti
impugnati e dall’illecito comportamento
dell’Amministrazione resistente, con riserva di
dimostrali e quantificarli nel corso del giudizio;
...
I sigg. -OMISSIS- e -OMISSIS- sono comproprietari di
due fabbricati, di cui uno destinato ad abitazione
(identificato con la particela n. 699) ed un altro
destinato a garage (identificato con la particela n.
700), e del relativo terreno circostante, siti nella
Località Ogliastro del Comune di Maratea.
Con istanza del 29.08.2013 il sig. -OMISSIS-
chiedeva il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 ed anche
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, con
riferimento alle seguenti opere edilizie non
autorizzate:
1) l’ampliamento di entrambi i fabbricati, in relazione al quale
veniva specificato che non era stata superata la
volumetria massima consentita, in quanto dalla
superficie del terreno circostante residuava una
volumetria non utilizzata di 213,93 mc. ed inoltre
era stata asservita anche la superficie di un altro
terreno, sito nella stessa zona, in corso di
acquisizione;
2) la realizzazione di una piscina e dell’annesso locale dei
relativi impianti, del cancello di ingresso, di due
barbecue e di una strada asfaltata dal cancello di
ingresso con diramazioni verso l’abitazione ed il
garage.
...
In via preliminare, il Collegio ritiene opportuno
disporre la riunione dei due giudizi indicati in
epigrafe, sia perché hanno per oggetto gli stessi
immobili, di cui sono comproprietari il sig.
-OMISSIS-, che ha proposto il Ric. n. 51/2015, e la
sig.ra -OMISSIS-, che ha proposto il Ric. n.
284/2015, sia perché l’Ordinanza di demolizione n.
120 del 22.12.2014 è stata impugnata con entrambi i
predetti Ricorsi.
Nel merito, i Ricorsi n. 51/2015 e n. 284/2015 vanno
accolti soltanto con riferimento alla realizzazione
del cancello di ingresso e dei barbecue.
Per quanto riguarda l’aspetto edilizio, tali opere
edilizie, essendo assentibili con SCIA, ai sensi
dell’art. 37 DPR n. 380/2001, non possono essere
demolite, ma devono essere assoggettate al pagamento
della sanzione pecuniaria stabilita dalla predetta
norma.
Anche sotto il profilo paesaggistico, i suddetti
interventi edilizi non possono essere demoliti,
mentre tutte le altre opere edilizie realizzate
abusivamente non possono sfuggire alla rimessione in
pristino, sancita dall’art. 167, comma 1, D.Lg.vo n.
42/2004.
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli
artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4,
lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004, l’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria non può essere rilasciata
“successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi”, quando le opere
realizzate hanno “determinato la creazione di
superfici utili o volumi ovvero l’aumento di quelli
legittimamente realizzati”.
Al riguardo, va evidenziato (sul punto cfr. da
ultimo TAR Basilicata Sent. n. 906 del 27.12.2014)
che la nozione di superficie e/o volume utile va
interpretata nel senso di qualsiasi opera edilizia
calpestabile e/o che può essere sfruttata per
qualunque uso, atteso che il concetto di utilità ha
un significato differente nella normativa in materia
di tutela del paesaggio rispetto alla disciplina
edilizia.
Ed invero, sono soggette all’autorizzazione
paesaggistica tutte le opere edilizie, che hanno una
visibilità esterna e che perciò sono potenzialmente
capaci di deturpare il paesaggio, in quanto, ai
sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n.
42/2004, sono esentati dall’autorizzazione
paesaggistica soltanto gli interventi di
manutenzione ordinaria e/o straordinaria e di
restauro conservativo “che non alterano lo stato
dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Ad ulteriore riprova delle notevoli differenze tra
la materia dell’edilizia e quella della tutela del
paesaggio, va sottolineato che per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n.
380/2001 risulta sufficiente il presupposto della
cd. doppia conformità, cioè la conformità degli
abusi alla disciplina vigente sia al momento della
loro realizzazione, sia al momento della
presentazione della domanda di sanatoria, mentre
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai
sensi del suddetto combinato disposto di cui agli
artt. 146, comma 4, secondo periodo, e 167, comma 4,
lett. a), b) e c), D.Lg.vo n. 42/2004, può essere
rilasciata soltanto per le opere che non hanno
determinato la creazione di superfici e/o volumi
utili, per l’impiego di materiali difformi da quelli
indicati nell’autorizzazione paesaggistica e per gli
interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria.
Nella specie, mentre il cancello di ingresso ed i
barbecue non hanno determinato la creazione di
alcuna superficie e/o volume utili, tutte le altre
opere edilizie abusive costituiscono superfici e/o
volume utili.
Ed infatti nel sopralluogo del 30.08.2013 è stato
accertato l’ampliamento di 186,96 mq. e di 546,91 mc.
del fabbricato, destinato ad abitazione, e di 8,35
mq. e di 64,65 mc. del fabbricato, destinato a
garage e ad intercapedine circostante.
Incontestabilmente costituiscono creazione di
superficie utile anche la piscina, avente la
superficie di 29,67 mq., e la strada asfaltata dal
cancello di ingresso con diramazioni verso
l’abitazione ed il garage.
Parimenti, hanno determinato la creazione di
superfici e/o volume utili la costruzione abusiva
del locale pompe a servizio della piscina, avente la
superficie di 8,60 mq. e l’altezza di 2,40 m., e del
box attrezzi, avente la superficie di 4,71 mq. e
l’altezza di 1,85 m. alla linea di gronda e di 2,17
m. alla linea di colmo.
Conseguentemente, vanno disattese le censure con le
quali è stato dedotto il vizio dell’eccesso di
potere per difetto di motivazione e carenza di
istruttoria, in quanto risulta incontrovertibile
l’abusiva realizzazione di superfici e/o volume
utili.
Pertanto, come ammesso dagli stessi ricorrenti,
poiché ai sensi dell’art. 146, comma 4, primo
periodo, D.Lg.vo n. 42/2004 “l’autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli
altri titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio” e poiché per le suindicate
opere edilizie, diverse dal cancello di ingresso e
dai barbecue, non può essere rilasciata
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, il
Tribunale adito non può annullare i provvedimenti
e/o gli atti impugnati con il Ric. n. 51/2015 (e
l’atto di motivi aggiunti a tale ricorso) ed il Ric.
n. 284/2015, nella parte in cui si riferiscono agli
altri interventi edilizi diversi dal cancello di
ingresso e dai barbecue, prescindendo dall’esame
della censura relativa alla violazione dell’art. 36
del vigente Regolamento Edilizio ex art. 16 L.R. n.
23/1999.
Ciò in quanto, anche se i sopra descritti abusi
edilizi dovessero rientrare nell’ambito oggettivo
della ristrutturazione edilizia, la disciplina in
materia di tutela del paesaggio non prevede una
norma analoga all’art. 33, comma 2, DPR n. 380/2001,
per cui i predetti abusi non possono non essere
assoggettati alla sanzione della loro demolizione,
anche se il relativo provvedimento è stato adottato
il 22.12.2014, due giorni prima della formale
ricezione del vincolante parere sfavorevole
Soprintendente di Potenza prot. n. 12614 di pari
data 22.12.2014
(TAR Basilicata,
sentenza 01.06.2016 n. 586 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
sanatoria paesaggistica -o meno- di un modesto abbaìno (che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq
ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a
dare luce al vano sottotetto.
Il Collegio è del parere che nei casi in cui l’opera nuova
rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio
fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e
pertinenziale rispetto ad una costruzione principale,
l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico,
chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria
paesaggistica, debba valutare la compatibilità
dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal
decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo
alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta
realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi.
---------------
La Soprintendenza non può sottrarsi all’esame della concreta
fattispecie sottoposta al suo scrutinio semplicemente
evidenziando che le opere non rientrano nella casistica
prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c), del
decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto avrebbero
comportato la realizzazione di volume ex novo, con
conseguente incremento della volumetria legittima.
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini
edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il linguaggio
ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al
contesto, usa l’art. 167– l’abbaìno di cui si controverte
sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano
sottotetto (avendo la sola funzione di darvi aria e luce).
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie
evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto
non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante
nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua
valutazione in concreto e postuma di compatibilità
paesaggistica.
Sarebbe stato cioè necessario, data la natura di volume
tecnico, procedere a un concreto accertamento di
compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e
concreta rispetto ai valori tutelati.
---------------
Non può essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione
fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito
urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine
alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece
l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici
utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e
soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver
riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a
quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla
realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli
interessi superiori di tutela del paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni
tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda
della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in
ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla
realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli
interessi superiori di tutela del paesaggio, non è
suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono
specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ma solo dalle normative sulle costruzioni, dove la
superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con
l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi
misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci,
vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di
logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si
intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e
servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e
scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi
vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della
superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani
per le relative altezze effettive misurate da pavimento a
pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si
riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che
hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente
essenziale, in relazione all’uso della costruzione
principale, senza assumere il carattere di vani chiusi
utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile
nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a
un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche
solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione “superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti
il loro significato specialistico, per giungere senz’altro
alla conclusione di un’astratta preclusione normativa
rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente
espressa in funzione della essenzialità dell’abbaìno di che
trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva
relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste
dimensioni), ai fini del successivo giudizio di
compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto
paesaggistico tutelato.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZ. VII n. 4805/2012, resa tra le parti,
concernente parere di non compatibilità paesaggistica.
...
2.- L’appello è fondato e va accolto.
3.- La questione centrale da dirimere attiene alla
legittimità del provvedimento soprintendentizio gravato in
primo grado, col quale l’autorità preposta alla tutela
vincolo paesaggistico si è negativamente determinata, nel
procedimento di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004,
riguardo alla sanatoria paesaggistica di un piccolo
intervento edilizio realizzato dal ricorrente nel vano
sottotetto.
In particolare, le ragioni del diniego si sono appuntate
sulla impossibilità di accordare il provvedimento favorevole
a fronte di nuove volumetrie e superfici realizzate
dall’odierno appellante nella costruzione di un modesto
abbaìno (che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq
ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a
dare luce al vano sottotetto.
4.- Il Collegio è del parere che nei casi, come quello in
esame, in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano
tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia
funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad
una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela
del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede
di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la
compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici
espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in
senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta
valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e
nuovi volumi (cfr., in termini, Cons. St., VI, n. 5932 del
2014).
In linea preliminare, occorre muovere dalla rilevazione del
contenuto dell’art. 167 (Ordine di rimessione in pristino o
di versamento di indennità pecuniaria) d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il cui comma 4 prevede che l’autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei
casi indicati (per i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; per
l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai
sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380); il comma 5 consente al
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di
cui al comma 4 di presentare apposita domanda all'autorità
preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento
della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi
che, qualora venga accertata, comporta il pagamento di una
indennità pecuniaria equivalente al maggiore importo tra il
danno arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione.
La Soprintendenza non può tuttavia sottrarsi all’esame della
concreta fattispecie sottoposta al suo scrutinio
semplicemente evidenziando che le opere non rientrano nella
casistica prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e
c), del decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto
avrebbero comportato la realizzazione di volume ex novo, con
conseguente incremento della volumetria legittima.
Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini
edilizi ed urbanistici –vale a dire, secondo il linguaggio
ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al
contesto, usa l’art. 167– l’abbaìno di cui si controverte
sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano
sottotetto (avendo la sola funzione di darvi aria e luce).
Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie
evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto
non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante
nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua
valutazione in concreto e postuma di compatibilità
paesaggistica. Sarebbe stato cioè necessario, data la natura
di volume tecnico, procedere a un concreto accertamento di
compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e
concreta rispetto ai valori tutelati (cfr. in tali sensi
Cons. St., VI, n. 5932 del 2014).
5.- Non può dunque essere condiviso l’assunto
dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile
corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della
tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume
tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di
concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito
normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del
paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a
quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare
una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare
un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del
paesaggio”.
L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni
tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda
della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in
ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla
realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli
interessi superiori di tutela del paesaggio, non è
suscettibile di condivisione.
In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono
specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via
esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei
lavori pubblici 23.07.1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 02.08.1969; art. 3 d.m. 10.05.1977; art. 1 d.m. 26.04.1991; art. 6 d.m.
05.08.1994), dove la superficie
utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area
abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al
netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di
porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e
balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono
le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi
(cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale,
terrazze, balconi, logge e quant’altro).
A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi
vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della
superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani
per le relative altezze effettive misurate da pavimento a
pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si
riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che
hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente
essenziale, in relazione all’uso della costruzione
principale, senza assumere il carattere di vani chiusi
utilizzabili a fini abitativi.
Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di
Stato (Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512), “la nozione di
‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini
in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo”.
Quindi non può essere ipotizzato -nella locuzione
“superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente autorizzati”- un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per
giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta
preclusione normativa rispetto a una valutazione che va
invece ragionevolmente espressa in funzione della
essenzialità dell’abbaìno di che trattasi, in modo da porlo
in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche
alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo
giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al
contesto paesaggistico tutelato.
Né da ultimo appare condivisibile quanto osservato dal Tar a
proposito della mancata allegazione, da parte
dell’interessato, di elementi probatori da cui desumere la
compatibilità paesaggistica dell’intervento, trattandosi di
valutazione riservata all’autorità preposta alla tutela del
vincolo, senza possibilità alcuna di inversione dell’onere
dimostrativo (in definitiva, è l’Autorità che deve
dimostrare l’eventuale incompatibilità dell’intervento
edilizio con i valori paesaggistici dei luoghi e non il
privato a comprovare in positivo la compatibilità).
6.- Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va accolto
e, in riforma della impugnata sentenza ed in accoglimento
del ricorso di primo grado, va disposto l’annullamento
dell’atto gravato in prime cure (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1945 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’atto di autorizzazione paesaggistica dell’ente
locale, espressione dell’esercizio di valutazioni tecniche,
deve contenere un’adeguata motivazione, indicando i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione
alle risultanze dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della
legge n. 241 del 1990).
---------------
L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina
sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi
vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di
effettuare «un riesame complessivo delle valutazioni
compiute dall’ente competente tale da consentire la
sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di
merito a quella compiuta in sede di rilascio
dell’autorizzazione».
Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia
l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di
motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità
paesaggistica dell’opera.
In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per
difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli
organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per
vizio di motivazione e indicare –anche per evidenziare
l’eccesso di potere nell’atto esaminato– le ragioni di
merito che concludono per la non compatibilità delle opere
realizzate con i valori tutelati.
---------------
8.– Con un primo motivo, si deduce l’erroneità della
sentenza e l’illegittimità dell’atto impugnato nella parte
in cui non hanno rilevato come l’autorizzazione del Comune
fosse congruamente motivata anche mediante rinvio al parere
della commissione edilizia, con conseguente sovrapposizione
della valutazione effettuata dalla Soprintendenza a quella
dell’autorità preposta alla gestione del vincolo.
L’appello
rileva, inoltre, come la Soprintendenza motivi la propria
determinazione facendo riferimento alla mancanza di un
progetto di riqualificazione della cava, nel cui abito sono
collocate le opere, che esulerebbe dalle finalità cui è
preposto il parere della Soprintendenza stessa.
Il motivo è fondato.
L’atto di autorizzazione dell’ente locale, espressione
dell’esercizio di valutazioni tecniche, deve contenere
un’adeguata motivazione, indicando i presupposti di fatto e
le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell’amministrazione, in relazione alle risultanze
dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della legge n. 241 del
1990).
L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina
sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi
vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di
effettuare «un riesame complessivo delle valutazioni
compiute dall’ente competente tale da consentire la
sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di
merito a quella compiuta in sede di rilascio
dell’autorizzazione» (v. per tutte Cons. Stato, Ad. plen.,
14.12.2001, n. 9; da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 14.08.2012, n. 4562).
Tale limite sussiste, però, soltanto
se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia
adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in
ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In caso
contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o
insufficienza della motivazione e ben possono gli organi
ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio
di motivazione e indicare –anche per evidenziare l’eccesso
di potere nell’atto esaminato– le ragioni di merito che
concludono per la non compatibilità delle opere realizzate
con i valori tutelati (tra gli altri, Cons. Stato, sez. VI,
18.01.2012, n. 173; Id., 28.12.2011, n. 6885;
Id., 21.09.2011, n. 5292).
Nella fattispecie in esame, la vicenda sottoposta all’esame
del Collegio presenta profili di particolarità.
Il Comune di Maiori, richiamando il parere della commissione
edilizia integrata, ha rilasciato la prescritta
autorizzazione con le seguenti prescrizioni:
- obbligo di utilizzare «per il trattamento delle superficie
esterne intonaci tradizionali di colorazione compatibili con
il contesto paesaggistico circostante quale quello della
cava dismessa di Erchie»;
- «vengano comunque utilizzati materiali compatibili con
l’art. 26 della legge regionale n. 35 del 1987».
La Soprintendenza ha ritenuto che tale provvedimento
comunale fosse privo di adeguata motivazione.
In particolare, si è rilevato che gli immobili in questione,
essendo «ben visibili da numerosi punti di vista e di
belvedere perché di dimensioni consistenti, di tipologie
edilizia e rifinitura di modesto valore architettonico» sono
«dissonanti con il contesto paesaggistico e le peculiarietà
scandite» dal provvedimento di tutela e che «la proposta di
sanatoria è finalizzata al mantenimento dei manufatti così
come realizzati e funzionali all’attività svolta, per i
quali, tra l’altro, vengono proposti opinabili e non meglio
finalizzati interventi di manutenzione».
Svolta questa premessa, la Soprintendenza rileva che la
proposta «non è corredata da alcun progetto di
riqualificazione paesaggistica dell’area sulla quale
insistono, pure previsto ed incentivato dalla vigente
normativa regionale (l.r. n. 17/1995) e che l’area rimane
ancora testimone delle dismesse attività; né è possibile
condividere, al momento, la volontà (espressa dal solo
tecnico incaricato estensore della pratica di condono) di
avvio ad una ipotetica successiva fase progettuale la
riqualificazione generale dell’area». Si conclude affermando
che «quanto dichiarato in atti circa l’ipotesi di
riqualificazione non consente a questo ufficio di potere
valutare compiutamente l’ipotesi di condonabilità dei
predetti manufatti».
Da quanto sin qui esposto, risulta chiaramente come la
Soprintendenza fondi, essenzialmente, il diniego di
autorizzazione sulla mancanza di un progetto di
riqualificazione delle cave dismesse. Ma tale prescrizione
non rappresenta una condizione per l’ottenimento del
condono. L’amministrazione statale richiama genericamente la
legge della Regione Campania 13.04.1995, n. 17
(Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 13.12.1985, n. 54, concernente la disciplina della coltivazione
delle cave e delle torbiere nella Regione Campania), la
quale ha modificato la legge della Regione Campania, 13.12.1985, n. 54 (Coltivazione di cave e torbiere).
Non
indica, però, alcuna specifica disposizione che condiziona
il rilascio dell’autorizzazione a fini del condono edilizio
alla previa presentazione di un progetto di riqualificazione
dell’area. In mancanza di un chiaro vincolo normativo, che
la Soprintendenza avrebbe dovuto individuare, la sua
valutazione si sarebbe dovuta limitare a valutare la
compatibilità degli interventi con l’attuale stato dei
luoghi.
Ed in relazione a tale ultimo profilo, come emerge
da quanto riportato, le valutazioni tecniche effettuate
dalla Soprintendenza sono generiche e comunque compatibili,
come del resto fatto dal Comune, con l’adozione di un
provvedimento favorevole con precise prescrizioni da
osservare.
In definitiva, dunque, a fronte di un atto comunale che, sia
pur in modo sintetico, ha valutato le opere con il contesto
paesaggistico effettivamente esistente subordinando il
rilascio del provvedimento al rispetto di puntuali
condizioni, la Soprintendenza ha annullato tale atto,
rilevando un difetto di motivazione, a cui però è seguita
una motivazione del provvedimento di annullamento fondata
principalmente su ragioni non ancorate ad un preciso
parametro legale di validità
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone che “il
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di
cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità
preposta alla gestione del vicolo ai fini dell’accertamento
della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi.
L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il
termine perentorio di centottanta giorni, previo parere
vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine
perentorio di novanta giorni […]”.
Di talché, qualora non sia rispettato il termine di novanta
giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il
paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a
sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque
disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può
proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare
l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la
perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del
potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento
(obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato
sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle
spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio
qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di
novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così
come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo
grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure
emesso dopo il superamento del termine fissato dal
richiamato art. 167, comma 5.
---------------
4. - Con il primo motivo di appello il signor Casella ha
censurato il capo di sentenza che ha respinto la censura di
illegittimità del parere in quanto rilasciato oltre il
termine perentorio di novanta giorni.
4.1 - Il primo giudice ha respinto il motivo rilevando che:
“Costituisce orientamento giurisprudenziale, da cui non
sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che dal
mancato rispetto del termine, previsto dall’art. 167, comma
5, d.lgs. 42 del 2004 per il rilascio del parere, non maturi
alcuna decadenza del potere della Soprintendenza.
S’è convincentemente affermato che la perentorietà del
termine non riguarda affatto la sussistenza del potere bensì
l’obbligo di concludere la fase del procedimento. A
corollario: il parere tardivo non è ex se illegittimo tant’è
che il provvedimento conclusivo del procedimento deve
comunque attenersi al parere ancorché emesso dopo che è
spirato il termine di cui al 5° comma dell’art. 167 d.lgs.
cit. (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 18.09.2013
n. 4656; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 12.07.2013 n.
1681)”.
4.2 - Con il primo motivo di appello, l’appellante rileva
che il parere impugnato è stato emesso tardivamente (dopo
108 giorni): pertanto, esso sarebbe nullo avendo perso
l’Amministrazione il potere di rilasciarlo, e comunque detto
atto –ove pure fosse ritenuto valido– non sarebbe più
stato vincolante, con la conseguenza che l’Amministrazione
Comunale avrebbe dovuto motivare autonomamente la propria
determinazione non potendo limitarsi a richiamare il parere
della Soprintendenza.
4.3 - Il Comune di Portovenere ha replicato che –ove detto
parere dovesse ritenersi non vincolante– il ricorso sarebbe
inammissibile trattandosi di atto endoprocedimentale.
4.4. - La difesa della società Rai Way, invece, ha
sottolineato l’infondatezza della censura richiamando il
costante orientamento della giurisprudenza.
4.5 - La doglianza non può essere accolta.
Condivide, infatti, la Sezione i principi affermati dal
primo giudice che richiamano la giurisprudenza della Sesta
Sezione del Consiglio di Stato.
L’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone
che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi
titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli
interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda
all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini
dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli
interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Ritiene innanzitutto il Collegio che, qualora non sia
rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art.
167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere
dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo
parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo
comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma
l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo
che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato
sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle
spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio
qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di
novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così
come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo
grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure
emesso dopo il superamento del termine fissato dal
richiamato art. 167, comma 5 (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.09.2013, n. 4656).
Ne consegue l’infondatezza della censura
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I box prefabbricati sono riconducibili
alla nozione di “volume tecnico” trattandosi di
opere prive di una qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché destinata
a solo contenere, senza possibilità di alternative e
comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione
principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima: come tali non
generano alcun aumento di carico territoriale o di
impatto visivo.
La realizzazione di questi piccoli box non
costituisce quindi elemento ostativo al rilascio
dell’autorizzazione paesistica postuma.
---------------
6. - Con il quarto motivo di appello l’appellante ha
reiterato le censure assorbite del primo giudice.
6.1 - Ha quindi riproposto la censura di violazione
dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004,
sottolineando come l’accertamento di compatibilità
paesaggistica postuma sia possibile “per i lavori realizzati
in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica
che non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”,
rilevando che nel caso di specie, invece, vi sarebbe stata
la realizzazione di volumi consistenti in box prefabbricati.
6.2 - La censura è infondata.
Occorre preventivamente rilevare che i box prefabbricati
sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico”
trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo
contenere, senza possibilità di alternative e comunque per
una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non
generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto
visivo (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 31/03/2014, n.
1512).
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce
quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione
paesistica postuma
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI: Oggetto:
Opportunità nuove gare pubbliche per lavori – CONSIP e ANAS
(ANCE di Bergamo,
circolare 23.09.2016 n. 172). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Integrazioni al decreto legislativo 102/2014
sull’efficienza energetica (ANCE di Bergamo,
circolare 09.09.2016 n. 164). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Oggetto:
Decreto Legislativo 30.06.2016, n. 127 recante "Norme per il
riordino della disciplina in materia di conferenza dei
servizi, in attuazione dell'articolo 2 della Legge
07.08.2015, n. 124"
(Prefettura di Bergamo,
nota 09.09.2016 n. 47130 di prot.). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Gestione associata delle funzioni fondamentali
degli enti locali ex art. 14, D.L. 31.5.2010, n. 78,
convertito commi da 25 con modifìcazioni dalla legge
30.07.2010 e dai commi da 25 a 31-quater della n. 122/2010 e
successive modifiche, base al testo come integrato dall'art.
19 della n. 135/2012 (Prefettura di Avellino,
nota 07.09.2016 n. 371 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'11.09.2016, "Sesto
aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 06.10.2016 n. 9774). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
10.10.2016 n. 237 "Criteri da tenere in conto nel
determinare l’importo delle garanzie finanziarie, di cui
all’articolo 29-sexies , comma 9-septies, del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente
e delle Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 26.05.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 10.10.2016, "Iscrizione
al registro dell’unione di Comuni Lombarda Adda Martesana,
in Città Metropolitana di Milano, e aggiornamento
dell’elenco delle unioni di comuni lombarde, ai sensi della
d.g.r. n. 3304 del 27.03.2015" (decreto
D.S. 05.10.2016 n. 9723). |
EDILIZIA PRIVATA:
Segnalazione certificata di inizio attività, SCIA: intesa
sul decreto.
Le Regioni hanno espresso l’intesa sul decreto relativo
all’individuazione dei procedimenti oggetto autorizzazione,
segnalazione certificata di inizio attività (Scia) in
applicazione della riforma Madia sulla pubblica
amministrazione (art. 5, L. 124/2015).
Nella riunione della Conferenza Unificata del 29.09.2016, le
regioni hanno consegnato al Governo
un documento nel quale, “pur condividendo la
ratio dello schema di decreto”, si ritiene “indispensabile”
intervenire su alcuni punti dell’articolato.
Nel corso del confronto con il governo le osservazioni
fondamentali delle Regioni sono state accolte e si è così
sancita l’intesa (30.09.2016 - tratta da e link a
www.regioni.it). |
SICUREZZA LAVORO: G.U.
27.09.2016 n. 226 "Regolamento recante regole tecniche
per la realizzazione e il funzionamento del SINP, nonché le
regole per il trattamento dei dati, ai sensi dell’articolo
8, comma 4, del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81" (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali,
decreto 25.05.2016 n. 183). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 22.09.2016, "Costituzione
della commissione per la valutazione delle domande
presentate dai candidati alla nomina di esperto nell’ambito
della commissione regionale in materia di opere o di
costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r.
33/2015 - Art. 4, comma 2)" (deliberazione
G.R. 14.09.2016 n. 8911). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 20.09.2016, "Approvazione
delle «Linee guida per la valutazione e tutela della
componente ambientale biodiversità nella redazione degli
studi di impatto ambientale e degli studi preliminari
ambientali e a supporto delle procedure di valutazione
ambientale»" (deliberazione
G.R. 12.09.2016 n. 5565). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 13.09.2016 n. 214 "Modifiche ed integrazioni al
Codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1
della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs.
26.08.2016 n. 179). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
G.U. 12.09.2016 n. 213 "Regolamento recante le
disposizioni per la tenuta e l’aggiornamento di albi,
elenchi e registri da parte dei Consigli dell’ordine degli
avvocati, nonché in materia di modalità di iscrizione e
trasferimento, casi di cancellazione, impugnazioni dei
provvedimenti adottati in tema dai medesimi Consigli
dell’ordine, ai sensi dell’articolo 15, comma 2, della legge
31.12.2012, n. 247" (Ministero della Giustizia,
decreto 16.08.2016 n. 178). |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 12.09.2016 n. 213 "Disposizioni in materia di
razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento
del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8,
comma 1, lettera a), della legge 07.08.2015, n. 124, in
materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche"
(D.Lgs.
19.08.2016 n. 177). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 09.09.2016, "Circolare
esplicativa circa la definizione univoca del termine
«Regolazione» per la categoria progettuale di cui alla
lettera 7.o) di allegato B alla l.r. 5/2010: «Opere di
canalizzazione e di regolazione dei corsi d’acqua»"
(circolare
regionale 01.09.2016 n. 17).
---------------
Considerata:
− la molteplicità delle fattispecie e delle casistiche
progettuali inerenti le opere di regolazione dei corsi
d’acqua, la necessità di valutare caso per caso la
consistenza degli adeguamenti, anche in quota, di arginature
esistenti,
− la necessità di identificare o meno alcuni interventi di
stabilizzazione d’alveo e/o di rivestimento spondale alla
stregua di interventi di canalizzazione [e quindi ricondotti
alla categoria progettuale di cui alla lettera 7.o) di
Allegato B alla l.r. 5/2010],
si rende necessario che durante
l’iter tecnico-amministrativo di approvazione del progetto,
l’autorità competente all’approvazione e/o autorizzazione
del progetto giunga a specifiche determinazioni circa
l’assoggettamento o meno a verifica di V.I.A. del progetto
in argomento, dandone atto nel provvedimento di
approvazione.
Per consentire tali determinazioni il Proponente è tenuto a
predisporre specifica documentazione tecnico- amministrativa
recante le proprie valutazioni circa l’assoggettamento o
meno a verifica di VIA. |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 dell'08.09.2016, "Quinto
aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 02.09.2016 n. 8412). |
ENTI LOCALI:
G.U. 08.09.2016 n. 210 "Testo unico in materia di società
a partecipazione pubblica" (D.Lgs.
19.08.2016 n. 175). |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 07.09.2016 n. 209 "Proroga dell’ordinanza
contingibile e urgente 06.08.2013, come modificata
dall’ordinanza 03.08.2015, concernente la tutela
dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani"
(Ministero della Salute,
ordinanza 13.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
G.U. 07.09.2016 n. 209 "Codice di giustizia contabile,
adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 07.08.2015 n.
124" (D.Lgs.
26.08.2016 n. 174). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
Principio di rotazione negli appalti: un paradosso giuridico
(09.10.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Arbitrio senza tutele per i nuovi incarichi dirigenziali
post Madia (08.07.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenza parafulmine per la responsabilità erariale della
politica (02.10.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI SERVIZI:
N. Durante,
L’affidamento in house (29.09.2016 -
tratto da www.gistizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nel Paese della produttività bassissima si vaneggia
dell’aumento orario nel pubblico impiego (27.09.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Diritti di rogito: i pareri immotivati della Corte dei conti
(26.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Contrattazione decentrata: si negoziano i criteri, non le
somme (25.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Segretari comunali: lotteria della qualifica dirigenziale
nel caos Madia (23.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
R. De Nictolis,
Il Codice dei
contratti pubblici: la semplificazione che verrà (22.09.2016
- tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Un codice “su misura”. - 2. Un anno
fa. - 3. Oggi. - 4. C’è il codice: c’è la semplificazione? -
5. Semplificazione: istruzioni per l’uso. - 5.1. Realtà
complesse e ordinamenti multilivello. - 5.2. “Lingua
comune”. - 5.3. Codificazione e decodificazione. - 5.4.
Semplificare le organizzazioni e i procedimenti. - 5.5.
Standardizzazione e trasparenza. - 5.6. Sinteticità, clare
loqui, principio di lealtà. - 5.7. Il fattore tempo: il
tempo della legge, i tempi del legislatore. - 5.8. Tabula
rasa e/o transizione? - 5.9. Semplificazione e
semplificatori. - 5.10. Semplificazione e processo. – 6. Per
semplificare basta un codice? |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G. P. Cirillo,
La giurisdizione
sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento
sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla
stabilità dell’atto amministrativo (21.09.2016
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. L’indirizzo assunto dalla Cassazione
e il suo rapido consolidamento, segnali di ripensamento. 2.
Rassegna ragionata della posizione della Cassazione e del
Consiglio di Stato sulla tutela dell’affidamento relativo a
un provvedimento favorevole annullato. 3. La natura
giuridica dell’affidamento e il fondamento della
responsabilità contrattuale. 4. La recente svolta
giurisprudenziale della Cassazione che riconduce la
responsabilità da contatto giuridico qualificato alla
responsabilità precontrattuale, a sua volta ricondotta alla
responsabilità contrattuale e non extra contrattuale com’era
avvenuto finora. 5. Le situazioni base dell’interesse
pretensivo e l’affidamento susseguente all’apertura del
procedimento amministrativo. 6. L’interesse alla stabilità
del provvedimento amministrativo e l’interesse
all’ottenimento del provvedimento favorevole. 7.
L’affidamento nella stabilità del provvedimento ancora
impugnabile e l’affidamento nel provvedimento stabile ma
revocabile. 8. La natura della responsabilità derivante
dall’esercizio illegittimo e legittimo dell’azione
amministrativa. 9 La c.d. tutela contrattuale debole e il
danno meramente patrimoniale. 10. Conclusioni. |
APPALTI:
Gare sotto soglia: la motivazione “adeguata”? Solo una frase
fatta (18.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
N. Niglio,
La carenza
numerica di personale qualificato in una P.A. non giustifica
il ricorso a un incarico di collaborazione professionale
(nota a Corte dei Conti, Sez. Centr. Controllo,
deliberazione 25.08.2016 n. 11) (17.09.2016
- tratto da e link a www.lexitalia.it).
---------------
MASSIMA
1. Gli incarichi professionali nella pubblica
amministrazione di cui all’articolo 7, comma 6, del d.lgs.
n. 165/2001 devono far fronte a esigenze eccezionali,
straordinarie e temporanee, che non possono in alcun modo
coprire i fabbisogni ordinari e le esigenze di carattere
duraturo, cui gli enti sono tenuti a far fronte attraverso
la programmazione triennale del fabbisogno del personale, o
attraverso la riqualificazione professionale del personale
interno.
2. Le figure professionali che necessitano per la
realizzazione delle attività oggetto del conferimento di
incarichi di collaborazione professionale non devono essere
soggettivamente indisponibili, ma oggettivamente non
rinvenibili nell’ambito delle risorse umane a disposizione
dell’Amministrazione conferente, la quale non può fare
ricorso all’affidamento di incarichi di collaborazione per
lo svolgimento di funzioni ordinarie attribuibili a
personale rientrante nei ruoli organici.
3. La ricognizione della natura dell’incarico affidato da un
Ente previdenziale, consistente nell’adeguamento e nella
implementazione del sistema contabile e di bilancio del
medesimo Istituto alle nuove regole della contabilità
pubblica armonizzata, ha permesso di ritenere che tale
attività, seppur connotata da profili di novità, è da
ricondurre ai compiti istituzionali generali dell’Istituto e
alle mansioni ordinarie proprie delle qualifiche
professionali presenti nel relativo organico, tale, perciò,
da poter essere svolta dal personale in servizio. |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Lavoro, controlli a distanza: no al controllo indiscriminato
di e-mail e Internet (16.09.2016
- tratto da www.ipsoa.it). |
APPALTI:
G. Buscema,
Cambio d’appalto: quando è trasferimento d’azienda?
(16.09.2016
- tratto da www.ipsoa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni e spesa di personale: il fenomeno di ciò che è,
ma è anche altro (10.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Tutte le storture dei gabinetti del sindaco in un’intervista
(07.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI:
La nuova disciplina delle società partecipate delle
Pubbliche Amministrazioni - D.LGS. 19.08.2016 N. 175 -
Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica
(ANCI, settembre 2016). |
EDILIZIA PRIVATA: P.
Palazzi,
La sanzione di mancata fine lavori e collaudo anche per la
SCIA?
(25.08.2016 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
R. Pallotta,
Al via il "nuovo" licenziamento disciplinare per i falsi
presenti o assenti nella PA (13.07.2016 -
tratto da www.ipsoa.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA PUBBLICI CONTRATTI) |
APPALTI FORNITURE:
Aggiornamento dei prezzi di riferimento della carta in
risme, ai sensi dell’art. 9, comma 7 del d.l. 66/2014 –
Fascicolo REG/UCS/14/2016 (delibera
21.09.2016 n. 1006 - link a
www.anticorruzione.it).
----------------
Prezzi di riferimento
Aggiornamento dei prezzi di riferimento per la fornitura di
carta in risme
Nell’adunanza del 21.09.2016 con la delibera n. 1006, il
Consiglio dell’Autorità ha aggiornato i prezzi di
riferimento della carta in risme. I prezzi aggiornati sono
stati elaborati sulla base di sviluppi metodologici che
hanno affinato in modo significativo il modello elaborato
nel 2015, tenendo adeguatamente conto dei rilievi formulati
dagli stakeholders in sede di consultazione on-line.
|
APPALTI:
Linee Guida n. 2, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50, recanti “Offerta economicamente più vantaggiosa” (determinazione
21.09.2016 n. 1005 - link a
www.anticorruzione.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Linee Guida n. 1, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50, recanti “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi
attinenti all’architettura e all’ingegneria” (determinazione
14.09.2016 n. 973 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI SERVIZI:
Oggetto: Indicazioni operative alle stazioni appaltanti e
agli operatori economici in materia di affidamento di
servizi sociali (comunicato
del Presidente 14.09.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
(proposta di) Linee guida per il ricorso a procedure
negoziate senza previa pubblicazione di un bando nel caso di
forniture e servizi ritenuti infungibili (14.09.2016
- link a www.anticorruzione.it).
---------------
Nell’adunanza del 31.08.2016, il Consiglio dell’Autorità
ha approvato, in via preliminare, il documento denominato
“Linee guida per il ricorso a procedure negoziate senza
previa pubblicazione di un bando nel caso di forniture e
servizi ritenuti infungibili”, che tiene conto sia delle
osservazioni pervenute a seguito della consultazione
pubblica avviata il 27.10.2015 sia delle disposizioni
dettate in materia dalla nuova normativa nazionale e
comunitaria.
In considerazione della rilevanza generale delle
determinazioni assunte, il Consiglio ha ritenuto di
acquisire, prima dell’approvazione del documento definitivo,
il parere del Consiglio di Stato, della Commissione VIII -
Lavori pubblici, comunicazioni del Senato della Repubblica e
della Commissione VIII - Ambiente, Territorio e Lavori
Pubblici della Camera dei Deputati.
All’esito dell’acquisizione dei pareri richiesti, si
procederà all’approvazione e successiva pubblicazione del
documento definitivo. |
APPALTI SERVIZI:
Oggetto: chiarimenti sull’applicazione dell’art. 192 del
Codice dei contratti (comunicato
del Presidente 03.08.2016 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Pubblicato il comunicato del Presidente che fornisce
chiarimenti sulla possibilità di effettuare affidamenti
diretti alle società in house nelle more dell’emanazione, da
parte dell’Autorità, dell’elenco delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Verifiche circa le modalità di affidamento dei servizi di
assistenza legale di cui all’allegato II B del Codice dei
contratti pubblici (delibera
20.07.2016 n. 774 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
MASSIMA
1. Premessa e fatto
A seguito della segnalazione acquisita al protocollo Anac n.
138863 del 22/10/2015 con cui l’ex Assessore alla mobilità e
ai trasporti di Roma Capitale, Dott. St.Es., ha denunciato
scarsa trasparenza nella gestione degli affidamenti legali
di A. S.p.A., l’Autorità, nell’ambito dell’assolvimento dei
propri compiti istituzionali, ha ritenuto di approfondire le
modalità con le quali A. S.p.A. ha proceduto all’affidamento
di servizi legali nel periodo 2011-2015, mediante
l’acquisizione dello SMARTCIG, ed a tal fine, sono stati
estratti dalla banca dati nazionale (BDNCP) gli affidamenti
di servizi legali attivati dalla stessa società nel periodo
2011/2015.
Dall’analisi dei dati è emerso un elevato numero di servizi
legali affidati all’esterno, nonostante la presenza in A.
S.p.A. di avvocati abilitati all’esercizio della professione
assunti per lo svolgimento delle funzioni legali della
società, ed il frequente ricorso all’affidamento diretto per
tale tipologia di servizi nel periodo di riferimento.
L’Autorità, pertanto, al fine di acquisire maggiori
informazioni in relazione a quanto riscontrato, ha chiesto
ad A. S.p.A. di inviare, entro 30 giorni, la seguente
documentazione:
...
Ritenuto in diritto
L'art. 20 comma 1, del previgente d.lgs. n. 163/2006
stabilisce che: “l’aggiudicazione degli appalti aventi
per oggetto i servizi elencati nell'allegato II B (tra cui i
Servizi Legali) è disciplinata esclusivamente dall'art. 68
(specifiche tecniche), dall'articolo 65 (avviso sui
risultati della procedura di affidamento), dall'articolo 225
(avvisi relativi agli appalti aggiudicati)”.
Occorre, inoltre, tener conto del disposto del successivo
art. 27, ai sensi del quale l'affidamento dei contratti
pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall'applicazione
dello stesso d.lgs. n. 163/2006, doveva avvenire “nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità”.
Tali regole, tese ad evitare il pericolo concreto di
violazione della imparzialità della stazione appaltante e
quindi poste a tutela della correttezza del procedimento e
dell'azione amministrativa, vanno considerate imperative e
come tali inderogabilmente applicabili sulla base di canoni
di interpretazione sistematica.
Il principio generale nel quale occorre sussumere le
disposizioni interessate è, quindi, quello della trasparenza
e imparzialità dell’operato della pubblica amministrazione,
a maggior ragione considerando che l'articolo 2, comma 3,
del predetto codice dei contratti prevedeva che dovevano
essere, altresì, rispettate le disposizioni sul procedimento
amministrativo di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, il cui
art. 1 evidenzia che l’azione amministrativa deve essere
retta da criteri di economicità, di efficacia, di
imparzialità, di pubblicità e di trasparenza.
Con particolare riferimento al tenore dell'art. 20 del
previgente codice dei contratti, in base al quale
l’aggiudicazione degli appalti aventi oggetto i servizi e
gli altri indicati nell’elenco allegato II B era
disciplinata esclusivamente dagli artt. 68 (specifiche
tecniche), 65 (avviso sui risultati della procedura) e 225
(avviso sugli appalti aggiudicati), lo stesso non
presupponeva affermare un principio per cui l’art. 20 avesse
introdotto una deroga all’applicazione di gran parte delle
norme del codice degli appalti (in contrario ad una deroga
generalizzata, v. Cons. di Stato, sez. V, n. 4510/2012).
L’orientamento sembra doversi contenere nella confermata
applicabilità di tutte le norme del codice che abbiano una
valenza di principio generale, senza quindi potersi spingere
ad applicare cause di esclusione non espressamente previste
dalla normativa, stante peraltro il principio di tassatività
delle stesse in correlazione con quello di massima
partecipazione (Cons. di Stato, sez. V, n. 7672/2010).
Tutto ciò considerato in fatto e ritenuto in diritto
DELIBERA
- che A. S.p.A.
nel tempo ha operato una inesatta
qualificazione giuridica della fattispecie dei servizi
legali;
- che A. S.p.A.
non ha rispettato quanto previsto dall’art.
27, comma 1, del precedente codice dei contratti (d.lgs.
163/2006) con riferimento ai servizi legali di cui
all’allegato II B (contratti parzialmente esclusi
dall’applicazione del Codice), poiché gli stessi erano
comunque assoggettati, indipendentemente dal loro importo,
alle regole di pubblicità di cui agli artt. 65 (avviso sui
risultati della procedura di affidamento) e 225 (avvisi
relativi agli appalti aggiudicati) ai sensi di quanto
previsto dall’art. 20 del medesimo decreto legislativo,
nonché al rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, ed i relativi affidamenti dovevano essere
preceduti da invito rivolto ad almeno cinque concorrenti.
- l’invio della presente Deliberazione ad A. S.p.A. da parte
dell’Ufficio Piani di Vigilanza e Vigilanze Speciali, con
richiesta di pubblicarla sul sito istituzionale della
società;
- L’invio del presente deliberato alla Procura della
Repubblica di Roma ed alla Procura Generale della Corte dei
Conti, per i profili di propria competenza. |
APPALTI: Concorsi
con il codice per tracciare i pagamenti. Istruzioni Anac
alle stazioni appaltanti sull'acquisizione dei Cig.
Il Codice identificativo gara di ogni appalto deve essere
acquisito prima dell'indizione della gara.
È quanto ha precisato l'Anac dettando le istruzioni e la
tempistica che le stazioni appaltanti (comunicato
del Presidente 13.07.2016 – tempistiche acquisizione CIG), e in particolare il
responsabile del procedimento (Rup), devono seguire quando
indicono una procedura per affidamento di contratti
pubblici.
La materia vede strettamente collegata
l'acquisizione del Cig (codice identificativo gara) con il
contributo per la partecipazione alle gare.
L'Avcp (delibera del 10.01.2007) che ha prima
stabilito che le stazioni appaltanti e gli enti
aggiudicatori «sono tenuti al pagamento della contribuzione
all'atto dell'attivazione delle procedure di selezione del
contraente» e che gli operatori economici sono tenuti al
versamento del contributo a pena di esclusione dalla gara;
successivamente la stessa Avcp (delibera del 01.10.2010) ha poi previsto l'obbligo dell'indicazione del codice Cig (codice identificativo gara) su bandi e avvisi di gara
da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale.
È ora l'articolo 213, comma 9, del nuovo codice dei contratti
pubblici a stabilire che l'Autorità individui le
informazioni obbligatorie, i termini e le forme di
comunicazione che le stazioni appaltanti e gli enti
aggiudicatori sono tenuti a trasmettere all'Osservatorio.
Con due comunicati del 13 luglio pubblicati sul sito Anac
nei giorni scorsi, sono state quindi chiarite sia le
modalità di acquisizione dei Cig da parte delle stazioni
appaltanti, sia la tempistica.
Dal punto di vista dei tempi l'Anac ha chiarito che le
stazioni appaltanti che intendono avviare una gara, sono
tenute ad acquisire il relativo Cig, «anche in modalità smart, in un momento antecedente all'indizione della
procedura di gara». In altre parole: se è prevista la
pubblicazione di un bando o avviso, il Cig va acquisito
prima della pubblicazione in G.U., in modo che possa essere
ivi riportato; per le gare che prevedono l'invio della
lettera di invito, il Cig va acquisito prima dell'invio
delle stesse in modo che possa essere ivi riportato.
Invece, per gli acquisiti effettuati senza le formalità di
pubblicazione e invio della lettera di invito il Cig va
acquisito prima della stipula del relativo contratto in modo
che possa essere ivi riportato e consentire il versamento
del contributo da parte degli operatori economici
partecipanti (ad esempio nel caso di affidamenti in somma
urgenza il Cig va riportato nella lettera d'ordine).
Infine, per le gare di cui non è previsto l'obbligo di
contribuzione a favore dell'Autorità il Cig va acquisito
prima della stipula del relativo contratto in modo che possa
essere ivi riportato.
Nel secondo comunicato (comunicato
del Presidente 13.07.2016 – modalità operative acquisizione
CIG) viene specificatamente indicato come
la stazione appaltante si deve attivare nell'ambito della
procedura informatica Anac. In particolare si chiarisce che
i Rup (responsabile unico del procedimento), «dovranno
dichiarare sotto la propria responsabilità, tramite la
consueta procedura informatica di creazione della gara, se
quest'ultima riguarda una delle categorie di cui all'art. 1
del decreto stesso (farmaci, vaccini, stent, facility
management immobili e altro) ovvero categoria merceologica
differente»
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2016). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Prerogative dei consiglieri comunali e dei gruppi consiliari.
Si ritiene che lo svolgimento di
un'attività di ricezione della cittadinanza da parte dei
consiglieri comunali (sia che gli stessi agiscano come
singoli, sia come gruppo consiliare), sia da considerarsi
ammissibile se svolta nel rispetto delle prerogative ad essi
proprie e degli strumenti di cui gli stessi dispongono.
Il Comune chiede un parere in merito alle prerogative
spettanti ai consiglieri comunali ed ai gruppi consiliari.
Più in particolare, desidera sapere se, in assenza di
previsioni statutarie e regolamentari sul punto, l'Ente sia
obbligato a concedere ai gruppi consiliari, o ai singoli
consiglieri, che ne abbiano fatto richiesta, un luogo idoneo
al ricevimento dei cittadini e se sia tenuto a pubblicizzare
i giorni e gli orari di tali ricevimenti con le stesse
modalità e all'interno della stessa bacheca dove sono
esposte le modalità di ricevimento degli assessori.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Con riferimento ai gruppi consiliari, in via generale, si
osserva che la gestione della loro articolazione e
funzionamento rientra nell'ambito della più ampia autonomia
funzionale ed organizzativa di cui sono dotati i consigli
comunali, in conformità al disposto di cui all'articolo 38
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267. La disciplina
inerente alle modalità di funzionamento dei gruppi, nel cui
alveo si ritiene che si possa ricomprendere anche
l'eventuale concessione di spazi idonei per il ricevimento
della cittadinanza da parte dei gruppi stessi, deve
rintracciarsi nel regolamento sul funzionamento dei
consigli.
Com'è noto i gruppi consiliari costituiscono, infatti,
aggregazioni di carattere politico all'interno del consiglio
comunale la cui esistenza, benché non espressamente sancita
da alcuna norma espressa, risulta tuttavia desumibile da
diverse norme contenute nel TUEL. [1]
Ad essi pare, inoltre, applicabile la disposizione di cui
all'articolo 38, comma 3, del D.Lgs. 267/2000 nella parte in
cui prevede che 'con norme regolamentari i comuni e le
province fissano le modalità per fornire ai consigli
servizi, attrezzature e risorse finanziarie'. Benché la
norma sia dettata espressamente per i consigli comunali le
sue previsioni paiono estensibili anche ai gruppi
consiliari, in cui il consiglio si articola
[2].
Si ritiene, pertanto, che l'Ente dovrebbe disciplinare la
tematica in riferimento tramite proprio regolamento,
[3]
prevedendo in ogni caso condizioni paritarie per tutti i
gruppi consiliari e/o per i singoli consiglieri comunali. Si
consideri, infatti, che i consiglieri, che agiscano (sia
come singoli sia come gruppo consiliare) nell'esercizio del
proprio munus pubblico, hanno gli stessi diritti e
gli stessi doveri, indipendentemente dalla loro appartenenza
alla maggioranza o alla minoranza consiliare, potendo quindi
utilizzare i medesimi strumenti posti a disposizione
dall'Amministrazione locale.
Con riferimento all'ammissibilità dello svolgimento di
un'attività di ricezione nei locali comunali della
cittadinanza da parte dei consiglieri, [4]
siano essi considerati individualmente o come gruppi
consiliari, si ritiene che la stessa sia da considerarsi
ammissibile soltanto se svolta nel rispetto delle
prerogative ad essi proprie e degli strumenti di cui gli
stessi dispongono.
In altri termini, si ritiene che tale attività non possa
essere qualificata tout court come 'attività con
rilevanza esterna' che, come noto, non è consentita ai
consiglieri comunali. Con tale espressione suole, infatti,
riferirsi all'attività di amministrazione attiva che
comporterebbe una 'inammissibile confusione in capo al
medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato'
[5]. Ciò
che non risulta ammissibile è l'attribuzione di compiti che
possano implicare l'indebita ingerenza in attività di
amministrazione attiva propria dei componenti dell'organo
giuntale. [6]
Premesso che i consiglieri svolgono la propria attività
istituzionale in qualità di componenti di un organo
collegiale quale il consiglio, risulta necessario valutare
se l'attività di ricevimento del pubblico possa trovare
fondamento nelle prerogative che l'ordinamento riconosce
agli stessi in correlazione all'esercizio del munus
pubblico rivestito. Al riguardo, l'articolo 43 TUEL
attribuisce ai consiglieri il diritto di iniziativa su ogni
questione sottoposta alla deliberazione del consiglio,
nonché il diritto di presentare interrogazioni, mozioni ed
altre istanze di sindacato ispettivo.
Si può ritenere che l'attività dei consiglieri comunali che
si sostanzia nella ricezione dei cittadini possa avere un
carattere più propriamente informativo, ai fini
dell'eventuale attivazione successiva da parte dei
consiglieri, in seno al consiglio comunale, degli strumenti
di cui gli stessi sono dotati dall'ordinamento giuridico
(interrogazioni, interpellanze ecc.).
Diverso è invece il ruolo istituzionale svolto dai
componenti della giunta comunale: il singolo cittadino
potrà, dunque, rivolgersi ad un consigliere piuttosto che ad
un assessore nella consapevolezza della diversità di ruoli
svolti dai due amministratori pubblici.
Ferma rimane la considerazione generale per cui l'attività
di ricevimento della cittadinanza deve costituire
estrinsecazione dello svolgimento del munus pubblico
proprio degli amministratori locali, con la conseguenza che
la stessa non potrà assumere né i caratteri di un'attività
di tipo privato né quella di una propaganda politica di
partito che fuoriesca dall'attività propriamente
istituzionale.
Da ultimo, quanto alla sussistenza o meno di un obbligo per
l'Ente di pubblicizzare i giorni ed orari dei ricevimenti
dei consiglieri con le stesse modalità e all'interno della
stessa bacheca dove sono esposte le modalità di ricevimento
degli assessori, in coerenza a quanto sopra esposto, si
ritiene che il Comune dovrà rendere conoscibili tali dati
con modalità che non generino confusione tra le diverse
figure istituzionali presenti all'interno
dell'amministrazione comunale stante il distinguo di ruoli,
funzioni e competenze dei consiglieri da un lato e degli
assessori dall'altro.
Al contempo, si ribadisce che analoghe modalità di
pubblicità dovranno essere utilizzate per i consiglieri di
maggioranza e di minoranza, pena la frustrazione dei
principi di par condicio e di democraticità che informano il
nostro ordinamento giuridico.
---------------
[1] Si consideri, al riguardo, l'articolo 38, comma 3,
TUEL nella parte in cui demanda al regolamento sul
funzionamento dei consigli comunali la disciplina, tra
l'altro, anche della gestione delle risorse attribuite per
il funzionamento dei gruppi consiliari regolarmente
costituiti. Ancora, l'articolo 39, comma 4, TUEL, prevede
che il presidente del consiglio comunale assicura una
adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari
sulle questioni sottoposte al consiglio.
[2] In questo senso si veda il parere dell'ANCI del
21.04.2006 ove si afferma che: 'La legge di riferimento
(Testo unico sull'Ordinamento degli Enti Locali, di cui al
D.Lgs. 267/2000), attribuisce ai consiglieri comunali ed in
particolare ai gruppi in cui il consiglio è articolato, il
diritto di disporre di servizi, attrezzature e risorse
finanziarie e di adeguata autonomia funzionale e
organizzativa (art. 38, c. 3)'.
[3] Sia esso quello relativo al funzionamento del consiglio,
o altro, quale il regolamento sull'utilizzo delle sale
consiliari.
[4] Siano essi appartenenti o meno alla maggioranza
consiliare.
[5] Così TAR Toscana, sez. I, sentenza del 27.04.2004, n.
1248.
[6] Né l'adozione di atti di gestione spettanti agli organi
burocratici
(27.09.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Minoranza, diritti tutelati. Il quorum non deve
pregiudicarne l'operato. Una soglia troppo elevata favorisce
l'ostruzionismo della maggioranza.
Qual è il quorum necessario per la validità delle sedute
consiliari di seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero
dei consiglieri necessario per la validità delle sedute»,
con il limite che tale numero non può, in ogni caso,
scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri
assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia».
Nel caso di specie, il consiglio del comune ha deliberato la
modifica del regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale recante «seduta di seconda convocazione»
prevedendo, al fine della validità della seduta, la presenza
di «almeno quattro consiglieri».
Poiché il consiglio comunale in questione è composto da soli
tre consiglieri di minoranza, è stata segnalata la
difficoltà di questi ultimi di poter esercitare il proprio
mandato elettivo, a causa del ripetersi delle assenze della
maggioranza e alla conseguente mancanza del numero legale
previsto per la validità delle sedute del consiglio.
In merito a tale problematica, si richiamano le osservazioni
formulate dal Tar Sicilia, Catania, sez. I, 18/07/2006 n.
1181, in tema di c.d. «ostruzionismo di maggioranza».
Nella citata pronuncia si evidenzia che il comportamento
preordinato al conseguimento della mancanza del numero
legale delle assemblee rappresentative costituisce una
inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti
delle minoranze, alle quali viene impedito di esercitare il
proprio ruolo di opposizione e quindi l'esercizio di un
diritto politico costituzionalmente garantito.
Secondo il Tar citato, l'art. 49 della Costituzione preclude
ai partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque
opera non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola,
lenta e surrettizia erosione delle istituzioni democratiche».
Pertanto, la modifica regolamentare proposta, unitamente
alla lamentata assenza sistematica dei componenti di
maggioranza potrebbero configurare un inammissibile
svilimento dei diritti e delle prerogative dei consiglieri
di minoranza.
Premesso che il vigente ordinamento non prevede poteri di
controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in
capo al ministero dell'interno, si ritiene che l'ente locale
in oggetto debba valutare l'opportunità di rivedere la
normativa regolamentare in questione (articolo
ItaliaOggi del 23.09.2016). |
APPALTI ATTI AMMINISTRATIVI:
L'accesso agli atti della gara d'appalto.
DOMANDA:
Una ditta che ha partecipato alla gara di appalto per la
gestione dell'asilo nido e che ha ottenuto il punteggio più
basso, ha presentato istanza di accesso agli atti
finalizzata ad ottenere copia delle offerte tecniche
presentate dalle altre concorrenti di cui una
aggiudicataria.
Tenendo conto di quanto stabilito dal nuovo codice dei
contratti, in particolare l'art. 53, e da quanto da loro
dichiarato nell'istanza di partecipazione alla gara, ossia
il mancato assenso alla divulgazione delle proprie offerte,
supportato da esiti di sentenze varie, si chiede un parere
in merito all'obbligo per la stazione appaltante di
rilasciare quanto richiesto tenendo anche conto che da una
prima analisi della giurisprudenza emergono sentenze di TAR
e Consiglio di Stato di diverso parere.
RISPOSTA:
L’art. 53 del D.Lgs. 50/2016 -dopo aver previsto che il
diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento
e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le
candidature e le offerte, è disciplinato dagli articoli 22 e
ss. della legge 07.08.1990, n. 241- contiene una serie di
prescrizioni specifiche in materia di procedure di
aggiudicazione.
Innanzitutto sancisce che, in relazione alle offerte, il
diritto di accesso è differito fino all’aggiudicazione.
Prevede inoltre che “il diritto di accesso e ogni forma
di divulgazione sono esclusi in relazione: a) alle
informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a
giustificazione della medesima che costituiscano, secondo
motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti
tecnici o commerciali”.
Tuttavia, anche in relazione a tale ipotesi, consente
l'accesso al concorrente ai fini della difesa in giudizio
dei propri interessi in relazione alla procedura di
affidamento del contratto. Nel caso concreto, il concorrente
che ha ottenuto il punteggio più basso nella gara di appalto
per la gestione dell’asilo nido, ha presentato istanza di
accesso alle offerte tecniche presentate dalle altre
concorrenti (che, nell’istanza di partecipazione, hanno
manifestato dissenso alla divulgazione delle proprie
offerte).
Si ricorda innanzitutto che il divieto accesso in commento
-già contenuto nell’art. 13, comma 5, lett. a), del D.Lgs.
163/2006- costituisce un'ipotesi di speciale deroga rispetto
alla disciplina di cui alla L. 07.08.1990, n. 241, da
applicare esclusivamente nei casi in cui l'accesso sia
inibito in ragione della tutela di segreti tecnici o
commerciali motivatamente evidenziati dall'offerente in sede
di presentazione dell’offerta.
Occorre quindi verificare se il dissenso manifestato dalle
ditte concorrenti alla divulgazione delle proprie offerte,
sia fondato su ragioni di tutela di segreti tecnici o
commerciali, in riferimento a precisi dati tecnici. In tal
caso, tenuto conto che i progetti sono il risultato di
attività di studio, di ricerca e di elaborazione di dati
oltre che di conoscenze personali, “possono essere
interdetti alla concorrenza, onde evitare un sicuro
pregiudizio economico delle imprese cui si riferiscono,
salva l’ipotesi limite, preminente, della funzionalità di
cura e difesa di un interesse specifico e giuridicamente
rilevante dell’istante, da garantirsi con stretto
riferimento ai singoli atti a tanto necessari e nelle forme
meno invasive della mera visione” (impostazione
condivisa dal Consiglio di Stato - Sezione VI, ord.
01.02.2010, n. 524, nonché da TAR Sardegna, 26.01.2010, n.
89 e 20.04.2006, n. 2223).
Tuttavia, onde evitare un’illimitata compressione del
diritto di accesso, esponendo il sistema ad abusi ed
illeciti di diverso tenore, l’ordinamento assegna la
funzione di fulcro del bilanciamento, da un lato, alla “motivata
e comprovata” manifestazione di interesse della ditta
offerente controinteressata a serbare il segreto sulla
documentazione di che trattasi, e, dall’altro lato, alla
positiva valutazione delle sue obiezioni da parte
dell’amministrazione procedente, garantendo così la
soddisfazione di entrambe le antitetiche esigenze (Consiglio
di Stato – Sezione VI, 30.07.2010, n. 5062).
In base alla giurisprudenza in materia, si ritiene che siano
due i presupposti che devono necessariamente coesistere ai
fini del diniego dell’accesso agli atti: specifiche ragioni
di tutela del segreto industriale e commerciale, in
riferimento a precisi dati tecnici, i quali, inoltre, devono
già essere indicati in sede di offerta; posizione
qualificata nell’ambito della procedura di gara del
richiedente (2° classificato): “considerato che il
ricorrente, quale secondo classificato in graduatoria,
riveste un posizione particolarmente qualificata nell’ambito
della procedura di gara, si osserva che il diritto di
accesso dal medesimo esercitato si configura strumentale ad
un’eventuale azione giudiziaria, così da dover essere in
ogni caso assentito” (TAR Lombardia-Milano, Sezione III,
15.01.2013, n. 116) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI
LOCALI:
Formazione volontari per la sicurezza.
Qualora l'attività di volontariato venga
svolta nell'ambito di un'organizzazione di un datore di
lavoro, l'art. 3, comma 12-bis, terzo e quarto periodo, del
D.Lgs. 81/2008 sancisce l'obbligo, in capo al datore di
lavoro medesimo, di fornire ai volontari dettagliate
informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti
in cui è chiamato ad operare, e sulle misure di prevenzione
ed emergenza adottate in relazione all'attività svolta.
Inoltre, il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure
volte ad eliminare, o ridurre al minimo, i rischi da
interferenze.
Il Comandante del Corpo di Polizia Locale chiede se, ai
sensi del D.Lgs. 81/2008, sussistano degli obblighi
formativi in capo al Comune presso cui i 'volontari per
la sicurezza', iscritti nell'elenco regionale di cui
all'art. 5, comma 5, della L.R. 9/2009, prestano il loro
servizio.
La normativa regionale di riferimento relativa ai 'volontari
per la sicurezza' la si rinviene all'art. 5 della L.R.
9/2009 e nel relativo regolamento di attuazione n. 03/Pres.
del 12.01.2010.
La natura giuridica dell'attività prestata dai 'volontari
per la sicurezza', così come descritta all'art. 8 del
D.P.Reg. n. 03/Pres. del 12.01.2010, può essere ricondotta,
in genere, alle attività di volontariato di cui alla legge
quadro n. 266/1991.
L'art. 3 del testo unico sulla sicurezza, D.Lgs. 09.04.2008
n. 81, disciplina il campo di applicazione del decreto.
Il comma 12-bis prevede che 'nei confronti dei volontari
di cui alla legge 11.08.1991, n. 266 [... ] si applicano le
disposizioni di cui all'articolo 21 del presente decreto',
equiparando così i volontari in questione ai lavoratori
autonomi.
L'art. 21 del D.Lgs. 81/2008 disciplina gli obblighi e le
facoltà, in materia di sicurezza, sussistenti in capo ai
componenti dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis
del codice civile e dei lavoratori autonomi che compiono
opere o servizi ex art. 2222 c.c.. Al comma 2, lett. b), si
prevede la facoltà di partecipare a corsi di formazione
specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro,
incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo
la previsione di cui al successivo art. 37, fermi restando
gli obblighi previsti da norme speciali.
Il secondo, il terzo e il quarto periodo del comma 12-bis,
dell'art. 3, del D.lgs. 81/2008, continuano precisando: 'Con
accordi tra i soggetti e le associazioni o gli enti di
servizio civile possono essere individuate le modalità di
attuazione della tutela di cui al primo periodo. Ove uno dei
soggetti di cui al primo periodo svolga la sua prestazione
nell'ambito di un'organizzazione di un datore di lavoro,
questi è tenuto a fornire al soggetto dettagliate
informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti
nei quali è chiamato ad operare e sulle misure di
prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla sua
attività. Egli è altresì tenuto ad adottare le misure utili
a eliminare o, ove ciò non sia possibile, a ridurre al
minimo i rischi da interferenze tra le prestazione del
soggetto e altre attività che si svolgano nell'ambito della
medesima organizzazione'.
Essendo il Comune di Udine un'organizzazione dotata di un 'datore
di lavoro', così come definito all'articolo 2 del D.Lgs.
n. 81/2008, pare ragionevole ritenere che i volontari della
sicurezza vadano informati sui rischi specifici esistenti
negli ambienti in cui vanno ad operare, oltre che sulle
misure di prevenzione ed emergenza connesse alla loro
attività.
Tale informativa, ai sensi dell'art. 3, comma 12-bis, terzo
periodo, del D.Lgs. 81/2008, si concreta in un obbligo in
capo al datore medesimo, che è altresì tenuto a quanto
previsto all'ultimo periodo dello stesso comma 12-bis,
relativo all'eliminazione o alla riduzione dei rischi da
interferenze.
Quanto al fatto che l'allegato B, 'Formazione', del
D. P.Reg. n. 03/Pres del 12.01.2010, non faccia cenno alla
formazione ai sensi del D.Lgs. 81/2008, ciò deriva dal fatto
che la Regione non ha alcuna competenza al riguardo, e non
avrebbe alcun titolo nel prevedere o disciplinare un obbligo
regolato esclusivamente da disposizioni statali (22.09.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Consigli, decidono gli enti. Sull'elezione del presidente
vale il regolamento. Allo statuto
del comune spetta solo fissare i principi generali.
Qualora, in materia di elezione del presidente del consiglio
comunale, emergano differenze tra la disciplina statutaria e
quella regolamentare dell'ente locale, quale normativa deve
essere applicata?
Nella fattispecie in esame, lo statuto comunale prevede che
il presidente sia eletto a maggioranza dei due terzi dei
componenti l'assemblea. Se, dopo due scrutini, da tenersi in
due distinte sedute, nessun candidato ottiene la maggioranza
prevista, nella terza votazione si effettua il ballottaggio
a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno
riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione.
Il regolamento del consiglio comunale prevede, invece,
un'ulteriore votazione successiva alla terza risultata
infruttuosa in quanto stabilisce che, qualora nessun
candidato ottenga, dopo due scrutini, la maggioranza
qualificata prevista dallo statuto, si debba procedere,
nella terza votazione, al ballottaggio a maggioranza
semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior
numero di voti nella seconda votazione e che le votazioni
vengano ripetute nella seduta successiva.
Premesso che ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000, «il funzionamento dei consigli, nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato
dal regolamento», pertanto la disciplina del numero legale
per la validità delle adunanze (c.d. «quorum strutturale») e
delle votazioni (c.d. «quorum funzionale o deliberativo») è
stata delegificata, nel caso di specie non si ravvisa la
discrasia tra le due fonti di autonomia locale.
Ciò in quanto la normativa regolamentare si limita a
disciplinare un'ulteriore votazione di cui non si fa
menzione nello statuto. In altri termini, il regolamento del
consiglio comunale non contrasta con nessuna norma
statutaria poiché, in quanto fonte abilitata a porre norme
sul funzionamento del consiglio, aggiunge un ulteriore
passaggio alla procedura prevista dallo statuto per
l'elezione del presidente del consiglio comunale.
Pertanto, le disposizioni normative recate dalle citate
fonti di autonomia locale, con riferimento al ballottaggio
da tenersi nella terza votazione, ancorché formulate in
maniera piuttosto confusa, dovrebbero essere interpretate in
coerenza con la ratio che, normalmente, ispira il
sistema di ballottaggio, e cioè quella di considerare eletto
colui tra i candidati che abbia ottenuto il più alto numero
dei votanti a prescindere dal numero dei votanti
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Sui gruppi parola all'ente. E anche sul numero minimo di
componenti. Il regolamento non può
essere disapplicato se non previo ritiro.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale può
disciplinare la costituzione del gruppo misto prevedendo che
lo stesso sia composto da almeno due consiglieri, impedendo,
sostanzialmente, la formazione del gruppo misto
monopersonale?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge e la relativa materia è regolata dalle
norme statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
Il ministero dell'Interno ha già in precedenza espresso il
proprio orientamento evidenziando che, «in assenza di
disposizioni che escludano espressamente la possibilità di
istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un
unico componente, si potrebbe accedere a un'interpretazione
delle fonti di autonomia locale orientata alla
valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire ad
un gruppo consiliare».
Tuttavia, nel caso di specie, il regolamento del consiglio
comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il
gruppo misto uni personale; pertanto, va da sé che l'avviso
espresso in altra circostanza non può essere adattato al
diverso contesto normativo in vigore nel comune in oggetto.
In merito, appare utile richiamare le osservazioni formulate
dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in
base alle quali, una volta adottato il regolamento recante
le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste
ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Conseguentemente, poiché la materia dei «gruppi
consiliari» è interamente demandata alla competenza
delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito che potrà
essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche
alla normativa in questione (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Antimafia in comune. Commissione ok se lo statuto
la prevede. Disco verde alla funzione di supporto del
consiglio comunale.
Un Comune può istituire una commissione consiliare
antimafia?
L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000
prevede la possibilità, per il consiglio comunale, di
avvalersi di commissioni costituite nel proprio seno con
criterio proporzionale. Tale disposizione ne demanda la
previsione allo statuto dell'ente e rinvia al regolamento
comunale la determinazione dei relativi poteri e la
disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità
dei lavori.
Il successivo articolo 44, comma 2, dà, altresì,
facoltà al consiglio comunale di «istituire al proprio
interno commissioni di indagine sull'attività
dell'amministrazione», precisando che «i poteri, la
composizione e il funzionamento delle suddette commissioni
sono disciplinati dallo statuto e dal regolamento
consiliare».
Le Commissioni, dunque, nell'ambito del vigente
ordinamento degli enti locali, costituiscono forme di
articolazione interna del consiglio e si configurano come un
contenuto facoltativo dello statuto dell'ente locale, mentre
al regolamento è demandata la disciplina delle modalità
organizzative con cui le stesse esercitano le funzioni
assegnate.
Tutte le commissioni consiliari operano
ordinariamente nell'ambito delle competenze dei consigli,
come disciplinate dall'art. 42 del Tuoel; pertanto, in virtù
delle richiamate disposizioni, anche la commissione comunale
antimafia, per poter essere concretamente istituita, deve
trovare apposita previsione nello statuto comunale.
Nel caso
di specie, la partecipazione degli enti locali alle attività
di prevenzione dei fenomeni di criminalità organizzata è
prevista anche dalla legge regionale in materia, che
promuove il ruolo degli enti locali nel perseguimento di
tali peculiari obiettivi e adotta specifiche iniziative per
valorizzare e diffondere le migliori politiche locali per la
trasparenza, la legalità e il contrasto al crimine
organizzato.
Il legislatore regionale prevede, inoltre, la
promozione di specifiche azioni formative rivolte ad
amministratori e dipendenti degli enti locali sui temi della
prevenzione e del contrasto civile alle infiltrazioni della
criminalità organizzata, del riuso sociale dei beni
confiscati, della diffusione della cultura della legalità.
Ciò posto, l'istituenda commissione antimafia potrebbe
esercitare la facoltà di proposta nell'ambito delle funzioni
di supporto e ausilio del consiglio. L'eventuale funzione di
accertamento di potenziali discrasie amministrative deve,
invece, essere ricondotta ai compiti specifici della
commissione di indagine sull'attività dell'amministrazione,
come prevista dal richiamato art. 44 del dlgs n. 267/2000.
Restano, comunque, ferme le competenze degli organi di
controllo interno dell'amministrazione, rispetto
all'attività degli uffici, che non possono essere surrogate
dalla eventuale attività di indagine della commissione
consiliare
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Rimborso delle spese legali ad un amministratore.
Ferma la sussistenza degli altri
requisiti di legge, si ritiene che competa il rimborso delle
spese legali ad un amministratore locale, in esito ad un
procedimento penale avviato nei suoi confronti e conclusosi
con l'archiviazione, qualora il giudice per le indagini
preliminari abbia accertato l'assenza di responsabilità in
capo all'amministratore.
Il Comune chiede un parere in merito alla rimborsabilità
delle spese legali sostenute da un amministratore locale per
un procedimento penale avviato nei suoi confronti per il
reato di diffamazione (articolo 595 c.p.) e conclusosi con
l'archiviazione.
Precisa l'Ente che il giudice delle indagini preliminari nel
disporre l'archiviazione del procedimento ha precisato che
'i fatti così come descritti ed accertati non integrano
alcuna ipotesi di reato'. [1]
Come fatto presente nel quesito posto, la questione è già
stata affrontata dallo scrivente Ufficio nel parere del
23.11.2015 (prot. n. 15542) le cui conclusioni rimangono
valide anche con riferimento alla fattispecie in esame ed al
quale, di conseguenza, si rinvia.
In ogni caso, di seguito si riporta l'iter logico seguito
nel parere citato che prende avvio dal disposto di cui
all'articolo 151 della legge regionale 31.08.1981, n. 53,
come modificata dall'articolo 12, comma 30, della legge
regionale 14.08.2008, n. 9, il cui comma 1, così recita: 'In
caso di instaurazione di giudizio civile, penale o
amministrativo di qualsiasi tipo a carico di componenti
della Giunta regionale, del Consiglio regionale, di organi
collegiali di enti regionali o di soggetti esterni
incaricati di funzioni regionali o inseriti in organismi
regionali per attività svolte nell'esercizio delle
rispettive funzioni istituzionali, a causa ovvero in
occasione di queste, la Regione provvede a rimborsare le
spese sostenute per la difesa in giudizio, previo parere di
conformità da parte dell'Ordine degli avvocati
territorialmente competente, con l'esclusione dei casi in
cui il giudizio o una sua fase si concluda con sentenza o
decreto di condanna o pronuncia equiparata; il rimborso non
è tuttavia ammesso nei casi in cui il giudizio si concluda
con una sentenza dichiarativa di estinzione del reato per
prescrizione o per amnistia, a meno che queste non siano
dichiarate nel corso delle indagini preliminari ovvero dopo
una sentenza di assoluzione e altresì non spetta nei casi
riguardanti la definizione dei procedimenti con il
patteggiamento della pena'.
Il successivo comma 2-ter estende tale disposizione anche
agli amministratori degli enti locali e prevede che le spese
legali, qualora dovute, siano a carico dell'ente di
appartenenza dell'amministratore locale interessato.
Con riferimento alle modalità di conclusione del processo,
idonee a consentire il rimborso delle spese legali, si
osserva che la norma regionale, al comma 1, pone come regola
la spettanza dello stesso (nella sussistenza degli agli
altri presupposti richiesti dalla legge) con successiva
indicazione delle ipotesi in cui il rimborso è escluso: si
tratta dei casi in cui il giudizio si concluda con una
sentenza o decreto di condanna o pronuncia equiparata ovvero
con il patteggiamento della pena o con sentenza dichiarativa
di estinzione del reato per prescrizione o per amnistia (a
meno che queste non siano dichiarate nel corso delle
indagini preliminari ovvero dopo una sentenza di
assoluzione).
Al contempo, il comma 2 dell'articolo 151 della legge
regionale 53/1981 espressamente prevede il diritto dell'Ente
a ripetere le spese legali già rimborsate, 'in caso di
successiva decisione giurisdizionale, passata in giudicato,
di condanna o equiparata modificativa del giudizio di
carenza di responsabilità'.
In base ad una lettura coordinata dei commi 1 e 2
dell'indicata legge regionale 53/1981, e secondo una
interpretazione che tenga in considerazione, oltre al dato
letterale, anche la ratio legis, sembra, pertanto,
potersi ritenere che per procedere al rimborso delle spese
legali sia di norma necessaria una pronuncia che accerti
l'assenza di responsabilità in capo all'amministratore
richiedente lo stesso. [2]
Resta ferma la necessità della ricorrenza dell'ulteriore
presupposto richiesto dalla normativa regionale in commento
e consistente nel requisito della commissione del fatto
nell'esercizio delle funzioni istituzionali di consigliere
comunale, a causa ovvero in occasione di queste.
Alla luce delle considerazioni suesposte, la fattispecie in
esame sembra, quindi, rientrare tra le ipotesi ammissibili a
rimborso.
---------------
[1] Per completezza espositiva si fa, altresì, presente
che successivamente a tale archiviazione anche il Tribunale,
relativamente al medesimo fatto, ha emesso sentenza di
assoluzione perché il fatto non sussiste.
[2] Con l'eccezione delle ipotesi in cui il legislatore ha
espressamente ammesso il rimborso anche in caso di assenza
di un accertamento di mancanza di responsabilità (si veda il
caso della dichiarazione di estinzione del reato per
prescrizione o amnistia nel corso delle indagini
preliminari) (19.08.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Retribuzione di
posizione e di risultato/
E’ possibile riconoscere la retribuzione di
risultato ai titolari di posizione organizzativa per gli
anni 2014 e 2015, tenuto conto della circostanza che l’ente
non ha assegnato agli stessi, con provvedimenti formali,
specifici obiettivi?
E’ possibile valutare oggi le posizioni organizzative, ai
fini della erogazione della retribuzione di risultato per
gli anni 2014 e 2015, sulla base dei contenuti della
relazione previsionale e programmatica per i medesimi anni
2014 e 2015?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si
ritiene necessario precisare che, come espressamente
stabilito dall’art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999, la
retribuzione di risultato dei titolari di posizione
organizzativa può essere corrisposta solo a seguito di
valutazione annuale positiva, espressa e certificata dal
soggetto cui, in via esclusiva, tale competenza è attribuita
(organismo di valutazione, servizio di controllo interno)
dell’attività svolta ed dei risultati conseguiti dal
titolare di posizione organizzativa, in relazione agli
obiettivi annualmente assegnati allo stesso, nell’ambito
dell’incarico affidatogli, come predefiniti nel PEG o degli
altri strumenti programmazione adottati dall’ente.
Pertanto, è indubbio che, alla luce della sopra richiamata
disciplina contrattuale, nella situazione prospettata sembra
mancare il presupposto per l’erogazione della retribuzione
di risultato rappresentato dalla preventiva assegnazione
degli obiettivi ai titolari di posizione organizzativa.
Infatti, la mancanza degli obbiettivi determinerebbe
l’impossibilità di valutare i risultati conseguiti, dato che
essi rappresentano i criteri oggettivi sulla base dei quali
effettuare la valutazione stessa.
La disciplina contrattuale non prevede alcuna ipotesi
derogatoria in materia.
Alla luce di tali indicazioni, quindi, deve essere valutata
la particolare fattispecie prospettata (parere
16.09.2016 n. RAL-1868
- link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Retribuzione di
posizione e di risultato/
L’art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999
prevede che l’importo della retribuzione di risultato delle
posizioni organizzative varia da un minimo del 10% ad un
massimo del 25 della retribuzione di posizione attribuita.
E’ possibile in sede di contrattazione decentrata ridurre le
percentuali minime e massime attribuibili?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si
ritiene opportuno evidenziare che le percentuali minima
(10%) e massima (25%) fissate per la determinazione del
valore della retribuzione di risultato dei titolari di
posizione organizzativa dall’art. 10, comma 3, del CCNL del
31.03.1999 non sono in alcun modo modificabili in sede
decentrata (fermo restando, naturalmente, la erogazione di
tale voce retributiva solo nel caso di valutazione positiva
della prestazione individuale).
