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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di SETTEMBRE 2016

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aggiornamento al 20.09.2016

aggiornamento al 07.09.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 20.09.2016

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COME VOLEVASI DIMOSTRARE:
senza la preventiva adozione del nuovo regolamento, vigente dal 19.08.2014 e sino al 18.04.2016, l'incentivo alla progettazione interna non spetta (oggi) retroattivamente.

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 13.10.2014 davamo conto che dal 19.08.2014, data di entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge n. 114/2014 al d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovevano fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisse la percentuale massima destinata a tali compensi (art. 93, comma 7-bis, D.Lgs. n. 163/2006) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che statuisse i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovevano adeguarsi alle novità normative, fra le quali spiccava l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale.
     Sicché,
dal 19.08.2014 se non si adottava (alla svelta, dato che i provvedimenti amministrativi non hanno efficacia retroattiva) il nuovo regolamento interno, previo nuovo accordo decentrato, l'incentivo alla progettazione non si sarebbe potuto riconoscere (liquidare) ... detto altrimenti, le (eventuali) prestazioni svolte sarebbero state rese a titolo gratuito (con gli impliciti ringraziamenti dell'Amministrazione di appartenenza).
     Ebbene, ecco la conferma -di quanto preavvisato quasi due anni or sono- da parte della Corte dei Conti nel parere riportato a seguire:

INCENTIVO PROGETTAZIONE: E' illegittimo il regolamento comunale che disciplini l’erogazione dell'incentivo con effetto retroattivo poiché si pone in contrasto con il principio di irretroattività, in mancanza di un’espressa disposizione di legge derogatoria.
Il principio della irretroattività degli atti, immanente all’ordinamento giuridico, costituisce corollario dei più generali principi della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti dallo stesso prodotti nonché del principio della certezza delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la retroattività sia prevista dalla legge (ordinaria, statale o regionale, atteso che la copertura costituzionale della irretroattività è prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica “naturale” dell’atto (es. annullamento che, de iure, produce effetto ex tunc).
D’altro canto,
per gli atti amministrativi a contenuto normativo –come appunto i regolamenti– la regola dell’irretroattività è affermata dal combinato disposto degli artt. 4 e 11 delle preleggi, secondo i quali il regolamento non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge e, nella specie, al divieto di retroattività imposto dal successivo art. 11 per gli atti normativi, derogabile solo attraverso una norma di legge che abiliti l’atto a produrre un tale effetto (ad esclusione della legge penale, per la quale la costituzione pone un divieto assoluto).
Nella specie, in mancanza di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo, il regolamento, in ossequio all’art. 11 delle preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
---------------
La ripartizione tra i dipendenti dell’ente deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo.
Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge.
Non così per il semplice accantonamento delle risorse, che, in attesa della disciplina regolamentare, ben può essere disposto dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché, ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art. 113, 2° comma, cit.
Ove poi il regolamento successivamente adottato dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già stabilita dall’ente, la parte dell’accantonamento non utilizzata concorrerà alla determinazione del risultato di amministrazione.

---------------

Il Sindaco del Comune di Rubano (PD) ha presentato richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando il seguente quesito.
Posto che l’art. 93, comma 7-bis, del D.lgs. n. 163/2006, nel testo che era stato introdotto dal D.L. n. 90/2014, conv., con modificazioni, dalla L. n. 114/2014, nel fissare un tetto percentuale (non più del 2% degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) oltre il quale non è possibile accantonare risorse finanziarie per la progettazione e l’innovazione all’interno delle amministrazioni pubbliche, aveva previsto che detta percentuale dovesse essere stabilita “da un regolamento adottato dall’amministrazione, in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare”, l’ente chiede:
- se, nel caso in cui un’amministrazione –nella specie il Comune di Rubano– nel periodo precedente all’abrogazione del D.lgs. n. 163/2006 ad opera del D.lgs. n. 50/2016 (in particolare, periodo dal 19.08.2014 al 18.04.2016) non aveva adottato alcun regolamento, sia possibile adottarne uno con “valenza retroattiva”, al fine di ripartire gli incentivi regolarmente accantonati in bilancio e maturati dai dipendenti assegnati all’ufficio tecnico per l’attività svolta in detto periodo;
- se, in assenza di un regolamento che determini la percentuale ed i criteri di riparto, “sia possibile accantonare prudenzialmente in bilancio la somma del 2% dell’importo a base di gara, subordinando comunque la liquidazione dei compensi all’approvazione del regolamento.
...
Nel merito, il primo quesito ha ad oggetto la possibilità giuridica di adottare un regolamento comunale, diretto a disciplinare l’erogazione degli incentivi che erano riconosciuti in favore del personale tecnico dell’ente dal previgente art. 93, comma 7-bis, del D.lgs. n. 163/2006, sotto il profilo, in particolare, della percentuale massima di risorse da destinare allo scopo, con effetto retroattivo, allo scopo di consentirne il riparto nel rispetto della summenzionata normativa.
A tale quesito deve darsi risposta negativa.
Esso, da un canto, si inquadra nell’ambito della problematica più ampia, della irretroattività dei provvedimenti amministrativi.
Il principio della irretroattività degli atti, immanente all’ordinamento giuridico, costituisce corollario dei più generali principi della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti dallo stesso prodotti nonché del principio della certezza delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la retroattività sia prevista dalla legge (ordinaria, statale o regionale, atteso che la copertura costituzionale della irretroattività è prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica “naturale” dell’atto (es. annullamento che, de iure, produce effetto ex tunc).
D’altro canto,
per gli atti amministrativi a contenuto normativo –come appunto i regolamenti– la regola dell’irretroattività è affermata dal combinato disposto degli artt. 4 e 11 delle preleggi, secondo i quali il regolamento non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge e, nella specie, al divieto di retroattività imposto dal successivo art. 11 per gli atti normativi, derogabile solo attraverso una norma di legge che abiliti l’atto a produrre un tale effetto (ad esclusione della legge penale, per la quale la costituzione pone un divieto assoluto).
Nella specie, in mancanza di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo, il regolamento, in ossequio all’art. 11 delle preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Con il secondo quesito, si chiede se, nelle more della determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale entro la quale destinare le risorse e dei criteri di assegnazione, sia corretto accantonare le risorse medesime in misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver approvato il regolamento suddetto.
Deve premettersi che anche la disposizione che attualmente regolamenta gli incentivi per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici –vale a dire per l’attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico– ovvero l’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, ai commi 2, 3 e 4, prevede la destinazione ad un fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le summenzionate “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e l’innovazione tecnologica.
La ripartizione tra i dipendenti dell’ente deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo.
Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge.
Non così per il semplice accantonamento delle risorse, che, in attesa della disciplina regolamentare, ben può essere disposto dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché, ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art. 113, 2° comma, cit.
Ove poi il regolamento successivamente adottato dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già stabilita dall’ente, la parte dell’accantonamento non utilizzata concorrerà alla determinazione del risultato di amministrazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 07.09.2016 n. 353).

QUINDI??

   Quindi, siccome già ricordato con l'AGGIORNAMENTO AL 29.03.2016, è giunta l'ora di provvedere con urgenza alla ripetizione delle somme (eventualmente) indebitamente erogate a cura del Dirigente/P.O. -nei confronti dei propri collaboratori- piuttosto che dell'Ufficio Personale -nei confronti della P.O.- o addirittura dello stesso Dirigente/P.O. -nei propri confronti, con ulteriore profilo di illegittimità (controllore e controllato: cfr. Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia, sentenza 14.04.2015 n. 203)- poiché, altrimenti, è scontato che la Procura regionale contabile suonerà il citofono di casa degli inadempienti colpevoli (con dolo e colpa grave).
     Al riguardo, giova qui ricordare altri soggetti coinvolti e deputati al controllo quali:
il segretario comunale, il ragioniere capo ed il Revisore dei Conti e le correlate personali responsabilità se non svolgono il proprio dovere a' termini di legge (si legga una variegata casistica raggruppata nell'apposito dossier).
     Tuttavia, siccome evidenziato (correttamente) dal Segretario Generale Dott. Antonello Accadia nel proprio commento sul sito www.moltocomuni.it, dalla lettura del parere di cui sopra "
non si può non evidenziare una palese contraddizione tra il principio di irretroattività, riaffermato dalla Corte in risposta al primo quesito, e la possibilità riconosciuta, con la risposta al secondo quesito, di accantonare le risorse in bilancio a titolo di incentivo, nelle more della determinazione, a mezzo dell’emanando regolamento, della percentuale entro la quale destinare le risorse e dei criteri di assegnazione.
     Non sembra coerente escludere che un regolamento disciplini fatti accaduti in periodi precedenti alla sua emanazione e, poi, ammettere che si accantonino somme nell'attesa di un’emananda disciplina regolamentare concernente non solo la percentuale di risorse da destinare agli incentivi ma anche i criteri e le condizioni stesse di riparto.
     Invero, il principio di irretroattività dei regolamenti vale sempre, a prescindere dalla normativa di riferimento. Sicché, anche nel secondo caso, non ha senso consigliare di accantonare le somme in bilancio in assenza del regolamento se, poi, la decorrenza dell’aliquota e dei criteri stabiliti con la disciplina regolamentare dovrà decorrere dalla sua adozione
".
20.09.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

LUTTO

     Ha lasciato questa terra il nostro Collega ed Amico INFANTINO GEOM. BALDASSARE del Comune di Paladina (BG), senza avere il tempo di godersi appieno la meritata pensione dopo una vita di lavoro.
     Caro BALDO, la Tua continua disponibilità per il bene della comunità locale e le Tue tribolazioni di salute, vissute con dignità esemplare, sono bastevoli perché di lassù se ne abbia giusta memoria e ricompensa.
     Per chi vorrà partecipare all'estremo saluto, le esequie si terranno

MARTEDI' 20.09.2016 ORE 15,00

nella Parrocchiale di S. Lorenzo di Capizzone (BG).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sul rispetto, o meno, dei termini di 45 gg., 90 gg. e 180 gg. ex art. 146 e art. 167 dlgs. 42/2004.
Qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale «continua a sussistere … ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale».
La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze)».
Quindi, «nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo».
La giurisprudenza più recente di questa Sezione, nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo.
In conseguenza il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso il silenzio dell’amministrazione;
- non rende illegittimo il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

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... per la riforma della sentenza n. 2848 del 15.12.2010 del TAR per la Puglia, Sezione Staccata di Lecce, Sez. I, resa tra le parti, concernente il diniego di autorizzazione paesaggistica per la sanatoria di opere edilizie.
...
6.- Passando al merito dell’appello, si deve ricordare che l’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, dopo aver ricordato che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, stabilisce che al di fuori dei limitati casi «di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi».
6.1.- L’art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede quindi il possibile accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al successivo comma 5, solo nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
6.2.- Se le opere rientrano in una delle tipologie indicate, il comma 5 dell’art. 167 prevede che «il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi … presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione».
7.- Con riferimento alla questione, oggetto della sentenza di primo grado, riguardante il rispetto del termine assegnato alle suindicate amministrazioni per l’esercizio della funzioni loro assegnate ai fini della valutazione della possibile compatibilità paesaggistica delle opere per le quali è stata chiesta la sanatoria, questa Sezione ha affermato che, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale «continua a sussistere … ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale» (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4656 del 18.09.2013).
La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze)». Quindi, «nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo» (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4656 del 18.09.2013 cit.).
7.1.- La giurisprudenza più recente di questa Sezione, nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2136 del 27.04.2015).
7.2.- In conseguenza il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso il silenzio dell’amministrazione;
- non rende illegittimo il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
8.- Facendo applicazione di tali principi l’appellata sentenza del TAR di Lecce deve essere riformata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1935 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla responsabilità disciplinare dell'architetto per avere firmato e presentato una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) presso lo stesso Comune in cui era sindaco.
Tra i destinatari dell'obbligo di astensione dall'esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio comunale rientrano non solo gli assessori cui siano state conferite deleghe nei settori dell'urbanistica, dell'edilizia e dei lavori pubblici, ma anche lo stesso sindaco, sul quale, come organo responsabile dell'amministrazione del Comune e presidente della giunta comunale, grava l'onere di sovrintendere su tutte le attività del Comune, anche su quelle delegate.
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Ritenuto in fatto
1. - Il Consiglio dell'ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Novara ha irrogato all'arch. Ca.Bi. la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione per tre mesi, per violazione dell'art. 78 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), e di disposizioni del codice deontologico degli architetti italiani, perché, quale sindaco del Comune di Gozzano, l'iscritta aveva firmato e presentato una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) presso lo stesso Comune.
2. - Il Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, con decisione depositata il 15.06.2015, ha respinto l'impugnazione dell'incolpata.
Il Consiglio nazionale ha escluso l'eccezione di nullità del procedimento per mancata astensione dell'arch. Paolo Gattoni, sia perché non risulta che costui abbia comunque partecipato alla fase deliberativa, sia perché la sua posizione non sembra configurare una ipotesi di conflitto di interessi.
Secondo il Consiglio nazionale, "il sindaco doveva astenersi dal firmare una SCIA e a nulla rileva la delega agli assessori poiché tale delega riguarda semmai la determinazione dell'ente locale su quella SCIA, non già la sua presentazione al Comune da parte di un libero professionista"; e l'art. 78, coma 3, del d.lgs. n. 267 del 2000 "è norma applicabile al caso di specie, non essendo dubbio che l'obbligo di astensione ivi disciplinato riguardi anche il sindaco".
...
Considerato in diritto
1. - Con il primo motivo si deduce la nullità della decisione e del procedimento per mancata astensione dell'arch. Paolo Gattoni, violazione degli artt. 24, 25 e 111, secondo comma, Cost. per difetto di valida costituzione (d.P.R. 07.08.2012, n. 137, e regolamento di disciplina 16.11.2012), terzietà ed imparzialità del giudice con lesione del diritto di difesa, nonché violazione dell'art. 111, sesto comma, Cost. per violazione del dovere di motivazione.
Preliminarmente la ricorrente deduce che la sanzione è stata a lei irrogata dal Consiglio dell'ordine costituito in Commissione di disciplina ai sensi degli artt. 8, comma 10, del d.P.R. n. 137 del 2012 e dell'art. 6, comma 1, del regolamento 16.11.2012, quando, secondo la normativa applicabile, l'Ordine era tenuto ad istituire la Commissione di disciplina. Non averlo fatto -ed avere utilizzato la disciplina transitoria- avrebbe comportato che la ricorrente è stata privata del suo giudice naturale precostituito per legge.
La nullità del procedimento deriverebbe inoltre dal fatto che l'arch. Pa.Ga., pur non avendo partecipato alla fase deliberativa, si è astenuto tardivamente, solo a seguito di eccezione dell'arch. Pi.Ga., primo difensore della ricorrente, ma intanto lo stesso ha curato la documentazione fotografica posta a base dell'esposto, ha partecipato all'elaborazione dell'incolpazione ed è stato attivo protagonista dell'istruttoria.
Atteso che il Collegio di disciplina è un collegio perfetto, la presenza, nella maggior parte delle attività finalizzate alla decisione, dell'arch. Pa.Ga. e la sua astensione, su eccezione di parte e solo in fase deliberativa, comprometterebbe la valida costituzione del giudice e la regolarità del procedimento, quest'ultimo viziato da quanto svolto dal membro del collegio solo successivamente astenutosi.
Vi sarebbero gravi ragioni di convenienza che imponevano l'astensione dell'arch. Ga., in ragione della contrapposizione politico-elettorale tra questo e la ricorrente. La decisione impugnata non avrebbe svolto alcuna motivazione per escludere l'esistenza di quel conflitto, provato dall'avere l'arch. Ga. scattato la fotografia allegata all'esposto dell'Associazione Er.Re..
Non avrebbe tenuto conto il Consiglio nazionale della dichiarazione di Sa.So., al quale l'arch. Ga. riferì che era sua ferma volontà di adoperarsi perché l'arch. Bi. fosse espulsa dall'Ordine: il che paleserebbe la sussistenza di una grave inimicizia.
1.1. - Il motivo è infondato, sotto entrambi i profili.
Quanto alla denuncia di invalida costituzione dell'organo che ha irrogato la sanzione disciplinare (il Consiglio territoriale dell'ordine costituito in Commissione di disciplina), occorre precisare che la legittimità della costituzione dell'organo disciplinare deriva proprio dalla disposizione regolamentare -il d.P.R. n. 137 del 2012, recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell'art. 3, comma 5, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148- di cui la ricorrente lamenta l'avvenuta violazione.
Infatti, l'art. 8 del citato d.P.R. n. 137 del 2012, nel dettare disposizioni sul procedimento disciplinare delle professioni regolamentate diverse da quelle sanitarie, ha sì previsto l'istituzione presso i Consigli dell'ordine territoriali di Consigli di disciplina territoriali cui sono affidati i compiti di istruzione e decisione delle questioni disciplinari riguardanti gli iscritti all'albo, con l'incompatibilità tra la carica di consigliere dell'ordine e la carica di consigliere del corrispondente consiglio di disciplina; ma ha anche stabilito -al comma 10- che fino all'insediamento dei nuovi Consigli di disciplina territoriali, «le funzioni disciplinari restano interamente regolate dalle disposizioni vigenti».
Ne consegue che, in applicazione della prevista disciplina transitoria, in attesa della istituzione del Consiglio di disciplina territoriale, le funzioni disciplinari legittimamente sono state esercitate dal Consiglio dell'ordine costituito in Commissione di disciplina, secondo la disciplina vigente.
Quanto, poi, alla nullità procedimentale derivante dalla partecipazione al procedimento dell'arch. Pa.Ga., componente del Consiglio dell'ordine di Novara, ogni questione al riguardo resta superata dal fatto che questi si è astenuto nel corso del procedimento e non ha partecipato alla deliberazione con cui, in esito al procedimento disciplinare, è stata irrogata la sanzione.
La validità di questa deliberazione finale -resa da un organo collegiale a composizione variabile che non si presenta come un collegio perfetto (Cass., Sez. III, 14.04.2005, n. 7765), ed in esito ad un procedimento al quale non si estendono in via analogica le disposizioni del codice di procedura penale (Cass., Sez. Un., 07.05.1998, n. 4627; Cass., Sez. III, 07.07.2006, n. 15523)- non è inficiata dalla partecipazione del componente poi astenutosi alle precedenti attività di apertura del procedimento disciplinare e di formalizzazione dell'incolpazione, né dal fatto che lo stesso fosse presente all'attività istruttoria svolta dal Consiglio dell'ordine. D'altra parte, non si vede come ed in che termini l'avere l'arch. Pa.Ga. realizzato l'allegato fotografico della segnalazione iniziale abbia alterato il contraddittorio e le garanzie dell'interessata, che mai ha negato il fatto storico, difendendosi esclusivamente in punto di diritto.
2. - Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 111 Cost. e 360, n. 4, cod. proc. civ. avuto riguardo alla valida contestazione dell'incolpazione, alla responsabilità deontologica e alla violazione del codice deontologico, violazione dell'art. 111, secondo comma, Cost. per errata applicazione del disposto dell'art. 78, comma 3, TUEL, e violazione dell'art. 111, sesto comma, Cost. per omissione del dovere di motivazione.
La ricorrente sostiene che l'art. 78, comma 3, TUEL sarebbe una norma di stretta interpretazione, sicché intanto sussisterebbe l'obbligo di astensione in quanto si sia in presenza di una correlazione immediata e diretta tra contenuto dell'atto e l'interesse dell'amministratore. Ma
questa correlazione nella specie difetterebbe, essendo l'arch. Bi. sindaco e non assessore del Comune ed avendo provveduto a delegare le competenze in materia di urbanistica, edilizia e lavori pubblici all'assessore.
In capo alla ricorrente quale sindaco non sussisteva, con riguardo alla contestata condotta riguardante la sottoscrizione della pratica edilizia, alcuna competenza, nemmeno mediata o di riferimento, in materia di edilizia ed urbanistica, tale da obbligarla all'astensione dall'attività professionale.
Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 111, sesto coma, Cost., avuto riguardo alla omessa motivazione in ordine alle contestate violazioni al codice deontologico, nonché violazione dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., in ordine all'omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
2.1. - Il secondo ed il terzo motivo -da esaminare congiuntamente, stante la stretta connessione- sono infondati.
Quanto alla partecipazione alla fase iniziale del procedimento disciplinare dell'arch. Pa.Ga. valgono le considerazioni espresse in sede di scrutinio del primo motivo di ricorso.
In relazione all'altro profilo preliminare e formale (con il quale si lamenta che l'incolpazione non sia stata "riportata e/o esplicitata in alcuna parte della decisione avversata"), si tratta di una censura che non tiene conto del fatto che la decisione del Consiglio nazionale indica con chiarezza l'addebito che è stato contestato all'arch. Bi., nelle sue componenti sia fattuali che giuridiche.
Nel merito, l'art. 78, comma 3, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. n. 267 del 2000, prevede che «
[i] componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall'esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato».
La citata disposizione contempla un obbligo di astensione dall'esercizio di attività professionali in materia di edilizia privata e pubblica nell'ambito del territorio amministrato, essendo tali attività ritenute incompatibili con la carica pubblica ricoperta.
Tale obbligo di astensione -diretto non solo ad evitare che il professionista tragga vantaggio nella sua attività professione dal mandato pubblico rivestito, ma anche a precludere, per ragioni di trasparenza e buon andamento dell'amministrazione dell'ente territoriale, che l'esercizio delle funzioni collegate a tale mandato sia sviato dall'interesse personale dell'amministratore- grava sui «componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici».
Tra i destinatari dell'obbligo di astensione dall'esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio comunale rientrano non solo gli assessori cui siano state conferite deleghe nei settori dell'urbanistica, dell'edilizia e dei lavori pubblici, ma anche lo stesso sindaco, sul quale, come organo responsabile dell'amministrazione del Comune e presidente della giunta comunale, grava l'onere di sovrintendere su tutte le attività del Comune, anche su quelle delegate.
Tale interpretazione trova conferma nella stessa lettera della disposizione dell'art. 78, comma 3, del testo unico, il quale, per indicare i destinatari dell'obbligo di astensione, impiega la locuzione «componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici», non quella di assessori all'urbanistica, all'edilizia e ai lavori pubblici.
Da un punto di vista sistematico, inoltre, occorre considerare che,
anche nelle ipotesi in cui si avvalga della facoltà di delega, il sindaco conserva, in ogni caso, la titolarità delle competenze, mantenendo verso il delegato -l'assessore- i poteri di direttiva e di vigilanza, oltre a quelli di nomina e di revoca.
Va pertanto escluso che, per il fatto di essersi avvalso della facoltà di delega ad un assessore nella materia urbanistica, edilizia e lavori pubblici, il sindaco possa ritenersi esonerato dall'osservanza dell'obbligo di astensione dall'esercitare, nel territorio da lui amministrato, attività professionale di architetto in materia di edilizia privata e pubblica.
Di questo principio ha fatto
puntuale applicazione il Consiglio nazionale degli architetti, riconoscendo la responsabilità disciplinare dell'arch. Bi. per avere firmato e presentato una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) presso lo stesso Comune in cui era sindaco.
E correttamente il Consiglio nazionale ha ritenuto la condotta dell'iscritta in contrasto anche con le norme del codice deontologico degli architetti, posto che
l'architetto è tenuto a svolgere la sua attività con lealtà e correttezza, rispettare la legge nell'esercizio della professione e nell'organizzazione della sua attività e, in particolare, a curare che le modalità con cui svolge il proprio mandato presso le istituzioni siano improntate a non conseguire utilità di qualsiasi natura per sé o per altri (artt. 3, 9 e 21 del codice deontologico ratione temporis applicabile) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.07.2016 n. 14764).