Infatti, esse, sono stabilite con carattere di generalità
per tutte le amministrazioni dal citato art. 10, comma 3, del
CCNL del 31.03.1999 e nessuna altra disposizione contrattuale
prevede e legittima una eventuale deroga, né in senso ampliativo né in senso riduttivo, delle stesse.
Si coglie l’occasione anche per ricordare che la materia, in
base alla vigente disciplina contrattuale, non forma in
alcun modo oggetto di contrattazione integrativa (parere
01.08.2016 n. RAL-1858
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ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
Al fine di istituire nuove posizioni organizzative,
una unione di comuni può incrementare le risorse decentrate
stabili sulla base delle previsioni dell’art. 15, comma 5,
del CCNL dell’01.04.1999?
Nel merito del quesito formulato, relativamente alla
particolare problematica esposta, la scrivente Agenzia non
può che confermare il proprio consolidato orientamento
applicativo, secondo il quale le risorse derivanti
dall’applicazione dell’art. 15, comma 5, del CCNL
dell’01.04.1999, per gli effetti non collegati all’incremento
della dotazione organica, avendo carattere di variabilità,
non possono essere utilizzate per il finanziamento di
istituti o forme di utilizzo aventi carattere di stabilità,
come appunto la retribuzione di posizione e di risultato
delle posizioni organizzative.
Le posizioni organizzative, infatti, collegandosi a profili
del modello organizzativo dell’ente, devono ritenersi
ricomprese tra gli istituti che, ordinariamente, l’ente può
attivare con conseguente finanziamento a carico delle
generali risorse dell’art. 15 del CCNL dell’01.04.1999, di
natura stabile, ai sensi dell’art. 31, commi 2, del CCNL del
22.01.2004.
Per la corretta interpretazione della disciplina prevista
dal richiamato art. 15, comma 5, del CCNL dell’01.04.1999,
si rinvia alle nuove indicazioni fornite dalla scrivente
Agenzia con propria nota n. 19932 del 18.06.2015
(parere
03.03.2016 n. RAL-1828
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Retribuzione di
posizione e di risultato/
Come devono essere retribuite le giornate di
ferie maturate e non godute in un determinato anno da un
lavoratore titolare di posizione organizzativa ove ne
fruisca nell’anno successivo e l’importo della retribuzione
di posizione, per il nuovo anno, sia inferiore a quello
precedentemente attribuito per effetto di una nuova pesatura
della stessa, conseguente ad un processo di riorganizzazione
dell’ente?
Relativamente alla particolare problematica esposta,
l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che, durante il
periodo di ferie, il dipendente ha diritto a percepire la
medesima retribuzione che avrebbe percepito in caso di
ordinaria presenza al lavoro.
Si tratta di una regola che trova il suo preciso fondamento
negli articoli sia della Costituzione (art. 36, comma 3) che
del Codice civile (art. 2109) i quali, nel riconoscere al
dipendente il diritto alle ferie, stabiliscono che queste
devono essere retribuite.
Il CCNL del 06.07.1995, all'art. 18, comma 1, nel
ribadire tale principio, fornisce anche ulteriori
specificazioni per l'esatta definizione della retribuzione
da corrispondere al dipendente che fruisce delle ferie.
Infatti, tale clausola prevede che al lavoratore, durante il
periodo di ferie, debba essere corrisposta la normale
retribuzione, escluse le indennità per prestazioni di lavoro
straordinario e quelle che non sono corrisposte per dodici
mensilità (art. 18, comma 1, del CCNL del 06.07.1995).
Proprio in considerazione della espressa previsione
contrattuale (“durante tale periodo”), ad avviso della
scrivente Agenzia, la retribuzione da riconoscere al
dipendente sia quella allo stesso spettante durante il
periodo di fruizione delle ferie stesse.
Conseguentemente, si esclude che si possa tenere conto, a
tal fine, del maggiore importo della retribuzione di
posizione della posizione organizzativa di cui era
precedentemente titolare (parere
03.03.2016 n. RAL-1823
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di classificazione/Posizioni
organizzative/Retribuzione di posizione e di risultato/
I permessi retribuiti di cui all’art. 33 della
legge n. 104/1992 usufruiti dai dipendenti danno luogo a
decurtazione della liquidazione della retribuzione di
risultato dei titolari di posizione organizzativa?
In ordine alla particolare problematica esposta, si ritiene
opportuno preliminarmente ricordare che, come più volte
affermato da parte della scrivente Agenzia nei propri
orientamenti applicativi, la retribuzione di risultato dei
titolari di posizione organizzativa, di cui all’art. 10 del
CCNL del 31.03.1999, ai fini della sua erogazione, non è
direttamente ed automaticamente collegata alla presenza in
servizio.
Si tratta, infatti, di un emolumento da corrispondere “a
seguito di valutazione annuale” (art. 10, comma 3, CCNL del
31.03.1999) dopo aver verificato i risultati conseguiti in
relazione agli obiettivi assegnati.
Pertanto, secondo la regola generale enunciata, non sembra
possibile ritenere che nei confronti della dipendente
assente per fruizione dei permessi di cui alla legge n. 104
del 1992 (o di congedo parentale o di altra tipologia di
assenza) debba essere, per ciò stesso, decurtata l’ammontare
della retribuzione di risultato collegata alla posizione
organizzativa di cui è titolare, in misura strettamente
proporzionale ai giorni di assenza.
L’Ente deve, invece, procedere alla valutazione annuale
dell’effettiva partecipazione del titolare al conseguimento
degli obiettivi assegnati e la rilevanza del suo apporto,
secondo le metodologie a tal fine autonomamente adottate.
In tale ambito, può certamente ritenersi ragionevole
presumere che i periodi di assenza, soprattutto ove
prolungati nel corso dell’anno, possano incidere
negativamente su tale aspetto, determinando la conseguente
riduzione del compenso da corrispondere (fino ad annullarlo,
quando i risultati conseguiti non siano in alcun modo
apprezzabili) (parere
03.03.2016 n. RAL-1822
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
In un comune dotato di dirigenza è possibile
conferire incarichi di alta professionalità, ai sensi
dell’art. 10 del CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali
del 22.01.2004, a personale della categoria D titolare di un
rapporto di lavoro a tempo parziale?
Le alte professionalità, di cui all’art. 10 del CCNL del
22.01.2004, rappresentano una particolare configurazione
delle posizioni organizzative già previste dall’art. 8, comma
1, lett. b) e lett. c) del CCNL del 31.03.1999.
Conseguentemente, anche per le posizioni organizzative di
alta professionalità trova applicazione la regola generale
del divieto di conferimento della titolarità di posizione
organizzativa (art. 4, comma 2, del CCNL del 14.09.2000) a
personale titolare di rapporto di lavoro a tempo parziale.
La possibilità di prevedere posizioni organizzative
suscettibili di essere affidate a personale con rapporto di
lavoro a tempo parziale è stata riconosciuta, per espressa
volontà delle parti negoziali, ai comuni privi di dirigenza
dall’art. 11 del CCNL del 22.01.2004, nel rispetto dei limiti
e delle condizioni ivi previsti.
Conseguentemente, solo i suddetti enti possono avvalersi di
questa particolare facoltà (parere
10.02.2014 n. RAL-1666
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
E’ possibile autorizzare i titolari di
posizione organizzativa all’espletamento dello straordinario
elettorale in occasione di elezioni comunali?
La speciale disciplina contrattuale dello straordinario
elettorale (art. 14, comma 2, del CCNL dell’01.04.1999; art. 39,
comma 2, del CCNL del 14.09.2000, come modificato dall’art. 16
del CCNL del 05.10.2001), trova applicazione, per espressa
previsione contrattuale, solo nei casi nei quali vi sia
l’acquisizione delle specifiche risorse da parte di altre
amministrazioni (solitamente il Ministero dell’Interno).
Nello specifico, l’art. 39, comma 2, del CCNL del 14.09.2000,
espressamente prevede di corrispondere i compensi correlati
alle prestazioni aggiuntive effettuate in occasione di
consultazioni elettorali o referendarie, anche ai dipendenti
incaricati di posizioni organizzative.
In relazione a tale disciplina, si evidenzia che, di norma,
i responsabili di posizione organizzativa hanno diritto alla
liquidazione dello straordinario elettorale (in coerenza con
la disciplina della retribuzione di risultato) solo per il
lavoro straordinario prestato (anche al di fuori delle
giornate di riposo settimanale) in occasione di
consultazioni elettorali per le quali vi è acquisizione di
risorse dal Ministero dell’Interno e non anche, ad esempio,
per le elezioni del Consiglio Comunale (interamente a carico
del bilancio dell’ente).
Questa regola subisce una sola eccezione, espressamente
disciplinata nell’art. 39, comma 3, del CCNL del 14.09.2000
(introdotto dall’art. 16 del CCNL del 05.10.2001), secondo il
quale “il personale che, in occasione di consultazioni
elettorali o referendarie (di qualunque specie, comprese
quindi quelle per l’elezione del sindaco e del consiglio
comunale – n.d.r.), è chiamato a prestare lavoro
straordinario nel giorno di riposo settimanale, in
applicazione delle previsioni del presente articolo, oltre
al relativo compenso, ha diritto anche a fruire di un riposo
compensativo corrispondente alle ore prestate. Il riposo
compensativo spettante è comunque di una giornata lavorativa
ove le ore di lavoro straordinario effettivamente rese siano
quantitativamente maggiori di quelle corrispondenti alla
durata convenzionale della giornata lavorativa ordinaria. In
tale particolare ipotesi non trova applicazione la
disciplina dell'art. 24, comma 1, del presente contratto. La
presente disciplina trova applicazione anche nei confronti
del personale incaricato di posizioni organizzative".
In base a tal “eccezione” il titolare di posizione
organizzativa, in occasione di qualunque consultazione
elettorale, ha comunque e sempre diritto al compenso per
lavoro straordinario (da erogare sempre in coerenza con la
disciplina della retribuzione di risultato) qualora le
relative prestazioni siano rese nel giorno del riposo
settimanale.
La diversa formulazione della clausola contrattuale (nella
quale manca ogni indicazione sul preciso vincolo del
reperimento delle risorse) comporta che tali compensi
debbano essere corrisposti anche nei casi nei quali tutte o
anche solo parte delle risorse debbano essere apprestate
direttamente dall’ente.
La previsione contrattuale “in coerenza con la disciplina
della retribuzione di risultato”, riguarda le modalità di
erogazione dello straordinario elettorale e deve essere
interpretata nel senso che i relativi compensi devono essere
corrisposti “a consuntivo” in analogia con quanto previsto
per la disciplina della retribuzione di risultato
(richiamata dallo stesso art. 39) e in coincidenza con la
relativa attribuzione, anche se non è richiesto il momento
della valutazione; in sostanza si esclude che tali compensi
possano essere erogati con le medesime modalità, anche
temporali, previste per la generalità degli altri
dipendenti.
Relativamente al rapporto tra i compensi per lavoro
straordinario elettorale e retribuzione di risultato, si
deve evidenziare che la clausola dell’art. 39, comma 2, del
CCNL del 14.09.2000 espressamente prevede che: “Tali risorse
vengono comunque erogate a detto personale in coerenza con
la disciplina della retribuzione di risultato di cui
all’art. 10 dello stesso CCNL e, comunque, in aggiunta al
relativo compenso, prescindendo dalla valutazione”.
Proprio, tale ultimo inciso (“in aggiunta”) consente
di ritenere che il compenso per lavoro straordinario si
cumula in ogni caso con l’importo della retribuzione di
risultato spettante al titolare di posizione organizzativa,
anche se questa sia già stata determinata nella misura
massima prevista dalla disciplina contrattuale (25% della
retribuzione di posizione, ai sensi dell’art. 10, comma 3,
del CCNL del 31.03.1999) (parere
04.11.2013 n. RAL-1623
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
Ai titolari di posizione organizzativa può essere
garantito il patrocinio legale (art. 43, comma 1, del CCNL
del 14.09.2000)?
In caso positivo, quali sono le condizioni e le modalità di
applicazione di tale istituto, tenuto conto anche della
circostanza che al suddetto personale non si estende la
disciplina dell’art. 28, comma 3, del CCNL del 14.09.2000?
Per ciò che attiene alla disciplina dell’art. 43, comma 1,
del CCNL del 14.09.2000, concernente la copertura
assicurativa della responsabilità civile dei dipendenti, si
deve evidenziare che, a suo tempo, essa è stata concordata
dalle parti negoziali sulla base dei precisi orientamenti in
materia della Corte dei Conti.
Il suddetto art.43 del CCNL del 14/09/2000 prevede che, in
generale, gli enti assumono tutte le iniziative per
garantire la copertura assicurativa della sola
responsabilità civile dei dipendenti titolari di posizione
organizzativa, ai sensi dell’art. 8 e ss. del CCNL del
31.03.1999, anche con le modifiche introdotte dall’art. 10 del
CCNL del 22.01.2004, ivi compreso il patrocinio legale, salvo
i casi di dolo o colpa grave.
Si tratta di un intervento finalizzato a garantire al
titolare di posizione organizzativa la copertura degli
eventuali danni derivanti a terzi dall’esercizio delle
proprie funzioni.
La chiara formulazione della clausola contrattuale (con
l’espresso riferimento alla sola responsabilità civile)
consente di affermare che essa si riferisca alla sola
ipotesi della responsabilità civile e non comprenda, quindi,
anche quella penale.
Conseguentemente, si deve escludere la possibilità di
stipulare polizze assicurative volte a coprire anche forme
di responsabilità penale, in quanto una tale opzione
finirebbe per dilatare la portata applicativa della
disciplina contrattuale, al di là delle previsioni
dell’art. 43 del CCNL del 14.09.2000.
Ogni diverso comportamento, non trovando alcun fondamento
giuridico nella disciplina contrattuale, si tradurrebbe in
oneri aggiuntivi ed ingiustificati a carico del bilancio
dell’ente, e, quindi, potrebbe configurarsi come fonte di
possibile responsabilità per danno erariale.
Relativamente al diverso istituto del patrocinio legale, si
evidenzia quanto segue:
a) ai sensi dell’art. 28 del CCNL del 14.09.2000: “l’ente,
anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si
verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità
civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti
o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e
all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio
carico, a condizione che non sussista conflitto di
interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del
procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale
di comune gradimento”;
b) ai fini dell’applicazione della predetta disciplina
contrattuale, sono richiesti i seguenti presupposti e
condizioni, che devono necessariamente intervenire in via
preventiva:
1- l’ente sia stato puntualmente e tempestivamente informato
dal lavoratore interessato sui contenuti del contenzioso;
2 – l’ente abbia ritenuto, sempre preventivamente, che non
sussista conflitto di interessi;
3 - l’ente abbia deciso di assumere ogni onere della difesa
“sin dalla apertura del procedimento”;
4 - il legale per la difesa del dipendente sia stato
individuato con il gradimento anche dell’ente.
Il rimborso delle spese legali in mancanza di tali
adempimenti e condizioni di carattere preventivo, si
porrebbe in evidente contrasto con la disciplina
contrattuale dell’istituto. La necessaria sussistenza di
tali elementi e condizioni è stata sostenuta anche dalla
giurisprudenza amministrativa e contabile (cfr. Corte dei
Conti sezione giurisdizionale della Lombardia n. 1257 dello
08.06.2002; Consiglio di Stato, sez. V, n. 5986/2006).
Nell'ambito dei diversi requisiti stabiliti dal CCNL,
particolare attenzione dovrà essere prestata al profilo
della sussistenza o meno di eventuali situazioni di
conflitto di interesse, dato che molto spesso vengono in
considerazione comportamenti lesivi anche della posizione
del datore di lavoro.
L’art. 28, comma 3, del CCNL del 14.09.2000, infine,
espressamente esclude che la disciplina del patrocinio
legale possa trovare applicazione nei casi in cui si tratti
di titolari di posizione organizzativa per i quali sia stata
stipulata una polizza assicurativa, ai sensi dell’art. 43 del
medesimo CCNL.
La norma sembra apprestare un “divieto” di carattere
generale (“La disciplina del presente articolo non si
applica ai dipendenti assicurati ai sensi dell’art. 43, comma
1.”), che, proprio per la sua ampiezza, non sembra
consentire deroghe.
Tuttavia, in proposito, non può non evidenziarsi come non ci
sia una piena coincidenza tra le fattispecie considerate in
quest’ultima clausola contrattuale (copertura assicurativa
per la sola responsabilità civile) e quelle considerate ai
fini del patrocinio legale (procedimento di responsabilità
civile o penale) dall’art. 28 del CCNL del 14.09.2000.
Pertanto, una applicazione rigida e formale della previsione
dell’art. 28, comma 3, del CCNL del 14.09.2000 nel caso di
procedimento penale a carico di un titolare di posizione
organizzativa, assicurato per la responsabilità civile, ai
sensi dell’art. 43 del medesimo CCNL del 14.09.2000, sembra
una palese e irragionevole ingiustizia, inutilmente
penalizzante per il personale.
In proposito, invece, si ritiene che debba farsi riferimento
innanzitutto alla finalità perseguita dalla clausola
contrattuale e cioè evitare l’apprestamento di una doppia
tutela, attraverso due distinti istituti, per la medesima
fattispecie.
In tale logica, evidentemente, il citato art. 28, comma 3,
indubbiamente preclude la possibilità di dare applicazione
alla disciplina del patrocinio legale con riferimento a un
procedimento giudiziale concernente la responsabilità civile
di un titolare di posizione organizzativa, già assicurato ai
sensi dell’art. 43 del CCNL del 14.09.2000 e gode, quindi,
della particolare tutela ivi prevista.
Il medesimo art. 28, comma 3, non potrà essere invocato,
invece, nella diversa fattispecie del titolare di posizione
organizzativa, assicurato per la responsabilità civile, ai
sensi dell’art. 43 del CCNL del 14.09.2000, sottoposto a
procedimento penale per escludere il patrocinio legale.
Infatti, in questa ipotesi, non vi è duplicazione di tutela
in quanto la copertura assicurativa dell’art.43 non può
essere estesa anche ai casi di responsabilità penale e
conseguentemente manca quel presupposto che giustifica il “divieto”
dell’art. 28, comma 3, del CCNL del 14.09.2000 (parere
04.11.2013 n. RAL-1615
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
Può essere attribuito un incarico di
posizione organizzativa ad un dipendente che fruisce del
congedo biennale retribuito per l’assistenza a persona
portatrice di handicap, di cui all’art. 42, comma 5, del
D.Lgs. n. 151/2001, qualora lo stesso garantisca almeno il
50% della prestazione lavorativa settimanale ordinaria (36
ore)?
Nel merito di tale problematica, si precisa quanto segue:
a) - le posizioni organizzative, sulla base della vigente
disciplina contrattuale (art. 8 e ss. del CCNL del 31.03.1999;
art. 10 del CCNL del 22.01.2004) si caratterizzano per lo
svolgimento da parte dei titolari di compiti particolarmente
qualificati, comportanti la diretta e personale assunzione
diretta e personale assunzione di una elevata responsabilità
di prodotto e di risultato;
b) - proprio in considerazione della rilevanza delle
attività e delle responsabilità facenti capo ai titolari di
posizione organizzativa, la medesima disciplina contrattuale
richiede per gli stessi un impegno lavorativo pieno,
completo e continuo;
c) – a tal fine è sufficiente considerare che:
1) – la disciplina contrattuale stabilisce solo la durata
minima della prestazione lavorativa settimanale (le 36 ore
settimanali) del titolare di posizione organizzativa e non
anche quella massima, che sarà, invece, collegata,
genericamente e dinamicamente, alla rilevanza ed alle
effettive necessità delle funzioni da svolgere. Le
prestazioni ulteriori rese dal dipendente non possono
considerarsi straordinarie o comunque aggiuntive rispetto al
minimo delle 36 ore, ma sono ordinario orario di lavoro.
2) – in base all’art. 4, comma 2, del CCNL del 14.09.2000 non
è possibile l’attribuzione di un incarico di posizione
organizzativa a dipendenti comunque titolare di posizione
organizzativa, salvo che non ricorrano i presupposti per
l’applicazione dell’art. 11 del CCNL del 22.01.2004;
d) - conseguentemente, si ritiene, proprio in base alle
caratteristiche degli incarichi di posizione organizzativa e
della relativa disciplina contrattuale, che gli stessi non
possano che risultare incompatibili con una prestazione
lavorativa che, come nel caso sottoposto, risulti comunque
quantitativamente ridotta rispetto al minimo (almeno 36 ore
settimanali) ordinariamente richiesta per la generalità dei
titolari di posizione organizzativa (parere
04.11.2013 n. RAL-1608
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LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
Ai fini dell’attribuzione dell’incarico di
posizione organizzativa, nell’ambito della categoria
giuridica D, deve tenersi conto del requisito del più
elevato inquadramento economico di un dipendente rispetto ad
un altro (D4 in luogo di D2)?
Nell’ambito della vigente disciplina contrattuale (art. 8 e
ss. del CCNL del 31.03.1999), gli incarichi di posizione
organizzativa possono essere conferiti solo a personale
della categoria D, salvo che non si tratti di enti la cui
dotazione non preveda posti di categoria D; solo in tali
ultimi enti, l’incarico di posizione organizzativa può
essere conferito a personale della categoria C e B, in
relazione alla propria grandezza demografica, e nel rispetto
delle generali regole in materia (art. 11, comma 3, del CCNL
del 31.03.1999); ad avviso della scrivente Agenzia, tale
regola vale anche per gli eventuali incarichi di supplenza;
All’interno della categoria D, data la unitarietà della
stessa, gli incarichi di posizione organizzativa possono
essere conferiti, indifferentemente, sia a personale di tale
categoria in possesso di profili con trattamento stipendiale
iniziale corrispondente alla posizione economica D1 sia a
quello collocato in profili con trattamento stipendiale
iniziale corrispondente alla posizione economica D3.
Pertanto, ove nel caso di specie venga in considerazione un
dipendente comunque inquadrato nella categoria D, allo
stesso potrà essere legittimamente conferito un incarico di
posizione organizzativa.
Quello che effettivamente rileva in materia è il rigoroso
rispetto da parte dell’Ente dei criteri di conferimento
dallo stesso preventivamente adottati nell’osservanza delle
previsioni dell’art. 9, comma 2, del CCNL del 31.03.1999.
Tale clausola contrattuale, infatti, espressamente
stabilisce “Per il conferimento degli incarichi gli enti
tengono conto -rispetto alle funzioni ed attività da
svolgere- della natura e caratteristiche dei programmi da
svolgere, dei requisiti culturali posseduti, delle
attitudini e della capacità professionale ed esperienza
acquisiti dal personale della categoria D”.
Sulla base di tali criteri, per il riconoscimento della
titolarità della posizione organizzativa, l’ente valuterà la
posizione professionale e culturale di tutti gli eventuali
aspiranti comunque collocati nella categoria D (parere
28.10.2013 n. RAL-1547
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ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
Qual è la corretta procedura per l’istituzione di
posizioni organizzative di alta professionalità, ai sensi
dell’art. 10 del CCNL del 22.01.2004? E’ possibile attivare
tale tipologia di posizione organizzativa anche nei comuni
privi di dirigenza?
Quali sono le modalità di finanziamento? Un dipendente, già
titolare di una posizione organizzativa comportante la
responsabilità di uffici e servizi, può cumulare alla stessa
un incarico di alta professionalità?
Da un punto di vista generale ed al fine di evitare
applicazioni non conformi agli effettivi contenuti della
disciplina delle alte professionalità, di cui all’art. 10 del
CCNL del 22.01.2004, si ritiene necessario riepilogare
brevemente i tratti salienti della suddetta disciplina:
1. la disciplina delle alte professionalità, di cui
all’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, ai fini della sua
effettiva attuazione richiede, in generale, sotto il profilo
oggettivo, l’individuazione di contenuti ed obiettivi
dell’incarico che si va a conferire di particolare rilevanza
e prestigio, idonei a giustificare e legittimare un
ammontare della retribuzione di posizione superiore a quello
stabilito dalla disciplina contrattuale per le altre
posizioni organizzative (art. 8 e 9 del CCNL del 31.03.1999);
sotto il profilo soggettivo, il possesso da parte dei
lavoratori di quei particolari titoli culturali e
professionali espressamente e chiaramente a tal fine
previsti (lauree specialistiche, master, dottorati di
ricerca ed altri titoli equivalenti); la mancanza dei
requisiti oggettivi e soggettivi non consente l’introduzione
delle alte professionalità;
2. l’effettiva attuazione della disciplina contrattuale
delle alte professionalità presuppone la preventiva
definizione, con atti organizzativi di diritto comune, da
parte dell’ente dei seguenti elementi: i criteri e le
condizioni per l’individuazione delle competenze e delle
responsabilità connesse agli incarichi di alta
professionalità (nel rispetto dei vincoli della informazione
sindacale, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001);
i criteri per l’affidamento degli incarichi di alta
professionalità; i criteri per la quantificazione dei valori
della retribuzione di posizione e di risultato (nel rispetto
del vincolo della concertazione, ai sensi dell’art. 16, comma
2, del CCNL del 31.03.1999); i criteri per la valutazione
periodica delle prestazioni e dei risultati dei titolari di
posizione organizzativa;
3. per affidare un incarico di alta professionalità è
necessario prima modificare l'assetto organizzativo
dell’ente quale risulta dal regolamento degli uffici e dei
servizi, con la istituzione di tale posizione; infatti,
negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, le
posizioni organizzative si identificano con le funzioni
apicali degli enti stessi (art. 15 CCNL 22.01.2004) e,
quindi, anche l’incarico di alta professionalità deve
corrispondere ad una funzione apicale degli enti stessi;
4. trattandosi di posizione apicale, la relativa istituzione
deve essere definita dalla Giunta nel rispetto della riserva
della fonte legale derivante dall’art. 2, comma 1, del
D.Lgs. n. 165 del 2001; si è, infatti, in presenza di un atto
di macro organizzazione (o di organizzazione di primo
livello) che deve essere definita con atti di diritto
pubblico (art. 2, comma 1, e art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001);
5. le alte professionalità, di cui all’art. 10 del CCNL del
22.01.2004, rappresentano una particolare configurazione
delle posizioni organizzative già previste dall’art. 8, comma
1, lett. b) e lett. c), del CCNL del 31.03.1999; ciò comporta
che le stesse debbano sempre connotarsi per l’autonomia
delle attività svolte e per l’assunzione diretta ed
immediata, da parte dei titolari delle stesse, di un’elevata
responsabilità di prodotto e di risultato;
6. l’incarico di alta professionalità è autonomo, anche
sotto il profilo gerarchico, rispetto agli incarichi di
direzione di struttura (art. 8, comma 1, lett. a) del CCNL
del 31.03.1999); a maggiore ragione tale regola vale nel caso
degli enti privi di dirigenza, dato che in essi, come sopra
detto, le posizioni organizzative si identificano con le
funzioni apicali degli stessi;
7. come nel regime del CCNL del 31.03.1999, gli incarichi di
posizione organizzativa ai sensi della lett. a) dell’art. 8
del CCNL 31.03.1999 (di direzione di struttura), erano e
restano diversi e autonomi rispetto agli incarichi delle
lett. b) e c) del medesimo articolo. Conseguentemente al
personale già titolare di un incarico ai sensi dell’art. 8,
lett. a), non possono essere attribuiti in via ordinaria
anche, e contemporaneamente, incarichi di alta
professionalità, che, come è noto, si collocano proprio
all’interno della generale disciplina dell’art. 8, comma 1,
lett. b) e c); quindi, gli incarichi delle lettere a), b) e
c) e quelli di alta professionalità sono alternativi tra di
loro e non possono essere cumulati sullo stesso soggetto
(con due retribuzioni di posizione) né possono essere “fusi”
o sovrapposti tra di loro, con l’attribuzione al titolare
del più elevato importo della retribuzione di posizione
riconosciuto esclusivamente per le alte professionalità in
senso stretto;
8. le posizioni di alta professionalità si caratterizzano
per la mancanza di funzioni organizzative, di direzione di
struttura e di gestione, per la prevalenza data ai contenuti
di carattere professionale e personale;
9. il conferimento degli incarichi di alta professionalità
avviene nel rispetto dei criteri preventivamente definiti
dall’ente, in stretta coerenza con gli specifici requisiti
oggettivi e soggettivi che caratterizzano, in base alla
disciplina contrattuale, le suddette posizioni di lata
professionalità;
10. esclusivamente per le posizioni organizzative di alta
professionalità, l’importo della retribuzione di posizione
può variare (art. 10, comma 4, del CCNL del 22.01.2004) da un
minimo di € 5.164,56 ad un massimo di € 16.000; entro tale
ambito di oscillazione, l’ente, sulla base dei criteri di
graduazione preventivamente ed autonomamente adottati, ai
sensi dell’art. 10 del CCNL del 31.03.1999, fisserà
l’effettivo ammontare della retribuzione di posizione di
alta professionalità nonché quella di risultato entro il
limite minimo del 10% e quello massimo del 30% della
retribuzione di posizione. Pertanto, la disciplina
contrattuale non prevede un automatico riconoscimento del
valore massimo della retribuzione di posizione e di
risultato per le posizioni di alta professionalità. Tale
aspetto assume particolare rilievo in relazione al profilo
del finanziamento di tali voci retributive, di cui si dirà
al successivo punto 10;
11. per ciò che attiene al finanziamento dell’istituto da
parte di questa specifica tipologia di enti, la disciplina
dell’art. 17, comma 2 lett. c), del CCNL 01.04.1999, prevede
chiaramente che gli enti privi di dirigenza, non sono tenuti
alla “formale” costituzione di uno specifico ”fondo” per la
retribuzione di posizione e di risultato delle P.O.
Pertanto, essi possono utilizzare per il finanziamento delle
alte professionalità esclusivamente le risorse derivanti
dall’applicazione della percentuale dello 0,20% del monte
salari del personale riferito all’anno 2001, secondo le
previsioni dell’art. 32, comma 7, del CCNL del 22.01.2004.
Tale percentuale dello 0,20% del monte salari 2001
rappresenta una quota di incremento contrattuale
espressamente e tassativamente finalizzato alle alte
professionalità per favorirne l’introduzione (dati i
maggiori valori di retribuzione di posizione e di risultato
per questi previsti) ed evitare che le stesse possano essere
utilizzate anche per il finanziamento delle altre tipologie
di posizioni organizzative. Un problema applicativo può
nascere proprio dalla considerazione che la quota di risorse
derivanti dall’incremento dello 0,20%, di cui all’art. 32,
comma 7, del CCNL 22.01.2004, negli enti privi di dirigenza,
proprio per le ridotte dimensioni degli stessi, può
risultare insufficiente al finanziamento delle alte
professionalità e che la stessa non può neppure essere
incrementata con altre risorse stabili di cui all’art. 15 del
CCNL dell’01.04.1999, dato che gli stessi enti, come sopra
detto non sono tenuti alla costituzione del fondo di cui
all’art. 17, comma 2, lett. c), del CCNL dell’01.04.1999.
Questi
enti non possono neppure utilizzare a tal fine altre risorse
a carico dei propri bilanci, in quanto il finanziamento a
carico del bilancio degli oneri connessi alla retribuzione
di posizione e di risultato delle posizioni organizzative è
ammesso solo per quelle posizioni organizzative comportanti
la direzione e la responsabilità di uffici e strutture,
secondo le previsioni dell’art. 11 del CCNL del 31.03.1999 e,
a monte, dell’art. 109, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000;
12. nel caso in esame, anche se l’ente introducesse
posizioni di alta professionalità nel rispetto di quanto
sopra detto, comunque, un incarico di tale tipologia non
potrebbe essere conferito al lavoratore da Voi citato.
Infatti, questi, essendo già responsabile di servizio e,
quindi, già titolare di posizione organizzativa di direzione
di struttura, ai sensi dell’art.8, comma 1, lett. a) e
dell’art. 11 del CCNL del 31.03.1999 e dell’art. 11 del CCNL
del 22.01.2004, non può essere destinatario,
contemporaneamente, anche di un incarico di alta
professionalità, ai sensi dell’art. 10 del CCNL del
22.01.2004, secondo quanto già detto al precedente numero 7) (parere
06.08.2012 n. RAL-1371
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
Il responsabile di una posizione organizzativa può
delegare ad altri dipendenti le relative funzioni ?
Premesso che il quesito riguarda aspetti tipicamente
organizzativi e non l’applicazione del CCNL, siamo tuttavia
del parere che l’istituto della delega:
- può essere utilizzato dal dirigente nei riguardi dei
responsabili delle posizioni organizzative, che si
caratterizzano per l’elevata responsabilità di prodotto e di
risultato (art. 8 CCNL del 31.03.1999);
- non può essere utilizzato dai responsabili delle posizioni
organizzative apicali verso altro personale sia perché ciò
finirebbe per svuotare di contenuti e responsabilità la loro
funzione, sia per l’assenza di un ulteriore livello
subordinato altrettanto responsabilizzato (parere
05.06.2011 n. RAL-289
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/ Ad
un dipendente inquadrato in categoria D, con incarico di
P.O. ai sensi della lett. a), dell’art. 8 del CCNL
31.03.1999, può essere attribuito anche un incarico di alta
professionalità, ai sensi dell’art. 10, comma 2, lett. a),
del CCNL del 22.01.2004, elevando la retribuzione di
posizione a 16.000 euro?
La risposta è negativa. Gli incarichi di P.O. ai sensi della
lett. a) dell’art. 8 del CCNL 31.03.1999, erano e restano
diversi e autonomi rispetto agli incarichi delle lett. b) e
c) del medesimo articolo. Conseguentemente al personale già
titolare di un incarico ai sensi dell’art. 8, lett. a) non
possono essere attribuiti anche, e contemporaneamente,
incarichi di alta professionalità, che, come è noto, si
collocano proprio all’interno della generale disciplina
dell’art. 8, comma 1, lett. b) e c).
Suggeriamo di prendere visione anche della relazione al CCNL
pubblicata sul nostro sito (parere
05.06.2011 n. RAL-288
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ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/ Il
principio relativo alla adozione degli atti di diritto
comune per la valorizzazione delle alte professionalità, di
competenza dei dirigenti, trova applicazione anche con
riferimento agli adempimenti per la applicazione della
disciplina delle PO di cui alla lettera a) dell’art. 8, del
CCNL 31.03.1999?
La risposta è sicuramente positiva. Tutta la attività di
gestione e di applicazione delle discipline dei contratti
collettivi di lavoro é di competenza della dirigenza, che vi
provvede mediante decisioni adottate con i poteri e le
capacità dei privati datori di lavoro, nel rispetto del
vincolo posto dall’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del
2001 (parere
05.06.2011 n. RAL-287
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
La disciplina delle posizioni organizzative
non attinenti alla direzione di struttura, di cui all’art.
8, comma 1, lett. b) e c.), del ccnl del 31.03.1999,
continua ad applicarsi anche dopo l’introduzione delle alte
professionalità di cui all’art. 10 del ccnl del 22.01.2004?
Si. Infatti, espressamente, l’art. 10, comma 1, del CCNL del
22.01.2004 stabilisce che gli incarichi di alta
professionalità delle lett. b) e c) dell’art. 8 del CCNL del
31.03.1999 sono conferiti nell’ambito della disciplina del
citato art.8, comma 1, lett. b) e c).
Quindi, l’art. 10 non ha abrogato l’art. 8, ma ha solo
inserito al suo interno le nuove regole concernenti la
valorizzazione delle alte professionalità (parere
05.06.2011 n. RAL-286
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ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di
classificazione/Posizioni organizzative/Posizioni
organizzative e le alte professionalità/
L’art. 8, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 prevede
che gli enti istituiscono posizioni di lavoro caratterizzate
da 'assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto
e di risultato'. Come deve intendersi tale espressione?
Il problema può porsi solo per gli enti con posizioni
dirigenziali in quanto per gli altri le posizioni
organizzative dell’art. 8 coincidono con le posizioni apicali
i cui titolari, per ciò stesso, sono investiti, per legge,
di autonomi poteri di gestione. Il punto è stato
definitivamente chiarito dall’art. 15 del CCNL del 22.01.2004.
Ciò premesso, la clausola contrattuale impone agli enti con
dirigenza di individuare autonome regole e soluzioni
organizzative conformi all’ordinamento vigente tali da
garantire che gli incaricati di dette posizioni abbiano
spazi di autonomia sufficienti per rispettare l’indicazione
contrattuale (parere
05.06.2011 n. RAL-285
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CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI:
Non solo non è possibile estendere a volontari che prestino
la propria opera in favore di pp.aa. regole, istituti e
provvidenze dettate per i lavoratori dipendenti; ma una
attività di volontariato in favore di pp.aa. non è neppure
legittima, e quindi possibile, al di fuori dei precisi e
rigorosi schemi operativi dettati dalla l. n. 266/1991.
(a)
l’attività di
volontariato è svolta solo nell’ambito di apposite
organizzazioni, aventi determinate caratteristiche
strutturali e funzionali;
(b) le pp.aa. possono avvalersi di
volontari solo ed esclusivamente nel quadro di specifiche
convenzioni stipulate con le relative organizzazioni,
rectius con quelle tra di esse che, essendo in possesso dei
requisiti stabiliti dalla legge, siano iscritte in specifici
registri regionali.
---------------
Invero, è
da ritenersi escluso in radice un autonomo
ricorso delle pp.aa. a prestazioni da parte di volontari “a
titolo individuale”, perché la necessaria “interposizione”
dell’organizzazione di volontariato iscritta nei ridetti
registri regionali, ben lungi da inutili e barocchi
formalismi, vale -a salvaguardia di interessi che sono di
“ordine pubblico” e che come tale non ammettono deroghe od
eccezioni di sorta- ad assicurare:
● da un lato,
che lo svolgimento dell’attività dei volontari si mantenga
nei rigorosi limiti della spontaneità, dell’assenza anche
indiretta di fini di lucro, della esclusiva finalità
solidaristica, dell’assoluta e completa gratuità; e
●
dall’altro, che resti ferma e aliena da ogni possibile
commistione la rigida distinzione tra attività di
volontariato e attività “altre” (cfr. “La qualità di
volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto
di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto
di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa
parte.”, cit.),
e, dunque, ad evitare che da parte delle pp.aa. si dia luogo -anche soltanto praeter intentionem-
ad atipiche e surrettizie forme di lavoro precario, peraltro
elusive delle regole sul reclutamento e l’utilizzazione del
personale (concorso pubblico, contratto di lavoro, rispetto
dei cc.cc.nn.ll., tutele e garanzie del lavoratore) e
foriere nel tempo financo di precostituire pretese, ancorché
infondate, di stabilizzazione di rapporti pregiudizievoli
per gli assetti e gli equilibri della finanza pubblica.
---------------
...il Sindaco di Montale (PT) fa richiesta, ex art. 7 l. n.
131/2003, di un parere da parte di questa Sezione, in ordine
all’assunzione di oneri relativi alla stipula di apposite
polizze assicurative dirette a fornire copertura dai rischi
di infortunio, malattia e responsabilità verso terzi per
cittadini che intendono prestare servizio volontario a
titolo individuale, fenomeno per il quale il comune ha anche
approntato un apposito schema di regolamento.
In particolare il comune chiede di conoscere se il ricorso a
tale forma di volontariato con assicurazione a carico
dell’ente sia legittimo.
...
Nel merito, va rilevato che la legge (in ottemperanza ad un
preciso obbligo costituzionale: v. infra) prevede che i
lavoratori dipendenti (pubblici o privati) godano di
copertura assicurativa contro le malattie e gli infortuni,
la quale, anche storicamente, è diretta ad esonerare il
lavoratore -parte “debole” del rapporto- dal rischio
connesso all’impossibilità (per infortunio o malattia) di
rendere la prestazione e, quindi, di sopportare, in dette
evenienze, uno stato di bisogno per sé e la propria
famiglia.
Essa si compendia nella previsione
dell’erogazione, in caso di malattia o infortunio, di
un’indennità sostitutiva della remunerazione (in caso di
infortunio sul lavoro anche di una indennità per gli
eventuali postumi permanenti), a carico del datore di lavoro
e/o di specifici ed appositi fondi pubblici (Inps, Inail).
La ratio giustificativa di tali previsioni riposa
sull’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente, e,
dunque, come già accennato, sull’esigenza di tutela del
soggetto ‘debole’, a fortiori nel vigente ordinamento
costituzionale che, premessi gli inderogabili obblighi di
solidarietà economica e sociale (art. 3), nel quadro, da un
lato, dell’assoggettamento sia della proprietà che
dell’iniziativa economica a fini di utilità sociale (artt.
41-42 Cost.), e, dall’altro, dell’impegno della Repubblica a
tutelare il lavoro (art. 35 Cost.), prevede esplicitamente
che “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso
di infortunio, malattia…” (art. 38 Cost.).
Anche la copertura per la responsabilità civile verso terzi
costituisce una previsione -peraltro eccezionale, a fronte
dell’inequivoca previsione dell’art. 28 Cost., secondo cui i
funzionari e dipendenti pubblici sono direttamente
responsabili verso i terzi secondo le leggi penali, civili
ed amministrative- fondata su specifiche (ed eccezionali)
ipotesi contemplate nei contratti collettivi, e, dunque,
comunque limitata all’ambito di un rapporto lavorativo in
senso proprio.
Rebus sic stantibus, l’estensione a dei volontari di
previsioni dettate per il lavoratore dipendente appare
ipotesi del tutto ingiustificata e priva di qualsiasi
giuridico fondamento. Infatti, come accennato,
rispetto a
quello del lavoro dipendente del tutto diverso è, di
contro, lo statuto dell’attività di volontariato, ancorché
svolta in favore di pp.aa.; la quale attività, pur
meritevole di considerazione e talora financo benemerita per
la collettività, è attività essenzialmente libera e,
ovviamente, volontaria, svolta dal singolo con puro spirito
di liberalità e quale forma di altruistico svolgimento della
propria personalità (art. 2 Cost.),
rispetto alla quale il
volontario non assume alcun obbligo, potendo cessarla ad nutum in ogni momento, e che non è funzionale (ed è anzi del
tutto estranea) al procacciamento da parte del singolo dei
mezzi economici atti ad assicurare a sé e alla propria
famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.),
come del resto emerge chiaramente dalla circostanza che la
“legge quadro sul volontariato” (v. l. n. 266/1991, su cui infra)
non a caso prevede, all’art. 17, che i “lavoratori
che facciano parte di organizzazioni iscritte nei registri
di cui all’articolo 6, per poter espletare attività di
volontariato, hanno diritto di usufruire delle forme di
flessibilità di orario di lavoro o delle turnazioni previste
dai contratti o dagli accordi collettivi, compatibilmente
con l’organizzazione aziendale.”.
Ma, a ben vedere, v’è di più.
I suesposti principi sono stati perfettamente colti dal
legislatore, il quale, ben conscio del quadro ordinamentale
testé sinteticamente richiamato, ha infatti stabilito che
è
“attività di volontariato” quella “prestata in modo
personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di
cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche
indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”,
specificando viepiù che essa “non può essere retribuita in
alcun modo nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono
essere soltanto rimborsate dall’organizzazione di
appartenenza le spese effettivamente sostenute per
l’attività prestata, entro limiti preventivamente stabiliti
dalle organizzazioni stesse” (art. 2, commi 1 e 2, l. n.
266/1991).
E al fine di precludere ogni possibile capziosità
interpretativa, lo stesso legislatore ha soggiunto, in
maniera tranciante, che “La qualità di volontario è
incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro
subordinato o autonome e con ogni altro rapporto di
contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa
parte.” (art. 1, comma 3, l. cit.),
così inequivocabilmente
ribadendo la differenza ontologica, e perciò di
‘trattamento’ giuridico, tra rapporto di lavoro o
rapporto
patrimoniale di qualsivoglia natura da una parte e attività
di volontariato dall’altra.
La stessa legge citata prosegue, poi, stabilendo che
è
organizzazione di volontariato “ogni organismo liberamente
costituito al fine di svolgere l’attività di cui
all’articolo 2, che si avvalga in modo determinante e
prevalente delle prestazioni personali, volontarie e
gratuite dei propri aderenti […nelle cui regole …] devono
essere espressamente previsti l’assenza di fini di lucro, la
democraticità della struttura, l’elettività e la gratuità
delle cariche associative nonché la gratuità delle
prestazioni fornite dagli aderenti […nel presupposto che…]
le organizzazioni di volontariato possono assumere
lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro
autonomo esclusivamente nei limiti necessari al loro
regolare funzionamento oppure occorrenti a qualificare o
specializzare l’attività da esse svolta.” (art. 3).
Sempre la legge n. 266/1991, oltre a stabilire che le
organizzazioni di volontariato traggono le risorse loro
occorrenti da contributi di aderenti, di privati, di
organismi internazionali, da donazioni e lasciti, da
attività economiche marginali, nonché da contributi pubblici
“finalizzati esclusivamente al sostegno di specifiche e
documentare attività o progetti” e “rimborsi derivanti da
convenzioni” (art. 5), dispone, poi, che esse -previa (cfr.
“è condizione necessaria…”) iscrizione in appositi registri
regionali ricorrendo le succitate condizioni statutarie
(art. 6):
(a) beneficiano di un regime fiscale di particolare
favore (art. 8);
(b) traggono le proprie risorse (oltre che
da contributi di aderenti, privati, organismi
internazionali; donazioni e lasciti; attività economiche
marginali; contributi pubblici “finalizzati esclusivamente
al sostegno di specifiche e documentare attività o
progetti”; altresì) da rimborsi derivanti da
convenzioni (art. 5);
(c) operano (oltre che “mediante
strutture proprie”; altresì “nelle forme e nei modi previsti
dalla legge [ ], nell’ambito di strutture pubbliche o con
queste convenzionate” (art. 3, co. 5), secondo convenzioni
stipulate con pp.aa. ex art. 7 e di cui “la copertura
assicurativa di cui all’articolo 4
[v. “Le organizzazioni di volontariato debbono assicurare i
propri aderenti, che prestano attività di volontariato,
contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento
dell’attività stessa, nonché per la responsabilità civile
verso i terzi.”] è elemento essenziale
della convenzione e gli oneri relativi sono a carico
dell’ente con il quale viene stipulata”
(art. 7, comma 3).
Orbene, da quanto sin qui rilevato e richiamato
si deve
ritenere confermato che al quesito del Sindaco di Montale si
debba dare risposta negativa.
Il sistema delineato dalla citata legge n. 266/1991
costituisce, per così dire, un hortus conclusus, un sistema
che, disciplinando compiutamente i vari aspetti
dell’esplicarsi delle attività di volontariato, non ammette
soluzioni organizzative e/o operative differenti né esibisce
lacune normative che siano bisognevoli di essere in qualche
modo colmate attraverso un’ attività
analogico-interpretativa.
Da tale sistema si evince chiaramente che:
(a) l’attività di
volontariato è svolta solo nell’ambito di apposite
organizzazioni, aventi determinate caratteristiche
strutturali e funzionali;
(b) le pp.aa. possono avvalersi di
volontari solo ed esclusivamente nel quadro di specifiche
convenzioni stipulate con le relative organizzazioni,
rectius con quelle tra di esse che, essendo in possesso dei
requisiti stabiliti dalla legge, siano iscritte in specifici
registri regionali.
E’, dunque,
da ritenersi escluso in radice un autonomo
ricorso delle pp.aa. a prestazioni da parte di volontari “a
titolo individuale”, perché la necessaria “interposizione”
dell’organizzazione di volontariato iscritta nei ridetti
registri regionali, ben lungi da inutili e barocchi
formalismi, vale -a salvaguardia di interessi che sono di
“ordine pubblico” e che come tale non ammettono deroghe od
eccezioni di sorta- ad assicurare, da un lato, che lo
svolgimento dell’attività dei volontari si mantenga nei
rigorosi limiti della spontaneità, dell’assenza anche
indiretta di fini di lucro, della esclusiva finalità
solidaristica, dell’assoluta e completa gratuità; e, dall’altro, che resti ferma e aliena da ogni possibile
commistione la rigida distinzione tra attività di
volontariato e attività “altre” (cfr. “La qualità di
volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto
di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto
di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa
parte.”, cit.); e, dunque, ad evitare che da parte delle pp.aa. si dia luogo -anche soltanto praeter intentionem-
ad atipiche e surrettizie forme di lavoro precario, peraltro
elusive delle regole sul reclutamento e l’utilizzazione del
personale (concorso pubblico, contratto di lavoro, rispetto
dei cc.cc.nn.ll., tutele e garanzie del lavoratore) e
foriere nel tempo financo di precostituire pretese, ancorché
infondate, di stabilizzazione di rapporti pregiudizievoli
per gli assetti e gli equilibri della finanza pubblica.
Ne è conferma la rigida distinzione -quanto alla copertura
assicurativa dei volontari (cui dev’essere provveduto
sempre, anche allorché non si operi, previa convenzione, a
favore di una pp.aa.)- tra il soggetto tenuto a stipulare
il contratto di assicurazione, che è e deve sempre essere
l’organizzazione di volontariato (cfr. “Le organizzazioni di
volontariato debbono assicurare i propri aderenti…”), ed il
soggetto sul quale, nel caso di convenzione ex art. 7 l. n.
266/1991, deve gravare il relativo peso economico della
copertura, che è “elemento essenziale della convenzione e
gli oneri relativi sono a carico dell’ente con il quale
viene stipulata” (art. 7, comma 3).
Orbene, da quanto sin qui rilevato e considerato
si deve
necessariamente concludere che non solo non è possibile
estendere a volontari che prestino la propria opera in
favore di pp.aa. regole, istituti e provvidenze dettate per
i lavoratori dipendenti; ma che una attività di volontariato
in favore di pp.aa. non è neppure legittima, e quindi
possibile, al di fuori dei precisi e rigorosi schemi
operativi dettati dalla l. n. 266/1991 come dianzi
ricordati.
E’ superfluo aggiungere che alla stregua di dette
conclusioni il prospettato schema di regolamento comunale,
che si discosta in radice dalle previsioni della legge n.
266/1991, non è conforme alla legge e perciò non può essere
legittimamente approvato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 30.09.2016 n. 141). |
SEGRETARI COMUNALI:
Diritti di rogito, cortocircuito. Spettano o no
ai segretari di fascia A e B? Giudici divisi. La Corte conti
interviene a gamba tesa nei confronti della sentenza del
tribunale di Milano.
Cortocircuito tra Corte dei conti e giudice del lavoro sulla
questione relativa alla compartecipazione dei segretari
comunali ai diritti di rogito.
La magistratura contabile, attraverso il
parere 15.09.2016 n. 74 della
sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, interviene a gamba tesa nei confronti
della
sentenza 18.05.2016
n. 1539 del
Tribunale di Milano in veste di giudice
del lavoro.
La decisione del giudice del lavoro, come noto, critica
apertamente le indicazioni fornite dalla sezione autonomie
con la deliberazione 24.06.2015, n. 21/Sezaut/2015/Qmig,
secondo la quale non spettano i diritti di rogito ai
segretari di fascia A e B, pur se incaricati in sedi di
segreteria di comuni privi di dirigenti.
Secondo il tribunale di Milano una simile interpretazione,
che comporta ovviamente la conseguenza di considerare non
legittimo il riconoscimento dei diritti di rogito ai
segretari di fascia A e B, qualunque sia la sede presso la
quale svolgano la loro attività, «finisce per restringere il
campo di applicazione della norma compiendo un'operazione di
chirurgia giuridica non consentito nemmeno in nome della res
pubblica». Il tribunale di Milano conclude che «la letterale
applicazione della norma che, nella sua chiarezza non
necessita di alcuna interpretazione», tanto da portarlo a
decidere per la spettanza dei diritti di rogito al
segretario di fascia A o B che operi in sedi privi di
dirigenti.
La sezione Emilia Romagna replica, ripercorrendo i «lavori
preparatori» dell'articolo 10 del dl 90/2014, 114/2014, dai
quali la magistratura contabile evince, invece, la
distinzione tra la posizione dei segretari di fascia A e B,
assimilati alla dirigenza, che anche grazie al
galleggiamento dispongono di un trattamento economico non
previsto per i segretari di fascia C, per i quali solo
sarebbe prevista la percezione dei diritti di rogito,
comunque nell'ottica del contenimento della spesa pubblica.
La delibera della sezione conclude, pertanto, seccamente:
«Per le ragioni esposte nella parte di merito,
l'interpretazione della norma data dal tribunale di Milano
nella sentenza di primo grado non appare convincente e la
sezione ritiene di confermare l'orientamento esplicitato
secondo i principi stabiliti in sede nomofilattica dalla
sezione delle autonomie».
Che l'interpretazione delle norme sia opera difficoltosa e
delicata è fatto noto. Ed è anche espressamente previsto che
orientamenti giurisprudenziali possano modificarsi, così
come anche decisioni e sentenze sono esposte a radicali
revisioni tra primo grado e appello.
Nel caso di specie, tuttavia, il contrasto assume elementi
particolarmente stucchevoli e delicati. Infatti, non si
tratta di un contrasto interpretativo normale.
Il tribunale di Milano si è espresso mediante la vera e
propria «iuris dictio», con una sentenza vertente in tema di
diritto soggettivo connesso al rapporto di lavoro. La
magistratura contabile, invece, affronta il tema sicuramente
esercitando i poteri giurisdizionali ad essa attribuiti
dalla Costituzione, ma attraverso atti che hanno veste,
ruolo e funzione di pareri, non sentenze.
Sembra piuttosto strano che una medesima questione possa
suscitare un botta e risposta tra giurisdizioni differenti e
poteri giurisdizionali molti diversi, dei quali quello
connesso all'espressione di pareri appare ovviamente
recessivo.
Soprattutto, l'ordinamento deve al più presto essere
razionalizzato: una medesima questione risolta in un certo
modo con sentenza facente stato da parte del giudice del
lavoro non può prestarsi ad essere eventualmente letta dalla
giurisdizione contabile (in sede giurisdizionale per
responsabilità erariale) in senso diametralmente opposto,
eventualmente basandosi sulle indicazioni delle sezioni di
controllo.
Né l'operato delle amministrazioni locali può ammettersi che
resti paralizzato, stretto a tenaglia dalle opposte opinioni
delle due giurisdizioni, il cui unico effetto sarebbe, per
altro, solo quello di scatenare ulteriormente il contenzioso
già in atto, con buona pace dei risparmi per le finanze
pubbliche che la riforma sui diritti di rogito del 2014
avrebbe inteso ottenere
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2016). |
SEGRETARI COMUNALI: I diritti di rogito
competono ai soli segretari di fascia C.
In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del
CCNL di categoria successivo alla novella normativa (art.
10 dl 24.06.2014, n. 90, convertito in legge
11.08.2014, n. 114) i
predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari
comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso
dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto
della retribuzione in godimento del segretario.
Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola
devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori
connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli
enti”.
---------------
L’interpretazione della norma data dal Tribunale di Milano
nella sentenza di primo grado non appare convincente e la
Sezione ritiene di confermare l’orientamento esplicitato
secondo i principi stabiliti in sede nomofilattica dalla
Sezione delle autonomie.
---------------
Il Sindaco di Torrile (PR) ha inoltrato a questa Sezione una
richiesta di parere avente a oggetto l’interpretazione
dell’art. 10, comma 2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90,
convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n.
114, in materia di corresponsione del diritto di rogito ai
segretari comunali.
In premessa il citato Sindaco richiama la deliberazione
n. 105/2015/PAR resa da questa Sezione il 27.05.2015, la
deliberazione n. 21/SEZAUT/2015/QMIG del 04.06.2015, il
parere reso in data 25.03.2016 dal Ministero
dell’Economia e delle Finanze-Dipartimento della Ragioneria
Generale dello Stato e da ultimo la sentenza n. 75/2016 della
Corte costituzionale.
In particolare, il citato Sindaco, alla luce della sentenza
della Corte costituzionale appena citata pone il seguente
quesito:
- se spetti la liquidazione dei diritti di rogito ai
segretari collocati nelle fasce professionali A e B che
prestano servizio e rogano contratti nell’interesse di enti
locali sprovvisti di personale di qualifica dirigenziale.
...
Preliminarmente, occorre operare una breve ricognizione del
quadro normativo, secondo quanto già fatto nella precedente
deliberazione n. 105/2015/PAR.
L’art. 10 del dl 24.06.2014, n. 90, convertito in legge
11.08.2014, n. 114 è intervenuto riformando la
legislazione allora vigente in materia di diritto di rogito
dei segretari comunali.
E’ stata innanzitutto disposta l’integrale destinazione ai
Comuni dei diritti di rogito, sostituendo la precedente
previsione contenuta nell’art. 30 della l. 15.11.1973,
n. 734 (come successivamente modificato dall’art. 25, comma
7, del dl 22.12.1981, n. 786, convertito con
modificazioni dalla legge 26.02.1982, n. 51) che
assegnava ai Comuni il 90 per cento del gettito dei diritto
di rogito, riservando il restante 10 per cento al Ministero
dell’Interno per la costituzione di un fondo da utilizzare
per corsi di formazione e sussidi per i segretari comunali.
Con lo stesso articolo del provvedimento il legislatore ha
abrogato l’art. 41, comma 4, della legge n. 312/1980 che
riservava ai segretari comunali una quota pari al 75 per
cento delle entrate da diritto di rogito di spettanza dei
Comuni, fino a concorrenza di un terzo dello stipendio loro
attribuito.
La ratio evidente della riforma, quella di attribuire al
Comune l’intero ammontare del gettito da diritto di rogito,
abrogando al tempo stesso la consuetudine, poi sancita
dall’ordinamento previgente, di riservare una quota delle
prestazioni da rogito ai segretari comunali,
ha trovato un
temperamento nel comma 2-bis dell’art. 10, introdotto in sede
di conversione, a norma del quale “negli enti locali privi
di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti
i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale,
una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi
dell'articolo 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente
articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della
tabella D allegata alla legge 08.06.1962, n. 604, e
successive modificazioni, è attribuita al segretario
comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello
stipendio in godimento”.
Le ragioni di tale intervento parlamentare a temperare
l’originaria previsione del decreto legge in sede di
conversione sono agevolmente reperibili nei lavori
preparatori, allorché, nella seduta del 25.07.2014 della
I Commissione permanente (Affari costituzionali, della
Presidenza del Consiglio e interni) della Camera dei
Deputati, l’emendamento che sarebbe poi stato approvato e
inserito nel testo poi confermato in Assemblea, fu motivato
dalla necessità di “tutelare i segretari comunali operanti
nei comuni medio-piccoli, nei quali non sono presenti
dipendenti con qualifica dirigenziale, riconoscendo loro i
diritti di rogito, seppure in misura minore rispetto ad
oggi”. Al contempo tale riconoscimento veniva escluso per i
Segretari aventi qualifica dirigenziale in quanto per essi
vale “il principio della onnicomprensività della
retribuzione che vale per i dirigenti”
(cfr.
parere 12.05.2016 n. 49 della Sezione regionale di controllo per la
Liguria).
Occorre tenere presente che, ai sensi dell’art. 31 del CCNL
di categoria, i Segretari comunali e provinciali sono
classificati in tre diverse fasce professionali (C, B e A)
cui corrisponde l’idoneità degli stessi alla titolarità di
sedi di comuni (e province) differenziate a seconda della
consistenza della popolazione amministrata (rispettivamente
comuni fino a 3mila abitanti; comuni fino a 65mila abitanti,
purché non capoluoghi di provincia; comuni di oltre 65mila
abitanti, o capoluoghi di provincia, e province).
Anche il trattamento retributivo è differenziato secondo le
fasce, ma i Segretari di fascia B sono equiparati a quelli
di fascia A (e quindi ai dirigenti) quanto a stipendio
tabellare e indennità di posizione, mentre i Segretari
comunali di fascia C percepiscono stipendio e indennità di
importo ridotto (artt. 3 e 37 CCNL).
Il quadro retributivo deve essere integrato con la
previsione del principio del cosiddetto galleggiamento
(art. 41, comma 5, CCNL), in base al quale l’indennità di
posizione del segretario comunale non deve essere “inferiore
a quella stabilita per la posizione dirigenziale più elevata
nell’ente in base al contratto collettivo dell’area della
dirigenza o, in assenza di dirigenti, a quello del personale
incaricato della più elevata posizione organizzativa”.
Così prospettato, il quadro normativo vigente, integrato
dalle previsioni del CCNL, sembra offrire, a tutta evidenza,
una particolare tutela per i Segretari comunali di fascia C,
in quanto destinatari di un trattamento retributivo
inferiore.
Infatti, mentre ai segretari di fascia A e B spetta in ogni
caso il trattamento economico equiparato a quello dei
dirigenti (art. 3, CCNL), per i segretari di fascia C
l’equiparazione si realizza soltanto se nella struttura
organizzativa del Comune sono presenti dirigenti. In tale
ultimo caso la disposizione contrattuale, che assicura al
Segretario tale garanzia economica deve intendersi come un
corollario dell’art. 97, comma 4, TUEL che chiama il
Segretario a sovrintendere “allo svolgimento delle funzioni
dei dirigenti” e a coordinarne l’attività.
Ne consegue che i Segretari di fascia C, che operano in
comuni con presenza di dirigenti, finiscono per godere di
retribuzione più elevata rispetto ai pari fascia titolari di
sedi di comuni nei quali non vi siano dirigenti.
Pronunciandosi in sede nomofilattica sulla questione
relativa alla corretta determinazione dei diritti di rogito
da corrispondersi a seguito dell’entrata in vigore della
legge n. 114/2014, di conversione del decreto-legge
n. 90/2014, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti,
con la deliberazione 24.06.2015, n. 21/SEZAUT/2015/QMIG,
condividendo la lettura propugnata dalla Sezione regionale
di controllo per il Lazio (deliberazione n. 21/2015/PAR) e
successivamente da questa Sezione (deliberazione
n. 105/2015/PAR, citata), ha enunciato i seguenti principi di
diritto:
“Alla luce della previsione di cui all’art. 10, comma 2-bis,
del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni
dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito
competono ai soli segretari di fascia C.
In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del
CCNL di categoria successivo alla novella normativa i
predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari
comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso
dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto
della retribuzione in godimento del segretario.
Le somme destinate al pagamento dell’emolumento in parola
devono intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori
connessi all’erogazione, ivi compresi quelli a carico degli
enti”.
La Corte costituzionale, in sede di giudizio di legittimità
costituzionale in via principale, si è pronunciata con
sentenza in data 23.02.2014, in merito al ricorso
presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
avverso due articoli della legge regionale Trentino Alto
Adige 09.12.2014, n. 11.
In particolare, per quanto ci occupa in questa sede, ha
stabilito che l’art. 11 della legge regionale citata, che
estende il diritto di rogito a tutti i segretari comunali,
siano essi dirigenti o non dirigenti, in misura pari al
settantacinque per cento del provento e fino al massimo di
un quinto dello stipendio in godimento, non è in contrasto
con l’art. 10, comma 2-bis, del decreto legge n. 90/2014, come
convertito dalla legge n. 114/2014, che il Presidente del
Consiglio dei ministri intende quale principio fondamentale
di finanza pubblica, e pertanto non viola l’art. 117, terzo
comma della Costituzione.
La censura relativa alla violazione di tale norma
costituzionale non è fondata, in quanto “lo Stato, non
concorrendo al finanziamento dei Comuni che insistono sul
territorio della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Sudtirol,
non può neppure adottare norme per il loro coordinamento
finanziario, che infatti compete alla Provincia, ai sensi
del …art. 79, comma 3, dello statuto”.
“Del pari non fondata –aggiunge la Corte- è la censura
relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., perché la norma regionale si limita a
richiamare, ai fini del riconoscimento dei diritti di
segreteria, i medesimi atti previsti dalla legislazione
statale, senza interferire minimamente con la loro
disciplina positiva”.
La Corte costituzionale dunque interviene a ribadire
l’autonomia normativa della regione a statuto speciale, non
potendosi invocare il principio del coordinamento della
finanza pubblica, atteso che lo Stato non concorre al
finanziamento dei Comuni che insistono sul territorio della
Regione. Se tale è la ratio della pronuncia della Corte,
appare dubbio che essa possa essere utilizzata come
parametro di riferimento per la questione in esame relativa
ad un comune soggetto al coordinamento statale della finanza
pubblica.
Tuttavia, successivamente, il Tribunale di Milano, in
funzione di Giudice del Lavoro, è intervenuto nella
questione dell’attribuzione dei diritti di rogito ai
segretari comunali con la propria
sentenza 18.05.2016
n. 1539.
In essa viene contestata l’interpretazione della
Sezione Autonomie della Corte dei conti e si addiviene ad
una diversa lettura della norma che estenderebbe “i diritti
di segreteria a due categorie di segretari: sicuramente a
quelli che non hanno qualifica dirigenziale (dovendosi
intendere in essi quelli di fascia C che più che qualifica
non hanno equiparazione retributiva con i dirigenti), ma
anche a quelli che operano in enti che non hanno dipendenti
con qualifica dirigenziale. In tale secondo gruppo, il
legislatore non ha inteso fare distinzioni di fascia, ma
solo subordinare la titolarità dei diritti ai segretari
operanti in enti privi di dipendenti dirigenziali”.
Per le ragioni esposte nella parte di merito,
l’interpretazione della norma data dal Tribunale di Milano
nella sentenza di primo grado non appare convincente e la
Sezione ritiene di confermare l’orientamento esplicitato
secondo i principi stabiliti in sede nomofilattica dalla
Sezione delle autonomie
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 15.09.2016 n. 74). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L’art. 1, comma
557, della L. n. 311/2004 ha autorizzato gli enti locali con
meno di 5.000 abitanti in ordine alla possibilità di servirsi
dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di
altre amministrazioni locali, purché autorizzati
dall'amministrazione di provenienza, introducendo cioè una
particolare ipotesi di rapporti “a scavalco” (cioè a favore
di più enti contemporaneamente), che hanno la peculiarità di
consentire -al di fuori dell'orario di lavoro, a tempo
pieno, dell’ente di appartenenza- lo svolgimento di
funzioni presso altri enti locali.
Tale scavalco
“d’eccedenza” è diverso dallo scavalco in cui il lavoratore
presta, presso ciascuno degli enti a cui è assegnato, una
prestazione a tempo parziale (scavalco “condiviso”), come, a
ben vedere, dovrebbe avvenire nel caso prospettato dal
Comune istante. Ipotesi invece disciplinata dall’art. 53 del
D.lgs. n.165/2001 (cfr. a livello di contrattualistica
l’art. 14 del CCNL del comparto Regioni - Enti locali del
22.01.2004, nonché orientamento ARAN RAL670).
Come già
evidenziato da questa Sezione,
nello scavalco c.d. condiviso il titolare del rapporto
lavorativo resta il solo ente di provenienza, che, per
l’appunto, mantiene la competenza esclusiva alla gestione
dello stesso, ivi compresa la disciplina sulle progressioni
verticali e sulle progressioni economiche orizzontali (cfr.
il secondo comma del citato art. 14 CCNL). Con la conseguenza
che per la sua instaurazione non occorre la costituzione di
un nuovo contratto, essendo sufficiente un atto di consenso
dell’amministrazione di provenienza.
Al contrario, nello
scavalco “d’eccedenza”, il lavoratore,
pur restando legato al rapporto d’impiego con l’ente
originario, rivolge parzialmente le proprie prestazioni
lavorative a favore di altro ente pubblico in forza
dell’autorizzazione dell’amministrazione di provenienza e
nell’ambito di un unico rapporto di lavoro alle dipendenze
del soggetto pubblico principale, regolato a mezzo di
convenzione tra gli enti interessati.
Alla luce
delle esposte considerazioni, il Collegio ritiene di dover
pertanto escludere che la stipulazione di una convenzione ex
art. 14 CCNL con altro ente locale, per una parte dell'orario
d'obbligo (c.d. scavalco condiviso), possa configurare
"nuova assunzione" ai fini del divieto di cui all’art. 1,
comma 557-ter, della L. n. 296/2006.
Ciò nonostante, il
rimborso pro quota della relativa spesa a favore
dell'amministrazione di appartenenza sarà da computarsi
nelle spese di personale dell'ente di utilizzazione e,
conseguentemente, sarà soggetta alle relative limitazioni.
----------------
Il Sindaco del Comune di Carpinone (IS), con nota n. 2816
del 28.06.2016, assunta al protocollo di questa Sezione
n. 1427 del 29.06.2016, ha trasmesso una richiesta di
parere con la quale chiede di sapere se l'eventuale
stipulazione di una convenzione ex art. 14 CCNL del comparto
Regioni - Enti locali del 22.01.2004 con altro ente locale,
per una parte dell'orario d'obbligo (c.d. scavalco
condiviso), debba o meno considerarsi quale "nuova
assunzione" ai fini del divieto di cui all’art. 1, comma
557-ter, della legge n. 296/2006, fermo restando che il
rimborso pro quota della relativa spesa a favore
dell'amministrazione di appartenenza, va computata nelle
spese di personale dell'Ente di utilizzazione (Comune di Carpinone), che, ai sensi dell’art. 1, comma 557-quater
della legge citata, deve essere inferiore al valore medio
del triennio 2011/2013.
...
Ai fini della soluzione della presente richiesta il Collegio
ricorda che, ai sensi dell’art. 1, comma 557, della legge 30.12.2004, n. 311, “I comuni con popolazione inferiore
ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti
servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e
le unioni di comuni possono servirsi dell'attività
lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre
amministrazioni locali purché autorizzati
dall'amministrazione di provenienza”.
Ebbene, con tale norma è stata introdotta una particolare
ipotesi di rapporti “a scavalco” (cioè a favore di più enti
contemporaneamente) che hanno la peculiarità di consentire
-al di fuori dell'orario di lavoro, a tempo pieno, dell’ente
di appartenenza- lo svolgimento di funzioni presso altri
enti locali (così Sezione controllo Lombardia con
deliberazioni n. 118 del 04.04.2012 e n. 448 del 18.10.2013 e Sezione controllo per la Regione siciliana,
del. n. 128 del 09.09.2014).
Tale scavalco “d’eccedenza” è diverso dallo scavalco in cui
il lavoratore presta, presso ciascuno degli enti a cui è
assegnato, una prestazione a tempo parziale (scavalco
“condiviso”), come, a ben vedere, dovrebbe avvenire nel caso
prospettato dal Comune istante. Tale casistica è
espressamente disciplinata dall’ordinamento generale del
pubblico impiego che –nell’ottica dell’attenuazione del
vincolo di esclusività della prestazione- riconosce ai
lavoratori a tempo parziale la possibilità di svolgere
attività lavorativa per altri enti, previa autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza (art. 53, comma 1,
D.lgs. n. 165/2001; per gli enti locali, l’art. 1, comma
58-bis, della L. n. 662 del 1996).
Per tale ipotesi, tra l’altro, per gli enti locali, esiste
una precipua norma contrattuale, ovvero l’art. 14 del CCNL
del comparto Regioni - Enti locali del 22.01.2004, recante
il titolo “Personale utilizzato a tempo parziale e servizi
in convenzione” (su cui cfr. orientamento ARAN RAL670,
nonché, cfr. Lombardia/988/2010/PAR e
Lombardia/676/2010/PAR).
In particolare, ai sensi del primo comma della disposizione
contrattuale: “Al fine di soddisfare la migliore
realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una
economica gestione delle risorse, gli enti locali possono
utilizzare, con il consenso dei lavoratori interessati,
personale assegnato da altri enti cui si applica il presente
CCNL per periodi predeterminati e per una parte del tempo di
lavoro d’obbligo mediante convenzione e previo assenso
dell’ente di appartenenza. La convenzione definisce, tra
l’altro, il tempo di lavoro in assegnazione, nel rispetto
del vincolo dell’orario settimanale d’obbligo, la
ripartizione degli oneri finanziari e tutti gli altri
aspetti utili per regolare il corretto utilizzo del
lavoratore. La utilizzazione parziale, che non si configura
come rapporto di lavoro a tempo parziale, è possibile anche
per la gestione dei servizi in convenzione”.
Come di recente precisato dalla Sezione della autonomie
(deliberazione
20.06.2016 n. 23), “trattasi di fattispecie
concreta a sé stante che individua una modalità di utilizzo
reciproco del dipendente pubblico da parte di più Enti”,
mediante la quale, “rimanendo legato all’unico rapporto
d’impiego con l’Ente locale originario, il lavoratore
rivolgerebbe parte delle proprie prestazioni lavorative a
favore anche di detto Comune in forza dell’autorizzazione
dell’Ente di appartenenza, di cui la convenzione regolativa
dei rapporti giuridici tra i due Enti assumerebbe carattere accessivo”.
Ne consegue che, come già evidenziato da questa Sezione
nella precedente deliberazione n. 35/2015, nel caso dello
scavalco c.d. condiviso, a differenza della descritta
ipotesi dello scavalco d’eccedenza, se, da un lato, permane
la titolarità dell’originario rapporto lavorativo con l’ente
di appartenenza, dall’altro non può essere rilevata -dal
punto di vista dell’ente utilizzatore- la costituzione di un
nuovo rapporto di lavoro.
Come del resto chiaramente previsto dalla disposizione
contrattuale collettiva, infatti, deve essere escluso che
l’utilizzazione parziale possa configurare rapporto di
lavoro a tempo parziale. A conferma di ciò, il secondo comma
del medesimo articolo afferma che il titolare del rapporto
lavorativo resta il solo ente di provenienza, che, per
l’appunto, mantiene la competenza esclusiva alla gestione
dello stesso, ivi compresa la disciplina sulle progressioni
verticali e sulle progressioni economiche orizzontali.
Al contrario, come ribadito dalla Sezione della autonomie
nella
deliberazione 20.06.2016 n. 23, “se l’Ente decide di
utilizzare autonomamente le prestazioni di un dipendente a
tempo pieno presso altro Ente locale al di fuori del suo
ordinario orario di lavoro, la prestazione aggiuntiva andrà
ad inquadrarsi necessariamente all’interno di un nuovo
rapporto di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale”.
In altri termini, come già chiarito in passato dalla
giurisprudenza contabile (Sezione controllo Lombardia
n. 477/2013/PAR), il lavoratore, nelle fattispecie di
rapporti “a scavalco” “pur restando legato al rapporto
d’impiego con l’ente originario, rivolge parzialmente le
proprie prestazioni lavorative a favore di altro ente
pubblico in forza dell’autorizzazione dell’amministrazione
di provenienza e nell’ambito di un unico rapporto di lavoro
alle dipendenze del soggetto pubblico principale, regolato a
mezzo di convenzione tra gli enti interessati”.
L’utilizzazione del lavoratore mediante l’istituto dello
“scavalco condiviso” non perfeziona dunque un’assunzione a
tempo determinato, ma uno strumento duttile di utilizzo
plurimo e contemporaneo del dipendente pubblico (sul punto,
cfr. SRC Lombardia, deliberazione n. 414/2013/PAR). Con la
conseguenza che per la sua instaurazione non occorre la
costituzione di un nuovo contratto, essendo sufficiente un
atto di consenso dell’amministrazione di provenienza.
Alla luce delle esposte considerazioni, con specifico
riferimento al quesito in esame, il Collegio, in adesione a
quanto rilevato dalla Sezione delle autonomie nella citata
pronuncia (in termini: “Poiché il suddetto cumulo di
incarichi non implica la costituzione di un nuovo rapporto
di lavoro”), ritiene di dover pertanto escludere che la
stipulazione di una convenzione ex art. 14 CCNL con altro
ente locale, per una parte dell'orario d'obbligo (c.d.
scavalco condiviso), possa configurare "nuova assunzione" ai
fini del divieto di cui all’art. 1, comma 557-ter, della
legge n. 296/2006.
Ciò nonostante, il rimborso pro quota della relativa spesa a
favore dell'amministrazione di appartenenza sarà da
computarsi nelle spese di personale dell'ente di
utilizzazione (nel caso di specie, il Comune di Carpinone),
e, conseguentemente, sarà soggetta alle relative limitazioni
(cfr. Sezione delle autonomie
deliberazione 20.06.2016 n. 23, nonché Linee
guida per il rendiconto della gestione 2014, Sezione quinta,
quesito 6.2, di cui alla deliberazione n. 13/2015/SEZAUT/INPR)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Molise,
parere 08.08.2016 n. 105). |
INCARICHI PROGETTUALI: Se
la scelta di affidare all’esterno la progettazione si ponga
in contrasto con le diverse disposizioni che impongono, di
regola, la redazione della progettazione di opere pubbliche
al personale interno della stazione appaltante.
Viene in rilievo, in proposito, l’art. 90, comma 6, del già
richiamato D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 a mente del quale le
amministrazioni aggiudicatrici possono affidare la redazione
del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo
all’esterno “in caso di carenza in organico di personale
tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della
programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di
istituto, ovvero in caso di lavori di speciale complessità o
di rilevanza architettonica o ambientale o in caso di
necessità di predisporre progetti integrali, così come
definiti dal regolamento, che richiedono l'apporto di una
pluralità di competenze, casi che devono essere accertati e
certificati dal responsabile del procedimento”.
La ricorrenza di uno dei casi previsti dalla testé
richiamata disposizione del codice dei contratti pubblici
non è stata espressamente certificata dal convenuto nella
determinazione n. 55 del 02.02.2009, di conferimento
dell’incarico all’ing. Le..
Tale mancanza, che pur manifesta una illegittimità
procedurale, non riflette però, un
comportamento inosservante della citata disciplina
concernente l’attività di progettazione delle opere
pubbliche in quanto, dalla documentazione acquisita agli
atti di causa, emerge la sussistenza dei presupposti per
affidare all’esterno l’incarico di che trattasi.
E ciò non perché nella specie venga in applicazione la norma di cui
all’art. 91, comma 4, del D.Lgs. 163/2006 -che stabilisce
che le progettazioni definitiva ed esecutiva sono di norma
affidate al medesimo soggetto, pubblico o privato- atteso
che all’ing. Le. era stato commissionato dalla Giunta
Comunale soltanto uno studio di fattibilità, bensì per le
evidenti carenze di personale presso il settore Lavori
Pubblici del comune e conseguente difficoltà di
svolgere le funzioni d’istituto.
---------------
Ad escludere la presenza, alla data di conferimento
dell’incarico di progettazione all’ing. Le., di
professionalità interne al settore Lavori Pubblici in grado
di svolgere l’attività affidata all’esterno valgono,
inoltre, altre due circostanze.
In primo luogo deve rilevarsi che non è provato che il geom.
Ur., unico tecnico all’epoca in servizio presso tale
settore, fosse abilitato all’esercizio della professione,
requisito necessario, ex art. 90, co. 4, del D.Lgs.
12/04/2006, n. 163, per firmare i progetti redatti dai
tecnici interni.
Inoltre, ed è quel che maggiormente rileva, appare
discutibile che la progettazione di che trattasi potesse
essere redatta da un geometra.
Invero, al di là delle
asserzioni del requirente contabile circa la non complessità
dell’opera da progettare, deve rilevarsi che dallo stesso
studio di fattibilità elaborato in precedenza già dall’ing.
Le. emerge che tecnicamente la progettazione avrebbe
dovuto prevedere la realizzazione di un by pass in modo da
deviare le acque dal loro decorso esistente ed inoltre
l’appropriata allocazione di elettropompe per impianti di
spinta principale e supplementare.
Si trattava, quindi, di effettuare la progettazione di una
vera e propria opera idraulica che richiedeva conoscenze
tecniche specifiche e che, all’evidenza, risulta esulare dai
limiti dell’esercizio professionale di geometra; figura
professionale che in base al disposto di cui all’art. 16 del
R.D. 11/02/1929, n. 274, in questa materia deve limitarsi
alla progettazione di piccole opere inerenti alle aziende
agrarie, come lavori d'irrigazione, di bonifica e provvista
d'acqua per le stesse aziende.
---------------
La carenza in organico di tecnici in grado di svolgere
la progettazione affidata all’ing. Le., senza creare
ulteriore difficoltà nello svolgimento dei compiti
d’istituto, risulta inoltre dal contenuto della delibera di
Giunta Comune n. 56 dell’01.04.2008 di affidamento dello
studio di fattibilità al predetto libero professionista ove
si dà atto dell’esiguità dell’organico tecnico dei
dipendenti del Comune e della specificità delle attività
tecnico professionali richieste al tecnico esterno.
Appare, perciò, evidente che se la Giunta Comunale aveva
rilevato tale carenza quando ancora era in servizio presso
il settore lavori pubblici l’ing. Ma. e per un’attività
di mero studio di fattibilità, a maggior ragione una tale
carenza debba ritenersi sussistente, con riguardo alla ben
più articolata attività di progettazione all’inizio di
febbraio 2009, quando presso il predetto settore era rimasto
in servizio, come si è visto, il solo geom. Ur..
---------------
In conclusione, in considerazione di quanto fin qui
rilevato e dell’ulteriore circostanza che il Pi.,
seppure senza acquisire altre disponibilità e preventivi di
tecnici esterni e senza certificare espressamente le carenze
di organico, ha in definitiva dato continuità, anche per
motivi di urgenza, come specificato nel provvedimento
contestato in questa sede, all’incarico a carattere tecnico
già attribuito in precedenza dalla giunta comunale all’ing.
Le., non sono ravvisabili nel suo comportamento i
requisiti della colpa grave né sub specie della grave
inosservanza di disposizioni normative e di legge né della
grave trascuratezza nella salvaguardia degli interessi
economici dell’ente comunale.
---------------
La Procura regionale ha convenuto in giudizio il dott. Lu.Pi. contestandogli il danno finanziario di € 42.000,00,
costituito dalla differenza tra il compenso corrisposto
all’ing. Le., tecnico esterno, per la redazione del
progetto dell’opera pubblica di “recapito finale delle acque
reflue dell’impianto di depurazione a servizio dell’abitato
di Avetrana” e l’incentivo economico, non superiore al 2%
dell’importo dell’opera stessa, che il predetto comune
avrebbe dovuto corrispondere, ai sensi dell’allora vigente
comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163, ai
tecnici interni se la progettazione di che trattasi fosse
stata a questi affidata.
Reputa il Collegio che dall’esame complessivo della
fattispecie nel comportamento del convenuto Pi. non
emergano i profili della colpa grave.
1. In primo luogo deve rilevarsi che la Procura regionale,
per quanto abbia contestato al Pi. anche la circostanza
di aver affidato all’ing. Le. la progettazione e direzione
dell’opera pubblica di che trattasi in assenza di un
confronto concorrenziale tra altri liberi professionisti,
non ha messo in discussione la congruità del compenso
corrisposto al predetto tecnico esterno né che tale compenso
sia eccedente rispetto alle tariffe professionali in
relazione all’attività prestata.
Non rileva, quindi, in questa sede, in considerazione
dell’oggetto e della causa petendi della domanda, la pur
configurabile illegittimità del provvedimento emanato dal
convenuto sotto il menzionato profilo della mancata
richiesta di disponibilità e preventivi ad altri tecnici
esterni.
2. Occorre, quindi, esaminare se la scelta di affidare
all’esterno la progettazione in questione si ponga in
contrasto con le diverse disposizioni che impongono, di
regola, la redazione della progettazione di opere pubbliche
al personale interno della stazione appaltante.
Viene in rilievo, in proposito, l’art. 90, comma 6, del già
richiamato D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 a mente del quale le
amministrazioni aggiudicatrici possono affidare la redazione
del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo
all’esterno “in caso di carenza in organico di personale
tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della
programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di
istituto, ovvero in caso di lavori di speciale complessità o
di rilevanza architettonica o ambientale o in caso di
necessità di predisporre progetti integrali, così come
definiti dal regolamento, che richiedono l'apporto di una
pluralità di competenze, casi che devono essere accertati e
certificati dal responsabile del procedimento”.
Sotto un profilo meramente formale deve osservarsi, sebbene
non contestato specificamente dalla Procura regionale, che
la ricorrenza di uno dei casi previsti dalla testé
richiamata disposizione del codice dei contratti pubblici
non è stata espressamente certificata dal convenuto nella
determinazione n. 55 del 02.02.2009, di conferimento
dell’incarico all’ing. Le..
Tale mancanza, che pur manifesta una illegittimità
procedurale, non riflette però, ad avviso del Collegio, un
comportamento inosservante della citata disciplina
concernente l’attività di progettazione delle opere
pubbliche in quanto, dalla documentazione acquisita agli
atti di causa, emerge la sussistenza dei presupposti per
affidare all’esterno l’incarico di che trattasi.
E ciò non perché nella specie, come sostenuto del difensore
del convenuto, venga in applicazione la norma di cui
all’art. 91, comma 4, del D.Lgs. 163/2006 -che stabilisce
che le progettazioni definitiva ed esecutiva sono di norma
affidate al medesimo soggetto, pubblico o privato- atteso
che all’ing. Le. era stato commissionato dalla Giunta
Comunale soltanto uno studio di fattibilità, bensì per le
evidenti carenze di personale presso il settore Lavori
Pubblici del comune di Avetrana e conseguente difficoltà di
svolgere le funzioni d’istituto.
2.a In proposito deve evidenziarsi che per quanto la Procura
regionale affermi che la pianta organica dell’ente locale
vedeva in servizio, presso il Settore Lavori Pubblici l’ing.
Or. (a partire dall’01.0.2009) ed il geom. Ur. e
presso il Settore Urbanistica l’ing. Sp. ed il geom.
Cr., dagli atti di causa emerge, invece, che l’ing.
Or. è stato assunto in convenzione ex art. 110 del D.Lgs. 267/2000 solo a far data dall’01.12.2009, quindi in data
abbondantemente successiva al periodo in cui è stato
affidato e svolto l’incarico di progettazione dell’ing.
Le. (il progetto definitivo è stato approvato con
deliberazione di Giunta Comunale n. 115 del 18.08.2009).
Conferma poi della mancanza del dirigente del settore Lavori
Pubblici all’epoca dell’affidamento all’esterno
dell’incarico di che trattasi è contenuta nella
deliberazione di Giunta Comunale n. 4 del 29.01.2009, di
pochi giorni anteriore al contestato provvedimento del
convenuto Pi.; con tale delibera, nel dare atto che in
data 31.12.2008 era scaduto il rapporto di lavoro part-time
con l’ing. Do.Ma. già nominato dirigente del
settore LL.PP. e che tale settore era costituito da una sola
unità di personale nella persona del geom. Ur., si
sostituiva il predetto ing. Ma. con il geom. Ur.,
quale responsabile del procedimento di diverse opere
pubbliche, già finanziate o in corso di finanziamento, ad
eccezione dell’opera di cui si discute in questa sede per la
quale l’ing. Ma. veniva sostituto proprio con l’odierno
convenuto.
Quindi, dalla deliberazione giuntale appena indicata emerge
la conferma che l’ing. Or. non era in servizio all’epoca
dei fatti di causa.
2.b Da tale provvedimento emerge, inoltre, indirettamente,
la riprova che i tecnici interni, assegnati al settore
Urbanistica, ing. Sp. e geom. Cr., non
espletavano alcuna attività nel campo dei lavori pubblici.
Non si spiegherebbe, infatti, altrimenti l’affidamento
addirittura al segretario comunale del compito di
responsabile unico del procedimento di un opera pubblica se
non con l’impossibilità di affidare tale incarico ai tecnici
del settore urbanistica, evidentemente già in difficoltà con
i carici di lavoro del loro diverso ufficio.
Né a smentire la separazione tra le attività espletate dal
settore lavori pubblici rispetto a quelle del settore
urbanistica può valere il richiamo della Procura regionale
alla segnalazione effettuata dall’ing. Sp.,
responsabile del settore urbanistica, in data 25.05.2009,
alla Procura della Repubblica di Taranto circa la ritenuta
anomala assegnazione all’esterno della progettazione
riguardante il depuratore senza la verifica della
disponibilità delle professionalità interne.
Invero -in disparte che tale segnalazione, per quanto
richiamata nell’atto di citazione, non risulta depositata in
atti, così come anche gli all.ti dal n. 2 al n. 5 della nota
del Nucleo Polizia Tributaria Taranto prot. 272831/14 del
20.06.2014- deve rilevarsi, in ogni caso, che in sede penale
il procedimento, avviato presumibilmente a seguito di tale
esposto, risulta definito con sentenza del GUP di Taranto di
non luogo a procedersi perché il fatto non costituisce reato
e che in tale pronuncia si evidenzia la carenza del quadro
probatorio circa il prospettato abuso di ufficio anche sotto
il profilo della violazione di legge.
2.c Ad escludere la presenza, alla data di conferimento
dell’incarico di progettazione all’ing. Le., di
professionalità interne al settore Lavori Pubblici in grado
di svolgere l’attività affidata all’esterno valgono,
inoltre, altre due circostanze.
In primo luogo deve rilevarsi che non è provato che il geom.
Ur., unico tecnico all’epoca in servizio presso tale
settore, fosse abilitato all’esercizio della professione,
requisito necessario, ex art. 90, co. 4, del D.Lgs.
12/04/2006, n. 163, per firmare i progetti redatti dai
tecnici interni.
Inoltre, ed è quel che maggiormente rileva, appare
discutibile che la progettazione di che trattasi potesse
essere redatta da un geometra. Invero, al di là delle
asserzioni del requirente contabile circa la non complessità
dell’opera da progettare, deve rilevarsi che dallo stesso
studio di fattibilità elaborato in precedenza già dall’ing.
Le. emerge che tecnicamente la progettazione avrebbe
dovuto prevedere la realizzazione di un by pass in modo da
deviare le acque dal loro decorso esistente ed inoltre
l’appropriata allocazione di elettropompe per impianti di
spinta principale e supplementare.
Si trattava, quindi, di effettuare la progettazione di una
vera e propria opera idraulica che richiedeva conoscenze
tecniche specifiche e che, all’evidenza, risulta esulare dai
limiti dell’esercizio professionale di geometra; figura
professionale che in base al disposto di cui all’art. 16 del
R.D. 11/02/1929, n. 274, in questa materia deve limitarsi
alla progettazione di piccole opere inerenti alle aziende
agrarie, come lavori d'irrigazione, di bonifica e provvista
d'acqua per le stesse aziende.
3.c La carenza in organico di tecnici in grado di svolgere
la progettazione affidata all’ing. Le., senza creare
ulteriore difficoltà nello svolgimento dei compiti
d’istituto, risulta inoltre dal contenuto della delibera di
Giunta Comune n. 56 dell’01.04.2008 di affidamento dello
studio di fattibilità al predetto libero professionista ove
si dà atto dell’esiguità dell’organico tecnico dei
dipendenti del Comune e della specificità delle attività
tecnico professionali richieste al tecnico esterno.
Appare, perciò, evidente che se la Giunta Comunale aveva
rilevato tale carenza quando ancora era in servizio presso
il settore lavori pubblici l’ing. Ma. e per un’attività
di mero studio di fattibilità, a maggior ragione una tale
carenza debba ritenersi sussistente, con riguardo alla ben
più articolata attività di progettazione all’inizio di
febbraio 2009, quando presso il predetto settore era rimasto
in servizio, come si è visto, il solo geom. Ur..
4. In conclusione, in considerazione di quanto fin qui
rilevato e dell’ulteriore circostanza che il Pi.,
seppure senza acquisire altre disponibilità e preventivi di
tecnici esterni e senza certificare espressamente le carenze
di organico, ha in definitiva dato continuità, anche per
motivi di urgenza, come specificato nel provvedimento
contestato in questa sede, all’incarico a carattere tecnico
già attribuito in precedenza dalla giunta comunale all’ing.
Le., non sono ravvisabili nel suo comportamento i
requisiti della colpa grave né sub specie della grave
inosservanza di disposizioni normative e di legge né della
grave trascuratezza nella salvaguardia degli interessi
economici dell’ente comunale.
Il convenuto deve essere mandato assolto, quindi,
dall’addebito formulato dalla Procura regionale ed essendosi
costituito in giudizio a mezzo di difensore devono essere
liquidate le spese processuali, ai sensi dell’art. 10-bis,
decimo comma, D.L. 203/2005 conv. in L. 248/2005, in base ai
“parametri” dettati dal Regolamento adottato con D.M.
10/03/2014, n. 55, emanato ai sensi dell'articolo 13, comma
6, della legge 31.12.2012, n. 247.
In proposito, tenuto conto che l’odierno giudizio è stato
definito in esito a un’unica udienza di discussione, previo
deposito di un’unica memoria da parte dei due difensori
costituiti, senza svolgimento di una fase istruttoria, la
liquidazione è effettuata applicando, al valore medio di
liquidazione corrispondente a quello previsto per lo
scaglione di riferimento, una diminuzione del 30%.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando nel giudizio di responsabilità
iscritto al n. 32432 del registro di segreteria,
ASSOLVE
il convenuto Pi.Lu., dagli addebiti di
responsabilità amministrativa, formulati a suo carico dalla
Procura regionale
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia,
sentenza 24.03.2016 n. 112). |
NEWS |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Termoregolazione,
correttivo per le spese.
È in vigore il
decreto legislativo n. 141/2016, che modifica e integra il
provvedimento (digs n. 102/2014) che impone, in ogni
condominio, di verificare se sussista l'obbligo di
introdurre sistemi di termoregolazione e contabilizzazione
dei calore.
Sistemi, deve essere sottolineato, che non sono
obbligatori in senso assoluto, ma, in linea con lo spirito
della normativa, solo a condizione che determinino
efficienza e risparmio energetico. Il nuovo provvedimento
interviene, in particolare, sulle modalità di suddivisione
delle spese connesse al consumo di calore per il
riscaldamento, il raffreddamento delle unità immobiliari e
delle aree comuni nonché per l'uso di acqua calda per
fabbisogno domestico.
Secondo il provvedimento originario,
l'importo complessivo doveva essere suddiviso tra gli utenti
finali in base alla norma tecnica Uni 10200.
Ma per
risolvere i problemi scaturenti da tale unica modalità di
suddivisione, rilevati in particolare nelle estremità degli
edifici, il decreto correttivo consente ora, ove tale norma
tecnica non sia applicabile o siano comprovate, tramite
relazione tecnica, determinate differenze di fabbisogno
termico, di suddividere l'importo complessivo attribuendo
una quota di almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari
di energia termica.
In tal caso, gli importi rimanenti potranno essere
ripartiti, «a titolo esemplificativo e non esaustivo»,
secondo i millesimi, i mq o i metri cubi utili, oppure
secondo le potenze installate. Mentre resta salva la
possibilità, per la prima stagione termica successiva
all'installazione dei dispositivi in questione, che la
suddivisione venga effettuata in base ai soli millesimi.
Si
tratta, secondo Confediiizia, di una soluzione non perfetta,
ma certamente migliorativa rispetto alla vincolatività del
precedente sistema, che tanti problemi aveva causato.
Ne andrà verificata l'attuazione in concreto, analizzando
caso per caso le situazioni dei singoli condomini.
Informazioni: www confedilizia.it (articolo ItaliaOggi del 07.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Case, allacci per veicoli elettrici. Dal
01.06.2017
scatta l'obbligo per nuovi edifici.
Decreto legislativo attua la direttiva Ue sulle
infrastrutture per i combustibili alternativi.
I nuovi edifici dovranno essere predisposti a consentire la
ricarica dei veicoli elettrici. Dal 01.06.2017 i comuni
stabiliranno che ai fini del conseguimento del titolo
abilitativo edilizio da parte di edifici residenziali e non
residenziali con superficie superiore a 500 mq sarà
obbligatorio prevedere la predisposizione all’allaccio per
la possibile installazione di infrastrutture elettriche da
utilizzarsi per la ricarica dei veicoli.
È quanto emerge
dalla lettura dello schema di decreto legislativo di
attuazione della direttiva 2014/94/Ue, del parlamento
europeo e del consiglio del 22.10.2014, sulla
realizzazione di infrastrutture per i combustibili
alternativi.
Nel documento, che sarà all’esame di uno dei
prossimi consigli dei ministri, sono state inserite le
misure che verranno adottate nell’ambito del quadro
strategico nazionale per favorire lo sviluppo e la
promozione di prodotti energetici diversi dagli idrocarburi.
Obiettivo: ridurre la dipendenza dal petrolio e attenuare
l’impatto ambientale nel settore dei trasporti.
A tal fine
il provvedimento stabilirà i requisiti minimi per la
costruzione di infrastrutture per i combustibili
alternativi, inclusi i punti di ricarica per i veicoli
elettrici e i punti di rifornimento di gas naturale
liquefatto e compresso, idrogeno e gas di petrolio
liquefatto. (...continua)
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
SEGRETARI COMUNALI: Un «apicale» a fianco del sindaco.
Al dirigente il compito di vigilare sull’attuazione e sul
controllo di legalità.
Riforma Madia. La suddivisione di responsabilità dopo la
revisione della governance amministrativa.
Sono
soprattutto due gli effetti che la riforma della dirigenza
avrà sugli enti locali:
-
l’istituzione della figura del dirigente apicale, come nuovo
vertice della macchina burocratica, con connessa
trasformazione dei segretari;
-
la possibilità di conferimento di incarichi dirigenziali a
soggetti che non sono alle dipendenze dell’ente, ma di altre
amministrazioni.
Da evidenziare che questa seconda novità si applica
solamente in quei Comuni -una netta minoranza- in cui non
vi sono dirigenti, per cui nei Comuni dove vi sono dirigenti
-la grande maggioranza- gli incarichi di responsabilità
possono di regola essere conferiti solamente a dipendenti
dello stesso ente.
Tutti i Comuni devono avere un dirigente apicale. A questo
soggetto sono affidati
tre compiti:
-
attuazione dell’indirizzo politico;
-
coordinamento delle attività amministrative;
-
controllo di legalità.
Compiti, quindi, che hanno sia un contenuto gestionale sia
di controllo. I Comuni con popolazione fino a 5mila abitanti
e quelli montani con popolazione compresa fino a 3mila
abitanti devono conferire questo incarico necessariamente in
forma associata. Questo incarico può essere conferito
solamente a un dirigente iscritto nei ruoli della dirigenza
degli enti locali o delle Regioni o dello Stato.
Questo
incarico, a differenza degli incarichi dirigenziali che
hanno una durata quadriennale in tutte le Pa, è collegato
direttamente al mandato del sindaco: cessa entro 90 giorni
dall’insediamento dei nuovi organi, salva la possibilità di
conferma. Nei Comuni con popolazione superiore a 100mila
abitanti e nelle città metropolitane, anziché tale incarico
si può continuare ad avere il direttore generale. In questo
caso i compiti di responsabile anticorruzione e di ufficiale
rogante vanno assegnati a un dirigente.
Lo schema di provvedimento è molto attento a disciplinare la
fase transitoria. I segretari comunali di fascia A e B, cioè
quelli che sono equiparati alla dirigenza, sono iscritti
nell’albo dei dirigenti. Essi rimangono nei Comuni in cui
sono in servizio all’atto dell’entrata in vigore della
riforma fino alla scadenza del loro incarico, cioè fino alle
prime elezioni amministrative. Quelli in disponibilità
continuano a ricevere lo stesso trattamento economico in
godimento.
I segretari in fascia C che non abbiano ricevuto
un incarico di dirigente apicale svolgono la loro attività
per 2 anni come funzionari e successivamente, previa
valutazione, in modo sostanzialmente analogo ai vincitori
dei corsi concorso per la dirigenza, potranno essere
iscritti nell’albo dei dirigenti degli enti locali. Una
forma di tutela ulteriore, in applicazione dei principi
fissati dalla legge 124/2015, è costituita dalla clausola
che, nei tre anni successivi alla entrata in vigore della
riforma, quindi presumibilmente fino a tutto il 2019, gli
incarichi di dirigente apicale potranno essere conferiti
solamente a coloro che sono attualmente iscritti nell’albo
dei segretari.
Il provvedimento prevede inoltre che nei Comuni privi di
dirigenti sia fatta salva la possibilità per i sindaci di
conferire gli incarichi ai responsabili: è una disposizione
importante perché conferma la possibilità per queste
amministrazioni locali di continuare ad avere un modello
organizzativo privo di dirigenti.
I sindaci potranno conferire incarichi dirigenziali per un
periodo di 4 anni, con possibilità di proroga per un periodo
di 2 anni e per una sola volta, a dirigenti iscritti ad uno
dei tre ruoli della dirigenza pubblica: ogni volta che
individueranno un dirigente non in servizio presso il
proprio ente si realizzerà il trasferimento in mobilità. Il
che vuol dire che i dirigenti a tempo indeterminato di ogni
singolo Comune non hanno più alcuna certezza di continuare a
mantenere il proprio rapporto, anche se con un incarico
diverso, presso l’amministrazione in cui sono stati assunti.
Il che realizza un cambiamento epocale.
La scelta deve
essere effettuata sulla base dei criteri di valutazione
comparativa e pubblica previsti dal decreto. La istituenda
Commissione per la dirigenza locale è chiamata a vigilare
sulla corretta applicazione di queste previsioni e, in
particolare, dell’ipotesi di revoca anticipata degli
incarichi dirigenziali per la modifica della organizzazione
interna, così da evitare possibili abusi.
Da sottolineare che la durata degli incarichi dirigenziali
non è collegata al mandato del sindaco, ma è fissata in 4
anni (possono diventare al massimo 6 più 90 giorni per il
completamento della procedura di conferimento dell’incarico
dirigenziale), quindi con cadenze temporali diverse. Una
limitazione all’utilizzo di questa possibilità è data dalla
scelta contenuta nello schema di decreto in base al quale
gli enti che non confermano gli incarichi ai propri
dirigenti hanno l’obbligo di corrispondere loro il
trattamento economico, anche se in misura progressivamente
ridotta, per almeno 2 anni.
Una importante disposizione è quella che prevede la
possibilità, anche per i Comuni, di dare corso alla
distinzione tra incarichi dirigenziali generali e ordinari.
Viene confermata la possibilità di assumere dirigenti a
tempo determinato con procedure selettive e comparative
entro il tetto del 30% dei posti in dotazione organica. Si
deve infine segnalare che le procedure concorsuali per
dirigenti in corso alla data di entrata in vigore del
decreto devono essere completate (articolo Il Sole 24 Ore del
05.09.2016). |
ENTI LOCALI: Per
le partecipate divieto di fare attività d'impresa. Le regole
del Testo unico sulle società pubbliche. Richiesto fatturato
annuale di un mln.
Le società a partecipazione pubblica non potranno svolgere
mera attività d'impresa, e il loro oggetto sociale dovrà
essere finalizzato solo al perseguimento di finalità
istituzionali. Esse dovranno fatturare annualmente almeno 1
milione di euro.
Sono alcune delle nuove regole mirate a
ridurre e regolamentare le società a partecipazione pubblica
che emergono dal piano di razionalizzazione previsto dal
nuovo «Testo unico in materia di società a partecipazione
pubblica».
L'oggetto sociale. Le amministrazioni pubbliche potranno
costituire società aventi a oggetto attività di produzione
di beni e servizi o partecipare alle stesse solo quando ciò
risulterà strettamente necessario al perseguimento dei
propri fini istituzionali. Diversamente dovranno provvedere
alla dismissione della partecipazione.
Deroghe a tali principi sono ammesse solo qualora la società
sia finalizzata a «ottimizzare e valorizzare l'utilizzo di
beni immobili facenti parte del proprio patrimonio». In
questi casi, infatti è ammesso acquisire partecipazioni in
società tramite il conferimento di beni immobili allo scopo
di realizzare un investimento secondo criteri di mercato.
L'obiettivo di tali disposizioni, oltre che esplicitare e
rendere sistematici alcuni concetti già previsti nella legge
24/12/2007, n. 244, art. 3, comma 27, non ritenendo
sufficiente il solo «vincolo di scopo pubblico», intende,
come rileva il Consiglio di Stato nelle proprie osservazioni
«...non consentire più la costituzione o la partecipazione
di amministrazioni pubbliche in società pubbliche che
svolgono attività d'impresa... con la finalità di assicurare
nuove forme di privatizzazione sostanziale con impulso
positivo ai processi di liberalizzazione delle attività
economiche».
Le regole per la costituzione e le operazioni straordinarie.
Viene chiarito (anche se di fatto era già questa la prassi
prevalente anche ai sensi dell'art. 42 del Tuel) che sia la
costituzione di società a partecipazione pubblica (art. 7),
sia l'acquisizione di partecipazioni (art. 8) in società già
costituite deve essere adottato con deliberazione
dell'autorità o ente pubblico partecipante.
La deliberazione, oltre che contenere degli elementi
essenziali dell'atto costitutivo (art. 2328 c.c. per le spa
e 2463 c.c. per le srl) dovrà opportunamente motivare le
ragioni della costituzione della società o dell'acquisizione
della partecipazione .
Tale deliberazione, si legge nella relazione illustrativa,
oltre che alla necessità della costituzione o acquisizione
per il perseguimento di fini istituzionali dovrà evidenziare
«gli obiettivi gestionali a cui dovrà tendere la società
stessa, sulla base di specifici parametri qualitativi e
quantitativi, nonché le ragioni e finalità che giustificano
la scelta anche sul piano della convenienza economica».
La richiesta razionalizzazione. Il mancato rispetto delle
disposizioni in tema di finalità perseguibili, nonché una
serie di circostanze previste dall'art. 20 fra cui spiccano
il fatto che la società sia priva di dipendenti o gli
amministratori siano più dei dipendenti o che nel triennio
precedente la società non abbia conseguito il fatturato di
almeno un milione, o nelle società non costituite per un
servizio di interesse generale, il fatto che abbia
conseguito per quattro anni su cinque un risultato negativo,
obbliga le amministrazioni pubbliche alla stesura di un
piano di riassetto delle partecipazioni per la loro
razionalizzazione.
Detti piani possono prevedere, in virtù di operazioni
straordinarie, anche la fusione o soppressione attraverso
liquidazione della società oppure la dismissione della
partecipazione.
---------------
Società pubbliche soggette a bail-in.
Società a partecipazione pubblica soggette alle norme sul
fallimento, sul concordato preventivo e, laddove ne
ricorrano i presupposti, a quelle in materia di
amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
È quanto prevede lo schema di dlgs approvato dal Consiglio
dei ministri nella seduta del 10.08.2016 e in attesa di
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Viene, così, posta la parola fine al dibattito dottrinario e
giurisprudenziale sulla fallibilità delle società a
partecipazione pubblica che ha caratterizzato il recente
passato. Con la fallibilità delle società pubbliche si pone,
di fatto, uno scudo a favore degli enti locali partecipanti
che li pone al riparo dal rispondere dei debiti delle
società partecipate, e questo anche nel caso di esercizio
del controllo analogo (cosiddetto house providing).
La previsione della fallibilità delle società a
partecipazione pubblica determina, infatti, effetti del
tutto simili al bail-in bancario, in quanto, chiama i
creditori delle stesse ad assorbire gli effetti della crisi
delle società partecipate, per atti, spesso, derivanti da
mala gestio.
In caso di fallimento viene previsto un divieto per le
pubbliche amministrazioni controllanti la società fallita,
nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento,
di costituire nuove società, o di acquisire o di mantenere
partecipazioni in altre società che gestiscano gli stessi
servizi della società fallita.
Il dlgs si occupa della crisi non solo nella fase terminale
della stessa ma introduce, al comma 2 dell'art. 6, un
sistema di prevenzione e monitoraggio consistente
nell'obbligo di predisposizione, da parte dell'organo
amministrativo, di specifici programmi di valutazione del
rischio di crisi aziendale. Detti programmi devono essere
portati a conoscenza dell'assemblea dei soci tramite la
relazione sul governo societario che va predisposta
annualmente, a chiusura dell'esercizio sociale, e pubblicata
contestualmente al bilancio d'esercizio.
Laddove emergano uno o più indicatori di allerta sulla crisi
aziendale, gli amministratori della società partecipata
devono adottare, senza indugio, i provvedimenti necessari al
fine di evitare l'aggravamento della crisi, di correggerne
gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un piano di
risanamento.
Il comma 4 dell'art. 14 del dlgs prevede
espressamente che non costituisce un provvedimento adeguato
quello che preveda il ripianamento delle perdite da parte
delle pubbliche amministrazioni socie, anche se attuato in
concomitanza di un aumento del capitale sociale, di un
trasferimento straordinario di partecipazioni, di un
rilascio di garanzie o di altre forme giuridiche similari.
L'unica eccezione ammessa rispetto alle citate casistiche è
quello dell'inserimento delle stesse nell'ambito di un piano
di ristrutturazione aziendale dal quale risulti comprovata
la sussistenza di concrete prospettive di recupero
dell'equilibrio economico delle attività svolte. Detto piano
deve essere specificamente approvato.
La sanzione prevista per l'organo amministrativo che non
ottempera a quanto richiesto è particolarmente grave: si
configura ipso facto una grave irregolarità nella gestione
ai sensi dell'art. 2409 c.c.
A proposito di controllo giudiziario ex art. 2409 c.c.,
l'art. 13 del decreto prevede espressamente che, nel caso di
società a controllo pubblico, ciascuna amministrazione
pubblica partecipante, senza limiti minimi di partecipazione
al capitale sociale, è legittimata a presentare denunzia al
tribunale competente e che l'istituto del controllo
giudiziario si applica anche alle Srl, fattispecie che, per
le società a capitale privato, ha generato notevoli
contrasti dottrinari e giurisprudenziali.
L' intento è quello di stringere le maglie del controllo
dell'operato degli amministratori delle società partecipate,
prevedendo una espressa deroga ai limiti di azionabilità
della denunzia al tribunale da parte dei soci pubblici per
fondato sospetto di gravi irregolarità nella gestione
compiute dagli amministratori in violazione dei loro doveri,
con potenziali danni per la società.
L'art. 2409 c.c. per la
generalità dei casi, prevede, infatti, che la denunzia possa
essere esercitata solo da soci che abbiano una
partecipazione nella società pari ad almeno un decimo del
capitale sociale (un ventesimo nel caso di società che fanno
ricorso al capitale di rischio). Oltre alla mancata adozione
di provvedimenti adeguati di soluzione della crisi d'impresa
costituisce grave irregolarità, per espressa previsione
dell'art. 16 del decreto, il mancato rispetto del limite
quantitativo (oltre l'80% del fatturato) delle attività che
le società a controllo pubblico titolari di affidamenti
diretti di contratti pubblici devono effettuare nello
svolgimento dei compiti a esse affidati dai soci pubblici.
Versando nell'alveo delle società pubbliche le norme in
esame vanno applicate in modo ancor più rigoroso di quanto
non sia richiesto per le società a capitale privato, in
quanto, gli enti pubblici soci potrebbero essere chiamati a
potenziali responsabilità riflesse laddove, a fronte di
fondati sospetti di gravi irregolarità, non dovessero
procedere senza indugio a richiedere il controllo
giudiziario ai sensi dell'art. 2409 c.c.
Divieto di ricapitalizzazione per perdite. Altra previsione
stringente contenuta nell'art. 14 del decreto è quella del
comma 5 che preclude alle amministrazioni pubbliche di
effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari,
aperture di credito, rilascio di garanzie nei confronti di
società partecipate non quotate qualora queste ultime
abbiano registrato per tre esercizi consecutivi perdite di
esercizio.
Il divieto si estende anche al caso in cui le
perdite, anche infrannuali, siano state coperte tramite
utilizzo di riserve disponibili. Le uniche eccezioni ammesse
sono quelle relative ai casi di perdite rilevanti ai sensi
degli artt. 2447 c.c. (per le Spa) e 2482-ter (per le Srl),
ossia i casi in cui la perdita, che ecceda un terzo del
capitale, porti lo stesso al di sotto del minimo legale.
Sono in ogni caso consentiti trasferimenti straordinari a
fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma
relativi alla gestione di servizi di pubblico interesse o
alla realizzazione di investimenti, a condizione che le
misure indicate siano previste in un piano di risanamento
che dimostri il raggiungimento degli equilibri finanziari
nell'arco temporale massimo di tre anni. Il piano deve
essere approvato dall'Autorità di regolazione di settore (se
esistente) e comunicato alla Corte dei conti.
Per servizi pubblici che potrebbero generare gravi pericoli
per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico o la sanità è
possibile, su richiesta dell'amministrazione interessata,
autorizzare in deroga con Dpcm le operazioni di cui è fatto
espresso divieto (ricapitalizzazione, trasferimenti
straordinari, aperture di credito ecc.).
---------------
Gli impatti delle perdite nei
partecipanti.
Nel caso la società a partecipazione pubblica chiuda con un
risultato d'esercizio negativo le pubbliche amministrazioni
locali partecipanti, che adottano la contabilità
finanziaria, devono accantonare nel proprio bilancio in un
apposito fondo vincolato la quota di perdita proporzionale
alla percentuale di partecipazione al capitale sociale. È
quanto previsto dall'art. 21 del dlgs in attesa di
pubblicazione.
Nel caso l'amministrazione partecipante dovesse adottare il
sistema di contabilità civilistica il recepimento della
perdita di riferimento della partecipata avverrà applicando
gli ordinari criteri valutativi previsti al riguardo
(svalutazione per perdite durevoli di valore). Nella fase di
prima applicazione sono previsti meccanismi progressivi di
determinazione della quota da accantonare.
Per gli amministratori di società a partecipazione di
maggioranza, diretta e indiretta, titolari di affidamento
diretto da parte di soggetti pubblici per una quota
superiore all'80% del valore della produzione, che abbiano
chiuso in perdita i tre esercizi precedenti è prevista una
riduzione del 30% dei compensi. Il conseguimento di perdite
per due anni consecutivi configura giusta causa di revoca
degli amministratori. Le suddette limitazioni non si
applicano laddove la perdita sia coerente con un piano di
risanamento preventivamente approvato dagli enti
controllanti.
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Miste, ok al controllo del socio sul cda.
Nelle società a partecipazione mista, pubblico privata (con
la quota privata che non può essere inferiore al 30%),
finalizzate alla realizzazione e gestione di un'opera
pubblica ovvero alla organizzazione e gestione di un
servizio di interesse generale attraverso un contratto di
partenariato l'art. 17, comma 4, prevede alcune specifiche
disposizioni societarie derogatorie al codice civile.
In particolare:
1) per quanto riguarda le srl, di norma l'art. 2479, comma 1,
consente ai soci di decidere sugli argomenti che uno o più
amministratori o tanti soci che rappresentino almeno 1/3 del
capitale sociale sottoponga alla loro approvazione. Nelle
società pubblico private viene consentito che gli atti
costitutivi inibiscano ad amministratori e soci di minoranza
di ricorrere a detta opportunità facendo si che della
decisione resti delegato esclusivamente l'amministratore
unico o il cda;
2) due le principali deroghe previste nelle spa. La prima
attiene l'articolo 2480-bis c.c. (e l'art. 2409-novies per
il sistema monistico), e consente di inserire negli statuti
della società clausole finalizzate a consentire il controllo
diretto sulla gestione da parte del socio pubblico. La
seconda attiene, invece, la durata di eventuali patti
parasociali. Questi, in deroga all'art. 2341-bis c.c.
potranno avere durata ultraquinquennale purché non superino
i limiti del contratto per la cui esecuzione la società è
stata costituita.
Società a controllo pubblico. Particolari regole societarie
sono, poi, previste dagli art. 11 e 13 del decreto, nelle
società a controllo pubblico. Per esse, in ottica
amministrativa, si prevede, salvo specifiche ragioni di
adeguatezza, la nomina di un amministratore unico. Nei casi
in cui sia prevista la nomina di un organo pluripersonale
non è ammessa l'amministrazione disgiuntiva o congiuntiva.
Per ciò che concerne i controlli in tutte le srl, a
prescindere da ogni limite dimensionale dovrà essere
nominato un sindaco unico o un collegio sindacale o un
revisore. Nelle stesse società sarà sempre ammissibile, per
ciascuna amministrazione pubblica, richiedere il controllo
giudiziario della società anche qualora la stessa operi in
forma di srl. Nelle società per azioni, oltre al collegio
sindacale dovrà essere sempre nominato un revisore esterno
(articolo ItaliaOggi Sette del
05.09.2016). |
APPALTI: Appalti,
scudo sui lavoratori. Più tutele nei cambi di impresa: il
rapporto prosegue.
L'interpretazione della legge
europea da parte della Fondazione studi dei consulenti (circolare
n. 11/2016).
Lavoratori più tutelati nei cambi di
appalto. Se oltre
al passaggio di personale, dal vecchio al nuovo datore di
lavoro, quest'ultimo impiega sostanzialmente anche tutti gli
altri fattori della produzione utilizzati dal precedente
datore di lavoro, si è in presenza di un trasferimento di
azienda.
Di conseguenza, ai lavoratori coinvolti spetta il
riconoscimento delle tutele previste dall'art. 2112 del
codice civile: il rapporto di lavoro continua con il nuovo
datore di lavoro con tutti i diritti che ne derivano;
vecchio e nuovo appaltatore restano obbligati, in solido,
per tutti i crediti che il lavoratore vantava al
trasferimento.
Le novità, illustrate dalla Fondazione studi
dei consulenti del lavoro nella circolare n. 11/2016, è
prevista dalla legge n. 122/2016 (c.d. «legge europea») che
ha modificato l'art. 29 del dlgs n. 276/2003 (riforma
Biagi).
Obblighi dell'Ue.
In vigore dal 23 luglio, le novità, come accennato, sono
state introdotte dall'art. 30 della legge n. 122/2016 che ha
riformato il comma 3 dell'art. 29 del dlgs n. 276/2003. La
modifica è stata chiesta dalla commissione Ue che aveva
segnalato al governo che la vecchia normativa (il vecchio
testo del comma 3 dell'art. 29) confliggeva con i principi
della direttiva 2001/23/Ce.
Per la commissione, in
particolare, la disciplina sul cambio appalto violava le
tutele minime imposte dall'Ue nella parte in cui escludeva
radicalmente la configurabilità del trasferimento d'azienda
quando l'impresa subentrante nell'appalto assume i
dipendenti già impegnati dal datore di lavoro uscente.
Pertanto, la commissione aveva avviato nei confronti
dell'Italia una procedura di pre-infrazione chiedendo al
governo di chiarire, nella normativa nazionale, la regola
per cui il subentro nell'appalto costituisce trasferimento
d'azienda in presenza di una situazione in cui, oltre che il
passaggio di personale, si verifica un trasferimento di beni
di non trascurabile entità.
La vecchia disciplina.
In realtà, secondo il testo dell'art. 29, comma 3, del dlgs
n. 276/2003 in vigore fino al 22 luglio, «l'acquisizione del
personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro
di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto
collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto
d'appalto, non costituisce trasferimento d'azienda o parte
d'azienda».
In base a tale disposto, dunque, il cambio del
soggetto appaltatore non basta(va) a integrare un mutamento
nella titolarità di un'organizzazione economica, necessario
ai fini della configurazione di un trasferimento d'azienda
ai sensi dell'art. 2112 del codice civile. Di conseguenza
l'imprenditore subentrante acquisiva direttamente il
lavoratore dipendente dal precedente appaltatore e non
rispondeva in solido con questi dei crediti da lavoro
vantati dal lavoratore al momento del cambio appalto.
Peraltro, spiega la Fondazione, alcuni contratti collettivi
(per esempio quelli del settore delle imprese di pulizia,
delle imprese di igiene ambientale e smaltimento rifiuti, o
quelli dei gestori di mense aziendali) hanno previsto
speciali procedure di informazione e di consultazione
sindacale, nonché l'obbligo dell'impresa subentrante di
assumere, alle stesse condizioni, i lavoratori già addetti
all'appalto da parte dell'impresa uscente.
Si tratta in ogni
caso di obblighi a contrarre la cui esecuzione dà origine a
un nuovo rapporto di lavoro distinto dal precedente, con
conseguente differenza rispetto alla disciplina legale del
trasferimento d'azienda e con l'esclusione di qualsiasi
responsabilità del nuovo appaltatore per i crediti del
lavoratore nei confronti del vecchio appaltatore.
In questo modo, cioè mediante assunzione del personale
precedentemente addetto all'appalto e dipendente del vecchio
appaltatore, si rendevano non applicabili le tutele previste
dall'art. 2112 del codice civile, tranne che in alcune
eccezioni individuate dalla Corte di cassazione sulla scorta
della giurisprudenza della Corte di giustizia Ue.
Per
esempio risulta configurabile un trasferimento d'azienda
quando, oltre all'assunzione da parte del nuovo appaltatore
dei dipendenti già addetti all'appalto, si verifica anche il
passaggio di beni di non trascurabile entità, tali da poter
parlare di passaggio di una vera e propria organizzazione
economica (così, cassazione 16.05.2013, n. 11918,
cassazione 15.10.2010, n. 21278, cassazione 08.10.2007, n. 21023, cassazione 13.01.2005, n. 493,
cassazione 18.03.1996, n. 2254).
La nuova disciplina.
Ciò che era un'eccezione giurisprudenziale è adesso regola.
L'art. 30 della legge n. 122/2016, modificando l'art. 29 del
dlgs n. 276/2003, stabilisce che «l'acquisizione del
personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro
di nuovo appaltatore dotato di propria struttura
organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto
collettivo nazionale o di clausola di contratto d'appalto,
ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano
una specifica identità d'impresa, non costituisce
trasferimento d'azienda».
La legge n. 122/2016, secondo la
Fondazione studi, ha introdotto due sostanziali elementi
innovativi: ha escluso il trasferimento d'azienda quando
l'imprenditore subentrante sia «dotato di propria struttura
organizzativa e operativa» e «siano presenti elementi di
discontinuità che determinano una specifica identità di
impresa». Secondo la nuova disciplina, dunque, la
successione nell'appalto integra trasferimento d'azienda
ogniqualvolta ci sia sostanziale continuità tra la struttura
organizzativa e operativa dell'appaltatore subentrante e
quella dell'appaltatore uscente e cioè quando vi sia
identità d'impresa tra l'attività del primo e quella del
secondo, con mera mutazione della titolarità della stessa.
Il secondo requisito richiesto dalla nuova disciplina al
fine di escludere il trasferimento d'azienda è la presenza
di «elementi di discontinuità che determinano una specifica
identità d'impresa».
Ma che s'intende per «identità
d'impresa»? Sul piano delle fonti comunitarie, spiega la
circolare della Fondazione, l'art. 1 della direttiva Ce del
29.06.1998, n. 50 prevede che, in materia di
trasferimento d'azienda, si possa parlare di «identità»
quando un'azienda conservi il medesimo «insieme di mezzi
organizzati, al fine di svolgere un'attività economica, sia
essa essenziale o accessoria».
La Corte di giustizia Ue,
chiamata a chiarire il significato del termine «identità»
nella disciplina Ue sul trasferimento d'azienda, ha
sostenuto che essa è integrata ogniqualvolta venga
essenzialmente conservato il complesso dei beni materiali e
immateriali, comprensivi del personale e delle sue
competenze necessari e imprescindibili all'esercizio di una
specifica e stabile attività economico-imprenditoriale: non
basta dunque la mera cessione di alcuni mezzi o l'assunzione
di qualche dipendente per poter parlare di conservazione di
tale identità.
Parimenti la Cassazione ritiene che si
conservi l'identità dell'impresa quando permangono gli
stessi mezzi, beni e rapporti giuridici funzionalizzati
all'esercizio stabile e continuativo di attività economica
in forma d'impresa (cassazione 17.01.2013, n. 1102 e
cassazione 08.07.2011, n. 15094).
Di tale definizione ha certamente tenuto conto il
Legislatore nella formulazione del comma 5 dell'art. 2112
del codice civile, secondo cui per trasferimento d'impresa
s'intende il mutamento di titolarità di un'attività
economica organizzata «che conserva nel trasferimento la
sua identità». In questo contesto, allora, il requisito
dell'identità di impresa richiesto dalla nuova disciplina
pare specificare e puntualizzare quelli già richiesti prima
dalla giurisprudenza di legittimità.
In conclusione, per la Fondazione studi la legge n. 122/2016
codifica il principio secondo il quale devono essere
applicate le tutele dell'art. 2112 del codice civile
ogniqualvolta nel cambio dell'appalto si realizzi una
sostanziale continuità organizzativa d'impresa, senza il
ricorso a mezzi, beni e organizzazione diversi da quelle
impiegate in precedenza
(articolo ItaliaOggi Sette del
05.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Misure
antisismiche con il 65%. Fino al 31 dicembre possibile
fruire della detrazione. Agevolato l'adeguamento di
abitazioni o immobili adibiti ad attività produttive.
Fino al 31.12.2016 è possibile usufruire del riconoscimento
della detrazione fiscale del 65% per le spese sostenute per
interventi di adozione di misure antisismiche su costruzioni
che si trovano in zone sismiche ad alta pericolosità, se
adibite ad abitazione principale o ad attività produttive.
La detrazione è pari al 65% delle spese effettuate dal 04.08.2013 al 31.12.2016, e l'ammontare massimo delle
spese ammesse in detrazione non può superare l'importo di 96
mila euro. È con la legge di Stabilità 2016 (legge n. 208
del 28.12.2015) che è stata prorogata al 31.12.2016 la possibilità di detrarre il 65% gli interventi di
adozione di misure antisismiche.
Ad introdurre la possibilità di usufruire della detrazione
65% anche per gli interventi edilizi che prevedono la
ristrutturazione antisismica delle abitazioni e dei
fabbricati produttivi è stato il decreto-legge 04.06.2013, n. 63 convertito nella legge del
03.08.2013, n. 90
recante «Disposizioni urgenti per il recepimento della
direttiva 2010/31/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio
del 19.05.2010, sulla prestazione energetica
nell'edilizia per la definizione delle procedure
d'infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre
disposizioni in materia di coesione sociale».
Soggetti che usufruiscono della detrazione fiscale. Della
detrazione del 65% su un importo complessivo massimo di 96
mila euro per unità immobiliare (da ripartire in 10 quote
annuali di pari importo), possono usufruire sia i soggetti
passivi Irpef, sia i soggetti Ires, sempre che le spese
siano rimaste a loro carico e possiedano o detengano
l'immobile in base a un titolo idoneo (e cioè diritto di
proprietà o altro diritto reale, contratto di locazione, o
altro diritto personale di godimento).
L'agevolazione può essere richiesta se l'intervento è
effettuato:
- su costruzioni adibite ad abitazione principale o ad
attività produttive;
- se l'immobile si trova in zone sismiche ad alta
pericolosità (zone 1 e 2), i cui criteri di identificazione
sono stati fissati con l'ordinanza del presidente del
consiglio dei ministri n. 3274 del 20.03.2003.
Per costruzioni adibite ad attività produttive si intendono
le unità immobiliari in cui si svolgono attività agricole,
professionali, produttive di beni e servizi, commerciali o
non commerciali.
La classificazione sismica dell'Italia operata con
l'ordinanza 3274/2003 ha eliminato la categoria «non
classificato» e ha introdotto quattro zone di pericolosità
sismica decrescente:
• Zona 1: è la zona più pericolosa, dove possono verificarsi
forti terremoti (rientra nella detrazione 65% adeguamento
sismico edifici esistenti);
• Zona 2: nei comuni inseriti in questa zona possono
verificarsi terremoti abbastanza forti (rientra nella
detrazione 65% adeguamento sismico);
• Zona 3: i comuni inseriti in questa zona possono essere
soggetti a scuotimenti modesti;
• Zona 4: è la zona meno pericolosa.
Per poter individuare in quale zona di pericolosità sismica
si trova il proprio comune di residenza e per poter
conoscere se si ha diritto o meno al riconoscimento della
detrazione 65% per gli interventi di adeguamento antisismico
è necessario collegarsi al sito della protezione civile
www.protezionecivile.gov.it dove viene fornito l'elenco
completo di tutti i comuni italiani con la relativa
classificazione.
Nella detrazione del 65% oltre alle spese necessarie per
l'esecuzione dei lavori rientrano:
- le spese per la progettazione e le altre prestazioni
professionali connesse ;
- l'imposta sul valore aggiunto, l'imposta di bollo e i
diritti pagati per le concessioni, le autorizzazioni e le
denunzie di inizio lavori;
- le spese per la messa in regola degli edifici ai sensi del
dm 37/2008 - ex legge 46/1990 (impianti elettrici) e delle
norme Unicig per gli impianti a metano (legge 1083/1971);
- gli oneri di urbanizzazione;
- le spese per prestazioni professionali comunque richieste
dal tipo di intervento;
- le spese per l'acquisto dei materiali;
- il compenso corrisposto per la relazione di conformità dei
lavori alle leggi vigenti;
- le spese per l'effettuazione di perizie e sopralluoghi;
- gli altri eventuali costi strettamente collegati alla
realizzazione degli interventi nonché agli adempimenti
stabiliti dal regolamento di attuazione degli interventi
agevolati .
Non rientrano invece nella detrazione del 65% le spese di
trasloco e custodia dei mobili per il periodo necessario
all'effettuazione degli interventi di recupero edilizio.
Come usufruire della detrazione. Per usufruire della
detrazione fiscale è sufficiente riportare nella
dichiarazione dei redditi i dati catastali identificativi
dell'immobile e, se i lavori sono effettuati dal detentore,
gli estremi di registrazione dell'atto che ne costituisce
titolo e gli altri dati richiesti per il controllo della
detrazione.
Oltre ai documenti quali la comunicazione all'Asl, le
fatture e le ricevute comprovanti le spese sostenute, le
ricevute dei bonifici di pagamento, il contribuente deve
essere in possesso della dichiarazione di consenso del
possessore dell'immobile all'esecuzione dei lavori (per gli
interventi effettuati dal detentore dell'immobile, se
diverso dai familiari conviventi), delle ricevute di
pagamento dell'imposta comunale (Ici-Imu), se dovuta, della
delibera assembleare di approvazione dell'esecuzione dei
lavori (per gli interventi su parti comuni di edifici
residenziali) e tabella millesimale di ripartizione delle
spese e della domanda di accatastamento (se l'immobile non è
ancora censito).
Si ricorda che per usufruire della detrazione fiscale deve
essere inviata all'azienda sanitaria locale competente per
territorio una comunicazione con raccomandata A.R. o altre
modalità stabilite dalla regione di appartenenza contenete:
- la natura dell'intervento da realizzare;
- le generalità del committente dei lavori e ubicazione
degli stessi ;
- la data di inizio dell'intervento di recupero;
- i dati identificativi dell'impresa esecutrice dei lavori
con esplicita assunzione di responsabilità, da parte della
medesima, in ordine al rispetto degli obblighi posti dalla
vigente normativa in materia di sicurezza sul lavoro e
contribuzione
(articolo ItaliaOggi Sette del
05.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La notifica via Pec rende nulla la cartella. La
giurisprudenza conferma l'orientamento dei tributaristi.
Sulla invalidità delle notifiche delle cartelle di pagamento
tramite posta elettronica certificata, anche la
giurisprudenza interviene a confermare l'orientamento dei
tributaristi Lapet.
Il rischio di incostituzionalità paventato dai tributaristi
(si veda ItaliaOggi dell'11.06.2016) emerge dalla combinata
lettura degli articoli 20, commi 1 e 2, e 53, comma 2, del dlgs 546/1992, dalla circolare 2/df del 12.05.2016 e di
alcune recenti sentenze della giurisprudenza di merito (Ctr
Milano n. 1711/34/2016, Ctr Benevento, n. 365/13, Ctr Roma,
n. 54/10/2010 e Ctr Bologna, n. 2065/2015).
«Ben venga
l'intenzione del Legislatore di incentivare l'utilizzo dei
sistemi informatici, al fine di ottenere una riduzione degli
oneri sia per i contribuenti che per la stessa pubblica
amministrazione», ha commentato il presidente nazionale
tributaristi Lapet Roberto Falcone. Secondo i tributaristi
però resta fondamentale garantire il diritto di difesa del
contribuente.
«I nostri dubbi in tal senso trovano conferma anche nei
recenti orientamenti giurisprudenziali secondo cui sono
tutte nulle le cartelle di pagamento notificate a mezzo Pec
in quanto, non solo la posta elettronica certificata non
offre le garanzie tipiche della raccomandata tradizionale ma
soprattutto perché non contiene l'originale della cartella,
ma solo una copia informatica», ha aggiunto Falcone. Una
semplice copia infatti non può mai assumere un valore
giuridico. Il sistema Pec non può garantire infatti che il
documento allegato sia effettivamente l'originale. Inoltre,
la Pec non garantisce neanche l'effettiva consegna al
destinatario, come invece avviene con il sistema a mezzo
raccomandata, notificata dal messo notificatore in quanto
pubblico ufficiale.
I tributaristi concordano quindi che la
semplice disponibilità di un documento nella casella Pec,
non equivale all'avvenuta consegna del documento al
destinatario, il quale potrebbe non leggerla per svariate
ragioni. Senza considerare la conseguente incertezza sui
termini di decorrenza dell'atto ai fini della presentazione
di ricorso o appello.
A questo punto la notifica tramite Pec sarebbe uno strumento
costituzionalmente illegittimo poiché, in termini di
sistema, non garantisce alcuna libertà al destinatario al
fine di poter scegliere modalità, tempi e dinamica di
ricezione dell'atto o del documento informatico ed
eventualmente di poter esprimere rifiuto.
Propositiva
l'associazione nazionale Lapet che, in linea con l'iter di
semplificazione avviato dal governo, per una sempre maggiore
compliance tra pubblica amministrazione e cittadino,
il quale deve avere sempre chiarezza e conoscenza dell'atto
notificato, suggerisce, in aggiunta alla Pec, l'utilizzo
della firma elettronica digitale o il deposito elettronico
dell'atto presso soggetti terzi qualificati digitalmente
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2016). |
VARI: Tagliandi
fai-da-te. Circolare sulla polizza
rc auto.
Per non incorre in discussioni con gli organi di polizia in
caso di controllo sulla regolare copertura assicurativa del
veicolo meglio avere al seguito più carta possibile.
Comprese le ultime indicazioni del Viminale che ammettono
anche l'esibizione agli agenti in divisa del certificato rc
auto in formato digitale o in stampa non originale.
Lo ha evidenziato il ministero dell'interno con la
circolare
01.09.2016 n. 300/A/5931/16/106/15.
La cessazione
dell'obbligo di esposizione del contrassegno assicurativo,
entrata in vigore da quasi un anno, ha avviato una serie di
riflessioni operative tra forze di polizia con inevitabili
ricadute anche sui comportamenti degli automobilisti.
Se da una parte l'automobilista ha il beneficio di non dover
più esporre il contrassegno, dall'altro sono aumentati i
rischi di essere trovati in difetto e spesso per motivazioni
assolutamente indipendenti dalla volontà del conducente.
Questo perché innanzitutto le banche dati che attestano la
regolarità della copertura assicurativa non sono ancora
completamente aggiornate. Poi perché alcune compagnie
consentono una estensione della copertura assicurativa per
periodi di tempo superiori alle due settimane di rito.
Per
cercare di rimettere un po' di ordine nel settore, l'organo
di coordinamento dei servizi di polizia stradale ha diramato
una serie di istruzioni operative che evidenziano l'obbligo
di avere sempre nel cruscotto il certificato di
assicurazione da esibire alla polizia. Ma che è anche
consigliabile portarsi dietro l'attestazione di avvenuto
pagamento del premio e copia del contratto perché rispetto
alle indicazioni del ced i documenti risulteranno sempre
prevalenti.
In ogni caso d'ora in poi potrà bastare anche solo un
certificato di assicurazione in formato digitale o una
stampa non originale del formato digitale stesso, specifica
la circolare. Senza che il conducente possa essere
sanzionato per mancato possesso dell'originale a bordo con
invito all'esibizione presso un ufficio di polizia. Le
caratteristiche del certificato infatti sono state variate
dal codice delle assicurazioni private ed adeguate ai
concetti dell'amministrazione digitale
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2016). |
SICUREZZA LAVORO: Più
tutela dai campi elettromagnetici.
Più informazione in azienda sui rischi derivanti
dall'esposizione a campi elettromagnetici. I datori di
lavoro dovranno garantire che lavoratori e rappresentanti
per la sicurezza ricevano tutte le informazioni e la
formazione necessarie in relazione alla valutazione dei
rischi effettuata, con particolare riguardo, d'ora in poi,
anche agli eventuali effetti «indiretti» dell'esposizione
(provocati, cioè, dalla presenza di un oggetto nel campo
elettromagnetico, come uno stimolatore cardiaco o dei
materiali infiammabili), nonché alla possibilità di
sensazioni e sintomi transitori dovuti a effetti sul sistema
nervoso (centrale o periferico), e alla possibilità di
rischi specifici per lavoratori particolarmente sensibili
(per esempio, portatori di protesi metalliche).
È quanto prevede l'articolo 210-bis introdotto ex novo nel
Testo unico sulla sicurezza (dlgs n. 81/2008) ad opera del
dlgs n. 159/2016, pubblicato in G.U. n. 192 del 18 agosto e
in vigore da oggi, 2 settembre.
Il decreto dà attuazione alla direttiva 2013/35/Ue, che ha
abrogato la direttiva 2004/40/Ce e che stabilisce
«disposizioni minime» di sicurezza e salute relative
all'esposizione dei lavoratori ai campi elettromagnetici.
Esso interviene sul Capo IV del Titolo VIII del Testo unico
sulla sicurezza modificando gli articoli dal 206 al 212, e
in particolare sostituendo le norme relative alle
definizioni (207), ai «valori limite di esposizione» (Vle) e
ai «valori di azione» (Va) (208), alla valutazione dei
rischi che il datore di lavoro deve effettuare (209), alle
misure per eliminare o ridurre i rischi (210), alla
sorveglianza sanitaria (art. 211 dlgs 81/2016).
L'obiettivo delle nuove norme è quello di trattare tutti gli
agenti biofisici diretti e gli effetti indiretti noti,
provocati dai campi elettromagnetici, non solo per
assicurare salute e sicurezza di ciascun lavoratore, ma
anche per creare per tutti i lavoratori dell'Ue una
piattaforma minima di protezione evitando distorsioni alla
concorrenza.
Come la direttiva del 2004, la nuova disciplina
non affronta le ipotesi di effetti «a lungo termine»
(compresi i possibili effetti cancerogeni) derivanti
dall'esposizione ai campi elettromagnetici, «dal momento
che», si legge nel 7° Considerando alla direttiva 35/13,
«non si dispone attualmente di prove scientifiche accertate
dell'esistenza di una relazione causale». La direttiva
lascia aperto uno spiraglio evidenziando che qualora tali
prove scientifiche accertate emergano, la Commissione
valuterà gli strumenti più adeguati per far fronte ai rischi
e riferirà al Parlamento e al Consiglio.
Per quanto riguarda gli effetti «a breve termine», invece,
c'è oggi un'individuazione più dettagliata degli effetti
biofisici diretti e indiretti che possono essere provocati
dal campo elettromagnetico. Si tratta degli:
- effetti biofisici diretti, provocati direttamente nel
corpo umano a causa della presenza all'interno di un campo
elettromagnetico, che possono essere di tipo termico
(riscaldamento dei tessuti) o non termico (stimolazione di
muscoli, nervi e organi sensoriali);
- effetti indiretti, provocati dalla presenza di un oggetto
in campo elettromagnetico che potrebbe causare un pericolo
per la salute e la sicurezza (interferenza con attrezzature
e dispositivi medici elettronici, rischio propulsivo di
oggetti ferromagnetici, innesco di detonatori ecc.).
Viene infine riformulata la normativa sulla valutazione dei
rischi. In particolare, viene riscritto il comma 1 dell'art.
209 del T.u. con l'inserimento del riferimento alle linee
guida emanate dalla Commissione Ue, dal Cei (comitato
elettrotecnico italiano), dall'Inail e dalle regioni, quale
supporto tecnico nelle attività di valutazione, misurazione
e calcolo dei livelli elettromagnetici
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Opere,
la legge obiettivo di Renzi. Tempi dimezzati per gli
interventi strategici e produttivi.
Novità del regolamento attuativo della riforma Madia e
poteri accentrati a Palazzo Chigi.
Termini dimezzati per i procedimenti autorizzatori e per i
nulla osta necessari alla localizzazione, progettazione e
realizzazione di selezionate e rilevanti opere e
insediamenti produttivi e strategici; potere sostitutivo
della presidenza del consiglio con possibilità di delega a
personale della pubblica amministrazione di elevata e
comprovata esperienza.
Sono questi i punti di maggiore rilievo del regolamento
attuativo della riforma Madia (cosiddetto Sblocca opere, in
attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) che si
applicherà ai procedimenti relativi a «rilevanti
insediamenti produttivi, opere di rilevante impatto sul
territorio o l'avvio di attività imprenditoriali
suscettibili di avere positivi effetti sull'economia o
sull'occupazione».
I procedimenti sui quali interviene il regolamento sono
quelli di natura amministrativa necessari per la
localizzazione, la progettazione e la realizzazione delle
opere, lo stabilimento degli impianti produttivi e
l'esercizio delle attività.
Entro il 31 gennaio di ogni anno gli enti territoriali
potranno individuare un elenco di progetti (ognuno corredato
da specifica analisi di valutazione dell'impatto economico e
sociale), concernenti le opere oggetto di applicazione del
provvedimento già inserite nel programma triennale o in
altri atti di programmazione previsti dalla legge. A questo
punto l'ente territoriale chiederà alla presidenza del
consiglio dei ministri che al relativo procedimento siano
applicate le disposizioni del regolamento Sblocca opere.
La
presidenza del consiglio dei ministri, anche su segnalazione
del soggetto proponente, potrà inserire entro fine febbraio,
anche progetti non compresi nell'elenco la cui realizzazione
sia suscettibile di produrre positivi effetti sull'economia
o sull'occupazione e tale capacità sia dimostrata dalla
documentazione pertinente.
In un decreto da emanare entro due mesi verranno definiti i
criteri per la selezione dei progetti «in relazione alla
rilevanza strategica degli interventi pubblici e privati
assoggettati alla procedura semplificata». L'individuazione
dei progetti dovrà avvenire entro fine marzo «sentiti i
presidenti delle regioni interessate che partecipano,
ciascuno per la rispettiva competenza, alla seduta del
consiglio dei ministri».
In concreto, il regolamento prevede il dimezzamento (limite
massimo) dei termini di conclusione dei procedimenti
necessari per la localizzazione, la progettazione e la
realizzazione delle opere o lo stabilimento dell'impianto
produttivo e l'avvio dell'esercizio dell'attività.
In caso
di inutile decorso del termine di cui all'articolo 2 della
legge 07.08.1990, n. 241, o di quello eventualmente
rideterminato (cioè dimezzato) il presidente del consiglio
dei ministri, previa deliberazione del consiglio dei
ministri, può adottare i relativi atti; inoltre il
presidente del consiglio dei ministri, previa deliberazione
del consiglio dei ministri, potrà anche delegare il potere
sostitutivo a un diverso soggetto di «comprovata competenza
ed esperienza in relazione all'attività oggetto di
sostituzione», fissando un nuovo termine per la conclusione
del procedimento, comunque di durata non superiore a quello
originariamente previsto.
Il titolare del potere sostitutivo deve essere designato «tra
dipendenti pubblici in possesso di elevate competenze
tecniche o amministrative, maturate presso uffici competenti
per lo svolgimento di procedimenti analoghi, assicurando la
presenza fra essi di personale posto in posizione di elevata
responsabilità in strutture amministrative competenti per
gli interventi e procedimenti oggetto del potere sostitutivo»
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2016). |
APPALTI: Appalti, ombrello al lavoratore se c'è subentro.
Circolare della fondazione studi consulenti del lavoro sulle
tutele.
Più tutele per i lavoratori impiegati in appalti, quando
cambia l'assetto proprietario ma vi sia una sostanziale
continuità organizzativa d'impresa, poiché non si utilizzano
mezzi, beni e organizzazione diversi da quelli utilizzati in
precedenza.
La Fondazione Studi consulenti del lavoro ha elaborato la
propria
circolare
n. 11/2016, con la quale illustra i
principali effetti della legge 122/2016, che modifica
l'articolo 29, comma 3, del dlgs 276/2003, ai sensi del quale
in caso di subentro di un nuovo appaltatore nella gestione
di un appalto non configurava mai cessione d'azienda.
L'articolo 30 della legge 122/2916 ha modificato e capovolto
l'impianto iniziale del dlgs 276/2003, rispondendo così
all'iniziativa della Commissione dell'Unione europea, che
aveva avviato una procedura di preinfrazione (fascicolo «EU
Pilot», n. 7622/15/Empl).
Lo scopo era esattamente indurre il legislatore a chiarire
che il subentro nell'appalto costituisce appunto
trasferimento d'azienda laddove, oltre al passaggio di
personale dalle dipendenze del vecchio al nuovo titolare, vi
fosse anche sostanzialmente l'impiego di tutti gli altri
fattori di produzione precedentemente gestiti.
Prevedere che il subentro costituisca trasferimento
d'azienda significa estendere ai lavoratori coinvolti
l'applicazione dell'articolo 2112 del codice civile, ai
sensi del quale in caso di trasferimento d'azienda, il
rapporto di lavoro continua con il cessionario e il
lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano, e sia
vecchio, sia nuovo appaltatore restano obbligati, in solido,
per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del
trasferimento. Il subentrante, inoltre è tenuto ad applicare
i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti
collettivi nazionali, territoriali e aziendali vigenti alla
data del trasferimento, fino alla loro scadenza, mentre, il
trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di
licenziamento.
La modifica normativa appare particolarmente rilevante per
l'applicazione della disciplina delle «clausole sociali»
contenuta nel nuovo codice dei contratti, il dlgs 50/2016.
Si tratta di quelle disposizioni che impongono a un datore
di lavoro il rispetto di determinati standard di protezione
sociale e del lavoro come condizione per svolgere attività
economiche in appalto o in concessione o per accedere a
benefici di legge e agevolazioni finanziarie. L'articolo 50
del codice dispone, con particolare riguardo ai contratti ad
alta intensità di manodopera, che i bandi di gara possono
inserire, nel rispetto dei principi dell'Unione europea,
specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità
occupazionale del personale impiegato nell'appalto
precedente.
Un modo per applicare in maniera chiara le clausole sociali,
alla luce della modifica dell'articolo 29, comma 3, del dlgs
276/2003, può consistere nello specificare se l'appaltatore
nel subentro deve reimpostare o meno in maniera
significativa i fattori produttivi e l'organizzazione.
Poiché specificamente i contratti ad alta intensità di
manodopera per il codice sono quelli nei quali il costo
della manodopera è pari almeno al 50% dell'importo totale
del contratto, una specificazione simile nei bandi di fatto
agevolerà molto la configurazione del subentro come
trasferimento d'azienda, il che fa scattare automaticamente
le tutele dell'articolo 2112 del codice civile
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2016). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA: La
convenzione urbanistica volta a disciplinare, col concorso
del privato proprietario dell'area, una delle possibili
modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione
necessarie per dare al territorio interessato la
conformazione prevista dagli strumenti urbanistici, dev'essere
assimilata ad un accordo sostitutivo del provvedimento
amministrativo; in relazione al quale la legge 07.08.1990,
n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi), all'art. 11, comma 5 (ora abrogato, ma
ancora vigente al tempo dei fatti di causa), contempla la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le
liti riguardanti sia la formazione, sia la conclusione, sia
l'esecuzione di tale accordo: giurisdizione, che non viene
meno neppure in ipotesi di successivo atto di transazione,
emendativo della convenzione originaria, intercorso tra il
comune e la parte privata, stante la stretta correlazione
reciproca, oggettiva e soggettiva.
----------------
I ricorsi sono infondati.
La convenzione urbanistica volta a disciplinare, col
concorso del privato proprietario dell'area, una delle
possibili modalità di realizzazione delle opere di
urbanizzazione necessarie per dare al territorio interessato
la conformazione prevista dagli strumenti urbanistici, dev'essere
assimilata ad un accordo sostitutivo del provvedimento
amministrativo; in relazione al quale la legge 07.08.1990,
n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi), all'art. 11, comma 5 (ora abrogato, ma
ancora vigente al tempo dei fatti di causa), contempla la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le
liti riguardanti sia la formazione, sia la conclusione, sia
l'esecuzione di tale accordo (cfr. Cass., sez. unite
02.12.2010 n. 24419; sez. unite, 17.04.2009, n. 915; Cass.,
sez. un., 01.07.2009 n. 15388; Cass., sez. unite,
20.11.2007, n. 24009): giurisdizione, che non viene meno
neppure in ipotesi di successivo atto di transazione,
emendativo della convenzione originaria, intercorso tra il
comune e la parte privata, stante la stretta correlazione
reciproca, oggettiva e soggettiva (Cass., sez. unite,
17.04.2009 n. 9151; Cass., sez. unite, 20.11.2007 n. 24009).
Né tale conclusione può essere revocata in dubbio sulla base
dell'eccepita prescrizione delle obbligazioni scaturenti
dalla convenzione: questione, in limine inammissibile per
novità, in quanto sollevata solo nelle memorie di replica ex
art. 378 cod. cod. proc. civile, dopo che la sentenza del
Consiglio di Stato impugnata non ne aveva fatto cenno: senza
che l'eventuale omissione fosse censurata nei ricorsi, con
la precisa indicazione degli atti del giudizio di merito in
cui l'eccezione estintiva fosse stata invece sollevata, in
termini, in base al principio di autosufficienza (art. 366,
primo comma, n. 6 cod. proc. civ.).
Al riguardo, oggetto diverso concerne, infatti, la questione
della perdurante, o no, validità o efficacia delle
obbligazioni assunte con la convenzione, di cui è cenno in
motivazione, laddove se ne afferma, correttamente,
l'estraneità al thema decidendum della nullità
dell'accordo modificativo, denominato atto di transazione
(cfr. sent., pagg. 9 e 10).
E' appena il caso di aggiungere che, in ogni caso, tale
profilo riguarderebbe il merito della controversia; senza
influire, perciò, sul riparto di giurisdizione
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 05.10.2016 n. 19914). |
APPALTI:
Il Tar Lazio rimette alla Corte di giustizia la questione
della compatibilità europea della disciplina nazionale in
tema di onerosità del soccorso istruttorio.
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Appalti pubblici – Soccorso istruttorio – Onerosità –
Compatibilità comunitaria – Rinvio pregiudiziale.
Vanno rimesse alla Corte di giustizia
dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali di
interpretazione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs.
12.04.2006, n. 163 in rapporto alla disciplina prevista
dagli artt. 45 e 51 della Direttiva 2004/18/CE ed ai
principi di massima concorrenza, proporzionalità, parità di
trattamento e non discriminazione in materia di procedure
per l’affidamento di lavori, servizi e forniture:
- se, pur essendo facoltà degli Stati membri imporre il carattere
oneroso del soccorso istruttorio con efficacia sanante, sia,
o meno, contrastante con il diritto comunitario l’art. 38,
comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, nel testo vigente alla
data del bando di cui trattasi laddove è previsto il
pagamento di una “sanzione pecuniaria”, nella misura che
deve essere fissata dalla stazione appaltante (“non
inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per
cento del valore della gara e comunque non superiore a
50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione
provvisoria”), sotto il profilo dell’importo eccessivamente
elevato e del carattere predeterminato della sanzione
stessa, non graduabile in rapporto alla situazione concreta
da disciplinare, ovvero alla gravità dell’irregolarità
sanabile;
- se, al contrario, il medesimo art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163
del 2006 (sempre nel testo vigente alla data sopra indicata)
sia contrastante con il diritto comunitario, in quanto la
stessa onerosità del soccorso istruttorio può ritenersi in
contrasto con i principi di massima apertura del mercato
alla concorrenza, cui corrisponde il predetto istituto, con
conseguente riconducibilità dell’attività, al riguardo
imposta alla Commissione aggiudicatrice, ai doveri imposti
alla medesima dalla legge, nell’interesse pubblico al
perseguimento della finalità sopra indicata) (1).
---------------
(1)
I. - Con una lunga ed articolata ordinanza, la terza sezione del
Tar Lazio affida alla CGE alcuni dubbi di compatibilità
comunitaria del noto art. 38 del previgente codice dei
contratti pubblici, in particolare sotto il profilo
dell’onerosità del c.d. soccorso istruttorio di cui alla
disciplina introdotta ex novo nel 2014 dal d.l. n.
90.
II. - Il linea generale il Tar sottolinea come la norma di cui
all’art. 38, comma 2-bis –in base alla quale la
regolarizzazione, ottenuta a seguito di soccorso
istruttorio, implica necessariamente una comminatoria di
sanzione, “in misura non inferiore all'uno per mille e
non superiore all'uno per cento del valore della gara e
comunque non superiore a 50.000 euro” (il cui preciso
importo deve essere previamente fissato dalle stazioni
appaltanti)– susciti dubbi di compatibilità con i principi
europei di proporzionalità, tassatività delle cause di
esclusione, trasparenza delle procedure, massima
partecipazione e massima concorrenza.
Incidentalmente va evidenziato come l’ordinanza limiti
espressamente i propri dubbi alla disciplina originaria del
2014, rilevando come l’istituto in contestazione abbia
subito un adeguato ridimensionamento con la normativa di cui
al nuovo codice dei contratti pubblici (sul punto art. 83,
comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016).
Sempre in sede ricostruttiva generale, l’ordinanza riassume
i principi di cui alla legislazione europea utilizzati quali
parametri di riferimento nonché i punti principali della
norma censurata. In tale ottica ricostruttiva, ad essere
sottoposta alla CGE è la peculiarità della disposizione
laddove la stessa ha inteso introdurre, secondo una modalità
costante e automatica, una “sanzione pecuniaria”
(come espressamente la definisce il comma 2-bis dell’art. 38
del Codice del 2006, così come peraltro oggi fa l’art. 83,
comma 9, del nuovo Codice) che l’impresa concorrente è
tenuta a versare all’amministrazione aggiudicatrice o
all’ente aggiudicatore, per il solo “fatto” di avere
omesso la produzione di una o più dichiarazioni, complete
degli elementi contenutistici (e degli allegati
eventualmente richiesti) necessari ad attestare il possesso
di un requisito sostanziale.
In dettaglio, il primo profilo oggetto di rimessione
concerne l’entità e la modalità di quantificazione della
sanzione pecuniaria in sé considerata (e, dunque, a
prescindere dall’essere essa correlata oppure no alla scelta
dell’impresa di sanare l’irregolarità, producendo la
documentazione mancante), dinanzi alle quali si pone il
serio dubbio della compatibilità della norma italiana con il
principio di proporzionalità nell’ambito degli affidamenti
pubblici. Nella specie la sanzione ammontava a 35mila euro.
Analogamente, in tale prospettazione si inserisce anche la
contestazione della possibilità, insita nella norma, di
applicare la medesima sanzione sia in ipotesi di grave
difformità rispetto alle prescrizioni del bando, sia in caso
di inadempienze dichiarative di limitata entità benché
essenziali (può anche trattarsi, in concreto, della mancata
sottoscrizione o produzione di una singola dichiarazione,
prescritta in via imperativa dalla legge di gara), con
conseguente possibile contrasto –oltre che con la
proporzionalità- con il principio di parità di trattamento.
In secondo luogo, la norma viene censurata anche sotto il
profilo del possibile contrasto con il principio
fondamentale della massima concorrenza nell’ambito
dell’Unione Europea il quale postula la necessità che sia
perseguita al massimo grado la partecipazione dei potenziali
pretendenti all’affidamento di un contratto pubblico,
imponendo a ciascuno Stato membro di rimuovere (non certo di
introdurre) ostacoli potenziali ed effettivi alla libertà di
concorrenza, anche e soprattutto nel primario settore degli
affidamenti pubblici di lavori, servizi e forniture.
In tale ottica la norma in esame, secondo l’ordinanza, può
provocare un’ingiustificata sperequazione delle imprese in
relazione ad un (implicito) presupposto di fatto -la
disponibilità delle risorse economiche necessarie al
pagamento della sanzione- che è del tutto estraneo e non
incide affatto sulla moralità, professionalità e
affidabilità delle imprese.
Si viene a creare una sorta di “pre-requisito” tale
da danneggiare gravemente le imprese che partecipano ad un
grande numero di procedure ad evidenza pubblica senza
risultare aggiudicatarie di nessuna di esse, le quali
possono essere disincentivate dal partecipare a gare future
(con grave pregiudizio del valore della concorrenza).
III. - Per completezza, si segnala sul soccorso istruttorio:
a) in relazione al testo dell’art. 46 del vecchio
codice dei contratti pubblici novellato dal d.l. n. 70 del
2011, Cons. St., A.P., 25.02.2014, n. 9, in Foro it., 2014,
III, 429, con note di TRAVI e SIGISMONDI; A.P., 20.03.2015,
n. 3, id., 2016, III, 114, con nota di TRAVI; A.P.,
02.11.2015, n. 9, ibidem, III, 66, con nota di CONDORELLI;
Ad. plen., 27.07.2016, nn. 19 e 20, riportate nella News US
in data 01.08.2016;
b) in relazione al testo dell’art. 46 cit. dopo
la novella recata dal d.l. n. 90 del 2014 che ha introdotto
il c.d. “soccorso istruttorio a pagamento”, Cons.
St., sez. V, 22.08.2016, n. 3667, a mente della quale la
sanzione di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma
1-ter, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, si applica nel caso in cui
il concorrente ha presentato una offerta mancante di una
dichiarazione e di un documento prescritto mentre è
irrilevante se decide di avvalersi del soccorso istruttorio
o meno; Cons. St., sez. V, 31.08.2016, n. 3753, secondo cui
ai sensi dell'art. 48, comma 2, d.lgs. 12.04.2006, n. 163
nelle gare pubbliche l'aggiudicatario e il secondo
classificato devono presentare la documentazione comprovante
il possesso dei requisiti tecnico-organizzativi ed
economico-finanziari entro il termine di dieci giorni dalla
data della richiesta e tale termine ha natura perentoria; le
conseguenze immediatamente escludenti, che conseguono alla
sua violazione, non consentono di accordare al concorrente,
che tale violazione abbia commesso, il beneficio dell'errore
scusabile, ovvero la sostanziale rimessione in termini
connessa all'applicazione del c.d. 'soccorso istruttorio
a pagamento' di cui al richiamato art. 38, comma 2-bis,
atteso che, ove si consentisse all'impresa concorrente di
accedere a quest'ultimo beneficio, si determinerebbe
un'evidente violazione del principio della par condicio
concorrenziale, ammettendo che un concorrente (il quale
avrebbe dovuto comprovare il possesso dei requisiti di
ordine oggettivo sin dalla partecipazione alla gara) non
solo possa sottrarsi a tale obbligo senza conseguenze di
sorta, ma che vi si possa sottrarre anche successivamente,
cioè nel momento in cui viene richiesto di procedere alla
comprova ai sensi del comma 2 dell’art. 48;
c) nella giurisprudenza di primo grado, in ordine
all’esegesi del nuovo “soccorso istruttorio a pagamento”
cfr., in senso espansivo, Tar Milano, sez. IV, 13.06.2016,
n. 1180, senso restrittivo, Tar Lazio, sez. II, 06.06.2016,
n. 6488 (TAR
Lazio-Roma, Sez. III,
ordinanza 03.10.2016 n. 10012
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Processo
amministrativo - Rito appalti - Nuovo rito ex comma 6-bis
dell'art. 120 c.p.a. - Applicazione temporale - Art. 216 del
nuovo Codice dei contratti pubblici - Applicabilità.
Il rito appalti disciplinato dal comma
6-bis dell’art. 120 c.p.a., aggiunto dall’art. 204 del nuovo
Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18.04.2016, n. 50),
per l’impugnazione dei provvedimenti individuati dal
precedente comma 2-bis, si applica, ai sensi dell’art. 216
dello stesso Codice dei contratti pubblici, che non contiene
alcuna eccezione riferibile all’art. 204, solo alle
"procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con
cui si indice la procedura di scelta del contraente siano
pubblicati successivamente alla data della sua entrata in
vigore".
---------------
●
Premesso che:
- la società ricorrente ha impugnato il verbale recante
l’ammissione della Cooperativa Sociale Insieme alla gara
indetta dal Comune di Altopascio per l'affidamento del
servizio di gestione del “Centro Diurno Anziani comunale
L'Aquilone" deducendo l’insussistenza in capo alla
medesima dei requisiti tecnici necessari per la
partecipazione;
- a tal fine la ricorrente ha attivato il rito speciale
disciplinato dall’art. 120, co. 2-bis, c.p.a., introdotto
dall’art. 204 del d.lgs. n. 50/2016 secondo cui “il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della
valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e
tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta
giorni decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del
committente della stazione appaltante…”;
- nell’odierna camera di consiglio, in assenza di eccezioni della
controinteressata, il Collegio ha prospettato alle parti la
questione dell’inammissibilità del gravame per carenza di
interesse in relazione alla possibile non immediata
applicabilità della disposizione sopra richiamata;
- infatti, secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza il
concorrente, mentre ha interesse a dolersi della propria
esclusione dalla gara ovvero di clausole impeditive della
partecipazione, non è titolare di un’analoga posizione nel
caso intenda contestare l’ammissione di altro partecipante
dal momento che tale atto, di natura endoprocedimentale, non
possiede un’autonoma lesività (TAR Sicilia, Palermo, sez.