QUESITI & PARERI

INCARICHI PROGETTUALI: I concorsi di idee.
DOMANDA:
Il comune intende bandire un concorso di idee ai sensi dell’art. 156 del D.Lgs. 50/2016 al fine di acquisire, mediante compenso a premi, idee per la futura progettazione della riqualificazione di un’area strategica del paese.
A tali fini si richiede se il concorso debba essere pubblicato con sistemi di evidenza pubblica al di fuori del mercato elettronico, al fine di garantire la più ampia partecipazione (anche dei giovani professionisti), o all'interno del mercato elettronico in analogia alle prestazioni di servizio.
RISPOSTA:
Va premesso che l’obbligo di far ricorso al mercato elettronico trova tuttora fondamento nell'ambito delle previsioni di cui all'art. 1, comma 450, della l. 296/2006, il quale così dispone “Le amministrazioni statali centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, nonché gli enti nazionali di previdenza e assistenza sociale pubblici e le agenzie fiscali di cui al decreto legislativo 30.07.1999, n. 300, per gli acquisti di beni e servizi di importo di importo pari o superiore a 1.000 euro e al di sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità indipendenti, per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure".
Ciò premesso si osserva che i concorsi di “idee”, pur risultando assoggettati, in virtù dell’art. 156 del codice dei contratti pubblici alle medesime disposizioni del capo IV dettati per i concorsi di “progettazione” (definiti dalla lett. ddd) dell’art. 3 del codice come “le procedure intese a fornire alle stazioni appaltanti, nel settore dell'architettura, dell'ingegneria, del restauro e della tutela dei beni culturali e archeologici, della pianificazione urbanistica e territoriale, paesaggistica, naturalistica, geologica, del verde urbano e del paesaggio forestale agronomico, nonché nel settore della messa in sicurezza e della mitigazione degli impatti idrogeologici ed idraulici e dell'elaborazione di dati, un piano o un progetto, selezionato da una commissione giudicatrice in base a una gara, con o senza assegnazione di premi”) presentano natura del tutto diversa dai veri e propri “appalti” di progettazione che sono qualificabili come “servizi”, in quanto con i primi si tende ad acquisire non tanto un bene o un servizio ma un’opera intellettuale dell’ingegno, in genere tutelata dal diritto di autore (art. 2575 cod. civ. e art. 1 l. diritto d’Autore).
In sostanza con il concorso di idee si acquisisce la proprietà di una “idea progettuale” ritenuta la migliore e frutto dell’ingegno della persona (non necessariamente in possesso di determinati requisiti di professionalità) mentre nel concorso di progettazione si affida la realizzazione di un certo progetto come una vera e propria prestazione professionale da eseguire a carico dell’affidatario come obbligazione di risultato.
Il comma 4 del cit. art. 156 prevede infatti che il premio venga dato “al soggetto o ai soggetti che hanno elaborato le idee ritenute migliori” le quali “possono”, ma quindi non necessariamente “debbono” essere poste a base di un successivo concorso di progettazione o di un appalto di servizi di progettazione al quale potrebbero partecipare anche i soggetti premiati, se in possesso dei requisiti soggettivi richiesti, mentre solo se previsto nel bando il vincitore può anche divenire aggiudicatario di eventuali livelli successivi di progettazione (v. commi 4, 5 e 6 art. 156 cit.).
Per queste ragioni si è dell’avviso che un concorso di idee, salvo che non sia inserito nell’ambito di una procedura di appalto di servizi, non sia assoggettabile agli obblighi del mercato elettronico di cui al cit. comma 450 (art. 1 della l. n. 296/2006) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarico di Direttore UTI.
Non si ritiene possibile affidare l'incarico di Direttore dell'UTI a un dirigente a tempo determinato ex art. 110 TUEL, atteso che l'art. 18 della l.r. 26/2014 prevede il collocamento in aspettativa per tutta la durata dell'incarico medesimo.
Il collocamento in aspettativa, come anche precisato dall'art. 21 del CCRL Area Dirigenza del 29.02.2008, riguarda esclusivamente il dirigente a tempo indeterminato; tale istituto si porrebbe infatti in conflitto insanabile con la prefissione di un termine apposto a un contratto stipulato per esigenze temporanee.

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L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di affidare l'incarico di Direttore dell'UTI a un dirigente con contratto a tempo determinato ex art. 110 del d.lgs. 267/2000, in applicazione di quanto disposto all'art. 18 della l.r. 26/2014.
Sentito il Servizio sistema integrato del pubblico impiego regionale e locale, si esprime quanto segue.
Com'è noto, il richiamato articolo 18, al comma 3, prevede che l'incarico di Direttore è conferito, previa selezione, con contratto di lavoro a tempo determinato di diritto privato a un dirigente dell'Unione o ad altro dirigente del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale o a uno dei segretari comunali o provinciali in servizio presso enti locali del territorio regionale.
Ai fini della soluzione alla questione sottoposta rileva in particolare quanto ulteriormente specificato dalla norma in esame.
Si stabilisce infatti che, qualora l'incarico sia conferito a un dirigente dell'Unione o ad altro dirigente del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale, il medesimo dirigente è collocato in aspettativa senza assegni per tutta la durata dell'incarico.
A tal proposito si osserva che l'art. 21 del CCRL - Area Dirigenza del comparto unico -stipulato in data 29.02.2008, al comma 3, dispone espressamente che al dirigente a tempo indeterminato, assunto presso altre pubbliche amministrazioni dello stesso o di diverso comparto o in organismi dei quali facciano parte la Regione ed altri enti locali o in organismi della Unione Europea con rapporto di lavoro o incarico a tempo determinato, l'aspettativa può
[1] essere concessa per tutta la durata del contratto o incarico a termine.
Pertanto, alla luce delle disposizioni riportate, emerge come il collocamento in aspettativa senza assegni debba esser riferito esclusivamente a dirigenti assunti con contratto a tempo indeterminato, in servizio di ruolo quindi presso le rispettive amministrazioni di appartenenza.
Per completezza, si informa che anche la Corte dei conti
[2], pur con riferimento alla diversa fattispecie del collocamento in aspettativa per mandato elettorale, ha enunciato un rilevante principio di carattere generale, rimarcando che 'la diversità ontologica tra il rapporto di lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato esclude che il dipendente assunto a tempo determinato abbia titolo a fruire dell'aspettativa (...), considerato che il collocamento in aspettativa si porrebbe in conflitto insanabile con la prefissione di un termine, che è elemento essenziale del rapporto, giacché la sospensione dell'efficacia verrebbe ad incidere, prorogandola, sulla durata originariamente programmata in ragione di esigenze temporanee' [3].
Non si ritiene possibile, dunque, affidare l'incarico in argomento a un dirigente a tempo determinato ex art. 110 del TUEL
[4].
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[1] La formulazione dell'art. 18 prevede peraltro il collocamento obbligatorio e non facoltativo.
[2] Cfr. sez. giurisd. per la Regione Puglia, sentenza n. 414/2015.
[3] Cfr. Cass. civ., sez. I, sentenza n. 5162 del 2012.
[4] Si consideri inoltre che il medesimo dirigente a tempo determinato potrebbe, se dipendente o dirigente di ruolo a tempo indeterminato, essere già stato collocato in aspettativa proprio per assumere tale incarico
(12.09.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

TRIBUTI: Applicazione imposta comunale pubblicità ONLUS.
Il D.Lgs. n. 507/1993 disciplina, all'art. 5, il presupposto dell'imposta sulla pubblicità, nonché, agli artt. 16 e 17, le ipotesi di riduzione ed esenzione di tale tributo con particolare riferimento, tra gli altri, agli organismi che non perseguono finalità di lucro (tali sono le ONLUS).
In particolare, ai sensi dell'art. 5, D.Lgs. n. 507/1993, presupposto di applicazione dell'imposta sulla pubblicità è la diffusione di messaggi pubblicitari (comma 1): ai fini dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato (comma 2).
Ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997, gli enti locali possono prevedere in generale per le ONLUS l'esenzione dalla suddetta imposta sulla pubblicità.