III 04.01.2016 n. 10; Cons. Stato, sez. VI, 11.03.2015 n.
1261; TAR Toscana, sez. I, 27.10.2011, n. 1596);
considerato che:
- la questione dell’immediata applicabilità dell’art. 120, co.
2-bis, c.p.a. va riguardata alla luce di quanto stabilito
dall’art. 216, co. 1, del d.lgs. n. 50/2016 (disposizioni
transitorie e di coordinamento) il quale dispone che “Fatto
salvo quanto previsto nel presente articolo ovvero nelle
singole disposizioni di cui al presente codice, lo stesso si
applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o
avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano pubblicati successivamente alla data della
sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza
pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai
contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in
vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati
gli inviti a presentare le offerte”.
- il Collegio non ignora la recente pronuncia di altro TAR secondo
cui non è controvertibile, che la norma in questione trovi
applicazione al giudizio pendente, trattandosi di
disposizione processuale immediatamente operante entrata in
vigore anteriormente alla proposizione del ricorso (TAR
Calabria, Reggio Calabria, 23.07.2016, n. 829), ma ritiene
tali conclusioni non persuasive;
●
osservato che:
- in senso negativo all’immediata applicabilità del nuovo rito
definito come “processo anticipato e in prevenzione”,
nonostante la natura processuale della norma, ostano
argomentazioni di natura letterale e sistematica;
- quanto alle prime, la mera lettura dell’art. 216 del Codice dei
contratti pubblici che non contiene alcuna eccezione
riferibile all’art. 204, induce a ritenere che non vi siano
deroghe al criterio generale che stabilisce l’entrata in
vigore del nuovo rito rendendolo applicabile solo alle “procedure
e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si
indice la procedura di scelta del contraente siano
pubblicati successivamente alla data della sua entrata in
vigore”;
- quanto alle seconde, pare evidente, dal testuale riferimento
contenuto ad altre disposizioni del Codice, segnatamente
l’art. 29, co. 1, l’impossibilità di dare immediata
applicazione al nuovo rito in prevenzione;
- la norma da ultimo citata stabilisce, infatti, che “al fine di
consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi
dell’articolo 120 del codice del processo amministrativo,
sono altresì pubblicati, [sul profilo del committente, nella
sezione Amministrazione trasparente], nei successivi due
giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni all'esito delle valutazioni dei
requisiti soggettivi, economico-finanziari e
tecnico-professionali..”, ed è da tale pubblicazione che
decorre il termine per l’impugnazione dei provvedimenti di
esclusione e ammissione 8non a caso contestato dalla
controinteressata);
- d’altro canto, in condivisione con la quasi totalità della
dottrina, il nuovo e speciale sottosistema processuale, “qualificabile
come anticipato, preliminare, immediato, autonomo,
decadenziale, finalizzato comunque alla rapida costituzione
di certezze giuridiche poi incontestabili sui protagonisti
della gara” è certamente legato al riassetto complessivo
del sistema della contrattualistica pubblica i cui profili
sostanziali sono indefettibilmente legati a quelli
processuali contestualmente introdotti;
●
ritenuto, pertanto, stante l’inapplicabilità del rito
disciplinato dall’art. 120, co, 2-bis, che il ricorso deve
essere dichiarato inammissibile per carenza di immediata
lesività dell’atto impugnato e che le spese del giudizio
possono essere compensate in ragione della novità delle
questioni trattate
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 03.10.2016 n. 1415 - massima tratta da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva
qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere
l'assetto del territorio preesistente ed a realizzare un
nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia
un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione
del territorio (che viene posta di fronte al fatto
compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
Invero, qualunque intervento o costruzione non autorizzati,
pur se realizzati in tempi diversi, che siano idonei a
stravolgere l'assetto del territorio, rendendone
impraticabile la programmazione, integra gli estremi della
lottizzazione abusiva, sicché anche la sola realizzazione di
una strada, comportando un mutamento del precedente assetto
del territorio, costituisce opera di trasformazione
urbanistica che necessita di un titolo abilitativo, tanto
più qualora essa sia destinata a permettere il transito da e
verso singoli lotti.
La lottizzazione abusiva è, dunque, un fenomeno unitario che
trascende la consistenza delle singole opere di cui si
compone e talora ne prescinde, come nel caso del mutamento
di destinazione d’uso di complessi edilizi regolarmente
assentiti, e assume rilevanza giuridica per l’impatto che
determina sul territorio interferendo con l’attività di
pianificazione, conservazione dei valori paesistici e
ambientali, dotazione e dimensionamento degli standard, di
guisa che la diversa conformazione materiale che deriva
dall’attività di lottizzazione, se non rimossa, da un lato
impedisce la realizzazione del diverso progetto urbanistico
stabilito dagli organi preposti al governo del territorio,
dall’altro impone l’adeguamento delle infrastrutture
esistenti o la realizzazione di nuove per far fronte al
carico urbanistico derivante dalla lottizzazione.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della
trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle
previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui
si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n.
380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia
che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa
conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le
singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato
rilasciato il permesso di costruire.
---------------
2.- Così delineate le circostanze di fatto oggetto di
controversia, occorre premettere, in merito alla contestata
qualifica di lottizzazione abusiva attribuita
all’insediamento edilizio realizzato sui terreni
identificati nel provvedimento gravato, che secondo l'art.
30 del d.P.R. n. 380 del 2001, la lottizzazione abusiva
materiale –a tale fattispecie i ricorrenti riconducono
l’abuso loro contestato- implica la realizzazione di opere
che comportano la trasformazione urbanistica e edilizia dei
terreni, sia in violazione delle prescrizioni di legge o
degli strumenti urbanistici, sia in assenza della prescritta
autorizzazione.
2.1.- La formulazione dell'art. 30 del d.P.R. n. 380 del
2001 consente di affermare che può integrare un'ipotesi di
lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opera in concreto
idonea a stravolgere l'assetto del territorio preesistente
ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto,
a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività
di programmazione del territorio (che viene posta di fronte
al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico
urbanistico.
2.2.- E’ stato infatti ritenuto che qualunque intervento o
costruzione non autorizzati, pur se realizzati in tempi
diversi, che siano idonei a stravolgere l'assetto del
territorio, rendendone impraticabile la programmazione,
integra gli estremi della lottizzazione abusiva, sicché
anche la sola realizzazione di una strada, comportando un
mutamento del precedente assetto del territorio, costituisce
opera di trasformazione urbanistica che necessita di un
titolo abilitativo, tanto più qualora essa sia destinata a
permettere il transito da e verso singoli lotti (Consiglio
Stato sez. IV 08.05.2003 n. 2445; Consiglio Stato, sez. IV,
01.06.2010, n. 3475; Consiglio Stato, sez. IV, 24.12.2008, n. 6560).
2.3.- La lottizzazione abusiva è dunque un fenomeno unitario
che trascende la consistenza delle singole opere di cui si
compone e talora ne prescinde, come nel caso del mutamento
di destinazione d’uso di complessi edilizi regolarmente
assentiti, e assume rilevanza giuridica per l’impatto che
determina sul territorio interferendo con l’attività di
pianificazione, conservazione dei valori paesistici e
ambientali, dotazione e dimensionamento degli standard, di
guisa che la diversa conformazione materiale che deriva
dall’attività di lottizzazione, se non rimossa, da un lato
impedisce la realizzazione del diverso progetto urbanistico
stabilito dagli organi preposti al governo del territorio,
dall’altro impone l’adeguamento delle infrastrutture
esistenti o la realizzazione di nuove per far fronte al
carico urbanistico derivante dalla lottizzazione.
“Ne consegue che la verifica circa la conformità della
trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle
previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui
si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n.
380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia
che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa
conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le
singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato
rilasciato il permesso di costruire" (Consiglio di Stato (IV,
3381/2012)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 03.10.2016 n. 1168 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’accesso ai documenti amministrativi richiede ai
fini dell’accoglimento della relativa domanda la sussistenza
di un “interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso”
(così l'art. 22 della legge n. 241/1990).
In altri termini, il giudizio sul diritto di accesso non
esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione
pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve
correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un
interesse conoscitivo.
Al riguardo, essere titolare di una situazione
giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché
l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto,
concreto e attuale", essendo anche necessario che la
documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il
soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti della P.A..
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere
esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una
lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo
invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio
e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e
a partecipare alla formazione di quelli successivi.
Inoltre, ai sensi dell'art. 24, comma 3, della legge n. 241
del 1990: "Non sono ammissibili istanze di accesso
preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle
pubbliche amministrazioni".
Anche nel caso di accesso procedimentale ai sensi dell’art.
10 della citata legge (a mente del quale i soggetti
destinatari dell’avviso di avvio del procedimento hanno
diritto a prendere visione degli atti del procedimento,
salvo quanto previsto dall’art. 24 cit.) deve sussistere un
necessario collegamento tra i documenti richiesti e il
procedimento avviato.
---------------
Come affermato dalla giurisprudenza l’accertamento del
diritto di accesso ai sensi dell’art. 22 (o dell’art. 10)
della legge n. 241/1990 ossia del “diritto degli interessati
di prendere visione ed estrarre copia dei documenti
amministrativi” è cosa diversa dal diritto della generalità
dei cittadini alla più ampia accessibilità alle informazioni
concernenti l’organizzazione e l’attività della pubblica
amministrazione che si realizza tramite la pubblicazione
obbligatoria di una serie di documenti e che è disciplinata
dal d.lgs. n. 33/2013.
I due istituti (accesso ai sensi della legge n. 241/1990 e
accesso civico ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013)
operano, pertanto, su piani distinti avendo diversi
presupposti e disciplina.
Nella fattispecie, parte ricorrente ha deciso con la propria
domanda di avvalersi dell’accesso “tradizionale” e non
dell’accesso civico e non può in questa sede invocare le
disposizioni in materia di obblighi di pubblicazione.
---------------
La ricorrente (Te. coop. soc. in proprio e quale mandataria
dell’ATI con la AI. coop. soc.) ha impugnato i provvedimenti
con i quali il Comune di San Giorgio a Cremano ha negato
l’accesso agli atti richiesti con le note del 18 marzo, 25
marzo e 01.04.2016.
Premette la ATI ricorrente di essere affidataria della
gestione di alcuni servizi sociali nel territorio del Comune
di San Giorgio a Cremano e di essere subentrata nella
gestione dei servizi in questione (e non anche nel
contratto) alla ATI formata dal Consorzio Ge. e coop. Mi. a
seguito della revoca a quest’ultima ATI dell’aggiudicazione
definitiva dell’appalto per irregolarità contributive emerse
prima della sottoscrizione del contratto; e che:
- con nota del 07.03.2016 il Comune avviava nei suoi
confronti il procedimento di risoluzione del contratto
stipulato per presunte irregolarità nella modalità di
fatturazione dei servizi (in particolare, sarebbero state
fatturate delle ore non effettivamente prestate);
- in sede di partecipazione al procedimento spiegava che le
ore in più corrispondevano al computo di quelle effettuate
dal personale amministrativo (sempre nell’ambito dei servizi
assistenziali) e di quelle inerenti ad altri servizi
connessi (quali i trasporti);
- il Comune riteneva le osservazioni non condivisibili
affermando che le modalità di fatturazione in questione si
ponevano in contrasto con quanto prescritto nel contratto e
nel relativo capitolato speciale;
- con istanza di accesso del 16.03.2016 chiedeva una serie
di atti tra i quali i documenti amministrativi e contabili
relativi alla precedente gestione del servizio;
- tale domanda veniva respinta in data 18.03.2016 dal Comune
il quale rilevava il mancato rispetto delle procedure
stabilite dal regolamento comunale in materia di accesso ed,
in particolare, l’omessa sottoscrizione dell’istanza da
parte del rappresentante legale dell’ente;
- in data 22.03.2016 veniva reiterata la domanda di accesso
a firma di Ro.Ce.;
- il Comune, con nota del 25.03.2016, nel negare l’accesso
per l’insufficiente enucleazione dell’interesse
all’ostensione degli atti e per la genericità della
richiesta comportante un’onerosa attività di reperimento ed
elaborazione dati, rilevava che la domanda era stata
sottoscritta da un soggetto diverso dall’attuale
rappresentante legale dell’ATI Teseo/AIDO;
- in data 01.04.2016, preso atto dell’errore nella
sottoscrizione della domanda di accesso, la stessa veniva
reiterata e firmata dall’attuale rappresentate legale
dell’ATI;
- in riscontro il Comune con nota del 04.04.2016 rilevava
ancora una volta il mancato rispetto delle disposizioni in
materia di accesso dettate dalla normativa statale e
comunale (indicazione della qualità del richiedente,
trasmissione del documento di identità, enucleazione
dell’interesse a ottenere copia degli atti e loro puntuale
specificazione) e, dunque, non consentiva la presa visione
degli atti.
Ritenendo illegittimo il diniego di accesso opposto dal
Comune la ricorrente ha intrapreso il presente giudizio
volto all’accertamento del proprio diritto a ottenere copia
dei documenti richiesti.
Si è costituito per resistere il Comune di San Giorgio a
Cremano.
Alla camera di consiglio del 14.09.2016 la causa è stata
trattenuta in decisione.
Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
Con l’istanza di accesso del 01.04.2016 (che sostituisce per
stessa dichiarazione dell’istante quelle precedentemente
inviate non correttamente sottoscritte) la ricorrente ha
chiesto al Comune di San Giorgio a Cremano di poter estrarre
“copia di tutti i documenti contabili ed amministrativi
relativi alla gestione del servizio in oggetto negli anni
passati e cioè dei documenti contabili ed amministrativi
riferiti alla precedente gestione del Consorzio Ge. nonché a
quella del Consorzio Ic.. In particolare…di tutte le fatture
presentate dai suddetti operatori economici, nonché dei
rendiconti del monte orario rispettato nonché delle delibere
ed impegni di spesa così come relativi alla remunerazione
dei servizi de quibus, ai bilanci dell’Ente nonché di ogni
altro documento amministrativo e contabile dal quale possa
evincersi la modalità di fatturazione dei servizi effettuati
ovvero il monte orario osservato in ordine agli specifici
servizi”.
La richiesta è stata strutturata come “accesso
procedimentale” ai sensi dell’art. 10 della legge n. 241
del 1990, dunque relazionata all’avvio da parte del Comune,
in data 07.03.2016, del procedimento di risoluzione del
contrato stipulato per la gestione di “servizi plurimi
alla persona” per un “surplus di ore fatturate
rispetto a quelle effettivamente rese e rendicontate”
(cfr. comunicazione esito controllo – rendicontazione anno
2015 del 15.02.2016) in contrasto con quanto stabilito nel
contratto e nel relativo capitolato speciale di appalto.
Ritenendo che i precedenti gestori del servizio (Consorzio
Ge. o più precisamente la relativa ATI e Consorzio Ic.)
adottassero identiche modalità di fatturazione delle
prestazioni rese l’istante ha chiesto, come visto, di
prendere visione oltre che dei bilanci e degli impegni di
spesa dell’ente anche di tutti i documenti contabili e
amministrativi relativi alla gestione del servizio negli
anni precedenti ivi incluse tutte le fatture e i rendiconti
presentati al Comune dai suddetti soggetti.
Il Comune a prescindere dalle presunte irregolarità formali
della domanda di accesso ha ritenuto non sufficientemente
enucleato da parte dell’istante l’interesse a conoscere la
documentazione in questione.
Il Collegio ritiene che la posizione del Comune sia
condivisibile.
L’accesso ai documenti amministrativi richiede ai fini
dell’accoglimento della relativa domanda la sussistenza di
un “interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso”
(così l'art. 22 della legge n. 241/1990).
In altri termini, il giudizio sul diritto di accesso non
esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione
pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve
correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un
interesse conoscitivo (cfr. da ultimo Cons. St. Ad. Plen.
7/2012).
Al riguardo, essere titolare di una situazione
giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché
l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto,
concreto e attuale", essendo anche necessario che la
documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il
soddisfacimento. L'ordinamento prevede, infatti, che
l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un
interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di
un collegamento specifico e concreto con un interesse
rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato
per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti della P.A..
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere
esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una
lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo
invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio
e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e
a partecipare alla formazione di quelli successivi (cfr. TAR
Roma-Lazio, sez. II, 01.12.2011, n. 9461).
Inoltre, ai sensi dell'art. 24, comma 3, della legge n. 241
del 1990: "Non sono ammissibili istanze di accesso
preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle
pubbliche amministrazioni".
Anche nel caso di accesso procedimentale ai sensi dell’art.
10 della citata legge (a mente del quale i soggetti
destinatari dell’avviso di avvio del procedimento hanno
diritto a prendere visione degli atti del procedimento,
salvo quanto previsto dall’art. 24 cit.) deve sussistere un
necessario collegamento tra i documenti richiesti e il
procedimento avviato.
Nella fattispecie, tale collegamento, per la prospettazione
recata nella domanda di accesso, non è ravvisabile.
L’ATI ricorrente gestisce il servizio in questione in virtù
di un contratto stipulato in data 14.03.2014. Non risulta
dall’istanza di accesso che i precedenti gestori del
servizio (ATI Ge.–Mi. e Consorzio Ic.) operassero alle
medesime condizioni contrattuali essendo pacificamente
differente la fonte che ne regolava il rapporto (cfr. sul
punto la difesa comunale). La stessa ricorrente afferma
nell’istanza di essere subentrata nella gestione del
servizio (a seguito della revoca dell’affidamento definitivo
dell’appalto all’ATI Ge.-Mi.) ma non nel contratto.
Non si comprende dall’istanza e in assenza di specificazioni
sul punto, come le fatture, i rendiconti ed in generale la
documentazione contabile dei precedenti gestori del servizio
possano ricollegarsi alla posizione sostanziale dell’ATI
ricorrente alla quale sono state contestate delle
sovrafatturazioni in relazione al contratto da essa
sottoscritto.
In applicazione delle richiamate coordinate, normative e
giurisprudenziali, deve ritenersi che l’istanza per come
formulata, evidenzia una finalità sostanzialmente
esplorativa diretta a un controllo generalizzato
dell’operato dell’amministrazione nel settore in questione.
La ricorrente, infatti, non ha fatto emergere con
sufficiente chiarezza quale sia l’interesse conoscitivo che
si pone in rapporto di collegamento qualificato con la
posizione azionata di soggetto al quale è stato contestato
un inadempimento contrattuale.
Altrettanto immotivata è la richiesta di ottenere copia
delle delibere ed impegni di spesa e dei “bilanci
dell’ente”. Risulta al riguardo inconferente la censura
di violazione degli obblighi di pubblicazione stabiliti dal
decreto legislativo n. 33/2013 in quanto la domanda di
accesso di cui è causa è stata formulata ai sensi della
legge n. 241 del 1990.
Come affermato dalla giurisprudenza l’accertamento del
diritto di accesso ai sensi dell’art. 22 (o dell’art. 10)
della legge n. 241/1990 ossia del “diritto degli
interessati di prendere visione ed estrarre copia dei
documenti amministrativi” è cosa diversa dal diritto
della generalità dei cittadini alla più ampia accessibilità
alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività
della pubblica amministrazione che si realizza tramite la
pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti e che è
disciplinata dal d.lgs. n. 33/2013 (cfr. C.d.S. n.
5515/2013).
I due istituti (accesso ai sensi della legge n. 241/1990 e
accesso civico ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013)
operano, pertanto, su piani distinti avendo diversi
presupposti e disciplina. Nella fattispecie, parte
ricorrente ha deciso con la propria domanda di avvalersi
dell’accesso “tradizionale” e non dell’accesso civico
e non può in questa sede invocare le disposizioni in materia
di obblighi di pubblicazione.
In conclusione, in assenza di ulteriori specificazioni,
risulta abnorme e sproporzionata la richiesta di tutti i
documenti contabili e le fatture dei precedenti gestori del
servizio.
Come evidenziato dalla giurisprudenza l'interesse
dell'istante alla conoscenza dei documenti amministrativi
deve essere necessariamente comparato con altri interessi
rilevanti, fra cui quello dell’amministrazione a non subire
eccessivi intralci nella propria attività gestoria,
garantita anche a livello costituzionale; sì che, anche per
tale aspetto, il fine di generale verifica dell'attività
amministrativa resta estraneo alla finalità per la quale
risulta legislativamente previsto lo specifico strumento
dell'accesso (Consiglio Stato, sez. IV, 26.11.2009, n.
7431).
Da quanto precede deriva che il ricorso deve essere respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 30.09.2016 n. 4508 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Giova
ricordare che l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n.
241 del 1990 richiede la titolarità di “un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo
stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono
accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24 c.
1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7, precisa
che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso
ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
Alla luce di tale contesto normativo, è stato osservato che
“il diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente
strumentale alla difesa in giudizio della situazione
sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di
un autonomo bene della vita così che la domanda giudiziale
tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non
solo dalla sorte del processo principale nel quale venga
fatta valere l’anzidetta situazione ma anche dall’eventuale
infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che
il richiedente potrebbe proporre una volta conosciuti gli
atti”.
A quanto sopra consegue che l’interesse all’accesso ai
documenti deve essere valutato in astratto, senza che possa
essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun
apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità
della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe
eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti
mediante l’accesso medesimo e, quindi, la legittimazione
all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di
una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante.
Va, ancora ricordato che l’art. 22, co. 2, della legge n.
241 del 1990, (come novellato dalla lettera a) del comma 1
dell’art. 10 della legge 18.06.2009, n. 69) conferisce al
“diritto” di accesso, attese le sue rilevanti finalità di
pubblico interesse, valore di “principio generale
dell’attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la
trasparenza”.
Come già osservato in ambito giurisprudenziale, il diritto
di accesso vale, dunque, sì a tutelare interessi individuali
di ampiezza tale da riscontrare solo il limite della
giuridicità ma –nel contempo– è collegato ad una riforma di
fondo dell’Amministrazione, ispirata a principi di
democrazia partecipativa, della pubblicità e della
trasparenza dell’azione amministrativa, la quale costituisce
“principio generale” inserito a livello comunitario nel più
generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto
all’organizzazione e alla attività soggettivamente
amministrativa, quale strumento di prevenzione e contrasto
sociale ad abusi ed illegalità, principio questo che trova
oggi un’ampia conferma nelle recenti modifiche che hanno
riguardato la trasparenza amministrativa e il diritto dei
cittadini a conoscere di cui all’art. 7 della legge n.
124/2015 e all’art. 5 del d.lgs. 97/2016.
Il Collegio ha ben presente anche che la disposizione di cui
all’art. 22, comma 2, della legge n. 241 del 1990, pur
riconoscendo il diritto di accesso a “chiunque vi abbia
interesse”, non ha tuttavia introdotto alcun tipo di azione
popolare diretta a consentire un qualche controllo
generalizzato sulla Amministrazione, tant’è che ha
contestualmente definito siffatto interesse come finalizzato
alla “tutela” di “situazioni giuridicamente rilevanti”.
In altre parole, è da ritenere oramai indiscusso che, ai
fini dell’accesso agli atti, il soggetto richiedente deve
poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non
emulativo, rivesta carattere “personale e concreto”, ossia
“ricollegabile alla persona dell’istante da uno specifico
rapporto. In sostanza, occorre che il richiedente intenda
poter supportare una situazione di cui è titolare, che
l’ordinamento stima di sua meritevole tutela”, con la
conseguenza che “non è sufficiente addurre il generico e
indistinto interesse di qualsiasi cittadino alla legalità o
al buon andamento dell’attività amministrativa”, bensì è
necessario che il richiedente dimostri che, in virtù del
proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o
documenti amministrativi, verrà inequivocabilmente a
trovarsi “titolare” di “poteri di natura procedimentale,
volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi
giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque
a intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che
travalichino la dimensione processuale di diritti soggettivi
o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde
dal preventivo esercizio del diritto di accesso, così come
l’esercizio del secondo prescinde dalla prima”.
---------------
Ciò posto, va innanzitutto premesso, quanto alla verifica
della sussistenza dei presupposti per l’accesso, che deve in
linea generale riconoscersi in capo al ricorrente, quale
soggetto abitante in prossimità della sede in cui si
svolgono le attività in contestazione (al civico 60, mentre
le attività sono svolte ai civici 64/a e 64/D), la
sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale ad
accedere agli atti richiesti e cioè, in particolare, alle
licenze rilasciate ai controinteressati al fine
dell’esercizio delle attività relative alla produzione,
imbottigliamento e vendita di vini, trattandosi di interesse
collegato ad una situazione giuridicamente tutelata in capo
al soggetto istante e connesso ai documenti richiesti.
Giova, infatti, ricordare che l’art. 22, comma 1, lett. b),
della legge n. 241 del 1990 richiede la titolarità di “un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo
stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono
accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24 c.
1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7,
precisa che “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”.
Alla luce di tale contesto normativo, è stato osservato che
“il diritto di accesso non costituisce una pretesa
meramente strumentale alla difesa in giudizio della
situazione sottostante, essendo in realtà diretto al
conseguimento di un autonomo bene della vita così che la
domanda giudiziale tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è
indipendente non solo dalla sorte del processo principale
nel quale venga fatta valere l’anzidetta situazione (Cons.
Stato, sez. VI del 12.04.2005 n. 1680) ma anche
dall’eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda
giudiziale che il richiedente potrebbe proporre una volta
conosciuti gli atti (Cons. Stato, sez. VI, 21.09.2006 n.
5569)” (in tal senso Consiglio di Stato, sez. V,
23.02.2010, n. 1067).
A quanto sopra consegue che l’interesse all’accesso ai
documenti deve essere valutato in astratto, senza che possa
essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun
apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità
della domanda giudiziale che il richiedente potrebbe
eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti
mediante l’accesso medesimo e, quindi, la legittimazione
all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di
una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante (ex
multis Consiglio Stato sez. V 10.01.2007, n. 55; TAR
Sicilia, Catania, sez. III, 13.05.2015, n. 1271; TAR Umbria,
30.01.2013, n. 56).
Va, ancora ricordato che l’art. 22, co. 2, della legge n.
241 del 1990, (come novellato dalla lettera a) del comma 1
dell’art. 10 della legge 18.06.2009, n. 69) conferisce al “diritto”
di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, valore di “principio generale dell’attività
amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”.
Come già osservato in ambito giurisprudenziale, il diritto
di accesso vale, dunque, sì a tutelare interessi individuali
di ampiezza tale da riscontrare solo il limite della
giuridicità ma –nel contempo– è collegato ad una riforma di
fondo dell’Amministrazione, ispirata a principi di
democrazia partecipativa, della pubblicità e della
trasparenza dell’azione amministrativa, la quale costituisce
“principio generale” inserito a livello comunitario
nel più generale diritto all’informazione dei cittadini
rispetto all’organizzazione e alla attività soggettivamente
amministrativa, quale strumento di prevenzione e contrasto
sociale ad abusi ed illegalità (TAR Lazio, sez. II-bis, n.
4909 dell’01/04/2015), principio questo che trova oggi
un’ampia conferma nelle recenti modifiche che hanno
riguardato la trasparenza amministrativa e il diritto dei
cittadini a conoscere di cui all’art. 7 della legge n.
124/2015 e all’art. 5 del d.lgs. 97/2016.
Il Collegio ha ben presente anche che la disposizione di cui
all’art. 22, comma 2, della legge n. 241 del 1990, pur
riconoscendo il diritto di accesso a “chiunque vi abbia
interesse”, non ha tuttavia introdotto alcun tipo di
azione popolare diretta a consentire un qualche controllo
generalizzato sulla Amministrazione, tant’è che ha
contestualmente definito siffatto interesse come finalizzato
alla “tutela” di “situazioni giuridicamente
rilevanti”. (cfr., ex multis, C.d.S., Ad.Pl.,
24.04.2012, n. 7; C.d.S., Sez. VI, 10.11.2015, n. 5111).
In altre parole, è da ritenere oramai indiscusso che, ai
fini dell’accesso agli atti, il soggetto richiedente deve
poter vantare un interesse che, oltre ad essere serio e non
emulativo, rivesta carattere “personale e concreto”,
ossia “ricollegabile alla persona dell’istante da uno
specifico rapporto. In sostanza, occorre che il richiedente
intenda poter supportare una situazione di cui è titolare,
che l’ordinamento stima di sua meritevole tutela”, con
la conseguenza che “non è sufficiente addurre il generico
e indistinto interesse di qualsiasi cittadino alla legalità
o al buon andamento dell’attività amministrativa” (cfr.
C.d.S., n. 5111 del 2015, già cit.), bensì è necessario che
il richiedente dimostri che, in virtù del proficuo esercizio
del diritto di accesso agli atti e/o documenti
amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi “titolare”
di “poteri di natura procedimentale, volti in senso
strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente
rilevanti, che vengano a collidere o comunque a intersecarsi
con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalichino la
dimensione processuale di diritti soggettivi o interessi
legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal
preventivo esercizio del diritto di accesso, così come
l’esercizio del secondo prescinde dalla prima” (cfr.,
ex multis, TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 3941/2016; in
conformità, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 28.01.2016, n.
521; TAR Lazio, Sez. II, 11.01.2016, n. 232; TAR Lazio, Sez.
II-bis, n. 4909/2015).
Ciò detto, la posizione del ricorrente che vive nelle
immediate vicinanze degli immobili nei quali si svolge
l’attività dei controinteressati, da cui originano i disagi
che sono stati rappresentati e che non sono stati
adeguatamente sconfessati né dagli stessi né dal Comune (il
quale peraltro produce in atti solo 3 autorizzazioni
rilasciate agli automezzi negli ultimi tre anni, pur a
fronte dello svolgimento in maniera continuativa
dell’attività delle ditte), consente di riscontrare in capo
allo stesso la titolarità di una posizione qualificata e
differenziata, idonea a comprovare la sussistenza
dell’interesse prescritto dall’art. 22 della legge n.
241/1990 e a supportare in modo adeguato la richiesta di
accesso.
L'interesse perseguito dal ricorrente, alla luce anche del
delineato quadro giurisprudenziale, appare certamente
meritevole di tutela, in quanto personale e concreto, non
emulativo né riconducibile a mera curiosità, ovvero, infine,
in contrasto con il diritto alla riservatezza dei terzi.
Né può ritenersi in particolare che l’istanza prodotta sia
preordinata a un controllo generalizzato dell’attività
dell’amministrazione comunale tenuto conto che il ricorrente
intende avere copia delle autorizzazione rilasciate nel 1980
e nel 2003 al fine di sapere che tipo di attività (e in
quali termini) ai controinteressati è consentito esercitare,
non venendo così in gioco alcuna ingerenza nell’attività
amministrativa.
Tra l’altro i documenti che il ricorrente vuole conoscere
sono stati perfettamente individuati dallo stesso e quelli
indicati al punto 3 dell’istanza di cui sopra non involgono
una attività provvedimentale per il Comune ma solo
eventualmente l’obbligo di esibire altre licenze o
autorizzazioni succedutesi nel tempo, sempre riguardanti
l’attività dei controinteressati e inerenti le
autorizzazioni indicate ai punti 1 e 2 dell’istanza
medesima, nel caso dovessero esistere e delle quali il
ricorrente non è in grado di conoscere numero e data di
rilascio. Trattasi, peraltro, di richiesta sufficientemente
circostanziata, tanto da non poter essere considerata
generica.
Alla luce delle svolte considerazioni, quindi il ricorso va
accolto e per l’effetto deve essere annullato il diniego
espresso del Comune e accertato il diritto del ricorrente ad
accedere ai documenti richiesti con l’istanza del 18.01.2016
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 30.09.2016 n. 4505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: La
variante al piano regolatore generale impositiva del vincolo
alla realizzazione dell'interporto, quale progetto
sostanziante un'iniziativa pubblica la cui realizzazione è
rimessa unicamente alla società ricorrente concessionaria,
non ha natura conformativa generale, bensì concreta un
vincolo particolare, incidente su beni determinati in
funzione della puntuale localizzazione dell'opera
Sicché si è in presenza di un vincolo sostanzialmente
preordinato all'espropriazione, dal quale deve prescindersi
(cfr. art. 5-bis cit., poi recepito dagli artt. 32 e 37
T.U.) ai fini della qualificazione dell'area ablata per gli
effetti indennitari ed il parametro legale di tale
qualificazione va conseguentemente individuato nello
strumento previgente (che qualificava l'area in questione
come agricola).
---------------
2. Con l'unico motivo di ricorso l'Interporto Regionale
della Puglia s.p.a. denuncia «violazione ed erronea
applicazione dell'art. 37 d.P.R. 08.06.2001, n. 327 e s.m.i.
Omessa applicazione dell'art. 16 legge 22.10.1971, n. 865.
Violazione dell'art. 360 n. 3 c.p.c.».
2.1. La società ricorrente esplicitamente limita (p. 5 del
ricorso) la censura «unicamente ai capi di sentenza
concernenti la determinazione dell'indennità di
espropriazione ed occupazione in relazione alla particella
649 e la determinazione dell'indennità di occupazione in
relazione alla particella 648 limitatamente alla porzione di
superficie di cui è stata (erroneamente) dichiarata la
natura edificatoria legale», aree —come più sopra
richiamato— destinate dal piano regolatore generale ad "attrezzature
tecnologiche".
2.2. Così delimitata la doglianza, in ordine ad essa la
Corte distrettuale —muovendo dalla natura non edificatoria
della parte dell'area di cui alla particella 648 destinata
ad "area di rispetto ai principali assi di comunicazioni
stradali e ferroviarie" e dall'accertata destinazione
dell'altra parte dell'area di cui alla predetta particella
648, nonché dell'intera area di cui alla particella 649, ad
"area d'uso delle attrezzature di servizio pubbliche e
private carattere regionale urbano: aree per le attrezzature
tecnologiche"— ha ritenuto, aderendo alle conclusioni
della consulenza tecnica di ufficio, la natura edificatoria
di dette aree, posto che «le norme tecniche d'attuazione
prescrivono che su di esse è ammessa la costruzione
d'impianti, relativi alloggi di custodia attinenti al
settore dei trasporti urbani, sia pubblici che privati,
compresi i nodi di scambio come autoporti etc., attinenti al
settore della produzione trasformazione di energia quali
centrali termiche etc., nonché il settore della
radiodiffusione, telefonico, della fognatura, del
trattamento dei rifiuti, dell'allontanamento e trattamento
dei liquami, etc. Per tali costruzioni va osservato un
rapporto di copertura non superiore al 40% dell'area e vanno
garantiti parcheggi e strade di servizio in misura non
inferiore al 30% dell'area» (p. 6 della sentenza).
Conseguentemente, la Corte di appello ha ragguagliato le
indennità di esproprio e di occupazione per dette aree al
valore di mercato.
2.3. Deduce, di contro, la ricorrente che, nella specie,
essendo stata modificata la destinazione urbanistica delle
aree in esame (da agricole ad aree per attrezzature
tecnologiche) in virtù di variante adottata con
l'approvazione del progetto generale e del primo stralcio
funzionale dell'interporto, recante dichiarazione di
pubblico interesse e pubblica utilità dell'intero
intervento, si sarebbe determinata l'imposizione di uno
specifico vincolo funzionale all'attuazione dell'interporto,
interamente affidata ad un unico soggetto (la società
Interporto Regionale della Puglia), sicché si tratterebbe di
«variante urbanistica impositiva di un vincolo a
contenuto essenzialmente espropriativo» (p. 7 del
ricorso), del tutto ininfluente ai fini indennitari.
3. Il motivo è fondato.
3.1. La censura concerne la ricognizione giuridica di parte
delle aree ablate operata dalla Corte territoriale che per
le particelle 648 e 649 —sì come individuate nei sensi
precisati al precedente punto 2.1.— ne ha ritenuto la
natura edificatoria.
3.2. Al riguardo —e come recentemente ricapitolato da questa
Sezione con la sentenza 24.02.2016, n. 3620—
sussiste una normativa specifica introdotta
dall'art. 5-bis della legge 08.08.1992, n. 359 ed oggi
recepita dagli artt. 32 e 37 del d.P.R. 08.06.2001, n. 327
(T.U. espropriazioni per pubblica utilità), secondo la quale
ai fini indennitari si considerano le possibilità legali ed
effettive di edificazione, esistenti al momento del decreto
di esproprio (art. 5-bis, comma 3, legge n. 359 del 1992;
artt. 32, comma 1, e 37, comma 3, T.U.).
Per il successivo comma 4 dell'art. 37 T.U., premessa la
ininfluenza dei vincoli espropriativi, non
sussistono le possibilità legali di edificazione quando
l'area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità
assoluta in base alla normativa statale e regionale o alle
previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di
pianificazione del territorio, ivi compreso, tra gli altri,
il piano regolatore generale, ovvero in base ad un qualsiasi
altro piano o provvedimento che abbia precluso il rilascio
di atti, comunque denominati, abilitativi della
realizzazione di edifici o manufatti di natura privata.
3.3. Alla luce di questo quadro legislativo specifico,
non può dubitarsi che il sistema di ricognizione e
valutazione degli immobili che ne discende li suddivide in
base al binomio edificabilità-non edificabilità, dove questo
secondo termine contrassegna tutti i beni cui non possa
riconoscersi il parametro dell'edificabilità secondo
l'accezione legale del termine, che corrisponde alle
prescrizioni della disciplina urbanistica, e che detto
sistema ha prescelto quale unico criterio per individuarne
l'appartenenza all'una o all'altra categoria, quello
dell'edificabilità legale, riconosciuta cioè direttamente ed
esclusivamente dalla legge o, per essa, dagli strumenti
urbanistici generali.
Tale edificabilità legale si riferisce
esclusivamente
—come confermato dalla conclusiva indicazione del comma 4
dell'art. 37 del T.U., che considera espressamente
inedificabili i terreni gravati da un relativo vincolo che
precluda il rilascio di atti, comunque denominati,
abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di
natura privata— alla estrinsecazione dello
ius aedificandi connesso al diritto di proprietà,
ovvero all'edilizia privata esprimibile dal proprietario
dell'area: in tal modo restando escluso che la previsione di
interventi unicamente finalizzati alla realizzazione dello
scopo pubblico per cui si rende necessario l'esproprio
conferisca natura fabbricativa ai terreni, poiché lo stesso
attiene al diverso concetto di edificabilità pubblica che
discende dal sistema stesso della suddetta legislazione, in
cui l'edilizia esplicabile per edifici e impianti ha una
disciplina diversa dai limiti posti all'esplicazione delle
facoltà dominicali, com'è desumibile dalla legge 17.08.1942,
n. 1150, art. 41-quater
(si v., tra le altre, Sez. I, 06.04.2012, n. 5631).
3.4. Ora, se è vero che,
secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 17911999),
non sono espropriativi «i vincoli che importano
una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile
ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata», è
pur vero che tale esclusione comporta
secondo la Consulta la sola conseguenza che
i vincoli suddetti non siano soggetti alla decadenza
quinquennale di cui all'art. 2 legge n. 1187 del 1968
(perciò non provocando la situazione delle c.d. aree bianche
di cui all'art. 4 legge n. 10 del 1977). Laddove la citata
Cass. n. 5631/2012 ha precisato che «un'area
va ritenuta edificabile soltanto se, e per il solo fatto
che, come tale, essa risulti classificata al momento della
vicenda ablativa dagli strumenti urbanistici, secondo un
criterio di prevalenza o autosufficienza della edificabilità
legale» e che «le possibilità legali di edificazione vanno
di conseguenza escluse tutte le volte in cui lo strumento
urbanistico vincoli concretamente la zona ad un utilizzo
meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature
pubbliche, viabilità, zona di rispetto ecc.): perciò
comprendente non soltanto opere pubbliche, ma anche
interventi ed attrezzature di interesse generale che, seppur
non destinati direttamente a scopi dell'amministrazione,
siano idonei a soddisfare bisogni della collettività;
inerente al diverso concetto d'edificabilità pubblica che
discende dal sistema stesso della legge urbanistica, in cui
l'edilizia esplicabile per edifici e impianti ha una
disciplina diversa dai limiti posti all'esplicazione delle
facoltà dominicali (L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quater).
E conclusivamente caratterizzato dal presupposto oggettivo
che l'intervento (o il manufatto) sia destinato a servire un
interesse generale
(Cass. 665/2010; 400/2010; 21396/2009; 21095/2009;
17995/2009), nonché da quello di natura
soggettiva che debba essere realizzato ad iniziativa
pubblica o di soggetto istituzionalmente competente a
realizzare opere pubbliche
(Cass. 11322/2005).
Pertanto a nulla rileva che lo stesso sia
attuato dall'amministrazione direttamente o attraverso la
partecipazione privata ed in tal caso avvalendosi di
strumenti pubblicistici, quali concessioni di ogni tipo,
affidamenti, programmazioni ecc. o, per converso
privatistici, quali appalti, convenzioni, partecipazioni
associative ed altro, né tanto meno le tipologie di
strutture da costruire, la presenza di manufatti accessori e
complementari, le prescrizioni (volumi, altezze, indici,
limitazioni ecc.), le integrazioni e le altre modalità
esplicative da osservare per la loro esecuzione il più delle
volte disciplinate dagli strumenti di attuazione (che
essendo strumenti di terzo livello in nessun caso potrebbero
derogare quelli generali sovraordinati): essendo decisivo e
determinante per la classificazione non edificatoria di
dette aree il collegamento funzionale della destinazione
impressa con taluno di detti utilizzi e scopi pubblicistici,
i quali apportano un vincolo di destinazione che preclude ai
privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che
sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione e
che sono, come tali, soggette al regime autorizzatorio
previsto dalla vigente legislazione edilizia.
(...)
Si è osservato, infine, che lo strumento
urbanistico, titolare al riguardo di ampia discrezionalità,
seppur in via eccezionale può attribuire ad una zona
utilizzazioni non soltanto pubblicistiche nei termini avanti
specificati, ma introdurre nell'ambito di essa, anche
mediante la costituzione di una sottozona, una destinazione
promiscua pubblico-privata o realizzabile anche ad
iniziativa privata. Perché ricorra tale ipotesi che rende
l'area nuovamente edificabile non è tuttavia sufficiente che
l'intervento pubblico (strada, ferrovia, edificio pubblico,
ecc.) sia realizzabile in linea astratta anche ad iniziativa
privata: dovendo ciò essere il risultato, secondo la
Consulta, di una scelta di politica programmatoria
ricorrente solo quando gli obiettivi di interesse generale,
di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano
ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi
nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso
l'iniziativa economica privata — pur se accompagnati da
strumenti di convenzionamento; e perciò devolvendosi
esclusivamente a ciascuno strumento urbanistico il potere di
stabilire espressamente se, per quali categorie di opere ed
in quali zone le stesse possano venire realizzate "anche
attraverso l'iniziativa economica privata"
(Cass. 2505/2010 cit.; 21095/2009 cit.; 15616/2007;
15389/2007)».
3.5. La Corte di appello non si è attenuta a questi
consolidati principi.
In disparte la considerazione —pur non secondaria alla luce
del percorso motivazionale della Corte territoriale (cfr. p.
6 della sentenza, riportata al precedente punto 2.2.)— che
l'art. 37, comma 4, T.U. espropriazioni incentra
l'insussistenza delle possibilità legali di edificazione
proprio sui vincoli generali ed astratti posti dal piano
regolatore generale, senza riconoscere per contro alcuna
rilevanza alle prescrizioni delle norme tecniche di
attuazione, la cui modesta funzione, desumibile dalla loro
stessa denominazione, è sempre e soltanto servente rispetto
alle destinazioni programmatiche del piano regolatore
generale, con esclusione, dunque, per tali norme di terzo
livello, gerarchicamente subordinate al piano, di ogni
discrezionalità al fine di modificare la qualificazione
urbanistica della zona (Cass. n. 3620/2016 citata), la Corte
di appello non ha tenuto presente l'insegnamento di Cass.,
Sez. Un., n. 173/2001: la variante al piano
regolatore generale impositiva del vincolo alla
realizzazione dell'interporto, quale progetto sostanziante
un'iniziativa pubblica la cui realizzazione è rimessa
unicamente alla società ricorrente concessionaria, non ha
natura conformativa generale, bensì concreta un vincolo
particolare, incidente su beni determinati in funzione della
puntuale localizzazione dell'opera
(si v. Cass. n. 404/2010), sicché si è in
presenza di un vincolo sostanzialmente preordinato
all'espropriazione, dal quale deve prescindersi
(cfr. art. 5-bis cit., poi recepito dagli artt. 32 e 37
T.U.) ai fini della qualificazione
dell'area ablata per gli effetti indennitari ed il parametro
legale di tale qualificazione va conseguentemente
individuato nello strumento previgente (che qualificava
l'area in questione come agricola)
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 28.09.2016 n. 19193). |
EDILIZIA PRIVATA:
La declaratoria di decadenza del permesso di
costruire costituisce un provvedimento avente carattere
strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio o
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art.
15 comma 2 del DPR n. 380/2001 (rispettivamente un anno e
tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga)
ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso di costruire.
--------------
L’assunto difensivo non merita positivo apprezzamento.
Successivamente al rilascio del permesso di costruire n.
1157/2011, avvenuto in data 28.09.2011, con apposita
comunicazione (prot. n. 94483) il ricorrente riferiva al
Comune che i lavori di cui al suindicato permesso di
costruire avrebbero avuto inizio in data 08.10.2010,
sennonché, in base alle informazioni rese con il verbale di
sopralluogo eseguito dai tecnici comunali in data
31/10/2012, si evince che alla medesima data non risultava
realizzata alcuna opera finalizzata all’effettivo inizio dei
lavori riguardante la realizzazione del fabbricato di cui al
suindicato permesso.
Questo sta a significare che nella specie risultava
inutilmente decorso il termine annuale previsto dall’art.
15, secondo comma, del DPR n. 380/2001 entro cui occorre
dare inizio ai lavori, il che imponeva al Comune di
procedere, come poi avvenuto, all’adozione del provvedimento
di decadenza della citata autorizzazione ad aedificandum.
E’ il caso in proposito di rammentare che la declaratoria di
decadenza del permesso di costruire costituisce un
provvedimento avente carattere strettamente vincolato
all’accertamento del mancato inizio o completamento dei
lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15, comma 2, del
DPR n. 380/2001 (rispettivamente un anno e tre anni dal
rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura
ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di
costruire (cfr. Cons. Stato Sez. IV 23/02/2012 n. 974; idem
n. 2915/2012), sicché nella specie a seguito
dell’intervenuto accertamento sopra menzionato non restava
al Comune, in doverosa applicazione della regula iuris
suindicata, che dichiarare la decadenza del permesso di
costruire n. 1157/2011, appunto per mancato inizio dei
lavori nel termine di legge.
Né al riguardo può ritenersi inizio dei lavori la
realizzazione di un muro di cemento armato a contenimento di
terreni franati, pure addotta dalla parte appellante a
sostegno della tesi dell’avvenuta osservanza del termine
annuale di cui sopra.
Invero detto muro di contenimento è stato oggetto di una
specifica pratica edilizia, quella contrassegnata dal numero
di protocollo n. 26553/A del 20/09/2011, del tutto diversa
dalla pratica relativa alla progettato fabbricato ad uso
abitativo (prot. n. 25297); va al riguardo tenuto altresì
conto che, già in data 22.08.2011, il sig. Pe.An. unitamente
ad altri interessati comunicava ai sensi dell’art. 21 del
Regolamento Edilizio l’inizio dell’opera urgente a sostegno
dei terreni franati, e cioè in epoca antecedente al rilascio
del titolo edilizio per cui è causa per il quale l’inizio
dei lavori è stato comunicato in data 08.10.2011.
Siamo, quindi, in presenza di un intervento, quello del
muro, realizzato peraltro senza titolo abilitativo edilizio
e paesaggistico, che riguarda un evento franoso occorso
anzitempo rispetto alle opere assentite e che è finalizzato
ad altre diverse opere, fermo restando che l’area
interessata dalla nuova costruzione abitativa non risulta,
in base agli accertamenti eseguiti, che sia stata oggetto di
lavori in concreto rivolti a dare esecuzione al permesso di
costruire n. 1157/2011.
Non si può parlare dunque di opera pertinenziale e
propedeutica alla realizzazione del nuovo edificio; né, a
mente delle disposizioni disciplinanti la materia (citato
art. 15 DPR n. 380/2001), è stata presentata istanza di
proroga del termine iniziale dei lavori, nel che si invera
il presupposto di fatto e di diritto dell’istituto della
decadenza del rilasciato titolo edilizio.
In forza delle suesposte considerazioni l’appello, in quanto
infondato, va respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.09.2016 n. 4007 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
sconta il pagamento del contributo di costruzione la
realizzazione del nuovo mercato agroalimentare all'ingrosso,
adottata con una specifica variante al PRG di una vasta area
del territorio comunale, laddove l’opera è stata dichiarata
di pubblico interesse e la medesima, per le sue
caratteristiche, è destinata a soddisfare bisogni di
interesse generale (ancorché vada escluso che si tratti di
un’opera di urbanizzazione secondaria.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito i presupposti dell'esenzione
dal pagamento del contributo per il rilascio della
concessione «per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite
anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici».
Invero, «secondo costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, ai fini del regime premiale di cui alla
norma citata, è indispensabile accertare la sussistenza di
due profili, uno di carattere soggettivo, l’altro
oggettivo.
Sotto il primo aspetto, bisogna tenere conto delle
specifiche qualità soggettive del richiedente il titolo
abilitativo: alla luce, infatti, dell’evoluzione del
concetto di pubblica amministrazione, inteso non più
meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono
ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le
amministrazioni formalmente previste e riconosciute come
tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori
individuali, società per azioni) che esercitino un’attività
pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di
longa manus della p.a.
Tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario
anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della
quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento
restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo
necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede
l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia,
per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità,
esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera
collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia
legata a un interesse generale da un nesso di mera
strumentalità.
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla
base della sola destinazione che il titolare dell’opera
intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non
provocando un’evidente elusione del sistema normativo che
prevede come regola generale, in un’ottica di corretto
governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost.,
l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli
edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di
stretta interpretazione».
---------------
... per l'annullamento:
- (quanto al ricorso) della nota del Sindaco del Comune di
Volla prot. n. 17817 del 16.11.99, recante intimazione al
pagamento della somma di lire 8.222.814.785 a titolo di
oneri di costruzione e di urbanizzazione dovuti per la
realizzazione del nuovo mercato agroalimentare di Napoli –
Volla, assentita con concessione edilizia n. 35 del 31.05.1999;
e di tutti gli atti presupposti, preparatori, conseguenti e
connessi;
- (quanto ai motivi aggiunti) della nota del Sindaco del
Comune di Volla prot. n. 4171 del 27.03.2003, con la quale il
Comune, “nelle more del giudizio davanti al TAR relativo
agli oneri di urbanizzazione”, ha intimato alla ricorrente
il pagamento della somma di € 1.160.565,06 quale “quota per
il costo di costruzione” dovuta per concessione edilizia n.
35 del 31.05.1999; e di tutti gli atti presupposti,
preparatori, conseguenti e connessi;
- nonché per l’accertamento del diritto della ricorrente
all’attribuzione del beneficio dell’esclusione dal pagamento
degli oneri concessori afferenti la concessione edilizia n.
35 del 31.05.1999 rilasciata dal Comune di Volla.
...
La società ricorrente contesta le richieste del Comune di
Volla di pagamento degli oneri concessori per il rilascio
della concessione edilizia n. 35 del 31.05.1999, con la
quale sono stati assentiti i lavori di realizzazione del
nuovo mercato agro alimentare all'ingrosso di Napoli e Volla,
sostenendo che nulla sarebbe dovuto a tal titolo in virtù di
quanto previsto dall'art. 9, comma 1, lett. f), della legge
n. 10/1977, valevole ratione temporis ed ora sostituito
dall'art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
Contesta, inoltre, che l’omesso pagamento degli oneri
concessori possa giustificare la sanzione della revoca della
concessione edilizia e che la richiesta di pagamento dei
medesimi rientri tra gli atti di competenza del Sindaco.
Il ricorso è fondato.
All’epoca del rilascio del titolo edilizio, la lettera f)
dell’art. 9 della legge 28.01.1977, n. 10, escludeva il
pagamento del contributo per il rilascio della concessione
«per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite
anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici».
Una norma identica è contenuta adesso nel comma 3, lett. c),
dell’art. 17 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
La giurisprudenza ha, da tempo chiarito, i presupposti di
questa esenzione.
Come ancora di recente ricordato dal Consiglio di Stato,
infatti, «secondo costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, ai fini del regime premiale di cui alla
norma citata, è indispensabile accertare la sussistenza di
due profili, uno di carattere soggettivo, l’altro
oggettivo.
Sotto il primo aspetto, bisogna tenere conto delle
specifiche qualità soggettive del richiedente il titolo
abilitativo: alla luce, infatti, dell’evoluzione del
concetto di pubblica amministrazione, inteso non più
meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono
ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le
amministrazioni formalmente previste e riconosciute come
tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori
individuali, società per azioni) che esercitino un’attività
pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di
longa manus della p.a.
Tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario
anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della
quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento
restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo
necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede
l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia,
per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità,
esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera
collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia
legata a un interesse generale da un nesso di mera
strumentalità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2014, nr.
3421; id., sez. V, 07.05.2013, nr. 2467; id., sez. IV, 02.03.2011, nr. 1332; id., sez. VI,
05.06.2007, nr.
2981).
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla
base della sola destinazione che il titolare dell’opera
intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non
provocando un’evidente elusione del sistema normativo che
prevede come regola generale, in un’ottica di corretto
governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost.,
l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli
edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di
stretta interpretazione» (così C.d.S., sez. IV, 06.06.2016, n. 2394).
Nel caso di specie devono ritenersi ricorrenti entrambi i
presupposti.
Per un verso, infatti, è rimasta incontestata da parte
dell’amministrazione resistente la circostanza, diffusamente
illustrata dalla ricorrente, che per la realizzazione del
nuovo mercato agroalimentare all'ingrosso è stata adottata
una specifica variante al Piano Regolatore Generale di una
vasta area del territorio comunale, che l’opera è stata
dichiarata di pubblico interesse e che la medesima, per le
sue caratteristiche, è destinata a soddisfare bisogni di
interesse generale (ma va escluso che si tratti di un’opera
di urbanizzazione secondaria, tale qualifica essendo
riservata ai mercati di quartiere: cfr. C.d.S., sez. IV, 11.02.2016, n. 595).
Sotto il profilo soggettivo, poi, la ricorrente società
consortile si colloca in maniera agevole tra i beneficiari
della norma, non solo per l’interpretazione funzionalistica
fatta propria dal Giudice di appello, ma perché rientrante
per legge tra i soggetti istituzionalmente competenti ad
assumere l’iniziativa della realizzazione di mercati
agroalimentari all’ingrosso (cfr. art. 5, comma 1, della
legge 25.03.1959, n. 125, specificamente invocato dalla
ricorrente).
In conclusione, per queste ragioni e assorbito quant’altro,
deve essere accolto il ricorso e dichiarato, per l’effetto,
il diritto della ricorrente all’attribuzione del beneficio
dell’esclusione dal pagamento degli oneri concessori
afferenti la concessione edilizia n. 35 del 31.05.1999
rilasciata dal Comune di Volla
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 27.09.2016 n. 4447 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se le
autorimesse interrate pertinenziali non aggravano il carico
urbanistico e non costituiscono opere rilevanti ai fini
degli standards urbanistici, tale principio può essere
condiviso nella misura in cui (come si intuisce dal richiamo
al regime pertinenziale) le autorimesse afferiscono ad una
presenza antropica già in essere, ma non nei casi in cui si
realizzano strutture che da ciò prescindono e che, per la
loro stessa natura, entità ed utilizzazione, comportano un
ulteriore carico urbanistico e la necessità di nuova
pianificazione della viabilità.
---------------
2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto,
con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Con la sentenza 21.04.2009 n. 2416, questa Sezione ha già
avuto modo di esaminare (proprio giudicando di un precedente
appello della società Ci. riferito alla realizzazione di una
più ampia opera, comprensiva di una autorimessa interrata
nella medesima zona) il contenuto e l’ambito applicativo
dell’art. 24 delle NTA del PRG del Comune di Sanremo,
affermando: “La previsione della necessità di uno
strumento urbanistico attuativo per disciplinare
l’insediamento di nuove attività suscettibili di aumentare
in modo rilevante, o non equilibrato, il carico urbanistico
in relazione alle esigenze della zona B3, costituisce un
punto fermo della disciplina qui considerata e deve,
pertanto, ispirare in una lettura organica ed oggettiva
anche la interpretazione delle singole specifiche
disposizioni transitorie e di dettaglio.
La dizione locali interrati, che sono assentibili in forza
dell’ultimo comma dell’art. 24 delle NTA, inserita in questo
contesto, non può essere interpretata in modo così ampio da
comprendere insediamenti tali da pregiudicare le finalità
degli strumenti attuativi che devono regolare lo sviluppo e
la conservazione della zona in questione ... La norma
derogatoria si inquadra in una disposizione che non consente
in alcun modo nuove costruzioni o maggiori superfici o
volumetrie e, quindi, in via principale, è diretta a
consentire agli edifici esistenti la utilizzazione dei
locali interrati per le finalità ordinarie che tali locali
possono avere (destinazione a parcheggio, a deposito, a
magazzino, ovvero ad aree per impianti tecnici e
tecnologici), ma non alla realizzazione di nuove costruzioni
che, lo si ribadisce, sono escluse nella zona B3. La stessa
dizione utilizzata dalla norma transitoria (locali interrati
e non edifici o costruzioni) depone in tal senso”.
Il Collegio non ha ragione di discostarsi, nella presente
sede, dalle considerazioni già espresse con la precedente
decisione n. 2416/2009.
Ed infatti, con tale decisione per un verso si è
condivisibilmente inteso dare una interpretazione delle
norme contenute nell’art. 24 citato, la quale, in conformità
all’art. 12 disp. att. cod. civ., lungi dal limitarsi al
mero dato letterale, ha inteso inquadrare quest’ultimo nel
più generale contesto logico-sistematico della disciplina
urbanistica prevista (a regime ed in via transitoria) per le
zone B del Comune di Sanremo.
Per altro verso, si è ritenuto che la deroga alla esigenza
di previo strumento attuativo, riferita a “locali
interrati” non possa applicarsi anche a progetti, come
quello considerato, afferenti ad autorimesse di notevole
entità volumetrica e cospicua utilizzazione.
In tal senso, appare evidente come, affermata dall’art. 24
l’esigenza dello strumento urbanistico attuativo per
pervenire ad un riassetto delle singole zone
(razionalizzando in modo equilibrato i pesi relativi alle
destinazioni ammissibili, rivedendo le destinazioni in atto
in ragione della loro compatibilità ed anche prevedendo e
raccordando la viabilità secondaria con la principale), le
deroghe ammesse in attesa di tale strumento di attuazione
non possono che essere limitate e tali da non compromettere
le finalità di pianificazione.
Né tale interpretazione può essere superata (come nella
prospettazione dell’appellante):
- per il fatto che la nuova dizione delle NTA in itinere (“locali
ad uso autorimessa, anche non pertinenziale”),
deporrebbe in favore di una più ampia applicazione della
deroga (pag. 12 app.);
- ovvero per il fatto che il nuovo progetto prevede un
numero inferiore di posti auto nell’autorimessa (e solo
questa).
Quanto al primo aspetto -ed in disparte ogni considerazione
in ordine al fatto che non può comunque consentirsi, in
pendenza di misure di salvaguardia ed a strumento
urbanistico ancora non approvato, una applicazione “anticipata”
delle disposizioni di quest’ultimo– occorre osservare che
anche la nuova dizione, pur riferita espressamente all’uso “ad
autorimessa” anche se “non pertinenziale” del
locale, non consente di pervenire ad una diversa
interpretazione dell’art. 24.
Ed infatti, ferma la necessità, secondo i canoni della
corretta interpretazione della legge, di fornire una
interpretazione “restrittiva” delle norme di
eccezione (onde comprimere nel minor modo possibile l’ambito
di applicazione della norma generale), appare evidente come
la possibilità di realizzare locali interrati (anche ad uso
di autorimessa non pertinenziale) risulta compatibile con le
finalità di pianificazione secondaria nella misura in cui si
tratti di rispondere a singole esigenze di migliore
vivibilità dei cittadini già insediati nella zona, in modo
da non comportare un nuovo e più oneroso carico urbanistico.
Ed in questo contesto, la “non pertinenzialità”
dell’autorimessa afferisce semplicemente alla non immediata
riconducibilità (secondo i principi civilistici) di questa
alla proprietà dell’appartamento ubicato nel palazzo (o
altro volume soprasuolo), sotto l’area di sedime del quale
avviene la realizzazione del volume interrato; ma certamente
non comporta una “irrilevanza” del carico urbanistico
maggiore da questa eventualmente derivante.
Quanto al secondo aspetto, appare evidente come, in ragione
di quanto sinora esposto, la diminuzione del numero dei
posti auto dell’autorimessa (da 446 a 320) non è tale da
consentire una applicazione dell’ultimo comma dell’art. 24,
prescindendosi dalla previa pianificazione attuativa.
D’altra parte, se, come prospettato dalla parte appellante
sulla scorta di (riportate) affermazioni giurisprudenziali,
le autorimesse interrate pertinenziali non aggravano il
carico urbanistico e non costituiscono opere rilevanti ai
fini degli standards urbanistici, tale principio può essere
condiviso nella misura in cui (come si intuisce dal richiamo
al regime pertinenziale) le autorimesse afferiscono ad una
presenza antropica già in essere, ma non nei casi in cui si
realizzano strutture che da ciò prescindono e che, per la
loro stessa natura, entità ed utilizzazione, comportano un
ulteriore carico urbanistico e la necessità di nuova
pianificazione della viabilità
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.09.2016 n. 3942 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'art. 60 del dPR n. 3 del 1957, richiamato dall'art. 53 del
d.lgs. n. 165
del 2001, sancisce che "l'impiegato non può esercitare il
commercio, l'industria,
né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze
di privati o accettare
cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si
tratti di cariche in
società o enti per le quali la nomina è riservata allo
Stato e sia all'uopo
intervenuta l'autorizzazione del ministro competente". Il
successivo art. 61 nel
delimitare l'incompatibilità statuisce che "il divieto di
cui all'articolo precedente
non si applica nei casi di società cooperative (...)".
Il combinato disposto delle due norme pone in evidenza come
l'esclusione
della incompatibilità con riguardo alle società cooperative
sia riferito
all'assunzione della qualità di socio delle stesse e non
alla prestazione di lavoro
presso le medesime.
Poiché nella specie non si controverte
della qualità di socio
di una cooperativa ma di attività lavorativa prestata presso
la stessa, la censura
è infondata non essendo stabilita dal legislatore alcuna
deroga, in proposito, al
regime delle incompatibilità.
---------------
2. Con il primo motivo di ricorso è prospettato il vizio di
violazione di
legge in riferimento all'art. 61 del dPR n. 3 del 1957,
esenzione da
incompatibilità per il lavoro prestato presso cooperative.
Ad avviso della
ricorrente la normativa richiamata esclude ogni
incompatibilità per i dipendenti
pubblici che prestino attività lavorativa presso società
cooperative.
2.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
L'art. 60 del dPR n. 3 del 1957, richiamato dall'art. 53 del
d.lgs. n. 165
del 2001, sancisce che "l'impiegato non può esercitare il
commercio, l'industria,
né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze
di privati o accettare
cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si
tratti di cariche in
società o enti per le quali la nomina è riservata allo
Stato e sia all'uopo
intervenuta l'autorizzazione del ministro competente". Il
successivo art. 61 nel
delimitare l'incompatibilità statuisce che "il divieto di
cui all'articolo precedente
non si applica nei casi di società cooperative (...)".
Il combinato disposto delle due norme pone in evidenza come
l'esclusione
della incompatibilità con riguardo alle società cooperative
sia riferito
all'assunzione della qualità di socio delle stesse e non
alla prestazione di lavoro
presso le medesime. Poiché nella specie non si controverte
della qualità di socio
di una cooperativa ma di attività lavorativa prestata presso
la stessa, la censura
è infondata non essendo stabilita dal legislatore alcuna
deroga, in proposito, al
regime delle incompatibilità.
3. Il secondo e il quarto motivo di ricorso devono essere
trattati
congiuntamente in ragione della loro connessione.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione
dell'art. 360, n. 4 cpc, per violazione art. 132 n. 4, cpc, in relazione
all'art. 111 Cost., nonché per
omesso esame documenti. Violazione dell'art. 360, n. 5, cpc,
per mancato esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
Violazione dell'art. 360, n. 3, cpc, per
errore nella sussunzione della fattispecie concreta in
quella astratta.
Assume la Bernabè che vi era stata da parte della
lavoratrice una
domanda di autorizzazione alla quale l'Amministrazione non
aveva risposto,
dando luogo, in tal modo, al formarsi del silenzio-assenso.
Con lettera del 25.07.2005, infatti, aveva chiesto "l'autorizzazione per lo
svolgimento di
collaborazione come infermiera a sensi del DPGP n. 38-111/Leg.
dd. 30.11.1998,
successivamente modificato con DPGP n. 2-92/Leg. Dd. 17.01.2002, da
svolgere presso le RSA". L'inoltro della lettera risultava
anche dalla prova
testimoniale.
La Corte d'Appello non aveva argomentato sulle conseguenze
della
esistenza di una domanda di autorizzazione di cui fosse
controvertibile la sua
conformità al modello legale, e sul fatto che
l'amministrazione avesse lasciato
decorrere il tempo necessario per il silenzio assenso, senza
assumere una
determinazione. Che la lettera contenesse domanda di
autorizzazione si evinceva
dall'esito della prova testimoniale (teste Ottaviano),
nonché da quanto ritenuto
dalla Corte d'Appello penale con la sentenza che aveva
riguardato la Be.,
nonché dalla lettera di agosto dell'Amministrazione. Tali
circostanze non
avrebbero dovuto legittimare la decadenza.
3.1. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione
dell'art. 360, n.
3, cpc, in relazione all'art. 61 del dPR n. 3 del 1957,
all'arti, comma 60, della
legge n. 662 del 1996, all'art. 53, comma 10, del d.lgs. n.
165 del 2001.
La ricorrente contesta la statuizione con la quale non si è
dato rilievo alla
suddetta richiesta di autorizzazione, atteso che la legge
non specifica che la
domanda debba avere le qualità di precisione burocratica che
l'Azienda aveva
preteso in causa. L'art. 53, comma 10, del d.lgs. n. 165 del
2001, come ricordato
dal giudice penale, prevede che la domanda sia fatta
dall'ente che utilizza il
lavoratore e solo in via sussidiaria, volontaria e
facoltativa, dal lavoratore
stesso, per cui i riferimenti nella missiva di risposta
potevano essere intesi dal
lavoratore come autorizzazione.
Con lettera del 09.08.2005 l'Azienda informava la
lavoratrice delle
competenze a rilasciare l'autorizzazione, indicando il
distretto competente
all'istruzione della pratica (Distretto Alta Valsugana).
Tale comunicazione veniva
inviata anche al direttore di quest'ultimo Distretto, ove
perveniva l'11.08.2005 (e non al 05.10.2005). Pertanto, il silenzio
assenso si era già formato
alla data della lettera del 18.10.2005 inviata dal
Distretto Alta Valsugana, il
cui contenuto interlocutorio è riportato in ricorso.
3.2. I motivi sono in parte inammissibili e in parte non
fondati.
Occorre precisare che l'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001,
sempre in
materia di incompatibilità, nel mantenere ferma per tutti i
dipendenti pubblici la
disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60
e seguenti del dPR n. 3
del 1957, salvo alcune deroghe, ha stabilito, al comma 7 che
"i dipendenti
pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non
siano stati conferiti o
previamente autorizzati dall'amministrazione di
appartenenza. Ai fini
dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica
l'insussistenza di situazioni, anche
potenziali, di conflitto di interessi (...)".
Al comma 8, che "le pubbliche amministrazioni non possono
conferire
incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni
pubbliche senza la previa
autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei
dipendenti stessi (...)".
Al comma 9 "Gli enti pubblici economici e i soggetti privati
non possono
conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza
la previa autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi.
Ai fini
dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica
l'insussistenza di situazioni, anche
potenziali, di conflitto di interessi (...)".
Come sancito dal comma 10, "l'autorizzazione, di cui ai
suddetti commi
precedenti, deve essere richiesta all'amministrazione di
appartenenza del
dipendente dai soggetti pubblici o privati, che intendono
conferire l'incarico;
può, altresì, essere richiesta dal dipendente interessato.
L'amministrazione di
appartenenza deve pronunciarsi sulla richiesta di
autorizzazione entro trenta
giorni dalla ricezione della richiesta stessa. (...).
Decorso il termine per
provvedere, l'autorizzazione, se richiesta per incarichi da
conferirsi da
amministrazioni pubbliche, si intende accordata; in ogni
altro caso, si intende
definitivamente negata".
La Corte d'Appello, attesa la necessità di autorizzazione
per lo
svolgimento di un incarico presso terzi, rilevava che la
sentenza penale
richiamata dalla lavoratrice non poteva fare stato con
riguardo al procedimento
disciplinare in esame, in quanto aveva riguardato le
prestazioni lavorative svolte
nei confronti di un istituto terzo ed estraneo rispetto alla
casa di cura "Villa
Maria" di Lenzima, per cui era causa, e che quindi, andava
condiviso il giudizio
del Tribunale circa l'impossibilità di ravvisare nella
documentazione in atti una
qualsivoglia autorizzazione da parte del datore di lavoro
alla dipendente per
poter prestare attività lavorativa in favore di enti terzi.
Inoltre riteneva che la
comunicazione inviata dalla Be. in data 25.07.2005,
stante la assoluta
genericità (l'infermiera non si era curata di indicare quali
sarebbero stati gli enti presso i quali avrebbe voluto
svolgere attività lavorativa, né tanto meno
specificare le date e gli orari in cui avrebbe espletato
questo lavoro), non poteva
considerarsi domanda di autorizzazione, tanto che le
risposte
dell'Amministrazione riflettevano tale genericità, chiarendo
alla istante modalità
e tempi con cui la richiesta avrebbe dovuto essere svolta.
La comunicazione del 25.07.2005 poteva essere
considerata una mera
dichiarazione di intenti per il futuro e non una formale
domanda in relazione ad
uno specifico rapporto lavorativo.
Dunque, come correttamente e congruamente statuito dalla
Corte
d'Appello, in mancanza di una richiesta di autorizzazione
riferita ad una attività
lavorativa individuata sia con riguardo al soggetto presso
cui doveva essere
svolta (attesa la genericità del mero riferimento a
residenze assistenziali
sanitarie, che, peraltro, possono avere forma giuridica
pubblica o privato, con
diverse conseguenze sul decorso del tempo, come stabilito
dal citato comma 10
dell'art. 53, formandosi nel caso di soggetti privati, in
caso di mancata risposta,
il silenzio rigetto), sia alla durata dell'incarico, non
poteva ritenersi accordata
implicitamente alcuna autorizzazione per la prestazione
dell'attività lavorativa,
poi risultata essere stata svolta presso la casa di cura
"Villa Maria" di Lenzima
(la quale, peraltro, come si assume nel primo motivo sarebbe
una cooperativa
sociale e quindi con natura giuridica privata, in relazione
a quanto previsto dal
citato comma 10 dell'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001),
oggetto del
procedimento disciplinare, né poteva fare stato la sentenza
penale relativa a una
diversa prestazione lavorativa presso una diversa struttura.
E che la disciplina sulle incompatibilità e cumulo di
impieghi e incarichi richieda che la domanda di
autorizzazione deve essere specifica e circostanziata è
confermato dalla verifica di insussistenza di situazioni,
anche potenziali, di conflitto di interessi, che deve
effettuare l'Amministrazione presso cui presta servizio il
lavoratore
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 26.09.2016 n. 18861). |
PUBBLICO IMPIEGO: In tema di danno da demansionamento,
il risarcimento del
danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre
automaticamente in
tutti i casi di inadempimento datoriale e non può
prescindere da una specifica
allegazione, nel ricorso introduttivo, dell'esistenza di un
pregiudizio (di natura
non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accertabile) provocato
sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali
propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto
all'espressione e realizzazione
della sua personalità nel mondo esterno.
Tale pregiudizio
non è conseguenza
automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante
nella suindicata
categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera
potenzialità lesiva della
condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere di
fornire la prova del
danno e del nesso di causalità con l'inadempimento
datoriale.
---------------
9. Con
l'ottavo motivo di ricorso è dedotta violazione dell'art.
360, n. 4, cpc, in relazione all'art. 132, n. 4, cpc, e
all'art. 111 Cost., dell'art. 360, n. 5, per mancato esame
circa un fatto decisivo del giudizio.
E' censurata la statuizione che ha ritenuto che non sarebbe
stata
sufficientemente dimostrata la mera potenzialità lesiva
della condotta datoriale,
incombendo sul lavoratore non solo di allegare il
demansionamento, ma anche di
fornire la prova ex art. 2697 cc, del danno non patrimoniale
e del nesso di
causalità con l'inadempimento datoriale, il che nella
fattispecie era
oggettivamente mancato.
Assume la lavoratrice che la Corte d'appello aveva
dimostrato di non
avere alcuna contezza dei documenti allegati, atteso i
numerosi certificati medici
inerenti alla patologia subita dalla Be. a causa dei
problemi lavorativi. Il quantum poteva essere provato solo tramite la CTU chiesta e
non ammessa.
La Apss trasferiva la Be. da un reparto di
riabilitazione funzionale -quello di Villa Rosa in cui la stessa era inserita come
rappresentante sindacale e
facente funzioni di caposala- ai reparti psichiatrici della
RSA e all'unità territoriale
in cui veniva ritorsivamente vessata, ovvero lasciata priva
di mansioni adeguate
alla competenza acquisita, con danni, per danno alla salute
e da
demansionamento.
9.1. Il motivo non è fondato.
Nel richiamare la statuizione censurata "non sarebbe neppure
sufficiente
dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta
datoriale, incombendo sul
lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche
di fornire la prova
ex art. 2697 cc del danno non patrimoniale e del nesso di
causalità con
l'inadempimento datoriale, il che nella fattispecie è
oggettivamente mancato", la
ricorrente omette di riportare l'altra parte della
motivazione (pag. 9, seconda
parte della sentenza di appello) conditio sine qua non di
quest'ultima, e cioè
"Pare alla Corte che non sia stata fornita alcuna seria
prova del
demansionamento e del conseguente danno e che la sentenza
gravata, la quale
ha dedicato ben 12 pagine a tali questioni (fornendo
un'esauriente e condivisibile
lettura dei singoli fatti e della vicenda complessiva con
argomentazioni che
questa Corte non può che condividere integralmente), non
meriti le censure mosse dall'odierna appellante, fondate su
una presunta erronea lettura delle
prove testimoniali rimasta orfana di una seria indicazione
alternativa circa il
modo con il quale sarebbe stato corretto leggerle ed a cosa
avrebbe potuto
portare la loro esatta interpretazione".
Il mancato riconoscimento del danno da parte della Corte
d'Appello,
quindi, è conseguito alla mancanza della prova del demansionamento e degli
intenti persecutori e antisindacali della datrice di lavoro,
richiamandosi poi il
principio secondo cui "in tema di danno da demansionamento,
il risarcimento del
danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre
automaticamente in
tutti i casi di inadempimento datoriale e non può
prescindere da una specifica
allegazione, nel ricorso introduttivo, dell'esistenza di un
pregiudizio (di natura
non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accertabile) provocato
sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali
propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto
all'espressione e realizzazione
della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio
non è conseguenza
automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante
nella suindicata
categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera
potenzialità lesiva della
condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere di
fornire la prova del
danno e del nesso di causalità con l'inadempimento
datoriale" (da ultimo, Cass.,
n. 1327 del 2015), e rilevandosi, infine, che, comunque, del
danno e del nesso
causale era mancata la prova.
La statuizione di rigetto della Corte d'Appello è fondata,
quindi, su
congrua e corretta motivazione, da cui discende anche la
ragione della mancata
disposizione di CTU, che non può supplire all'onere
probatorio delle parti
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 26.09.2016 n. 18861). |
PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione:
non si può licenziare chi non invia certificato se la
malattia è stata certificata dal medico fiscale.
La Suprema Corte ha chiarito che il lavoratore pubblico
assente per malattia che non abbia provveduto all’invio del
certificato di malattia non può essere licenziato qualora la
sussistenza dello stato di malattia sia stato certificato
dal medico di controllo.
---------------
Deve essere considerato sproporzionato rispetto alla
violazione e, quindi, illegittimo il licenziamento del
dipendente comunale che si assenta per malattia senza
inviare il certificato del medico del Ssn nazionale o di una
struttura pubblica, nell’ipotesi in cui il lavoratore ha
informato il datore di lavoro del suo stato e si è reso
subito disponibile per una visita fiscale all’esito della
quale è stata accertata la patologia.
Ai fini della legittimità dell’assenza per malattia, non è
sufficiente che il lavoratore ne informi il datore di
lavoro, ma il lavoratore deve attivare, rivolgendosi per
l’accertamento del proprio stato di salute ad una struttura
sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato con il
Servizio sanitario nazionale, il procedimento di cui
all’art. 55-septies, commi 1 e 2, che si conclude con
l’inoltro (e la ricezione) della certificazione medica al
datore di lavoro da parte dell’INPS.
L'art. 55-septies del d.lgs. n. 165 del 2001 al comma 1, ha
sancito che «nell'ipotesi di assenza per malattia protratta
per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso,
dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare
l'assenza viene giustificata esclusivamente mediante
certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria
pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio
sanitario nazionale».
Dunque, il legislatore ha inteso porre a carico del
lavoratore l'obbligo di attivarsi nei suddetti sensi, atteso
che, come previsto dall'art. 55-quater, comma 1, lettera b,
è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento senza
preavviso in presenza di «assenza priva di valida
giustificazione per un numero di giorni, anche non
continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o
comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi
dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di
assenza ingiustificata, entro il termine fissato
dall'amministrazione».
Parallelamente all'obbligo che grava sul lavoratore di
rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica o ad un
medico convenzionato, potendo solo la certificazione
rilasciata dagli stessi giustificare l'assenza per malattia,
il legislatore (art. 55-septies, comma 2) ha stabilito che
quest'ultimi provvedano ad inviare la certificazione per via
telematica all'1NPS che, a sua volta, la inoltra
immediatamente all'Amministrazione interessata. Anche
l'inosservanza di tale obbligo di trasmissione costituisce
illecito disciplinare.
Dunque non è sufficiente che il lavoratore informi il datare
di lavoro dell'assenza per malattia, come avvenuto nella
specie, ma il lavoratore deve attivare, rivolgendosi per
l'accertamento del proprio stato di salute/malattia ad una
struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato
con il Servizio sanitario nazionale, il procedimento di cui
all'art. 55-septies, commi 1 e 2, che si conclude con
l'inoltro (e la ricezione) della certificazione medica al
datare di lavoro da parte dell'INPS.
Ed è alla mancanza di tale certificazione, che conforti la
ragione della malattia quale causa dell'assenza, che l'art.
55-quater, comma 1, lettera b), riconduce il licenziamento
senza preavviso.
---------------
Su di un piano diverso si pone la visita fiscale, che nella
ratio della legge n. 150 del 2009 non è alternativa alla
certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica
o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario
nazionale, a cui deve rivolgersi il lavoratore.
Le Amministrazioni pubbliche, infatti, non sono più
obbligate a procedere sempre alla cd. visita fiscale, ma
(art. 55-septies, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001)
«dispongono per il controllo sulle assenze per malattia dei
dipendenti valutando la condotta complessiva del dipendente
e gli oneri connessi all'effettuazione della visita, tenendo
conto dell'esigenza di contrastare e prevenire
l'assenteismo».
Il controllo, infatti, è richiesto, in ogni caso, sin dal
primo giorno, solo quando l'assenza si verifica nelle
giornate precedenti o successive a quelle non lavorative.
---------------
Deve escludersi la configurabilità in astratto di
qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni
disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima
sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla
proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
Questa Corte ha affermato che la giusta causa di
licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione
degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in
particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice
valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al
lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva
dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati
commessi e all'intensità del profilo intenzionale,
dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione
inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento
fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore
di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima
sanzione disciplinare.
Quale evento "che non consente la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento
integra una clausola generale, che richiede di essere
concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei
fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei
principi tacitamente richiamati dalla norma.
---------------
3. Con il primo motivo è dedotta la violazione e/o
falsa applicazione degli artt. 55-quater, comma 1, lettera
b), 55-septies, del d.lgs. n. 165 del 2001, per avere
ritenuto che i certificati dei medici fiscali non
rappresentassero valida giustificazione dell'assenza per
malattia della ricorrente.
Assume la ricorrente che, essendo intervenuta visita
fiscale, all'esito della quale veniva rilasciato certificato
medico che confermava l'esistenza della patologia
inabilitante al lavoro, e facendo parte i medici fiscali di
una struttura sanitaria pubblica, la malattia era stata
certificata secondo quanto previsto dall'art. 55-septies del
d.lgs. n. 151 del 2001.
Erroneamente, quindi, la Corte d'Appello aveva affermato che
il certificato del medico curante o della struttura
sanitaria pubblica era l'unica documentazione giustificativa
dell'impedimento del dipendente a recarsi al lavoro.
3.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Occorre rilevare che l'art. 55-septies del d.lgs. n. 165 del
2001, introdotto dal decreto legislativo 27.10.2009, n. 150,
al comma 1, ha sancito che «nell'ipotesi di assenza per
malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni,
e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia
nell'anno solare l'assenza viene giustificata esclusivamente
mediante certificazione medica rilasciata da una struttura
sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il
Servizio sanitario nazionale».
Dunque, il legislatore ha inteso porre a carico del
lavoratore l'obbligo di attivarsi nei suddetti sensi, atteso
che, come previsto dall'art. 55-quater, comma 1, lettera b,
è prevista la sanzione disciplinare del licenziamento senza
preavviso in presenza di «assenza priva di valida
giustificazione per un numero di giorni, anche non
continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o
comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi
dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di
assenza ingiustificata, entro il termine fissato
dall'amministrazione».
Parallelamente all'obbligo che grava sul lavoratore di
rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica o ad un
medico convenzionato, potendo solo la certificazione
rilasciata dagli stessi giustificare l'assenza per malattia,
il legislatore (art. 55-septies, comma 2) ha stabilito che
quest'ultimi provvedano ad inviare la certificazione per via
telematica all'1NPS che, a sua volta, la inoltra
immediatamente all'Amministrazione interessata. Anche
l'inosservanza di tale obbligo di trasmissione costituisce
illecito disciplinare.
Dunque non è sufficiente che il lavoratore informi il datare
di lavoro dell'assenza per malattia, come avvenuto nella
specie, ma il lavoratore deve attivare, rivolgendosi per
l'accertamento del proprio stato di salute/malattia ad una
struttura sanitaria pubblica o ad un medico convenzionato
con il Servizio sanitario nazionale, il procedimento di cui
all'art. 55-septies, commi 1 e 2, che si conclude con
l'inoltro (e la ricezione) della certificazione medica al
datare di lavoro da parte dell'INPS.
Ed è alla mancanza di tale certificazione, che conforti la
ragione della malattia quale causa dell'assenza, che l'art.
55-quater, comma 1, lettera b), riconduce il licenziamento
senza preavviso.
Su di un piano diverso si pone, dunque, la visita fiscale,
che nella ratio della legge n. 150 del 2009 non è
alternativa alla certificazione rilasciata dalla struttura
sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il
Servizio sanitario nazionale, a cui deve rivolgersi il
lavoratore.
Le Amministrazioni pubbliche, infatti, non sono più
obbligate a procedere sempre alla cd. visita fiscale, ma
(art. 55-septies, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001) «dispongono
per il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti
valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri
connessi all'effettuazione della visita, tenendo conto
dell'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo».
Il controllo, infatti, è richiesto, in ogni caso, sin dal
primo giorno, solo quando l'assenza si verifica nelle
giornate precedenti o successive a quelle non lavorative.
Correttamente, quindi, la Corte d'Appello ha escluso che i
referti medici fiscali non potevano costituire valida
giustificazione alla assenza per malattia della Bu..
4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 22105, 2016 cc,
nonché degli artt. 55 e 55-quater del d.lgs. 165 del 2001,
per avere ritenuto che la ricorrente fosse consapevole della
necessità di munirsi di certificato del medico curante e per
aver ritenuto il giudice di non potere sindacare la
proporzionalità del licenziamento inflitto.
Assume la ricorrente che persiste la discrezionalità del
giudice, dovendosi valutare la gravità oggettiva e
soggettiva dell'inadempimento anche nel caso in esame,
verificando in concreto la gravità del fatto addebitato, in
particolare con riguardo ai motivi del comportamento e alle
circostanze in forza delle quali lo stesso è stato posto in
essere, tenuto conto anche delle norme e dei principi
generali di buona fede e correttezza. Nella specie, la
ricorrente assolveva all'obbligo di comunicare la propria
assenza per malattia e si era resa reperibile alla immediata
visita del medico fiscale.
4.1. Il motivo è fondato e deve essere accolto.
Come più volte affermato da questa Corte (Cass., n. 22798
del 2012), deve escludersi la configurabilità in astratto di
qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni
disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima
sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla
proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
Questa Corte, inoltre, ha affermato che la giusta causa di
licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione
degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in
particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice
valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al
lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva
dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati
commessi e all'intensità del profilo intenzionale,
dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione
inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento
fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore
di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima
sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la
giusta causa di licenziamento integra una clausola generale,
che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite
valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza
generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma
(Cass. n. 6498 del 2012).
Ciò precisato, deve rilevarsi che nella specie, ritenendo
legittima la sanzione espulsiva, escludendo di dover
vagliare la sussistenza della proporzionalità alla luce
delle circostanze concrete —quali la circostanza che la
visita fiscale era intervenuta, e in un breve arco di tempo,
dopo al comunicazione, e che la malattia era risultata
effettivamente sussistente— la Corte territoriale non ha
fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla
giurisprudenza richiamata (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 26.09.2016 n. 18858). |
EDILIZIA PRIVATA -
VARI: Bancomat a misura di disabile.
Obbligatorio il bancomat a misura di disabile. L'agenzia
dell'istituto di credito deve adeguare lo sportello in modo
che possa beneficiare del servizio anche chi è costretto
sulla sedia a rotelle. E ciò perché, quando è la legge a
imporre l'accessibilità a tutti, la fruizione deve essere
assicurata anche se manca il regolamento attuativo per la
modifica dello stato dei luoghi nell'edificio privato aperto
al pubblico. Diversamente, il disabile può rivolgersi al
giudice chiedendo la tutela antidiscriminatoria, che ben può
essere azionata nei confronti dei privati oltre che delle
amministrazioni pubbliche.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.09.2016 n. 18762, pubblicata dalla III Sez. civile
della Corte di Cassazione.
Accolto il ricorso proposto dal correntista della banca
contro la discriminazione delle persone diversamente abili.
Non conta che il regolamento di cui al dm 236/1989 non
contenga norme di dettaglio per predisporre lo sportello
all'utilizzo da parte di chi ha «ridotta o impedita
capacità motoria»: la barriera architettonica va
eliminata
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).
---------------
MASSIMA
3.- La sentenza è errata in diritto per le ragioni di cui
appresso.
L'accessibilità ai disabili è regolamentata da una
normativa,
statale e regionale, precisa ed obbligatoria, che, per
quanto
rileva in questa sede (limitatamente quindi agli edifici
privati aperti al pubblico), va ricostruita come segue.
L'art. 24 (intitolato all'<<eliminazione o superamento delle
barriere architettoniche>>) della legge 05.02.1992 n.
104
(«Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate») prevede, al primo
comma,
che «Tutte le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e
privati aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare
l'accessibilità e la visitabilità di cui alla legge 09.01.1989, n. 13, e successive modificazioni, sono eseguite in
conformità alle disposizioni di cui alla legge 30.03.1971,
n. 118, e successive modificazioni, al regolamento approvato
con decreto del presidente della repubblica 27.04.1978,
n.
384, alla citata legge n. 13 del 1989, e successive
modificazioni, e al citato decreto del ministro dei lavori
pubblici 14.06.1989, n. 236».
Disposizioni significative sono altresì contenute in
quest'ultimo decreto ministeriale (emanato in attuazione
della
legge 09.01.1989 n. 13 «Disposizioni per favorire il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche
negli edifici privati») e contenente le «prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità,
l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di
edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai
fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere
architettoniche».
E precisamente:
all'art. 1, che definisce il campo di applicazione,
comprendendovi, oltre agli edifici privati di nuova
costruzione, anche gli edifici ristrutturati (pur se
preesistenti alla data di entrata in vigore del decreto)
e gli spazi esterni di pertinenza;
all'art. 2, contenente le definizioni, per cui <<ai fini
del presente decreto:
a) per barriere architettoniche si intendono:
a) gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la
mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per
qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o
impedita
in forma permanente o temporanea;
b) gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la
comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature o
componenti;
c) la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono
l'orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle
fonti
di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti,
per gli ipovedenti e per i sordi.
_omissis_
g) per accessibilità si intende la possibilità, anche per
persone con ridotta o impedita capacità motoria o
sensoriale,
di raggiungere l'edificio e le sue singole unità immobiliari
e
ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e
attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e
autonomia.
_omissis_>>.
La legge della Regione Toscana 03.01.2005 n. 1 («Norme
per il governo del territorio. Ecologia»), successivamente
abrogata (dalla L.R. 10.11.2014 n. 65), è applicabile
al
caso di specie.
L'art. 37, lett. g), di questa legge, richiamato in ricorso,
rinvia, per quanto riguarda la qualità urbana, ambientale,
edilizia e di accessibilità del territorio,
«all'eliminazione delle barriere architettoniche ed
urbanistiche in conformità con quanto previsto dalla legge
regionale 09.09.1991, n. 47 (Norme sull'eliminazione
delle barriere architettoniche) da ultimo modificata dalla
presente legge regionale».
La legge del 1991, applicabile a
tutti gli edifici, pubblici e privati, ed in particolare
agli
edifici ed ai locali destinati ad attività produttive e
commerciali di qualunque tipo (art. 2 lett. d), è
finalizzata
a disciplinare l'attività dei soggetti pubblici e privati
per
conseguire gli obiettivi atti ad eliminare situazioni di
rischio, di ostacolo o di impedimento alla mobilità e
fruibilità generale comunemente definiti barriere
architettoniche e sensoriali - e reca prescrizioni nonché
individua incentivi per la sua attuazione.
Quanto alle
prescrizioni tecniche riguardanti gli edifici privati essa
rinvia al D.M. n. 236/1989, mentre la legge regionale n. 1
del
2005, prevede che la Regione, entro trecentosessantacinque
giorni dall'entrata in vigore della legge, avrebbe emanato
appositi regolamenti e istruzioni tecniche, contenenti
parametri di riferimento per i comuni. In attuazione di
questa
previsione è stato emanato il DPRG Toscana n. 41/r del 29.07.2009, che contiene anche delle norme riferite agli
arredi fissi delle banche utilizzati per le normali
operazioni
del pubblico, prevedendone la predisposizione in modo tale
da
essere almeno in parte accostabili da una sedia a ruote e da
permettere al disabile di espletare tutti i servizi (art.
21).
3.1. - Dato il quadro normativo di riferimento fin qui
esaminato, il Collegio ritiene che le leggi statali e
regionali su menzionate costituiscano la fonte normativa del
diritto soggettivo all'accesso (ovvero all'eliminazione
delle
barriere architettoniche) che va riconosciuto alle persone
con
disabilità nelle diverse situazioni previste dalle stesse
norme di legge.
Avuto riguardo all'argomento adoperato dalla Corte di
Appello
di Firenze per escludere il ricorso alla tutela di cui alla
legge l marzo 2006 n. 67 (e fatto salvo quanto si dirà a
proposito di quest'ultima), occorre precisare quanto segue
circa i rapporti tra le disposizioni legislative e quelle
regolamentari su elencate.
Il regolamento regionale n. 41/r del 2009 è inquadrabile, ai
sensi dell'art. 42 dello Statuto della Regione Toscana, tra
i
regolamenti di attuazione delle leggi regionali e si connota
per essere un regolamento esecutivo, in senso stretto, vale
a
dire un regolamento che pone norme di dettaglio delle norme
della legge regionale n. 1 del 2005.
Parimenti, è regolamento esecutivo (ai sensi dell'art. 17, co.
10, lett. a, della legge 23.08.1988 n. 400) il
regolamento
ministeriale di cui al D.M. n. 236 del 1989, in particolare,
quanto alle disposizioni contenenti le prescrizioni
strettamente tecniche.
Assolvendo entrambi ad una funzione meramente esecutiva, né
l'uno né l'altro possono condizionare l'attuazione dei
diritti riconosciuti dalla fonte normativa primaria, da cui
deriva la
loro ragione di esistenza e rispetto alla quale si pongono,
come riconosciuto dalla dottrina costituzionalista, in
posizione accessoria, strumentale e servente. In sintesi, il
regolamento esecutivo non aggiunge nulla alla disciplina di
legge per quanto attiene al suo oggetto, ma è funzionale
soltanto a consentirne e migliorarne, appunto, l'esecuzione.
Per tale ragione, se ne è evidenziata la natura strumentale
rispetto alla legge, in quanto se questa sancisce un
diritto,
il regolamento si limita a prescrivere le modalità con le
quali questo diritto possa essere garantito al meglio.
Ne consegue che, anche in mancanza di norme regolamentari di
dettaglio che dettino le caratteristiche tecniche di luoghi,
spazi, parti, attrezzature o componenti di un edificio o di
parti di questo, qualora l'accessibilità sia prevista dalle
norme di legge su richiamate in favore delle persone con
disabilità, questa dovrà comunque essere assicurata.
Si vuole, cioè, significare che -imposta dalla legge
l'eliminazione delle barriere architettoniche- questo
risultato dovrà comunque essere raggiunto nel caso concreto
-ove si determini una situazione di discriminazione (secondo
quanto appresso si dirà)- ed, in mancanza di apposite regole
tecniche di natura regolamentare, non potrà che essere
conseguito con accorgimenti di natura tecnica, sufficienti
allo scopo, non previsti dalla normativa secondaria, ma
nondimeno obbligatori in base alla fonte primaria.
3.2.- Prima di passare all'esame della legge n. 67 del
01.03.2006 s'impongono le seguenti notazioni.
La situazione oggetto di causa presenta la peculiarità che
l'accesso al "bancomat" non è assimilabile ad un accesso ad
un
luogo o ad uno spazio di un edificio o di un'unità
immobiliare, connotandosi piuttosto quale accesso ad
un'<<attrezzatura>>, facente parte di un edificio privato,
ma
destinata a fornire un servizio al pubblico degli utenti
(non
solo dei correntisti della banca).
Quindi, non si tratta
(solo) di garantire la possibilità di raggiungere
l'apparecchio (nel caso di specie, garantita al Belli), ma
di
assicurare l'utilizzabilità del "bancomat", cioè l'accesso
al
corrispondente servizio bancario (essendo quella di
"bancomat"
la denominazione -costituente marchio registrato- di un
servizio automatizzato che consente di effettuare operazioni
bancarie mediante tessera magnetica personale - secondo la
definizione contenuta in uno dei dizionari della lingua
italiana più accreditati).
Al dispositivo ben si attagliano in primo luogo le
previsioni
delle leggi statali e regionali su richiamate, ed in specie
l'art. 2, lett. d), della legge della Regione Toscana n.
47/1991, cui rinvia la legge regionale n. 1/2005, quanto
all'obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche
anche negli edifici e nei locali destinati ad attività
produttive e commerciali di qualunque tipo.
Vi si attagliano altresì le previsioni del regolamento di
cui
al D.M. n. 236/1989, e precisamente:
- gli artt. 1 (che dispone anche per gli edifici privati,
di nuova costruzione o ristrutturati) e 2, lett. A),
punto b), quanto all'ambito di applicazione della
normativa sull'eliminazione delle barriere
architettoniche (essendo tali anche <<tutti gli ostacoli
che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura
utilizzazione di attrezzature>>) e l'art. 2, lett. G),
quanto alla nozione di accessibilità (da intendersi come
<<possibilità, anche per persone con ridotta o impedita
capacità motoria, non solo di raggiungere gli edifici>>,
nonché -come appena detto- i locali destinati ad attività
produttive e commerciali di qualunque tipo, ma anche «di
fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata
autonomia»). La situazione di fatto di inaccessibilità
concretamente accertata dal giudice di merito -in sé non
contestata- è quindi riconducibile sia alle previsioni
delle leggi statali n. 104/1992, art. 24, e n. 13/1989,
sia alle previsioni della legge della Regione Toscana n.
1/2005, art. 37, sia alle previsioni del D.M. n.
236/1989, artt. 1 e 2, della cui immediata applicazione
il giudice di merito si sarebbe dovuto fare carico.
Né può diversamente argomentarsi solo perché l'apparecchio
"bancomat" è stato installato dall'istituto di credito in un
edificio preesistente, ma non ristrutturato nell'occasione.
La definizione regolamentare di "ristrutturazione",
contenuta
nell'art. 2, lett. L), del D.M. n. 236/1989, che rimanda alla
categoria di interventi di cui al titolo IV art. 31, lett. d),
della legge n. 457 del 1978, è sufficientemente estesa da
comprendervi la modifica o la sostituzione, in un edificio
preesistente, non solo dei suoi elementi costitutivi o degli
impianti veri e propri, ma anche di elementi non
necessariamente costitutivi, purché destinati ad
incrementarne
la fruizione in conformità alla destinazione impressa
all'edificio (tra cui rileva, come detto, quella ad attività
produttive e commerciali).
D'altronde, la disposizione
regolamentare dell'art. 2, lett. L) va interpretata nel
contesto delle altre disposizioni di cui si è detto sopra,
per
le quali costituiscono barriere architettoniche non soltanto
gli ostacoli che impediscano il raggiungimento di luoghi e
spazi, ma ogni altro ostacolo che impedisca o limiti
l'utilizzazione autonoma e sicura di "attrezzature o
componenti".
L'ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere
architettoniche e di accessibilità rende la normativa
sull'obbligo dell'eliminazione delle prime, e sul diritto
alla
seconda per le persone con disabilità, immediatamente
precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia
legittima giustificazione la discriminazione o la situazione
di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime. E'
perciò loro consentito il ricorso alla tutela
antidiscriminatoria, quando l'accessibilità sia impedita o
limitata, a prescindere, come si dirà, dall'esistenza di una
norma regolamentare apposita che attribuisca la
qualificazione
di barriera architettonica ad un determinato stato dei
luoghi.
3.3. - Un dato di fatto ulteriore da sottolineare è la
mancanza
nel regolamento di cui al D.M. n. 236/1989 di una
disposizione
vincolante specificamente volta a dettare le caratteristiche
tecniche dei dispositivi "bancomat" installati nei locali
aperti al pubblico degli istituti di credito.
Siffatta mancanza, tuttavia, non consente affatto, come
ritenuto dal giudice a quo, la mancata applicazione al caso
di
specie di norme di legge e di regolamento della cui
obbligatorietà si è ampiamente detto.
Già per le ragioni fin qui esposte risultano fondati i primi
due motivi di ricorso, per la parte in cui richiamano la
normativa sull'eliminazione delle barriere architettoniche
negli edifici privati, nonché il terzo, limitatamente alle
censure sub a), b) e c), in quanto va affermato il principio
di diritto, secondo cui <<In materia di
eliminazione di barriere architettoniche, ai sensi della
legge 05.02.1992 n. 104, art. 24, e della legge 09.01.1989
n. 13, oltre che delle leggi della Regione Toscana
03.01.2005 n. 1, art. 37 lett. g) e 09.09.1991, n. 47
(applicabili ratione temporís), qualora si verta in una
situazione di fatto in cui le norme di queste leggi
prevedano come obbligatoria l'accessibilità in favore delle
persone con disabilità, questa dovrà comunque essere
assicurata, anche in mancanza di norme regolamentari di
dettaglio che dettino le caratteristiche tecniche che
luoghi, spazi, parti, attrezzature o componenti di un
edificio o di parti di questo debbano avere per consentire
l'accesso.
Ne consegue che costituisce barriera
architettonica, che va eliminata, l'ostacolo alla comoda ed
autonoma utilizzazione, da parte di persone con ridotta o
impedita capacità motoria, di un dispositivo "bancomat"
installato da un istituto di credito nell'edificio privato,
ma aperto al pubblico, in cui ha sede una propria agenzia,
senza che rilevi che il regolamento di cui al D.M.
14.06.1989, n. 236, di esecuzione delle leggi statali e
regionali predette, non contenga norme di dettaglio che
prevedano specificamente la predisposizione da parte della
banca dell'apparecchio, in modo tale da permettere al
disabile dì espletare il servizio corrispondente.>>.
4.- Una volta qualificata come barriera architettonica
l'ostacolo all'utilizzazione da parte del Be. (persona con
disabilità di cui all'art. 3 della legge 05.02.1992 n.
104) del dispositivo "bancomat" di nuova installazione, il
mancato adeguamento dell'apparecchio in modo da consentirne
l'utilizzazione da parte di persona con ridotta capacità
motoria determina, attualmente, una discriminazione in
pregiudizio di quest'ultima, riconducibile all'art. 2 della
legge 01.03.2006 n. 67, come sostenuto col primo motivo di
ricorso.
In un caso quale quello di specie, in cui, come si è visto,
la
legge n. 104/1992 e tutta la normativa in materia di
eliminazione delle barriere architettoniche avrebbero
assicurato comunque la tutela, la legge n. 67 del 2006 si
pone
come strumento di tutela ulteriore e più efficace,
assicurata
-per quanto qui rileva- dalle previsioni sulla tutela
giurisdizionale contenute nell'art. 3.
Va premesso che la norma applicabile ratione temporis è
quella
vigente prima della modifica del primo comma dell'art. 3 e
dell'abrogazione degli altri comma ai sensi dell'art. 34 del
decreto legislativo 01.09.2011 n. 150, in quanto il
presente giudizio è stato instaurato prima dell'entrata in
vigore di questo decreto ed, a norma dell'art. 36, le norme
abrogate o modificate continuano ad applicarsi alle
controversie pendenti.
4.1. - La legge n. 67 del 2006 pone un divieto di
discriminazione delle persone disabili non solo nei rapporti
pubblici ma anche nei rapporti privati, atteso il disposto
dell'art. 1. Questo, per un verso, richiama l'art. 3 della
Costituzione, norma precettiva anche nei rapporti tra
privati,
e, per altro verso, pone come finalità della legge quella di
«garantire ... il pieno godimento dei diritti civili,
politici,
economici e sociali>>, senza alcuna limitazione soggettiva
dei
destinatari dell'obbligo di non discriminazione.
Quanto alla nozione di discriminazione, l'art. 2, dopo aver
richiamato al primo comma il principio di parità di
trattamento, è chiaro nel richiedere, per l'accesso alla
tutela antidiscriminatoria, la diversità di trattamento per
motivi connessi alla disabilità (comma secondo, relativo
alla
discriminazione diretta) o la posizione di svantaggio in cui
la persona con disabilità venga a trovarsi rispetto ad altre
persone (comma terzo, relativo alla discriminazione
indiretta).
In una prima approssimazione può dirsi che il
limite oggettivo della tutela, soprattutto nei confronti dei
privati, è dato dalla mancanza di giustificazione della
diversità di trattamento o della posizione di svantaggio
desumibile dalla legislazione vigente; vale a dire che l'una
e
l'altra di queste situazioni danno luogo alla tutela
antidiscriminatoria ogniqualvolta esse non siano
giustificate
da norme di legge preminenti (fatto salvo il vaglio di
legittimità costituzionale di queste ultime).
Nel caso di specie, peraltro, non è dato nemmeno discutere
di
deroghe al principio di parità di trattamento, e quindi di
limiti soggettivi od oggettivi della tutela, dato che, per
quanto detto sopra, nel caso dell'accessibilità da garantire
ai disabili, è la stessa legislazione ordinaria, statale e
regionale, ad imporre il correlato dovere sia ai soggetti
pubblici che ai soggetti privati, fino al limite oggettivo
costituito dall'impossibilità tecnica di realizzare detta
accessibilità (cfr. Cass. n. 18147/2013, che, in riferimento
all'accessibilità architettonica agli edifici privati in
condominio, ha avuto modo di precisare che «Al fini della
legittimità della deliberazione adottata dall'assemblea dei
condomini ai sensi dell'art. 2 della legge 09.01.1989,
n.
13, l'impossibilità di osservare, in ragione delle
particolari
caratteristiche dell'edificio (nella specie, di epoca
risalente), tutte le prescrizioni della normativa speciale
diretta al superamento delle barriere architettoniche non
comporta la totale inapplicabilità delle disposizioni di
favore, finalizzate ad agevolare l'accesso agli immobili dei
soggetti versanti in condizioni di minorazione fisica,
qualora
l'intervento (nella specie, installazione di un ascensore in
un cavedio) produca, comunque, un risultato conforme alle
finalità della legge, attenuando sensibilmente le condizioni
di disagio nella fruizione del bene primario
dell'abitazione»; cfr., nello stesso senso, anche Cass. n.
14096/2012).
4.2. - Essendo l'accessibilità, come sopra intesa, un
obiettivo
da realizzare per legge, possono dare luogo a
discriminazione
indiretta, ai sensi dell'art. 3, coma terzo, della legge n.
67 del 2006 (per il quale «si ha discriminazione indiretta
quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto,
un
patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una
persona con disabilità in una posizione di svantaggio
rispetto
ad altre persone»), anche le disposizioni regolamentari che
determinino o mantengano una situazione di inaccessibilità.
L'espressione «disposizione ... apparentemente neutra» che
mette «una persona con disabilità in una posizione di
svantaggio rispetto ad altre persone», contenuta nel comma
su
richiamato, va perciò riferita anche ai regolamenti. Questi,
a
differenza della legge -che è assoggettabile al giudizio di
legittimità costituzionale quando sospettata di creare
discriminazioni in violazione dell'art. 3 della
Costituzione-,
se, nel dettare norme di dettaglio, creano discriminazione
(soprattutto quando non siano fedeli alla legge cui danno
attuazione), vanno disapplicati dal giudice ordinario,
proprio
in ossequio al disposto dell'art. 2, coma terzo, della legge
n. 67 del 2006.
Parimenti, ove il regolamento ometta di provvedere su una
obiettiva situazione di inaccessibilità per il disabile -che
sia riconducibile alla nozione di barriera architettonica da
eliminare- ci si troverà in presenza di una discriminazione
indiretta da «comportamento» omissivo, cui il giudice deve
porre rimedio ai sensi degli artt. 2, comma terzo, e 3 della
legge n. 67 del 2006.
Quest'ultimo articolo, al comma terzo (applicabile ratione
temporis), non solo consente, ma impone al giudice che abbia
riscontrato una situazione di discriminazione di una
determinata persona con disabilità di ordinarne la
cessazione
e di adottare <<ogni altro provvedimento idoneo, secondo le
circostanze, a rimuovere gli effetti della
discriminazione>>.
In tale eventualità, la tutela più efficace garantita dalla
legge n. 67 del 2006 consente al giudice di dettare quegli
accorgimenti tecnici che, nel caso concreto, consentano
l'accesso altrimenti negato o reso difficile.
In conclusione, va affermato il principio di diritto per il
quale <<In materia di misure per la
tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di
discriminazioni, costituisce discriminazione, ai sensi
dell'art. 2 della legge 01.03.2006 n. 67, la situazione di
inaccessibilità ad un edificio privato aperto al pubblico
determinata dall'esistenza di una barriera architettonica
-tale qualificabile ai sensi della legge 09.01.1989 n. 13 e
dell'art. 2 del D.M. 14.06.1989, n. 236- che ponga una
persona con disabilità (di cui all'art. 3 della legge
05.02.1992 n. 104) in una posizione di svantaggio rispetto
ad altre persone.
E' perciò consentito anche nei confronti
di privati il ricorso alla tutela antidiscriminatoria di cui
all'art. 3 della legge n. 67 del 2006, applicabile ratione
temporis, quando l'accessibilità sia impedita o limitata, a
prescindere dall'esistenza di una norma regolamentare
apposita che, attribuendo la qualificazione di barriera
architettonica ad un determinato stato dei luoghi, detti le
norme di dettaglio per il suo adeguamento>>.
5.- Le conclusioni dell'atto introduttivo della presente
controversia sono riportate nei seguenti termini, sia nel
ricorso che nel controricorso:
«accertare e dichiarare la illegittimità dello sportello
bancomat della Agenzia di Unieredit Banca S.p.a. "Firenze
Baccio" di via Laccio da Plontelupo 32/e a Firenze rispetto
alla normativa relativa alle barriere architettoniche ed al
divieto di discriminazione delle persone disabili; accertare
e
dichiarare che la illegittima condizione dello sportello
bancomat della Agenzia di Unicredit Banca S.p.a. "Firenze
Baccio' di via Baccio da Montelupo 32/e a Firenze integra
gli
estremi di una condotta discriminatoria nel confronti del
ricorrente, disabile; per l'effetto ordinare a Unicredit
Banca
S.p.a., la cessazione della condotta discriminatoria,
emanando ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti
della discriminazione, ivi compreso l'ordine di adottare,
entro fissando termine, un plano di rimozione della
discriminazione (anche disponendo l'obbligo di sostituire
l'attuale apparecchio bancomat presente nella Agenzia di
Unicredit Banca S.p.a. "Firenze Baccio" di via Baccio da
Montelupo 32/e a Firenze con uno nel rispetto delle
specifiche
funzionali e dimensionali stabilite dalla legge)..».
Non è riscontrabile alcuna modifica di causa petendi e di
petitum in corso di causa (come sostenuto dalla difesa della
banca resistente, in appello e nella discussione orale
dinanzi
a questa Corte), atteso che, dato il petitum appena
riportato
(rimasto fermo per tutto il corso del giudizio), a
fondamento
dell'azione il Be. ha posto le normative sull'eliminazione
delle barriere architettoniche e sulla tutela
antidiscriminatoria.
Queste contengono tutti gli elementi di
diritto costituenti le ragioni della domanda, mentre unico
fatto rilevante ai fini della causa petendi è dato
dall'impossibilità della persona con disabilità di cui
all'art. 3 della legge n. 104/1992 di usufruire del servizio
"bancomat": negli uni e nell'altro consiste la
causa petendi
(arg. ex art. 163 n. 4 cod. proc. civ.), essendo del tutto
irrilevanti ai fini dell'individuazione della domanda le
cause
tecniche dell'inaccessibilità (piano d'appoggio troppo alto
o
altrimenti inadeguato, presenza di gradini, collocazione di
cestino porta carta o di altri accessori e così via) e le
modalità di intervento richieste per porvi rimedio (sulle
quali si tornerà, precisandosi sin d'ora che la richiesta di
parte non vincola in alcun modo il giudice).
5.1.- La sentenza di secondo grado che, pronunciando sulla
domanda, ne ha confermato il rigetto ha violato entrambe le
normative poste a suo fondamento.
La violazione sussisterebbe anche a voler ritenere, così
come
ha ritenuto la Corte d'appello, l'applicabilità al caso di
specie di determinate norme del regolamento di cui al D.M.
n.
236/1989. Queste, ove constatate come inadeguate a
raggiungere
lo scopo, avrebbero dovuto essere disapplicate dal giudice
perché fonte di discriminazione indiretta.
La violazione sussiste comunque anche ritenendo -secondo
quella che risulta essere la linea difensiva dell'istituto
di
credito qui resistente- che, all'epoca dell'installazione
del
"bancomat", non vi fossero norme di dettaglio volte a
disciplinare specificamente le caratteristiche tecniche del
dispositivo, onde renderlo utilizzabile da parte di persona
con un tipo di disabilità quale quella di cui è portatore il
ricorrente.
Questa constatata mancanza di disposizioni regolamentari vincolanti comporta, a sua volta, una
discriminazione indiretta, se, come nella specie, pone la
persona con disabilità in una situazione di svantaggio la
quale, non solo non è giustificata, ma è addirittura da
rimuovere in forza delle disposizioni di legge vincolanti
sull'eliminazione delle barriere architettoniche.
I criteri
tecnici da seguire per siffatta rimozione vanno individuati
dal giudice di merito, avvalendosi anche delle norme
regolamentari sopravvenute, se idonee allo scopo, essendo
rimessa alla sua discrezionalità l'adozione «di ogni altro
provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere
gli
effetti della discriminazione» ai sensi dell'art. 3 della
legge n. 67 del 2006.
I primi tre motivi di ricorso vanno perciò accolti (il
terzo,
per quanto di ragione) e la sentenza impugnata va cassata. |
INCARICHI PROGETTUALI - LAVORI PUBBLICI: L'azione
di responsabilità contabile nei confronti del direttore dei
lavori va esercitata presso la Corte dei Conti, mentre per
quella nei confronti del progettista sussiste la
giurisdizione del giudice ordinario.
Il direttore dei lavori per la realizzazione di
un'opera pubblica, appaltata da un'amministrazione comunale,
in considerazione dei compiti e delle funzioni che gli sono
devoluti, che comportano l'esercizio di poteri autoritativi
nei confronti dell'appaltatore e l'assunzione della veste di
"agente", deve ritenersi funzionalmente e temporaneamente
inserito nell'apparato organizzativo della pubblica
amministrazione che gli ha conferito l'incarico, quale
organo tecnico e straordinario della stessa, con la
conseguenza che, con riferimento alla responsabilità per
danni cagionati nell'esecuzione dell'incarico stesso, è
soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti ai sensi
dell'art. 52, primo comma, r.d. 12.07.1934 n. 1214.
Detto rapporto di servizio non è invece configurabile tra la
stazione appaltante ed il progettista di un'opera
pubblica, il cui elaborato deve essere fatto proprio
dall'amministrazione mediante specifica approvazione,
versandosi in tal caso in un'ipotesi, non di inserimento del
soggetto nell'organizzazione dell'amministrazione, ma di
contratto d'opera professionale, con la conseguenza che, con
riferimento alla responsabilità per danni cagionati
all'amministrazione comunale dal progettista,
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
---------------
PREMESSO
La Procura regionale presso la sezione giurisdizionale
della Corte dei conti per la Puglia ha convenuto davanti a
detta Sezione gli ingegneri Fr.Ch. e Do.Fo. per
responsabilità amministrativa nei confronti dei Comune di
Andria, il quale era stato condannato in sede civile al
risarcimento dei danni subiti dall'impresa appaltatrice a
causa della inidoneità e inadeguatezza della progettazione
dei lavori dalla stessa eseguiti per conto del Comune:
lavori progettati e diretti dai predetti professionisti.
L'ing. Ch. ha presentato istanza di regolamento di
giurisdizione contestando la giurisdizione della Corte dei
conti e sostenendo invece quella dei giudice ordinario.
Le parti intimate non hanno svolto difese.
Il P.M. ha concluso per iscritto, ai sensi dell'art. 380-ter
c.p.c., chiedendo dichiararsi la giurisdizione dell'a.g.o.
CONSIDERATO
Il direttore dei lavori per la realizzazione di
un'opera pubblica, appaltata da un'amministrazione comunale,
in considerazione dei compiti e delle funzioni che gli sono
devoluti, che comportano l'esercizio di poteri autoritativi
nei confronti dell'appaltatore e l'assunzione della veste di
"agente", deve ritenersi funzionalmente e
temporaneamente inserito nell'apparato organizzativo della
pubblica amministrazione che gli ha conferito l'incarico,
quale organo tecnico e straordinario della stessa, con la
conseguenza che, con riferimento alla responsabilità per
danni cagionati nell'esecuzione dell'incarico stesso, è
soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti ai sensi
dell'art. 52, primo comma, r.d. 12.07.1934 n. 1214 (norma
che, in virtù dell'art. 58 l. 08.06.1990, n. 142, ora art.
93 d.lgs. 18.08.2000, n. 267, è divenuta applicabile agli
amministratori ed al personale degli enti locali, la cui
posizione era in precedenza regolata dalle disposizioni
degli artt. 251 e ss. r.d. 03.03.1934, n. 383).
Detto rapporto di servizio non è invece configurabile tra la
stazione appaltante ed il progettista di un'opera
pubblica, il cui elaborato deve essere fatto proprio
dall'amministrazione mediante specifica approvazione,
versandosi in tal caso in un'ipotesi, non di inserimento del
soggetto nell'organizzazione dell'amministrazione, ma di
contratto d'opera professionale, con la conseguenza che, con
riferimento alla responsabilità per danni cagionati
all'amministrazione comunale dal progettista,
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario (cfr., tra
le molte, Cass. Sez. Un. 3165/2011, 28537/2008, 7446/2008,
340/2003, 188/1999).
Nella specie la responsabilità amministrativa dei convenuti
deriva, secondo la Procura contabile, dalla condanna subita
dal Comune per difetti riguardanti la progettazione dei
lavori; dunque è basata sulla qualità di progettisti dei
convenuti stessi.
Sussiste pertanto la giurisdizione del giudice ordinario
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 23.09.2016 n. 18691). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della configurabilità del reato previsto
dall'art. 256, commi 1-3, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, i
materiali provenienti da demolizione debbono essere
qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto
oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che
l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei
presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un
regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al
"deposito temporaneo" o al "sottoprodotto".
---------------
In tema di gestione di rifiuti, l'accertamento della
pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il
rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi
fissate dalla norma tecnica UNI 10802 (richiamata dall'art.
8 del D.M. 05.02.1998), trattandosi di un insieme di
disposizioni prive di portata generale vincolante, dirette
unicamente allo scopo di disciplinare le analisi effettuate
a cura del titolare dell'impianto di produzione dei rifiuti.
---------------
3. I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza
dei motivi.
L'accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto ai
sensi dell'art. 183 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 costituisce
una "quaestio facti", come tale demandata al giudice
di merito ed insindacabile in sede di legittimità se
sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici
(Sez. 3, n. 7037 del 18/01/2012 - dep. 22/02/2012, Fiorenza,
Rv. 252445).
Nel caso di specie le sentenze di merito (doppia conforme)
con motivazione adeguata, immune da manifeste illogicità o
contraddittorietà, hanno accertato la natura di rifiuti
(materiali provenienti da demolizioni) escludendo trattarsi
di rocce o materiali da scavo; ciò sulla base della
visualizzazione di documentazione fotografica, e della
documentazione inerente lo smaltimento (vedi pagina 6 della
sentenza impugnata) e dall'assenza di prova sulla totale
provenienza del materiale dalla ditta Sa. s.r.l..
Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art.
256, commi 1-3, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali
provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal
giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati
all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova
della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per
l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale
quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto"
(Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015 - dep. 08/07/2015, Favazzo
e altro, Rv. 264121).
Le sentenze di merito hanno fatto buon uso di questo
principio giurisprudenziale della Cassazione.
La presenza di amianto e la qualificazione di rifiuti viene
desunta dalla Corte di appello, nella sentenza impugnata,
dalla documentazione (carteggio) del Ci. e del Comune di
Atri, sezione V Urbanistica ed Ambiente. Inoltre i
ricorrenti non hanno fornito alcuna prova della
riutilizzazione del materiale di demolizione, tale da
poterlo assimilare al regime previsto per rocce e terre da
scavo.
In tema di gestione di rifiuti, l'accertamento della
pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il
rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi
fissate dalla norma tecnica UNI 10802 (richiamata dall'art.
8 del D.M. 05.02.1998), trattandosi di un insieme di
disposizioni prive di portata generale vincolante, dirette
unicamente allo scopo di disciplinare le analisi effettuate
a cura del titolare dell'impianto di produzione dei rifiuti
(Sez. 3, n. 1987 del 08/10/2014 - dep. 16/01/2015, Zucca e
altro, Rv. 261786) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.09.2016 n. 39372). |
EDILIZIA PRIVATA: Nelle
controversie relative al rispetto delle distanze legali tra
costruzioni:
- la giurisdizione del giudice ordinario presuppone che la
lite si svolga tra privati, l'uno dei quali pretenda la
reintegrazione del suo diritto di proprietà, che assume leso
dalla costruzione eseguita dall'altro in violazione delle
norme legislative o regolamentari in materia edilizia. In
tal caso, il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione,
vertendosi in tema di assunta violazione di un diritto
soggettivo, può incidentalmente accertare l'eventuale
illegittimità della concessione edilizia, al fine di
disapplicarla;
- se, invece, la controversia sia insorta tra il privato e
la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato
detta concessione al fine di ottenerne l'annullamento nei
confronti della seconda, la giurisdizione spetta al giudice
amministrativo.
----------------
2) Il ricorso è infondato.
Queste Sezioni Unite hanno più volte avuto modo di affermare
che, nelle controversie relative al rispetto delle distanze
legali tra costruzioni, la giurisdizione del giudice
ordinario presuppone che la lite si svolga tra privati,
l'uno dei quali pretenda la reintegrazione del suo diritto
di proprietà, che assume leso dalla costruzione eseguita
dall'altro in violazione delle norme legislative o
regolamentari in materia edilizia.
In tal caso, il giudice ordinario, cui spetta la
giurisdizione, vertendosi in tema di assunta violazione di
un diritto soggettivo, può incidentalmente accertare
l'eventuale illegittimità della concessione edilizia, al
fine di disapplicarla. Se, invece, la controversia sia
insorta tra il privato e la pubblica amministrazione, per
avere il primo impugnato detta concessione al fine di
ottenerne l'annullamento nei confronti della seconda, la
giurisdizione spetta al giudice amministrativo (cfr. Cass.
Sez. Un. Cass. Sez. Un. 04.10.1996 n. 8688; Cass. Sez. Un.
01.07.2002 n. 9555; Cass. Sez. Un. 16.06.2014 n. 13673).
Nella specie, Pe.Fr. e In.Nu. hanno impugnato la concessione
in sanatoria rilasciata dal Comune di Partitico in favore di
In.Bi. e Mi.Ma., chiedendone l'annullamento.
La controversia, pertanto, avendo ad oggetto l'impugnazione
di un provvedimento di una pubblica amministrazione in
materia edilizia, appartiene alla giurisdizione del giudice
amministrativo
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 22.09.2016 n. 18571). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
riconoscimento del danno da ritardo -relativo ad un
interesse legittimo di ordine pretensivo- non può restare
avulso da una valutazione di merito sulla spettanza del bene
sostanziale della vita e deve essere, quindi, subordinato,
tra l'altro, anche alla dimostrazione che l'aspirazione al
provvedimento sia probabilmente destinata ad un esito
favorevole e, dunque, alla prova della spettanza definitiva
del bene sostanziale della vita collegato a un tale
interesse.
L'art. art. 2-bis l. 241/1990, introdotto dall'art. 7, comma
1, lett. c), l. 18.06.2009, n. 69, non ha infatti elevato a
distinto bene della vita suscettibile di un’autonoma
protezione mediante il risarcimento del danno, l'interesse
procedimentale al rispetto dei termini dell'azione
amministrativa, scisso dal riferimento alla spettanza del
bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è
finalizzato: del resto, rispetto al principio dell’atipicità
dell’illecito civile, si tratta qui di una fattispecie sui
generis, specifica e peculiare, da ricondurre alla clausola
generale dell’art. 2043 Cod. civ. per l’identificazione
degli elementi costitutivi della responsabilità civile.
Di conseguenza l’ingiustizia e la sussistenza del danno non
possono, in principio, presumersi iuris tantum, in meccanica
relazione al mero fatto temporale del ritardo o del silenzio
nell’adozione del provvedimento; in aggiunta il danneggiato
deve piuttosto, ex art. 2697 Cod. civ., dimostrare la
sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito
civile, dunque della sua domanda risarcitoria: in
particolare sia degli elementi oggettivi (prova del danno e
del suo ammontare, ingiustizia, nesso causale), sia
dell’elemento soggettivo (dolo o colpa del danneggiante).
Così, ai fini risarcitori sono richiesti, in aggiunta alla
violazione dei termini procedimentali, l’imputabilità della
violazione a dolo o colpa dell’amministrazione, il nesso di
causalità tra ritardo e danno patito, nonché la
dimostrazione del pregiudizio lamentato.
---------------
Merita accoglimento la censura con cui la Regione Molise
deduce l’insussistenza del denunciato ritardo nella
conclusione del procedimento.
L’art. 2-bis della legge 07.08.1990, n. 241 stabilisce: «Le
pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'articolo
1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno
ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del procedimento».
In linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale,
ritiene il Collegio che detta norma vada interpretata nel
senso che il riconoscimento del danno da ritardo -relativo,
come nella specie, ad un interesse legittimo di ordine
pretensivo- non possa restare avulso da una valutazione di
merito sulla spettanza del bene sostanziale della vita e che
vada, quindi, subordinato, tra l'altro, anche alla
dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento sia
probabilmente destinata ad un esito favorevole e, dunque,
alla prova della spettanza definitiva del bene sostanziale
della vita collegato a un tale interesse.
Il menzionato art. 2-bis, introdotto dall'art. 7, comma 1,
lett. c), l. 18.06.2009, n. 69, non ha infatti elevato a
distinto bene della vita suscettibile di un’autonoma
protezione mediante il risarcimento del danno, l'interesse
procedimentale al rispetto dei termini dell'azione
amministrativa, scisso dal riferimento alla spettanza del
bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è
finalizzato (cfr., fra le tante, Cons. Stato, III,
12.03.2015, n. 1287; IV, 01.07.2014, n. 3295 e 06.04.2016,
n. 1371; V, 11.07.2016, n. 3059): del resto, rispetto al
principio dell’atipicità dell’illecito civile, si tratta qui
di una fattispecie sui generis, specifica e peculiare, da
ricondurre alla clausola generale dell’art. 2043 Cod. civ.
per l’identificazione degli elementi costitutivi della
responsabilità civile; di conseguenza l’ingiustizia e la
sussistenza del danno non possono, in principio, presumersi
iuris tantum, in meccanica relazione al mero fatto
temporale del ritardo o del silenzio nell’adozione del
provvedimento; in aggiunta il danneggiato deve piuttosto, ex
art. 2697 Cod. civ., dimostrare la sussistenza di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito civile, dunque della sua
domanda risarcitoria: in particolare sia degli elementi
oggettivi (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia,
nesso causale), sia dell’elemento soggettivo (dolo o colpa
del danneggiante) (Cons. Stato, V, 13.01.2014, n. 63).
Così, per quanto qui rileva in particolare, ai fini
risarcitori sono richiesti, in aggiunta alla violazione dei
termini procedimentali, l’imputabilità della violazione a
dolo o colpa dell’amministrazione, il nesso di causalità tra
ritardo e danno patito, nonché la dimostrazione del
pregiudizio lamentato (Cons. Stato, IV, 26.07.2016, n. 3376
e 12.11.2015, n. 5143; III, 23.04.2015, n. 2040; V,
09.03.2015, n. 1182)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.09.2016 n. 3920 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Danni
per cattiva esecuzione delle opere: responsabilità in solido
tra appaltatore e direttore lavori.
Cassazione: la responsabilità solidale si configura anche se
le negligenze dell'impresa e del direttore dei lavori sono
autonome tra loro.
In tema di contratto di appalto, qualora il danno subito dal
committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti
dell'appaltatore e del direttore dei lavori,
entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo
sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le
azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo
efficiente a produrre l'evento, a nulla rilevando che le
stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o
violazioni di norme giuridiche diverse.
Si è affermato, in particolare, che la solidarietà fra
coobbligati trova fondamento nel principio di cui all'art.
2055 cod. civ., il quale, anche se dettato in tema di
responsabilità extracontrattuale, si estende all'ipotesi in
cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo
di responsabilità contrattuale.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Il Condominio di via ... 3 a Torino convenne in lite
l'impresa individuale Br.Ce., cui aveva commissionato opere
di manutenzione del tetto e della facciata condominiale, e
Ro.Ca., incaricato della direzione dei lavori, per ottenerne
la condanna al risarcimento dei danni derivati dalla cattiva
esecuzione delle opere.
I convenuti si costituirono chiedendo il rigetto della
domanda.
Il Ca., in particolare, evidenziò che le modalità esecutive
delle opere erano state accertate nel corso di un
procedimento per accertamento tecnico preventivo cui egli
non aveva preso parte; ricondusse i danni lamentati da
alcuni condòmini alle opere che gli stessi avevano
effettuate in autonomia nelle rispettive proprietà; contestò
la propria responsabilità e chiese, in ogni caso, che in
caso di accoglimento della domanda fosse accertata la
ripartizione delle responsabilità con l'impresa
appaltatrice.
Il Tribunale accolse la domanda, condannando entrambi i
convenuti in solido.
2. Sull'appello proposto dal Ca., la Corte d'Appello di
Torino determinò la quota di responsabilità del predetto in
misura del 30%, confermando per il resto la sentenza.
La corte, in particolare, rilevò che la cattiva esecuzione
delle opere era emersa dall'istruttoria condotta nel corso
del giudizio, ed in particolare dalla consulenza tecnica
esperita nel contraddittorio di tutte le parti; ritenuto poi
-in accordo col tribunale- che l'opera presentasse gravi
difetti rilevanti ex art. 1669 c.c., ribadì la
responsabilità solidale dell'impresa e del direttore dei
lavori, ciascuno per avervi dato causa con le proprie azioni
od omissioni; a tale proposito ritenne censurabile l'operato
del Ca. per aver questi rilevata la presenza di vizi
soltanto sei mesi dopo l'ultimazione delle opere e la
consegna dell'immobile da parte dell'impresa; reputò infine
tale comportamento incidente sui danni complessivi nella
misura sopra indicata.
La Corte accolse peraltro anche il gravame incidentale
interposto dal condominio in punto alla misura delle spese
di causa, erroneamente liquidate dal tribunale con
riferimento alla sola fase di istruzione preventiva.
3. Il Ca. ha proposto ricorso per cassazione affidato a
cinque motivi. Il condominio e l'impresa Ce. hanno
depositato controricorso. Il ricorrente ha depositato
memoria ex art. 378 c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
...
6. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia
violazione di legge in relazione all'affermazione della sua
responsabilità in solido con quella dell'impresa
appaltatrice.
Sostiene per un verso la ricorrenza di un'ipotesi che
esclude la solidarietà fra coobbligati, fondandosi le
rispettive responsabilità su un diverso titolo giuridico (ed
in specie: il contratto di appalto concluso con l'impresa e
il distinto incarico professionale conferitogli).
Sotto altro profilo, che investe anche l'aspetto della
motivazione, lamenta poi che la corte lo avrebbe ritenuto
responsabile per il sol fatto dell' inadempimento
dell'impresa appaltatrice.
6.1 Sotto entrambi i profili il motivo è infondato.
Quanto all'ultimo, si è già osservato che la corte ha
espressamente individuato e descritto l'autonoma condotta
del Ca., connotandola di negligenza rispetto agli obblighi
del professionista incaricato della direzione dei lavori.
Quanto al primo, poi, la corte ha fatto buon governo del
principio giurisprudenziale secondo cui "in tema di
contratto di appalto, qualora il danno subito dal
committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti
dell'appaltatore e del direttore dei lavori,
entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo
sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le
azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo
efficiente a produrre l'evento, a nulla rilevando che le
stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o
violazioni di norme giuridiche diverse" (così fra le
altre Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20294 del 14/10/2004); si è
affermato, in particolare, che la solidarietà fra
coobbligati "trova fondamento nel principio di cui
all'art. 2055 cod. civ., il quale, anche se dettato in tema
di responsabilità extracontrattuale, si estende all'ipotesi
in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a
titolo di responsabilità contrattuale" (cfr. Cass. Sez.
2, Sentenza n. 14650 del 27/08/2012) (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
sentenza 21.09.2016 n. 18521). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
scelta della sede (lavorativa) in forza della legge n. 104
non è un beneficio che la normativa assicura permanentemente
al dipendente che presta assistenza a un congiunto disabile,
bensì si atteggia quale strumento derogatorio del principio
di parità di trattamento vigente in materia di trasferimenti
a domanda dei dipendenti, al limitato fine di garantire e
rendere effettiva l’assistenza al congiunto disabile per il
periodo in cui ciò si rende necessario, in specifica
applicazione delle norme la cui ratio è solo quella di
assicurare un adeguato sostegno alle persone in situazione
di handicap grave.
Ne consegue che il provvedimento di trasferimento disposto
ai sensi della legge 104 non determina un diritto autonomo
del dipendente, dovendo invece sussistere a tali fini il
presupposto della necessità dell’assistenza al congiunto
disabile sia al momento dell’emanazione del trasferimento,
ma anche per tutto il periodo di esecuzione dello stesso.
---------------
Le considerazioni ora spese evidenziano che il provvedimento
a suo tempo assunto (di trasferimento) non era idoneo a
garantire al lavoratore una posizione definitiva, id est,
immutabile nel tempo per cui è legittima la revoca del
trasferimento per essere venuto meno il motivo
dell'assistenza al congiunto (ndr: decesso), che tale
provvedimento doveva soddisfare in applicazione della legge
n. 104 del 1992.
---------------
Con ricorso trasmesso per la notifica a mezzo posta presso
la sede legale il 09.09.2015, ricevuto dal Ministero della
Giustizia in Roma in data 11 settembre, depositato presso la
segreteria del TAR Molise il 10 settembre e rinotificato
presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Campobasso
in data 19.09.2015, il ricorrente, Assistente capo del Corpo
di Polizia penitenziaria, già in servizio presso la casa
circondariale di -OMISSIS-, ha impugnato il provvedimento
indicato in epigrafe con il quale è stata disposta la revoca
dell’assegnazione, per il beneficio previsto dall’art. 33,
comma 5, legge n. 104 del 1992, alla casa circondariale di
-OMISSIS-, in conseguenza dell’intervenuto decesso della
madre da lui assistita.
...
Il ricorso è infondato.
In identica fattispecie la più recente giurisprudenza ha
avuto modo di chiarire quanto segue: “Come noto, l’art.
33, comma 5, legge n. 104 del 1992, sulla cui base era stato
disposto il movimento del ricorrente nel 2013 dalla Casa di
reclusione di Volterra alla sede di Civitavecchia, introduce
per il lavoratore dipendente che assiste persona con
handicap in situazione di gravità il diritto di scelta, ove
possibile, della sede di lavoro più vicina al domicilio
della persona da assistere, senza che questi possa essere
successivamente trasferito in assenza del suo consenso ad
altra sede; peraltro, il successivo comma 7-bis, del
medesimo art. 33, prevede la decadenza dai diritti di cui
alla norma in esame, “qualora il datore di lavoro o l'INPS
accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni
richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti”.
Dunque, è la stessa legge n. 104 a evidenziare la natura
temporanea e non definitiva dei trasferimenti dei lavoratori
dipendenti, siano essi pubblici o privati, in quanto
ancorata alla permanenza delle condizioni che ne avevano
giustificato l’adozione.
Emerge, allora, con tutta evidenza che la scelta della sede
in forza della legge n. 104 non è un beneficio che la
normativa assicura permanentemente al dipendente che presta
assistenza a un congiunto disabile, bensì si atteggia quale
strumento derogatorio del principio di parità di trattamento
vigente in materia di trasferimenti a domanda dei
dipendenti, al limitato fine di garantire e rendere
effettiva l’assistenza al congiunto disabile per il periodo
in cui ciò si rende necessario, in specifica applicazione
delle norme la cui ratio è solo quella di assicurare un
adeguato sostegno alle persone in situazione di handicap
grave.
Ne consegue che il provvedimento di trasferimento disposto
ai sensi della legge 104 non determina un diritto autonomo
del dipendente, dovendo invece sussistere a tali fini il
presupposto della necessità dell’assistenza al congiunto
disabile sia al momento dell’emanazione del trasferimento,
ma anche per tutto il periodo di esecuzione dello stesso.
Le considerazioni ora spese evidenziano che, al contrario di
quanto sostiene il ricorrente, il provvedimento a suo tempo
assunto nei propri riguardi non era idoneo a garantirgli una
posizione definitiva, id est, immutabile nel tempo per cui è
legittima la revoca del trasferimento per essere venuto meno
il motivo dell'assistenza al congiunto, che tale
provvedimento doveva soddisfare in applicazione della legge
n. 104 del 1992.
E’, per altrettanto, infondato il terzo motivo, con cui si
deduce l’omesso bilanciamento di tutti gli interessi in
gioco non essendo state prese in considerazione le esigenze
familiari e personali del ricorrente oltre alle attuali
condizioni di salute del medesimo, in atto convalescente,
attesa l’inidoneità di tali ulteriori elementi a consentire
alcuna deroga all’ordinario principio di parità di
trattamento dei dipendenti che aspirano al trasferimento in
una determinata sede, possibile solo in virtù della ratio
derogatoria di cui alla normativa agevolativa dettata per il
dipendente che presta assistenza a un congiunto disabile, di
cui si è detto sopra” (così TAR Lazio, I-quater,
23.03.2016, n. 3618; Cons. Stato, II, parere n. 3546 del
14.11.2014; Cons. Stato, IV, ord. 26.02.2016, n. 653).
Il collegio condivide il precedente richiamato che valorizza
la ratio della norma derogatoria di cui all’art. 33
della legge n. 104/1992 e si pone in linea anche con
circolare n. 457451-2012, con cui l’Amministrazione precisa
che “Nel caso di cessazione dei presupposti
l’amministrazione avvierà d’ufficio le procedure di revoca
del trasferimento”.
Non può invece essere condiviso il diverso orientamento
espresso dal TAR Puglia, Lecce, sent. n. 1942/2012
richiamato dal ricorrente e di recente recepito da TAR
Ancona n. 509/2015, invero solo apparentemente di segno
opposto, secondo cui “l’art. 33 della legge n. 104/1992
assicura al familiare lavoratore che assista con continuità
un parente entro il terzo grado handicappato la possibilità
di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al
proprio domicilio. Questa facoltà, corrispondente a un
privilegio motivato da ragioni di natura solidaristica e
assistenziale, costituisce un titolo di preferenza nella
scelta della sede di lavoro e una volta esercitata nella
forma del trasferimento (e non, ad esempio, di aggregazione
o distacco) costituisce una situazione giuridica definitiva,
non subordinata al mantenimento della situazione originaria
(sempre che l’Amministrazione di appartenenza non abbia
disciplinato specificamente il punto). Trattasi, pertanto,
di situazione non modificabile se non, sussistendone i
presupposti e secondo il regime proprio del rapporto
d’impiego, applicando il regime del trasferimento d’ufficio
che deve tener conto, nell’effettuare il bilanciamento degli
interessi, oltre che delle esigenze di servizio anche delle
situazioni di famiglia…”.
In particolare la giurisprudenza in parola afferma il
carattere definitivo del trasferimento, non subordinandolo
al mantenimento della situazione originaria, a condizione
tuttavia che “l’Amministrazione di appartenenza non abbia
disciplinato specificamente il punto”.
Nel caso di specie tuttavia non solo il provvedimento del
14.08.2013 con cui il ricorrente veniva assegnato alla casa
circondariale di -OMISSIS- è stato dichiaratamene adottato “in
applicazione della legge 05.02.1992, n. 104” –di fatto
condizionandone l’efficacia al perdurare delle condizioni
previste dall’art. 33, comma 5, della legge in parola– ma
soprattutto è successivo alla adozione della circolare n.
457451 del 28.12.2012 che, con valenza generale, afferma che
“Nel caso di cessazione dei presupposti l’amministrazione
avvierà d’ufficio le procedure di revoca del trasferimento”
in tal modo conformando con il carattere della temporaneità
tutti i provvedimenti successivamente adottati ai sensi
dell’art. 33, comma 5, della legge 104/1992.
Ne discende che anche secondo il diverso orientamento
giurisprudenziale richiamato nel caso di specie non vi sono
ragioni per ritenere definitivo il trasferimento disposto in
data 14.08.2013 presso la casa circondariale di -OMISSIS-,
con conseguente legittimità della revoca adottata una volta
venute meno le condizioni ed i presupposti della sua
adozione disciplinati dall’art. 33, comma 5, della legge n.
104/1992.
Essendo la revoca del trasferimento un atto sostanzialmente
dovuto, anche per garantire il corretto svolgimento delle
procedure di mobilità ordinarie, senza pregiudicare il
personale con requisiti di anzianità potiori, non
rilevano le doglianze con cui il ricorrente ha contestato
l’omessa ponderazione con le esigenze di servizio della sua
condizione personale e familiare, né l’effettiva consistenza
del ruolo degli Agenti/Assistenti presso la casa
circondariale di -OMISSIS- e neppure eventuali disparità di
trattamento, in presenza di situazioni analoghe che peraltro
il ricorrente omette di circostanziare ai fini di un
possibile approfondimento istruttorio.
Alla luce delle motivazioni che precedono il ricorso deve
pertanto essere respinto
(TAR Molise,
sentenza 21.09.2016 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Evasore, ma sempre avvocato. Niente più sanzioni per il
legale che non paga le tasse. Sentenza della Corte di cassazione applica il nuovo codice
deontologico forense.
Niente cancellazione dall'albo per l'avvocato evasore. Il
nuovo codice deontologico forense, infatti, non prevede più
sanzioni per il legale che non paga le tasse. E salva i
procedimenti in corso alla data di in vigore del nuovo
codice, il 15.12.2014, perché a questi si applicano le
disposizioni più favorevoli.
Lo afferma la Corte di Cassazione - Sezz. unite civili, con
la
sentenza 20.09.2016 n. 18394,
che ha stabilito il rinvio della causa al Consiglio
nazionale forense affinché riformuli la sanzione.
Entrando
nel dettaglio, l'avvocato in causa si era reso colpevole dei
reati di evasione di imposte ed effettuazione di prestiti,
ma il procedimento penale era stato definito con sentenza di
non luogo a procedere per intervenuta estinzione dei reati
per prescrizione. Nel contempo, però, veniva ritenuto
responsabile dal Consiglio dell'ordine degli avvocati
territorialmente competente della violazione dell'art. 15
del codice deontologico, applicando la sanzione della
cancellazione dall'albo.
Il ricorso dell'avvocato veniva poi
rigettato dal Consiglio nazionale forense, motivo per cui il
legale si è poi rivolto alla Cassazione. In particolare,
secondo i giudici la sanzione applicata dal Cnf non tiene
conto delle modificazioni introdotte dal codice deontologico
forense che, ai sensi dell'art. 65, comma 5, della legge n.
247/2012 (nuovo ordinamento forense), si applicano anche ai
procedimenti in corso se più favorevoli. Il nuovo codice,
infatti, non prevede la sanzione della cancellazione e la
sentenza impugnata «deve quindi essere cassata con
riferimento alla sanzione applicata, con rinvio al Consiglio
nazionale forense perché, in diversa composizione, provveda
nuovamente in ordine al trattamento sanzionatorio
applicabile per gli illeciti accertati».
Quanto invece alla
valutazione della sussistenza dei fatti addebitati, secondo
la Cassazione la sentenza impugnata ha rilevato che la
valutazione del Coa era scaturita dall'esame di copiosa
documentazione acquisita nell'ambito delle indagini
preliminari, non disconosciuta dallo stesso ricorrente, il
quale aveva ammesso di aver percepito per gli anni 1998,
1999 e 2000 redditi di gran lunga superiori a quelli
dichiarati.
Motivo per cui, secondo i giudici, «appaiono
prive di rilievo le censure svolte dal ricorrente in ordine
a una asserita mancata ammissione di prove, avendo la
sentenza impugnata dato atto che il Coa aveva concesso al
ricorrente un termine per il deposito di una relazione
tecnica, senza che a tale richiesta il ricorrente avesse poi
dato seguito»
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Entrate, il concorso ko. Illegittimi riserva dei posti e
esame per titoli.
Il Tar Lazio censura il bando dell'Agenzia per l'assunzione
di 403 dirigenti.
Il Tar Lazio ha annullato il concorso per 403 posti
dirigenti dell'Agenzia delle entrate nella parte in cui il
bando prevede una riserva dei posti per i dipendenti delle
Entrate pari al 50% (il limite di legge è del 30%) e nella
parte in cui prevedeva una valutazione particolare per i
titoli.
La
sentenza 20.09.2016 n. 9846
del TAR Lazio-Roma, Sez. III, che condanna l'Agenzia alla
totale soccombenza delle spese processuali (3.000 euro)
respinge però il motivo di ricorso di Dirpubblica di
azzerare il bando in seguito alla sentenza della Corte
costituzionale del 17/03/2015 sui dirigenti illegittimi.
L'Agenzia dovrà invece riscrivere il bando senza quei
criteri censurati.
La sentenza della Consulta, infatti, ha
riconosciuto illegittima la procedura reiterata
dell'amministrazione finanziaria di rinnovare incarichi
dirigenziali a tempo a funzionari incaricati. Dopo la
sentenza si è creata dunque l'esigenza di coprire i posti
dirigenziali vacanti con un concorso. Nel 2015 due erano le
strade aperte: quella del concorso per 403 dirigenti e un
concorso per titoli e colloqui per 175 dirigenti. L'Agenzia
ha tempo fino al 31.12.2016 per improrogabilmente
sanare il vuoto di organico creatosi dopo la sentenza. Ma al
momento le procedure, dopo la decisione del Tar Lazio, sono
lontane dal chiudersi.
Attualmente infatti l'Agenzia delle entrate sta procedendo
all'esame con un colloquio dei migliaia di curricula
arrivati per il concorso per 175 dirigenti. Anche su questo
concorso pende la decisione del Consiglio di stato, visto
che, anche in questo caso la sigla sindacale Dirpubblica ha
impugnato la procedura davanti al Consiglio di stato. Le
commissioni d'esame dovranno sentire circa 9.000 candidati
con una deadline al 31 dicembre che inevitabilmente sforerà
alla primavera 2017.
La vicenda del concorso a 403 posti da dirigente è ancora
più emblematica. In prima istanza Dirpubblica aveva
presentato al Tar Lazio istanza per la sospensione cautelare
della procedura. Il Tar Lazio aveva respinto l'azione e
Dirpubblica si era rivolta al Consiglio di stato. Il
Consiglio di stato ha rinviato nel merito l'esame della
vicenda e ora è arrivata la decisione del Tar che ha dato
parzialmente ragione a Dirpubblica annullando il concorso
nei due punti della riserva dei posti troppo alta per i
dipendenti dell'Agenzia e nel punteggio riservato ai titoli,
punteggio per la cui assegnazione per i giudici
amministrativi non è competente l'Agenzia.
Un'altra matassa da sbrogliare per l'Agenzia con la scadenza
del 31 dicembre dietro l'angolo
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2016). |
APPALTI:
Procedura di gara, sì ad annullamento tardivo.
Se la p.a. motiva l'interesse pubblico.
L'annullamento in autotutela di una procedura di gara deve
essere frutto del contemperamento degli interessi in gioco;
non può essere motivato dalla semplice esigenza di
ripristino della legalità violata.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato (Cds), Sez. V, con
la
sentenza 20.09.2016 n. 3910.
L'interesse
pubblico alla base del legittimo esercizio del potere di
autotutela da parte della p.a. non può identificarsi nel
mero ripristino della legalità violata, ma richiede una
valutazione comparativa sulla qualità e concretezza degli
interessi in gioco.
Nel procedere a distanza di anni all'annullamento di un atto
ritenuto illegittimo per un errore commesso dalla stessa
amministrazione, questa è tenuta a indicare le ragioni di
pubblico interesse che, nonostante il notevole decorso del
tempo e il consolidamento della situazione, giustificavano
il provvedimento di autotutela.
L'orientamento
giurisprudenziale, per i giudici, risulta sostanzialmente
trasfuso nel testo del comma 1 dell'articolo 21-nonies della
legge 07.08.1990, n. 241 (nella formulazione anteriore
alle modifiche introdotte dalla legge 07.08.2015, n.
124), secondo cui «il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge».
Nel caso specifico, i giudici hanno affermato
l'illegittimità del disposto annullamento d'ufficio
(annullamento in autotutela degli atti di gara, annullava
l'aggiudicazione e disponeva l'inefficacia del contratto)
perché l'amministrazione non ha esposto alcuna ulteriore
ragione, se non quelle connesse alla parziale illegittimità
della lex specialis di gara.
Inoltre, il Cds ha affermato che il provvedimento di
annullamento è illegittimo in quanto l'amministrazione non
ha in alcun modo dato atto della ponderazione dei vari
interessi in gioco. In particolare, avrebbe dovuto
considerare lo stato di avanzamento dell'opera e il tempo
trascorso dal provvedimento di aggiudicazione e dalla
sottoscrizione del contratto
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).
---------------
MASSIMA
Ebbene, tanto premesso sotto il profilo fattuale, ne
emerge la correttezza di quanto statuito dai primi Giudici,
secondo cui il provvedimento di annullamento in autotutela
dell’intera procedura di gara risulta viziato per difetto di
istruttoria e di motivazione e, in ogni caso, adottato in
contrasto con il consolidato orientamento secondo cui il
legittimo esercizio del potere di autotutela non può
fondarsi unicamente sull’intento di ripristinare la
legittimità violata, ma deve essere scrutinato in ragione
della sussistenza di un interesse pubblico prevalente
all’adozione del provvedimento di ritiro.
E’ stato affermato al riguardo che
l'interesse pubblico alla
base del legittimo esercizio del potere di autotutela da
parte della pubblica amministrazione non può identificarsi
nel mero ripristino della legalità violata ma richiede una
valutazione comparativa sulla qualità e concretezza degli
interessi in gioco. Nel procedere a distanza di anni
all'annullamento di un atto ritenuto illegittimo per un
errore commesso dalla stessa amministrazione, questa è
tenuta ad indicare espressamente le ragioni di pubblico
interesse che, nonostante il notevole decorso del tempo e il
consolidamento della situazione, giustificavano il
provvedimento di autotutela
(in tal senso –ex multis-:
Cons. Stato, IV, 21.09.2015, n. 4379; id., VI, 20.09.2012, n. 4997; id., VI, 14.01.2009, n. 136).
L’orientamento in questione risulta sostanzialmente trasfuso
nel testo del comma 1 dell’articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241 (nella formulazione, che qui rileva,
anteriore alle modifiche introdotte dalla l. 07.08.2015,
n. 124), secondo cui “il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità
connesse all'adozione e al mancato annullamento del
provvedimento illegittimo”.
Ebbene, alla luce della richiamata disposizione (lo si
ripete, recettiva di consolidati orientamenti
giurisprudenziali)
emerge l’illegittimità del disposto
annullamento d’ufficio:
i)
sia perché l’amministrazione non ha esposto alcuna
ulteriore ragione, se non quelle connesse alla riconosciuta
parziale illegittimità della lex specialis di gara;
ii)
sia perché l’amministrazione non ha in alcun modo dato
atto della ponderazione dei vari interessi che nel caso in
esame vengono in rilievo, anche alla luce dello stato di
avanzamento dell’opera e del tempo trascorso dal
provvedimento di aggiudicazione e dalla sottoscrizione del
contratto.
Né può in alcun modo ritenersi che l’annullamento
dell’intera procedura conseguisse in qualche modo agli
obblighi conformativi rinvenienti dalla più volte richiamata
sentenza n. 5811/2014, se solo si consideri che il ricorso
introduttivo che ha condotto all’adozione di quella sentenza
mirava unicamente all’annullamento dell’esclusione e non
anche al travolgimento dell’aggiudicazione o alla
declaratoria di inefficacia del contratto (domande, queste
ultime, che l’odierna appellante riconosce anche nella
presente sede di non aver in alcun modo formulato).
Del tutto
correttamente, quindi, il TAR ha riconosciuto
l’illegittimità del provvedimento di annullamento d’ufficio
impugnato in primo grado in quanto difforme sia rispetto ai
consolidati acquis formatisi sul tema della legittimità
degli atti di ritiro, sia rispetto agli obblighi
conformativi rinvenienti dalla sentenza di appello che,
pure, costituiva il dichiarato presupposto logico-fattuale
per l’adozione del medesimo provvedimento di annullamento.
2.1. Né può giungersi a conclusioni diverse da quelle appena
delineate in relazione al motivo di appello con cui si è
lamentato che la It. avesse lamentato con il ricorso di
primo grado la sola insussistenza dei presupposti per
disporre l’inefficacia del contratto e non anche
l’insussistenza dei presupposti per procedere
all’annullamento in autotutela dell’intera procedura di
gara.
2.1.1. Si osserva in primo luogo al riguardo che sussiste un
evidente rapporto di continenza logico-giuridica fra le
ragioni che impedivano la declaratoria di inefficacia del
contratto e quelle che impedivano, ancora più a monte, di
disporre il contestato annullamento in autotutela.
2.1.2. Si osserva in secondo luogo che può certamente
convenirsi con l’appellante laddove afferma che ciò che nel
caso di specie viene in rilievo è la correttezza
dell’esercizio del potere di autotutela (il quale può
intervenire anche a seguito della stipula del contratto, ma
per ragioni afferenti la legittimità della procedura di gara
–in tal senso: Cons. Stato, Ad. Plen. 20.06.2014, n. 14-). Ma il punto è che
l’esercizio concreto del potere di
autotutela risultava nel caso di specie illegittimo per la
rilevata contrarietà con i principi e le disposizioni che
regolano le condizioni per la legittimità di tale esercizio.
Ai limitati fini che qui rilevano (e rinviando a quanto già
in precedenza esposto) si osserva poi che
il testo
dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 depone in
senso affatto diverso a quanto opinato dalla società
appellante, mentre il richiamo operato in sede di appello al
testo dell’articolo 21-nonies nella formulazione successiva
all’entrata in vigore della l. 124 del 2015 risulta inconferente ai fini del decidere, atteso che la novella
normativa in questione è intervenuta successivamente
all'adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio
impugnato in primo grado.
2.1.3. Si osserva infine che, in applicazione dei generali
principi della domanda e della corrispondenza fra il chiesto
e il pronunciato (certamente applicabili anche nel giudizio
amministrativo anche alla luce del rinvio operato
dall’articolo 39, comma 1, del cod. proc. amm.), la
Milano-Serravalle non solo non avrebbe potuto annullare
l’intera procedura, ma neppure avrebbe potuto disporre (come
richiesto dall’appellante) il solo annullamento
dell’aggiudicazione in favore della It. per l’assorbente
ragione che tale annullamento non era stato in alcun modo
richiesto in sede giurisdizionale.
Non può quindi trovare accoglimento il motivo –riproposto
dalla Vi. nella presente sede di appello– secondo cui, a
seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del
provvedimento di esclusione disposto a carico della stessa
Vi. –e anche in assenza di una specifica domanda in tal
senso– l’amministrazione avrebbe dovuto procedere sua
sponte all’annullamento dell’aggiudicazione medio tempore
disposta al fine di consentire l’aggiudicazione in favore
della stessa Vitale.
3. La domanda risarcitoria riproposta nella presente sede di
appello non può trovare accoglimento.
L’appellante ha (ri-)articolato la domanda in questione
ipotizzando due possibili scenari: i) quello
dell’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento
impugnato in primo grado (ipotesi che qui non ricorre); ii)
quello in cui tale provvedimento non fosse effettivamente
impugnato in primo grado.
3.1. Va premesso al riguardo che, da quanto sembra emergere
dall’atto di appello, i due scenari non vengono riferiti
all’ipotesi di annullamento o meno del provvedimento di
annullamento in autotutela (annullamento che, comunque,
viene nella presente sede di appello confermato), bensì
all’ipotesi di annullamento o meno dell’atto di
aggiudicazione (annullamento che non può qui essere disposto
per la dirimente ragione di non essere stato neppure
richiesto al Giudice).
3.2. Tanto premesso,
deve quindi essere escluso in ogni caso
il richiesto ristoro del danno in forma specifica
(attraverso il subentro nelle lavorazioni previa
declaratoria di inefficacia del contratto già stipulato con
la It.).
Tanto, alla luce del comma 1 dell’articolo 124 del ‘Codice
del processo amministrativo’, secondo cui l’accoglimento
della domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto
è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia
del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122
(declaratoria di inefficacia che postula un’espressa
richiesta di parte nell’ambito della domanda di annullamento
che nel caso in esame non risulta proposta).
3.2. Ma
la mancata proposizione della domanda di
annullamento dell’aggiudicazione preclude anche in radice il
riconoscimento del danno per equivalente pecuniario.
L’appellante era infatti consapevole del fatto che la sola
richiesta di annullamento del proprio provvedimento di
esclusione non poteva condurre ad ottenere l’auspicata
aggiudicazione della gara in assenza dell’impugnativa del
provvedimento di aggiudicazione medio tempore adottato in
favore di altra concorrente.
Ai sensi del comma 2 dell’articolo 124 del cod. proc. amm.
la condotta processuale della parte che, senza giustificato
motivo, non ha proposto la domanda volta a conseguire
l’aggiudicazione (nonché –scil.– la domanda volta ancora
più a monte a contestare l’aggiudicazione disposta in favore
di altri all’evidente fine di coltivare la sola opzione del
ristoro per equivalente pecuniario) è valutata dal giudice
ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile.
La disposizione in esame esplicita con maggiore ampiezza di
implicazioni, nel particolare settore del ristoro del danno
da aggiudicazione -in tesi– illegittima, il principio
sancito dal comma 3 dell’articolo 30 del medesimo cod. proc. amm. secondo cui “nel determinare il risarcimento il giudice
valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento
complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento
dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria
diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di
tutela previsti”.
E’ evidente al riguardo che,
laddove l’odierna appellante –invece di limitare la propria domanda di giustizia al solo
provvedimento che l’aveva esclusa dalla gara– avesse esteso
l’impugnativa anche al provvedimento di aggiudicazione medio
tempore disposto in favore di altra impresa, avrebbe con
ogni verosimiglianza potuto escludere in radice la
ritrazione dei danni conseguenti alla mancata esecuzione
dell’appalto per cui è causa.
Si tratta, come è evidente, di una circostanza in radice
ostativa al richiesto risarcimento per equivalente
pecuniario, non potendosi qui ammettere il ristoro di un
pregiudizio (il danno rinveniente dalla mancata stipula ed
esecuzione del contratto) che la stessa appellante ha
contribuito in modo determinante a cagionare mercé la
mancata attivazione degli strumenti di tutela espressamente
richiamati dalle menzionate disposizioni codicistiche.
3.3. La reiezione della domanda risarcitoria per le ragioni
appena evidenziate esime il Collegio dall’esame puntuale di
motivi di appello riferiti al capo della sentenza con cui si
è sancita altresì l’inammissibilità della domanda
risarcitoria stante la pendenza dinanzi al TAR della
Lombardia di un giudizio avente ad oggetto un’identica
vicenda risarcitoria (con identità di parti, di petitum e di
causa petendi).
4. Per le ragioni sin qui esposte l’appello in epigrafe deve
essere respinto. |
ESPROPRIAZIONE: Espropri,
valutazioni comparate. Cds.
L'adozione del provvedimento acquisitivo presuppone una
valutazione comparata degli interessi in conflitto,
qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata
nel normale procedimento espropriativo.
È quanto sottolineato dai giudici della IV Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza
19.09.2016 n. 3905.
Secondo i supremi giudici amministrativi la mancanza di
ragionevoli alternative all'adozione del provvedimento
acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta
correlazione con le eccezionali ragioni di interesse
pubblico richiamate dalla disposizione in esame, da
considerare in comparazione con gli interessi del privato
proprietario.
L'adozione dell'atto acquisitivo è consentita esclusivamente
allorché costituisca l'extrema ratio per la
soddisfazione di «attuali ed eccezionali ragioni di
interesse pubblico», come recita lo stesso art. 42-bis del
T.u. delle espropriazioni.