Il Comune riferisce di aver ricevuto richiesta di esenzione permanente dal pagamento dell'imposta di pubblicità da parte di una associazione locale di donatori di sangue, di cui ha verificato la natura di ONLUS, e chiede se, avuto riguardo alle previsioni del D.Lgs. n. 460/1997 e a quelle del proprio regolamento in materia di pubblicità e pubbliche affissioni
[1], possa essere disposta la riduzione o l'esenzione permanente dal tributo.
Si precisa che l'attività di consulenza di questo Servizio è finalizzata a fornire un supporto giuridico in generale agli enti locali, nella materia posta, che questi possono utilizzare per la soluzione dei casi concreti che si presentano al loro operare, in relazione alle loro specificità. In particolare, l'interpretazione e applicazione di norme regolamentari emanate dai comuni, nell'esercizio della loro potestà normativa, compete unicamente agli enti medesimi. Per cui, solo in via collaborativa, si esprimono le considerazioni che seguono.
L'art. 10, D.Lgs. n. 460/1997, precisa che sono organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica, ove ricorrano i presupposti e le condizioni fissati dalla norma medesima.
Ai soggetti che, ai sensi dell'art. 10 richiamato, possono qualificarsi ONLUS, il legislatore ha riconosciuto particolari agevolazioni, soprattutto di carattere fiscale, subordinati alla necessaria iscrizione all'Anagrafe delle ONLUS (art. 11, D.Lgs. n. 460/1997).
Specificamente, in materia di tributi locali, l'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997, prevede che i comuni, possono deliberare nei confronti delle ONLUS la riduzione o l'esenzione dal pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi adempimenti
[2].
Per quanto concerne specificamente l'applicazione dell'imposta comunale sulla pubblicità ai soggetti ONLUS, il regolamento dell'Ente in materia di imposta di pubblicità e pubbliche affissioni, nello stralcio riportato nel quesito, relativo alla riduzione e all'esenzione dall'imposta, prevede, tra i casi di riduzione, quello 'per la pubblicità effettuata da comitati, associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non abbia finalità di lucro'
[3], quali le ONLUS. Mentre, per quanto concerne l'esenzione, il regolamento comunale, così come riportato nel quesito, non sembra contemplare alcune ipotesi di esenzione per gli enti senza fini di lucro.
Sul piano dell'ordinamento statale, il D.Lgs. n. 507/1993 disciplina, agli artt. 16 e 17, le ipotesi, rispettivamente, di riduzione e di esenzione dell'imposta di pubblicità. La riduzione è prevista, tra l'altro, 'per la pubblicità effettuata da comitati, associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non abbia finalità di lucro' (art. 16). Può trattarsi, invero, della pubblicità mediante insegne, cartelli, locandine, targhe (Pubblicità ordinaria, di cui all'art. 12), oppure della pubblicità a mezzo striscioni (come riferito nel caso in esame), contemplata all'art. 15 (Pubblicità varia), assoggettata alla stessa tariffa prevista dall'art. 12.
Per quanto concerne, invece, le ipotesi di esenzione dall'imposta di cui si tratta, il D.Lgs. n. 507/1993 indica, con riferimento ai soggetti non aventi finalità di lucro, quella specifica per 'le insegne, le targhe e simili apposte per l'individuazione delle sedi di comitati, associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non persegua scopo di lucro' (art. 17, comma 1, lett. h).
In generale, emerge dalle norme richiamate come i soggetti non aventi fine di lucro possono essere destinatari della riduzione o dell'esenzione dall'imposta di pubblicità. La ricorrenza dei presupposti dell'una o dell'altra fattispecie deve essere valutata dagli enti in relazione alle particolarità dei casi concreti.
Con particolare riferimento al caso di specie, l'Ente osserva, peraltro, che sugli striscioni esposti dall'associazione locale (ONLUS) 'non viene pubblicizzata alcuna attività economica né evento di raccolta fondi'. Ne deriva la necessità che l'Ente valuti innanzitutto la ricorrenza del presupposto di applicazione dell'imposta di pubblicità, che, avuto riguardo al dettato normativo come esplicitato dalla giurisprudenza, sembra poggiare sulla natura economica dell'attività pubblicizzata. Ai sensi dell'art. 5, D.Lgs. n. 507/1993, infatti, presupposto dell'imposta sulla pubblicità è 'la diffusione di messaggi pubblicitari' (comma 1), e ai fini dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato (comma 2)
[4]. La valutazione di un tanto, nel caso specifico, è rimessa all'autonomia dell'Ente.
Rimane ferma, ovviamente, la possibilità per l'Ente di prevedere in generale l'esenzione per le ONLUS espressamente del tributo locale di cui si tratta, in via regolamentare, ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997.
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[1] Ai sensi dell'art. 3, D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), il comune è tenuto ad adottare apposito regolamento per l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità e per l'effettuazione del servizio delle pubbliche affissioni.
[2] La norma è espressione della potestà regolamentare generale degli enti locali di cui all'art. 52 del D.Lgs. n. 446/1997, che riconosce ai Comuni e alle Province il potere di disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche tributarie, salvo per quanto attiene alla individuazione e alla definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e della aliquota massima dei singoli tributi, la cui determinazione è riservata alla legge. Per quanto non regolamentato si applicano le disposizioni di legge vigenti.
[3] Analogamente prevede la normativa statale, come specificato subito nel prosieguo.
[4] Precisa la giurisprudenza che presupposto impositivo è la 'pubblicità (economica)' attinente all'attività economica di un soggetto imprenditoriale, distinta dalla legge nelle due specie della 'propaganda (economica)', che consiste nella trasmissione di conoscenza di prodotti e servizi dell'impresa al fine di incrementarne la domanda, e dell''attività di relazioni pubbliche', che consiste nella trasmissione di conoscenza sul soggetto imprenditoriale allo scopo di migliorarne l'immagine presso il pubblico dei consumatori, che domandano i beni e i servizi di quell'impresa. La prima è una pubblicità (economica) diretta (dei beni e dei servizi); la seconda è una pubblicità (economica) indiretta (degli stessi beni e degli stessi servizi). Cfr. Cass. civ., Sez. V, 06.11.2009, n. 23573.
Conformi sul collegamento dei messaggi pubblicitari all'esercizio di un'attività economica: Cass. civ., sez. trib., 11.02.2015, n. 2629; Commissione tributaria provinciale, Ascoli Piceno, sez. V, 21.09.2010, n. 219, che ha escluso la sussistenza del presupposto impositivo nel caso di esposizione di uno striscione senza alcun collegamento con un'attività imprenditoriale.
In ordine al concetto di impresa, la Cassazione civile, sez. trib., 16.07.2010, n. 16722, richiama la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, nell'ambito del diritto alla concorrenza, secondo cui la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un'attività economica (Corte di giustizia UE, sez. VI, 23.04.1991, n. 41 e 11.12.1997, n. 55), e costituisce un'attività economica qualsiasi attività consistente nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato (Corte di giustizia UE, sez. V, 18.06.1998, n. 35).
In questo senso, v.: Cass. civ., sez. I, 28.11.1995, n. 12319, secondo cui il messaggio pubblicitario, per essere soggetto all'imposta in esame, deve avere il suo punto di riferimento nella produzione o vendita di merci o nella fornitura di servizi, e ciò anche se si ritiene non essenziale che tale attività sia posta in essere da un soggetto organizzato ad impresa; Cass. civ., sez. V, 27.06.2005, n. 13823, che ha ritenuto che le scritte sulle fiancate delle navi recanti il nome e il logo della compagnia navale non devono essere assoggettate all'imposta sulla pubblicità, in quanto sprovviste dello scopo di promuovere la domanda di beni e di servizi per la società di appartenenza e di pubblicità, ma hanno lo scopo di indirizzare i passeggeri che hanno già acquistato il biglietto verso la nave su cui imbarcarsi
(06.09.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di schema di regolamento redatto dall’Anac per il rilascio dei pareri di precontenzioso ai sensi dell’art. 211, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
1. L’oggetto
Il regolamento in oggetto costituisce attuazione dell’art. 211 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante il nuovo Codice dei contratti pubblici, il quale stabilisce che: “Su iniziativa della stazione appaltante o di una o più delle altre parti, l’ANAC esprime parere relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta. Il parere obbliga le parti che vi abbiano preventivamente consentito ad attenersi a quanto in esso stabilito. Il parere vincolante è impugnabile innanzi ai competenti organi della giustizia amministrativa ai sensi dell’articolo 120 del codice del processo amministrativo. In caso di rigetto del ricorso contro il parere vincolante, il giudice valuta il comportamento della parte ricorrente ai sensi e per gli effetti dell’articolo 26 del codice del processo amministrativo.”
Il provvedimento sostituisce i regolamenti già approvati ai sensi dell’art. 6, comma 6, lett. n), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recante il vecchio Codice dei contratti pubblici, secondo cui l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture –poi assorbita dall’ANAC– “su iniziativa della stazione appaltante e di una o più delle altre parti, esprime parere non vincolante relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, eventualmente formulando una ipotesi di soluzione; si applica l’articolo 1, comma 67, terzo periodo, della legge 23.12.2005, n. 266”.
La principale novità introdotta dal regolamento in esame risiede nella possibilità per le parti interessate di manifestare la volontà di uniformarsi al parere, con la conseguenza di renderlo vincolante, attraverso un duplice alternativo meccanismo:
- su istanza singola, qualora le altre parti esprimano il loro consenso entro dieci giorni dalla comunicazione dell’istanza;
- su istanza congiunta, nella quale sia stata espressa la volontà di attenersi al parere.
L’istruttoria dell’istanza è caratterizzata dalla massima celerità e dal metodo scritto, affinché la procedura possa concludersi entro trenta giorni dalla sua presentazione.
2. Le questioni generali
Molteplici e delicate, anche sul piano squisitamente teorico, le questioni affrontate dal Consiglio di Stato.
   a) Il rapporto tra primo e secondo comma dell’art. 211 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Il comma 2 attribuisce all’ANAC un potere di invito nei confronti delle stazioni appaltanti ad agire in autotutela. Il potere di raccomandazione così introdotto è presidiato da una sanzione pecuniaria nei confronti del dirigente responsabile e dalla previsione della sua incidenza sulla reputazione delle stazioni appaltanti. Il rapporto naturale tra parere e raccomandazione è di alternatività, in guisa da dar luogo ad un sistema di tutela pre-processuale completo, attivabile su iniziativa di parte, o, in mancanza, d’ufficio.
Tuttavia è possibile che le due procedure si intreccino, come si evince dallo stesso regolamento, che sancisce l’inammissibilità delle istanze di precontenzioso interferenti con esposti di vigilanza e procedimenti sanzionatori in corso di istruttoria presso l’Autorità. Né può escludersi che l’ANAC usi il potere di raccomandazione a seguito del precontenzioso.
Il Consiglio di Stato, pertanto, ha ravvisato la necessità di una disciplina di regolamentazione della fattispecie, che delimiti i presupposti di esercizio del potere e individui le procedure su cui intervenire, anche alla luce del considerando n. 122 della direttiva UE 24/2014.
   b) Il fondamento del potere regolamentare dell’ANAC, in assenza di un’espressa previsione di legge.
Dopo un excursus di carattere generale sul potere regolamentare delle Autorità Indipendenti, in cui si sottolinea l’importanza della fase istruttoria e, in particolare, dell’intervento consultivo del Consiglio di Stato, la Commissione ha affrontato il problema dell’inquadramento del regolamento in esame, riconducendolo alla categoria dei regolamenti di organizzazione, essendo principalmente volto a disciplinare lo svolgimento della funzione precontenziosa definita dalla fonte primaria.
Ciò implica, da un lato, che non occorre evocare la teoria dei poteri impliciti per ravvisare una base legale al potere regolamentare esercitato, la teoria dei poteri impliciti per ravvisare una base legale al potere regolamentare esercitato, esso trovando fondamento nel potere di auto-organizzazione dell’ANAC, dall’altro, che il regolamento incontra dei limiti legati alla sua incidenza sulle posizioni giuridiche degli interessati.
Tuttavia, deve essere attentamente considerato il carattere necessariamente subordinato della fonte regolamentare in esame e la sua possibile incidenza sul diritto di difesa delle parti che intendono attivare lo strumento di tutela.
   c) La distinzione dalle linee guida.
Dopo aver richiamato le considerazioni già svolte in precedenti pareri sulla natura delle linee-guida, la Commissione ne evidenzia la tipica efficacia “esterna”, come si conviene ad uno strumento di soft law, la cui origine è nella comunità degli affari –cosmopolita e in perenne movimento, bisognosa di regole transnazionali che siano dotate al tempo stesso di flessibilità e effettività, sovente originate dalle stesse pratiche commerciali che intendono regolare– e promana da fonti (gli usi non normativi, i codici di condotta, l’interpretazione e le clausole generali, i principi, la lex mercatoria, le regolamentazioni delle Associazioni di categoria, etc.) che trovano fondamento nell’effetto pratico che le relative disposizioni producono sui destinatari.
Per contro, il regolamento dell’ANAC resta ancorato al sistema delle fonti di matrice kelseniana, costruito come un’architettura geometrica, sulla base del valore formale dell’atto, ed ha la funzione di dettare norme di azione per la Pubblica Amministrazione, non già regole di condotta per gli operatori.
   d) La natura giuridica del precontenzioso.
Dopo aver agevolmente ricondotto il parere non vincolante alla moral suasion, con un quid pluris che lo avvicina ai responsa di romanistica memoria, la Commissione ha affrontato la complessa questione della qualificazione dogmatica del parere vincolante, o, più precisamente, della procedura da cui esita, inquadrandolo nelle ADR (Alternative Dispute Resolution), sia pure con indiscutibili tratti di specialità, poiché la procedura riposa sulla volontà delle parti, in base a un sistema binario, a seconda che vi sia o meno l’assenso all’efficacia vincolante del parere, e sfocia in un atto amministrativo che, quando ha efficacia vincolante, può essere impugnato in sede giurisdizionale.
Su tale profilo, il problema della giustificazione teorica dell’istituto all’interno del sistema amministrativo –dove vige il principio di indisponibilità dell’interesse legittimo e il conseguente divieto di arbitrato– si incrocia con quello del modello ad efficacia soggettiva variabile scelto dal regolamento, ed ancor prima dalla legge, per cui il parere è vincolante solo nei confronti delle parti che hanno aderito alla procedura.
La Commissione ha osservato che l’ancoraggio della vincolatività del parere al consenso delle parti è necessario se si vuole mantenere la distanza dai mezzi processuali, essendo la caratteristica principale delle tecniche di risoluzione alternativa delle controversie.
È ben vero che le ADR attengono a diritti disponibili, ma tale principio appare insuperabile solo nell’ambito dei mezzi non aggiudicativi, come la mediazione o la negoziazione assistita, che hanno una connotazione marcatamente privatistica, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale.
Nell’ipotesi in esame, invece, la procedura è svolta e decisa da un organo pubblico, che appartiene al novero delle Autorità indipendenti di settore, come AGCM, cui sono riconosciute funzioni non lontane dalla giurisdizione. Il pericolo, allora, è proprio quello di una processualizzazione dell’istituto, contraria alla sua ratio, che la Commissione suggerisce di evitare indicando una serie di specifici correttivi.
   e) Le residue criticità
La Commissione individua quattro aree di criticità della procedura costruita dal regolamento, in larga misura dipendenti dal modello previsto dalla fonte primaria.
In primo luogo, una volta sancita l’impugnabilità del parere, non sembra più necessario subordinare l’efficacia vincolante al previo consenso delle parti. Nell’ordinamento, quando è previsto il ricorso (facoltativo) ad Autorità indipendenti, l’efficacia vincolante della decisione non è subordinata al previo consenso delle parti (si pensi al ricorso al difensore civico o alla commissione per l’accesso), ma tale soluzione non è perseguibile de iure condito.
In secondo luogo, l’efficacia soggettiva variabile compromette, se non l’effetto di deflazione, la linearità del sistema. Si pensi al caso della stazione appaltante che, sottoposta all’efficacia vincolante del parere, decida di adeguarsi ad esso. La parte che non è sottoposta alla forza vincolante del parere potrà limitarsi a dedurne l’inefficacia nei suoi confronti, con la conseguenza che –se sfavorevole– non sarà tenuta per tutelarsi a impugnarlo o a partecipare al giudizio da altri instaurato. Tuttavia, resterà pur sempre pregiudicata dal provvedimento adottato sulla base di tale parere, ragion per cui dovrà impugnarlo, ciò dando luogo a un problematico rapporto tra i due giudizi.
In terzo luogo, il parallelismo con l’arbitrato evidenzia un’aporia nella natura consensuale del meccanismo: in ambito civilistico, la struttura contrattuale del compromesso e dalla clausola compromissoria fa sì che non è revocabile l’assenso; nell’istituto in esame, invece, il carattere unilaterale del vincolo fa pensare alla possibilità di un ripensamento della parte stessa.
In quarto luogo, si pone il problema di individuare la disciplina applicabile al procedimento (termini, rapporti con la tutela giurisdizionale, inammissibilità e improcedibilità, revocazione, etc.) laddove non espressamente prevista.
Su questi punti occorre un espresso intervento normativo, anche in via legislativa.
3. Le questioni particolari
Diversi rilievi sono stati formulati al fine di migliorare la procedura e garantire le parti interessate alla decisione, per cui si dà conto dei più importanti.
In primo luogo è stato chiarito l’ambito di applicazione dell’istituto, che riguarda “questioni” e non “controversie” e si estende anche oltre la stipulazione del contratto, sempre che abbia ad oggetto situazioni relative alla procedura di gara, poiché in tal senso milita la lettera della legge e non può escludersi l’utilità di una soluzione precontenziosa anche in una fase avanzata dell’appalto.
In secondo luogo si è suggerito di precisare che l’istanza di parere precontenzioso, salva l’ipotesi in cui sia stata proposta contestualmente da tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, venga comunicata a “tutti i soggetti interessati alla soluzione della questione oggetto della medesima”, dovendosi intendere nell’ampia dizione di “interessati” anche quelli che nel processo amministrativo sarebbero controinteressati, coerentemente al significato che detto termine ha negli articoli in esame, allorquando si usa l’espressione “parti interessate” per designare tutti coloro la cui posizioni giuridiche sono toccate dal parere.
Tale soluzione è apparsa preferibile, oltre che per ragioni di coerenza sistematica, anche sul piano strettamente lessicale: il termine controinteressato assume una diversa valenza secondo che si riferisca al procedimento o al processo, poiché nel primo il controinteressato è colui che è, senza essere destinatario dell’atto, può riceverne pregiudizio (cfr. art. 7 della legge n. 241 del 1990) e perciò è legittimato ad impugnare il provvedimento finale, nel secondo il controinteressato è colui che vanta un interesse uguale e contrario a quello del ricorrente, quindi nella posizione di resistere al ricorso. Impiegare il termine “controinteressato” nel contesto della procedura di precontenzioso, dunque, darebbe adito a dubbi interpretativi.
In terzo luogo è apparso opportuno ripristinare l’audizione delle parti dinanzi all’Autorità, almeno per le controversie di maggior rilievo, collocandola dopo la scadenza del termine per prestare l’eventuale assenso al parere. La brevità del termine per concludere il procedimento non costituisce un impedimento assoluto, sol che si abbia l’accortezza di prevedere modalità di convocazione rapide, ad esempio in forma telematica, e un contraddittorio orale semplificato e senza formalità.
In quarto luogo è stata suggerita l’eliminazione della disposizione relativa al riesame del parere vincolante, foriera di ulteriori complicazioni, nell’ipotesi –piuttosto probabile– di un’interferenza tra il procedimento di riesame e il processo, attesa l’impugnabilità dei pareri vincolanti dinanzi al giudice amministrativo.
Da ultimo, è stata integralmente riformulata la disposizione relativa agli effetti del parere. La Commissione ha distinto tre ipotesi.
La prima è l’obbligo di comunicazione all’ANAC della stazione appaltante che abbia manifestato la volontà di attenersi al parere, avente ad oggetto la eventuale proposizione di ricorso giurisdizionale avverso il parere ovvero le determinazioni adottate al fine di adeguarsi al parere stesso.
La seconda è l’obbligo di comunicazione all’ANAC delle parti diverse dalla stazione appaltante che abbiano manifestato la volontà di attenersi al parere, avente ad oggetto la eventuale proposizione di ricorso giurisdizionale avverso il parere ovvero l’avvenuta acquiescenza al parere.
La terza è l’obbligo di comunicazione all’ANAC delle parti che non hanno manifestato la volontà di attenersi al parere, avente ad oggetto le proprie determinazioni conseguenti al parere (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 14.09.2016 n. 1920 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle Linee guida relative a "Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni aggiudicatrici".
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle Linee guida relative a “Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni aggiudicatrici
1. Oggetto.
Il parere è stato reso dal Consiglio di Stato sulle linee guida che l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) ha adottato, ai sensi degli artt. 77 e 78, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
Si tratta delle regole operative che devono essere seguite nella composizione delle commissioni giudicatrici e nella gestione da parte dell’ANAC dell’Albo dei componenti la commissione.
Il suddetto d.lgs. n. 50 del 2016, si sottolinea nel parere, ha optato per un sistema di preferenza per i commissari esterni rispetto a quelli interni alla stazione appaltante, al fine di garantire una maggiore attuazione dei principi di imparzialità e trasparenza.
L’Autorità ha scisso in due diversi momenti temporali l’adozione delle prescrizioni attuative del Codice. Il Consiglio di Stato ha auspicato che il secondo provvedimento di completamento delle presenti linee guida venga adottato in tempi celeri per consentire l’entrata in vigore del nuovo sistema di composizione delle commissioni.
2. Questioni generali.
Nel parere sono state analizzate le seguenti questioni di valenza generale.
2.1. Natura delle «determinazioni» dell’ANAC.
La prima questione trattata ha riguardato la natura delle linee guida.
La Commissione speciale ha rilevato che esse, integrando il precetto primario, hanno natura di linee guida vincolanti. Ne consegue che si è in presenza di atti amministrativi generali appartenenti al genus degli atti di regolazione delle Autorità amministrative indipendenti, sia pure connotati in modo peculiare.
2.2. La obbligatorietà dell’iscrizione nell’Albo.
La seconda questione ha riguardato la portata dell’obbligo di iscrizione nell’Albo.
Il Consiglio di Stato ha condiviso l’impostazione delle linee guida che, a fronte di un dato normativo non del tutto chiaro, hanno imposto l’obbligo di iscrizione nel predetto Albo non soltanto per i commissari esterni ma anche per quelli interni alla stazione appaltante.
2.3. Modalità di nomina e regole di attività e responsabilità.
La terza questione esaminata ha avuto ad oggetto il sistema di responsabilità delle stazioni appaltanti. La Commissione speciale ha messo in rilievo che la natura esterna del commissari non impedisce il funzionamento del sistema di imputazione dell’attività alla stazione appaltante, con la conseguente assenza, a seguito della riforma, di un rischio di “deresponsabilizzazione” dell’amministrazione aggiudicatrice.
3. Questioni specifiche.
3.1. Campo di applicazione.
Si è chiarito che l’obbligo della previa iscrizione all’Albo gestito dall’ANAC, ai fini della nomina nelle commissioni giudicatrici per i concorsi di progettazione, operi soltanto in presenza di amministrazioni aggiudicatrici e non anche, nei settori speciali, in presenza di enti aggiudicatori.
3.2. Composizione dell’Albo e modalità di nomina dei commissari “esterni” ed “interni”.
In relazione a questa tematica la Commissione speciale ha affermato quanto segue.
   A) La previsione normativa, ripresa dalle linee guida, che consente la nomina di commissari interni in presenza di appalti di «particolare complessità» deve essere interpretata in modo rigoroso, per evitare una possibile elusione dei principi di garanzia sottesi alla preferenza legislativa per i commissari esterni. La Commissione speciale ha, pertanto, richiesto all’ANAC di compiere una elencazione puntuale delle fattispecie che potrebbero rientrare nell’ambito della suddetta eccezione.
   B) La parte delle linee guida che prevedono che, nel caso in cui ricorrono i presupposti per la nomina di una commissione interna, il Presidente della commissione deve essere scelta tra soggetti “esterni” alla commissione, deve essere espunta dal testo perché si pone in contrasto con l’art. 77 del d.lgs. n. 50 del 2006, che non contempla tale obbligo.
3.3. Adempimenti delle stazioni appaltanti e funzionalità delle commissioni giudicatrice.
In relazione a questa tematica la Commissione speciale ha affermato quanto segue.
   A) Le linee guida -nel disporre che la stazione appaltante possa prevedere ulteriori adempimenti rispetto alla valutazione delle offerte tecniche ed economiche, tra i quali la «valutazione della congruità delle offerte tecniche, svolta in collaborazione con il responsabile del procedimento»- assegnano alla commissione funzioni non autorizzate dalla legge.
   B) Le linee guida -nella parte in cui dispongono che «La nomina di commissari interni può essere effettuata solo quando nell’Albo vi siano un numero di esperti della stazione appaltante sufficiente a consentire il rispetto dei principi di indeterminatezza del nominativo dei commissari di gara prima della presentazione delle offerte e della rotazione delle nomine»- hanno introdotto un presupposto non contemplato dalla normativa primaria.
   C) La nomina di “tutti” commissari, compresi quelli “interni”, deve avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte.
   D) E’ necessario integrare le linee guida al fine di chiarire in quali casi le sedute devono essere pubbliche e in quali riservate, con ulteriori prescrizioni esecutive, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 12 del decreto-legge 07.05.2012, n. 52, convertito in legge 06.07.2012, n. 94.
   E) E’ opportuni integrare le linee guida, da un lato, mediante l’indicazione delle modalità di nomina di eventuali “sostituti” se uno o più dei candidati designati dall’ANAC abbia un impedimento soggettivo ovvero versi in una situazione ostativa, dall’altro, mediante la previsione dell’obbligo, per le stazioni appaltanti, di comunicare il compenso dei singoli commissari e il costo complessivo, sostenuto dall’amministrazione, connesso alla procedura di nomina.
4. Comprovata esperienza e professionalità.
In relazione a questa tematica la Commissione speciale ha affermato quanto segue.
   A) Ai fini della identificazione della categoria dei “dipendenti pubblici” che possono essere nominati nella commissione, non si deve avere riguardo alle amministrazioni di cui all’art. 1, della legge 31.12.2009, n. 196 ma all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generale sull’ordinamento del lavoro alle dipendente delle amministrazioni pubbliche).
   B) E’ necessario chiarire a favore di quale soggetto operi (stazione appaltante o terzi) l’obbligo previsto dalle linee guida, per i commissari nominati, di possedere “una copertura assicurativa obbligatoria”.
   C) Occorre che le linee guida contengano requisiti omogenei, in ordine all’assenza di sanzioni disciplinari, per tutti i soggetti che possono essere nominati nelle commissioni giudicatrici.
   D) E’ necessario chiarire come debbano essere considerati i requisiti di nomina posseduti nell’ambito di una categoria nel caso di passaggio dell’esperto in categoria di soggetti inclusi tra quelli suscettibili di nomina,
   E) Nell’elenco degli affidamenti da considerarsi «particolarmente complessi» devono essere inseriti anche i lavori relativi al settore ambientale, con particolare riferimento, ad esempio, alle attività di bonifica di siti inquinati ovvero a quella di gestione di rifiuti soprattutto quelli pericolosi.
3.4. Requisiti di moralità e compatibilità.
In relazione a questa tematica la Commissione speciale ha affermato quanto segue.
   A) Sarebbe opportuno che le linee guida considerino ostative alla nomina dei commissari tutte le condanne per reati di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016, anche al fine di creare una sorta di “simmetria escludente” tra requisiti dei partecipanti e dei giudicanti.
3.5. Modalità di iscrizione e di aggiornamento dell’Albo.
In relazione a quest’ultima tematica la Commissione speciale ha rilevato che l’ANAC deve procedere a verifica sui requisiti di iscrizione nel momento in cui il soggetto viene indicato nella lista di candidati fornita alla stazione appaltante (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 14.09.2016 n. 1919 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle Linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC.) in materia di procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria.
Le Linee guida su cui il Consiglio di Stato è stato chiamato a fornire un parere facoltativo, elaborate dall’Autorità in attuazione di quanto disposto dall’art. 36, comma 7, del nuovo Codice dei contratti pubblici, intendono fornire indicazioni, indicare le “migliori pratiche” e stabilire, dunque, modalità di dettaglio per supportare le stazioni appaltanti e migliorare la qualità delle procedure in un settore di mercato, come quello degli appalti pubblici sotto-soglia, di assoluto rilievo -anche in termini percentuali- nel mondo produttivo nazionale.
Le Linee guida dell’ANAC seguono la forma discorsiva e la natura non vincolante giustifica, in questo caso, un minore rigore nell’enucleazione dell’indirizzo impartito all’amministrazione. Il Consiglio, tuttavia, ha segnalato come opportunamente, anche in questo caso, si sia optato per una modalità di adozione preceduta dalla consultazione dei soggetti interessati, per quanto la natura flessibile della regolazione avrebbe potuto giustificare un’adozione unilaterale. Il confronto dialettico con i possibili destinatari degli atti di indirizzo, infatti, deve essere considerato con favore, consentendo di migliorare la qualità della regolazione stessa ed il raggiungimento degli scopi prefissati di efficienza ed efficacia.
Ad avviso del Consiglio, l’Autorità, nell’operare le scelte di fondo, si è impegnata significativamente, ed efficacemente, nella non facile opera di bilanciamento tra l’esigenza di semplificazione e razionalizzazione della disciplina, in un settore che per tradizione gode di una procedura “alleggerita”, e la necessità di osservare, in ogni caso, i principi generalissimi che regolano l’affidamento e l’esecuzione degli appalti pubblici, in termini di trasparenza, pubblicità, proporzionalità, concorrenza, non discriminazione e maggiore apertura al mercato possibile, senza aggravare, però, gli operatori economici di inutili oneri aggiuntivi.
In un mercato sempre più rilevante in termini percentuali come quello del “sotto-soglia”, l’introduzione a carico delle stazioni appaltanti di pregnanti vincoli di motivazione, anche aggiuntivi rispetto a quanto previsto dalla legge -che il Consiglio ha chiesto di dedicare maggiormente, nel dettaglio, alle concrete procedure di affidamento e di selezione dell’affidatario e più sinteticamente alla scelta, a monte, della procedura da seguire- risponde ad una logica volta a privilegiare anche in questo caso, se possibile, le procedure ordinarie, che maggiori garanzie danno, evidentemente, sotto i profili della correttezza dei comportamenti e dell’anticorruzione.
La motivazione aggiuntiva imposta è opportuna, poiché la stazione appaltante rende esplicite e verificabili (anche dal giudice) percorsi decisionali che, data la frequenza del sistema di offerte sotto soglia, resterebbero altrimenti opachi e talora influenzabili da fenomeni corruttivi.
Nel contempo, il Consiglio ha chiesto che venga confinata all’eccezionalità la possibilità di riaffidare in via diretta l’appalto allo stesso operatore economico uscente, ad esempio a fronte di riscontrata effettiva assenza di alternative, non potendosi tralasciare il doveroso rispetto, tra gli altri, del principio di rotazione, sancito specificamente dalla legge, e considerando che, assai spesso, è proprio negli affidamenti di importo non elevato all’operatore uscente che il fenomeno corruttivo si annida nella sua dimensione meno facilmente accertabile.
Da notare, infine, che le indicazioni di carattere procedurale attinenti all’obbligo di motivazione, alla predisposizione della determina a contrarre, alla stipulazione del contratto, sono state opportunamente differenziate dall’Autorità in ragione dell’oggetto e del valore dell’affidamento (Coniglio di Stato, Commissione speciale, parere 13.09.2016 n. 1903 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
In sostanza le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