Inoltre, l'art. 42-bis T.u.
espropri, hanno osservato i giudici di palazzo Spada,
prevede che sia l'amministrazione, prima che si formi il
giudicato restitutorio, ad adottare il provvedimento di
«acquisizione sanante», il quale deve essere «specificamente
motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni
di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione,
valutate comparativamente con i contrapposti interessi
privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative
alla sua adozione».
Pertanto solo nel caso in cui siano state escluse, all'esito
di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi
privati, altre opzioni e non sia ragionevolmente possibile
la restituzione del bene al privato, sia essa totale o
parziale, previa riduzione in pristino
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2016).
---------------
MASSIMA
3. In particolare, l’Adunanza Plenaria, per quello che
in questa sede interessa, ha precisato che “l’effetto
inibente (all’emanazione del provvedimento di acquisizione)
del giudicato restitutorio costituisce elemento essenziale
dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bis nella lettura
costituzionalmente orientata che ne ha fatto il giudice
delle leggi in armonia con la CEDU: conseguentemente in
presenza di un giudicato restitutorio il provvedimento di
acquisizione non può essere emanato.
Si pone il problema della individuazione del giudicato
restitutorio: nulla quaestio nel caso in cui il giudicato
(amministrativo o civile) disponga espressamente, sic et
simpliciter, la restituzione del bene, con l’unica
precisazione che una tale statuizione restitutoria potrebbe
sopravvenire anche nel corso del giudizio di ottemperanza.
Si tratta di una conseguenza fisiologica della naturale
portata ripristinatoria e restitutoria del giudicato di
annullamento di provvedimenti lesivi di interessi oppositivi
d’indole espropriativa.
In tutti questi casi è certo che l’Amministrazione non potrà
emanare il provvedimento ex art. 42-bis”.
Spiega, inoltre, la Plenaria che “a diverse conclusioni deve
giungersi allorquando, come verificatosi nella vicenda in
trattazione, il giudicato rechi in via esclusiva o
alternativa, la previsione puntuale dell’obbligo
dell’Amministrazione di emanare un provvedimento ex art.
42-bis.
In realtà è bene subito precisare che non esiste la
possibilità, tranne si versi in una situazione processuale
patologica, che il giudice condanni direttamente in sede di
cognizione l’Amministrazione a emanare tout court il
provvedimento in questione: vi si oppongono, da un lato, il
principio fondamentale di separazione dei poteri (e della
riserva di amministrazione) su cui è costruito il sistema
costituzionale della Giustizia Amministrativa, dall’altro,
uno dei suoi più importanti corollari processuali
consistente nella tassatività ed eccezionalità dei casi di
giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a. fra i
quali non si rinviene tale tipologia di contenzioso
(cfr.
negli esatti termini C.d.S., Ad. plen., 27.04.2015, n.
5).
A maggior ragione in una fattispecie in cui vengono in
rilievo sofisticate valutazioni sulla ricorrenza delle
circostanze eccezionali che giustificano l'acquisizione
coattiva, cui si possono eventualmente riconnettere gravi
ricadute in termini di responsabilità erariale”.
L’art. 42-bis TU espropri prevede, infatti, che sia
l’Amministrazione, prima che si formi il giudicato
restitutorio, ad adottare il provvedimento di “acquisizione
sanante” il quale deve essere “specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione”; prevedendo, altresì, che le disposizioni
dell’articolo de quo “trovano altresì applicazione ai fatti
anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già
stato un provvedimento di acquisizione successivamente
ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la
valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse
pubblico a disporre l’acquisizione”.
4. Tenuto conto dei riportati principi espressi
dall’Adunanza Plenaria (che sul punto della ineludibile
pienezza del contraddittorio ha richiamato le fondamentali
acquisizioni della Corte costituzionale sviluppate nella
menzionata sentenza n. 71 del 2015), e delle disposizioni
sancite dall’art. 42-bis TU espropri, deriva la fondatezza
dell’appello proposto dalla sig.ra Ma..
4.1. La ricorrente lamenta, in buona sostanza, la violazione
e falsa applicazione degli artt. 21, 114 commi 4, lett. d),
6 e 7, c.p.a., in quanto il commissario ad acta,
sostituendosi all’Amministrazione, ha disposto
l’acquisizione del terreno ex art. 43 (rectius 42-bis) TU
espropri, senza acquisire i pareri delle parti in
contraddittorio fra di loro e male interpretando,
conseguentemente, la portata della stima effettuata
dall’Agenzia del territorio.
Nel caso di specie
il commissario ad acta ha proceduto ad
adottare il decreto di esproprio
(rectius provvedimento ex
art. 42-bis TU espropri),
pretermettendo di accertare se il
Comune di Villa Castelli, optasse per l’acquisizione del
bene o la sua restituzione, nonché violando l’obbligo della
motivazione rafforzata
(in capo alla pubblica
amministrazione procedente, ed eventualmente al commissario
ad acta),
che deve indicare tutte le circostanze rilevanti
(a partire dalle esigenze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale
essa ha avuto inizio, per finire alla ostensione delle
«attuali ed eccezionali» ragioni di interesse pubblico che
giustificano l’emanazione dell’atto, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione).
In altri termini
l’adozione del provvedimento acquisitivo
presuppone una valutazione comparata degli interessi in
conflitto, qualitativamente diversa da quella tipicamente
effettuata nel normale procedimento espropriativo. E
l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione del
provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in
stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse
pubblico richiamate dalla disposizione in esame, da
considerare in comparazione con gli interessi del privato
proprietario.
L’adozione dell’atto acquisitivo è consentita esclusivamente
allorché costituisca l’extrema ratio per la soddisfazione di
“attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico”, come
recita lo stesso art. 42-bis del T.U. delle espropriazioni.
Dunque,
solo quando siano state escluse, all’esito di una
effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati,
altre opzioni (compresa la cessione volontaria mediante atto
di compravendita, ipotesi nella specie non più praticabile a
cagione delle preclusioni risultanti sul punto dalle
precedenti sentenze irrevocabili emanate dal Tar), e non
sia ragionevolmente possibile la restituzione del bene al
privato, sia essa totale o parziale, previa riduzione in
pristino.
4.2. Alla luce dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria
e dalla Corte Costituzionale l’appello deve, pertanto,
essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza
impugnata, deve essere annullato il decreto di esproprio (rectius
il provvedimento di acquisizione) adottato dal commissario
ad acta, con il quale è stato disposto il passaggio di
proprietà a favore del Comune di Villa Castelli del terreno
di proprietà della sig.ra Ma., con salvezza delle
ulteriori determinazioni che saranno assunte nel rispetto
dei principi formulati dalla presente sentenza.
4.3. Tutte le altre questioni, ivi comprese la liquidazione
finale delle spese di lite e dei compensi eventualmente
riconoscibili al commissario ad acta, nonché l’indicazione
delle parti sulle quali farle gravare, saranno risolte dal
TAR Puglia-Lecce a conclusione del giudizio di
ottemperanza ancora pendente presso il medesimo ufficio (n.r.g.
1309/2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi
dell'art. 873 c.c., il condono edilizio, esplicando i suoi
effetti sul piano dei rapporti pubblicistici tra P.A. e
privato costruttore, non ha incidenza nei rapporti tra
privati, i quali hanno ugualmente facoltà di chiedere la
tutela ripristinatoria apprestata dall'art. 872 c.c. per le
violazioni delle distanze previste dal codice civile e dalle
nonne regolamentari integratrici.
---------------
Secondo l'insegnamento di questa Corte, in tema di distanze
nelle costruzioni, ai sensi dell'art. 873 c.c., il condono
edilizio, esplicando i suoi effetti sul piano dei rapporti
pubblicistici tra P.A. e privato costruttore, non ha
incidenza nei rapporti tra privati, i quali hanno ugualmente
facoltà di chiedere la tutela ripristinatoria apprestata
dall'art. 872 c.c. per le violazioni delle distanze previste
dal codice civile e dalle nonne regolamentari integratrici
(Cass. 06.02.2009, n. 3031) (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 16.09.2016 n. 18244). |
EDILIZIA PRIVATA:
Allorquando i regolamenti edilizi comunali
stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni
maggiore di quella prevista dal codice civile, detta
prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito
riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo
deve osservare una distanza non inferiore alla metà di
quella prescritta, con conseguente esclusione della
possibilità di costruire sul confine e, quindi, della
operatività del criterio cosiddetto della prevenzione.
---------------
2.- Con il secondo motivo pane ricorrente deduce la nullità
della sentenza per il mancato riconoscimento del criterio di
prevenzione per violazione o falsa applicazione delle norme
di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c..
Con il medesimo motivo parte ricorrente lamenta, altresì, la
mancata ammissione della nuova c.t.u. richiesta in appello.
Il motivo è del tutto infondato.
La Corte territoriale ha dato correttamente conto della
risultanza che il regolamento edilizio del Comune di Torre
Annunziata prevede, per la zona B (ove si trovano i
manufatti per cui è causa) una distanza minima delle
costruzione di cinque metri dal confine.
Nel detto strumento urbanistico mancano prescrizioni che
prevedono la possibilità di costruire in aderenza: pertanto
è esclusa la possibilità di costruzione in base al principio
della prevenzione con conseguente violazione, nella
fattispecie, della normativa sulle distanze legali.
In proposito non può che rammentarsi e ribadirsi il
condiviso orientamento più volte affermato da questa Corte,
secondo cui "allorquando i regolamenti edilizi comunali
stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni
maggiore di quella prevista dal codice civile, detta
prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito
riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo
deve osservare una distanza non inferiore alla metà di
quella prescritta, con conseguente esclusione della
possibilità di costruire sul confine e, quindi, della
operatività del criterio cosiddetto della prevenzione"
(Cass. civ., Sez. II, Sent. 22.02.2007, n. 4199) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 16.09.2016 n. 18244). |
TRIBUTI: Notifica ko se al parente.
Persona in un altro appartamento.
È nulla la notifica della cartella di pagamento consegnata a
un parente che, pur vivendo presso lo stesso numero civico,
abita in un altro appartamento.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione -Sez. V civile- che, con la
sentenza 16.09.2016 n.
18202, ha accolto il ricorso di un contribuente che
aveva impugnato l'atto impositivo consegnato dall'ufficiale
giudiziario alla cognata, anche vicina di casa.
Il Collegio di legittimità ha dunque ribaltato il verdetto
della Ctr di Firenze spiegando che quando la notificazione
non avviene in mani proprie, il destinatario, giusta il
disposto dei commi primo e secondo dell'art. 139 c.p.c., va
ricercato nel comune di residenza e, precisamente, nella
casa di abitazione o dove ha l'ufficio, e, nel caso in cui
non venga trovato in tali luoghi, l'atto va consegnato ivi,
a persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o
all'azienda.
Per gli Ermellini da ciò deriva che il
presupposto per l'esecuzione di una valida notificazione con
queste modalità è che la consegna avvenga nella casa di
abitazione o presso il domicilio del notificando, mentre, se
essa avviene in luoghi diversi, diventa irrilevante il
rapporto tra il consegnatario e la persona cui l'atto è
destinato e la notificazione deve considerarsi comunque
nulla.
Infatti la notificazione dell'atto mediante consegna
al familiare del destinatario è assistita da presunzione di
ricezione, ai sensi dell'art. 139, secondo coma, c.p.c.,
solo se avvenuta presso l'abitazione del destinatario, non
anche se effettuata presso l'abitazione del familiare
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2016). |
VARI: Patente da rifare sempre.
Punti e posta.
La mancata comunicazione postale della variazione
progressiva dei punti patente non invalida la successiva
revisione della licenza di guida visto che in ogni multa
collezionata dal trasgressore devono essere indicati
chiaramente i punti sottratti. E a questo procedimento
sanzionatorio non si applica la legge 241/1990 ma la legge
689/1981.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civ., con la
sentenza 16.09.2016 n. 18174.
Un conducente incorso nei rigori del codice stradale ha
proposto ricorso contro il provvedimento di revisione della
patente di guida per azzeramento dei punti disponibili
evidenziando una serie di irregolarità formali sulla mancata
trasparenza del procedimento punitivo. La Corte ha rigettato
tutte le censure condannando il trasgressore anche alle
spese del procedimento.
Il provvedimento di revisione della
patente di guida per azzeramento dei crediti disponibili a
parere del collegio partecipa della medesima natura del
procedimento di applicazione della sanzione accessoria della
perdita dei punti, a seguito delle singole violazioni. In
questo caso non si applicano gli artt. 7 e 8 della legge
241/1990 ma i principi della legge di depenalizzazione n.
689/1981. La decurtazione dei punti patente, prosegue la
sentenza, è una conseguenza dell'accertamento di una
infrazione stradale attestato dal verbale annotato con la
decurtazione di punteggio.
La conseguente comunicazione
della variazione di punteggio è un atto meramente
informativo, privo di contenuto provvedimentale. In buona
sostanza il provvedimento di revisione della patente si
fonda sulla definitività delle multe ma non presuppone
l'avvenuta comunicazione postale delle variazioni di
punteggio. Questo dato l'interessato lo apprende subito, con
il verbale di contestazione, e può sempre conoscere il suo
saldo chiamando il servizio telematico della motorizzazione.
Il sistema permette dunque a ogni conducente incorso nei
rigori della legge di conoscere il credito di punti patente
per poter procedere quindi tempestivamente al recupero dei
crediti smarriti prima dell'azzeramento dei bonus con
conseguente richiesta di effettuazione di un nuovo esame di
guida
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2016). |
APPALTI: Parere precontenzioso vincolante per la p.a. e l'impresa.
Appalti/il consiglio di stato licenzia lo schema di
regolamento anac attuativo del codice contratti.
Pareri Anac di precontenzioso vincolanti per stazione
appaltante e operatore economico per risolvere in anticipo
le controversie. Da rivedere la norma del codice per
chiarire la natura della decisione dell'Anac. Garanzie anche
ai terzi interessati dalla decisione. Opportuno massimizzare
le decisioni stesse.
Sono questi alcuni dei punti da
evidenziati dal Consiglio di Stato nel
parere
14.09.2016 n. 1920 sullo schema di regolamento dell'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac) per il rilascio dei pareri
di precontenzioso predisposto ai sensi dell'art. 211 del
nuovo codice dei contratti pubblici (decreto legislativo
50/2016).
Si tratta del regolamento che disciplina come
debbano essere svolti i giudizi di precontenzioso attivati
dalla stazione appaltante o da un operatore economico e la
cui decisione ha efficacia vincolante se entrambe le parti,
prima del parere Anac, si impegnano al rispetto della
decisione.
Le questioni sottoposte dalle parti
all'attenzione dell'Autorità (che deve decidere entro 30
giorni) possono riguardare «questioni insorte durante lo
svolgimento delle procedure di gara» e il parere vincolante
è impugnabile innanzi ai competenti organi della giustizia
amministrativa. Il mancato adeguamento della stazione
appaltante alla raccomandazione vincolante dell'Autorità
entro il termine fissato è punito con la sanzione
amministrativa pecuniaria (che incide anche sulla
qualificazione della stazione appaltante ai fini
dell'iscrizione nell'apposito registro tenuto dall'Anac)
entro il limite minimo di euro 250 e il limite massimo di
euro 25 mila.
Il Consiglio di stato mette in evidenza la
correttezza dell'impostazione del regolamento (qualificato
come regolamento di organizzazione «essendo volto a
disciplinare lo svolgimento della funzione precontenziosa
definita dalla fonte primaria»), da cui si desume la natura
di decisione amministrativa e, dunque, l'impugnabilità del
parere. Qualche rilievo viene formulato rispetto
all'efficacia della decisione dell'Anac, al termine
dell'istruttoria sul caso concreto; a tale riguardo giudici
di Palazzo Spada evidenziano che la procedura non è un
processo, né può essere un nuovo grado del giudizio
surrettiziamente voluto.
Nel parere si legge che al fine di
ottenere la deflazione del contenzioso e di favorire la
cultura dell'alternativa all'accesso alla giustizia statale
«una cosa è la costruzione dell'intervento Anac come
strumento cui lo Stato obbligatoriamente e preventivamente
rimandi per l'esercizio del diritto di difesa in giudizio,
che sarebbe stata estranea alla delega e di dubbia
legittimità costituzionale, altra cosa è la costruzione di
siffatto intervento come strumento generale normativamente
predisposto, di cui lo Stato incoraggi o favorisca
l'utilizzo, lasciando purtuttavia impregiudicata la libertà
nell'apprezzamento degli interessati ad adirla».
Al di là di
questo aspetto, che andrà definito in seguito, il parere
richiede che l'istanza di precontenzioso deve essere
comunque comunicata a tutti i soggetti potenzialmente
interessati, essendo imprescindibile il rispetto del
principio del contraddittorio, che anima il procedimento
amministrativo, a maggior ragione quando assuma funzione
precontenziosa.
Il Consiglio di stato chiede anche di
reinserire la possibilità di audizione disposta
dall'Autorità, valutata come uno strumento utile, da
adottare per le controversie di maggior rilievo e da
prevedere collocandolo dopo la scadenza del termine per
prestare l'eventuale assenso al parere.
Infine il parere
suggerisce di prevedere la massimazione dei pareri e la
pubblicazione delle massime sul sito dell'Anac: «È attività
di particolare utilità che contribuisce ad orientare i
comportamenti di stazioni appaltanti e operatori e ad
agevolare lo stesso lavoro dell'Anac». A tale attività deve
seguire una adeguata pubblicità non solo per i pareri sul
precontenzioso in ordine cronologico, prevedendone altresì
la massimazione, o quanto meno la reperibilità per voci di
classificazione
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2016). |
APPALTI:
Negli appalti commissioni immacolate.
Parere cds.
Il Consiglio di Stato, con il
parere
14.09.2016, n. 1919, si è espresso sulle Linee guida,
adottate dall'Autorità nazionale anticorruzione, relative
alle nuove regole di composizione delle commissioni
giudicatrici nel settore degli appalti pubblici, fondate
sulla preferenza per i commissari esterni rispetto a quelli
interni alla stazione appaltante, al fine di garantire una
maggiore attuazione dei principi di imparzialità e
trasparenza.
Nel parere, si legge in una nota di Palazzo
Spada, si è messo in rilievo l'esigenza di interpretare in
modo rigoroso le condizioni, connesse alla particolare
complessità dell'appalto, che consentono di derogare alla
regola della nomina di commissari esterni. Ciò al fine di
evitare una possibile elusione dei suddetti principi di
garanzia.
Il Cds ha, inoltre, chiesto all'Autorità nazionale
anticorruzione di ampliare le fattispecie di reato che
impediscono a chi li ha commessi di fare parte della
commissione mediante l'inserimento anche di altri reati
ritenuti rilevanti, compresi quelli che il commissario ha
compiuto proprio nel settore degli appalti pubblici
(articolo ItaliaOggi del 17.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: Affidamenti revocabili in autotutela.
L'ente ben può revocare in autotutela l'affidamento diretto
del servizio se la Corte dei conti trova che i costi siano
troppo onerosi per le casse pubbliche.
È quanto emerge dalla
sentenza
12.09.2016 n. 1139, pubblicata dalla I Sez. del
TAR Piemonte.
Il direttore generale di un'Asl dà il via all'affidamento
diretto con procedura negoziata. Ma riceve subito una nota
dalla magistratura contabile che gli ricorda come il ricorso
alla trattativa privata deve essere considerato un'eccezione
assoluta.
Tira aria di danno erariale e il dirigente annulla subito la
delibera. E non c'è solo il ripristino della legalità alla
base dell'annullamento in autotutela: il servizio di
tesoreria, infatti, è svolto di solito gratis dalle banche,
che ne ricavano un ritorno di immagine in termini di
pubblicità.
E visto che con lo stop all'affidamento si riducono gli
oneri per le finanze pubbliche l'annullamento in autotutela
non ha bisogno neppure di motivazione
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2016).
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MASSIMA
3) Nel merito il ricorso è infondato.
L’istituto di credito articola tre profili di illegittimità,
lamentando l’assenza dei presupposti per il potere di
autotutela e la lesione dell’affidamento.
3.1 Il primo profilo verte sulla insussistenza dei motivi
per l’autotutela: sostiene parte ricorrente che l’Azienda si
sarebbe limitata a richiamare le ragioni indicate dalla
Corte dei Conti, contraddicendosi laddove afferma di aver a
suo tempo ben operato. Le ragioni indicate non sono quindi
riconducibili all’interesse pubblico, dal momento che la
sola esigenza di ripristinare la legittimità violata non
rappresenta un interesse in tal senso.
La censura non è condivisibile.
Come noto, il potere di annullamento in
autotutela viene esercitato al fine di garantire il
ripristino della legalità, ma questa finalità non può
integrare ex se, e tantomeno esaurire, l'ambito delle
più ampie e articolate valutazioni che l'Amministrazione è
chiamata ad operare, essendo invece imprescindibile una
compiuta comparazione tra l'interesse pubblico e quello
privato oltre alla ragionevole durata del tempo intercorso
tra l'atto illegittimo e la sua rimozione.
Nel caso di specie due sono le ragioni dell’autotutela:
il ripristino della legalità astrattamente violata, a causa
dell’affidamento senza gara, e la necessità di adeguarsi al
rilievo circa la eccessiva onerosità del contratto.
Quanto alla prima ragione dell’annullamento,
è incontestabile che il ricorso alla trattativa
privata ex art. 57, comma 2, lett. a), del D. L.vo 163/2006
(la procedura negoziata è ammessa qualora, in esito
all'esperimento di una procedura aperta o ristretta, non sia
stata presentata nessuna offerta, o nessuna offerta
appropriata, o nessuna candidatura), deve considerarsi una
assoluta eccezione al principio generale della massima
concorrenzialità, per cui il legislatore ha previsto una
fase di indagine di mercato, anche solo al fine di
consultare gli operatori economici del settore, nel rispetto
dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione.
Invero nel caso di specie, in disparte la questione se la
gara indetta dalla federazione Sovranazionale fosse del
medesimo oggetto o meno, l’Azienda ha omesso completamente
la fase istruttoria preliminare, di indagine del mercato,
pur essendo un servizio reso da più istituti bancari.
È quindi evidente la sussistenza di un procedimento che
presenta profili di illegittimità, poiché
l’affidamento diretto non si giustifica quando si ravvisa
anche un minimo spazio per poter utilmente esperire una
procedura comparativa.
Ugualmente il secondo rilievo sollevato dalla Corte
dei Conti circa le condizioni eccessivamente onerose,
integra un valido presupposto per l’atto di autotutela,
stante l’elevato onere che l’Azienda ha ritenuto di
assumere, per un servizio che generalmente viene erogato
anche gratuitamente.
Infatti nella prassi il contratto di
tesoreria è un contratto a titolo gratuito senza alcun
corrispettivo, perché il beneficio e la remunerazione per la
banca si riconducono ai positivi riflessi in termini di
pubblicità e d'immagine con conseguente possibilità per il
gestore di ampliare la clientela e di sviluppare le proprie
attività nelle aree ove il servizio medesimo si svolge.
Ciò senza contare che, secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale,
dal quale non vi è motivo per discostarsi,
non vi è neppure bisogno di una particolare motivazione
sull'interesse pubblico e sulla comparazione tra
quest'ultimo e quello del privato allorché l'annullamento
dell'atto in autotutela elimini l'indebita o ingiustificata
erogazione di somme, sussidi e benefici a carico delle
finanze pubbliche, in tal caso l'interesse pubblico essendo
in re ipsa, senza che possa assumere rilievo in senso
contrario neppure il decorso del tempo
(ex multis, Cons. Stato, sez. V, 12.11.2013, n. 5415;
23.10.20124, n. 5267; sez. III, 11.11.2014, n. 5539;
22.12.2014, n. 6310).
3.2 Queste argomentazioni portano al rigetto anche del
secondo motivo, relativo alla asserita mancata valutazione
dell'affidamento, sorto in capo alla ricorrente, che sta
gestendo il servizio da due anni, con un ricavo (il canone
annuo di è di € 350.000,00,) in base a condizioni che al
momento della sottoscrizione erano state ritenute
favorevoli.
La possibilità di un risparmio economico
rende recessiva la posizione della ricorrente, anche con
riferimento all'affidamento da essa vantato alla
conservazione del servizio.
3.3 Da ultimo parte ricorrente lamenta la violazione
dell’art. 21-octies, comma 2, L. 241/1990, perché non è
stato notificato alcun preavviso di rigetto e
l’Amministrazione non ha dimostrato che il provvedimento non
avrebbe potuto avere un differente contenuto, stante la
possibilità di rinegoziazione dei contenuti economici del
contratto.
Anche questo motivo non può essere accolto, in quanto anche
la rinegoziazione delle condizioni non avrebbero potuto
sanare il vizio originario, della mancanza di indagine di
mercato.
Si ricorda inoltre che il mancato rispetto
dell'obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza, imposto dall'art. 10-bis, l.
07.08.1990 n. 241, è inidoneo di per sé a giustificare
l'annullamento di un atto, non essendo consentito, ai sensi
del successivo art. 21-octies, l'annullamento dei
provvedimenti amministrativi, il cui contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato; ne
consegue che -come nella fattispecie- laddove il ricorrente
si limiti a contestare l'omessa comunicazione del preavviso,
senza nemmeno allegare le circostanze che non avrebbe potuto
incolpevolmente sottoporre all'Amministrazione, il motivo
con cui si censura la mancata comunicazione deve intendersi
inammissibile o, comunque, irrilevante per assoluta
genericità (Tar
Lazio, sez. III; 21.04.2015, n. 5823).
Pertanto il ricorso va respinto, unitamente alla domanda di
risarcimento dei danni, stante la legittimità dell’operato
dell’Azienda sanitaria. |
APPALTI: Concessioni, doppia garanzia.
Dalle banche, nell'interesse pubblico.
Legittimo richiedere due referenze bancarie quando
l'affidamento di una concessione deve garantire la tutela di
esigenze imperative di interesse pubblico e sociale che
possono prevalere sulla garanzia della massima concorrenza.
È quanto ha affermato la Corte di giustizia Ue, Sez. II, con
la
sentenza 08.09.2016 n. C-225/15, rispetto a una
vicenda relativa a un appalto per l'affidamento di una
concessione per la scommesse su eventi sportivi, inclusi
quelli ippici. Veniva eccepito che l'imposizione, da parte
delle autorità italiane, di rigidi requisiti di
partecipazione alla gara avrebbe dovuto necessariamente
conciliarsi con il principio della massima partecipazione
alla gara.
La sentenza afferma che, in via generale, l'obbligo di
fornire dichiarazioni da parte di due istituti bancari è
«atto a garantire che l'operatore economico possegga una
capacità economica e finanziaria che gli consenta di far
fronte agli obblighi che potrebbe contrarre nei confronti
dei vincitori delle scommesse». Su questo punto la Corte si
era già espressa in passato affermando che il requisito
della disponibilità di un capitale sociale di una certa
entità può rivelarsi utile per accertare la capacità
economica e finanziaria di un concorrente.
Nel caso esaminato (scommesse e gioco d'azzardo, settore non
armonizzato dalle direttive Ue), la Corte europea ha
precisato che, premesso che le autorità nazionali hanno
molta discrezionalità nel determinare i requisiti a tutela
del consumatore e dell'ordine sociale, l'obbligo di
presentare due dichiarazioni provenienti da due istituti
bancari distinti «non eccede quanto necessario per
raggiungere l'obiettivo perseguito laddove ciò risulti da
una valutazione che deve essere effettuata alla luce degli
obiettivi perseguiti dalle autorità e del livello di tutela
che esse intendono assicurare».
Dunque, è la conclusione,
tenuto conto della natura delle attività economiche dei
giochi d'azzardo, il requisito imposto agli offerenti
costituiti da meno di due anni, e i cui ricavi complessivi
dell'attività di operatore di gioco fossero inferiori a 2 mln
di euro negli ultimi due esercizi, di fornire dichiarazioni
da almeno due istituti bancari, non risulta eccedere quanto
necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito (articolo ItaliaOggi del 16.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
1) La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi e, in particolare, il suo
articolo 47 devono essere interpretati nel senso che una
normativa nazionale che disciplina il rilascio di
concessioni nel settore dei giochi d’azzardo, come quella di
cui trattasi nel procedimento principale, non rientra nel
loro ambito di applicazione.
2) L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso
non osta ad una disposizione nazionale, come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, che impone agli
operatori che intendono rispondere ad una gara diretta al
rilascio di concessioni in materia di giochi e di scommesse
l’obbligo di comprovare la propria capacità economica e
finanziaria mediante dichiarazioni rilasciate da almeno due
istituti bancari, senza ammettere la possibilità di
dimostrare tale capacità anche in altro modo, sempreché la
disposizione di cui trattasi sia conforme ai requisiti di
proporzionalità stabiliti dalla giurisprudenza della Corte,
circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. |
PUBBLICO IMPIEGO: Timbra
il cartellino e poi se ne va via, recesso confermato.
Licenziamenti. Sanzionato dipendente Asl.
Risulta legittima e proporzionata la misura sanzionatoria
del licenziamento disciplinare, preceduta dal provvedimento
di sospensione, irrogata nei confronti del pubblico
dipendente assentatosi dal servizio dopo aver fatto
risultare in modo fittizio la sua presenza attraverso la
timbratura del cartellino marcatempo.
La Corte di Cassazione -Sez- lavoro- è pervenuta a questa
decisione nel caso del dipendente di un’azienda sanitaria
locale. Il lavoratore, a quanto si evince dalla
sentenza 06.09.2016 n. 17637,
dopo aver effettuato la timbratura del cartellino all’atto
di entrare nella struttura ospedaliera, era uscito per
dedicarsi ad attività estranea rispetto a quella lavorativa.
Lo stesso dipendente risultava avere poi effettuato la
timbratura in uscita al termine del turno di servizio previo
rientro nella struttura ospedaliera. Per i giudici di
legittimità, che hanno confermato il giudizio dei due gradi
di merito, il lavoratore con questo comportamento si era
reso responsabile di falsa attestazione della propria
presenza in servizio.
La Corte rimarca che la condotta inadempiente realizza una
delle fattispecie contemplate dal decreto 165/2001 (Testo
unico sul pubblico impiego) in presenza delle quali è
prevista la sanzione disciplinare del licenziamento.
L’articolo 55-quater del Testo unico prevede, in proposito,
che incorre nel licenziamento, tra l’altro, il dipendente
pubblico che si rende responsabile di «falsa attestazione
della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei
sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità
fraudolente».
Ad avviso della Cassazione, nell’ambito di questa
disposizione di legge rientra lo specifico comportamento del
pubblico dipendente che effettua la timbratura del
cartellino marcatempo, in entrata e in uscita, in assenza di
una effettiva corrispondenza con la sua presenza in
servizio, in quanto risultano integrati gli estremi della
falsa attestazione sull’orario di lavoro mediante utilizzo
di una dinamica fraudolenta.
La Cassazione osserva pure come la falsa attestazione circa
l’effettiva presenza in servizio riportata sul cartellino
marcatempo possa anche integrare gli estremi del reato di
truffa aggravata, che si realizza nel caso in cui i periodi
di assenza ingiustificata siano da considerare
economicamente apprezzabili, ovvero siano tali da arrecare
un pregiudizio valutabile in termini monetari a carico della
pubblica amministrazione.
La sentenza è degna di nota per l’attualità del tema
affrontato e si fa particolarmente apprezzare in relazione
alle recenti modifiche previste dalla Riforma Madia con
riferimento ai nuovi termini per la definizione del
procedimento disciplinare diretto a sanzionare proprio le
azioni dei dipendenti pubblici connotate da un utilizzo
fraudolento degli strumenti di rilevazione delle presenze (articolo Il Sole 24 Ore del
07.09.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
VARI:
Foglio di via per chi turba la convivenza civile.
Il Ministero dell'interno può emettere il foglio di via
obbligatorio nei confronti di chi turbi la tranquillità
della convivenza civile.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 06.09.2016 n. 3818.
La vicenda ha riguardato un uomo a cui è stato
temporaneamente impedito di fare rientro nel Comune di Roma.
Ciò è avvenuto perché, una volta perso il lavoro,
l'interessato è stato fatto oggetto di numerose denunce per
reati contro l'ordine pubblico: manifestazione non
autorizzata, inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità,
resistenza a pubblico ufficiale, procurato allarme,
interruzione di pubblico servizio, invasione di edifici ecc.
Si cita un episodio di resistenza passiva o l'aver impedito
col proprio corpo l'uscita della vettura del capo gabinetto
di un ministero. Insomma l'interessato «da anni protesta»
in vari modi contro il licenziamento.
Se si consulta il dato normativo ci si accorge che l'art. 1
del decreto legislativo n. 159 del 2011 prevede che le
misure di prevenzione personali siano applicabili in alcuni
casi, tra cui (lett. c) nei riguardi di coloro che per il
loro comportamento offendono o mettono in pericolo... la
sicurezza o la tranquillità pubblica.
Invece, per quanto riguarda il foglio di via obbligatorio
(art. 2), viene richiamato come presupposto applicativo solo
la sicurezza, e non anche la tranquillità pubblica. I
giudici amministrativi hanno tuttavia dichiarato legittimo
l'ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio,
peraltro anche valutando circostanze sopravvenute.
Palazzo Spada ha affermato che i fatti si sono tradotti non
soltanto «in manifestazioni di protesta o anche
comportamenti soltanto petulanti o fastidiosi», ma in
condotte costituenti reato, lesive della tranquillità
pubblica. Vi è da dire che il ragionamento espresso in
sentenza sovrappone quindi i concetti di sicurezza e
tranquillità pubblica (che parrebbe più sfuggente e meno
intenso) come base applicativa della misura, mentre il dato
normativo generale (art. 1) li prevede con particella
disgiuntiva
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
APPALTI: Gara, ammesso chi paga la cartella a rate.
Cassazione. Non è punibile con l’esclusione chi certifica di
non avere commesso violazioni tributarie e paga il debito
dilazionato
L'imprenditore, che per partecipare a una gara pubblica
certifica falsamente l'assenza di violazione tributarie
definitivamente accertate, non commette il reato di falso se
è stato ammesso alla rateazione del debito tributario
dall'amministrazione finanziaria prima della partecipazione
alla procedura e non sia inadempiente nel pagamento della
varie rate.
A fornire questa
interessante interpretazione è la Corte di Cassazione, Sez.
V penale, con la
sentenza 05.09.2016
n. 36821.
Un imprenditore veniva condannato nei due gradi di giudizio
per aver attestato falsamente nell'istanza di partecipazione
a una gara per la fornitura di un'autovettura a un Comune,
di non aver commesso violazioni definitivamente accertate
rispetto agli obblighi relativi al pagamento di imposte e
tasse, nonostante fossero state definitivamente accertate
nei suoi confronti numerose irregolarità fiscali.
Secondo i
giudici di merito, la rateazione dei debiti tributari
successiva al loro accertamento non faceva venir meno la
mendacità della dichiarazione.
Ricorreva con successo per cassazione l'imputato.
Innanzitutto la Cassazione rileva che la norma esclude dalla
partecipazione alle gare pubbliche i soggetti che hanno
commesso violazioni definitivamente accertate rispetto agli
obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse secondo la
legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti,
facendo specifico riferimento al pagamento di debiti
tributari certi scaduti ed esigibili.
Come evidenziato dalla
giurisprudenza amministrativa in varie pronunce ciò che
rileva in materia non è la tutela corretta del prelievo
fiscale ma l'affidabilità dei soggetti che contrattano con
la Pa. Tale affidabilità potrebbe venir meno in presenza di
omessi o ritardati pagamento ovvero di sottrazione di
materia imponibile a imposizione. L'accesso alla rateazione
per tali violazioni differisce in concreto l'esigibilità
della scadenza dei debiti tributari iniziali.
Si tratta di
un istituto che va incontro alle imprese in temporanea
difficoltà economica: esse possono regolarizzare la propria
posizione tributaria senza incorrere in rischi di
insolvenza. In tale contesto è evidente che il contribuente
ammesso alla rateazione del debito tributario conseguente a
violazioni fiscali non commette alcun reato se dichiara di
non aver commesso illeciti tributari definitivamente
accertati.
A tal fine, secondo i giudici di legittimità, sono
necessarie alcune condizioni: 1) la rateazione sia stata
accordata con un provvedimento dell'amministrazione
finanziaria antecedente alla istanza di partecipazione alla
gara; 2) non risulti inadempiuta anche una sola rata ovvero
il piano non sia stato revocato dall'amministrazione; 3) non
deve trattarsi di transazione fiscale in quanto, operando
nell'ambito di un concordato preventivo o un accordo di
ristrutturazione del debito, per essere efficace richiede
l'omologazione del Tribunale (articolo Il Sole 24 Ore del
06.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito esposte.
1. Nessun dubbio sul fatto che le false
dichiarazioni contenute nell'istanza di partecipazione ad
una gara d'appalto, rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del
dPR 445/2000 concretino il reato di cui agli artt. 76 dPR
cit. e 483 cod. pen..
In tal senso è la costante giurisprudenza dì questa Corte,
la quale insegna che le dichiarazioni
sostitutive di certificazioni, rese ai sensi degli artt. 46
e 47 del predetto d. P.R. n. 445 dei 2000, si considerano
come fatte a pubblico ufficiale, sicché la falsità delle
stesse integra il reato di cui all'art. 483 cod. pen.
(Cass., sez. 5, n. 18731 del 31/01/2012; Sez. 3, n. 7363 del
12/01/2012; Sez. 5, n. 12149 del 01/12/2011; Sez. 5, n. 3681
del 14/12/2010).
Conseguentemente, anche la dichiarazione
resa al Comune, all'atto di partecipazione ad una gara
d'appalto, è rivolta a pubblico ufficiale ed è sanzionata
-in caso di falsità- dall'art. 483 cod. pen..
2. E' fondato, invece, il secondo motivo di ricorso (e con
esso il terzo).
Entrambi i giudici di merito hanno ritenuto irrilevante il
fatto che i debiti tributari, maturati a carico del
dichiarante negli anni 1998-2004, fossero stati oggetto di
rateizzazione. Questo perché, si legge in sentenza,
l'ammissione al beneficio -da parte dell'ente creditore- non
aveva fatto venir meno gli inadempimenti precedenti e, in
particolare, "le irregolarità definitivamente accertate",
ma, anzi, le presupponeva, "avendo lo scopo di
indirizzare verso forme meno invasive e sostanzialmente
concordate con il contribuente l'attività di esazione"
(pag. 6). Di conseguenza, l'ammissione al pagamento
rateizzato non aveva fatto venir meno l'illecito
precedentemente commesso.
2.1. Tale indirizzo non può essere condiviso.
Secondo il disposto dell'art. 38 del d.lgs.
12.04.2006, n. 163, come modificato dall'art. 1, comma 5,
legge 26.04.2012, n. 44 -che esclude dalla partecipazione
alle procedure di affidamento delle concessioni e degli
appalti dei lavori, forniture e servizi, i soggetti che
hanno commesso violazioni, definitivamente accertate,
rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e
tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato
in cui sono stabiliti- costituiscono "violazioni
definitivamente accertate quelle relative all'obbligo di
pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed
esigibili".
Il riferimento alla "esigibilità"
del debito tributario
-introdotto nel 2012 dalla legge 44 citata- ha reso evidente
che, nell'intenzione del legislatore,
l'ostacolo alla partecipazione alle gare d'appalto è
rappresentato da debiti indicativi di una situazione di
irregolarità gestoria dell'impresa o di difficoltà
finanziaria della stessa, che rendono incerta l'esecuzione
dei lavori eventualmente affidati all'impresa partecipante
alla gara.
Come è stato sottolineato dalla giurisprudenza
amministrativa, ciò che rileva in materia
non è la tutela del corretto prelievo fiscale come previsto
nell'ordinamento tributario, ma soltanto l'affidabilità dei
soggetti che contrattano con l'amministrazione, affidabilità
che viene meno tanto nel caso di omessi e ritardati
pagamenti quanto nel caso di sottrazione di materia
imponibile caratterizzata da artifici e raggiri contabili e
quale che sia l'entità dell'evasione accertata.
L'inaffidabilità dei soggetti che sono
incorsi in violazioni di carattere tributario rimane
sospesa, però, in caso di attivazione delle procedure
amministrative o giurisdizionali di controllo, mentre
l'affidabilità può essere ripristinata da sanatorie
legislative, dall'adesione a procedure conciliative o dagli
accordi intervenuti con l'ente impositore, tra cui la
rateizzazione. Questa, rimodulando la scadenza dei debiti
tributari e differendone l'esigibilità, cancella anche
l'originario inadempimento dei destinatari delle cartelle
esattoriali.
Il carattere novativo della rateizzazione
di un debito tributario è, dunque, una manifestazione del
favore legislativo verso i contribuenti in temporanea
difficoltà economica, ai quali viene offerta la possibilità
di regolarizzare la propria posizione tributaria senza
incorrere nel rischio di insolvenza. In questa prospettiva
la rateizzazione può essere considerata una misura di
sostegno alle imprese
(in questo senso: Cons. Stato, Sez. V, 18.11.2011, n. 6084;
Cons. Stato Sez. III, Ordinanza 05.03.2013, n. 1332; TAR
Lombardia Milano Sez. I, 14.06.2013, n. 1552; TAR Lombardia
Brescia, Sez. II, 10.12.2012, n. 1924; TAR Emilia-Romagna
Bologna, Sez. I, 10.12.2010, n. 8108; TAR Toscana Firenze,
Sez. I, 13.07.2010, n. 2529).
Ne è prova il fatto che in ambito diverso, ma affine a
quello di cui si discute, anche l'autorità
amministrativa considera sufficiente, per ritenere
sussistente il requisito della regolarità contributiva, la "richiesta
di rateizzazione per la quale l'Istituto competente abbia
espresso parere favorevole" (art. 5 D.M. 24.10.2007).
Parimenti, l'Autorità Nazionale Anticorruzione ha,
con deliberazione n. 1 del 12.01.2010, nello stabilire i
requisiti di ordine generale per l'affidamento di contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture ai sensi dell'art.
38 d.lgs. 163/2006, previsto l'esclusione
del concorrente per irregolarità fiscale, "salvo completa
regolarizzazione".
Il principio espresso dalla giurisprudenza
amministrativa va condiviso, perché individua correttamente
la ratio dell'art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163,
che non è volto a sanzionare le imprese inadempienti agli
obblighi tributari, ma ad assicurare la partecipazione alle
gare d'appalto di soggetti privi di pendenze col fisco, che
mettano in discussione la capacità di realizzazione delle
opere loro affidate.
2.2. Affinché la rateizzazione del debito
fiscale possa elidere la "violazione fiscale
definitivamente accertata" sono necessarie, però, alcune
condizioni, che vanno accertate in concreto.
E' necessario, innanzitutto:
- che la rateizzazione sia stata accordata con idoneo
provvedimento dell'amministrazione finanziaria antecedente
alla data di presentazione della domanda di partecipazione
alla procedura di gara, non bastando che una domanda di
rateizzazione, magari inadeguata o pretestuosa, sia stata
presentata;
- che non risulti inadempiuta anche relativamente ad una
sola rata o non risulti disdetta dall'autorità
amministrativa;
- che non sia avvenuta nell'ambito di una transazione
fiscale, la quale, operando dentro il concordato preventivo
o l'accordo di ristrutturazione, per essere efficace,
richiede l'omologazione da parte del Tribunale. |
URBANISTICA:
Il potere di pianificazione territoriale deve
essere correlato ad un concetto di urbanistica che non è
limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei
suoli (relativamente ai tipi di edilizia, distinti per
finalità), ma che è volto a perseguire obiettivi
economico-sociali della comunità locale, in armonico
rapporto con analoghi interessi di altre comunità
territoriali.
In particolare, il concetto di urbanistica non è strumentale
solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio
del territorio in relazione alle diverse tipologie di
edificazione, ma è volto funzionalmente alla realizzazione
contemperata di una pluralità di interessi pubblici che
trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente
tutelati.
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La richiesta di approvazione di una variante diretta a veder
realizzato una grande struttura commerciale interessante una
zona del territorio comunale, particolarmente sensibile per
la gestione dell’intero territorio comunale posta com’è in
una posizione strategica per la città (nei pressi della foce
del fiume Metauro, nelle vicinanze del mare e luogo altresì
di grande valenza ambientale), avuto riguardo -quindi- alle
caratteristiche e alla valenza dei luoghi la scelta
urbanistica del Comune in questa specifica ipotesi, ancorché
diretta ad incidere formalmente su una singola area, in
realtà va a riguardare le sorti di una importante,
strategica porzione del territorio comunale sicché la
previsione che si va ad adottare si inserisce in un più
complessivo disegno di governo del territorio da parte
dell’ente locale.
Questo sta a significare che la motivazione di accordare o
meno una tipizzazione del genere di quella richiesta da ...
deve essere conforme al complesso di scelte da effettuarsi
nella sede dello strumento urbanistico secondo criteri di
sufficienza e congruità, rispetto alle quali la posizione
del privato, per quanto meritevole in sé di apprezzamento,
si appalesa senz’altro recessiva.
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E' granitico l'orientamento giurisprudenziale per cui le
scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di
pianificazione urbanistica di carattere generale
costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato
di legittimità se non per profili di manifesta illogicità ed
irragionevolezza.
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4. L’appello è fondato e deve essere
accolto.
Preliminarmente il Collegio osserva che, in aderenza ai
principi sviluppati dalla Adunanza plenaria n. 5 del 2015,
si presenta come maggiormente liquida (e dunque assorbente
di altro profilo), la disamina del secondo motivo di appello
che appunta le sue critiche sull’ordito motivazionale della
sentenza qui gravata, lì dove il TAR, avallando le censure
formulate dalla ricorrente di primo grado ha ritenuto
generiche ed indimostrate le ragioni variamente esposte dal
Consiglio comunale nella delibera n. 25/2015 a sostegno della
determinazione di non approvazione della variante al PRG
proposta da Ma.Po. s.r.l.
4.1. In particolare il primo giudice ha rilevato che le
motivazioni rese in sede di dichiarazione di voto
dall’assemblea consiliare ed inerenti alle esigenze di
approfondire ulteriormente le problematiche urbanistiche
dell’intero territorio comunale nonché agli aspetti della
pianificazione commerciale fossero generiche ed apodittiche
se non dilatorie, come tali non idonee a giustificare
l’opposto diniego.
4.2. L’appellante Amministrazione comunale ritiene errate
le osservazioni e prese conclusioni del Tar, rilevando la
legittimità delle giustificazioni addotte dal Consiglio
comunale a sostegno del proprio divisamento.
4.3. I profili di doglianza dedotti dalla parte appellante
appaiono meritevoli di positivo apprezzamento.
Tutti i motivi accolti in prime cure, infatti, o sono
inammissibili -perché impingono il merito di valutazioni e
scelte di politica urbanistica ampiamente discrezionali al
di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito
previsti dall’art. 134 c.p.a. (cfr. Ad. plen., n. 5 del
2015)– o sono infondati, alla stregua delle risultanze
istruttorie documentali versate in atti.
4.4. Il Collegio deve innanzitutto qui richiamare principi
già espressi dalla giurisprudenza di questa Sezione in
relazione all’esercizio del potere di pianificazione
urbanistica ed alla natura della motivazione delle scelte in
tal modo effettuate.
Questa Sezione con sentenza del 10.05.2012 n. 2710 (successivamente riconfermata nelle sue motivazioni) ha già
avuto modo di osservare che il potere di pianificazione
territoriale deve essere correlato ad un concetto di
urbanistica che non è limitato alla disciplina coordinata
della edificazione dei suoli (relativamente ai tipi di
edilizia, distinti per finalità), ma che è volto a
perseguire obiettivi economico-sociali della comunità
locale, in armonico rapporto con analoghi interessi di
altre comunità territoriali.
In particolare, il concetto di urbanistica non è strumentale
solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio
del territorio in relazione alle diverse tipologie di
edificazione, ma è volto funzionalmente alla realizzazione
contemperata di una pluralità di interessi pubblici che
trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente
tutelati (cfr. di recente, Sez. IV, n. 2221 del 2016).
Tanto premesso in linea generale, con riferimento alla
fattispecie all’esame, la richiesta di approvazione di una
variante diretta a veder realizzato una grande struttura
commerciale va interessare una zona del territorio comunale,
quella costituita dall’area dell’ex zuccherificio
particolarmente sensibile per le gestione dell’intero
territorio comunale posta com’è in una posizione strategica
per la città di Fano (alle porte sud), nei pressi della
foce del fiume Metauro, nelle vicinanze del mare e luogo
altresì di grande valenza ambientale.
Avuto riguardo quindi alle caratteristiche e alla valenza
dei luoghi la scelta urbanistica del Comune in questa
specifica ipotesi, ancorché diretta ad incidere formalmente
su una singola area, in realtà va a riguardare le sorti di
una importante, strategica porzione del territorio comunale
sicché la previsione che si va ad adottare si inserisce in
un più complessivo disegno di governo del territorio da
parte dell’ente locale.
Questo sta a significare che la motivazione di accordare o
meno una tipizzazione del genere di quella richiesta da
Ma.Po. S.r.l. deve essere conforme al complesso di
scelte da effettuarsi nella sede dello strumento urbanistico
secondo criteri di sufficienza e congruità, rispetto alle
quali la posizione del privato, per quanto meritevole in sé
di apprezzamento, si appalesa senz’altro recessiva (Cons.
Stato, Sez. IV, n. 5478 del 2008).
Se così è, tornando alla fattispecie all’esame deve darsi
atto che la motivazione di negare la chiesta variazione di
destinazione, come resa dal Consiglio Comunale di Fano
attraverso le dichiarazioni di voto dei componenti
dell’assemblea consiliare appare rispettosa dei su riportati
principi giurisprudenziali dai quali il Collegio non ha
motivo di discostarsi.
Invero, dalle articolate dichiarazioni di voto costituenti
la motivazione per relationem della delibera per cui è
causa, il Consiglio comunale ha formulato considerazioni che
hanno riguardato due fondamentali aspetti della disciplina
pianificatoria:
a) quello relativo alle problematiche urbanistiche afferenti
l’intero territorio comunale in relazione alle quali,
coerentemente alle impostazioni generali del Piano
l’assemblea comunale ha espresso la volontà di procedere ad
una più generale riconsiderazione della disciplina
riguardante la più vasta zona territoriale costituita
dall’area ex zuccherificio ;
b) quello riguardante la tematica commerciale lì dove ha il
Consiglio comunale ha privilegiato le forme di commercio,
quelle c.d. “di vicinato” rispetto al commercio di massa, il
tutto nell’ambito di una nuova visione dell’assetto
dell’area diretta a promuovere le variegate valenze del
luogo e a superare le esigenze d’impresa.
Ora le valutazioni espresse dall’Organo consiliare non solo
non sono generiche ed apodittiche, ma costituiscono parte
consustanziale di una motivazione “politica” pienamente
consentita oltre ché giustificata perché coerente con il
complesso di scelte urbanistiche interessanti lo sviluppo di
una “significativa” parte del territorio comunale, rimesse,
come tali alla discrezionalità del massimo organo comunale
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 8682 del 2010) .
All’uopo è sufficiente richiamare il granitico orientamento
giurisprudenziale per cui le scelte effettuate
dall’Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica
di carattere generale (come quella qui in rilievo)
costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato
di legittimità se non per profili di manifesta illogicità ed
irragionevolezza, qui non rinvenibili (Cons. Stato, Sez. IV,
n. 7492 del 2010).
Infine, vale qui far rilevare come non ricorra una
particolare situazione che abbia creato aspettativa o
affidamento in favore della Società richiedente la
variazione urbanistica in contestazione, non potendo certo
discendere una aspettativa giuridicamente qualificata dalla
interlocuzione infra procedimentale e dalla esistente
destinazione produttiva impressa all’area, come richiesto
dalla Società originariamente ricorrente ed erroneamente
pure sostenuto dal TAR (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. n.
9006 del 2009).
5.- In forza di quanto sin qui esposto, l’appello va accolto
con riforma in parte qua dell’impugnata sentenza
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza IV,
sentenza 05.09.2016 n. 3806 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Ristrutturazioni: responsabilità ampia.
La Cassazione su L’Aquila. Il compito dei professionisti va
oltre l’intervento migliorativo.
Nelle indagini
sul terremoto del 24 agosto, potrebbe diventare ancora più
difficile la posizione dei professionisti che hanno
ristrutturato gli edifici crollati: proprio ieri la Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, ha depositato una sentenza che
attribuisce loro ampie responsabilità, in questo caso sul
sisma che il 06.04.2009 colpì L’Aquila.
Secondo i giudici,
il loro compito va oltre quello che si potrebbe desumere dal
fatto che i lavori consistono “solo” in interventi
migliorativi parziali. E comprende l’obbligo di informare
bene i proprietari sui potenziali rischi che un intervento
parziale comporta, in modo che possano eventualmente
commissionare ulteriori lavoro.
La
sentenza 01.09.2016 n. 36285
esamina le responsabilità penali di un tecnico incaricato da
un condominio, sette anni prima del sisma, di progettare ed
eseguire il rinforzo di sei pilastri in calcestruzzo armato.
L’edificio è poi integralmente crollato.
Dunque, come in questi giorni tra Reatino ed Ascolano, anche
in questo caso si discute di “adeguamento” e di
“miglioramento” sismico, di analisi sulla struttura edilizia
globale quando vi si esegue un parziale intervento (che
potrebbe anche rafforzare alcune parti dell’edificio ma far
gravare maggior peso su altre che vengono invece lasciate
com’erano) e di “posizione di garanzia del direttore dei
lavori” (intesa come obbligo di garantire sia la corretta
esecuzione dei lavori sia la complessiva sicurezza del
manufatto).
Il fulcro del ragionamento della Corte è l’autonomia tra le
opere affidate e quelle già esistenti prima dei lavori sotto
accusa: su queste ultime, evidentemente, non c’è un vero
potere di intervento da parte del direttore dei lavori.
Nonostante questo, secondo la Cassazione egli ha comunque
l’obbligo giuridico di intervenire (articolo 40 del Codice
penale), proprio perché a lui è attribuita una posizione di
garanzia. Infatti, essa implica l’obbligo giuridico di
impedire che si verifichi un evento (il crollo, in questo
caso). E non impedire un evento pur avendo l’obbligo di
farlo equivale a cagionarlo.
Nel caso specifico, il direttore dei lavori era stato
condannato perché aveva l’obbligo di ben eseguire il mandato
di rafforzare pilastri con gravi fragilità per errori di
valutazione dei progettisti ed esecutori iniziali, in
particolare sulla qualità del calcestruzzo.
Un intervento che esigeva un collaudo, necessariamente
esteso all’intera struttura. Anche se si trattava di un
intervento “migliorativo” secondo il Dm 16.01.1996,
punto C.9.1.2., era infatti un risanamento strutturale e
funzionale, con implicazioni importanti di natura statica.
Nei miglioramenti va documentato l’adeguamento per le sole
opere interessate, ma nella relazione tecnica va anche
essere dimostrato che non si producano sostanziali modifiche
nel comportamento strutturale globale dell’edificio.
Tutto ciò, comunque, non implica una condanna sicura per il
professionista “negligente”: la Cassazione lo ha
rinviato in Corte d’appello, per far stabilire se le vittime
avrebbero commissionato altri e decisivi lavori, qualora
informate dei rischi (articolo Il Sole 24 Ore del
02.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia,
meno lacci e lacciuoli. Ritocchi a prospetti e coperture
senza ok paesaggistico. Lo prevede il dpr in materia di
autorizzazione che ha avuto l'ok del Consiglio di stato.
L'autorizzazione paesaggistica versione light esonera
prospetti e coperture degli edifici (se di modesta entità).
È quanto prevede lo schema di dpr (Atto
del Governo n. 336 - Schema di decreto del
Presidente della Repubblica recante regolamento relativo
all'individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata) sulla individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata (articolo
12 del dl 83/2014), che ha superato, con alcuni rilievi, il
vaglio del
parere 01.09.2016 n. 1824 del Consiglio di Stato.
La struttura dell'articolato del decreto evidenzia gli
interventi paesaggisticamente irrilevanti o di lieve entità
non soggetti ad autorizzazione paesaggistica e gli
interventi di lieve entità sottoposti a una procedura
autorizzatoria semplificata.
Il parere di palazzo Spada si sofferma sui primi, innanzi
tutto, per formulare una opinione di congruità di massima.
In effetti l'esonero dall'autorizzazione deve essere
appannaggio degli interventi privi di rilevanza
paesaggistica. E questo si verifica, ad esempio, per le
opere interne che non alterano l'aspetto esteriore degli
edifici.
Diverso è il caso di altri interventi, per i quali il
Consiglio di stato eccepisce la non rispondenza al criterio
della inesistenza di impatto paesaggistico.
Il parere si riferisce a quegli interventi che, per
definizione, non possono ritenersi irrilevanti ai fini
paesaggistici, fra i quali rientrano, sempre per esempio,
gli interventi relativi ai prospetti e alle coperture degli
edifici.
Il parere in commento, riferisce, però, che, in proposito,
il ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo ha rilevato che questi interventi non sono soggetti
ad autorizzazione paesaggistica solamente qualora in
relazione alla loro dimensione o alle modalità della loro
realizzazione non assumano una specifica lesività nei
confronti del contesto tutelato dal vincolo, rispettando
«gli eventuali piani colore vigenti nel comune» e «le
caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti».
Altri interventi pure liberalizzati, ma che, in astratto,
sembrano poter incidere in maniera lesiva sul contesto
paesaggistico, sono quelli «indispensabili per
l'eliminazione delle barriere architettoniche», e quello
concernente l'istallazione di «micro generatori eolici» di
altezza inferiore a metri 1,5.
Anche in relazione a tali interventi, il ministero ha fatto
delle precisazioni: la liberalizzazione opera per rispettare
l'interesse della tutela della salute e dei soggetti
diversamente abili e la promozione dell'utilizzo di fonti
rinnovabili di produzione dell'energia.
Sulla scorta di queste deduzioni, il Consiglio di stato ha
licenziato favorevolmente il parere, che si spinge a
chiedere un coordinamento con altre norme in corso d'opera.
In particolare il discorso riguarda il cosiddetto decreto
«Scia/2». Anche quest'ultimo provvedimento precede
semplificazioni amministrative e, in particolare, interventi
liberalizzati e non ci devono essere contraddizioni.
Il decreto in esame, oltre a interventi e opere non soggetti
ad autorizzazione paesaggistica, individua gli interventi,
di regola inseriti fra quelli che necessitano di
un'esplicita autorizzazione paesaggistica, che, però,
possono essere realizzati senza l'acquisizione di tale
provvedimento, nel caso in cui il decreto di vincolo o il
piano paesaggistico prevedano specifiche prescrizioni d'uso.
Infine ci sono interventi che non necessitano di
autorizzazione paesaggistica, perché compresi nell'ambito
applicativo di specifici «accordi di collaborazione» fra
ministero, regione ed enti locali.
Il decreto elenca, infine, interventi e opere di lieve
entità soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato.
Per il procedimento autorizzatorio semplificato sono
previste tre diverse modalità di presentazione dell'istanza:
l'invio, anche telematico, allo sportello unico per
l'edilizia (Sue) nel caso di interventi edilizi; l'invio,
anche telematico, allo sportello unico per le attività
produttive (Suap); l'invio all'autorità procedente nei casi
residuali. Il termine «tassativo» di conclusione del
procedimento autorizzatorio semplificato è di sessanta
giorni dal ricevimento della domanda da parte
dell'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2016).
---------------
Al riguardo, si
legga anche:
●
Intesa sullo schema di decreto del Presidente della
Repubblica recante regolamento, proposto dal Ministro dei
beni e delle attività culturali e del turismo, relativo
all’individuazione degli interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del
decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con
modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come
modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164 (Conferenza Unificata,
repertorio atti n. 90/CU del 07/07/2016);
● Oggetto: Schema
di decreto
del Presidente della Repubblica recante regolamento relativo
all’individuazione degli interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del
decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con
modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come
modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164 (Presidenza del Consiglio dei Ministri,
esame preliminare del 15.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione
paesaggistica, disco verde dal Consiglio di Stato.
Il Consiglio di stato -Sezione consultiva atti normativi–
con il
parere 01.09.2016 n. 1824 ha espresso avviso favorevole, con alcune osservazioni
e proposte di correttivi, sullo schema di decreto
(Atto
del Governo n. 336 - Schema di decreto del
Presidente della Repubblica recante regolamento relativo
all'individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata) proposto
dal Ministero per i beni culturali riguardante
l'individuazione degli interventi che sono esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o sono sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata.
Il decreto, spiega una nota di Palazzo Spada, si pone
l'obiettivo di snellire il peso burocratico sulle iniziative
dei privati, cittadini e imprese, e di restituire efficienza
ed efficacia all'azione amministrativa in un ambito, quale
quello della tutela paesaggistica, particolarmente delicato
per la rilevanza costituzionale degli interessi pubblici
coinvolti.
Il Consiglio di stato, tra le osservazioni formulate, ha
precisato che qualora occorrano sia un'autorizzazione
paesaggistica, sia un permesso di costruzione, in caso di
disaccordo tra le amministrazioni rispettivamente
competenti, si convoca una conferenza di servizi; e che in
ogni caso è fatta salva, ove occorrente, la distinta
autorizzazione da rilasciare a tutela dei beni di interesse
storico, artistico o archeologico.
Inoltre i giudici di Palazzo Spada hanno osservato che anche
per gli interventi «liberalizzati», le disposizioni del
decreto hanno immediata applicazione per le regioni a
statuto ordinario, laddove le regioni a statuto speciale e
le province autonome di Trento e Bolzano hanno l'obbligo di
darvi attuazione con proprie disposizioni, secondo i
principi statutari.
Intanto, in attuazione del Codice appalti, è stato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 293 del 31.08.2016 il dpcm 10.08.2016 recante «Composizione e modalità
di funzionamento della Cabina di regia», previsto
dall'articolo 212, comma 5, del nuovo Codice. La Cabina si
riunisce per la predisposizione delle proposte di modifica e
correttive al fine di garantire l'efficacia degli interventi
normativi e regolatori nei settori degli appalti e delle
concessioni e anche per la segnalazione all'Anac,
l'Authority anticorruzione, prevista dall'art. 212, comma 2,
del nuovo codice
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
La risarcibilità del danno scatta anche senza
cauzioni o polizze. CONTRATTI PUBBLICI/ Sentenza del
Consiglio di stato: principio generale.
Nei contratti pubblici il principio generale sulla
risarcibilità del danno si applica pur se il bando non
richiede il versamento della cauzione provvisoria o la
presentazione della polizza fideiussoria.
Il principio è contenuto nella
sentenza
31.08.2016 n. 3755 del Consiglio di Stato, Sez.
III.
La vicenda, attinente a
investimenti per il funzionamento di un nuovo ospedale, ha
riguardato il rifiuto di stipulazione del contratto di mutuo
da parte della banca risultata prima in graduatoria. La
stazione appaltante ha quindi disposto lo scorrimento della
graduatoria individuando il nuovo contraente in altro
istituto di credito, che però prevedeva uno spread meno
favorevole. Per questo motivo è stato richiesto il
risarcimento del danno emergente risultante dal
differenziale tra il primo e il secondo spread.
In primo
luogo il collegio ha ritenuto la giurisdizione affermando
che «in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva
l'amministrazione pubblica ben può agire con un ricorso, a
tutela di un proprio diritto soggettivo». In secondo luogo
il rifiuto di stipulare il contratto a seguito della
presentazione della migliore offerta vincolante è stato
qualificato come un fatto illecito, e ciò al di là del fatto
che nella specie non vi era nemmeno stata l'aggiudicazione.
I giudici amministrativi hanno proseguito affermando che
l'ordinamento ha tradizionalmente disciplinato il caso in
cui l'aggiudicatario di una gara d'appalto poi si rifiuti di
stipulare il contratto.
In tal caso non rilevano le
discussioni concernenti la natura della sua responsabilità e
si prevedono forme di tutela «rafforzata» della stazione
appaltante: cauzione provvisoria e richiesta di pagamento «a
prima richiesta» al garante. Tuttavia, anche se il bando non
prevede tali forme di tutela la p.a. può chiedere al giudice
di disporre la condanna dell'autore del fatto illecito.
In
pratica «mentre nel diritto privato il codice civile del
1942 ha previsto regole per i casi di responsabilità
precontrattuale, nel diritto pubblico la normativa sulla
contabilità di stato e i codici sui contratti pubblici (2006
e 2016) hanno posto regole specifiche sullo specifico caso
in cui l'aggiudicatario violi i principi di buona fede e di
correttezza»
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Il parere vincolante impedisce il dietrofront.
L'amministrazione non può impugnare un proprio provvedimento
amministrativo adottato in base a un parere vincolante: o
sollecita la revisione del parere oppure fa ricorso contro
quest'ultimo.
Lo ha affermato il TAR Campania-Salerno, Sez. II, con la
sentenza 31.08.2016 n. 2040.
La questione riguarda i poteri dell'Autorità
decidente nei casi in cui la legge prevede la richiesta di
un parere vincolante, il cui contenuto deve essere recepito
in sede di provvedimento finale.
I giudici hanno ritenuto
che «per non incorrere in una insanabile contraddizione
logica» l'amministrazione non può prescindere dai pareri
vincolanti in caso di decorrenza del termine, in quanto a
essi non si applica l'art. 16 legge n. 241 del 1990.
In
secondo luogo viene affrontata la problematica del vincolo
contra legem: cioè le regole operanti nel caso in cui
l'Autorità competente all'adozione del provvedimento
conclusivo dubiti della legittimità del parere vincolante in
base al quale l'atto finale deve essere (senza possibilità
di dissenso) adottato. Il collegio ha deciso che l'autorità
decidente può sollecitare una determinazione revisionale
dell'organo consultivo (doverosa nell'an ma incerta negli
esiti) e semmai aggredire il parere in sede giurisdizionale.
Ciò anche perché il parere vincolante ha funzione decisoria
e quindi il rapporto tra autorità decidente e autorità
«consultata» si atteggia come decisione pluristrutturata (co-decisione),
sempre alla luce dell'onere di «leale cooperazione»
tra amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 09.09.2016).
---------------
MASSIMA
1.- Il ricorso, così come articolato, è inammissibile.
Importa anzitutto rammentare e ribadire, alla luce della
narrativa in fatto che precede, che il Comune di Cava de’
Tirreni ha inteso impugnare, con il ricorso articolato in
principalità, il parere contrario reso in data 19.03.2014
dalla Soprintendenza nel corso di detta conferenza dei
servizi, indetta dallo stesso Comune perché fosse accertato
l’eventuale contrasto dei fabbricati realizzati abusivamente
ed acquisiti al patrimonio comunale, con i rilevanti
interessi urbanistici e ambientali, e ciò avendo l’Ente
locale deciso di escludere l’abbattimento di tali opere,
ricorrendo, nel caso di specie, quei prevalenti interessi
pubblici (previsti dall’art. 31, comma 5, del DPR 380/2001)
che ne avrebbero consentito il mantenimento per finalità
sociali.
Congiuntamente ai pareri negativi espressi dalla
Soprintendenza, l’Ente locale ha, comunque, impugnato anche
il provvedimento finale (n. 43338 di prot.) di conclusione
dei lavori, adottato dal Dirigente del V Settore-Governo del
Territorio dello stesso Comune in data 16.05.2014, con il
quale tale Dirigente, nel prendere atto del parere negativo
espresso dalla Soprintendenza, aveva, per l’appunto,
dichiarato conclusi i lavori della conferenza dei servizi.
2.- Orbene, sotto un primo ordine di profili, va osservato
come il gravame (unitamente ai motivi formulati per
aggiunzione avverso il successivo esito negativo della
rinnovata valutazione conferenziale), appare
inammissibilmente formalizzato, ad opera della ricorrente
Amministrazione comunale, nei sensi della formale
impugnativa di un proprio stesso provvedimento a
connotazione negativa, adottato dall’organo dirigenziale.
Il punto –sia pure, come si dirà nell’immediato profilo, non
dirimente– richiede un indugio sulla complessa questione dei
poteri dell’autorità decidente nei casi in cui, come quello
di specie, la normativa di settore preveda, in chiave
predecisionale, l’obbligo di richiedere un parere c.d.
vincolante. E ciò perché, in effetti, è del tutto evidente
come il dirigente comunale non abbia fatto altro che
adeguarsi, nella determinazione conclusiva del procedimento,
alla valutazione insuperabile espressa dalla Soprintendenza,
stimolando –tuttavia– la non plausibile vicenda della
successiva autoimpugnativa da parte dell’Amministrazione di
appartenenza, a cui sono imputabili i relativi effetti della
fattispecie.
Come è noto –in conformità ad una tradizionale, seppur non
incontrastata, opinione dottrinaria– deve ritenersi che i
pareri cc.dd. vincolanti non possano rientrare nell’ambito
applicativo della disposizione di cui all’art. 16 della l.
n. 241/1990: tali essendo quei pareri che non solo sono
doverosi (e, dunque, tecnicamente vincolati) perché, in base
alla legge regolativa del procedimento e nella prospettiva
della doverosità dell’iniziativa procedimentale, il
responsabile è giuridicamente tenuto a non ometterne la
richiesta, ma sono parimenti e più incisivamente obbligatori
(ed in questo senso perché vincolanti) perché, dal punto di
vista degli effetti, l’autorità decidente è altresì tenuta
(pur sempre in base a quella legge: donde la diffusa e
condivisibile massima alla cui stregua, ove non sia
espressamente chiarito, l’obbligatorietà del parere attiene
solo alla sua giuridica necessità) a recepirne gli esiti nel
formale provvedimento conclusivo.
Plurime sono, come è noto, le ragioni che concorrono ad
espungere, dall’ambito applicativo dell’art. 16 cit., tali
pareri (tra le quali ragioni, peraltro, non parrebbe
possibile annoverare –come pure diffusamente si fa– la
circostanza che la norma richiami solo i pareri obbligatori
e quelli facoltativi, senza appunto far cenno a quelli
vincolati, trattandosi di rilievo di per sé destinato a
provare troppo, una volta chiarito che la distinzione tra
pareri facoltativi ed obbligatori si muove su una linea di
demarcazione che guarda alla doverosità della richiesta,
disinteressandosi del consequenziale profilo effettuale:
onde, in buona sostanza, il silenzio della previsione
normativa è anodino, non legittimando l’argomentazione a
contrariis).
La prima considerazione fa leva sul rilievo che i pareri in
questione si collochino propriamente nella fase decisionale.
E in verità, se ci si limita ad una prospettiva formalistica
(valorizzata, per esempio, da Cass., sez. I, 27.06.2005, n.
13749)
si può ancora soggiungere che il parere vincolante abbia un
contenuto «sempre e soltanto valutativo e non volitivo e
decisionale», comportando un obbligo di conformarsi ma
non di attuare l’altrui volontà (con il che –non potendo
riguardarsi il provvedimento finale, costitutivo degli
effetti, quale meramente esecutivo del parere– questo
conserverebbe la sua autonomia, dovendo nettamente
distinguersi dagli atti della fase decisoria).
E però –se si guarda alla sostanza e ci si muove in
prospettiva funzionale (in ordine alla quale merita
incidentalmente evidenziare come il dibattito sia, in fondo,
condizionato da una sostanziale divergenza nei criteri di
interpretazione degli amministrativi, secondo che guardino,
rispettivamente, alla natura dell’atto e, dunque, ad un dato
di struttura, ovvero, in prospettiva funzionale, agli
effetti giuridici–
il parere vincolante incide necessariamente e direttamente
sul contenuto del provvedimento, onde, lungi dal collocarsi
nella fase preparatoria, appartiene già al momento
decisionale: ed euristicamente apprezzabile si rivela, a tal
fine, l’evidenziazione di una (in certo senso autonoma) fase
c.d. predecisionale, tecnicamente distinta sia dalla fase
istruttoria che dalla momento della giuridica costituzione
degli effetti.
Su tale premessa,
i pareri in questione restano fuori dell’art. 16 non già
perché (negativamente) la norma non li richiami, ma perché
(positivamente) richiama solo i pareri resi nell’esercizio
di attività (tecnicamente) consultiva e non decisoria:
strumentale e servente la prima, finale ed autonoma la
seconda.
Se ne trae persuasiva conferma (e, circolarmente, forte
argomento ex positivo jure a sostegno della
argomentata opzione dogmatica per la collocazione nella fase
predecisionale) dal corretto e diffuso rilievo per cui
ricomprendere i pareri vincolati nella sfera di operatività
dell’art. 16 condurrebbe ad una insanabile contraddizione
logica, in quanto un parere definito per legge come
vincolante finirebbe di fatto col perdere tale sua
qualificazione se si riconoscesse all’Amministrazione attiva
la possibilità di prescinderne
(con il che, per un verso, si finirebbe per annullare
l’effetto dello spostamento, preteso dalla legge, del potere
decisorio dall’Amministrazione attiva a quella consultiva e,
per altro verso, si eliderebbe, in fatto, la logica per la
quale, se il legislatore ha previsto un determinato parere
come vincolante, ha evidentemente ritenuto quegli
apprezzamenti di cui l’atto consultivo è veicolo di
emersione contenuto essenziale, e come tale non eludibile,
della decisione).
Ciò consente anche, al fine di prendere, con meno sommario
discorso, posizione sulla più generale problematica
(palesemente evocata dal caso di specie) del vincolo (pretesamente)
contra legem: ovvero, appunto, delle regole operanti
nel caso in cui l’Autorità competente alla adozione del
provvedimento conclusivo dubiti della correttezza e della
legittimità del parere vincolante in base al quale il
provvedimento conclusivo deve essere (senza possibilità di
dissenso) adottato.
In effetti,
in via puramente astratta, e pur nella consapevolezza della
complessità del problema, possono ammettersi le seguenti
soluzioni:
a) o che l’autorità competente, ove ritenga illegittimo il «parere»
vincolante, adotti determinazione conclusiva a contenuto
negativo, che attesti l’impossibilità di una «convergenza
di volontà» tra gli organi deputati alla definizione
dell’assetto di interessi;
b) ovvero che –non potendo come che sia mai ammettersi che
l’autorità decidente risulti vincolata ad un esito
decisionale sia pur eventualmente contra legem– si
legittimi, in tal caso, la motivata «disapplicazione»
del parere;
c) ovvero ancora –ove, per un verso, si neghi
l’ammissibilità, nella prima ipotesi inevitabile, di un
arresto procedimentale contrario ai principi (arg. ex art. 2
l. n. 241/1990) e, per altro verso, si neghi la
prospettabilità di un meccanismo di disapplicazione di
ordine provvedimentale, espressivo di una sorta di potere di
controllo intestato all’autorità decidente– si ritenga che
l’autorità decidente possa sollecitare una determinazione
revisionale dell’organo consultivo (doverosa nell’an
ma, ovviamente, incerta negli esiti).
La soluzione sub b) evita implausibili stasi
procedimentali, ma appare priva di necessaria base
normativa; la soluzione sub a) confligge con
l’obbligo di adottare comunque un provvedimento (a contenuto
non soprassessorio) definitivo del procedimento;
la soluzione sub c) non impedisce che il rifiuto o
l’inerzia dell’organo deputato a rendere il parere
vincolante paralizzi, di fatto, il procedimento.
Peraltro,
il rilievo che il parere vincolante abbia,
come chiarito,
funzione decisoria e che, per tal via, il rapporto tra
autorità decidente e autorità «consultata» si
atteggino in termini di decisione pluristrutturata (co-decisione),
rende, in ogni caso, senz’altro preferibile l’opzione sub
c), la quale valorizza, a differenza di quella sub a),
l’onere di «leale cooperazione» tra le
amministrazioni coinvolte, senza autorizzare –come la non
plausibile ipotesi sub b)– la prevalenza, normativamente non
autorizzata in un contesto decisionale sostanzialmente
equiordinato, dell’una sull’altra: con la precisazione che
ad eventuali e definitivi arresti procedimentali potrà
rimediarsi con gli strumenti di reazione al
silenzio-inadempimento di cui all’art. 2, trattandosi
appunto (come importa ribadire) di «rifiuto di provvedere».
In definitiva,
deve escludersi che l’Amministrazione decidente possa
adottare il provvedimento conclusivo (conformandosi al
parere vincolante) e, di seguito, impugnare la sua stessa
determinazione: l’unica possibilità essendo quella di
sollecitare una revisione del parere (possibile, giusta le
espresse conclusioni, trattandosi propriamente di autotutela
decisoria e non implausibile rinnovo di attività tutoria)
ovvero, e semmai, l’impugnazione in sede giurisdizionale del
parere, in quanto fonte di immediato vincolo
pregiudizievole.
3.- Le esposte considerazioni –pur idonee a legittimare, su
un piano rigorosamente formale, declaratoria di non
recevoir del gravame– sono, in ogni caso, assorbite da
ulteriore e concorrente ragione di inammissibilità.
Trattandosi, invero, di impugnativa di parere negativo (id
est, di sostanziale dissenso) reso in sede di conferenza
di servizi ad opera di amministrazione preposta alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della
pubblica incolumità, la questione, ai sensi dell’art.
14-quater della l. n. 241/1990, avrebbe dovuto essere
rimessa dall'Amministrazione procedente alla prevista
deliberazione del Consiglio dei Ministri.
Sotto questo profilo, deve perciò ritenersi che il parere
soprintendizio –a dispetto della sua natura vincolante
chiarita supra– non avrebbe proprio potuto essere impugnato,
esibendo, sotto il profilo in questione, mera connotazione
endoprocedimentale: la relativa questione dovendo,
complessivamente, intendersi rimessa al Consiglio dei
Ministri per la relativa e conclusiva determinazione finale.
4.- Sulle esposte considerazione, il ricorso, non meno che i
motivi aggiunti, devono perciò dichiararsi inammissibili. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Limiti
all'avvocatura unica tra più enti.
Sì all'avvocatura unica fra più comuni, ma soltanto se ogni
legale segue unicamente gli affari dell'ente di
appartenenza. Deve invece essere annullata la delibera
adottata dal consiglio con cui si mette il personale
dell'avvocatura comunale a disposizione di altri enti
locali, per esempio perché sono più piccoli e dispongono di
meno risorse: la possibilità di aderire convenzionandosi al
progetto, infatti, è contraria ai paletti contenuti nella
riforma forense, mentre la Finanziaria 2008 autorizza sì gli
enti locali a coalizzarsi per tagliare le spese, ma solo a
patto che gli avvocati provenienti dagli enti convenzionati
trattino esclusivamente gli affari legali delle rispettive
amministrazioni.
È quanto emerge dalla
sentenza
26.08.2016 n. 1608, pubblicata dalla
III Sez. del TAR Lombardia-Milano
Va in fumo, almeno per ora,
l'iniziativa di «federalismo legale». A far annullare la
delibera incriminata è un gruppo di avvocati amministrativisti
che non vede di buon occhio il progetto del comune più
grande offerto ai paesi vicini.
E in effetti il nuovo statuto della professione forense
approvato con la legge 247/2012 non ha mutato il quadro
delle incompatibilità per gli avvocati con il lavoro
subordinato: i legali che operano nell'ufficio dell'ente
devono iscriversi all'elenco speciale e possono trattare
soltanto le cause dell'amministrazione di riferimento.
Altrettanto vale per le consulenze da svolgere. In occasione
della riforma forense il legislatore ben poteva ampliare il
campo delle deroghe. Ma non l'ha fatto. Così come da anni,
ormai, manca una disciplina organica delle avvocature e
dunque anche per i legali degli enti bisogna fare
riferimento alla legge professionale.
Le norme della Finanziaria 2008 sono dettate per ridurre la
spesa pubblica e devono essere interpretate in modo
compatibile con la disciplina dell'ordinamento forense: la
convenzione tra comuni è valida a condizione che la
struttura unitaria operi a livello amministrativo, mentre
gli avvocati dei vari enti aderenti devono conservare la
loro indipendenza.
Il risparmio sui costi previsto dall'articolo 2, comma 12,
della legge 244/2007 scatta con le economie di scala che si
ottengono concentrando in una sede sola il personale
distaccato dagli enti e le risorse strumentali e le attività
collaterali da svolgere, per esempio quelle di cancelleria.
Non è però prevista alcuna modifica delle mansioni degli
avvocati. Bisogna infatti ricordare che la disciplina
dell'ordinamento della professione forense costituisce una
legislazione speciale, che come tale non può essere derogata
da una normativa generale successiva (visto che la legge
247/2012 non innova sulle incompatibilità fra avvocati e
lavoro dipendente).