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Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni; in sostanza le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (in termini, ex multis, Consiglio di Stato sez. IV 14.05.2015 n. 2453) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.09.2016 n. 4191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: VAS, escludibile una piccola area purché non superi il 5% della zona di competenza.
Secondo l'Avvocato generale della Corte Ue, non è compatibile con la Direttiva VAS la norma che rimanda soltanto alla superficie indicata nel piano per la definizione di piani e programmi che «determinano l’uso di piccole aree a livello locale».
Un piano o programma non determina più, ai sensi della direttiva VAS, l’uso di una piccola area qualora la zona interessata superi il parametro di riferimento del 5% della superficie relativa alla zona di competenza delle singole amministrazioni locali.
È quanto si legge nelle conclusioni 08.09.2016 causa C-444/15 dell'Avvocato generale della Corte di giustizia europea nella, avente ad oggetto una controversia su un intervento edilizio nella laguna di Venezia.
Pur essendo stata svolta una valutazione dell’incidenza conformemente alla direttiva Habitat, le autorità italiane stabilivano, nel quadro di un esame preliminare, l’assenza di necessità di una valutazione ambientale strategica a norma della direttiva 2001/42/CE in materia di VAS (Valutazione ambientale strategica), dal momento che il sito interessato riguardava solamente una piccola area a livello locale e l’intervento non avrebbe avuto possibili effetti significativi sull’ambiente. In un caso siffatto, la direttiva VAS non prevede l’obbligo di realizzare una valutazione ambientale strategica.
Italia Nostra ha affermato che il fatto che l’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva VAS preveda l’esenzione da una valutazione ambientale strategica per piani e programmi che formano già oggetto di una valutazione dell’incidenza a norma della direttiva Habitat, non corrisponde al livello di tutela garantito.
L'Avvocato generale ha evidenziato che la qualifica di un piano o programma come misura atta a determinare l’uso di una piccola area a livello locale è soggetta a due condizioni: da un lato, l’uso di una piccola area e, dall’altro, la determinazione a livello locale.
 Una norma, la quale per la definizione di piani e programmi che «determinano l’uso di piccole aree a livello locale», rimandi soltanto alla superficie indicata nel piano, non risulta compatibile con l’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva VAS. Poiché la misura controversa nel procedimento principale era stata emessa dalla città di Venezia, non si deve però escludere che si tratti di una misura a livello locale.
Il criterio per stabilire l’estensione dell’area può essere esclusivamente costituito dalla superficie della zona diretta interessata dal piano, a prescindere dagli effetti del progetto sull’ambiente. Si pone quindi la questione fino a quale estensione territoriale determinate aree debbano essere intese come «piccole». Il legislatore dell’Unione si è astenuto dal fissare una soglia specifica, compito che rientra nel potere discrezionale degli Stati membri. Detto potere è limitato soltanto dal confine estremo di ciò che, secondo una prospettiva di vita naturale, può essere ancora definita come «piccola» area.
Secondo l'Avvocato generale, quale parametro di riferimento è possibile considerare sostanzialmente tre aree: l’intero territorio dell’Unione, cosicché si possa determinare una «piccola» superficie specifica, valida per tutti gli Stati membri; la superficie dei singoli Stati membri e, infine, la superficie rientrante nella sfera di competenza delle singole amministrazioni locali.
In questo contesto emerge quale parametro di riferimento una superficie pari a una percentuale massima del 5% della zona di competenza delle singole amministrazioni locali come ciò che, secondo una prospettiva di vita naturale, può essere ancora intesa come «piccola» area. Tuttavia, nel caso di enti locali con estensione territoriale particolarmente grande, l’applicazione di questo parametro di riferimento non è di norma ammissibile.
In conclusione, per l'Avvocato generale l’applicazione dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42/CE presuppone, accanto all’uso di una piccola area, che il piano o il programma rientri nella sfera di competenza di un’autorità locale. Tale disposizione osta quindi a una norma che, nell’ambito della questione se un piano o un programma determini l’uso di una piccola area a livello locale, rimanda esclusivamente alla superficie della zona interessata dal piano.
Infine, un piano o programma non determina più, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42/CE, l’uso di una piccola area qualora la zona interessata superi il parametro di riferimento del 5% della superficie relativa alla zona di competenza delle singole amministrazioni locali (commento tratto da e link a www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Conclusione.
Suggerisco pertanto alla Corte di rispondere alla domanda di pronuncia pregiudiziale nei seguenti termini:
1) L’esame della prima questione non ha rivelato alcun elemento atto a porre in discussione la validità dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42/CE concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente.
2) L’applicazione dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42 presuppone, accanto all’uso di una piccola area, che il piano o il programma rientri nella sfera di competenza di un’autorità locale. Tale disposizione osta quindi a una norma che, nell’ambito della questione se un piano o un programma determini l’uso di una piccola area a livello locale, rimanda esclusivamente alla superficie della zona interessata dal piano.
3) Un piano o programma non determina più, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42, l’uso di una piccola area qualora la zona interessata superi il parametro di riferimento del 5 % della superficie relativa alla zona di competenza delle singole amministrazioni locali.

APPALTI: La Corte di Giustizia torna a pronunciarsi sul c.d. divieto di rinegoziazione dell’offerta.
La Corte di Giustizia torna a pronunciarsi sul c.d. divieto di rinegoziazione dell’offerta e ribadisce l’obbligo di gara in caso di modifiche sostanziali apportate al contenuto di un appalto pubblico, anche se a seguito di una transazione, facendo salva l’ipotesi in cui la possibilità di adeguamenti sostanziali, in presenza di appalti connotati da elementi peculiari ed aleatori, sia stata prevista in sede di gara e ne siano state predeterminate le modalità applicative.
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Corte di giustizia UE, Sez. VIII, sentenza 07.09.2016 n. C- 549/14.
Contratti pubblici – Appalto – Modifiche sostanziali successivamente all’aggiudicazione – Ammissibilità - Limiti.
L’art. 2 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, deve essere interpretato nel senso che, dopo l’aggiudicazione di un appalto pubblico, a tale appalto non può essere apportata una modifica sostanziale senza l’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione, anche qualora tale modifica costituisca, obiettivamente, una modalità di composizione transattiva comportante rinunce reciproche per entrambe le parti, allo scopo di porre fine a una controversia, dall’ esito incerto, sorta a causa delle difficoltà incontrate nell’esecuzione di tale appalto.
La situazione sarebbe diversa soltanto nel caso in cui i documenti relativi a detto appalto prevedessero la facoltà di adeguare talune sue condizioni, anche importanti, dopo la sua aggiudicazione e fissassero le modalità di applicazione di tale facoltà. (1)

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(1) Con la sentenza in epigrafe la Corte ribadisce un principio consolidato in tema di estensione dell’obbligo di gara conseguente al c.d. divieto di rinegoziazione dell’offerta.
In linea generale si torna ad evidenziare che non può essere apportata, in via di trattativa privata tra l’amministrazione aggiudicatrice e l’aggiudicatario, una modifica sostanziale di un appalto pubblico dopo la sua aggiudicazione; in tal caso infatti, deve darsi luogo ad una nuova procedura di aggiudicazione vertente sull’appalto così modificato.
Sul punto, merita un richiamo specifico la sentenza della Grande sezione della stessa Corte di giustizia 13.04.2010, C-91/08, Stadt Frankfurt am Main, in Foro amm. CDS, 2010, 4, 715.
Tale principio prevale anche nel caso in cui le prospettate modifiche derivino dalla volontà delle parti di trovare una composizione transattiva a fronte di difficoltà oggettive incontrate nell’esecuzione di detto appalto ovvero di controversia insorta successivamente.
Una possibile eccezione è stata individuata dalla Corte alla triplice condizione che:
   a) si verta in materia di appalti aventi oggetti particolari ed aleatori;
   b) la possibilità di modifica sostanziale sia stata prevista dalla legge di gara;
   c) sia rispettata la parità di trattamento fra imprese attraverso la predeterminazione delle modalità applicative di tali adeguamenti.
Sul punto meritano un richiamo, anche la fine di evidenziare la peculiarità della casistica forense, le sentenze della stessa Corte giust. UE, sez. IV, 07.06.2012, n. 615, Insinööritoimisto, in Foro amm. CDS, 2012, 6, 1464; sez. VI, 29.04.2004, n. 496, CAS Succhi Frutta, id., 2004, 985.
Sul divieto di rinegoziazione dell’offerta nella giurisprudenza nazionale v. Cass. civ., sez. I, 18.12.2003, n. 194333, in Cons. Stato, 2004, II, 819; Cons. St., sez. V, 09.10.2003, n. 6072, in Giust. amm., 2003, 1154; sez. V, 13.11.2002, n. 6281, in Urb. e app., 2003, 577; sez. VI, 16.11.2002, n. 6004, in Foro amm. CDS, 2002, 2945; Commiss. spec., 12.10.2001, n. 1084/00, in Urb. e app., 2002, 445 (commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa timbratura del cartellino marcatempo in entrata ed in uscita non corrispondente alla reale situazione di fatto costituisce certamente una modalità fraudolenta giacché la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza costituisce condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore l'amministrazione datore di lavoro circa la presenza effettiva sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili.
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Con l'ultimo motivo il ricorrente deduce violazione ed erronea applicazione dell'art. 55-quater del dlgs n. 165 del 2001 e dell'art. 8, comma 11, lett. a) e f), del CCNL del personale della dirigenza medica e veterinaria del 06.05.2010.
Prospetta il ricorrente che nessuna delle ipotesi contemplate dal richiamato art. 55-quater del dlgs n. 165 del 2001, a differenza di quanto affermato dalla Corte di Appello, è configurabile nella fattispecie e la denunciata normativa contrattuale presuppone l'intenzionalità del comportamento.
La censura è infondata.
L'art. 55-quater del dlgs n. 165 del 2001, per quello che interessa in questa sede, dispone che: "1. Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinar del licenziamento nei seguenti casi:a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia; b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione; omissis.".
Al riguardo va rilevato che, per quanto riguarda la timbratura del cartellino marcatempo, correttamente la Corte del merito ha ritenuto ricorrente nella specie l'ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente, considerato che la timbratura del cartellino marcatempo in entrata ed in uscita non corrispondente alla reale situazione di fatto costituisce certamente una modalità fraudolenta giacché la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza costituisce condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore l'amministrazione datore di lavoro circa la presenza effettiva sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili (Cass. pen. n. 8426 del 2014).
La rilevata estraneità del profilo della intenzionalità del comportamento rende non conferente la critica concernente la violazione della norma contrattuale collettiva (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 06.09.2016 n. 17637).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALISebbene l'art. 107 d.lgs. n. 267/2000 attribuisca l'attività di gestione ai dirigenti, compete al sindaco l'emanazione dell'ordinanza di rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, in virtù del carattere di specialità riconosciuto all'art. 192 d.lgs. n. 152/2006, da cui la stessa è disciplinata.
Altresì, nel caso di Unione di Comuni, deve ritenersi che i Sindaci mantengano le competenze loro attribuite dalla norma speciale, dal momento che dette Unioni operano l’unificazione a livello degli uffici ovvero degli organi di gestione amministrativa o tecnica-operativa, ma non determinano alcun trasferimento di poteri degli organi di indirizzo politico (v. art. 32 d.lgs. n. 267/2000).

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- Visto l'art. 192 del codice dell'ambiente, ove dispone che: "1. L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. E' altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate
”;
- Visto l’art. 107, comma 4, T.U. enti locali ove precisa che “le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”, ciò che è avvenuto a seguito dell’entrata in vigore del citato art. 192, c. 3;
- Atteso che, alla luce delle disposizioni sopra richiamate e conformemente alla giurisprudenza maggioritaria, condivisa dal Collegio, "sebbene l'art. 107 d.lgs. n. 267/2000 attribuisca l'attività di gestione ai dirigenti, compete al sindaco l'emanazione dell'ordinanza di rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, in virtù del carattere di specialità riconosciuto all'art. 192 d.lgs. n. 152/2006, da cui la stessa è disciplinata" (C.S., Sez. V, 29.08.2012, n. 4635; Sez. V, 12.06.2009, n. 3765; Sez. V, 10.03.2009, n. 1296, Sez. V 25.08.2008, n. 4061, TAR Lazio, Sez. II, 01.02.2013 n. 1142; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 17.09.2012 n. 1644; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.06.2011, n. 867; TAR Emilia Romagna-Bologna - Sez. II, 26.01.2011, n. 61; Consiglio Stato - Sez. V, 25.08.2008, n. 4061);
- Ritenuto, inoltre, che anche in caso di Unione di Comuni, deve ritenersi che i Sindaci mantengano le competenze loro attribuite dalla norma speciale, dal momento che dette Unioni operano l’unificazione a livello degli uffici ovvero degli organi di gestione amministrativa o tecnica-operativa, ma non determinano alcun trasferimento di poteri degli organi di indirizzo politico (v. art. 32 d.lgs. n. 267/2000);
- Considerando, pertanto, fondata l’assorbente censura di incompetenza con conseguente annullamento del provvedimento impugnato e rimessione all’organo competente per gli ulteriori provvedimenti (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 06.09.2016 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Terremoto, restauro parziale dell’edificio e responsabilità del direttore dei lavori.
In tema di responsabilità penale per violazione degli obblighi incombenti al progettista o al direttore dei lavori, l’obbligo di garanzia non può andare oltre l’oggetto del rapporto contrattuale, non potendo concernere opere che non siano investite dell’attività del progettista e/o direttore dei lavori.
Invero, ove si tratti di opere del tutto autonome rispetto ad altre già esistenti in situ o in via di realizzazione non può pretendersi dal tecnico delle prime che si faccia carico della conformità e più genericamente della sicurezza di opere rispetto alle quali non vi è norma di diritto privato o di diritto pubblico che gli riconosca un potere di intervento.

Con la sentenza 01.09.2016 n. 36285, la IV Sez. penale della Corte di Cassazione si è soffermata sulla responsabilità per i reati di omicidio colposo (art. 589 c.p.), lesioni colpose (art. 590 c.p.) e crollo di costruzioni colposo (art. 434, in relazione all’art. 449 c.p.) di un progettista e direttore dei lavori che aveva provveduto ad alcune opere di manutenzione straordinaria (incamiciatura di sei pilastri in calcestruzzo armato) nel 2002 in un condominio crollato in conseguenza del terremoto dell’Aquila del 2009.
In particolare, oltre al dato temporale intercorrente tra l’esecuzione dei lavori e il crollo dell’edificio, risulta di peculiare interesse la circostanza che i lavori commissionati all’imputato riguardassero esclusivamente delle opere autonome rispetto al complesso strutturale dello stabile.
La Cassazione, aderendo alla tesi della Corte d’Appello dell’Aquila, ha riconosciuto la posizione di garanzia del direttore dei lavori in quanto il suo intervento, pur essendo limitato e autonomo, aveva carattere strutturale «
sicché egli aveva l’obbligo giuridico di osservare la normativa antisismica all’epoca vigente, la quale implicava l’accertamento della consistenza dei pilastri sui quali eseguire l’intervento; dal che sarebbe derivata la conoscenza dei difetti strutturali che viziavano i sei pilastri».
Avendo poi il direttore dei lavori attestato la rispondenza delle opere alle norme edilizie, urbanistiche e di sicurezza vigenti, anche volendo considerare il suo intervento esclusivamente migliorativo, avrebbe dovuto comunque svolgere gli accertamenti di tipo statico che avrebbero evidenziato le bias dell’edificio e quindi segnalarle al committente, che avrebbe potuto predisporre un intervento di adeguamento del condominio, mettendolo in sicurezza da eventuali rischi sismici.
Tanto precisato e dopo aver rimarcato il profilo di responsabilità soggettiva, la Cassazione, in accoglimento del terzo motivo della difesa dell’imputato, ha annullato con rinvio la condanna della Corte di Appello, in quanto non sufficientemente motivato il nesso di causa tra i lavori svolti dal progettista e il crollo del condominio, verificatosi parecchi anni dopo.
Ad avviso degli Ermellini, difatti, a mero titolo di esempio, «
non è stato indagato quali fossero i rimedi concretamente adottabili, se essi fossero nella disponibilità del condominio, tanto per l’aspetto economico, che per quello dispositivo; se vi fosse una concreta possibilità di intervento dell’autorità pubblica, a fronte di una eventuale inattività dei condomini (…); quali fossero i tempi di adozione delle misure concretamente adottabili».
Non sono state, infine, vagliate o anche solo prese in considerazioni alternative ipotetiche ulteriori, quali la possibile persistenza dell’uso delle abitazioni pur in assenza di interventi di adeguamento sismico (commento tratto da www.giurisprudenzapenale.com).
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MASSIMA
4. Il ricorso è fondato, nei termini dì seguito precisati.
4.1. In ordine logico-giuridico si impone per prima la trattazione del tema relativo alla esistenza di una posizione di garanzia del Ci., nella qualità, posta in dubbio con il secondo motivo di ricorso.
La Corte di appello ha rammentato al riguardo due arresti giurisprudenziali (Cass. n. 34376/2005 e 18445/2008) che attengono alla posizione del direttore dei lavori, quale fu nella vicenda che occupa il Ci..
Con il primo si è affermato che,
in tema di costruzioni edilizie abusive, il direttore dei lavori ha una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione dei lavori, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale questi può andare esente soltanto ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in via obiettiva, ovvero non appena avuta conoscenza che le direttive impartite erano state disattese o violate (Sez. 3, n. 34376 del 10/05/2005 - dep. 27/09/2005, Scimone ed altri, Rv. 232475).
Con il secondo che
il direttore dei lavori è responsabile a titolo di colpa del crollo di costruzioni anche nell'ipotesi di sua assenza dal cantiere, dovendo egli esercitare un'oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni d'ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell'assuntore dei lavori, rinunciando all'incarico ricevuto (Sez. 4, n. 18445 del 21/02/2008 - dep. 08/05/2008, Strazzanti, Rv. 240157).
Occorre dare atto al ricorrente che
la puntualizzazione operata dalla corte distrettuale attraverso il richiamo giurisprudenziale è opportuna ma non sufficiente perché il tema è più esattamente quello della attribuzione al tecnico che venga chiamato ad occuparsi di lavori che incidono su una limitata porzione dell'edificio dell'obbligo di garantire non solo la corretta esecuzione dei lavori affidatagli, ma anche la complessiva sicurezza dell'edificio.
Non sembra seriamente discutibile che il progettista e direttore dei lavori sia tenuto a garantire che gli stessi siano eseguiti a regola d'arte: lo è sulla scorta del contratto che lo lega al committente, tanto che la giurisprudenza civile afferma in termini diversificati ma convergenti l'obbligo (in specie per il direttore dei lavori) di garantire che l'esecuzione dei lavori sia non solo conforme a quanto previsto dal capitolato ma anche alle regole della tecnica (Sez. 3, Sentenza n. 7370 del 13/04/2015, Rv. 635038; Sez. 2, Sentenza n. 10728 del 24/04/2008, Rv. 603056; argomenti si ricavano anche da Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 12995 del 31/05/2006, Rv. 591371, che ritiene sussistere, discendente dall'art. 1176 c.c., un obbligo di diligenza particolarmente rigoroso dell'appaltatore che sia anche progettista e direttore dei lavori, in forza del quale egli è tenuto, in presenza di situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, ad eseguire gli opportuni interventi per accertarne la causa ed apprestare i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi).
Al contempo, è palese che l'obbligo di garanzia non può andare oltre l'oggetto del rapporto contrattuale; e quindi non può concernere opere che non siano investite dell'attività del progettista e/o direttore dei lavori.

Ove si tratti di opere del tutto autonome rispetto ad altre già esistenti in situ o in via di realizzazione non può pretendersi dal tecnico delle prime che si faccia carico della conformità e più genericamente della sicurezza di opere rispetto alle quali non vi è norma di diritto privato o di diritto pubblico che gli riconosca un potere di intervento.
Si immagini il direttore dei lavori di una piscina che si debba realizzare su un fondo ove già insiste un'abitazione, senza che vi siano interferenze di sorta tra i due manufatti. Non può ritenersi che sia elevabile nei confronti di quel direttore dei lavori la pretesa -non si dice di intervenire ma- anche solo di segnalare difetti strutturali, pur evidenti, dell'abitazione; la posizione di garanzia, espressione parafrastica dell'obbligo giuridico di impedire l'evento menzionato dall'art. 40 cpv. cod. pen., va tenuta ben distinta dalla possibilità materiale di agire così come da un dovere morale.

Ma nella vicenda in esame la Corte di appello -ben diversamente da quanto assume il ricorrente- non ha posto a carico del Ci. l'obbligo di verificare la qualità statica dell'intero edificio o anche solo di tutti i pilastri che lo sostenevano. Piuttosto, come già il primo giudice, ha affermato che il tipo di intervento affidato alle cure del Ci. aveva carattere strutturale perché si trattava di lavori di incamiciatura di sei pilastri, con effetti sullo stato tensionale dei medesimi (oggetto dell'intervento a sue cure).
Sicché egli aveva l'obbligo giuridico di osservare la normativa antisismica all'epoca vigente, la quale implicava l'accertamento della consistenza dei pilastri sui quali eseguire l'intervento; dal che sarebbe derivata la conoscenza dei difetti strutturali che viziavano i sei pilastri.
Non si è affermato, quindi, un obbligo di intervento o di segnalazione di difetti che attenevano a ulteriori e differenti porzioni dell'edificio; ma di un obbligo delimitato all'opera affidata alle cure del Ci.. E occorre intendersi: non già di un obbligo di segnalazione ai committenti ma di un obbligo di ben eseguire il mandato conferito; il che avrebbe di per sé attivato una serie di effetti a cascata senza alcun ulteriore intervento del Ci., poiché -per dire della più evidente delle conseguenza- sarebbe stato compito del committente nominare il collaudatore e questi sarebbe stato tenuto a riportare al medesimo l'esito -che si può certamente ritenere negativo- del collaudo.
Ne consegue che la Corte di appello ha esattamente delimitato la posizione di garanzia assunta dal Ci. ed ha rimproverato a questi nulla più della violazione degli obblighi da quella posizione discendenti.
4.2. Quanto al primo motivo, esso pure è infondato.
La condotta colposa ascritta al Ci. è stata ben identificata dalla Corte distrettuale: egli non ha osservato le norme della legislazione antisismica, le quali hanno per l'appunto la funzione di rendere l'edificato in grado di resistere agli eventi tellurici caratteristici dell'area dell'insediamento (non a caso esisteva al tempo una classificazione della aree del territorio nazionale, distinte per grado di rischio sismico, con effetti diretti sulla tipologia costruttiva da adottare). Inoltre, egli ha attestato che le opere erano rispondenti alle norme edilizie, urbanistiche e di sicurezza vigenti.
Il ricorrente assume che, trattandosi di intervento migliorativo, secondo la definizione datane dal d.m. 16.01.1996, punto C.9.1.2., non erano applicabili le disposizioni che imponevano adempimenti concernenti la sicurezza statica. Ma l'accertamento condotto nei gradi di merito ha avuto un differente esito.
Come già il Tribunale, sulla scorta di una perizia che non è stata investita da alcuna censura, anche la Corte di appello ha affermato che
i lavori di incamiciatura dei sei pilastri -che contemplavano demolizioni di massetto fino alle fondazioni, realizzazione di fori passanti nel pilastro ogni 30-40 cm., realizzazione di fori profondi 15-20 cm. sulla fondazione, collegamento ad essa dei nuovi ferri del pilastro- ebbero carattere di opera di risanamento strutturale e funzionale, con implicazioni importanti di natura statica, interessando essi parti strutturali in cemento armato; sicché era prescritta la verifica prevista dagli articoli 4, 6 e 7 della legge n. 1086/1971, dalla legge n. 64/1974, dalla legge Regione Abruzzo n. 138/1996 e dal d.m. 16.01.1996.
Si tratta di un accertamento di merito che questa Corte non può mettere in discussione, atteso che esso risulta sostenuto da motivazione non manifestamente illogica e che non ne viene neppure posta in discussione la rispondenza alle emergenze processuali.
Peraltro, non è inutile rilevare che, anche qualora si fosse trattato di intervento di miglioramento, sul Ci. sarebbe gravato comunque l'obbligo di svolgere le indagini concernenti la sicurezza statica dei sei pilastri. Il punto C.9.2.2. del d.m. 16.01.1996 prevedeva, infatti, che "nel caso di interventi di miglioramento il progetto deve contenere la documentazione prescritta per gli interventi di adeguamento limitatamente alle opere interessate. Nella relazione tecnica deve essere dimostrato che gli interventi progettati non producano sostanziali modifiche nel comportamento strutturale globale dell' edificio".
E, per gli interventi di adeguamento, il punto C. 9.2.1. prescriveva che "gli interventi di adeguamento antisismico di un edificio devono essere eseguiti sulla base di un progetto esecutivo ... completo ed esauriente per planimetria, piante, sezioni, particolari esecutivi, relazione tecnica, relazione sulle fondazioni e fascicolo dei calcoli per la verifica sismica. In particolare la relazione tecnica deve riferirsi anche a quanto indicato nei successivi punti C.9.2.3. e C.9.2.4.". Disposizioni, queste ultime, che indicavano le operazioni e le scelte progettuali richieste in funzione della sicurezza statica dell'opera da realizzare.
Pertanto, la variazione degli adempimenti tra l'una e l'altra tipologia di intervento non era tanto di carattere qualitativo quanto di carattere quantitativo.
Ancora in relazione al contenuto della condotta colposa va osservato che le disposizioni appena evocate recano regole cautelari di tipo rigido; sicché il richiamo alla prevedibilità ed evitabilità di un evento quale quello verificatosi il 06.04.2009 a L'Aquila in chiave di definizione di una regola cautelare 'generica' appare non pertinente.
Va poi rilevato che l'asserita impossibilità di procedere alla verifica sismica dei pilastri per la indisponibilità dei dati, lungi dal costituire un fattore interpretabile a favore del ricorrente, rappresenta circostanza che avrebbe dovuto condurre ad una ancora maggior cura per gli aspetti concernenti la sicurezza statica.
Del tutto improprio è il richiamo al principio di affidamento, che qui si evoca a giustificazione delle omissioni dei Ci., poiché questi era tenuto ad eseguire gli adempimenti richiesti dalla normativa antisismica ex novo, per la natura dell'intervento affidato alle sue cure, come precisato al superiore punto 4.1. Quanto ai cenni alla causalità della colpa (ovvero la pretesa irrilevanza causale della condotta colposa ascritta al Ci.), essi manifestano come non sia stato colto che -ben diversamente da quanto affermato dal ricorrente- l'omissione colposa attribuita all'odierno imputato  -nei termini sin qui ribaditi e non in quelli rimarcati dall'esponente- è stata ritenuta causalmente efficiente.
4.3. Ma se non vi è alcun dubbio che sul Ci. gravava l'obbligo di eseguire gli adempimenti funzionali alla conformità alla normativa antisismica dell'opera alla quale attendeva, e che la colpa in senso oggettivo è stata ben definita, sicché la sentenza impugnata non risulta censurabile su tali versanti, parimenti non v'è dubbio che prima di concludere per la responsabilità dell'imputato in parola per l'evento verificatosi nove anni dopo occorre accertare l'esistenza della relazione causale tra questo e l'omissione accertata.
Rimarcato che non è in discussione la prevedibilità del sisma che si verificò il 06.04.2009 (la giurisprudenza di questa Corte è sul punto ben consolidata; da ultimo, Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015 - dep. 21/01/2016, P.C. in proc. Bearzi e altro, Rv. 265794), i principi in materia sono ormai talmente noti che è sufficiente rammentarli con una delle più recenti formulazioni, avendo questa Corte ribadito che
nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. 4, n. 22378 del 19/03/2015 - dep. 27/05/2015, Pg in proc. Volcan e altri, Rv. 263494; Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 - dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261103).
Sotto tale profilo la sentenza impugnata appare del tutto carente, limitandosi ad affermare che, accortosi dei deficit strutturali, il Ci. "sarebbe stato in grado di far presente al committente la situazione di pericolo in cui versavano tutti coloro che abitavano nel palazzo ..."; ed ancora che "l'imputato avrebbe potuto far presente al committente la necessità di un intervento generale sull'intera struttura portante dell'edificio e ciò avrebbe consentito di porre in essere gli opportuni rimedi per rendere l'edificio più solido, così evitandone il crollo".
Né la lacuna è colmata dalla decisione di primo grado, nella quale allo stesso modo non è descritta la sequenza che dall'omissione degli adempimenti connessi alla normativa antisismica avrebbe condotto, secondo quel criterio di alta probabilità logica del quale si è scritto, all'adeguamento statico o ad altra misura che, a sua volta, avrebbe avuto l'effetto di evitare gli eventi illeciti per cui è processo.
In tal modo l'accertamento del nesso causale viene risolto in un giudizio esclusivamente di tipo deduttivo, basato su massime di esperienza (non rese esplicite dalla corte territoriale, ma chiaramente identificabili dal lettore), che tradisce la struttura bifasica di quell'accertamento, poiché non vi è un solo dato processuale che venga richiamato a sostegno della deduzione. Eppure non si trattava di assumere misure di agevole reperimento ed adozione.
Ben si comprende, proprio perché la corte distrettuale ha fatto riferimento ad interventi sull'intero edificio, che sarebbe stato necessario un notevole impegno di spesa. A mero titolo di esempio si può rilevare che non è stato indagato quali fossero i rimedi concretamente adottabili, se essi fossero nella disponibilità del condominio tanto per l'aspetto economico che per quello dispositivo; se vi fosse la concreta possibilità di un intervento dell'autorità pubblica, a fronte di una eventuale inattività dei condomini, ciò nonostante permanenti nelle rispettive abitazioni (anche solo perché confidenti nelle abitudine autoprotettive che sono state in altro procedimento accertate: Cass. Sez. 4, sent. n. 12478 del 19-20.11.2015, P.G. in proc. Barberi ed altri, n.m.); quali fossero i tempi di attuazione delle misure concretamente adottabili.
Ben possibili, poi, alternative ipotetiche ulteriori (una delle quali si è già menzionata: la persistenza dell'uso delle abitazioni pur in assenza di interventi di adeguamento sismico), che aprono a percorsi ricostruttivi del nesso causale invero del tutto peculiari, quali la causalità psichica (a riguardo della quale, con precipua attinenza alla vicenda aquilana, la già citata decisione in causa P.G. c. Barberi ed altri).
E' quindi fondato il terzo motivo di ricorso e, risultando non conforme alla previsione di legge in tema di causalità nei reati omissivi impropri, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Perugia per nuovo esame. Alla medesima corte va demandata la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio.

EDILIZIA PRIVATAAi fini della decorrenza del temine per l’impugnativa di un permesso di costruire rilasciato a terzi, l’effettiva conoscenza dell’atto può dirsi conseguita quando la costruzione realizzata riveli in modo certo ed univoco le caratteristiche essenziali dell’opera e l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori bensì con il loro completamento, a meno che non si deduca l’inedificabilità assoluta dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulterebbe sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso.
Né la pubblicazione sull'albo pretorio determina la decorrenza del termine per impugnare, dovendosi in ogni caso avere riguardo al momento della piena ed effettiva conoscenza del provvedimento lesivo o al momento in cui le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche.

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... per l'annullamento del permesso di costruire n. 40 del 2015 del Comune di Maddaloni;
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FATTO
Le parti ricorrenti, comproprietarie di un edificio sito in Maddaloni, in via ... n. .., dove risiedono, hanno impugnato, con ricorso notificato il 06.11.2016, il Permesso di Costruire n. 40 del 18/05/2015, rilasciato su un lotto confinante a Ro. De Vi., per la ristrutturazione con ampliamento della parte residenziale del fabbricato, la realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica, l'abbassamento del solaio di copertura, la demolizione della copertura esistente, l'innalzamento delle pareti portanti, con previsione dell'utilizzo del cemento armato per le strutture di nuova edificazione.
...
DIRITTO
1) In via preliminare il Collegio rileva l’infondatezza dell’eccezione di tardività formulata dalla parte controinteressata.
L’eccezione in questione è basata sulla circostanza che il ricorso è stato notificato il 06.11.2016, mentre il permesso a costruire è stato rilasciato il 18.05.2015. La ricorrente sarebbe stata a conoscenza dell’inizio dei lavori sin dal maggio 2015.
Inoltre, il permesso di costruire è stato pubblicato sull'Albo pretorio del Comune di Maddaloni dalla data del 19.05.2015 alla data del 03.06.2015 con n. 758.
Nel motivare l’eccezione di tardività la parte controinteressata si richiama, altresì, al principio secondo cui in caso di inedificabilità assoluta, ovverosia qualora si assuma che l'attività edificatoria sia ex se lesiva e non realizzabile a prescindere dal quomodo, il termine per agire a tutela dell'interesse legittimo che si ritiene leso decorre dalla mera conoscenza dell'inizio dei lavori.
In tal caso, infatti, la lesività è immediatamente percepibile all'atto dell'inizio delle attività di cantiere.
Tale ipotesi, sempre per la parte controinteressata, si sarebbe verificata nel caso di specie, in quanto parte ricorrente, dopo aver negato l’applicabilità della legge sul piano casa, ha indicato gli interventi eseguiti come opere di nuova costruzione, mentre il piano di recupero del Comune di Maddaloni ammette in zona A solo interventi di manutenzione straordinaria. La lesione dell’interesse legittimo si sarebbe evidenziata sin dal momento dell’inizio dei lavori e l’azione di annullamento non sarebbe stata proposta tempestivamente.
Il Collegio rileva in proposito come l’onere della dimostrazione della sussistenza delle circostanze della tardività del ricorso è da ritenersi a carico di chi ha formulato la relativa eccezione e, nel caso specifico, del controinteressato.
Inoltre, ai fini della decorrenza del temine a quo per l’impugnativa di un permesso di costruire rilasciato a terzi, l’effettiva conoscenza dell’atto può dirsi conseguita quando la costruzione realizzata riveli in modo certo ed univoco le caratteristiche essenziali dell’opera e l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori bensì con il loro completamento, a meno che non si deduca l’inedificabilità assoluta dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulterebbe sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso (Cons. Stato, Sez. IV, 08.07.2002, n. 3805; Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
Nel caso di specie, peraltro, il controinteressato ha indicato genericamente nel ricorso il periodo di inizio lavori, identificato nel maggio del 2015 (salvo poi specificare che la comunicazione di inizio lavori sarebbe stata inviata il 18.05.2015), ma non ha dato nessun ragguaglio, né tantomeno alcun elemento dimostrativo, in ordine alla fine degli stessi o al momento del raggiungimento di un grado di sviluppo degli stessi tale da evidenziare la lesione dell’interesse del ricorrente.
La medesima parte controinteressata ha fatto solo riferimento all’intervenuto rilascio del permesso di costruire datato 18.05.2015, indicando successivamente che tale data è coincisa con quella di comunicazione di avvio dei lavori, ma non ha allegato alcun elemento da cui poter dedurre la data di loro conclusione o altra circostanza da cui far decorrere in termine a quo per l’impugnativa del permesso di costruire.
Non risulta, infatti, dagli atti che, in una data antecedente ai sessanta giorni dalla notifica del ricorso, parte ricorrente avesse avuto piena conoscenza del permesso di costruire con la consapevolezza del contenuto specifico di essa o del progetto edilizio ovvero che la costruzione realizzata fosse terminata o, comunque, avesse raggiunto un grado di sviluppo tale da rivelare in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e la eventuale non conformità della stessa alla disciplina urbanistica.
Né la pubblicazione sull'albo pretorio determina la decorrenza del termine per impugnare, dovendosi in ogni caso avere riguardo al momento della piena ed effettiva conoscenza del provvedimento lesivo o al momento in cui le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche (Cons. Stato Sez. IV, 18.06.2009, n. 4015; TAR Lazio Latina Sez. I, 09.01.2013, n. 21; TAR Veneto Venezia Sez. II, 19.05.2011, n. 845; TAR Abruzzo Pescara Sez. I, 28.07.2010, n. 938)
Priva di pregio è anche l’indicata deduzione secondo cui, avendo il ricorso ad oggetto censure di inedificabilità, già l’inizio delle opere era momento idoneo a fungere da termine a quo per l’impugnativa.
Il Collegio rileva, in proposito, come le censure formulate da parte ricorrente non riguardano profili di inedificabilità assoluta, in quanto nelle stesse non viene sostenuto che sull’area fosse preclusa ogni tipo di edificazione, ma attengono solo alla violazione di specifici parametri dettati dagli strumenti urbanistici e all’inapplicabilità delle legge sul piano casa.
In particolare, infatti, le stesse si incentrano sulla circostanza che sarebbero stati effettuati interventi qualificabili come nuova costruzione, in una zona che consentiva solo opere di manutenzione straordinaria.
Le censure sollevate non sono, quindi, legate all’inedificabilità assoluta dell’area ma solo alla circostanza, non rilevabile ab initio, che gli interventi posti in essere non corrispondessero ai parametri posti dallo strumento urbanistico vigente, rispetto alla tipologia di interventi realizzabili.
Il decorso del termine a quo per il rilievo di tale vizio presuppone, quindi, al pari del rilievo delle altre difformità dagli strumenti urbanistici, che i lavori fossero terminati o quanto meno pervenuti ad un grado di avanzamento tale da rivelarne l’incompatibilità con la disciplina di piano.
Il ricorso, inoltre, formula anche censure relative alla violazione dei parametri urbanistici, come la violazione dei limiti di altezza e distanze anch’essi non rilevabili al momento dell’inizio lavori.
L’eccezione di tardività va, quindi, rigettata.
In difetto della dimostrazione, da parte della controinteressata che ha eccepito la tardività del ricorso, della data in cui i lavori hanno raggiunto un grado di sviluppo tale da rendere percepibile la lesione, si deve ritenere che il termine per impugnare decorra dalla data di fine lavori; data che non è stata dedotta e, comunque, che non rientra nella prospettazione dell’eccezione di tardività (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.08.2016 n. 4092 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIDal geometra i mini-interventi. All'ingegnere i calcoli sul cemento armato della casa. Progetti antisismici in aree a rischio: il Tar Campania sulle competenze professionali.
Anche il geometra può firmare la ristrutturazione della casa in zona sismica. Ma a condizione che i calcoli su cemento armato siano eseguiti da un ingegnere e che comunque l'opera da realizzare per l'abitazione risulti comunque di dimensioni modeste.