Inoltre la disciplina delle deroghe al regime di
incompatibilità, per sua natura, è di stretta
interpretazione e non suscettibile di estensione. Spese di
giudizio compensate per l'assoluta novità della questione
affrontata dai giudici
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2016).
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MASSIMA
La disciplina delle incompatibilità della professione
forense era stabilita dall’art. 3, comma 2, del regio
decreto-legge n. 1578 del 1933, che prevedeva, appunto,
l’incompatibilità della professione di avvocato «con
qualunque impiego o ufficio retribuito con stipendio sul
bilancio dello Stato […] ed in generale di qualsiasi altra
Amministrazione o istituzione pubblica», fatta salva la
deroga prevista per gli avvocati degli uffici legali degli
enti pubblici, solo «per quanto concerne le cause e gli
affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro
opera» e a condizione che fossero iscritti nell’elenco
speciale annesso agli albi professionali.
Tale deroga è stata interpretata in termini restrittivi
dalla giurisprudenza ritenendo che gli avvocati dipendenti
da enti pubblici fossero abilitati a svolgere attività
professionale solo in relazione agli affari propri dell’ente
presso il quale prestano la loro opera, non essendo
consentito ritenere “propri” dell’ente pubblico
datore di lavoro le cause e gli affari di un ente diverso,
dotato di distinta soggettività, restando irrilevanti gli
eventuali provvedimenti del primo ente che prevedano la
possibilità di utilizzazione del proprio ufficio legale da
parte del secondo
(ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite,
19.08.2009, n. 18359; 14.03.2002, n. 3733; 15.12.1998, n.
12560; 26.11.1996, n. 10490; Cass. Sez. Tributaria
08.09.2004 n. 1809).
La novella sull’ordinamento della professione forense
(L. 31.12.2012, n. 247)
ha anzitutto ribadito il regime d’incompatibilità della
professione d’avvocato con qualsiasi attività di lavoro
subordinato, anche se con orario limitato (art. 18, comma 1,
lettera d), e ha poi precisato le condizioni nel rispetto
delle quali, in deroga al principio generale di
incompatibilità, è consentito agli avvocati degli uffici
legali istituiti presso gli enti pubblici di svolgere
attività professionale per conto dell’ente di cui sono
dipendenti
(artt. 19 e 23).
Per quanto rileva nell’ambito del presente giudizio,
gli avvocati dipendenti di enti pubblici sono abilitati alla
«trattazione degli affari legali dell’ente stesso», a
condizione che siano incardinati in un ufficio legale
stabilmente costituito e siano incaricati in forma esclusiva
dello svolgimento di tali funzioni.
La sopravvenuta nuova disciplina dell’ordinamento della
professione forense non ha, dunque, mutato il quadro di
riferimento del regime delle incompatibilità e delle
relative deroghe, confermando che
lo ius postulandi degli avvocati iscritti all’elenco
speciale non è generale, ma limitato alla difesa e
rappresentanza dell’Ente presso il quale il professionista
presta la sua opera.
Sotto un profilo cronologico tra i due testi normativi sopra
richiamati
si interpone la previsione di cui all’art. 2, comma 12,
della L. 244/2007, che consente l’istituzione di uffici
unici di avvocatura attraverso le convenzioni tra enti
locali di cui all’art. 30 del D.lgs. 267/2000.
Ad avviso del Collegio
non può ritenersi che tale norma abbia sostanzialmente
operato un ampliamento dell’ambito oggettivo della deroga al
regime dell’incompatibilità della professione di avvocato,
consentendo che gli avvocati dell’ufficio legale di un ente
possano prestare la loro attività professionale a favore di
un ente diverso per la trattazione degli affari legali di
quest’ultimo.
Invero va rilevato, in primo luogo, che
la disciplina dell’ordinamento professionale costituisce una
legislazione speciale, che come tale non può essere derogata
da una normativa generale successiva. Inoltre la disciplina
delle deroghe al regime di incompatibilità, per la sua
natura, è di stretta interpretazione e non suscettibile di
estensione.
In secondo luogo, il che appare dirimente,
il legislatore, intervenendo con la novella del 2012,
successiva alla L. 244/2007, ha ritenuto di confermare il
medesimo regime previgente di incompatibilità e relative
deroghe, non includendovi l’ipotesi, così come interpretata
dai Comuni resistenti, dell’art. 2, comma 12, della L.
244/2007.
In sostanza dunque non può ritenersi che si sia operata una
sorta di modifica della disciplina dell’ordinamento forense,
in quanto ciò non è stato espressamente previsto dalla
successiva e speciale L. 247/2012. Invero il legislatore
statale, titolare, ai sensi dell’art. 117, terzo comma,
Cost., della competenza legislativa di principio in materia
di professioni, ben avrebbe potuto, in occasione della
novella, ampliare il campo di applicazione delle deroghe al
regime dell’incompatibilità tra la professione forense e le
attività di lavoro subordinato (cfr. Corte Cost. n.
91/2013), ma così non è stato.
In effetti il legislatore non è mai intervenuto con una
disciplina organica delle avvocature e, più in generale,
degli uffici legali degli enti pubblici, dovendosi quindi
–allo stato- fare esclusivo riferimento alla legge
professionale anche per tale categoria di professionisti.
L’attuazione del disposto di cui all’art. 2, comma 12, della
L. 244/2007 deve quindi avvenire nel pieno rispetto della L.
247/2012, ed in particolare della previsione secondo cui gli
avvocati dipendenti da enti pubblici possono svolgere
attività professionale solo in relazione agli affari propri
dell’ente presso il quale sono incardinati, secondo
l’interpretazione stretta più volte ribadita dalla
giurisprudenza.
Tale necessaria interpretazione, ad avviso del Collegio, non
svilisce la portata applicativa dell’art. 2, comma 12, della
L. 244/2007 (e da ciò consegue l’irrilevanza, ai fini del
giudizio, della questione di costituzionalità dell’art. 2,
comma 12, della L. 244/2007, prospettata dai ricorrenti,
seppur in via subordinata, in relazione agli artt. 117, 24 e
42 Cost.).
La disposizione richiamata che, in quanto inserita nel
corpus della legge Finanziaria per il 2008, deve ritenersi
preordinata a realizzare un contenimento della spesa
corrente, e volta a disciplinare l’istituzione di uffici
unici di avvocatura sotto un profilo organizzativo.
La
norma, in altri termini, si presta ad essere applicata in
modo compatibile con la disciplina dell’ordinamento forense,
mediante l’istituzione di un ufficio unico che abbia un
sistema organizzativo unitario, sotto il profilo del
personale amministrativo dedicato (distaccato dagli enti
partecipanti), delle risorse strumentali assegnate, dei
locali da adibire a sede, delle attività collaterali da
svolgere (es. attività di cancelleria), prevedendo tuttavia
che gli avvocati provenienti dagli enti convenzionati
trattino esclusivamente gli affari legali dell’ente di
appartenenza, e osservando gli altri presupposti previsti
dalla normativa (indipendenza dell’ufficio, esclusiva
attribuzione della trattazione delle cause, etc.).
Il modello operativo posto in essere dal Comune di Busto
risulta, invece, in contrasto con la disciplina
dell’ordinamento forense, e con lo stesso art. 2, comma 12,
della L. 244/2007, avendo di fatto previsto non già un
ufficio unico tra più enti, bensì una convenzione aperta con
possibilità di adesioni successive, in base alla quale si
mette a disposizione degli altri enti l’Avvocatura del
Comune di Busto Arsizio, i cui avvocati assegnati
tratterebbero così gli affari legali degli enti
convenzionati, in palese contrasto con l’art. 23 della L.
247/2012.
In conclusione, per le ragioni che precedono, il ricorso
proposto merita accoglimento e per l’effetto va disposto
l’annullamento degli atti impugnati. |
COMPETENZE PROGETTUALI: Geometri e ingegneri, spazio alla collaborazione.
Progettazione e calcoli. Sentenza del Tar Napoli.
Professioni
tecniche in agitazione, per una serie di rischi connessi
alla progettazione con uso del cemento armato in zone
sismiche.
Oltre alla sentenza su L’Aquila, che attribuisce ampie
responsabilità ai professionisti incaricati della
ristrutturazione in aree a rischio (si veda «Il Sole 24 Ore»
di ieri), la
sentenza 23.08.2016 n. 4092
del TAR Campania-Napoli -Sez. VIII- ha deciso su
una lite relativa a ristrutturazione e ampliamento in zona
sismica.
Il caso
Il caso in questione riguarda la parte residenziale di un
fabbricato, oggetto di ristrutturazione e ampliamento,
attraverso l’annessione di un nuovo corpo di fabbrica in
cemento armato. La parte relativa ai calcoli strutturali del
cemento armato è stata curata da un ingegnere, mentre la
progettazione delle restanti parti architettoniche recava la
firma del geometra.
Nel caso di strutture in cemento armato, la normativa limita
l’intervento progettuale dei geometri alle piccole
costruzioni accessorie di edifici rurali, o di industrie
agricole, in cui, peraltro, non siano richieste particolari
operazioni di calcolo, o non si profilino situazioni di
pericolo per le persone. Secondo il Tar, tali prerogative
sono rispettate scindendo la progettazione ed affidando la
parte relativa alle strutture di cemento armato a un
ingegnere abilitato e le altre parti al geometra, rimanendo
sempre nella sfera delle costruzioni per civile abitazione
di «modeste dimensioni».
Opere modeste
In conclusione, in caso di complessiva modestia dell’opera,
si ritiene legittimo il permesso di costruire, qualora i
calcoli relativi alle opere in cemento armato siano stati
curati da un professionista abilitato, anche su un progetto
redatto da un geometra.
Non basta poi la circostanza che l’opera ricada in zona
sismica per escludere, di per sé, che la costruzione civile
possa ritenersi modesta ai fini della competenza del
geometra nella progettazione, anche per le parti non
interessate dalle strutture di cemento armato. Nelle zone
interessate da rischio sismico, il requisito della
“modestia” della costruzione (Consiglio di Stato 7477/2015)
va valutato con maggiore rigore, ma non può essere escluso
automaticamente.
La svolta orientativa
Con questa sentenza il Tar di Napoli ha superato
l’orientamento ostile ad attività autonome ma coordinate,
che distingue le opere riconducendole in parte a ingegneri o
architetti, e in parte a geometri: il Tar ammette la
separazione tra progettazione dell’ossatura e attività che
diano forma al corpo che deve esserne sorretto, scindendo
nella progettazione l’ossatura (struttura portante) di un
edificio, dimensionata per reggere le sollecitazioni
statiche, dinamiche, verticali e orizzontali. Se un
ingegnere o un architetto si assume le responsabilità di
tali aspetti, l’ulteriore attività progettuale si risolve
nella definizione di elementi di chiusura della stessa,
mediante tamponamenti interni ed esterni, di natura
essenzialmente architettonica.
In altri termini, le opere volte a delimitare gli spazi in
cui si svolge l’attività umana e che non richiedono il
possesso di specifiche competenze strutturali, possono
restare al geometra (articolo Il Sole 24 Ore del
03.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti, stop alle sanzioni per irregolarità
essenziali.
Il nuovo codice consente di evitare l'irrogazione della
sanzione per le irregolarità essenziali, diversamente dal
vecchio codice del 2006.
È quanto mette in evidenza il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 22.08.2016 n. 3667 per gara
di appalto integrato in cui un'impresa di costruzioni era
stata esclusa per l'incompletezza delle dichiarazioni rese
dal progettista da essa indicato in relazione al possesso
dei requisiti di capacità tecnica previsti dal bando.
L'impresa aveva manifestato la volontà di non aderire al
soccorso istruttorio e di dar corso all'esclusione dalla
gara conseguente al fatto di essere incorsa in
un'irregolarità essenziale; viceversa la stazione appaltante
comminava la sanzione e la confermava anche dopo che
l'impresa aveva dimostrato il possesso dei requisiti da
parte dei progettisti. Si trattava quindi di decidere se la
sanzione fosse irrogabile anche nel caso in cui il
concorrente avesse deciso non avvalersi del soccorso
istruttorio.
I giudici confermano la correttezza
dell'operato della stazione appaltante (per una gara
precedente il nuovo codice dei contratti pubblici) perché la
ratio dell'articolo 38, comma 2-bis del vecchio e abrogato
decreto 163/2006 che applicava la sanzione anche nel caso in
cui il concorrente abbia presentato una offerta mancante di
una dichiarazione e di un documento prescritto, mentre è
irrilevante se decide di avvalersi del soccorso istruttorio
o meno.
Nel nuovo codice, invece (articolo 83, comma 9, del dlgs 18.04.2016, n. 50), la sanzione pecuniaria,
prevista dal bando di gara in caso di mancanza,
incompletezza e ogni altro caso di irregolarità essenziale
della documentazione di gara, è dovuta esclusivamente in
caso di regolarizzazione.
Esiste, diversamente dal regime
precedente, la possibilità di integrazione documentale non
onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della
domanda perché la norma, discostandosi dal precedente
articolo 38 del codice, è innovativamente incentrata sul
concetto di sanatoria conseguente al soccorso istruttorio e
non separa il momento procedimentale da quello
sanzionatorio.
I giudici concludono che il principio di
irretroattività della nuova legge impedisce di dar rilievo
alla circostanza che il decreto 50/2016 preveda, all'art.
83, comma 9, che «la sanzione è dovuta esclusivamente in
caso di regolarizzazione»: l'art. 38, comma 2-bis, del dlgs
n. 163 del 2006, resta quindi applicabile «ratione temporis»
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire per realizzare le cabine in spiaggia.
Tar Palermo. Rapporti demanio-concessionari.
È necessario
un permesso di costruire per realizzare cabine o capanne
stagionali in stabilimenti balneari: lo sottolinea il TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II, con
sentenza 09.08.2016 n. 2038, affermando
che tale permesso è oneroso.
La questione si inserisce nel più vasto contesto relativo
alla durata dei rapporti tra demanio e concessionari: fino
al 2020 il Dl 179/2012 (convertito in legge numero 221)
garantisce continuità; incombe tuttavia la pronuncia della
Corte giustizia Ue - 14/07/2016, in causa C-458/14 - secondo
la quale è necessaria una procedura di gara per assegnare le
successive concessioni demaniali.
Proprio uno dei punti
delicati del rapporto tra vecchie e nuove concessioni è la
valutazione delle strutture che formano l’azienda balneare,
che andrebbero indennizzate a carico del subentrante. Di qui
l’importanza del titolo edilizio che legittima la
collocazione delle opere, anche se precaria, poiché
l’azienda può variare di consistenza e quindi di valore a
seconda dei provvedimenti rilasciati dal Comune.
La vicenda esaminata dal Tar di Palermo riguarda uno
stabilimento con rilevanti strutture fisse, cui si
aggiungevano circa 300 capanne stagionali: per tali capanne
i giudici ritengono necessario il titolo edilizio,
indipendentemente dal consenso del Demanio e della
Soprintendenza. Non hanno importanza la ciclicità di
impianto, l’identità di caratteristiche nei vari anni, né la
collocazione all’interno di un complesso ricettivo. Il
permesso di costruire, secondo il Tar, sarebbe superfluo
solo per le opere assolutamente precarie, mentre ciò che
viene ciclicamente installato e rimosso, manca di
precarietà.
L’argomento è tuttora controverso, perché da un
lato la Corte costituzionale ritiene che la precarietà
oggettiva dell’intervento (i materiali utilizzati) vada
distinta dalla precarietà funzionale, caratterizzata dalla
temporaneità (sentenze 278/2010 e 189/2015 in tema di roulottes e campeggi), con autonome competenze regionali.
Dall’altro, il legislatore nazionale, con l’articolo 3,
lettera e), del Dpr 380/2001 ritiene interventi di nuova
costruzione (che richiedono il permesso) l’installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano
ricompresi in strutture ricettive all’aperto per la sosta e
il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il
profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto,
paesaggistico.
Quindi, non solo le cabine temporanee vanno
smontate ma è necessario anche ottenere il permesso di
costruire con i relativi oneri che, però, riguardano solo
l’importo parametrato alle urbanizzazioni necessarie
(articolo Il Sole 24 Ore del
02.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
4.2. Ciò precisato, e con specifico riferimento alla
seconda questione, deve rilevarsi che, sebbene dall’esame
complessivo delle note impugnate sia agevole evincere il
ripetuto riferimento a tali previsioni di piano - quanto
meno nell’affermata necessità di postergare il rilascio di
titoli edilizi soltanto alla definitiva approvazione del
piano medesimo - nondimeno non può condividersi l’assunto di
parte ricorrente secondo il quale il Comune avrebbe ritenuto
necessaria la concessione edilizia onerosa, in virtù
soltanto delle previsioni del redigendo piano.
Può semmai convenirsi sul fatto che la riconducibilità delle
capanne nel novero delle “nuove costruzioni”, necessitanti
dunque di concessione edilizia onerosa, non sia suffragata
nei provvedimenti impugnati, da esaustiva motivazione (
facendosi ivi riferimento, invero, alle sole tipologie
costruttive di “stabilimento balneare” o di “opere precarie
destinate alla diretta fruizione del mare” ) che viene,
infatti, irritualmente sviluppata ed integrata, in via
postuma dal Comune, con le memorie difensive.
Con gli ulteriori motivi di ricorso, pertanto, la società
ricorrente si duole proprio della qualificazione delle
“capanne” in legno alla stregua di “nuove costruzioni”
edilizie, con conseguente assoggettamento dell’allocazione
stagionale delle medesime al regime della concessione
edilizia onerosa.
La società ha preliminarmente evidenziato che il proprio
stabilimento balneare è già in possesso, per quanto riguarda
le principali opere strutturali (piattaforme per cabine in
legno e prefabbricate, n. 60 cabine in muratura, piscine,
servizi igienici, docce e spogliatoi) delle prescritte
licenze e concessioni edilizie rilasciate dal Comune di
Palermo a partire dagli anni ‘50, sicché, nel caso in esame,
la stessa ritiene che tutti i provvedimenti impugnati non
riguardino lo stabilimento nel suo complesso bensì, in
definitiva, l’assoggettamento delle sole capanne balneari in
legno (allestite per tre mesi l’anno) al regime della
concessione edilizia onerosa.
Sostiene, inoltre, la ricorrente:
- che la concessione edilizia onerosa è stata introdotta
dalla L. n. 10/1977 (Legge Bucalossi) la quale, nel suo
articolarsi, fa sempre riferimento agli “edifici”, tra i
quali certamente non possono comprendersi le capanne
balneari;
- che anche la l.r. 71/1978 concerne gli “immobili”, nel cui
ambito non rientrano logicamente le capanne;
- che, inoltre, il decreto dell’Assessore per lo sviluppo
economico dell’11/11/1977 – (approvazione della tabella
relativa alla quota del contributo sul costo di costruzione)
prende ad oggetto gli “edifici”, e, nella tabella allegata
si riferisce alle “costruzioni”, differenziandole secondo le
varie tipologie edificatorie, dalle quale restano
necessariamente escluse le capanne in questione, per nulla
equiparabili alle costruzioni.
Orbene, se può affermarsi con certezza che nell’articolata
normativa di settore manchi una disciplina specifica che
preveda l’assoggettamento delle capanne stagionali in sé
considerate al regime della concessione edilizia, deve però
rilevarsi che la giurisprudenza amministrativa ha da sempre
escluso la natura precaria dello stabilimento balneare; e
ciò, nella considerazione che lo stesso non comporti una
alterazione del territorio soltanto temporanea, precaria e
irrilevante: mancherebbe infatti il requisito della
precarietà funzionale, cioè la possibilità di una pronta
rimozione dopo un uso contingente e momentaneo (TAR Ancona,
26.11.2015 n. 862; Tar Liguria, 27.01.2009 n. 119;
Tar Puglia (Lecce), Sez. I, 07.07.2005 n. 3650; TAR Veneto
sez. II 10.07.2003 n. 3691; Tar Marche, 18/04/1985
n. 118).
Il Consiglio di Stato ha, poi, ritenuto necessaria
la concessione edilizia per costruzioni destinate ad
attività stagionali, che, seppure non infisse al suolo, ma
solo aderenti ad esso in modo stabile, sono destinate ad una
utilizzazione perdurante nel tempo, anche se intervallate da
pause stagionali; in tal caso l'alterazione del territorio
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante (Cons. Stato, sez. V, 24.02.1996, n. 226).
Deve poi osservarsi che un chiaro riferimento alla necessità
del titolo edilizio è offerto dalla l.r. n. 15 del 2005, la
quale all’art. 1 stabilisce che “la concessione dei beni
demaniali marittimi può essere rilasciata, oltre che per
servizi pubblici e per servizi e attività portuali e
produttive, per l'esercizio delle seguenti attività: a)
gestione di stabilimenti balneari […]” (comma 1).
Il successivo comma 4 stabilisce che, ai fini di quanto
stabilito dalla stessa legge, le “opere […] destinate alla
diretta fruizione del mare quando previste nei piani di
utilizzo delle aree demaniali marittime […]” sono soggette
ai “provvedimenti edilizi abilitativi […]”.
Pertanto, fermo restando quanto sopra già rilevato in ordine
alla inapplicabilità della suddetta disciplina alle aree già
oggetto di concessione, sul punto la disposizione sembra
avere natura meramente ricognitiva in ordine
all’assoggettamento delle opere di cui trattasi a
“provvedimenti edilizi abilitativi” rilasciati dai comuni
competenti per territorio.
In tale prospettiva, non appare dirimente la distinzione tra
“stabilimento balneare” inteso come complesso di strutture
precarie e non, funzionali al servizio della balneazione, e
le singole capanne in legno (o in materiale prefabbricato)
atteso che, secondo la condivisibile definizione offerta
dalla giurisprudenza, la necessità del titolo edilizio
riguarda tutte le strutture coperte destinate alla suddetta
attività stagionale che, seppure non infisse al suolo, ma
solo aderenti in modo stabile, sono destinate ad una
utilizzazione perdurante nel tempo, anche se intervallate da
pause stagionali.
Nel caso in esame deve, pertanto, ritenersi che le capanne
in legno costituiscano strutture precarie (nel senso già
precisato) funzionali all’esercizio di attività di
balneazione svolta dallo stabilimento balneare -del quale
fanno parte altre strutture fisse già assistite da autonoma
concessione edilizia ed appartenenti all’annesso complesso
ricettivo alberghiero– ma non per questo esse risultano
ricomprese nei titoli edilizi già rilasciati e, pertanto,
necessitano del titolo edilizio abilitativo.
4.3. Acclarata la necessità del titolo edilizio anche per le
opere precarie funzionali all’esercizio degli stabilimenti
balneari, deve darsi risposta al terzo punto sottoposto
all’esame del Collegio, ossia alla connessa questione
relativa all’onerosità del titolo edilizio, avendo la
ricorrente dedotto l’illegittimità della pretesa di
assoggettare le capanne al contributo sul costo di
costruzione e agli oneri di urbanizzazione.
Infatti, con nota del 17.07.2014 (impugnata con i primi
motivi aggiunti) il Comune di Palermo ha richiesto il
pagamento del contributo del costo di costruzione, pari ad €
67.782,85, e degli oneri di urbanizzazione, pari ad €
31.007,72.
Sul punto, il Collegio condivide l’opzione ermeneutica (cfr.
da ultimo, Tar Marche n. 862 del 2015) secondo cui
deve
tenersi conto delle peculiarità proprie degli stabilimenti
balneari in ordine alla natura delle opere e/o alle loro
modalità esecutive e di utilizzo.
4.3.1. Va in primo luogo osservato che
per il titolo
edilizio abilitativo non è dovuto il contributo commisurato
al costo di costruzione, ai sensi dell’articolo 17 del d.P.R. 380/2001: la circostanza che nel caso di specie si
verta su opere che sorgono in area demaniale esclude
l’imposizione di tale obbligo.
Infatti, la quota di contributo commisurata al costo di
costruzione costituisce una obbligazione di natura
paratributaria, determinata tenendo conto della produzione
di ricchezza generata dallo sfruttamento del territorio che,
per sua natura, non è ravvisabile nelle costruzioni su area
demaniale, in quanto non suscettibili di commercializzazione
e destinate, alla cessazione del rapporto concessorio a
permanere nella titolarità dell’amministrazione concedente.
Quest’ultima, invero, ha facoltà di chiedere il ripristino
dello stato dei luoghi a spese del privato concessionario
che deve lasciare libera l’area demaniale (almeno per ciò
che riguarda eventuali opere permanenti, poiché le capanne
in legno e le altre opere precarie vengono, per obbligo
contrattuale, comunque rimosse al termine di ogni stagione).
Con riferimento a tale aspetto non appare ultroneo rilevare
che la concessione demaniale n. 4/2012 di cui è titolare la
società ricorrente ha una durata di cinque anni (oggi
prorogata) ed impone alla concessionaria l’obbligo di
corrispondere all’Erario, in riconoscimento della
demanialità del bene ed in corrispettivo della concessione
(dunque della fruizione del bene demaniale) un canone annuo.
E come chiarisce il Comune in memoria, alla scadenza della
concessione l’area dovrà essere assegnata con procedura ad
evidenza pubblica, di talché potrebbe non essere più
assegnata alla società ricorrente.
4.3.2. A differente conclusione si perviene con riguardo
alla quota di contributo commisurata agli oneri di
urbanizzazione, trattandosi di corrispettivo di diritto
pubblico di natura non tributaria, posto a carico del
privato a titolo di partecipazione dei costi delle opere di
urbanizzazione “in proporzione” all’insieme dei benefici che
la nuova costruzione o opera ne trae.
Difatti, per giurisprudenza pressoché costante,
ai fini
dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri
concessori è rilevante il verificarsi di un maggior carico
urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, se ne
muti la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con
oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione
dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico
socio-economico, che l'attività edilizia comporta, anche
quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua
solo a marginali lavori (Cons. St., Sez. V, n. 4326 del
2013).
Ne segue l'irrilevanza della natura del titolo edilizio ai
fini dell’obbligo contributivo di che trattasi, rilevando,
invece, l’incremento sostanziale del carico urbanistico
correlato alla natura dell'opera ed alle sue modalità di
esecuzione. In definitiva, l'obbligo di contribuzione va
correlato al presupposto sostanziale dell'aumento del carico
urbanistico connesso all'intervento edilizio anziché alla
natura del titolo abilitativo.
In linea di fatto, l'intervento edilizio in esame -comportante la realizzazione di n. 309 capanne in legno
stagionali a completamento della parte di stabilimento
balneare già munito dei necessari titoli edilizi- per la
sua natura certamente costruttiva e funzionale comporta
un’incidenza sul carico urbanistico del territorio, sicché
va ritenuta legittima la richiesta dell’amministrazione di
assoggettarne la relativa allocazione agli oneri di
urbanizzazione i quali, come di seguito sarà precisato,
devono, tuttavia, essere commisurati in ragione
dell’effettivo carico urbanistico.
4.4. In definitiva, per quanto fin qui argomentato, le note
(impugnate con il ricorso introduttivo e con il primo e il
terzo ricorso per motivi aggiunti) non resistono alle
censure prospettate nella parte in cui esigono, per il
rilascio del titolo edilizio, oltre agli oneri di
urbanizzazione, anche il contributo per il costo di
costruzione.
Sul punto deve peraltro rilevarsi come con la nota del 17.07.2014 (impugnata con il primo ricorso per motivi
aggiunti) il Comune si sia limitato a calcolare gli oneri di
urbanizzazione sull’intera cubatura delle capanne, senza
valutare che almeno una parte di esse viene allestita ogni
estate su apposite piattaforme di cemento già munite di
concessione edilizia.
5. Per evidenti ragioni di connessione logica con quanto
appena spiegato, deve esaminarsi il quarto ricorso per
motivi aggiunti, avente ad oggetto la deliberazione del
Consiglio comunale n. 74 del 2015 avente ad oggetto
l’adeguamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione per gli anni 2011-2012-2013-2014, e con la quale
sono state assoggettate al rilascio della concessione
edilizia onerosa “tutte le strutture precarie finalizzate
alla gestione di stabilimenti balneari”.
Deduce, la ricorrente, l’illegittimità della delibera per
violazione dell’art. 17 della l.r. n. 4 del 2003 e per eccesso
di potere, sotto il profilo dello sviamento della causa
tipica, stante che il Comune avrebbe adottato la delibera
solo apparentemente per adeguare gli oneri di urbanizzazione
e il costo di costruzione, mentre, in realtà, con essa
sarebbe introdotto o esteso, per la prima volta, il regime
degli oneri concessori a carico delle strutture precarie
finalizzate alla gestione di stabilimenti balneari,
peraltro, con effetto retroattivo.
In disparte l’atipico utilizzo della deliberazione di
“adeguamento” di tali oneri per disciplinare una situazione
giuridica (quella su cui si controverte) -in relazione alla
quale in passato il Comune non aveva mai preteso oneri
concessori, e fermo restando quanto già rilevato in ordine
alla non debenza del contributo sul costo di costruzione-, la
delibera in questione risulta affetta dal dedotto vizio di
difetto di motivazione.
Dalla stessa, infatti, può evincersi
soltanto che i due parametri sulla base dei quali è stata
determinata l’incidenza degli oneri di urbanizzazione dovuti
dagli stabilimenti balneari sono: a) la somma delle
superfici lorde dei pavimenti delle strutture commerciali
(bar e ristorazione); b) il volume delle strutture destinate
alla fruizione del mare (dunque le capanne e gli altri
fabbricati precari).
Osserva però il Collegio che i predetti oneri non possono
che essere parametrati tenendo conto della reale incidenza
del carico urbanistico delle capanne (e delle eventuali
altre opere precarie costituenti nel complesso lo
stabilimento balneare) sul territorio e, dunque, avuto
riguardo anche alla stagionalità della loro messa in opera
(sono allestite per tre mesi l’anno) e alla “durata”
limitata nel tempo della concessione demaniale, elementi di
valutazione -che però– non sono tenuti in considerazione
nella tabella di calcolo allegata alla delibera impugnata.
Tale ultima considerazione, peraltro, trova anche riscontro
normativo nell’art. 1, comma 4, della l.r. n. 15 del 2005 il
quale, nello stabilire che gli stabilimenti balneari sono
soggetti ai provvedimenti edilizi abilitativi nei comuni
competenti per territorio, “validi per tutta la durata delle
concessioni demaniali marittime, anche se rinnovate senza
modifiche sostanziali” ha, appunto, previsto il rilascio, da
parte dei Comuni, di titoli edilizi di durata limitata nel
tempo poiché destinati a decadere per legge allo scadere
delle concessioni demaniali marittime. |
TRIBUTI: Imu
e Tasi si pagano anche se il terreno è molto piccolo.
Anche le aree che non hanno le dimensioni minime per essere
edificate sono soggette al pagamento di Ici, Imu e Tasi. Le
dimensioni ridotte del terreno o la sua particolare
conformazione non incidono sulla natura dell'area, poiché è
possibile accorpare il lotto con un fondo vicino della zona
o asservirlo a un fondo attiguo che ha la stessa
destinazione urbanistica.
È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza 05.08.2016 n. 16485.
Per i giudici di piazza Cavour la natura edificabile ai fini
Ici, ma lo stesso principio vale per Imu e Tasi, non viene
meno «per le ridotte dimensioni e/o la particolare
conformazione del lotto, che non incidono su tale qualità».
Chiariscono, inoltre, che è «sempre possibile l'accorpamento
con fondi vicini della medesima zona, ovvero l'asservimento
urbanistico a fondo contiguo avente identica destinazione».
In effetti, il proprietario dell'area potrebbe cedere il
diritto a edificare sul lotto o acquisire la titolarità di
altro terreno limitrofo, al fine di raggiungere le
dimensioni minime.
La stessa posizione è stata assunta di recente dalla
Cassazione (ordinanza 12169/2015) riguardo ai limiti
amministrativi posti nei piani regolatori comunali. In
presenza di limiti non viene meno il regime fiscale dei
suoli edificabili. Nello specifico, i giudici di legittimità
hanno precisato che i divieti amministrativi posti dal
comune per l'edificazione di un'area e i vincoli ambientali
che gravano su di essa non escludono che l'immobile sia
soggetto al pagamento delle imposte locali.
Tuttavia, la presenza di vincoli ha comunque un'incidenza
sul valore venale in comune commercio dell'area e sulla base
imponibile. L'imposta va versata in misura ridotta, in
quanto per quantificare il valore dell'area occorre fare
riferimento anche alla zona territoriale di ubicazione,
all'indice di edificabilità e alla destinazione d'uso
consentita.
In senso contrario si è espressa sempre la Cassazione con la
sentenza 25672/2008 e con altre pronunce, con le quali ha
invece ritenuto che qualora il piano regolatore generale del
comune preveda che un'area sia destinata a verde pubblico
attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al
privato di poter edificare. L'area, dunque, non è soggetta
al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità risulta dallo
strumento urbanistico
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sulle parcelle legali legittima l’imposizione Iva.
Corte Ue. Compatibilità con la normativa europea.
Via libera
alla soppressione dell’esenzione dall’Iva per i servizi
prestati dagli avvocati. Nessuna violazione del diritto Ue
nella decisione di uno Stato che, con legge, modifica il
sistema interno e passa da un meccanismo di esenzione
all’obbligo di versare l’imposta.
Lo ha precisato la Corte di giustizia dell’Unione europea
nella
sentenza 28.07.2016 C-543/14
con la quale Lussemburgo ha tracciato i contorni della
direttiva 2006/112 sul sistema comune d’imposta sul valore
aggiunto in rapporto all’articolo 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea che assicura il diritto a
un ricorso effettivo, nel quale è incluso quello di farsi
assistere da un avvocato.
Questi i fatti. Le autorità nazionali belghe avevano
adottato una legge che poneva fine all’esenzione dall’Iva
per i servizi prestati dagli avvocati nell’esercizio della
loro attività abituale. Si era passati da un sistema di
esenzione dell’aliquota Iva del 21% all’obbligo di
versamento, con esclusione di chi usufruisce del gratuito
patrocinio.
Il provvedimento legislativo era stato impugnato
dinanzi alla Corte costituzionale belga, che ha sospeso il
procedimento e chiesto alla Corte Ue di interpretare alcune
disposizioni della direttiva 2006/112 (recepita in Italia,
dopo le modificazioni, con Dlgs 18/2010) e della Carta dei
diritti fondamentali.
Nodo centrale della questione è se l’aumento dell’Iva è
compatibile con il diritto a un ricorso effettivo e con il
principio della parità delle armi, visto che l’introduzione
dell’aliquota non colpisce chi beneficia del gratuito
patrocinio gravando, così, solo su una parte.
La Corte di giustizia riconosce che i costi di un
procedimento giudiziario, inclusa l’Iva, «ben possono
influire sulla decisione dell’individuo di far valere i
propri diritti in giudizio facendosi rappresentare da un
avvocato» e che la tassazione può essere messa in
discussione se i costi sono insormontabili, rendendo
impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio di
diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.
Detto questo, però, la Corte ritiene che poiché agli
avvocati è riconosciuto un diritto di detrazione per
l’acquisto di beni e servizi non è certa la misura in cui i
legali riversino l’onere dell’Iva sui propri onorari e,
quindi, sui clienti. Se poi il sistema interno è basato
sulla libera negoziazione degli onorari e sulla concorrenza,
gli avvocati «sono indotti a tener conto della situazione
economica dei propri clienti» e procedere a una riduzione
degli importi.
Di qui la conclusione, anche tenendo conto che l'importo
dell’Iva non è la «frazione più significativa dei costi
afferenti a un procedimento giudiziario», del via libera
all’inserimento dell’imposta proprio perché non è stata
dimostrata la sua incidenza sul diritto alla tutela
giurisdizionale effettiva. Stessa conclusione per il
principio della parità delle armi, tanto più che questo –osservano gli eurogiudici–
non implica l’obbligo di un’assoluta parità per i costi
finanziari sopportati nel processo.
È vero che l’assoggettamento a un’imposta, a parità di
importo dell’onorario, procura un vantaggio «pecuniario
all’individuo con qualità di soggetto passivo rispetto
all’individuo non soggetto passivo», ma questo non
pregiudica l’equilibrio processuale delle parti (articolo Il Sole 24 Ore del
06.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
1) Dall’esame dell’articolo 1, paragrafo 2, e
dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva
2006/112/CE del Consiglio, del 28.11.2006, relativa al
sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, alla luce del
diritto a un ricorso effettivo e del principio della parità
delle armi sanciti all’articolo 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, non è emerso alcun
elemento atto a inficiare la validità di tali disposizioni
nella parte in cui esse assoggettano all’imposta sul valore
aggiunto i servizi prestati dagli avvocati a individui che
non beneficino del gratuito patrocinio nell’ambito di un
regime nazionale di gratuito patrocinio.
2) L’articolo 9, paragrafi 4 e 5, della convenzione sull’accesso
alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai
processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia
ambientale, firmata ad Aarhus il 25.06.1998, non può essere
evocato al fine di valutare la validità dell’articolo 1,
paragrafo 2, e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c),
della direttiva 2006/112.
3) L’articolo 132, paragrafo 1, lettera g), della direttiva
2006/112 deve essere interpretato nel senso che i servizi
prestati dagli avvocati a individui che beneficino del
gratuito patrocinio nell’ambito di un regime nazionale di
gratuito patrocinio, come quello di cui trattasi nel
procedimento principale, non sono esentati dall’imposta sul
valore aggiunto. |
APPALTI: Le
pendenze fiscali escludono dalla gara. Rateazione valida
solo se già accettata.
Non può essere ammesso a una procedura di appalto pubblico
l'appaltatore che, in presenza di un accertamento fiscale,
abbia fatto richiesta di rateizzazione del debito tributario
prima della presentazione dell'offerta; per considerare il
concorrente regolare dal punto di vista fiscale è necessario
che il procedimento si sia concluso con un provvedimento
favorevole.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con
la
sentenza 26.07.2016 n. 3375 con la quale è stato
affrontato il tema della regolarità fiscale ai fini della
partecipazione a gare di appalto pubblico e della definitività dell'accertamento dell'irregolarità.
La sentenza chiarisce che nelle gare di appalto,
un'irregolarità contributiva può ritenersi definitivamente
accertata solo quando, alla data di scadenza del termine di
proposizione delle domande di partecipazione alla gara,
siano scaduti i termini per la contestazione
dell'infrazione, ovvero siano stati respinti i mezzi di
gravame proposti avverso la medesima.
La pronuncia del
collegio giudicante richiama la giurisprudenza formatasi in
materia comunitaria in base alla quale il requisito della
regolarità fiscale può dirsi sussistente qualora, prima del
decorso del termine per la presentazione della domanda di
partecipazione alla gara di appalto, l'istanza di
rateizzazione sia stata accolta con l'adozione del relativo
provvedimento costitutivo.
Pertanto, ai fini dell'integrazione del requisito della
regolarità fiscale di cui all'art. 38, comma 1, lettera g),
del vecchio codice dei contratti pubblici (il dlgs 12.04.2006, n. 163), il Consiglio di stato ha affermato che
non è sufficiente che, entro il termine di presentazione
dell'offerta, sia stata presentata da parte del concorrente
istanza di rateazione del debito tributario, ma occorre
invece che il relativo procedimento si sia concluso con un
provvedimento favorevole. Non basta la domanda, occorre la
conclusione positiva del procedimento.
La sentenza conclude quindi che non sia ammissibile la
partecipazione alla procedura di gara del soggetto che, al
momento della scadenza del termine di presentazione della
domanda di partecipazione, non abbia conseguito il
provvedimento di accoglimento dell'istanza di rateizzazione
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Cartelloni vietati nello «spazio aereo».
Immobili confinanti. Tribunale di Milano.
Il cartello
pubblicitario non può essere collocato sulla parte più alta
del muro divisorio tra due condomìni e va rimosso. La
proprietà fondiaria, oltre ad avere una estensione
orizzontale, ne ha anche una verticale, cioè sia verso il
basso che verso l’alto. Ma sino a che punto?
Il TRIBUNALE di
Milano - Sez. IV civile (dopo alcuni interventi della
Cassazione), con
sentenza 25.07.2016
n. 9292, ha confermato e chiarito il principio.
Un condominio chiedeva di condannare il condominio
confinante a rimuovere un cartellone pubblicitario
installato sulla parte più alta del muro divisorio. Il
Tribunale ha anzitutto respinto la domanda preliminare di
difetto di legittimazione attiva dell’amministratore, perché
il condominio non rivendicava la comproprietà del muro
divisorio, ma dichiarava la lesione della sua proprietà in
senso verticale.
Nel merito, poi, il Tribunale dava ragione
al condominio che protestava, perché «ai sensi dell’art. 840
cod. civ., lo spazio aereo sovrastante un’area appartiene al
proprietario dell’area stessa, che, tuttavia, non può
escludere attività di terzi quando siano tali da non
pregiudicare alcun suo legittimo interesse, in relazione
alle concrete possibilità di utilizzazione di tale spazio
aereo», che nella fattispecie «è certamente concretamente
ipotizzabile (ad esempio: per realizzare un intervento di
sopraelevazione, di recupero del sottotetto, di restauro,…),
anche se non attuale (ad esempio: per la normativa edilizia
vigente,…), con la conseguenza che è legittima l’opposizione
all’installazione del cartellone pubblicitario (...)».
Il
condominio “perdente” ha dovuto anche pagare le spese di
giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del
06.09.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio.
Il dolo del reato di abuso d'ufficio
sussiste ogni qualvolta l'ingiusto vantaggio proprio o
altrui, ovvero l'ingiusto danno altrui, siano stati
rappresentati e voluti dall'agente come obiettivo primario
della propria condotta.
Tale intenzione va desunta dal complessivo svolgersi dei
comportamenti, soprattutto quando sia stato rilevato un iter
procedimentale illegittimo e caratterizzato da plurime
condotte omissive e dilatorie dell'imputato.
La reiterazione dei comportamenti, la evidente illegittimità
di essi e le altre circostanze afferenti i rapporti tra
agente e soggetto favorito o danneggiato, costituiscono
evidenti indici della sussistenza del dolo, anche se non è
necessario che il fine che deve animare l'agente sia
esclusivo.
----------------
1. Va premesso che in relazione
all'elemento soggettivo nel delitto di abuso di ufficio, è
stato affermato che "la prova del dolo intenzionale deve
essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al
comportamento "non iure" osservato dall'agente, che
evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del
comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa
rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo
che il perseguimento del pubblico interesse costituisca
l'obiettivo principale dell'agente"
(cfr. Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
E' stato anche precisato che è necessario
che il perseguimento dell'interesse pubblico costituisca il
fine primario dell'agente affinché possa essere ritenuto
insussistente l'elemento soggettivo del dolo
(in tal senso: Sez. 6, n. 14038/2015 del 02/10/2014, De
Felicis e altro, Rv. 262950).
2. In sintesi, il dolo sussiste quando
l'ingiusto vantaggio proprio od altrui, ovvero l'ingiusto
danno altrui siano stati rappresentati e voluti dall'agente
come obiettivo primario della propria condotta. Tale
intenzione va desunta dal complessivo svolgersi dei
comportamenti, soprattutto quando, come nel caso di specie,
sia stato rilevato -concordemente dai giudici di primo e
secondo grado- un iter procedimentale illegittimo e
caratterizzato da plurime condotte omissive e dilatorie
dell'imputato. La reiterazione dei comportamenti, la
evidente illegittimità di essi, nonché le altre circostanze
afferenti i rapporti tra agente e soggetto favorito o
danneggiato ed, in caso di compresenza di più fini, dalla
comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi
(cfr. Sez. 6, n. 41365 del 09/11/2006, Fabbri, Rv. 235434),
costituiscono, pertanto, evidenti indici della
sussistenza del dolo, anche se non è necessario che il fine
che deve animare l'agente sia esclusivo.
3. Come già questa Corte ha affermato,
ritenere che l'agente debba agire "al solo scopo di",
equivarrebbe ad una sostanziale disapplicazione della
fattispecie delittuosa
(in tal senso: Sez. 3, n. 13735 del 26/02/2013,p.c. in proc.
Fabrizio e altro, Rv. 254856).
Di fatti, va ribadito il principio che,
poiché l'abuso di ufficio è un reato proprio che può essere
commesso solo dal pubblico ufficiale od incaricato di un
pubblico servizio nell'esercizio delle proprie rispettive
funzioni, in qualche modo finisce per risultare sempre
manifestata una finalità pubblicistica, e ciò non solo
quando tale pubblica finalità sia utilizzata per mascherare
il vero, ma diverso, fine di avvantaggiare il soggetto
privato, ma anche quando il medesimo obiettivo pubblico
venga strumentalizzato quale scusante o limite del mancato
riconoscimento delle ragioni o diritti del privato, e quindi
con l'intenzione di provocare al privato un danno.
4. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno omesso di
svolgere il menzionato giudizio di "finalità prevalente"
in merito all'iter procedimentale dagli stessi riconosciuto
illegittimo, in quanto hanno ritenuto che mancassero
elementi di prova relativi alla sussistenza, in capo
all'imputato, dell'obiettivo di danneggiare l'attività
imprenditoriale della parte offesa, danneggiamento in verità
avvenuto, posto che a seguito dell'illegittimo procedimento
mai più concluso -fatto non riconducibile ad alcuna finalità
pubblicistica, visto che il procedimento di intesa ai sensi
del Piano paesaggistico regionale era stato promosso per
altra coeva iniziativa edilizia- era stato provocato uno
stato di incertezza tale da porre nel nulla il progettato
intervento imprenditoriale volto alla realizzazione di
strutture ricettivo-turistiche (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.07.2016 n. 31865). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'interesse all'accoglimento del
ricorso proposto avverso l'ordine di
demolizione di fabbricato abusivo permane a
prescindere dall'avvenuta presentazione della
domanda di sanatoria (che non rende ex se improcedibile il ricorso avverso l’ordinanza di demolizione).
Il ricorrente infatti, anche in caso di favorevole esito del procedimento di sanatoria, ha comunque interesse all'accoglimento del ricorso, visto che ai sensi dell'art. 36, comma 2, del DPR n. 380 del 2001 ben diverse sono le conseguenze, anche di ordine economico, che discendono dall'autorizzazione ex post di un intervento edilizio, rispetto all'accertamento della conformità ab origine
del manufatto. --------------- 1. Va premesso che le opere oggetto dell’ordinanza di demolizione sono un gazebo delle dimensioni di metri 4,2x5,5 h 2,5,2,5 con struttura in legno e copertura in tela poggiato su piattaforma in cemento delle dimensioni di 8,1x7,5 mt. e una tamponatura della tettoia lato mare delle dimensioni di circa m. 7,3x27,4 h. 2.30, mediante posa di pannelli metallici ed infissi in parte in alluminio. 1.1 Inizialmente era stato contestato alla ricorrente anche il rifacimento del manto di copertura, in realtà autorizzato con permesso di costruire n. 219 del 2008. I descritti manufatti vengono utilizzati a servizio del ristorante e sono stati, successivamente alla notifica del ricorso, oggetto di istanza di accertamento di conformità. In ragione di ciò questo Tribunale, con ordinanza ex articolo 73, comma 3, cod. proc. amm., ha rilevato la possibile sussistenza di una causa di improcedibilità, cui la ricorrente ha controdedotto con memoria depositata in data 20.03.2015, affermando il proprio interesse al ricorso medesimo, argomentando che l’istanza di accertamento di conformità non avrebbe compreso tutte le opere oggetto dell’impugnata ordinanza. Tale istanza è stata dichiarata improcedibile dal Comune di Ancona, con diniego impugnato tramite successivo ricorso 462/2015, in discussione in questa stessa udienza. In ogni caso deve ritenersi che l'interesse all'accoglimento del ricorso proposto avverso l'ordine di demolizione di fabbricato abusivo permane a prescindere dall'avvenuta presentazione della domanda di sanatoria (che, come affermato dal questo Tribunale, non rende
ex se improcedibile il ricorso avverso l’ordinanza di demolizione, cfr., da ultimo, sentenza
02.04.2016, n. 206): il ricorrente infatti, anche in caso di favorevole esito del procedimento di sanatoria, ha comunque interesse all'accoglimento del ricorso, visto che ai sensi dell'art. 36, comma 2, del DPR n. 380 del 2001 ben diverse sono le conseguenze, anche di ordine economico, che discendono dall'autorizzazione
ex post di un intervento edilizio, rispetto all'accertamento della conformità
ab origine del manufatto (Tar Marche Ancona 24.07.2015
n. 579) (TAR Marche, sentenza 22.07.2016 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non si vede
come il gazebo esterno (che insiste su una
piattaforma in cemento realizzata in assenza
di titolo) e la tamponatura della veranda
esterna possano essere considerate opere di
manutenzione ordinaria, le quali, anche se
realizzate in area sottoposta a vincolo
paesaggistico, non richiedono alcun titolo.
In tutta evidenza, la tamponatura realizzata
con pannelli metallici e infissi non può
essere considerata come una mera protezione
della tettoia aperta.
Per costante giurisprudenza la tamponatura di
una tettoia costituisce intervento di
ristrutturazione edilizia, a maggior ragione
in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Analoghe considerazioni vanno espresse per un
gazebo poggiante su una piattaforma in
cemento.
---------------
È evidente come il tipo di tamponatura usata
sia idonea ad alterare lo stato dei luoghi, in
particolare negli stretti limiti della
presenza di un vincolo paesaggistico ai sensi
dell’articolo 146 del d.lgs. 22.01.2004, n.
42. Non è rilevante che essa possa essere
rimossa durante la bella stagione, dato che
ricorrente non ha l’autorizzazione ad una
struttura chiusa.
--------------- 2. Con riguardo al primo motivo di ricorso, non si vede come il gazebo esterno (che insiste su una piattaforma in cemento realizzata in assenza di titolo) e la tamponatura della veranda esterna possano essere considerate opere di manutenzione ordinaria, le quali, anche se realizzate in area sottoposta a vincolo paesaggistico, non richiedono alcun titolo.
In tutta evidenza, la tamponatura realizzata con pannelli metallici e infissi non può essere considerata come una mera protezione della tettoia aperta. L’opera ha ben pochi punti di contatto con la semplice barriera di protezione autorizzata con concessione n. 12 del 2008, presentandosi del tutto diversa per sagoma e materiali.
Per costante giurisprudenza la tamponatura di una tettoia costituisce intervento di ristrutturazione edilizia, a maggior ragione in area sottoposta a vincolo paesaggistico (tra le numerose decisioni, Tar Marche Ancona 13.01.2012 n. 39).
Analoghe considerazioni vanno espresse per un gazebo poggiante su una piattaforma in cemento. 2.1 Allo stesso modo è infondata la censura di eccesso di potere per carenza e contraddittorietà della motivazione, con particolare riguardo alla rappresentazione dello stato dei luoghi. La censura risulta del tutto generica. È evidente come il tipo di tamponatura usata sia idonea ad alterare lo stato dei luoghi, in particolare negli stretti limiti della presenza di un vincolo paesaggistico ai sensi dell’articolo 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42. Non è rilevante che essa possa essere rimossa durante la bella stagione, dato che ricorrente non ha l’autorizzazione ad una struttura chiusa. Resta fermo che eventuali diverse soluzioni –proposte successivamente alla rimozione dei pannelli abusivi–
dovranno essere valutate dalle amministrazioni
competenti (compresa l’autorità investita
della tutela del vincolo) (TAR Marche, sentenza 22.07.2016 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Animali da compagnia senza veti. Il Codice civile non
distingue tra le «leggi» condominiali.
La riforma. Per il Tribunale di Cagliari sono superati anche
i divieti del regolamento contrattuale.
Il TRIBUNALE
di Cagliari, Sez. II civile, ha definitivamente sentenziato
(ordinanza 22.07.2016, data
udienza) che nessuna norma condominiale può vietare di
detenere animali domestici in condominio, indipendentemente
dalle previsioni contrattuali dell’edificio in cui il
proprietario dell’animale domestico risiede.
Per Ilaria Innocenti, responsabile Lav Area Animali
Familiari, che ha segnalato questa pronuncia si tratta di
una decisione «resa possibile dalla legge di riforma del
condominio, fortemente voluta dalla Lav che nel 2008 aveva
presentato una proposta di legge per la modifica del Codice
civile di cui la citata riforma è un positivo risultato».
In particolare, il giudice ha chiarito per la prima volta in
modo esplicito che anche il regolamento di natura
contrattuale, ossia quello deliberato all’unanimità o
predisposto dal costruttore dello stabile condominiale ed
allegato ai singoli atti di compravendita, è affetto da
nullità sopravvenuta sia in relazione alla legge di riforma
del condominio che ha introdotto l’articolo 1138, ultimo
comma, del Codice civile, sia in quanto contraria ai
principi di «ordine pubblico».
Quindi, sia i regolamenti contrattuali che si sono formati
prima della legge 220/2012 che quelli redatti
successivamente alla sua entrata in vigore sono nulli nella
parte in cui prevedono il divieto di detenere animali
domestici in condominio.
Il ragionamento del giudice è chiaro. L’articolo 1138,
ultimo comma, del Codice civile prevede che il regolamento
non possa vietare di possedere animali domestici, senza
specificare di quale regolamento si sta parlando; quindi non
è legittimo ridurre autonomamente la portata di questo
precetto al solo regolamento assembleare. Inoltre l’articolo
155 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile
dispone che «cessano di avere effetto le disposizioni del
regolamento di condominio che siano richiamate nell’ultimo
comma dell’articolo 1138 del Codice», sancendo
definitivamente la correttezza della tesi della nullità del
regolamento contrario al divieto.
Il giudice poi, così come più volte dichiarato anche dalla
Lav, ha richiamato la legislazione italiana ed europea che
hanno sancito quei principi di «ordine pubblico» già
operanti nel diritto vivente, frutto della evoluzione e
della rinnovata considerazione del rapporto uomo-animale
assurto a espressione dei più generali diritti inviolabili
di cui all’articolo 2 della Costituzione.
Parliamo, in ordine cronologico, della legge 281/1991, che
prevede la condanna agli atti di crudeltà, maltrattamento e
abbandono di animali, seguita dalla legge 189/2004 che ha
introdotto i nuovi delitti di animalicidio e maltrattamento
di animali e dal nuovo Codice della Strada che ha disposto
l’obbligo di fermarsi a soccorrere l’animale ferito in caso
di incidente.
A livello europeo la Convenzione europea per la protezione
degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il
13.11.1987 e ratificata in Italia con la legge 201/2010 ha
sancito l’importanza degli animali da compagnia ed il loro
valore per la società proprio per il contributo da essi
fornito alla qualità della nostra vita.
«La grandezza di una nazione ed il suo progresso morale si
possono giudicare dal modo in cui essa tratta gli animali»
(Mahatma Gandhi). Ormai questo pensiero trova condivisione
non solo negli uomini ma anche nella giurisprudenza
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.09.2016). |
APPALTI: Certificati
antimafia anche se l’importo è sotto la soglia. Consiglio di
Stato. Appalti e incentivi.
Poiché la pubblica amministrazione
può sempre accertare «se l’impresa meriti la “fiducia delle
istituzioni”», può richiedere la certificazione antimafia
per le aziende che accedono ad appalti, contratti o
incentivi pubblici. Quindi gli uffici possono non limitarsi
ad attivare il controllo prefettizio nei casi obbligatori, o
meglio, solo quando i valori economici superano le soglie di
legge.
Il Consiglio di
Stato, nella
sentenza 20.07.2016 n.
3300, depositata dalla III Sez., ha così ritenuto
legittima un’informativa interdittiva emessa contro
un’impresa agricola che si era aggiudicata un finanziamento
pubblico di poco più di 130mila euro, quindi per un importo
sotto il limite minimo di 150mila euro oltre il quale il
Codice antimafia impone all’amministrazione di acquisire
l’informazione antimafia prima del “via libera” a qualsiasi
rapporto (comma 1, articolo 91, Dlgs 159/2011).
I giudici hanno accolto il ricorso del ministero
dell’Interno secondo cui, una volta che la Pa chiede la
verifica al prefetto, quest’ultimo deve attivarsi anche se
l’ammontare considerato non la prevede. E la stessa
amministrazione è tenuta a bloccare contratti o contributi
se si accerta che l’impresa è “a rischio infiltrazioni” o
che non può ottenerli per via di misure di prevenzione
personali definitive. Il ministero contestava l’esito del
giudizio di primo grado, secondo cui la verifica sui “mini”
rapporti con la Pa è «sostanzialmente inutile» poiché,
aumentando la quantità degli affari da trattare, verrebbe
meno la qualità generale del controllo che in realtà va
garantita concentrandosi sui casi economicamente più
importanti.
Il collegio ha spiegato che la lettura “rigida” del Tar
«sovvertirebbe il principio che impone di assicurare, in
sede interpretativa, effettività e concretezza alla tutela
del bene protetto, soprattutto laddove, come avviene per le
informazioni antimafia, questo assuma un ruolo assolutamente
primario». Lo scopo dei dettami sulle soglie di valore è
infatti «conformare, anche ai fini delle conseguenti
responsabilità, il buon andamento delle attività delle
pubbliche amministrazioni procedenti», sia nei casi in cui
l’informazione antimafia è d’obbligo sia quando «non è
comunque richiesta» o, tra gli altri, per «i provvedimenti
gli atti, i contratti e le erogazioni il cui valore
complessivo non supera i 150.000 euro» (lettera e, comma 3,
articolo 83).
Pure a prescindere dall’eventuale firma di un «protocollo di
legalità», in questi casi la richiesta della certificazione
prefettizia non può essere vietata: il Codice mira a
«evitare radicalmente l'erogazione di risorse pubbliche a
soggetti esposti ad infiltrazioni di tipo mafioso, e che
pertanto mal tollera che ciò possa avvenire solo entro
determinati limiti quantitativi».
Il principio è sempre valido al di là del valore del
rapporto. Lo stesso Consiglio di Stato l’ha applicato finora
per appalti e contratti con importi sotto le soglie
comunitarie come invocato in giudizio dalla ditta interdetta
(tra le ultime, la sentenza 2799/2013) -cioè per somme a
partire dagli attuali 209mila euro per forniture e servizi
nei settori ordinari escludendo gli appalti assegnati dagli
enti governativi centrali-, o per incentivi pubblici oltre
il limite di 150mila euro (sentenza 3386/2014) (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2016).
---------------
MASSIMA
5. L’appello è fondato e deve pertanto essere accolto.
6. Ai sensi dell’art. 10, comma 1, del d.P.R. 252/1998,
applicabile ratione temporis alla presente
controversia), le Pubbliche Amministrazioni «devono
acquisire» le informazioni antimafia in relazione a
determinate soglie di valore, corrispondenti:
- per gli appalti di lavori, servizi e forniture, ad un
valore pari o superiore a quello di rilevanza comunitaria
(lettera a);
- per le concessioni di beni pubblici, ovvero di contributi,
finanziamenti ed altre erogazioni dello stesso tipo (lettera
b), nonché per l’autorizzazione di subcontratti, cessioni o
cottimi concernenti la realizzazione di lavori pubblici o la
prestazione di servizi o forniture pubbliche (lettera c), ad
un valore superiore ai 300 milioni di lire.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, lettera e), la documentazione
antimafia «non è comunque richiesta» per i
provvedimenti gli atti, i contratti e le erogazioni il cui
valore complessivo non supera i 300 milioni di lire.
Analoghe disposizioni sono oggi contenute negli artt. 91,
comma 1, e 83, comma 3, lettera e) del d.lgs. 159/2011,
applicabile a decorrere dal 13.02.2013; in particolare,
l’art. 91, comma 1, per gli appalti (lettera a), conferma il
richiamo alla soglia di rilevanza comunitaria pro tempore
vigente, e prevede negli altri casi (lettere b) e c) la
soglia di 150.000 euro, mentre l’art. 83, comma 3, prevede
che la documentazione antimafia non è comunque richiesta
fino ad una soglia di 150.000 euro.
7. La giurisprudenza di questo Consiglio ha
già avuto modo di affermare, ancorché con riferimento al
limite di valore dettato (dalla lettera a) in materia di
appalti, come la scelta di un’amministrazione pubblica di
avvalersi della possibilità di richiedere l’informativa non
è preclusa dall’art. 10, comma 1, del d.P.R. 252/1998
(che impone l’obbligo di acquisire le informazioni, qualora
l’importo della gara o della concessione superi la soglia
normativamente posta), non essendovi un
divieto di richiedere informazioni al di sotto della soglia
indicata (in tal
senso, cfr. Cons. Stato, V, n. 4533/2008; VI, n. 240/2008;
III, n. 2798/2013 – si tratta delle sentenze invocate dalle
parti, pronunciate in giudizi in cui l’interdittiva incideva
su appalti, per i quali, a differenza di quanto avviene per
le altre ipotesi, esiste una “zona grigia” tra la
soglia minima che comporta la “doverosità”
dell’acquisizione, e quella massima generale di “esclusione”
della richiesta).
Sempre in relazione ad un appalto al di sotto di detta
soglia, questa Sezione ha affermato più di recente che,
a prescindere dalla legittimità della richiesta
d’informazione antimafia, il contenuto interdittivo della
stessa valga a precludere la nascita di un rapporto
contrattuale tra la stazione appaltante ed i soggetti
coinvolti dall’informativa o, ancora, a paralizzare le sorti
di un rapporto già sorto tra le parti
(cfr. III, n. 2040/2014).
Ancora più di recente, questa Sezione si è pronunciata in
ordine ad un’interdittiva emessa in relazione ad una
situazione del tutto analoga a quello oggi in esame (in
quanto, anche in quel caso, si trattava di un contributo di
35.000 euro, a valere sulla «Misura 112 del PSR Calabria
2007/2013», comportante l’obbligo di attivazione della «Misura
121», per la quale era concesso un ulteriore
contributo).
In tale occasione, la Sezione, dopo aver sottolineato che il
valore complessivo dell’incentivazione superava la soglia di
rilevanza di 150.000 euro, ha anche affermato che,
a prescindere dalla questione sull’ammontare del
contributo, la richiesta di informazioni fatta alla
Prefettura, anche se non obbligatoria, non poteva ritenersi
certo illegittima, osservando come ciò sia coerente con la
finalità dell’informativa interdittiva, in quanto volta ad
evitare che l’Amministrazione possa avere rapporti
contrattuali o anche erogare risorse pubbliche ad imprese,
per le quali è stato accertato il rischio di condizionamento
da parte della criminalità organizzata
(cfr. Cons. Stato, III, n. 3386/2014).
8. Il Collegio (pur osservando che, nel caso in esame,
l’ulteriore contributo concesso in relazione alla «Misura
121» è pari a 95.204,69 euro, e quindi, sommato
all’altro oggetto di revoca, non comporta il superamento
della soglia di valore dei 150.000 euro) ritiene preferibile
l’orientamento espresso da tale ultima pronuncia.
8.1. Infatti (anche valorizzando le considerazioni svolte da
TAR Lazio, I, n. 7566/2012, richiamata nell’appello),
deve ritenersi che le disposizioni sulle «soglie
di valore»:
- nel costituire, in un caso (artt. 10, comma 1, del d.P.R.
252/1998, e 91, comma 1, del d.lgs. 159/2011), la fonte di
un obbligo assoluto dell’amministrazione procedente, e
nell’altro (artt. 1, comma 2, del d.P.R. 252/1998 e 83,
comma 3, del d.lgs. 159/2011), quella di un’esenzione da
tale obbligo, si propongono di conformare, anche ai fini
delle conseguenti responsabilità, il buon andamento delle
attività delle pubbliche amministrazioni procedenti;
- non possono essere interpretate nel senso che vi sarebbe
una diminuzione dell’attenzione del legislatore nei
confronti del pericolo di condizionamento delle imprese da
parte di associazioni criminali, ostativo all’instaurazione
di un rapporto con l’amministrazione.
Tale interpretazione, infatti, urterebbe
contro la ratio della complessiva disciplina in
materia (che mira
a delimitare i rapporti economici con le Amministrazioni,
solo quando l’impresa meriti la «fiducia» delle
Istituzioni) e sovvertirebbe il principio
che impone di assicurare, in sede interpretativa,
effettività e concretezza alla tutela del bene protetto,
soprattutto laddove, come avviene per le informazioni
antimafia, questo assuma un ruolo assolutamente primario.
Per i rapporti «sotto soglia»,
possono dunque esservi le acquisizioni delle informazioni
antimafia, sia quando si dia attuazione ad un «protocollo
di legalità», sia quando questo non sia stato concluso.
Infatti, potendosi sempre accertare se
l’impresa meriti la «fiducia delle Istituzioni», si
può attivare il procedimento volto alla verifica della
sussistenza o meno del tentativo di infiltrazione della
criminalità organizzata, con il conseguente esercizio dei
poteri della Prefettura.
8.2. Dunque, il principio generale da
applicare -ai sensi dell'art. 10, comma 2, del d.P.R.
252/1998 e, oggi, dell’art. 94, comma 1, del d.lgs.
159/2011- è quello per cui, quando emergono elementi
relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società
o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite
le relative informazioni «non possono stipulare,
approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né
autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni
e le erogazioni».
Tale conclusione è l’unica coerente con le
complessive finalità della disciplina delle informazioni
antimafia, che è volta ad evitare radicalmente l’erogazione
di risorse pubbliche a soggetti esposti ad infiltrazioni di
tipo mafioso, e che pertanto mal tollera che ciò possa
avvenire solo entro determinati limiti quantitativi.
9. In conclusione, anche al di là dei casi in cui vi è
l'obbligo per l'amministrazione procedente di richiedere le
informazioni antimafia, essa è legittimata a richiederle,
con i conseguenti poteri-doveri della Prefettura. |
APPALTI:
Trasparenza nelle procedure telematiche.
I principi di trasparenza e pubblicità delle operazioni di
gara non possono essere messi in discussione nel caso si sia
trattato di procedure a evidenza pubblica, anche se svolte
con modalità telematiche. I suddetti principi abbiano
valenza fondamentale e siano posti a tutela degli interessi
non solo degli operatori economici, ma anche della stessa
stazione appaltante.
È questo il principio affermato dal
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 20.07.2016 n.
3266.
Il caso sottostante la decisione citata riguardava una
procedura indetta dalla Regione Calabria e relativa la
fornitura per tre anni di medicazioni generali ospedaliere,
da affidarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa. Secondo l'ente, trattandosi di gara
telematica, sarebbe stato possibile derogare all'obbligo
d'apertura in seduta pubblica delle buste amministrative,
tecniche ed economiche.
I supremi giudici amministrativi hanno confermato la
sentenza di primo grado, affermando che lo svolgimento delle
operazioni di gara in seduta pubblica non hanno la funzione
d'evitare la possibile manomissione o alterazione dei plichi
contenenti la documentazione amministrativa o l'offerta
tecnico/economica, ma anche si prefiggono lo scopo di
assicurare la tutela della concorrenza, affinché non si
determinino alterazioni delle offerte o possibili disparità
di trattamento tra i concorrenti (articolo ItaliaOggi del 21.09.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ferie
non godute? Vanno sempre pagate. L'intervento della corte di
giustizia.
I diritti sociali del dipendente trovano tutela presso la
Corte di Giustizia.
Con la
sentenza 20.07.2016 causa C-341/15, l'organo giudiziario
dell'Unione Europea ha riconosciuto in capo al lavoratore il
diritto di percepire una indennità finanziaria nel caso in
cui egli non abbia potuto godere, in tutto o in parte, delle
ferie annuali retribuite.
La questione va precisata nel senso che tale situazione
emerge nel momento della cessazione del rapporto di lavoro,
e per i casi nei quali il lavoratore non abbia potuto godere
delle ferie, anche per frazione di anno, a causa di assenza
dal servizio per malattia. I giudici europei hanno replicato
la prevalenza della Direttiva n. 2003/88 sulle normative
nazionali ove essa dispone (art. 7) che il diritto alle
ferie annuali retribuite deve essere considerato come «un
principio particolarmente importante del diritto sociale
dell'Unione conferito a ogni lavoratore, indipendentemente
dal suo stato di salute».
La tematica è stata prontamente ripresa dalle associazioni
sindacali italiane per la scuola che rivendicano questo
diritto per i supplenti assunti fino al termine delle
attività didattiche e che sono esortati al ricorso al
giudice del lavoro per ottenere ristoro economico delle
ferie compromesse. La norma nazionale contestata è quella
del cosiddetto patto di stabilità del 24.12.2012 n. 228,
articolo 1, commi 54, 55 e 56 che limitano i diritti alle
ferie del personale scolastico, peraltro sottraendoli,
d'imperio, alla contrattazione collettiva.
La sentenza lussemburghese, precisa che quando è cessato il
rapporto di lavoro, e allorché la fruizione effettiva delle
ferie annuali retribuite non è più possibile, la Direttiva
comunitaria ha previsto che il lavoratore abbia diritto a
un'indennità finanziaria per evitare che, a causa di tale
impossibilità, il lavoratore non riesca in alcun modo a
godere di tale beneficio neppure in forma pecuniaria.
Lo
stesso articolo 7 (primo comma) pone altresì come limite
minimo, per tutte le normative nazionali, un periodo di
quattro settimane a titolo di ferie annuali. Il caso era
arrivato alla Corte del Lussemburgo con la procedura di
«rinvio pregiudiziale», ossia era stato il giudice nazione
(nella specie, quello austriaco) a rimettere gli atti
all'organo dell'U.E. per chiedere l'interpretazione del
diritto comunitario al fine di verificarne la conformità con
la normativa nazionale.
La Corte di giustizia, nella sua funzione istituzionale, non
risponde con un semplice parere ma attraverso una sentenza o
un'ordinanza motivata, alla quale, quindi, il giudice
territoriale è vincolato nel definire la controversia
dinanzi ad esso pendente. Inoltre, la sentenza europea
vincola egualmente gli altri giudici nazionali che devono
esprimersi su identiche questioni.
Quanto al grado di
partecipazione presso questo organo giurisdizionale, va
annotato come ciascun cittadino europeo può far chiarire le
norme dell'Unione che lo riguardano, anche se detto rinvio
possa essere effettuato solo dalla magistratura
territoriale, infatti tutte le parti già costituite nel
giudizio nazionale possono poi partecipare al procedimento
innanzi alla Corte di giustizia
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: La
deroga al principio generale per il quale, in materia
paesaggistica,
l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli interventi, fissata
dall'art. 146, comma dodicesimo, d.lgs. 42/2004, è limitata
agli interventi minori individuati dall'art.
181, comma 1-ter, del medesimo d.lgs., per i quali
soltanto non si applicano
le sanzioni penali di cui al comma primo del medesimo art.
181, ferme restando
quelle amministrative di cui all'art. 167 del predetto
d.lgs..
---------------
Il reato di cui all'art.
181 d.lgs. 42/2004 ha
natura di reato di pericolo e si consuma con la sola
realizzazione di lavori, attività
o interventi in zone vincolate senza la prescritta
autorizzazione paesaggistica, a
prescindere da ogni accertamento in ordine alla avvenuta
alterazione,
danneggiamento o deturpamento del paesaggio, ed anche delle
condizioni della
zona sottoposta al vincolo ed interessata dagli interventi,
in quanto per la sua
configurabilità è sufficiente che l'agente faccia del bene
protetto dal vincolo un
uso diverso da quello cui esso è destinato, atteso che il
vincolo posto su certe
parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al
governo del territorio
stesso.
Il reato in esame non è configurabile esclusivamente in
quelle eccezionali
occasioni nelle quali si realizzi un intervento di entità
talmente minima ed
irrilevante che lo stesso non sia neppure astrattamente
idoneo a porre in pericolo
il paesaggio e a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale, ovvero che si
tratti di un intervento ontologicamente estraneo al
paesaggio ed all'ambiente.
---------------
Il ricorso è infondato.
1. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è
stata denunciata
violazione ed errata applicazione dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, in
quanto avrebbe dovuto essere ravvisata la diversa ipotesi
contravvenzionale di
cui al primo comma di tale disposizione, escludendo i
presupposti di cui al
comma 1-bis, in considerazione dello stato di degrado
dell'area interessata dagli
interventi e dai lavori, ed avrebbe, comunque, dovuto essere
rilevata
l'intervenuta estinzione del reato a seguito della
dichiarazione di compatibilità
paesaggistica postuma rilasciata dalla Soprintendenza ai
Beni Culturali e
Ambientali di Agrigento in data 08.04.2009, va anzitutto
ricordato che la
deroga al principio generale per il quale, in materia
paesaggistica,
l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli interventi, fissata
dall'art. 146, comma dodicesimo, d.lgs. 42/2004, è limitata
agli interventi minori individuati dall'art.
181, comma 1-ter, del medesimo d.lgs., per i quali
soltanto non si applicano
le sanzioni penali di cui al comma primo del medesimo art.
181, ferme restando
quelle amministrative di cui all'art. 167 del predetto
d.lgs. (così Sez. 3, n. 35965
del 05/02/2015, Seratoni Gualdoni, Rv. 264875, relativa alla
coltivazione di una
cava, nella quale è stata esclusa la sussistenza di un
intervento minore, data la
notevole entità volumetrica del materiale abusivamente
estratto, rispetto a
quanto originariamente autorizzato; conf. Sez. 3, n. 15053
del 23/01/2007,
Bugelli, Rv. 236337).
Ora, nella specie, la Corte d'appello di Palermo ha,
conformemente al
ricordato principio, escluso l'applicabilità della causa di
non punibilità derivante
dall'accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi
dei commi 1-ter e 1-quater dell'art. 181 cit., ed anche di quella di estinzione
del reato conseguente
alla rimessione in pristino, ai sensi del comma 1-quinquies
della medesima
disposizione, rilevando correttamente che tali previsioni
riguardano solamente la
diversa ipotesi contravvenzionale di cui al comma 1
dell'art. 181 citato, nella
specie non ravvisabile. La Corte territoriale ha, inoltre,
sottolineato l'insufficienza
ai fini della valutazione di compatibilità paesaggistica del
nulla osta a posteriori
rilasciato dalla Soprintendenza e l'irrilevanza della
rimessione in pristino, in
quanto non volontaria ma eseguita per imposizione del
giudice quale condizione
per ottenere il dissequestro dell'area.
Il rilievo, peraltro attinente alla ricostruzione in fatto
della vicenda e dello
stato dei luoghi e formulato per la prima volta mediante il
ricorso per cassazione,
secondo cui avrebbe dovuto essere ravvisata la meno grave
ipotesi
contravvenzionale di cui al primo comma dell'art. 181 d.lgs.
42/2004, in
considerazione dello stato di abbandono dell'area
interessata dagli interventi
disposti con l'ordinanza contingibile ed urgente emanata dal
Sindaco De Ru.,
con la conseguente rilevanza del nulla osta paesaggistico e
della rimessione in
pristino, risulta inconferente, non rilevando le condizioni
dell'area oggetto
dell'intervento ma solo l'esistenza o meno del vincolo
paesaggistico, nella specie
pacificamente esistente, in quanto il reato di cui all'art.
181 d.lgs. 42/2004 ha
natura di reato di pericolo e si consuma con la sola
realizzazione di lavori, attività
o interventi in zone vincolate senza la prescritta
autorizzazione paesaggistica, a
prescindere da ogni accertamento in ordine alla avvenuta
alterazione,
danneggiamento o deturpamento del paesaggio, ed anche delle
condizioni della
zona sottoposta al vincolo ed interessata dagli interventi,
in quanto per la sua
configurabilità è sufficiente che l'agente faccia del bene
protetto dal vincolo un
uso diverso da quello cui esso è destinato, atteso che il
vincolo posto su certe
parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al
governo del territorio
stesso (Sez. 3, n. 564 del 17/11/2005, Villa, Rv. 233012).
Il reato in esame non è configurabile esclusivamente in
quelle eccezionali
occasioni nelle quali si realizzi un intervento di entità
talmente minima ed
irrilevante che lo stesso non sia neppure astrattamente
idoneo a porre in pericolo
il paesaggio e a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale, ovvero che si
tratti di un intervento ontologicamente estraneo al
paesaggio ed all'ambiente (ex
multis, Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia, Rv. 263289;
Sez. 3, n. 37337
del 16/04/2013, Ciacci, Rv. 257347; Sez. 3, n. 39049 del
20/03/2013, Bortini,
Rv. 256426; Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009, Soverini, Rv.
245908).
Nella specie
tale minima entità non è in alcun modo ravvisabile, essendo
state posate
nell'area sottoposta a vincolo vasche per l'accumulo di
acque e lo scarico di
reflui, realizzato un parcheggio a raso a cielo aperto,
collocato un camion
attrezzato per la vendita di alimenti e bevande ed una
pedana in legno a servizio
del camion, aperto un varco in un muro di confine per
facilitare l'accesso al
punto di ristoro, create zone d'ombra e docce per i turisti
e rimossa un'aiuola,
interventi chiaramente idonei a porre in pericolo il
paesaggio e a pregiudicare il
bene paesaggistico-ambientale, in quanto il piccolo bar
realizzato nella struttura
ecocompatibile assentita dall'ente gestore della riserva era
stato trasformato in
un vero e proprio punto di ristoro dotato di alimentazione
elettrica ad alta
tensione, di una struttura in legno ad esclusivo servizio
per allocarvi tavoli e
sedie, di un'ampia area di parcheggio e di altri servizi
collaterali, quali docce
alimentate da vasche idriche.
Deve, pertanto, concludersi per l'infondatezza del primo
motivo di ricorso,
essendo stata correttamente affermate la sussistenza del
delitto paesaggistico e
la conseguente irrilevanza del nulla osta ambientale postumo
e della rimessione in pristino per ordine del giudice
(Corte di Cassazione, Sez. III Penale,
sentenza 12.07.2016 n. 28938). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Consuma
il reato di "abuso d'ufficio" il sindaco che, con ordinanza
contingibile ed urgente ex art. 54 d.lgs. 267/2000,
mette in atto un espediente
per aggirare le prescrizioni connesse al vincolo ambientale
e realizzare un intento
illecito, e cioè favorire l'attività di ristorazione ivi
esistente, essendo risultati del
tutto artificiosi i riferimenti ad incidenti stradali
verificatisi nella zona, non essendo derivati dal traffico
estivo, e non essendo correlate alle esigenze della
circolazione le opere diverse dalla realizzazione del
parcheggio autorizzate con la
medesima ordinanza, volte invece a favorire l'afflusso di
clienti presso l'esercizio
commerciale e ad ampliarne e rendere più
attrattiva l'attività,
ritenendo di conseguenza viziato da violazione di legge tale
provvedimento, in
quanto non caratterizzato da eccesso di potere (nel senso
del compimento di non
corrette valutazioni discrezionali) ma dalla assoluta
mancanza dei presupposti
legittimanti l'esercizio di tale potere, artificiosamente
prospettati nella ordinanza
stessa.
---------------
Il ricorso è infondato.
...
2. Il secondo motivo di ricorso, mediante il quale
è stata
prospettata
violazione di legge, ed in particolare dell'art. 54 d.lgs.
267/2000, in relazione alla
ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 323 cod. pen.,
sul rilievo che
l'ordinanza contingibile ed urgente emanata dal De Ru.
quale Sindaco di
Lampedusa e Linosa per consentire la realizzazione del
parcheggio era stata
adottata per risolvere i problemi di congestione del
traffico veicolare nell'area
prospiciente la spiaggia dell'Isola dei Conigli, dunque in
relazione ad una
situazione di pericolo per la sicurezza e l'incolumità
pubblica, risulta anch'esso
infondato.
Al riguardo la Corte d'appello di Palermo ha sottolineato
le
anomalie della
procedura conclusasi con l'emissione di detta ordinanza,
ritenuta un espediente
per aggirare le prescrizioni connesse al vincolo ambientale
e realizzare un intento
illecito, e cioè favorire l'attività di ristorazione del
Cu., essendo risultati del
tutto artificiosi i riferimenti ad incidenti stradali
verificatisi nella zona, non essendo derivati dal traffico
estivo, e non essendo correlate alle esigenze della
circolazione le opere diverse dalla realizzazione del
parcheggio autorizzate con la
medesima ordinanza, volte invece a favorire l'afflusso di
clienti presso l'esercizio
commerciale del Cu. e ad ampliarne e rendere più
attrattiva l'attività,
ritenendo di conseguenza viziato da violazione di legge tale
provvedimento, in
quanto non caratterizzato da eccesso di potere (nel senso
del compimento di non
corrette valutazioni discrezionali) ma dalla assoluta
mancanza dei presupposti
legittimanti l'esercizio di tale potere, artificiosamente
prospettati nella ordinanza
stessa.