È quanto emerge dalla sentenza 23.08.2016 n. 4092, pubblicata dal TAR Campania-Napoli - Sez. VIII, che aderisce all'orientamento di giurisprudenza secondo cui in tali casi è ben possibile dividere in due la progettazione lasciando le strutture portanti al professionista abilitato e le opere di tamponamento al geometra.
Forma e sostanza. Nel caso di specie, il ricorso proposto dal vicino contro il permesso di costruire è accolto, ma per motivi inerenti le distanze fra edifici e l'indice volumetrico e non sulla titolarità a firmare il progetto.
In effetti l'ingegnere ha depositato al genio civile gli elaborati relativi alle strutture in cemento armato nell'ambito di una ristrutturazione che prevede l'ampliamento della parte abitata del fabbricato e l'innalzamento delle pareti portanti.
Per i giudici, tuttavia, non è necessario ricorre a un'interpretazione molto formale delle norme: quando nei fatti l'opera è di dimensioni ridotte si possono separare le due fasi con l'ingegnere che si assume la responsabilità dei calcoli per i quali non è autorizzato il geometra, al quale resta una progettazione di natura sostanzialmente architettonica, perché si risolve in opere di tamponamento interno ed esterno, un'attività che spesso è svolta dai tecnici specializzati nei soli componenti d'arredo.
Il fatto che i lavori si svolgano in zona sismica impone solo un particolare rigore nella verifica della modestia dell'opera.
Estetica e struttura. Sul riparto delle competenze fra professionisti per gli interventi post-terremoto è intervenuta la giurisprudenza amministrativa formatasi dopo il sisma in Emilia del 29.05.2012.
Lo studio di ingegneria, ad esempio, ben può aggiudicarsi i lavori di risanamento anche se l'immobile che desta preoccupazioni al Comune padano dopo la forte scossa tellurica è un edificio di interesse storico-artistico.
Inutile per i concorrenti rivendicare la competenza esclusiva degli architetti quando i lavori oggetto della procedura pubblica sono interventi di risanamento che non incidono sui profili estetici del fabbricato vincolato.
È quanto emerge dalla sentenza 36/2016, pubblicata dalla prima sezione del Tar Bologna. Deve rassegnarsi, l'architetto rimasto escluso dai lavori: stavolta non conta che l'ingegnere non abbia lo stesso senso estetico nella progettazione perché l'intervento che l'amministrazione intende far realizzare punta al mero ripristino strutturale della porzione delle strutture lesionate dal sisma; insomma: si deve procedere ad attività di riparazione con rafforzamento locale, tanto che le relative prestazioni da erogare restano inquadrate nella sfera del risanamento e della salvaguardia dell'immobile danneggiato.
Si tratta di intervenire sulla struttura dell'edificio per ripararla e consolidarla: si rientra quindi nelle opere di edilizia civile riconducibili alla «parte tecnica» di cui all'articolo 52, comma 2, del regio decreto 2537/1925, nella lettura ampia che ne ha dato la giurisprudenza, comprendendo tutte le lavorazioni che non incidono sui profili estetici e di rilievo culturale degli edifici vincolati.
Obbligo di comunicazione. Sulle sanzioni penali previste per l'inosservanza della legislazione antisismica è intervenuta la Cassazione poche ore dopo la terribile scossa che ha distrutto Amatrice, Accumoli, Arquata e gli altri Comuni al confine tra Lazio, Marche e Umbria.
Il progettista e direttore dei lavori va condannato insieme al titolare della ditta edile perché hanno costruito in zona a rischio terremoto senza l'autorizzazione dell'ufficio tecnico della regione. È quanto emerge dalla sentenza 35491/2016, pubblicata il 26 agosto dalla terza sezione penale della Cassazione.
Non conta che l'opera realizzata scaturisca da un appalto pubblico e il committente risulta il Comune: un altro dei profili illeciti sanzionati è proprio il mancato deposito del progetto presso lo sportello unico dell'edilizia dell'ente locale, che pure ha approvato i lavori con delibera.
Il punto è che gli articoli 93-95 del testo unico dell'edilizia puntano proprio a scoraggiare la realizzazione sul territorio di manufatti non conformi alle norme tecniche. E ciò anche se la legge regionale stabilisce che a essere obbligato alla denuncia è l'amministrazione committente: l'ente territoriale, infatti, esercita in via solo concorrente il potere legislativo sul governo del territorio, mentre la materia della staticità degli edifici in zona sismica resta di esclusiva competenza statale (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2016 - tratto d www.centrostudicni.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla possibilità di “scindere” la progettazione e affidare la parte relativa alle strutture di cemento armato a un ingegnere abilitato e limitare in capo al geometra quella relativa alle altre parti, sempre nei limiti delle costruzioni per civile abitazione di modeste dimensioni.
La competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato.
Solo in via di eccezione, la competenza in ordine alla progettazione da parte dei geometri si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è, comunque, esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è, pertanto, riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali.
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V
i sono diversi orientamenti sulla possibilità di “scindere” la progettazione e affidare la parte relativa alle strutture di cemento armato a un ingegnere abilitato e limitare in capo al geometra quella relativa alle altre parti, sempre nei limiti delle costruzioni per civile abitazione di modeste dimensioni.
Un parte della giurisprudenza ritiene che, ai fini dell’incompetenza del geometra ad assumersi la progettazione, è irrilevante che l'incarico sia stato conferito per le parti in cemento armato a un geometra a un ingegnere o architetto, in quanto non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato.
Non sarebbe, infatti, possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali opere, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, poiché chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto.
Secondo altro orientamento giurisprudenziale, che il Collegio ritiene preferibile, sarebbe, invece, possibile scindere le due parti della progettazione, essendo consentito al geometra assumersi la progettazioni di modeste civili costruzioni, qualora la parte progettuale relativa alle strutture di cemento armato sia affidata a un ingegnere o architetto abilitato.
In sostanza, secondo questo orientamento, la presenza di un ingegnere progettista delle opere strutturali assorbe per intero quella parte che poteva esorbitare dalla competenza professionale del geometra.
Secondo quest‘ultimo orientamento giurisprudenziale, infatti, è possibile, sulla base di comuni esperienze di fatto, scindere dette attività progettuali, poiché definita l'ossatura (o, meglio, la struttura portante di un edificio, dimensionata per reggere tutte le sollecitazioni, statiche e dinamiche, verticali e orizzontali, cui esso è o potrebbe essere sottoposto) da parte del tecnico a ciò abilitato, l'ulteriore attività progettuale si risolve nella definizione di elementi di chiusura della stessa, mediante opere di tamponamento interno ed esterno di natura essenzialmente architettonica; opere volte a delimitare gli spazi in cui si svolge l'attività umana e che non richiedono il possesso di specifiche competenze strutturali (attività che, spesso, viene svolta dai tecnici specializzati nei soli componenti d'arredo).
In sostanza, per tale indirizzo, in caso di complessiva modestia dell'opera, la circostanza che comunque i calcoli relativi alle opere in cemento armato siano stati curati da un professionista abilitato consente di considerare legittimo il titolo abilitativo rilasciato su progetto redatto da un geometra.
Il Collegio rileva, in proposito, come questo orientamento meriti condivisione, tenendo presenti alcuni aspetti espressi dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato nel parere del 04.09.2015, n. 7477.
In base al principio generale della collaborazione tra titolari di diverse competenze professionali, infatti, nulla impedisce che la progettazione e direzione dei lavori relativi alle opere in cemento armato sia affidata al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta” costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra.
Non si tratta, tuttavia, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato, deve essere competente a progettare e ad assumersi la responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato, nel senso che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità.

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La circostanza che l’opera insista in zona sismica non è sufficiente a escludere, di per sé, che la costruzione civile possa ritenersi “modesta”, ai fini della competenza del geometra alla sua progettazione, anche per le parti non interessate dalle strutture di cemento armato.
Tale interpretazione, difatti, seppure ha trovato conferma in un risalente precedente, appare troppo formalistica e non suffragata da specifici elementi normativi.
Si deve, infatti, ritenere che, in caso di zona interessata dal rischio sismico, il requisito della “modestia” della costruzione civile debba essere valutato con maggiore rigore ma non escluso automaticamente.
In sostanza, quindi, per gli interventi comportanti l’uso del cemento armato, il grado di pericolo sismico della zona su cui insiste la costruzione deve portare a una valutazione di maggior rigore anche per quanto riguarda la competenza del progettista dell’intervento relativo a “modeste” costruzioni civili, nel senso appunto che la progettazione, esecuzione e direzione dei lavori delle opere statiche dovrà essere demandata alla responsabilità di un professionista titolare di specifiche competenze tecniche all’effettuazione dei calcoli necessari ed alla valutazione delle spinte, controspinte e sollecitazioni, cui può essere sottoposta la costruzione.
Ciò non esclude che, nel caso di specie, considerata la tipologia e l’entità dell’intervento, quest’ultimo possa considerarsi relativo a una modesta costruzione civile, ai fini delle competenze nella progettazione, e che il progetto redatto sia conforme alla normativa vigente, essendo stata demandata a un ingegnere la parte relativa alle strutture in cemento armato.
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... per l'annullamento del permesso di costruire n. 40 del 2015 del Comune di Maddaloni;
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FATTO
Le parti ricorrenti, comproprietarie di un edificio sito in Maddaloni, in via ... n. .., dove risiedono, hanno impugnato, con ricorso notificato il 06.11.2016, il Permesso di Costruire n. 40 del 18/05/2015, rilasciato su un lotto confinante a Ro. De Vi., per la ristrutturazione con ampliamento della parte residenziale del fabbricato, la realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica, l'abbassamento del solaio di copertura, la demolizione della copertura esistente, l'innalzamento delle pareti portanti, con previsione dell'utilizzo del cemento armato per le strutture di nuova edificazione.
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DIRITTO
3) Quanto al primo motivo di ricorso, le parti ricorrenti sostengono che la progettazione dell’intervento è stata effettuata da un geometra, ancorché le opere assentite prevedano la ristrutturazione con ampliamento della parte residenziale del fabbricato, la realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica, l'abbassamento del solaio di copertura, la demolizione della copertura esistente, l'innalzamento delle pareti portanti, con utilizzo del cemento armato per tutte le strutture di nuova edificazione.
La progettazione di costruzioni civili, con strutture in cemento armato, esulerebbe dalla competenza dei geometri, trattandosi dì attività riservata ai soli ingegneri e architetti, tanto più che l’immobile si trova in zona a rischio sismico.
Replica il controinteressato che il motivo risulterebbe infondato alla luce della circostanza che la figura professionale del geometra è abilitata alla progettazione architettonica di modeste abitazioni civili, come quella in questione, e che, nel caso di specie, la parte relativa ai calcoli strutturali del cemento armato è stata curata da un ingegnere, mentre il geometra si è limitato alla progettazione delle restanti parti architettoniche.
In particolare, la parte relativa ai calcoli strutturali del cemento armato è stata curata dall’Ing. Pe., mentre il geom. Pa. si è occupato esclusivamente della progettazione architettonica.
Il motivo è infondato.
A norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274 e dalle l. 05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974 n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949 n. 144 (recante la tariffa professionale), la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato.
Solo in via di eccezione, la competenza in ordine alla progettazione da parte dei geometri si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è, comunque, esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è, pertanto, riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali (Cons. Stato Sez. V, 23.02.2015, n. 883; Cons. Stato Sez. V, 28.04.2011, n. 2537; Cass. civ. Sez. II, 24.03.2016, n. 5871; Cass. civ., sez. II, 02.09.2011, n. 18038; Cass. 26.07.2006, n. 17028).
Quanto indicato appare pacifico in giurisprudenza, mentre vi sono diversi orientamenti sulla possibilità di “scindere” la progettazione e affidare la parte relativa alle strutture di cemento armato a un ingegnere abilitato e limitare in capo al geometra quella relativa alle altre parti, sempre nei limiti delle costruzioni per civile abitazione di modeste dimensioni.
Un parte della giurisprudenza ritiene che, ai fini dell’incompetenza del geometra ad assumersi la progettazione, è irrilevante che l'incarico sia stato conferito per le parti in cemento armato a un geometra a un ingegnere o architetto, in quanto non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato.
Non sarebbe, infatti, possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali opere, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, poiché chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto (Cons. Stato Sez. V, 28.04.2011, n. 2537).
Secondo altro orientamento giurisprudenziale, che il Collegio ritiene preferibile, sarebbe, invece, possibile scindere le due parti della progettazione, essendo consentito al geometra assumersi la progettazioni di modeste civili costruzioni, qualora la parte progettuale relativa alle strutture di cemento armato sia affidata a un ingegnere o architetto abilitato.
In sostanza, secondo questo orientamento, la presenza di un ingegnere progettista delle opere strutturali assorbe per intero quella parte che poteva esorbitare dalla competenza professionale del geometra (TAR Marche Ancona Sez. I, 11/07/2013, n. 559, 13.03.2008 n. 194 e 23.11.2001 n. 1220).
Secondo quest‘ultimo orientamento giurisprudenziale, infatti, è possibile, sulla base di comuni esperienze di fatto, scindere dette attività progettuali, poiché definita l'ossatura (o, meglio, la struttura portante di un edificio, dimensionata per reggere tutte le sollecitazioni, statiche e dinamiche, verticali e orizzontali, cui esso è o potrebbe essere sottoposto) da parte del tecnico a ciò abilitato, l'ulteriore attività progettuale si risolve nella definizione di elementi di chiusura della stessa, mediante opere di tamponamento interno ed esterno di natura essenzialmente architettonica; opere volte a delimitare gli spazi in cui si svolge l'attività umana e che non richiedono il possesso di specifiche competenze strutturali (attività che, spesso, viene svolta dai tecnici specializzati nei soli componenti d'arredo).
In sostanza, per tale indirizzo, in caso di complessiva modestia dell'opera, la circostanza che comunque i calcoli relativi alle opere in cemento armato siano stati curati da un professionista abilitato consente di considerare legittimo il titolo abilitativo rilasciato su progetto redatto da un geometra (Cons. Stato Sez. IV, 28.11.2012, n. 6036).
Il Collegio rileva, in proposito, come questo orientamento meriti condivisione, tenendo presenti alcuni aspetti espressi dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato nel parere del 04.09.2015, n. 7477.
In base al principio generale della collaborazione tra titolari di diverse competenze professionali, infatti, nulla impedisce che la progettazione e direzione dei lavori relativi alle opere in cemento armato sia affidata al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta” costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra.
Non si tratta, tuttavia, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato, deve essere competente a progettare e ad assumersi la responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato, nel senso che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità.
Nel caso di specie un ingegnere (l’Ing. Pe.) ha provveduto all’effettuazione dei calcoli strutturali per le strutture in cemento armato, depositando i relativi elaborati progettuali presso il Genio Civile.
Si può pertanto ritenere che lo stesso abbia redatto il segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato, assumendosene la responsabilità.
Né la circostanza che l’opera insista in zona sismica è sufficiente a escludere, di per sé, che la costruzione civile possa ritenersi “modesta”, ai fini della competenza del geometra alla sua progettazione, anche per le parti non interessate dalle strutture di cemento armato.
Tale interpretazione, difatti, seppure ha trovato conferma in un risalente precedente (Cons. Stato, 08.06.1998, n. 779), appare troppo formalistica e non suffragata da specifici elementi normativi.
Si deve, infatti, ritenere che, in caso di zona interessata dal rischio sismico, il requisito della “modestia” della costruzione civile debba essere valutato con maggiore rigore ma non escluso automaticamente.
In sostanza, quindi, per gli interventi comportanti l’uso del cemento armato, il grado di pericolo sismico della zona su cui insiste la costruzione deve portare a una valutazione di maggior rigore anche per quanto riguarda la competenza del progettista dell’intervento relativo a “modeste” costruzioni civili, nel senso appunto che la progettazione, esecuzione e direzione dei lavori delle opere statiche dovrà essere demandata alla responsabilità di un professionista titolare di specifiche competenze tecniche all’effettuazione dei calcoli necessari ed alla valutazione delle spinte, controspinte e sollecitazioni, cui può essere sottoposta la costruzione.
Ciò non esclude che, nel caso di specie, considerata la tipologia e l’entità dell’intervento, quest’ultimo possa considerarsi relativo a una modesta costruzione civile, ai fini delle competenze nella progettazione, e che il progetto redatto sia conforme alla normativa vigente, essendo stata demandata a un ingegnere la parte relativa alle strutture in cemento armato.
Il motivo di ricorso deve, quindi essere rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.08.2016 n. 4092 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIPorto d'armi delicato. Ampia discrezionalità alla p.a..
L'Amministrazione nell'esercizio dei poteri connessi alla disciplina della detenzione e del porto della armi gode di un'ampia discrezionalità giustificata dalla delicatezza degli interessi pubblici coinvolti.

A rimarcarlo sono stati i giudici della I Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con sentenza 19.08.2016 n. 793.
I giudici hanno altresì osservato che è noto, per pacifica giurisprudenza, che l'autorità amministrativa non debba attendere l'esito delle vicende penali in cui sia coinvolto il titolare di un'autorizzazione per adottare eventuali provvedimenti di revoca, potendo autonomamente valutare alcuni fatti noti ai fini del giudizio sulla persistente affidabilità dell'autorizzato.
E quindi, secondo il Tar, «la latitudine di tale discrezionalità non può, però, trasmodare nell'esercizio dei poteri di revoca ogni qual volta l'autorizzato venga denunciato, ma è necessario valutare le condotte poste in essere e che hanno dato luogo alla segnalazione all'Autorità giudiziaria per verificare se esse incidano con un giudizio ovviamente prognostico sul requisito dell'affidabilità per prevenire possibili abusi commessi grazie alla disponibilità di armi».
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici bolognesi vedeva la querela della moglie di Tizio per una condotta molesta di controllo delle attività svolte dalla moglie finalizzata a poter provare che la donna stava svolgendo dei lavori onde poter richiedere una diminuzione dell'assegno di mantenimento.
Non vi era, però, alcuna prova di condotte violente e l'unico elemento valorizzabile nella prospettiva della revoca sarebbe un'affermazione della moglie peraltro non desunta dalla querela circa generiche minacce di lesioni per lei e per il suo avvocato in caso di insistenza nella richiesta di assegno di mantenimento.
Inoltre i carabinieri avrebbero raccolto le confidenze di un vicino di casa circa il carattere scontroso e aggressivo di Tizio.
Tizio impugnava il provvedimento di revoca della licenza di porto d'armi ad uso caccia che era stata disposta nei suoi confronti a seguito di questa denuncia querela. Secondo il Tar non è sufficiente la mera presentazione di una querela nell'ambito di un contenzioso matrimoniale, nel quale spesso il ricorso all'Autorità giudiziaria ha carattere strumentale, per far venir meno tale affidabilità soprattutto se il contenuto della querela non evidenzia comportamenti violenti (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2016).

VARICommissione solo al completo. Bocciatura all'orale nulla se manca un componente. ESAME AVVOCATO/ Sentenza del tribunale amministrativo regionale del Molise.
All'esame per l'abilitazione forense la commissione deve essere al completo, infatti se manca un magistrato membro della commissione, l'eventuale bocciatura all'orale di un candidato sarà nulla.
È quanto evidenziato dai giudici della I Sez. del TAR Molise con la sentenza 17.08.2016 n. 335.
Con ricorso Tizio impugnava il provvedimento con il quale era stato ritenuto, all'esito della prova orale, non idoneo all'esercizio della professione di avvocato, chiedendone l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia.
Tizio contestava la violazione dei criteri di composizione della commissione, ritenendo che in base alla nuova disciplina introdotta dalla legge n. 247/2012 tutte le componenti previste all'art. 47 (avvocati, magistrati e professori universitari) dovrebbero essere presenti in ogni momento dello svolgimento dei lavori, essendo venuta meno la previsione di cui all'art. 22, c. 5, del rd n. 1578/1933 secondo cui i membri supplenti potevano supplire qualunque membro effettivo assente, a prescindere dalla categoria di appartenenza.
Nella fattispecie tale criterio non sarebbe stato rispettato perché alla sessione per l'esame dello svolgimento degli orali non era presente nessun magistrato.
A parere dei giudici amministrativi è opportuno distinguere tra le previsioni della nuova disciplina dell'ordinamento forense che riguardano le modalità di svolgimento delle prove da quelle che attengono ai criteri di composizione della commissione.
La distinzione rileva perché la disciplina transitoria, che prevede un rinvio di quattro anni dell'entrata in vigore delle disposizioni sugli esami di avvocato, non riguarda le disposizioni concernenti la composizione della commissione, riferendosi solo alle prescrizioni relative alle «prove scritte» e alle «prove orali» oltre che alle «modalità di esame».
Per i giudici molisani a favore della tesi dell'immediata applicabilità della nuova disciplina in tema di composizione delle commissioni deponeva inoltre la circostanza che l'amministrazione ha provveduto alla nomina della sottocommissione nella composizione prevista dalla nuova disciplina (tre avvocati, un magistrato e un professore o ricercatore universitario), anziché in quella prevista dalla disciplina previgente (si veda: Tar Lombardia, sez. III, 11.04.2016, n. 692).
La legge 247/2012, hanno osservato poi i giudici del Tar, non riproduce la norma, contenuta nel previgente art. 22, comma 5, del rd 27.11.1933, n. 1578, recante Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore, in base alla quale: «I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo», su cui si fondava lo stabile orientamento giurisprudenziale, formatosi nel vigore delle previgenti disposizioni legislative, secondo cui i componenti delle commissioni giudicatrici degli esami di abilitazione all'esercizio della professione forense sono fra loro pienamente fungibili (ex plurimis, Cons. stato, sez. IV, 17.09.2004, n. 6155).
Pertanto proprio la mancata riproduzione costituisce un forte indizio della necessaria presenza nelle singole sedute della commissione di esame delle tre diverse realtà del mondo giuridico (forense, magistratuale e accademica) nelle proporzioni stabilite dalla legge, «sul presupposto che gli esponenti di ciascuna delle tre predette categorie sia portatrice di sensibilità giuridiche connotate da diversi accenti e sfumature, che verosimilmente condurrà l'esponente di ciascuna professionalità a valorizzare, in sede di correzione degli elaborati, differenti aspetti delle prove di esame, cosicché l'alterazione del peso delle componenti interne alla commissione potrebbe determinare un diverso esito dell'esame» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2016).

EDILIZIA PRIVATAPer effetto della dequotazione introdotta dall’articolo 21-octies della legge n. 241 del 1990, nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell'avvio dell'iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato.
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2.c – Va condiviso quanto affermato sul punto dal giudice di primo grado.
A tale riguardo, il Collegio si richiama a quanto più volte rilevato da questo Consiglio di Stato (cfr., per tutte, Cons. Stato, IV, 26.09.2008, n. 4659; Id., IV, 04.02.2013, n. 666; Id., IV, 25.06.2013, n. 3471) secondo cui –per effetto della dequotazione introdotta dall’articolo 21-octies della medesima legge n. 241 del 1990- nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell'avvio dell'iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento (Cons. Stato, IV, 17.02.2014, n. 734), specie quando, come nella vicenda in esame, emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato (cfr., altresì, ex multis, Cons. Stato, VI, 23.10.2015, n. 4880) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.08.2016 n. 3620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pavimentazione di un'area già allo stato naturale, e la destinazione della stessa a parcheggio di autoveicoli, non può in alcun modo configurarsi come intervento di manutenzione (ordinaria o straordinaria), consolidamento statico o restauro conservativo, trattandosi di opera edilizia nuova, e non già di intervento trasformativo di manufatto già esistente.
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L'intervento in argomento ricade in zona assoggettata a vincolo paesaggistico sicché –tenuto conto dell’avvenuta alterazione dell'aspetto esteriore dei luoghi– ciò comporta che l'intervento in questione doveva ritenersi soggetto alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, quale titolo autonomo, “non conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi”.

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3. – Con altra censura gli appellanti lamentano l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto infondato il motivo concernente l’avvenuta formazione per via di silenzio-assenso delle autorizzazioni alla realizzazione del parcheggio.
3.a – A questo proposito la sentenza aveva osservato come “è sufficiente una piana lettura del provvedimento impugnato per rendersi conto che la realizzazione del parcheggio è avvenuta previa sistemazione del piano di campagna dell'area di interesse mediante stesura di detriti bituminosi”, aggiungendo che l’intervento “risulta realizzato in area con diversa destinazione urbanistica (agricola) e soggetta a vincolo paesistico, giusta D.M. 12.01.1958”, e che di conseguenza deve ritenersi esclusa l’assentibilità del titolo per via di silenzio-assenso.
3.b – Con il motivo in esame i ricorrenti muovono dall’assunto che -trattandosi di terreno “battuto”- gli interventi siano stati realizzati senza l’esecuzione di alcuna opera edilizia.
Di conseguenza, il titolo richiesto in data 02.04.1999 da Di Sc.Vi. -con la domanda di autorizzazione all’utilizzazione dell’area come parcheggio a pagamento, senza custodia e senza l’esecuzione di opere edilizie- dovrebbe ritenersi formato per via di silenzio-assenso.
A maggior ragione si sarebbe formato il titolo implicito –tenuto conto della normativa di favore prevista dall’articolo 9 della legge 24.03.1989, n. 122, che consente la realizzazione di parcheggi, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi- sulla domanda presentata in data 28.04.1999 da Di Sc.Gi. per la realizzazione di un parcheggio in un’area “pertinenziale esterna” rispetto al fabbricato esistente.
3.c – La censura non è fondata.
I ricorrenti si limitano a contestare la natura edilizia degli interventi –con richiamo ad altra giurisprudenza del medesimo Tribunale amministrativo che avrebbe escluso la necessità del permesso di costruire a fronte di interventi di stesura di detriti bituminosi e di realizzazione di parcheggi ai sensi del richiamato articolo 9 della legge n. 122 del 1989– insistendo sull’avvenuta formazione implicita dei titoli.
Come correttamente osservato dal giudice di primo grado “non può essere revocata in dubbio … la rilevanza edilizia dell'opera … e ciò indipendentemente dall'apertura al pubblico dell'area abusivamente destinata a parcheggio”.
Va condivisa in particolare l’affermazione secondo cui “la pavimentazione di un'area già allo stato naturale, e la destinazione della stessa a parcheggio di autoveicoli, non può in alcun modo configurarsi come intervento di manutenzione (ordinaria o straordinaria), consolidamento statico o restauro conservativo, trattandosi di opera edilizia nuova, e non già di intervento trasformativo di manufatto già esistente”, a nulla rilevando, tenuto conto della consistenza dell’intervento realizzato, che il provvedimento impugnato in primo grado ne abbia ingiunto la rimozione, anziché la demolizione.
Sicché, ad escludere la fondatezza dell’assunto secondo cui sulla domanda presentata nel 1999 si sia formato il titolo per via di silenzio-assenso, è sufficiente la considerazione che –come sottolineato nella sentenza appellata– “l'intervento in argomento ricade in zona assoggettata a vicolo paesaggistico -giusta D.M. 12.01.1958- e, pertanto, soggetta alle previsioni di cui al d.l.vo 22.01.2004, n. 42”.
Questa circostanza –tenuto conto dell’avvenuta alterazione dell'aspetto esteriore dei luoghi– comporta infatti che l'intervento in questione doveva ritenersi soggetto alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, quale titolo autonomo, come rileva il giudice di primo grado, “non conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.08.2016 n. 3620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo l’ordine di demolizione indirizzato nei soli confronti del proprietario, ove non siano immediatamente rinvenuti altri elementi utili alla identificazione (anche) del (diverso) responsabile dell'abuso, nel qual caso l'ingiunzione va indirizzata ad entrambi, secondo quanto previsto dal dall'art. 31, comma 2, del Testo unico delle disposizioni in materia edilizia, approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Invero, la previsione del coinvolgimento del proprietario -a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio- nel procedimento sanzionatorio seguito all’accertamento di tale illecito, non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base al novellato art. 117 Cost.); e tanto per la dirimente ragione che qui si parla di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere “personale” ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio.
Sicché, la circostanza che all’epoca dell’adozione del provvedimento impugnato entrambi i ricorrenti in primo grado non fossero (più) comproprietari dell’intera area oggetto dell’intervento abusivo non rende automaticamente inesigibile nei loro confronti l'ordine di riduzione in pristino contenuto nel precitato provvedimento ingiuntivo,“atteso che in via ordinaria (arg. ex art. 31 del d.p.r. 380/2001) legittimati passivi di siffatto ordine sono sia il proprietario dell'area che il responsabile dell'abuso”.

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Sul punto va infatti condiviso il richiamo, da cui muove la sentenza appellata, all’orientamento che ritiene legittimo l’ordine di demolizione indirizzato nei soli confronti del proprietario, ove non siano immediatamente rinvenuti altri elementi utili alla identificazione (anche) del (diverso) responsabile dell'abuso, nel qual caso l'ingiunzione va indirizzata ad entrambi, secondo quanto previsto dal dall'art. 31, comma 2, del Testo unico delle disposizioni in materia edilizia, approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
La giurisprudenza ha infatti affermato che la previsione del coinvolgimento del proprietario -a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio- nel procedimento sanzionatorio seguito all’accertamento di tale illecito, non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base al novellato art. 117 Cost.); e tanto per la dirimente ragione che qui si parla di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere “personale” ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio (cfr., sul punto, Cons. St., VI, 15.04.2015, n. 1927).
Sicché, come correttamente affermato dalla sentenza appellata, la circostanza che all’epoca dell’adozione del provvedimento impugnato entrambi i ricorrenti in primo grado non fossero (più) comproprietari dell’intera area oggetto dell’intervento abusivo non rende automaticamente inesigibile nei loro confronti l'ordine di riduzione in pristino contenuto nel precitato provvedimento ingiuntivo,“atteso che in via ordinaria (arg. ex art. 31 del d.p.r. 380/2001) legittimati passivi di siffatto ordine sono sia il proprietario dell'area che il responsabile dell'abuso
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.08.2016 n. 3620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROFESSIONALILegale e geometra non si può. Compatibili solo commercialisti, consulenti, revisori. Un'ordinanza delle Sezioni unite civili della Cassazione cita testualmente la legge.
Un avvocato non può svolgere la professione di geometra.

Le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione, ordinanza 22.07.2016 n. 15208, hanno richiamato con ordinanza l'art. 18, comma 1, lett. a), l. n. 247/2012, circa l'incompatibilità della professione forense, citando testualmente la legge che recita: «La professione di avvocato è incompatibile: a) con qualsiasi altra attività di lavoro autonomo svolta continuativamente o professionalmente, escluse quelle di carattere scientifico, letterario, artistico e culturale, e con l'esercizio dell'attività di notaio. È consentita l'iscrizione nell'albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, nell'elenco dei pubblicisti e nel registro dei revisori contabili o nell'albo dei consulenti del lavoro».
Il Coa con deliberazione disponeva la cancellazione dell'Abogado Caio dalla sezione speciale degli avvocati stabiliti per incompatibilità, ai sensi dell'art. 18, comma 1, lettera a), della legge n. 247 de12012, in quanto Caio risultava contemporaneamente iscritto all'Albo dei geometri.
Con sentenza successiva il Consiglio nazionale forense rigettava il ricorso proposto da Caio avverso tale decisione e il Cnf, disattese alcune questioni procedimentali sollevate dal ricorrente, contestava che l'art. 18, comma 1, lettera a), della legge n. 247 del 2012, a differenza del previgente art. 3 del rdl n. 1578 del 1933, disponesse quanto detto sopra in tema di incompatibilità.
Secondo il Cnf, in presenza della iscrizione a un albo professionale diverso da quello per i quali non è stabilita incompatibilità, viene meno ogni necessità di accertare se l'attività consentita dalla detta iscrizione sia quantitativamente rilevante ovvero del tutto inesistente.
Avverso questa sentenza Caio proponeva ricorso sulla base di tre motivi: con il primo motivo deduceva la violazione e falsa applicazione dell'art. 18, punto 1, lettera a), della legge n. 247 del 2012, sostenendo che da tale disposizione deriverebbe l'ammissibilità della iscrizione dell'avvocato ad altri albi, sempre che, come nella specie, difettino i requisiti di continuità e di professionalità dell'altra professione e non vi sia produzione di reddito.
Con il secondo motivo deduceva violazione di legge ed eccesso di potere per violazione del principio del giusto procedimento e del diritto di difesa, rilevando che il Coa, prima, e il Cnf, poi, non avrebbero svolto alcuna attività istruttoria in ordine alle assenza dei requisiti che renderebbero incompatibile l'iscrizione dell'avvocato per effetto della iscrizione in un altro albo.
Con il terzo motivo Caio denunciava violazione e mancata applicazione delle regole di concorrenza tra professionisti di cui agli artt. 3, 4 e 41 Cost. e dei principi dell'Unione Europea (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2016).

EDILIZIA PRIVATAGiova richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte in ordine alla nozione di ultimazione delle opere che, ai soli fini del condono edilizio, corrisponde alla realizzazione del rustico completo di tamponature laterali e copertura mentre, ai fini dell'individuazione del tempus commissi delicti, corrisponde al completamento del manufatto, comprese le rifiniture esterne e interne (di recente: "La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado"; in applicazione del principio, la Corte ha aggiunto che, ai fini dell'individuazione del momento di cessazione dei lavori, il completamento dell'opera con tutte le rifiniture interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico, che, se utile nella normalità dei casi, non consente di escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia terminata anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso anzidetto, come ad esempio quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie).
Infatti, come disposto dall'art. 31, comma 2, l. n. 47 del 1985, si intendono come ultimati, ai fini della condonabilità, "gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente".
Tale disposizione di favore, che non può trovare applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, non è estensibile, anche in quanto norma eccezionale, ad altre fattispecie non previste, quale è l'ipotesi dell'individuazione del tempus commissi delicti e della cessazione della permanenza.

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Del resto, come ammesso dallo stesso ricorrente, risulta la realizzazione del solo "rustico" dell'opera.
Al riguardo, giova richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte in ordine alla nozione di ultimazione delle opere che, ai soli fini del condono edilizio, corrisponde alla realizzazione del rustico completo di tamponature laterali e copertura (ex multis, Sez. 3, n. 28233 del 14/06/2011, Aprea, Rv. 250658), mentre, ai fini dell'individuazione del tempus commissi delicti, corrisponde al completamento del manufatto, comprese le rifiniture esterne e interne (di recente, sulla cessazione della permanenza, Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo, Rv. 260498: "La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado"; in applicazione del principio, la Corte ha aggiunto che, ai fini dell'individuazione del momento di cessazione dei lavori, il completamento dell'opera con tutte le rifiniture interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico, che, se utile nella normalità dei casi, non consente di escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia terminata anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso anzidetto, come ad esempio quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie).
Infatti, come disposto dall'art. 31, comma 2, l. n. 47 del 1985, si intendono come ultimati, ai fini della condonabilità, "gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente". Tale disposizione di favore, che non può trovare applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, non è estensibile, anche in quanto norma eccezionale, ad altre fattispecie non previste, quale è l'ipotesi dell'individuazione del tempus commissi delicti e della cessazione della permanenza (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26425 - tratta da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
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3. Il terzo motivo è manifestamente infondato, oltre che meramente ripropositivo della medesima deduzione presentata in appello.
Al riguardo, richiamando l'elaborazione giurisprudenziale del Consiglio di Stato sulla c.d. "sanatoria impropria" (o giurisprudenziale), viene invocata l'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria n. 28 del 2014, rilasciato ex art. 36 d.P.R. 380 del 2001; il permesso, seppur inidoneo ad estinguere il reato, in quanto privo della c.d. doppia conformità, sarebbe idoneo almeno a paralizzare l'ordine di demolizione al cui adempimento è stata subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena.
3.1. Tale provvedimento viene denominato "sanatoria giurisprudenziale", evidentemente con riferimento alla c.d. sanatoria giurisprudenziale o impropria individuata, in passato, dalla giurisprudenza amministrativa (v., ad es., Cons. St., Sez. 5, n. 1796, 19.04.2005), in base alla quale si ritengono sanabili le opere che, non conformi alla disciplina urbanistica ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione, lo siano divenute successivamente e che sarebbe insensato demolire quando, a demolizione avvenuta, potrebbero essere legittimamente assentite.
Si tratta, tuttavia, di un orientamento nettamente minoritario che può dirsi ormai definitivamente superato,
avendo la giurisprudenza amministrativa (v. Cons. St., Sez. 4, n. 4838, 17.09.2007) successivamente escluso l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale sul rilievo che la sua applicazione contrasterebbe con il principio di legalità, dal momento che non vi è stata alcuna espressa previsione di tale istituto allorquando l'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha sostituito la corrispondente disciplina della legge urbanistica 47/1985, nonostante il favorevole parere del 29.03.2001 della Adunanza generale del Consiglio di Stato, che ne aveva sollecitato l'introduzione al legislatore delegato il quale, tuttavia, come evidenziato nella Relazione illustrativa al testo Unico dell'edilizia, non ha raccolto il suggerimento, ponendo in evidenza l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale che impediva la formazione di un diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale ed il parere nettamente contrario espresso dalla Camera.
La giurisprudenza amministrativa ha inoltre osservato, successivamente, che
l'art. 36 citato, in quanto norma derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva (Cons. St., Sez. 4, n. 6784, 02.11.2009) e che la sanatoria giurisprudenziale non può ritenersi applicabile, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa; effetti che non possono ritenere ammessi nell'ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione (così Cons. St., Sez. 5, n. 3220, 11.06.2013).
Recentemente, il Consiglio di Stato ha ulteriormente confermato la propria posizione in tema di sanatoria giurisprudenziale (alla quale, peraltro, risultano conformati anche i Tribunali Amministrativi Regionali),
osservando come il divieto legale di rilasciare un permesso in sanatoria anche quando, dopo la commissione dell'abuso, vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico, sia giustificato della necessità di "evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)" oltre che dall'esigenza di "disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico" (Cons. Stato, Sez. 5, 17.03.2014, n. 1324; conf. Sez. 5, 27.05.2014, n. 2755).
3.2. L'attuale consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa ha trovato peraltro conferma in una recente decisione della Corte Costituzionale (sentenza 27.02.2013 n. 101), che, nel giudizio di legittimità costituzionale della L.R. Toscana 31.01.2012, n. 4, art. 5, commi 1, 2 e 3 e artt. 6 e 7 (Modifiche alla L.R. 03.01.2005, n. 1 "Norme per il governo del territorio" e della L.R. 16.10.2009, n. 58 "Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico"), ha affermato che
il principio della "doppia conformità" risulta finalizzato a "garantire l'assoluto rispetto della "disciplina urbanistica ed edilizia" durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità", aggiungendo, e richiamando la giurisprudenza amministrativa, che la sanatoria, che si distingue dal condono vero e proprio, "è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi "formali", ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, "anche di natura preventiva e deterrente", finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture "sostanzialiste" della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell'istanza per l'accertamento di conformità".
3.3. Va a questo punto rammentato come la giurisprudenza di questa Corte abbia, in passato, preso atto delle diverse posizioni del giudice amministrativo aderendo, in un primo tempo, a quella che riconosceva efficacia alla sanatoria giurisprudenziale, escludendone comunque ogni effetto estintivo dei reati urbanistici, e precisando che detto titolo abilitativo sanante avrebbe dovuto essere conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio, escludendo, peraltro, la possibilità di procedere ad una diversa qualificazione giuridica dell'intervento edilizio per consentirne la regolarizzazione, parcellizzando le opere (Sez. 3, n. 286 e 291, del 09/01/2004, non massimate sul punto).
In altre occasioni, confermando che la sanatoria impropria sarebbe comunque improduttiva di effetti estintivi dei reati urbanistici, si è presa in considerazione la sua rilevanza con riferimento specifico all'ordine di demolizione, rilevando, previo richiamo ai principi generali di buon andamento e di economia dell'azione amministrativa invocato dalla giurisprudenza amministrativa favorevole, che l'eventuale suo rilascio renderebbe inapplicabile l'ordine di demolizione, osservando, sostanzialmente, che sarebbe insensato procedere alla demolizione di ciò che può poi essere legittimamente ricostruito (v. Sez. 3, n. 14329, 07.04.2008; Sez. 3, n. 40969, 11.11.2005; Sez. 3, n. 1492, 09.02.1998; Sez. 3, n. 3082, 21.01.2008, non massimata; Sez. 3, n. 24451, 21.06.2007). Veniva comunque dato atto anche dell'orientamento difforme del giudice amministrativo (Sez. 3, n. 21208, 28.05.2008, non massimata).
3.4. La più recente ed approfondita disamina della questione concernente l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale o impropria da parte del giudice amministrativo e l'autorevole richiamo a tale giurisprudenza operata dalla Corte Costituzionale
consentono di ritenere ormai superate le argomentazioni sviluppate nelle decisioni di questa Corte appena ricordate, in quanto fondate, prevalentemente, sul mero richiamo di un orientamento, già minoritario, che può dirsi ormai completamente abbandonato dagli stessi giudici amministrativi che lo avevano in passato elaborato.
Le argomentazioni sviluppate a sostegno dell'attuale indirizzo interpretativo appaiono, ad avviso del Collegio, del tutto condivisibili, poiché
tengono conto della formulazione letterale della norma e della sua genesi, e risultano pienamente conformi al richiamato principio di legalità cui deve necessariamente conformarsi l'azione amministrativa, perché, come osservato in dottrina, non può esservi rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione se non vi è, al tempo stesso, rispetto del principio di legalità.
La espressa previsione, nell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, del requisito della doppia conformità delle opere da sanare, e la deliberata scelta del legislatore di non inserire nel Testo Unico dell'edilizia la sanatoria giurisprudenziale, nonostante le indicazioni in tal senso ricevute dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, rendono evidente la volontà di limitare la possibilità di sanatoria ai soli abusi formali.
Altrettanto significative appaiono, poi, le considerazioni della più recente giurisprudenza amministrativa riguardanti la negativa incidenza sull'effetto deterrente dell'ordine di demolizione -che il legislatore ha evidentemente perseguito- che sarebbe determinata dalla previsione di una sanatoria conseguente ad una conformità dell'opera sopravvenuta alla sua realizzazione, creando l'aspettativa di una futura possibile regolarizzazione anche in presenza di condizioni inizialmente ostative alla esecuzione dell'intervento edilizio.
Va pertanto ribadito il principio di diritto secondo il quale
in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260973; in senso analogo, Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, Micolucci, Rv. 236912).
3.5. Tanto premesso, la sentenza impugnata ha correttamente escluso qualsivoglia rilievo al permesso in sanatoria rilasciato nel 2014, in quanto privo del requisito della c.d. doppia conformità, atteso che è condizionato all'asservimento di un'area ulteriore, con conseguente aumento della volumetria, ed è subordinato a prescrizioni.
Al riguardo, va aggiunto che
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito con la sentenza di condanna, non è caducato in modo automatico dal rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovendo il giudice controllare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione (e quindi, nella specie, della doppia conformità, non sussistente) e dei requisiti di forma e sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio (ex multis, Sez. 3, n. 40475 del 28/09/2010, Ventrici, Rv. 249306) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26425 - tratta da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Questione che sarà trattata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato all’udienza del 05.10.2016
Il prossimo 5 ottobre l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato tratterà
la questione se una volta costituita, ai sensi dell’art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (t.u. edilizia), una garanzia per il pagamento del contributo per il rilascio del permesso di costruire, il comune, avendo omesso di escutere la garanzia, possa, oltre che chiedere il pagamento del dovuto al debitore principale, infliggere comunque la sanzione pecuniaria (nella misura massima) prevista dalla disciplina regionale e comunale per i casi di mancato versamento del contributo.
La questione è stata rimessa dalla Sez. IV con l’ordinanza 22.06.2016 n. 2766 essendosi sul punto formati tre diversi orientamenti.
Secondo il
primo orientamento giurisprudenziale, minoritario, occorre fare applicazione dei principi civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti quello che impone al creditore in buona fede di collaborare con il debitore ai fini del puntuale adempimento dell’obbligazione.
A supporto di tale tesi è il rilievo che l’ente locale, ove il suo credito sia assistito da garanzia incondizionata, ha uno specifico dovere, ai sensi degli artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ., di richiedere quanto dovutogli al garante, con la conseguenza che l’ente stesso –omettendo tale ben esigibile adempimento- viola appunto l’obbligo per il creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore.
Parallelamente, sul piano funzionale, si rileva che la previsione legislativa delle sanzioni per il mancato pagamento degli oneri concessori trova ragione nella necessità per l'amministrazione di disporre tempestivamente delle somme dovute dai privati onde poter procedere alla realizzazione delle necessarie infrastrutture di urbanizzazione: in tale contesto, un ente locale che sceglie di non incamerare subito la fideiussione non persegue la finalità di interesse pubblico per cui la sanzione è appunto predisposta (assicurare la tempestiva disponibilità delle somme per l’urbanizzazione), bensì altro scopo, ossia far lievitare la somma dovuta dal privato anche a rischio di un consistente differimento nell’incasso.
Il
secondo orientamento giurisprudenziale, maggioritario, al quale l’ordinanza di rimessione aderisce, inquadra la fattispecie in una prospettiva pubblicistica, significativamente caratterizzata dalla presenza di strumenti –le sanzioni e la riscossione coattiva– tipici di un procedimento autoritativo e non paritetico.
In questa prospettiva la fideiussione –che il comune è facoltizzato a richiedere in caso di rateizzazione del versamento- non ha affatto la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua le conseguenze previste nel caso di un eventuale suo inadempimento, conseguenze appunto riconducibili all’applicazione delle sanzioni e alla riscossione coattiva dell’intera somma dovuta.
Né sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227, comma 2, cod. civ. -che riguarda l'esonero di responsabilità per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza– in primo luogo perché l'obbligazione relativa alle sanzioni pecuniarie ex art. 3, l. 28.02.1985 n. 47 non ha, certo, natura risarcitoria configurandosi come obbligazione legale, con finalità chiaramente e univocamente "sanzionatorie".
In secondo luogo, l'onere di diligenza che l’art. 1227, comma 2, cod. civ. fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (v. Corte cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione delle sanzioni amministrative per ritardato pagamento).
Un
terzo orientamento giurisprudenziale, pur tenendo conto della cogenza della previsione legale relativa all’applicazione delle sanzioni in caso di ritardato pagamento, ritiene però illegittima l’applicazione delle sanzioni in misura massima.
E’ stato infatti rilevato -valorizzando il principio di leale collaborazione tra cittadino e comune, che ha valenza pubblicistica e rientra nell'ambito dei principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.- che il ritardo con cui l’ente locale procede alla richiesta di pagamento e l'assenza di qualsivoglia tentativo di escussione della fideiussione, comportano, all'evidenza, una violazione del dovere di correttezza che dovrebbe improntare il comportamento dell'Amministrazione comunale, in considerazione del fatto che l'Amministrazione non è un soggetto che agisce per massimizzare il suo profitto ma è un soggetto che agisce per realizzare nel modo migliore possibile un interesse pubblico che le è stato affidato dalla legge e che consiste, appunto, nella celere realizzazione delle opere di urbanizzazione (e, quindi, nella pronta disponibilità delle somme ad esse relative).
Pertanto, secondo il richiamato indirizzo, il ritardo con cui il comune agisce per riscuotere le somme a titolo di oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il loro carattere automatico, scaturente dal disposto di legge, impedisce tuttavia l'applicazione delle sanzioni massime.
Ne consegue che l’ente locale –una volta decorsi 120 giorni dallo scadere del termine originario di pagamento– deve valersi della garanzia (per riscuotere quanto dovuto per oneri) e contestualmente irrogare al debitore inadempiente la sanzione minima normativamente prevista (commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce principio pacifico, in tema di rilascio di titoli ad aedificandum, quello per cui il calcolo degli oneri concessori (a cui le schede parametriche sono strumentalmente indirizzate) rappresenta un compito assegnato dalla legge all'Ente competente al rilascio del titolo abilitativo, il quale non può assolutamente riversarlo sul richiedente.
Del resto, è noto che l'unica conseguenza discendente dal mancato pagamento degli oneri de quibus potrebbe essere quella delle esazione coattiva della pretesa creditizia e delle irrogazione delle sanzioni pecuniarie di cui all'art. 42 del D.P.R. 380/2001, e non certamente, in ogni caso, la sospensione dell'efficacia del permesso di costruire.
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L'apposizione di condizioni al rilascio del titolo edilizio è ammissibile solo quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia dal punto di vista tecnico che strutturale e ciò trovi fondamento in una norma di legge o di regolamento: e ciò in quanto il rilascio del permesso di costruire concreta un'attività amministrativa vincolata, come tale subordinata al solo accertamento della corrispondenza delle opere e dei relativi elaborati progettuali alle prescrizioni urbanistiche di legge e di piano.