A fronte di tali considerazioni il ricorrente si è limitato
a ribadire l'esistenza di
una situazione di pericolo conseguente all'intenso traffico
veicolare nella zona,
omettendo di confrontarsi con i suddetti rilievi della Corte
d'appello, circa la
pretestuosità di tale indicazione e la sua inconferenza
rispetto al complesso degli
interventi e dei lavori autorizzati, con la conseguente
infondatezza della censura,
risultando corretta la riconducibilità del vizio di detta
ordinanza alla categoria
della violazione di legge, in quanto emessa in totale
assenza dei presupposti
legittimanti, e cioè una situazione di pericolo per la
sicurezza e l'incolumità
pubblica, esclusa in punto di fatto ed in relazione alla
quale, comunque, gli
interventi autorizzati risultavano inconferenti.
L'ampliamento del piccolo bar di cui il Cu. era titolare,
mediante
trasformazione in un vero e proprio punto di ristoro, con
parcheggio e docce,
determinava un evidente vantaggio patrimoniale per il
gestore, conseguente alla
radicale trasformazione del suo esercizio commerciale, in
termini di dimensioni,
caratteristiche e maggiori servizi offerti ai turisti, con
la conseguenza che risulta
corretta la valutazione compiuta dalla Corte d'appello circa
lo scopo di procurare
tale vantaggio al Cu. insito nella adozione della
ordinanza d'urgenza da parte
del De Ru..
Infine risulta infondata anche la censura sollevata in
relazione alla condanna
del ricorrente al risarcimento dei danni in favore della
parte civile costituita,
avendo l'imputato esorbitato dalle sue attribuzioni di
Sindaco, emettendo una
ordinanza in mancanza dei presupposti legittimanti
l'esercizio del relativo potere,
e dovendo, di conseguenza, rispondere delle conseguenze di
tale atto anche sul
piano risarcitorio, essendo venuto meno per effetto
dell'illecito il rapporto di
rappresentanza ed immedesimazione organica con l'ente.
In conclusione il ricorso in esame deve essere respinto,
stante l'infondatezza
di entrambi i motivi cui è stato affidato, ed il ricorrente
condannato al
pagamento delle spese processuali ed alla rifusione alla
parte civile di quelle
dalla stessa sostenute nel grado, liquidate come da
dispositivo
(Corte di Cassazione, Sez. III Penale,
sentenza 12.07.2016 n. 28938). |
EDILIZIA PRIVATA:
Smaltimento fumi con perizia. Con attestato sì a
impianti alternativi alle canne fumarie. Il Tar Lazio: serve
l'attestazione di un professionista che abbia le conoscenze
necessarie.
Il ristorante di carne nel centro può riaccendere la griglia
nel centro storico, in mezzo a edifici antichi e immobili di
pregio. Ma solo se dimostra con una perizia che l'impianto
più moderno di smaltimento fumi, di cui vuole dotarsi è
un'alternativa valida alla canna fumaria. E ad attestarlo
deve essere un professionista in possesso delle conoscenze
necessarie per le misurazioni richieste.
È quanto emerge dalla
sentenza
12.07.2016 n. 7971,
pubblicata dalla Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
Placet procedimentale.
Accolto il ricorso della società
proprietaria del locale pubblico contro lo stop all'attività
decretato da Roma Capitale, in una zona della città molto
frequentata dai turisti. Il tutto per contrarietà
all'articolo 64 del regolamento di igiene del comune. Non è
possibile installare la canna fumaria e il gestore preme per
una via alternativa per lo smaltimento. E il fatto che la
sua censura trovi ingresso presso i giudici amministrativi
non lo autorizza a riprendere automaticamente il servizio
come prima.
Sull'impianto più moderno che l'esercizio
pubblico dice di voler installare si deve comunque
pronunciare l'amministrazione nella sede procedimentale
prevista. È anzitutto necessario rispettare le norme
tecniche di costruzione. Ma serve anche produrre una perizia
che attesta come la via di fumo alternativa risulta
equipollente se non addirittura più efficiente della vecchia
canna fumaria. E a firmarla può essere solo un
professionista dotato di strumenti riconosciuti per la
valutazione.
Le vie di fumo dei locali pubblici sono un
tradizionale terreno di scontro con i vicini. Ma attenzione:
via libera alla sanatoria per la canna fumaria della
pizzeria anche senza il consenso dei condomini. I confinanti
del ristorante non riescono a far annullare la sanatoria
concessa dal comune per il permesso di costruire: il
condotto per l'esalazione dei fumi costituisce un volume
tecnico e l'amministrazione non può che concedere il titolo
edilizio.
Per l'installazione della struttura lungo la
facciata non serve il consenso dei condomini, a meno che non
risulti dannosa per il decoro architettonico dell'edificio.
È quanto emerge dalla sentenza 10/2015, pubblicata dalla
prima sezione del Tar Marche.
Niente da fare per la famiglia che abita sulla verticale
della pizzeria: dovrà rassegnarsi a convivere con gli
effluvi che provengono dal basso. E ciò al di là del caso
specifico rappresentato dal locale pubblico: la struttura
per lo smaltimento dei fumi deve infatti essere considerata
un volume tecnico che è necessario per l'utilizzo di
impianti termici, i quali sono indispensabili negli edifici
moderni. Un problema si potrebbe porre per strutture di
grandi dimensioni, ma non è il caso di specie, laddove
risulta innestato un tubo di piccolo diametro.
La necessità dell'autorizzazione dei condomini risulta
nuovamente esclusa sulla base dell'articolo 1102 c.c., comma
1: «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune,
purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli
altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro
diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le
modificazioni necessarie per il miglior godimento della
cosa». E nel caso specifico è escluso la canna fumaria possa
nuocere alle linee architettoniche del fabbricato. I vicini
pagano le spese di giudizio al titolare della pizzeria.
Ancora.
I vicini non possono bloccare la realizzazione della
canna fumaria lungo la facciata dell'edificio che serve al
ristorante di un loro condomino. A meno che il condotto non
risulti in contrasto con il decoro architettonico del
fabbricato. È così che il comune non può negare
l'autorizzazione alla società che chiede di installare il
condotto da mettere al servizio del locale pubblico
motivando sul mero dissenso espresso dagli altri condomini e
non sull'impatto di natura antiestetica della struttura sul
prospetto del palazzo.
È quanto emerge dalla sentenza
1308/2014, pubblicata a dicembre dalla prima sezione del Tar
Lombardia, sede di Brescia. È accolto in base all'articolo
1102 c.c. il ricorso della società relativamente al locale
che somministra al pubblico alimenti e bevande e ha bisogno
di convogliare i fumi più in alto possibile: deve essere
annullato il provvedimento del dirigente del settore
Attività produttive dell'ente locale.
La regola parla chiaro: ciascun partecipante alla comunione
o il condominio può servirsi della cosa comune, a patto che
non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
E ogni condomino può apportare a sue spese le modificazioni
necessarie per il miglior godimento della cosa. In astratto
l'opera sulle parti comuni può essere realizzata da un
condomino senza il consenso degli altri, a condizione che
non risulti pregiudicata l'armonia delle linee
architettoniche
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016).
---------------
MASSIMA
Considerato in diritto che:
- l’attività di cottura esercitata nell’esercizio concerne,
come dichiarato in ricorso, la preparazione di cibi caldi
per l’attività di ristorazione ivi svolta;
-
la vigente normativa in materia di criteri di realizzazione
e di utilizzo delle canne fumarie attiene alla tutela della
salute e pubblica igiene (cfr. sul principio Cons. Stato n.
1/2015) e quindi è ripartita tra la competenza non esclusiva
dello Stato e quella concorrente delle Regioni;
-
è tuttora vigente il D.M. 05.09.1994 che fissa l’elenco
delle industrie insalubri di prima e seconda classe,
includendo nell’elenco di seconda classe le “friggitorie”;
- la L.r. Lazio n. 21 del 2006, concernente la “disciplina
dello svolgimento delle attività di somministrazione di
alimenti e bevande” demanda, per la sua attuazione, ad
un regolamento regionale (art.7) “le previsioni di
salvaguardia per gli esercizi di somministrazione di
alimenti e bevande, con riferimento alle norme in materia di
destinazione d'uso e ai regolamenti urbanistici ed edilizi,
nell'ambito di contesti urbani di particolare pregio
artistico ed architettonico”; mentre rimette alla
regolamentazione comunale “l'utilizzo, da parte dei
locali in cui si svolge attività di somministrazione di
alimenti e bevande, di più moderni ed ecologicamente idonei
strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei
fumi, di preferenza senza immissione in atmosfera, e per la
diminuzione dell'inquinamento acustico, con particolare
riferimento ai centri storici”;
- l’art. 12 del Reg. Reg. n. 1/2009 dispone che i Comuni,
nell'ambito degli strumenti urbanistici e dei regolamenti
edilizi garantiscono l'equilibrio tra le esigenze di tutela
dei contesti urbani di particolare pregio
artistico-architettonico e quelle di tutela della libera
iniziativa economica e dei diritti acquisiti dagli esercizi
già operanti all'interno dei contesti stessi; ulteriormente
prevedendo che gli esercizi di cui al comma 1 (e cioè quelli
che operano all’interno dei contesti urbani di particolare
pregio artistico-architettonico) “possono utilizzare, in
alternativa alle canne fumarie, altri strumenti o apparati
tecnologici aspiranti e/o filtranti per lo smaltimento dei
fumi, la cui idoneità è accertata secondo la normativa
vigente in materia” implicitamente, dunque, riconoscendo
la possibilità del ricorso all’impiego di sistemi
alternativi (e cioè di “di più moderni ed ecologicamente
idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento
dei fumi”) alla via di fumo tradizionale (id est:
canna fumaria), ma subordinandolo alla circostanza (da
accertarsi, dunque, in concreto) che esso assicuri
un’efficienza di rendimento pari o superiore all’impiego
della canna fumaria: esegesi questa che del resto si impone
anche alla luce dei principi di derivazione comunitaria di
precauzione e prevenzione (sulla conferma di una tale
interpretazione in fattispecie del tutto simile a quella in
trattazione, ved. Cons. St. n. 442 del 2008); e tanto fermo
restando che:
1 -
gli esercizi autorizzati,
in linea di principio,
ad avvalersi di vie di fumo diverse da quelle tradizionali
sono solamente quelli siti in determinati contesti urbani di
particolare pregio
(e si rammenta a tal riguardo che, per le zone di pregio
artistico, storico, architettonico e ambientale sottoposte a
tutela, l'apertura o il trasferimento di sede degli esercizi
di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico,
comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, di cui
alla l. n. 287 del 1991, sono soggetti ad autorizzazione e
non a scia: vedi art. 64 commi 1 e 3 del d.lgs. n. 59/2010
come sostituito dall’art. 2 del d.lgs. n. 147 del 2012); ne
consegue che gli esercizi esterni a tali contesti non
beneficiano di analoga alternativa e sono tenuti,
inevitabilmente, a dotarsi di canne fumarie (e tanto anche a
mente del comma 6 dell’art. 64 citato che subordina l'avvio
e l'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti
e bevande “al rispetto delle norme urbanistiche,
edilizie, igienico-sanitarie e di sicurezza nei luoghi di
lavoro”);
2 -
l’idoneità degli impianti alternativi va accertata in
concreto e secondo la normativa vigente in materia, che
include tanto la normativa comunitaria quanto quella
regolamentare
(posto che la prescrizione in esame si limita a richiamare
la normativa vigente, senza altre specificazioni);
del resto un’interpretazione costituzionalmente orientata
delle predette norme regionali secondo ragionevolezza non
può prescindere nella sua applicazione dal considerare le
locali norme regolamentari, che, secondo i consueti principi
di sussidiarietà e prossimità dei livelli di governo,
assicurano l’effettività di tutela delle concrete esigenze
dello specifico contesto territoriale, così evitando le
conseguenze abnormi di un’applicazione del dato legislativo
uguale per tutte le realtà urbane
(come sarebbe, si immagini, la situazione in cui ci si
troverebbe laddove, applicando acriticamente ed in maniera
generalizzata il principio secondo il quale la canna fumaria
deve sovrastare di una certa distanza il colmo dell’edificio
vicino, si dovesse pretendere un’altezza superiore a quella
anche del più alto grattacielo confinante: cfr., sul
principio, Cons. St. n. 1/2015 cit.; vedi altresì Cons. St.
sez. V, 17.06.2014, n. 3081 ove si afferma che <<ai sensi
dell'art. 272, comma 1, del D.L.vo 03.04.2006 n. 152 e
successive modifiche, la canna fumaria in questione è
considerata scarsamente inquinante, con conseguente suo
assoggettamento ai "piani e programmi di qualità dell'aria
previsti dalla vigente normativa" di fonte locale, ovvero ad
una disciplina di fonte regionale à sensi dell'art. 271,
comma 3, dello stesso T.U. e successive modifiche>>:
disciplina che nella Regione Lazio tuttavia non risulta a
tutt'oggi emanata se non nei termini sopra indicati);
Considerato ancora che:
- a livello regolamentare locale l’art. del 59 Reg. Ed.
dispone quanto ai “Condotti di fumo” che “Ferme
restando le disposizioni contenute nel Regolamento di
igiene, è vietato di far esalare il fumo inferiormente al
tetto o stabilire condotti di fumo con tubi esterni ai muri
prospettanti sul suolo pubblico" (per quanto attiene
alla correlazione tra la disciplina del commercio e quella
urbanistico-edilizia, e tra queste ed il regolamento
igienico-sanitario comunale, cfr. Tar Lazio, Roma, sez
II-ter n. 11129/2015; Cons. St. sez. V, n. 3262/2009; Tar
Campania, Napoli, n. 10058/2008 e n. 556/2010); mentre,
sempre al medesimo livello normativo, l’art. 64 del Reg.
Igiene non impone necessariamente l’utilizzo della canna
fumaria; esso difatti, all’ultimo periodo, dispone che “L'Ufficio
d'Igiene potrà anche prescrivere caso per caso, quando sia
ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei carboni magri o di
apparecchi fumivori”.
Dunque, e fermo restando l’impiego ordinario delle vie di
fumo tradizionali, la disciplina normativa consente anche il
ricorso a vie di fumo alternative che dovranno essere
valutate caso per caso. Tale disciplina è da considerarsi
tuttora vigente in quanto non in contrasto con l’art. 12 del
Reg. reg. 1/2009 che prescrive l’accertamento dell’idoneità
della via di fumo alternativa “secondo la normativa
vigente in materia” (e dunque non pregiudica
l’operatività di detta norma regolamentare).
Né può ritenersi implicitamente abrogato l’art. 64 dall’art.
15 del Reg. reg. citato: e ciò in quanto tale previsione
nulla dispone con riguardo alle conseguenze della mancata
adozione, entro il termine di 90 giorni prescritto, della
normativa regolamentare locale di adeguamento (che può
essere sollecitata da chi vi abbia interesse con il ricorso
ai normali strumenti processuali); va solo meglio chiarito
che un adeguamento si impone allorché la norma locale
pre-esistente sia incompatibile con la superiore previsione
regionale, ma ciò è da escludersi nel caso di specie, non
vietando il locale Regolamento d’Igiene il ricorso a “più
moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati
tecnologici per lo smaltimento dei fumi” ma,
semplicemente, limitandosi ad imporne -a tutela di un
interesse primario quale, come in precedenza rilevato,
quello della salute- il preventivo accertamento); al che
accede la chiara infondatezza delle censure che poggiano
sulla assunta disapplicazione dell’art. 64 del Reg. d’Igiene
nonché sull’interpretazione di tale disposizione così come
dedotto in gravame (nessun dubbio sulla vigenza dell’art. 64
citato è sollevato nella decisione del Cons. St., sez. III,
05/10/2011, n. 5474 laddove si afferma che “la ratio di
tale norma sia quella di evitare che le canne fumarie
provochino immissioni nocive o comunque disturbo a terzi e
pertanto, laddove, come nel caso in esame, per la peculiare
configurazione architettonica a scaloni, lo stabile abbia
due o più piani di copertura di diverso livello, le canne
fumarie debbono innalzarsi oltre l'ultimo piano al fine di
evitare immissioni nocive a terzi”);
- a livello comunitario, vengono in considerazione più
normative tecniche (vedi UNI EN 15251:2008, recante “Criteri
per la progettazione dell’ambiente interno e per la
valutazione della prestazione energetica degli edifici, in
relazione alla qualità dell’aria interna, all’ambiente
termico, all’illuminazione e all’acustica” e applicabile
ad abitazioni individuali, condomini, uffici, scuole,
ospedali, alberghi e ristoranti, impianti sportivi, edifici
ad uso commerciale all’ingrosso e al dettaglio; UNI EN
15239:2008 e UNI EN 15240:2008 entrambe descriventi una
metodologia per l’ispezione degli impianti); e fra queste in
particolare la normativa UNI EN 13779:2008 (Requisiti
prestazionali dei sistemi per l’edilizia non residenziale)
che prevede dettagliate classificazioni di aria
nell’ambiente, in particolare l’aria esterna (ODA) e l’aria
interna (IDA) e che classifica quest’ultima in quattro
categorie collocando all’interno di quella più dannosa per
la salute umana (“aria estratta con altissimo livello di
inquinamento”), l’aria proveniente, fra l’altro, da
cappe aspiranti per uso professionale, piani cottura e
scarichi locali di cucine “in quanto contenente odori ed
impurità dannosi per la salute in concentrazioni
sensibilmente più elevate di quelle permesse per l’aria
interna nelle zone occupate”;
- le predette norme UNI EN, elaborate dal CEN (Comité
Européen de Normalisation) sono preordinate ad
uniformare la normativa tecnica in tutta Europa e devono
ritenersi (non solo regole di buona tecnica ma, altresì)
norme vincolanti in presenza di leggi o di regolamenti di
recepimento (cfr. sul principio, Corte Cost., 18.06.2015,
n.113 nonché Corte Cass., seconda sezione civile, sentenza
15.12.2008, n. 29333; Cons. St. sez. V, 17.06.2014, n. 3081
cit., laddove con riguardo alle modalità di intubamento
della canna fumaria asservita ad una pizzeria con forno a
legna sottolinea la necessità di renderla sicuramente
conforme alla tuttora vigente norma UNI 10683 Ed. marzo 1998
"Generatori di calore a legna. Requisiti di installazione",
nonché l'ulteriore disciplina tecnica susseguentemente
intervenuta);
- la normativa tecnica “UNI EN 13779 Ventilazione degli
edifici non residenziali - Requisiti di prestazione per i
sistemi di ventilazione e di climatizzazione” è
espressamente richiamata nell’all. B. al d.m. 26.06.2009
(vedi altresì, in precedenza, art. 7 dell’abrogata legge n.
46 del 1990 nonché, per quanto riguarda le attività di
installazione degli impianti all'interno degli edifici, il
d.m. n. 38 del 2007, all’art. 5, comma 3, e all’art. 6, c.
1) e quindi trova applicazione nel vigente Ordinamento (con
infondatezza della doglianza che ne esclude la vincolatività);
e preso atto che la norma tecnica che essa indica in tutti i
casi di scarico dell’aria esausta diversa da quella della
cat. EHA 1 (che è nella catalogazione sopra richiamata
quella considerata la meno dannosa per la salute ed è
qualificata come “aria estratta con basso livello di
inquinamento” da ambienti come uffici, classi
scolastiche, scalinate, corridoi ecc) è data dalla seguente
prescrizione: “In tutti gli altri casi lo scarico
dovrebbe essere posto sulla cima del tetto. Come regola,
l’aria esausta è condotta sopra la sezione più alta
dell’edificio e scaricata verso l’alto”;
- in forza di quanto sin qui esposto,
deriva (in tutti i
casi di scarico non collocabili nella predetta cat. EHA 1)
l’obbligo di dotare gli impianti dei locali di cottura
all’interno dei locali di ristorazione di sistemi di scarico
posti sulla cima del tetto ovvero sulla sezione più alta
dell’edificio: vincolo questo che rende inapplicabile alla
fattispecie il disposto dell’art. 19, comma 1, della legge
n. 241 del 1990, a norma del quale sono esclusi dall’ambito
dell’applicazione della segnalazione ivi meglio disciplinata
i casi in cui sussistano (i) “vincoli” ivi
individuati tra i quali quelli imposti dalla normativa
comunitaria;
- conseguentemente, al fine di superare tale vincolo, il
Collegio, rimeditando precedenti orientamenti, ritiene che
non può considerarsi sufficiente la dichiarata idoneità
dell’impianto alternativo a sostituire le vie di fumo
tradizionali, dovendosi esigere l’accertamento –da parte di
professionisti che possiedono le conoscenze
tecnico-scientifiche idonee per effettuare, con i necessari
strumenti, le misurazioni dei fumi e vapori evacuati dalla
via di fumo alternativa utilizzata– che il sistema di
scarico sia, concretamente, di efficienza e funzionalità
tale da garantire (nel tempo e/o anche tramite gli
interventi manutentivi da debitamente documentare e
comprovare) una resa di livello pari o maggiore di quello
assicurato da una via di fumo tradizionale e che tale
accertamento, in sintonia con quanto previsto dall’art. 64
citato
(“L'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per
caso, quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei
carboni magri o di apparecchi fumivori”)
sia condotto nel procedimento amministrativo con le
competenti autorità e concluso prima dell’avvio
dell’attività imprenditoriale;
considerazione cui accede l’infondatezza della generica
doglianza imperniata sul convincimento che la ricorrente
possa considerarsi autorizzata (in forza di Scia sanitaria)
all’utilizzo di via di fumo alternativa (in fattispecie del
tutto assimilabile a quella in trattazione, il Cons. St. con
la citata sent. n. 4428/2008 ha testualmente affermato: “In
altri termini, il tecnico ha dichiarato che le emissioni non
sono nocive o lesive e non limitano i diritti dei terzi, ma
non che l’impianto sia ‘idoneo sotto il peculiare aspetto
della uguaglianza dei suoi effetti di neutralizzazione di
fumi, vapori ed odori di cucina a quelli del sistema
tradizionale. Né tanto è attestato nelle altre relazioni,
che anzi non si basano neppure su prove effettuate in
concreto, bensì su un “plausibile” valore complessivo di
abbattimento delle emissioni”);
Considerato che:
- nel caso di specie, non risulta effettuato detto
accertamento preventivo da parte dell’autorità
amministrativa né rilasciato alcun provvedimento espresso di
autorizzazione ex art. 64 citato all’uso di impianti
alternativi alla canna fumaria, per cui deve escludersi che
possa essersi formato il titolo abilitativo a seguito di
presentazione della Scia c.d. “sanitaria”;
- la praticabilità della Scia (sanitaria) in subiecta
materia neppure potrebbe essere predicata in forza del
regime di liberalizzazione delle attività economiche, tenuto
conto delle espresse deroghe contemplate nella relativa
legislazione a tutela del bene “salute” e della “sicurezza
dei lavoratori”; e difatti dall’esame della normativa
vigente al riguardo si evince che:
a) il d.l. n. 223 del 2006 (c.d. decreto Bersani) laddove, all’art.
3 (Regole di tutela della concorrenza nel settore della
distribuzione commerciale), consente (in applicazione delle
disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di
tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e
dei servizi ed al fine di garantire la libertà di
concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il
corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di
assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed
uniforme di condizioni di accessibilità all'acquisto di
prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi
dell'art. 117, comma secondo, lettere e) ed m), della
Costituzione) che le attività commerciali, come individuate
dal d.lgs. n. 114/1998, e di somministrazione di alimenti e
bevande, siano svolte senza i limiti e prescrizioni ivi
individuati, eccettuate da tali limiti e prescrizioni le
ipotesi che riguardano, fra l’altro, sia l'iscrizione a
registri abilitanti ovvero il possesso di requisiti
professionali soggettivi per l'esercizio di attività
commerciali (ove sono fatti salvi quelli riguardanti il
settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e
delle bevande), che (lett. f-bis) l'ottenimento di
autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei
prodotti di gastronomia presso l'esercizio di vicinato,
utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con
l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e
con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie;
b) il d.l. n. 138 del 2011 all’art. 3 (Abrogazione delle indebite
restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e
delle attività economiche) pur impegnando Comuni, Province,
Regioni e Stato ad adeguare i rispettivi ordinamenti al
principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica
privata, ammette dei limiti alla liberalizzazione delle
attività economiche nei soli casi ivi individuati fra i
quali annovera la presenza di vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e le disposizioni
indispensabili per la protezione della salute umana, la
conservazione delle specie animali e vegetali,
dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;
ulteriormente consentendo la sopravvivenza di quelle
disposizioni normative statali che, in quanto dettate a
tutela e protezione della salute umana (e degli ulteriori
valori sopra richiamati), prevedono regimi autorizzatori
differenti dalla Scia;
c) il d.l. 06.12.2011, n. 201, all’art. 31 (relativo agli esercizi
commerciali), ribadisce il noto principio di
liberalizzazione, ma consente a Regioni ed enti locali la
possibilità di prevedere senza discriminazioni tra gli
operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali,
ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività
produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di
garantire la tutela della salute, dei lavoratori,
dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni
culturali;
d) il d.l. 24.02.2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la
concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività), all’art. 1 (Liberalizzazione delle attività
economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle
imprese) comma 2, dopo aver richiamato il principio della
libertà dell’iniziativa economico privata e l’esigenza che
le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o
condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività
economiche si interpretino in senso tassativo, ha ribadito
che il principio costituzionale di libertà predetto ammette
solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad
evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al
paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili
contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con
il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed
internazionali della Repubblica (ved. sul punto anche sent.
Corte Cost. 23.01.2013, n. 8);
e) in tal senso, la Corte Costituzionale, investita della verifica
di legittimità in ordine alla disposizione di cui all’art.
3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2011, conv. con mod.
dalla legge n. 148 del 2011, ha rilevato (sentenza
20.07.2012, n. 200) che <<il Legislatore ha inteso
stabilire alcuni principi in materia economica orientati
allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all'interno
della cornice delineata dai principi costituzionali. Così,
dopo l'affermazione di principio secondo cui in ambito
economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge», segue l'indicazione che il legislatore
statale o regionale può mantenere forme di regolazione
dell'attività economica volte a garantire, tra l'altro
–oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e
comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali
legati alla tutela della salute, dell'ambiente, del
patrimonio culturale e della finanza pubblica– in
particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della
dignità umana, a presidio dell'utilità sociale di ogni
attività economica, ai sensi l'art. 41 Cost.. La
disposizione impugnata afferma il principio generale della
liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che
eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa
economica debbano trovare puntuale giustificazione in
interessi di rango costituzionale o negli ulteriori
interessi che il legislatore statale ha elencato all'art. 3,
comma 1>>; ulteriormente osservando, con considerazione
che si dimostra pienamente espandibile anche alle previsioni
di cui ai decreti legge n. 201 del 2011 e n. 1 del 2012, che
“il principio della liberalizzazione prelude a una
razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un
lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività
economica che si rivelino inutili o sproporzionati e,
dall'altro, mantenga le normative necessarie a garantire che
le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con
l'utilità sociale” (cfr. anche Corte Cost. n. 8 del 2013
citata);
f) quale logico corollario, va esclusa la presenza di profili di
inconciliabilità della regolamentazione comunale all’esame
rispetto al quadro normativo di rango primario sopra
declinato; e va –ancora una volta– ribadita la piena
esercitabilità di un potere di regolamentazione, in ragione
della tutela degli interessi precedentemente illustrati,
delle caratteristiche e/o modalità da osservare
nell’esercizio delle attività di cottura funzionale alla
somministrazione di alimenti e bevande “nell’ambito di
contesti urbani di particolare pregio artistico ed
architettonico”;
Rilevato che:
- anche in un settore (pur parallelo, ma) diverso da quello
degli impianti di scarico utilizzati dagli esercizi di
ristorazione, la normativa più recente (Legge n. 90 del
2013, entrata in vigore il 04.08.2013) ha stabilito nuove
disposizioni riguardanti l'evacuazione dei prodotti della
combustione degli impianti termici.
In particolare, l'art. 17-bis "Requisiti degli impianti
termici", al comma 9 e ss., privilegia espressamente il
ricorso alle canne fumarie stabilendo ammettendo lo scarico
a parete solo in tre casi specifici (sostituzione
dell'impianto con uno già esistente prima del 01.09.2013 che
scaricava a parete o era allacciato a canna collettiva
ramificata; se lo scarico a tetto risulta incompatibile con
norme di tutela degli edifici; se si dimostra, con
un'asseverazione del progettista, che è impossibile
tecnicamente realizzare uno sbocco a tetto) ed a condizione
che gli impianti siano di classe 4 e 5 stelle nel rispetto
delle norme UNI EN 297, UNI EN 483 e UNI EN 15502 e delle
prescrizioni della UNI 7129:2008;
- pertanto, il potere di controllo esercitato nella
circostanza dall’intimata Amministrazione trova titolo nello
svolgimento di una attività economica (somministrazione
alimenti: cottura cibi) in assenza di requisiti oggettivi,
ovvero di canna fumaria, ed in carenza di autorizzazione
all’uso di impianto alternativo che asseveri l’idoneità
dell’impianto medesimo sotto il profilo della sua “equipollenza”
alla via di fumo tradizionale;
Considerato ancora che la più accreditata
giurisprudenza, allorquando ha affrontato la tematica in
argomento, non ha mai dubitato della legittimità delle norme
e dei conseguenti provvedimenti amministrativi che
imponevano l’impiego di canne fumarie
(cfr. Cons. St. sez. V, 17.06.2014, n. 3081 che ha ritenuto
legittima l’ordinanza, adottata ai sensi
degli artt. 50 e 54 del D.L.vo 18.08.2000, n. 267, che
prescriveva "di sospendere l'utilizzo del forno a legna
fino a quando non sia provveduto all'esecuzione delle opere
necessarie alla risoluzione dell'inconveniente, quali una
accurata pulizia della canna fumaria e l'eventuale
installazione di dispositivi atti a trattenere le particelle
di fuliggine, nonché una periodica manutenzione della stessa”;
Cons. Stato n. 304 del 2013: che ha ritenuto
legittima la
prescrizione del regolamento locale di Igiene impositiva
dell’utilizzo di canna fumaria anche nel caso di impiego di
forni elettrici; Cons. Stato, sez. III, 05.10.2011, n. 5474
che ha ritenuto legittima, in applicazione dell’art. 64 del
Reg. Igiene del comune di Roma, la prescrizione che le canne
fumarie debbono innalzarsi oltre l'ultimo piano al fine di
evitare immissioni nocive a terzi; Cons. Stato n. 4428 del
2008, che riguarda fattispecie ampiamente assimilabile a
quella qui in trattazione, in cui l’esercente si era avvalso
di un (contestato) sistema di scarico alternativo alla canna
fumaria, ha dato risalto alle carenze della relazione
peritale evidenziando che il tecnico si è limitato ad
attestare ad attestare che <<dalle rilevazioni effettuate
emerge il ridottissimo impatto delle emissioni sull’ambiente
esterno che non solo non mostrano caratteristiche di
nocività, ma anche non possono essere ritenute lesive della
qualità ambientale e/o limitative dei diritti dei terzi. In
altri termini, il tecnico ha dichiarato che le emissioni non
sono nocive o lesive e non limitano i diritti dei terzi, ma
non che l’impianto sia “idoneo sotto il peculiare aspetto
della uguaglianza dei suoi effetti di neutralizzazione di
fumi, vapori ed odori di cucina a quelli del sistema
tradizionale. Né tanto è attestato nelle altre relazioni,
che anzi non si basano neppure su prove effettuate in
concreto, bensì su un “plausibile” valore complessivo di
abbattimento delle emissioni>>. Ancora il Supremo
Consesso ha precisato che è “evidente che la norma
regolamentare imponga al privato una siffatta dimostrazione,
e non all’Amministrazione di comprovare il contrario”);
Ritenuto, pertanto, che le censure in premessa sintetizzate
non sono meritevoli di accoglimento alla luce delle
considerazioni ed argomentazioni sopra declinate, ad
eccezione del solo profilo di doglianza incentrato sulla
violazione dell’art. 64 del Reg. d’Igiene il quale, come
dianzi evidenziato, ammette la possibilità del ricorso a vie
di fumo alternative “quando sia necessario” e previo
accertamento da condurre “caso per caso”; possibilità
invece negata dalla resistente amministrazione laddove (non
si limita solo a riscontrare l’assenza di canna fumaria a
servizio dell’esercizio della ricorrente, ma) conclude
precisando che “L’utilizzo di impianti alternativi,
pertanto, non risulta, allo stato attuale, legittimato da
alcuna fonte normativa”;
Considerato, peraltro, di precisare, ex art. 34, c.p.a., che
all’accoglimento del ricorso non consegue che alla società
ricorrente può ritenersi automaticamente consentito l’avvio
o l’esercizio di attività di cottura in locali sprovvisti di
canna fumaria richiesta dall’art. 64 del locale Regolamento
d’Igiene, dal momento che,
come sopra articolatamente argomentato, sia l’art. 9, c. 2,
del Reg. Reg. n. 1 del 2009 che l’art. 64 citato non ostano
all’esercizio di un’attività di cottura dotata di via di
fumo alternativa a quella tradizionale, ma solo a condizione
che tale impianto alternativo (non solo rispetti le nome
tecniche di costruzione richieste, ma) sia rispetto a quello
tradizionale dotato di maggiore o pari efficienza,
condizione questa che va documentata dalla società
attraverso una produzione peritale redatta da professionista
dotato delle conoscenze scientifiche e degli strumenti
necessari per le misurazioni richieste ai fini della prova
del citato rapporto di equivalenza/equipollenza e che va
sottoposta (anche a mente dell’art. 64 citato) alla
valutazione delle competenti autorità che dovranno
determinarsi espressamente o rendere il proprio parere nella
sede procedimentale prevista, ulteriormente precisandosi che
l’opposta evenienza espone la società alle misure inibitorie
che l’Amministrazione potrà adottare in quanto l’esercente
risulta sprovvisto sia di canna fumaria che di via di fumo
alternativa debitamente e previamente autorizzata;
Considerato, conclusivamente, che il ricorso va accolto nei
termini sopra indicati;
quanto alla domanda di risarcimento dei danni la stessa non
può essere accolta in quanto genericamente formulata:
difetta una effettiva prospettazione del danno emergente
sicché, per tale capo, la domanda va respinta per difetto di
argomentazione e prova non essendo utilizzabile il potere
del giudice di far luogo a criteri equitativi per colmare
carenze imputabili alla parte. |
EDILIZIA PRIVATA: Trasferimento delle volumetrie per chi riqualifica.
Consiglio di Stato. Immobili residenziali.
È vietata la
demolizione di volumetrie con trasferimento del titolo
edilizio in una zona distante e con una destinazione d’uso
diversa da quella originaria degradata se l’intervento non
comporta in alcun modo la riqualificazione dell’area da
demolire oltre a quella nello spazio urbano.
A chiarirlo è il Consiglio di Stato -sentenza
11.07.2016 n. 3071 - Sez. IV– che ha respinto così
l’appello di un privato al quale un Comune aveva negato il
permesso di costruire tre fabbricati a uso residenziale in
un’area urbana utilizzando quasi la stessa volumetria di un
proprio capannone industriale dismesso in una zona
extraurbana.
Il ricorrente, al contrario della Pa, sosteneva
che le norme del decreto Sviluppo che incentivano queste
operazioni (o Piano città - comma 9, articolo 5, Dl 70/2011,
poi legge 106/2011) vietano solo le opere su edifici
abusivi, nei centri storici o nelle aree di inedificabilità
assoluta (escluse le sanatorie), e che la «compatibilità»
richiesta va riferita non agli edifici ma alle aree, e che
il capannone era solo formalmente in un’«area extraurbana a
disciplina pregressa», poiché di fatto urbanizzata (meno di
1 km da un borgo) ed equiparata a zona “D” per impianti
industriali o assimilati (Dm 1444/1968).
I giudici hanno spiegato che in questi casi il tema della
compatibilità o della «complementarietà» della destinazione
d’uso non riguarda la zona, ma in senso stretto le tipologie
degli edifici, per cui «altro sarebbe se si trattasse di
edificio da demolire a destinazione terziaria e direzionale,
complementare se non addirittura compatibile con una
destinazione di tipo residenziale, altro è un edificio a
destinazione dichiaratamente industriale».
Gli invocati altri casi in cui palazzo Spada ha “approvato”
simili delocalizzazioni (sentenza 3180/2015) riguardavano
interventi differenti –volumetrie di ambito extraurbano su
aree a standard– e soprattutto non privi, come in questo
caso, di un certificato di destinazione urbanistica che
inquadrava l’area originaria nello spazio urbano.
Il collegio, confermando le tesi di primo grado (Tar Potenza
366/2013) secondo cui queste modifiche, in base alla citata
disciplina sulle costruzioni private, devono essere
compatibili «tra loro» e non semplicemente con la
destinazione d’uso della “nuova” zona, ha precisato che in
questo caso il ricorrente proponeva in realtà una «mera
edificazione nuova in un contesto urbano che non risulta
degradato», mentre una tale demolizione è autorizzabile
«solo se ricorre lo scopo alternativo di “razionalizzazione
del patrimonio edilizio” o “riqualificazione dell’area
urbana degradata”», posto che lo scopo di quest’ultima «deve
riferirsi…(almeno) anche all’area di localizzazione della
volumetria da trasferire».
In questo caso il Comune aveva ritenuto la riqualificazione
dell’area del capannone (da bonificare per elementi in
amianto) un recupero a verde «a esclusivo beneficio
dell’interessato, in quanto distante e avulsa dal contesto
cittadino» -sedime trasformato in piazzale di stoccaggio di
materiali di costruzione-, in più non aveva concesso il
“via libera” poiché, nel dettaglio, era lo stesso Piano casa
regionale a vietare cambi di destinazione d’uso a
residenziale per edifici in zone “D”, consorzi industriali o
piani d’insediamento produttivo (articolo Il Sole 24 Ore del
02.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Si può vincere l'appalto senza gli oneri di
sicurezza.
Confermata la vittoria dell'appalto per le imprese che pure
non hanno indicato gli oneri di sicurezza aziendale
nell'offerta. Possibile? Sì, se la gara è strutturata con un
accordo quadro che regola i successivi interventi da
realizzare con un importo massimo prefissato per ogni lotto.
E ciò perché si tratta di lavori di manutenzione da
effettuare in immobili pubblici che ancora non si conoscono
con esattezza: l'obbligo di puntuale indicazione, dunque,
resta escluso in capo alle società partecipanti, che possono
limitarsi a offrire una percentuale di ribasso rispetto al
prezziario approvato dalla regione.
È quanto emerge dalla
sentenza
28.06.2016 n. 7477,
pubblicata dalla II-ter Sez. del TAR Lazio-Roma.
Due componenti.
L'impresa tagliata fuori da un lotto importante di opere non
riesce a far annullare l'aggiudicazione ai rivali. Gli oneri
di sicurezza costituiscono una percentuale del prezzo
dell'appalto che è riconducibile alle spese generali. E gli
oneri a carico delle imprese hanno una componente gestionale
e un'altra operativa: nella prima rientrano ad esempio le
spese mediche e la formazione, nella secondo le misure di
prevenzione legate a uno specifico appalto, dalle
impalcature alle tettoie.
L'accordo quadro, poi, si pone
come un contratto normativo che disciplina i successivi
interventi di manutenzione negli immobili da affidare di
volta in volta. La stazione appaltante, dunque, non può
calcolare da prima i costi di sicurezza da rischi di
interferenza nel cantiere fra le varie società. Ma anche le
imprese non possono prevedere gli esborsi, almeno per la
componente operativa.
Stima impossibile, È questa, in effetti, la peculiarità del
manutentore unico, un sistema che si fonda sulla stipula di
un accordo quadro per un determinato ambito di territorio,
il quale consente poi di affidare i futuri interventi sulla
base di singoli contratti attuativi; un sistema, spiega la
stazione appaltante, che è stato approvato anche dall'Anac-Avcp:
un parere dell'autorità conferma che in tali casi non
risulta possibile una stima degli oneri di sicurezza.
D'altronde lo stesso capitolato d'appalto «incriminato»
non prevede in modo esplicito l'onere di specificare in
anticipo gli esborsi per la sicurezza aziendale. Spese di
giudizio compensate per la novità e la complessità della
questione
(articolo ItaliaOggi del 15.09.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato e pertanto deve essere
respinto alla luce delle considerazioni di seguito
riportate, cosicché è possibile non esaminare le eccezioni
di rito sollevate dalle società controinteressate.
1.1. Preliminarmente il Collegio rileva che l’Adunanza
Plenaria nella sentenza n. 3 del 2015, condividendo sul
punto l’ordinanza di rimessione, menziona
due tipologie di
costi per la sicurezza:
- quelli da interferenze, contemplati dagli articoli 26,
commi 3, 3-ter e 5, del d.lgs. 09.04.2008, n. 81 (Attuazione
dell'articolo 1 della legge 03.08.2007, n. 123, in materia
di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di
lavoro) e 86, comma 3-ter, 87, comma 4, e 131 del Codice dei
contratti pubblici, che:
a) servono a eliminare i rischi da interferenza, intesa come
contatto rischioso tra il personale del committente e quello
dell’appaltatore, oppure tra il personale di imprese diverse
che operano nella stessa sede aziendale con contratti
differenti;
b) sono quantificati a monte dalla stazione appaltante, nel D.U.V.R.I (documento unico per la valutazione dei rischi da
interferenze, art. 26 del d.lgs. n. 81 del 2008) e, per gli
appalti di lavori, nel P.S.C. (piano di sicurezza e
coordinamento, art. 100 D.Lgs. n. 81/2008);
c) non sono soggetti a ribasso, perché ontologicamente diversi
dalle prestazioni stricto sensu oggetto di
affidamento;
- quelli interni o aziendali, cui si riferiscono l’art. 26,
comma 3, quinto periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 e gli
artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, secondo periodo, del
Codice dei contratti pubblici, che:
a) sono quelli propri di ciascuna impresa connessi alla
realizzazione dello specifico appalto, sostanzialmente
contemplati dal D.V.R., documento di valutazione dei rischi;
b) sono soggetti a un duplice
obbligo in capo all’amministrazione e all’impresa
concorrente.
Gli oneri di sicurezza aziendali costituiscono una
percentuale del prezzo dell’appalto, riconducibile alle “spese
generali”.
Va dunque rilevato che i costi interni o aziendali hanno una
componente c.d. “gestionale”, comprendente i costi
annuali che l’operatore economico sostiene per l’esercizio
della sua impresa (spese mediche, formazione, ecc.) e una
componente c.d. “operativa”, comprendente tutte le
misure di prevenzione per la gestione dei rischi connesse
allo specifico appalto (spese di adeguamento del cantiere,
spese relative agli impianti, alla gestione dei rifiuti di
cantiere, cartellonistica, impalcature, tettoie, utenze,
ecc.).
Tale distinzione (tra una componente gestionale e una
operativa) è presente anche nel Prezziario della Regione
Lazio, rispetto al quale le offerte di cui alla gara in
esame sono state formulate e che, come si è detto,
ricomprende per ciascuna voce anche la percentuale relativa
alle spese generali, comprensiva a sua volta degli oneri di
sicurezza aziendali.
Il Prezziario della Regione Lazio prevede infatti la
seguente classificazione degli costi relativi alla
sicurezza:
“- costi della sicurezza connessi alla specificità di
ogni singolo cantiere, che derivano dalla stima dei costi e
delle misure preventive e protettive finalizzate alla
sicurezza e salute dei lavoratori effettuata nel Piano di
Sicurezza e Coordinamento (PSC) ai sensi dell'art. 100 del
D.Lgs. 81/2008 e secondo le indicazioni dell'allegato XV
specifico, in particolare al punto 4. Tali costi sono
elencati nel capitolo “S” della presente Tariffa;
- oneri della sicurezza afferenti all'esercizio
dell'attività svolta da ciascuna impresa (rischi specifici
propri dell'appaltatore), strumentali all'esecuzione in
sicurezza delle singole lavorazioni e non riconducibili ai
costi stimati previsti al punto 4 dell'allegato XV del
D.Lgs. 81/2008 (quali D.P.I., sorveglianza sanitaria,
formazione dei lavoratori ecc.) contenuti nella quota
percentuale prevista nel regolamento attuativo dei contratti
pubblici, ossia quali quota - parte delle spese generali
(art. 32 del D.P.R. 207/2010).”
La citata pronuncia dell’Ad. Plenaria n. 3 del 2015 ha
specificato che solo per i costi di interferenza “la
stazione appaltante è tenuta ad effettuare una stima e ad
indicarli nei bandi di gara, procedendo ad una loro
quantificazione sulla base delle misure individuate nei
documenti di progetto (PSC o analisi della Stazione
appaltante quando il PSC non sia previsto). Tale stima dovrà
essere congrua, analitica, per singole voci, riferita
all’apposito capitolo della Tariffa o nel caso di specifiche
voci non presenti nella Tariffa o non perfettamente
rispondenti in termini prestazionali alle specifiche
necessità, si farà riferimento ad elenchi prezzi standard o
specializzati o ad analisi desunte da ricerche di mercato
(come previsto nell'Allegato XV del D.Lgs. 81/2008).
Questi costi devono essere tenuti distinti dall'importo
soggetto a ribasso d'asta in quanto rappresentano la quota
da non assoggettare a ribasso, ai sensi dell'art. 131, comma
3, del d.lgs. n. 163/2006. Non sono inoltre soggetti ad
alcuna verifica di congruità essendo stati quantificati e
valutati a monte dalla stazione appaltante e, pertanto,
congrui per definizione.”
Sicuramente i costi aziendali da interferenza possono essere
stimati solo in relazione allo specifico appalto cui si
riferiscono, mediante la redazione di specifici P.S.C.,
quando si tratta di appalti di lavori, o nel D.U.V.R.I.
Ed infatti, in base a quanto previsto dall’Allegato XV –
Contenuti minimi dei piani di sicurezza nei cantieri
temporanei o mobili – punto 4, recante: “stima dei costi
della sicurezza”, si prevede che: “4.1.1. Ove é
prevista la redazione del PSC ai sensi del Titolo IV, Capo
I, del presente decreto, nei costi della sicurezza vanno
stimati, per tutta la durata delle lavorazioni previste nel
cantiere, i costi:
a) degli apprestamenti previsti nel PSC;
b) delle misure preventive e protettive e dei dispositivi di
protezione individuale eventualmente previsti nel PSC per
lavorazioni interferenti;
c) degli impianti di terra e di protezione contro le
scariche atmosferiche, degli impianti antincendio, degli
impianti di evacuazione fumi;
d) dei mezzi e servizi di protezione collettiva;
e) delle procedure contenute nel PSC e previste per
specifici motivi di sicurezza;
f) degli eventuali interventi finalizzati alla sicurezza e
richiesti per lo sfasamento spaziale o temporale delle
lavorazioni interferenti;
g) delle misure di coordinamento relative all’uso comune di
apprestamenti, attrezzature, infrastrutture, mezzi e servizi
di protezione collettiva.”
Lo stesso articolo, al punto 4.3. precisa inoltre che “Le
singole voci dei costi della sicurezza vanno calcolate
considerando il loro costo di utilizzo per il cantiere
interessato che comprende, quando applicabile, la posa in
opera ed il successivo smontaggio, l’eventuale manutenzione
e l’ammortamento.”
Appare chiaro dunque sia i costi per la sicurezza da
interferenza (non soggetti a ribasso) che quelli aziendali,
quanto meno per la componente c.d. operativa, possono essere
specificamente individuati solo in relazione allo specifico
singolo intervento da eseguire.
Correttamente, pertanto, la stazione appaltante ha previsto
all’art. A.3. del Capitolato, che “i costi della
sicurezza e quelli della manodopera, non soggetti a ribasso,
saranno valutati e computati nel dettaglio per ogni singolo
contratto, e comunque già compresi nell’importo massimo già
stimato”.
Ad avviso del Collegio, tale articolo del Capitolato si
riferisce in primo luogo ai costi di sicurezza da
interferenza, in quanto sarà solo con la redazione dei
successivi PSC (o altri analoghi strumenti), in relazione
agli specifici interventi manutentivi da realizzare, che
detti costi potranno essere individuati in concreto.
La necessità che i costi di sicurezza siano identificati
successivamente dalla stazione appaltante fa sì che il
Disciplinare, al punto B1) sull’offerta economica, preveda
che “Ai fini della quantificazione dell’importo dei
singoli contratti attuativi, si precisa che il ribasso
offerto verrà applicato sul prezziario e sarà determinato al
netto degli importi per oneri della sicurezza e per spese
relative al costo del personale, entrambi non soggetti al
ribasso.”
Tuttavia, la peculiare configurazione dell’Accordo quadro
-il quale è strutturato come un contratto normativo volto a
regolare successivi e non previamente individuati interventi
di manutenzione ordinaria e straordinaria, per un importo
massimo prefissato per ciascun lotto, rimettendo ad una fase
successiva l’individuazione dei singoli interventi da porre
in essere in concreto- fa sì che l’offerta debba essere
quantificata mediante l’indicazione di un ribasso
percentuale, calcolata, come già rilevato sul prezziario
della Regione Lazio.
In questo quadro, dunque, deve concludersi che: così come
non è possibile per la stazione appaltante determinare ex
ante, ovvero prima della individuazione del singolo
intervento manutentivo da eseguire, i costi di sicurezza da
interferenza così, quanto meno per quanto attiene alla
componente c.d. operativa, una tale possibilità deve dirsi
oggettivamente esclusa anche per i costi di sicurezza
aziendale, non potendosi effettuare alcuna stima precisa di
detti costi senza conoscere l’esatta natura dell’appalto da
eseguire, ferma restando però l’indicazione, mediante al
rinvio delle singole voci del Prezziario, della percentuale
di oneri aziendali ricompresa nel novero delle spese
generali.
Ed infatti, nessuna norma del Capitolato prevede un tale
onere di specificazione a carico dei partecipanti,
limitandosi il Disciplinare a chiedere che l’offerta sia
formulata in termini di un unico ribasso.
Deve pertanto ritenersi che non sussista, nel caso di
specie, un espresso onere di specificazione anticipata degli
oneri di sicurezza aziendale dettato dal Capitolato per le
imprese concorrenti.
Né può ritenersi tale obbligo integrato ex lege sulla
scorta delle pronunce dell’Adunanza Plenaria nn. 3 e 9 del
2015, le quali non si occupano di Accordi quadro ma di
specifici appalti di lavori.
Infatti, le stesse Adunanze plenarie nn. 3 e 9 del 2015
espressamente legano l’obbligo di specifica indicazione dei
costi di sicurezza aziendali in capo alle aziende
partecipanti alla gara alla conoscenza dello specifico
appalto da realizzare, in quanto gli oneri aziendali sono
definiti appunto come “propri di ciascuna impresa
connessi alla realizzazione dello specifico appalto,
sostanzialmente contemplati dal D.V.R., documento di
valutazione dei rischi”. Peraltro, nell’impianto logico
delle pronunce dell’Ad. Plenaria sopra citate,
l’espressa
indicazione degli oneri di sicurezza aziendali si lega
inscindibilmente alla indicazione, da parte della stazione
appaltante, dei costi di sicurezza non ribassabili, essendo
entrambi da individuare con riferimento alle specificità del
singolo appalto e dunque solo nella fase successiva della
stipula dei contratti attuativi.
Deve pertanto dedursi che anche secondo il dettato delle
pronunce dell’Ad. Plenaria nn. 3 e 9 del 2015,
l’obbligo di
specifica indicazione dei costi di sicurezza aziendale sia
da circoscriversi alle ipotesi in cui sia possibile
individuare uno specifico appalto da realizzare e non si
applichi dunque anche ai casi di stipula di Accordi quadro,
il cui contenuto è destinato ad essere di volta in volta
integrato al momento dell’affidamento del singolo contratto
attuativo.
Va poi comunque ribadito che una indicazione in termini
percentuali (sia pure indiretta) dei costi aziendali interni
si ha, come detto, in ogni caso, mediante il rinvio alle
voci del Prezziario regionale. Infatti il ribasso offerto
riguardi anche le voci ricomprese nel Prezziario e
riferibili ai costi di sicurezza aziendali, compresi nelle
spese generali.
Peraltro, una anticipata indicazione degli oneri di
sicurezza interni al momento della presentazione
dell’offerta, da effettuarsi ovviamente in termini
assolutamente presuntivi, come sostenuto dalla stessa
ricorrente nella memoria difensiva, non sarebbe comunque di
utilità a fronte della mancata previsione dei costi da
interferenza e del PSC, cosicché comunque non sarebbe
possibile valutarne la congruità. Si tratterebbe dunque solo
di assolvimento di un obbligo meramente formale, privo di
utilità ai fini di una valutazione di congruità e
attendibilità dell’offerta.
Viceversa, le pronunce dell’Ad. Plenaria del 2015
sembrano
porre l’obbligo di espressa dichiarazione degli oneri di
sicurezza aziendale, proprio in vista di una loro
valutazione di congruità alla luce dei costi da
interferenza.
Si riporta a tal fine il seguente passaggio tratto dalla Ad.
Plen. n. 3 del 2015: “Per ciò che concerne la stazione
appaltante, gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del
Codice si riferiscono necessariamente agli oneri di
sicurezza aziendali, poiché considerano eventuali anomalie
delle offerte e giudizi di congruità incompatibili con i
costi di sicurezza da interferenze, fissi e non soggetti a
ribasso. Ne deriva che per tali oneri la valutazione che si
impone all’amministrazione non è la relativa
predeterminazione rigida ma il dovere di stimarne
l’incidenza, secondo criteri di ragionevolezza e di
attendibilità generale, nella determinazione di quantità e
valori su cui calcolare l’importo complessivo dell’appalto.”
Naturalmente, al momento dell’affidamento del singolo
intervento di manutenzione, mediante la stipula del
contratto attuativo, dovranno essere espressamente indicati
sia i costi di sicurezza da interferenza (da parte
dell’appaltatore) che gli oneri di sicurezza aziendale, da
parte delle imprese aggiudicatarie dell’Accordo quadro,
fermo restando che l’importo indicato in quella sede dovrà
essere congruo e comunque senza che in questo modo si possa
superare l’importo massimo stimato, per ciascun lotto, nel
Capitolato.
In sostanza,
può dirsi, che data la peculiare natura
dell’Accordo quadro sopra illustrata, l’obbligo di espressa
indicazione degli oneri di sicurezza aziendali c.d. interni
può essere imposto solo una volta conosciuta l’esatta natura
dell’intervento da realizzare, unitamente alla
individuazione degli oneri da interferenza (in tal senso,
cfr. Tar Campania, I, ord. n. 332/2016; Tar Emilia Romagna,
Bologna, sez. I, sent. n. 246/2016).
Peraltro, ciò non significa che tali oneri
non siano presi in considerazione dalle imprese nella
presentazione della loro offerta, essendo essi compresi in
una quota percentuale delle spese generali computata nel
prezziario regionale, ma solo che l’esatta individuazione di
essi debba essere posticipata al momento dell’affidamento
del singolo contatto attuativo. |
PATRIMONIO - VARI:
Contratto di locazione: o registrato o niente.
Il contratto di locazione, anche se già stipulato e firmato
tra le parti, non è valido almeno fino a quando non viene
registrato presso l'Agenzia delle entrate, che concede ai
contribuenti i classici trenta giorni per validarlo anche, e
principalmente, dal lato civilistico.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Milano che, con la
sentenza 15.06.2016 n. 6782, particolarmente, esclude
anche una sua convalida una volta che siano trascorsi i
fatidici trenta giorni.
Dunque, ai fini fiscali, secondo la decisione del Tribunale,
neppure il ricorso alla procedura del ravvedimento operoso è
suscettibile di validare, ai fini civilistici, il contratto
di locazione registrato oltre i 30 giorni consentiti dal
momento della stipula tra le parti (locatore/conduttore).
Sono, invece, validi i contratti stipulati tra le parti
prima dell'entrata in vigore della legge 208/2015 (legge di
Stabilità 2016). Occorre, però, che la registrazione sia
avvenuta antecedentemente alla «proposizione della domanda
giudiziale».
Peraltro, la nuova disciplina, che è in vigore dal 01.01.2016, non rischia censure di natura costituzionale.
La questione non è stata, quindi, rimessa alla Consulta,
come era stato, invece, richiesto nel caso di specie.
Il legislatore, prima con la legge 80/2014 e poi con la
legge 208/2015 che hanno inciso notevolmente sulla
disciplina in materia (art. 13, legge 431/1998), ha inteso «scudare»
i contratti di locazione facendo emergere le c.d. locazioni
in nero.
Il tribunale milanese osserva che il negozio giuridico
(contratto di locazione stipulato tra le parti) non è valido
fin dall'origine. Per cui neppure può parlarsi di atto
valido ed efficace dal momento della sua stipula che poi
diverrebbe nullo dopo la scadenza del termine dei trenta
giorni se non registrato ai fini fiscali.
Si tratta di una sorte di sanzione (invalidità già dalla
stipula che si sana con la registrazione nei 30 giorni) che,
precisa il tribunale, il legislatore ha voluto introdurre
nel contesto prima giuridico (artt. 1418 e seguenti c.c.) e
riflesso in quello fiscale.
Viene così ed essere esclusa la successiva convalida del
contratto locativo «abusivo» (art. 1423 c.c.) a causa
del tardivo adempimento fiscale
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima
ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto
la sanzione demolitoria ha natura di diffida e presuppone
solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso
commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura
discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria (disciplinato dagli artt. 33 e 34, comma 2, DPR
n. 380/2001 con riferimento alle ristrutturazioni edilizie
abusive o in totale difformità ed agli interventi eseguiti
in parziale difformità dal permesso di costruire) deve
essere verificato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l’organo competente deve emanare l’ordine
di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in
assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o
delle opere edili costruite in parziale difformità dal
permesso di costruire.
---------------
Comunque, al riguardo, pur tenendo conto della perizia,
redatta il 26.10.2015 dagli ingegneri Fr.Na. e Fr.Ru., va
rilevato che secondo il prevalente orientamento
giurisprudenziale (cfr. C.d.S. Sez. V Sentenza n. 1650
dell’08.04.2014; TAR Napoli Sez. IV Sentenze n. 5927 del
23.12.2015, n. 3533 del 02.07.2015, n. 3120 del 09.06.2015 e
n. 4703 del 26.10.2001; TAR Napoli Sez. VI Sentenze n. 5153
del 05.11.2015 e n. 2184 del 16.04.2015; TAR Napoli Sez.
VIII Sentenze n. 1087 del 20.02.2014 e n. 884 del
07.02.2014; TAR Lazio Sez. I-ter Sentenza n. 4454 del
23.03.2015, Sez. I-quater Sentenze n. 12719 del 15.12.2014,
n. 9525 del 09.09.2014 e n. 3106 del 04.04.2012; TAR Bologna
Sez. I Sentenza n. 1065 del 03.12.2015; TAR Molise Sentenza
n. 455 del 04.12.2015; TAR Piemonte Sez. II Sentenza n. 154
del 27.03.2014; TAR Pescara Sentenza n. 28 del 23.01.2013;
TAR Toscana Sez. III Sentenza n. 853 del 02.05.2012; TAR
Milano Sez. II Sentenza n. 3210 del 16.12.2011; TAR Lecce
Sez. III Sentenza n. 1143 del 24.06.2011; TAR Palermo Sez.
III Sentenza n. 1073 dell’08.06.2011; TAR Catania Sez. I
Sentenza n. 4611 del 03.12.2010; TAR Marche Sentenze n. 835
del 16.07.2008 e n. 259 del 29.04.2002), condiviso anche da
questo Tribunale (cfr. TAR Basilicata Sentenze n. 173 del
03.03.2016, n. 329 del 06.06.20013, n. 538 del 04.12.2012,
n. 159 del 06.04.2011, n. 36 del 04.02.2010, n. 921 del
29.11.2008, n. 713 del 07.12.2007, n. 266 del 04.10.2007 e
n. 779 del 14.09.2005), l’ingiunzione di demolizione
costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento
repressivo, in quanto la sanzione demolitoria ha natura di
diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dagli artt. 33 e 34, comma 2, DPR n. 380/2001 con
riferimento alle ristrutturazioni edilizie abusive o in
totale difformità ed agli interventi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire) deve essere verificato
soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto
privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l’organo competente deve emanare l’ordine di esecuzione in
danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dal permesso di
costruire
(TAR Basilicata,
sentenza 01.06.2016 n. 586 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
In materia di appalto di opere pubbliche sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e),
n. 1), c.p.a., le sole controversie relative alle
procedure di affidamento dei lavori -procedure che si
concludono appunto con l'aggiudicazione- mentre per le
controversie che traggono origine dall'esecuzione del
contratto non v'è alcuna deroga alla giurisdizione del
giudice ordinario, riprendendo vigore il criterio generale
di riparto basato sulla consistenza della posizione
giuridica soggettiva dedotta in giudizio, la quale, con
riferimento ai rimborsi conseguenti alla consegna (id est
esecuzione) anticipata dei lavori, è indubbiamente di
diritto soggettivo, come del resto espressamente previsto
dall'art. 11, comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006, cit. (ora
art. 32, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50).
---------------
CONSIDERATO
- che il Consorzio Tr.Ro. s.c. a r.l. ottenne, il
09.02.2007, dal Comune di Vico Equense l'aggiudicazione
dell'appalto dei lavori di sistemazione di una zona del
centro storico interessata da un crollo, cui segui la
consegna dei lavori in via di urgenza;
- che, a seguito della revoca dell'aggiudicazione in sede di
autotutela da parte del Comune, il Consorzio convenne
quest'ultimo davanti al Tribunale di Torre Annunziata,
Sezione distaccata di Sorrento, chiedendo il pagamento di €
157.427,11 per le opere eseguite, i materiali utilizzati e
le spese sostenute per effetto della consegna dei lavori in
via di urgenza, ai sensi dell'art. 11, comma 9, d.lgs.
12.04.2006, n. 163;
- che con sentenza 03.12.2012, n. 342 il Tribunale dichiarò
il proprio difetto di giurisdizione in favore dei giudice
amministrativo;
- che il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania,
adito in riassunzione dal Consorzio, ha sollevato conflitto
negativo di giurisdizione ritenendo che la controversia
rientri invece nella giurisdizione del giudice ordinario,
poiché in materia di appalti pubblici la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo riguarda, ai sensi
dell'art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a., le sole
controversie relative alle procedure di determinazione del
contraente privato, mentre nella specie si fa questione del
diritto soggettivo ai compensi di cui al richiamato art. 11,
comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006;
- che il solo Consorzio Tr.Ro. ha presentato memoria;
- che il Procuratore Generale ha concluso, ai sensi dell'ad.
380-ter c.p.c., per la sussistenza della giurisdizione del
giudice ordinario;
- che la tesi dei Tribunale Amministrativo rimettente è
fondata;
- che, infatti, in materia di appalto di opere pubbliche
sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e),
n. 1), c.p.a., le sole controversie relative alle procedure
di affidamento dei lavori -procedure che si concludono
appunto con l'aggiudicazione- mentre per le controversie che
traggono origine dall'esecuzione del contratto non v'è
alcuna deroga alla giurisdizione del giudice ordinario
(Cass. Sez. Un. 9391/2005), riprendendo vigore il criterio
generale di riparto basato sulla consistenza della posizione
giuridica soggettiva dedotta in giudizio, la quale, con
riferimento ai rimborsi conseguenti alla consegna (id est
esecuzione) anticipata dei lavori, è indubbiamente di
diritto soggettivo, come del resto espressamente previsto
dall'art. 11, comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006, cit. (ora
art. 32, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50);
- che va pertanto dichiarata la giurisdizione del giudice
ordinario e cassata la sentenza del Tribunale di Torre
Annunziata, Sezione distaccata di Sorrento (Corte di
Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 31.05.2016 n. 11368). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: L’appaltatore
è responsabile solo per difetti gravi. Tribunale Firenze.
Acquisto di immobili.
Nessuna responsabilità
dell’appaltatore verso il committente per i difetti
dell’immobile non così gravi da compromettere in modo
apprezzabile il godimento del bene, la cui piena abitabilità
non può dirsi esclusa.
Lo puntualizza il
TRIBUNALE di Firenze, Sez. III civile, con
sentenza 16.05.2016 n. 1879
(giudice Maione Mannamo).
A muovere il caso, è una donna che decide di chiamare in
giudizio una Srl per chiederne la condanna, quale società
venditrice/costruttrice, al risarcimento dei danni derivanti
dai gravi difetti dell’immobile acquistato. Secondo la
signora, l’appartamento presentava, fin dalla presa in
possesso, diverse anomalie e vizi di costruzione: montaggio
del bagno difforme al modello, installazione della caldaia
tale da non consentirne il collaudo e infiltrazioni d’acqua
dalle finestre.
Ma la società respinge ogni addebito. I
difetti contestati, afferma, sono inesistenti. Ad ogni modo,
i lavori di ristrutturazione erano stati eseguiti, dietro
contratto di appalto, da un’altra ditta. Di qui, la
richiesta della srl di essere autorizzata a chiamare in
causa –per errata esecuzione degli interventi–
l’appaltatrice e il direttore dei lavori.
Il Tribunale, esaminati i carteggi, concorda e rigetta la
domanda dell’attrice. Non sussiste –spiega il giudice–
l’asserita responsabilità del venditore/costruttore in base
all’articolo 1669 del Codice civile, vista «la marginalità
dei pochi vizi e difformità riscontrati». Secondo il perito
d’ufficio, in effetti, l’unità immobiliare era conforme ai
parametri di legge: i singoli vizi riscontrati dal
consulente tecnico erano di «modesto rilievo».
Da
escludersi, dunque, quei «gravi difetti che, ai sensi
dell’articolo 1669 del Codice civile, fanno sorgere la
responsabilità dell’appaltatore nei confronti del
committente e dei suoi aventi causa», intesi dai giudici di
legittimità (tra le altre pronunce, la sentenza della
Cassazione n. 19868/2009) come «alterazioni che, in modo
apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua
globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in
relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la
sua intrinseca natura».
Del resto, nella vicenda concreta –prosegue il Tribunale– nessuno dei difetti era idoneo a compromettere in modo
apprezzabile il godimento del bene, essendo vizi che poco
incidevano sulla fruibilità dell’immobile, la cui piena
abitabilità non poteva dirsi esclusa dai difetti
riscontrati. Manca, in sintesi, il riscontro di anomalie
tanto serie da privare «il bene della sua funzione economica
e pratica», risultando l’immobile «pienamente abitabile
anche in presenza dei citati vizi realizzativi».
Peraltro, si legge in sentenza, il fatto che il venditore
fosse anche il costruttore del bene venduto non valeva ad
attribuirgli le veste di appaltatore nei confronti
dell’acquirente, così come non valeva ad attribuire a
quest’ultimo la qualità di committente. L’acquirente,
perciò, non avrebbe potuto agire per l’adempimento del
contratto d’appalto e l’eliminazione dei difetti dell’opera,
trattandosi di domanda spettante –a differenza di quella
extracontrattuale prevista dall’articolo 1669 del Codice
civile, operante sia a carico dell’appaltatore nei confronti
del committente che a carico del costruttore nei confronti
dell’acquirente– solo al committente del contratto
d’appalto (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.09.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’attività
sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione
di opere abusive non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
---------------
L’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 rimette all’esclusiva
iniziativa della parte interessata l’attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato, e ciò anche al fine di non ingenerare equivoci
sul valore e sulla finalità delle istanze proposte.
---------------
7. Il Collegio ritiene di richiamare sin d’ora il principio
giurisprudenziale recepito secondo il quale “l’attività
sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione
di opere abusive non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può mai legittimare” (Cons. Stato,
V, 11.06.2013, n. 3235).
...
11. Con il terzo motivo l’appellante sostiene che, alla luce
dell’art. 37, comma 4, del T.U. sull’edilizia, la domanda
avente ad oggetto integrazione e variante in corso d’opera
prot. 6034 del 03.03.2009, doveva esplicare i medesimi
effetti di una domanda di sanatoria.
Anche tale motivo non può trovare accoglimento in quanto,
così come evidenziato dal giudice di primo grado, l’art. 36
d.P.R. n. 380/2001 rimette all’esclusiva iniziativa della
parte interessata l’attivazione del procedimento di
accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato, e
ciò anche al fine di non ingenerare equivoci sul valore e
sulla finalità delle istanze proposte
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1948 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
La competenza all’emanazione di sanzioni
demolitorie si reputa appartenente al Sindaco fino al 1998,
essendo stata trasferita ai dirigenti e comunque
all’apparato amministrativo degli enti locali ai sensi
dell’art. 2, comma 12, L. 16.06.1998 n. 191.
---------------
9. Con il primo motivo l’appellante sostiene che, in
mancanza di una normativa regolamentare di attuazione della
disciplina legislativa, negli enti locali la competenza ad
adottare provvedimenti sanzionatori spetterebbe ancora al
sindaco e non al competente dirigente.
Il motivo è infondato.
In ordine a tale censura il Collegio non può che confermare
quanto deciso dal giudice di primo grado per il quale la
competenza all’emanazione di sanzioni demolitorie si reputa
appartenente al Sindaco fino al 1998, essendo stata
trasferita ai dirigenti e comunque all’apparato
amministrativo degli enti locali ai sensi dell’art. 2, comma
12, L. 16.06.1998 n. 191.
L’ordinanza impugnata, essendo
stata emanata nell’anno 2009, ricade pienamente nella nuova
disciplina del riparto di competenze, che ha sancito
l’attribuzione all’apparato amministrativo degli enti locali
ed in particolare alle figure dirigenziali, tra gli altri,
anche dei compiti sanzionatori in materia edilizia.
Va sottolineato che l’appellante si è limitato a riproporre
la censura di primo grado senza confutare quanto deciso
nella sentenza appellata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1948 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
relazione al condono edilizio, la disciplina rilevante è
contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge 28.02.1985,
n. 47.
In particolare, l’art. 32 della predetta legge dispone che
«il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria
per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo», quale
è quello in esame, «è subordinato al parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».
Invero, il predetto parere ha natura e funzioni identiche
all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge n.
1497 del 1939, per essere entrambi gli atti il presupposto
legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della
zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di
annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un
manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento
affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa
del paesaggio, valore costituzionale primario.
---------------
... per la riforma della sentenza 13.06.2012, n. 2286,
del TAR Campania,
Sezione staccata di Salerno, Sez. II.
...
6.– L’appello è fondato.
7.– In via preliminare è necessario ricostruire il quadro
normativo rilevante.
In relazione alla disciplina dell’autorizzazione
paesaggistica, la legge 29.06.1939, n. 1497 (Protezione
delle bellezze naturali) prevedeva che i proprietari,
possessori o detentori, a qualsiasi titolo, di immobili
vincolati, ai sensi delle previsioni contenute nella stessa
legge, avrebbero dovuto ottenere una apposita autorizzazione
dalle autorità competenti per i lavori che intendessero
eseguire.
L’art. 16 del regio decreto 03.06.1940, n. 1357
(Regolamento per l’applicazione della legge 29.06.1939,
n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali) disponeva
che la predetta autorizzazione «vale per un periodo di
cinque anni, trascorso il quale, l’esecuzione dei progettati
lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione». Il
potere di annullamento ministeriale era in origine
disciplinato dall’art. 82 d.p.r. 24.07.1977, n. 616
(Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22.07.1975, n. 382).
Il decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (Testo unico
delle disposizioni legislative in materia di beni culturali
e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 08.10.1997, n. 352), ha abrogato la legge n. 1497 del 1939,
ribadendo, all’art. 151, la necessità, in presenza di
immobili vincolati, del rilascio dell’autorizzazione ad
effettuare lavori, con potere ministeriale di annullare la
predetta autorizzazione. L’art. 161 dello stesso decreto ha
previsto che «restano in vigore, in quanto applicabili, le
disposizioni del regolamento approvato con regio decreto 03.06.1940, n. 1357» e, pertanto, per quanto interessa in
questa sede, anche l’art. 16 che dispone la durata
quinquennale dell’autorizzazione.
L’intera materia è oggi regolata dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137). L’art. 159, applicabile
ratione temporis, ha
introdotto un regime transitorio operante sino al 31.12.2009, stabilendo che:
i) l’autorizzazione
paesaggistica è rilasciata dall’amministrazione competente
locale entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla
relativa richiesta (comma 2);
ii) la predetta
amministrazione «dà immediata comunicazione alla
Soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo
la documentazione prodotta dall’interessato, nonché le
risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti» (comma
2);
iii) la Soprintendenza, se ritiene l’autorizzazione non
conforme alla normativa sulla tutela del paesaggio, «può
annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta
giorni successivi alla ricezione della relativa, completa,
documentazione» (comma 3).
In relazione al condono edilizio, la disciplina rilevante è
contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali). In
particolare, l’art. 32 della predetta legge dispone che «il
rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per
opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo», quale è
quello in esame, «è subordinato al parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».
La giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che il
predetto parere ha natura e funzioni identiche
all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge n.
1497 del 1939, per essere entrambi gli atti il presupposto
legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della
zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di
annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un
manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento
affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa
del paesaggio, valore costituzionale primario (Cons. Stato,
VI, 15.03.2007, n. 1255; tale equiparazione opera anche
per le autorizzazioni paesaggistiche disciplinate dagli
artt. 151 e 159 del d.lgs. n. 490 del 1999 e per il parere
previsto dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel
ritenere che la «mera sistemazione interna degli spazi» non
determinata aumento di superficie o volumi.
... per la riforma della sentenza 07.06.2012, n. 2712, del
Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli,
Sezione VII.
...
7.– Con un secondo motivo l’appellante deduce l’erroneità
della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto
illegittimo l’atto della Soprintendenza n. 28516 del 2011,
nel quale si afferma che non è possibile rilasciare
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria perché
l’intervento avrebbe comportato un aumento di superficie e
di volume. L’appellante ha dedotto che non vi sarebbe stata
alcuna modifica esteriore rilevante sul piano paesaggistico.
Il motivo è fondato.
L’art. 146, quarto comma, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
dell’art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137) ha disposto che
«fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5,
l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi».
Il richiamato articolo 167 ha stabilito che tale divieto non
opera nei casi in cui: a) i lavori eseguiti non hanno
determinato la «creazione di superficie utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati»; b)
sono stati impiegati «materiali in difformità
dall’autorizzazione paesaggistica»; c) gli interventi
eseguiti sono qualificabili quali «interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria».
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel
ritenere che la «mera sistemazione interna degli spazi»
non determinata aumento di superficie o volumi (Cons. Stato,
sez. VI, 31.07.2014, n. 4052).
Nella fattispecie in esame, dagli atti del processo nonché
dalla perizia di parte dell’appellante e dalla relazione
tecnica redatta da un consulente tecnico d’ufficio nominato,
in un giudizio civile (n. 18385 del 2010, nominato dal
Giudice unico del Tribunale di Torre Annunziata), avente ad
oggetto lo stesso immobile consulenza tecnica d’ufficio,
risulta che non vi è stata una rilevante modificazione della
parte esterna del manufatto, con la conseguenza che lo
stesso è suscettibile di sanatoria anche sul piano
paesaggistico
(Consiglio di Stato Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1940 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Meno
tempo per riavere la patente.
Dopo la revoca per guida in stato d'ebbrezza il condannato
può ottenere una nuova patente a tre anni dall'accertamento
del reato che ha commesso e non dal passaggio in giudicato
della sentenza che lo sanziona. Sbaglia la Motorizzazione
civile ad ancorare la decorrenza del termine al passaggio in
giudicato della pronuncia di condanna a carico
dell'automobilista: un'interpretazione del genere crea
disparità fra gli imputati perché fa dipendere la durata
della sanzione dai tempi della giustizia, che sono diversi a
seconda della causa. I tre anni di stop, invece, sono uguali
per tutti se la revoca scatta dalla data in cui è contestata
al conducente la violazione da parte dell'organo
accertatore, ad esempio la polizia stradale.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.04.2016 n. 393,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Veneto.
Accolto il ricorso dell'automobilista che ha causato anche
un incidente stradale dopo essersi messo al volante ubriaco.
Il sinistro risale al 29.06.2012 e la patente è sospesa
in via immediata.
Il decreto di condanna arriva il 20.02.2014, passando
in giudicato il primo ottobre 2015. E sarebbe da
quest'ultima data che secondo la Motorizzazione deve partire
il termine triennale. Ma l'interpretazione
dell'amministrazione non è coerente con la lettera né con la
ratio della norma di cui all'articolo 219-ter Cds. E
soprattutto non risulta conforme alla Costituzione perché la
sanzione sarebbe soggetta a elementi variabili e diversi per
ciascun reato, in funzione della maggiore o minore durate
dei procedimenti penali. Sul punto si è pronunciato pure
l'ufficio del massimario della Cassazione. Per
l'automobilista, nella specie, i tre anni della revoca sono
passati da un pezzo.
Nessun dubbio, infine, per la sussistenza della
giurisdizione amministrativa: l'uso della patente deve
essere considerato un interesse legittimo e non un diritto
soggettivo.
E ciò perché c'è un interesse pubblico alla sicurezza delle
strade e l'amministrazione ha discrezionalità nei controlli
sulla licenza di guida. Le spese di giudizio sono compensate
per il contrasto di giurisprudenza esistente, ma il
ministero dei trasporti paga il contributo unificato
aggiuntivo
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Autotutela
in termini blindati. Non si sgarra sui 18 mesi per
l'annullamento dell'atto. Per il Tar
Puglia il comune non può far finta che la riforma Madia non
esista.
Il comune non può far finta che non sia stata mai approvata
la legge Madia, con la sua profonda riforma della pubblica
amministrazione. Il termine di diciotto mesi previsto dalla
legge 124/2015 per l'annullamento in autotutela dell'atto deve
ritenersi perentorio e all'ente locale non basta comunicare
entro un anno e mezzo il solo avvio del provvedimento per
ritenersi in regola: diversamente si approderebbe a
«un'interpretazione sostanzialmente abrogativa» della
novella.
È quanto emerge dalla
sentenza
17.03.2016 n. 351, pubblicata dalla
III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Natura perentoria.
Materia del contendere sono le modifiche
all'articolo 21-nonies della legge 241/1990. Accolto il
ricorso della società immobiliare dopo la rimozione in
autotutela del permesso di costruire che le era stato
rilasciato dal comune.
Al momento in cui è adottato l'atto
di secondo grado era già in vigore la legge Madia, divenuta
operativa il 28.08.2015, e dunque alla fattispecie
devono essere applicate le modifiche apportate dalla riforma
al procedimento amministrativo. Il permesso rettificato
risale al 14.04.2014, mentre il provvedimento di
annullamento arriva soltanto il 19.11.2015, dunque oltre i
18 mesi indicati dalla legge 124/2015.
Inutile per il comune sostenere che il termine sarebbe stato
rispettato con l'adozione di una nota emessa il 01.10.2015
perché si tratta della comunicazione di avvio
dell'autotutela: il tenore letterale della norma è chiaro, è
il provvedimento di annullamento che deve arrivare entro un
anno e mezzo, altrimenti il termine risulterebbe non
perentorio, contro le intenzioni del legislatore.
Il Tar Puglia fa riferimento alla sua stessa giurisprudenza
sulla modifica da parte della legge Madia sulla normativa
che disciplina il procedimento degli enti ricordando che il
legislatore ha voluto dare certezza e stabilità ai rapporti
che hanno titolo in atti amministrativi, individuando nel
termine massimo di 18 mesi il limite per l'annullamento
d'ufficio, il quale sarebbe senz'altro illegittimo se
sopravvenuto dopo il decorso del termine.
Il fatto che la legge Madia non abbia sostituito le parole «termine
ragionevole» con le parole «comunque non superiore a
18 mesi», che invece si aggiungono, induce a ritenere
che si tratta di un'operazione meramente interpretativa con
la quale si è inteso specificare che il termine ragionevole
non può superare i 18 mesi, dovendosi invece riconoscere
portata innovativa agli interventi di modifica che
sostituiscono una disposizione o parte di essa e producono
una norma diversa dalla precedente.
Il comune paga le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2016). |
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