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... per l'annullamento:
a) del provvedimento prot. n. 10222 del 18.02.2015, notificato ai ricorrenti in data 19.02.2015, del Comune di Vallo della Lucania — Settore Urbanistica ed Edilizia, nella parte in cui condiziona l'efficacia del Permesso di Costruire di cui alla pratica edilizia n. 101/1998 alla "presentazione di scheda parametrica riportante i dati della superficie utile ai fini della determinazione del costo di costruzione, del volume vuoto per pieno ai fini della determinazione degli oneri di urbanizzazione";
b) del provvedimento prot. n. 579 del 19.01.2015 della Città di Edilizia, con il quale il Comune subordina il rilascio della concessione edilizia pratica n. 101/98 al deposito delle "schede parametriche, precisando che "decorso trenta giorni dalla notifica della presente la pratica verrà archiviata";
c) del provvedimento prot. n. 13870 del 18.11.2014, notificato ai ricorrenti in data 01.12.2014, del Comune di Vallo della Lucania —Settore 6 — Urbanistica ed Edilizia — Servizio Edilizia, con il quale il Comune resistente, oltre a sospendere l'istruttoria della pratica edilizia n. 101 del 1998, comunica che in caso di mancata acquisizione delle schede parametriche "l'istruttoria della pratica rimarrà sospesa e, con l'inutile decorso di 30 gg. dal ricevimento della presente, le SS.LL. saranno considerate rinunciatarie con conseguente archiviazione della pratica";
...
1.- Il ricorso, così come articolato, è fondato e merita di essere accolto.
Costituisce, invero, principio pacifico, in tema di rilascio di titoli ad aedificandum, quello per cui il calcolo degli oneri concessori (a cui le schede parametriche sono strumentalmente indirizzate) rappresenta un compito assegnato dalla legge all'Ente competente al rilascio del titolo abilitativo, il quale non può assolutamente riversarlo sul richiedente (ex multis, cfr. TAR Campania-Napoli, sez. III, n. 941 del 2015).
Del resto, è noto che l'unica conseguenza discendente dal mancato pagamento degli oneri de quibus potrebbe essere quella delle esazione coattiva della pretesa creditizia e delle irrogazione delle sanzioni pecuniarie di cui all'art. 42 del D.P.R. 380/2001, e non certamente, in ogni caso, la sospensione dell'efficacia del permesso di costruire (cfr., ancora di ultimo, TAR Napoli, sez. VII, 16.07.2013 n. 3708).
Sotto distinto e concorrente profilo, l'apposizione di condizioni al rilascio del titolo edilizio è ammissibile solo quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia dal punto di vista tecnico che strutturale e ciò trovi fondamento in una norma di legge o di regolamento: e ciò in quanto il rilascio del permesso di costruire concreta un'attività amministrativa vincolata, come tale subordinata al solo accertamento della corrispondenza delle opere e dei relativi elaborati progettuali alle prescrizioni urbanistiche di legge e di piano (v. da ultimo TAR Piemonte, Sez. I, 22.05.2013, n. 617).
2.- Non essendosi l’Amministrazione intimata attenuta al riassunti principi, il ricorso deve essere accolto per quanto di ragione, con conseguente annullamento in parte qua del permesso di costruire per cui è causa, nella parte in cui subordinava all’adempimento delle obbligazioni contributive ed alla allegazione della relativa documentazione a corredo l’efficacia del permesso di costruire rilasciato.
Sussistono, avuto riguardo al particolare andamento della fase procedimentale, giustificate ragioni per disporre, tra le parti costituite, compensazione (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 17.06.2016 n. 1503 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASeminterrato-autorimessa in condominio: l'abitabilità salva la Dia.
I lavori in condominio sono salvi anche se il Comune ha scoperto che il seminterrato utilizzato come autorimessa non è compatibile con i titoli abilitativi a suo tempo rilasciati per l'edificio. E ciò perché nel frattempo l'amministrazione ha rilasciato vari certificati, in primis quello di abitabilità, in cui mostra di essere a conoscenza dell'esistenza dell'opera e finisce per assentirla, sia pure in modo implicito: ingenera infatti un legittimo affidamento da parte del condominio. Risultato? È annullato lo stop alla Dia dell'ente di gestione, che punta a spostare la porta d'accesso al garage condominiale.

È quanto emerge dalla sentenza 04.04.2016 n. 4038, pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Scarsa diligenza. Sbaglia l'ente locale che prima sospende e poi boccia le denuncia di inizio lavori, fra l'altro intervenendo dopo che è scaduto il termine di legge di trenta giorni. Il fatto che sia previsto un locale posto sotto il livello della strada utilizzato come autorimessa non emerge soltanto dal collaudo statico vistato dalla prefettura: la destinazione a garage è rilevata tanto dal certificato sanitario di abitabilità quanto da quello d'uso d'immobile, rilasciati dallo stesso Comune e regolarmente accatastati.
È escluso che le attestazioni dell'ente locale accertino soltanto la sussistenza dei requisiti igienici degli immobili: fanno invece fede anche sulla conformità edilizia e urbanistica. Insomma, l'ufficio doveva essere più accurato nell'esaminare la pratica. E non solo perché l'attività dell'amministrazione deve essere ispirata da criteri di diligenza: la trasformazione richiesta riguarda infatti un parcheggio, che in base alla legge Tognoli richiede soltanto la Dia.
Autotutela necessaria. Molto sentita in giurisprudenza è la necessità di tutelare le aspettative formatesi nel tempo anche rispetto alle opere non conformi alla normativa.
Per il Comune la serra realizzata sul terrazzo è abusiva e deve essere abbattuta. Ma resta dov'è, almeno per ora, perché l'amministrazione ha emesso l'ordine di demolizione senza prima rimuovere il titolo che si è formato nel frattempo grazie alla segnalazione certificata d'inizio attività.
È quanto emerge dalla sentenza 2557/2014, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lombardia.
Accolto il ricorso del proprietario dell'immobile. Sbaglia l'amministrazione che con i suoi atti difensivi cerca di dimostrare che vi sarebbe contrasto fra le opere realizzate e la Scia, oltre che irregolarità progettuali.
Nella specie l'atto di sospensione dei lavori e l'ordine di abbattere la serra non indica in maniera chiara e puntuale dove sta il contrasto fra opere effettivamente realizzate dal ricorrente e opere assentite. Insomma: manca la prova che il manufatto incriminato non sia conforme al titolo.
E dunque il Comune non può esercitare il potere sanzionatorio, cioè adottare l'ordine di demolizione, a meno che non provveda a «rimangiarsi» il titolo edilizio esercitando i suoi poteri di autotutela (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2016).
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MASSIMA
2.2. Al riguardo, è opportuno ricordare che:
- come più volte affermato anche in giurisprudenza,
sussiste un nesso di dipendenza tra il rilascio dei certificati di cui si discute e l’accertamento della regolarità edilizia delle opere, nel senso che il rilascio di tali certificati non può prescindere dalla conformità del fabbricato “ai parametri normativi e regolamentari urbanistici ed edilizi” ed, anzi, la presuppone, nel pieno rispetto –del resto– del principio di ragionevolezza dell’azione amministrativa (secondo cui non è, tra l’altro, possibile “consentire che si determini una situazione che poi dovrà per altri versi essere repressa, in aperto contrasto con il principio di buona amministrazione – cfr. C.d.S., Sez. V, 12.07.2014, n. 3793; TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 02.09.2014, n. 9289);
- in particolare, è stato in più occasioni ribadito che
il rilascio del certificato di agibilità non è affatto subordinato al mero accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari, bensì presuppone anche la conformità urbanistica ed edilizia dell’opera (C.d.S., Sez. V, 16.05.2013, n. 2665; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 24.05.2012, n. 1055).
2.3. Ciò detto, il Collegio ravvisa validi elementi per convenire con il ricorrente circa l’impossibilità per il Comune di Subiaco di pronunciarsi negativamente sulla DIA astenendosi del tutto dal prendere in considerazione la situazione complessiva del fabbricato, ovvero trascurando completamente i certificati su richiamati e, precipuamente, quanto in essi riportato in relazione all’esistenza del locali ad uso “posti macchina”, tanto più ove si consideri che si trattava di certificati rilasciati in esito a specifici accertamenti eseguiti dalla stessa Amministrazione.
Pur nella piena consapevolezza del carattere permanente che connota gli abusi edilizi eventualmente commessi e, ancora, nella piena consapevolezza che, secondo un noto orientamento della giurisprudenza, l’abuso edilizio -proprio in ragione di tale carattere– sarebbe sempre rilevabile e, dunque, sanzionabile, oltre che del rilievo che ogni trasformazione edilizia di un edificio preesistente non può prescindere dalla regolarità di quest’ultimo (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, n. 5972 del 2015; TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 10420 del 2015), il Collegio ritiene, infatti, che le peculiarità del caso di cui si discute, poste adeguatamente in evidenza dal ricorrente, avrebbero inequivocabilmente richiesto una diversa e più accurata valutazione della fattispecie, non solo
in osservanza degli ordinari criteri di diligenza che devono presiedere, tra l’altro, l’attività amministrativa ma anche per la salvaguardia degli stati di legittimo affidamento dei privati ingenerati –più che dal lungo tempo trascorso dall’epoca di realizzazione delle opere- dalla specifica adozione da parte dell’Amministrazione di atti idonei a dimostrare –oltre che la piena conoscenza dell’avvenuto compimento delle stesse opere– una sorta di assentimento di quest’ultime, aggiungendo, ancora, che le considerazioni che precedono non possono non assumere una più spessa rilevanza ove si tenga conto che le opere di cui il Comune di Subiaco adduce la realizzazione in assenza dei “necessari titoli abilitativi” consistono essenzialmente in un “parcheggio”, ossia in una trasformazione edilizia che, secondo le prescrizioni di legge e, in particolare, l’art. 9 della legge 24.03.1989, n. 122 (c.d. Legge Tognoli), possono essere realizzate “anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”, previo inoltro, tra l’altro, di una mera “denuncia di inizio attività”.

PUBBLICO IMPIEGO: Il Comune rimborsa le spese legali al dipendente.
Solo in caso di assoluzione per mancanza di responsabilità la spesa per la parcella dell’avvocato viene rimborsata dall’ente locale.
Le spese legali sostenute dal dipendente di un ente locale (ad esempio il Comune) per difendersi in un procedimento penale devono essere rimborsate dall’amministrazione se l’imputato risulta non essere responsabile delle accuse.
È quanto chiarito dal Giudice di Pace di Taranto con la sentenza 13.10.2015 n. 3183.
Il contratto collettivo nazionale della dirigenza stabilisce che: “L’ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento“.
Pertanto, il Comune o qualsiasi altro ente locale è tenuto a rimborsare al proprio dipendente le spese sostenute per pagare il proprio avvocato difensore solo se sussistono le seguenti condizioni:
– la necessità di tutelare gli interessi e i diritti facenti dell’ente pubblico;
– la stretta connessione tra il procedimento penale e l’esercizio delle funzioni del dipendente pubblico;
– l’assenza di conflitto di interessi tra gli atti compiuti dal dipendente sottoposto a procedimento penale e l’ente di appartenenza;
– l’assoluzione dell’imputato con formula piena (non quindi, ad esempio, per prescrizione). In pratica il giudice penale deve accertare che il dipendente pubblico non deve aver avuto alcun dolo o colga grave nel fatto che ha dato origine al procedimento penale.
Già il Consiglio di Stato, in passato, ha precisato che "la possibilità di rimborsare le spese legali al dipendente di un ente pubblico coinvolto in un procedimento penale si limita ai soli casi in cui sia incontestabilmente accertata l’assenza di responsabilità penale dell’imputato; presupposto di rimborsabilità delle spese legali sostenute dall’amministratore è il positivo e definitivo accertamento della mancanza di responsabilità, indipendentemente dalla formula assolutoria utilizzata dal giudice penale (…)” (link a www.laleggepertutti.it).
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MASSIMA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione, l’avv. D. conveniva in giudizio innanzi al Giudice di Pace l’Arch. N.C. al fine di ottenere da questi il pagamento del compenso professionale, nella misura di euro 1.500,00, per l’attività svolta nel procedimento penale n. 5030/08-3960/08 R.G.n.r. Procura della Repubblica di Taranto, in cui l’Arch. N. assumeva la veste di imputato.
Premetteva e sosteneva parte attrice:
– che l’Arch. C.N., nella sua qualità di dipendente del Comune di P.. (responsabile dell’ufficio tecnico di tale Comune), veniva indagato nei procedimenti penali n. 5030/08 – 3960/08 R.G. n.r. Procura della Repubblica di Taranto, unitamente ad altro dipendente per i reati di cui agli artt. 110 c.p.- 54 e 1161 Cod. Nav. “per avere nella qualità di R.U.P. Responsabile Unico del Procedimento dato corso a pubblici lavori di edificazione di una pista ciclabile con occupazione di spazi del demanio marittimo senza avere richiesto, così come previsto nella conferenza di servizi in data 19.09.2007, alcuna autorizzazione. Accertato in “Torre 0110” - Torricella il 18.04.2008”; nonché dei reati di cui agli artt. 110 c.p. e 1161 Cod. Nav. “per avere, in unione e concorso tra loro il N., quale responsabile del procedimento e il D. quale Direttore dei Lavori, avviato i lavori per la realizzazione di una pista ciclabile, sulla Strada Provinciale n. 122 “Litoranea Salentina” in località “Torre Ovo” rientranti nel progetto area pubblica P.L.S. n. 12 entro i trenta metri dal confine demaniale marittimo (fl. Mappa 23 p.lla 1370) in assenza della Autorità Marittima. Acc. in Torricella – località Torre Ovo l’08.05.2008″;
- che per tali procedimenti penali sin dalla fase delle indagini preliminari veniva nominato difensore di fiducia I’Avv. D.D. del foro di Trani, il quale assunta la difesa dell’Arch. C.N. si prodigava in un accurato e approfondito esame e studio della questione sostenendo all’uopo molteplici sessioni con il cliente e con il P.M.:
– che tale approfondito studio della questione giuridica, particolarmente complessa attesa la peculiarità dei reati contestati e l’iter amministrativo che aveva portato all’autorizzazione dell’opera pubblica in questione, continuava in occasione dell’emissione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, della predisposizione dell’istanza di oblazione e nell’esame del decreto di citazione a giudizio;
– che in data 23.02.201L, stante il totale disinteresse del convenuto nonostante i numerosi solleciti telefonici posti in essere dall’Avv. D. e dai suoi collaboratori di studio e nell’impossibilità di stabilire adeguatamente la linea difensiva da adottare nel corso del processo suddetto, la cui prima udienza era fissata in data 07.03.2011,l’odierno attore provvedeva ad inviare, anticipandola via fax, rinuncia al mandato difensivo allegando relativa parcella inerente l’attività difensiva già espletata;
– che la predetta comunicazione non sortiva gli effetti auspicati difatti, il credito avanzato dall’Avv. D. risulta ancora insoddisfatto;
– che in data 16.05.2011, il processo penale in questione, celebrato dinanzi al Giudice Monocratico presso il Tribunale di Taranto, Dott.ssa V.L., terminava con l’assoluzione dell’imputato dai reati ascrittigli “perché il fatto non costituisce reato“;
– che a seguito di tanto con comunicazione del 14.06.201l, il convenuto inviava la richiesta di rimborso delle spese legali indirizzata al Comune di P.. - sett. Urbanistica-edilizia-LL.PP. - Demanio Marittimo-Patrimonio -Ecologia Ambiente, con la quale richiedeva all’amministrazione di appartenenza il rimborso delle spese legali relative all’attività difensivaespletata dall’Avv. D;
- che ciò nonostante ad oggi tale credito non è mai stato onorato dall’odierno convenuto. risultando la richiesta di pagamento inoltrata dall’Avv. D. per l’attività difensiva espletata ancora inevasa;
- che ai sensi dell’art. 1176 del cod. civile “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”;
- che la buona fede e diligenza richiesta dalla norma e stata completamente disattesa dal convenuto, dal momento che quest’ultimo rendendosi inadempiente dell’obbligazione assunta non ha mai versato il corrispettivo dovuto per l’attività professionale diligentemente prestata dall’Avv. D. in esecuzione del mandato dallo stesso conferito;
– che l’art. 1453 cod. civ. espressamente prevede ”Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei due contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua volta chiedere I’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso il risarcimento del danno”;
- che ai sensi dell’art. l2l8 del cod. civile ”esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento e il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante a causa a lui non imputabile”;
- che a causa dell’inerzia tenuta dal convenuto si è resa necessaria la presente controversia.
Tanto premesso e considerato l’Avv. D.D., così come sopra meglio rappresentato e difeso, concludeva con la richiesta di cui in epigrafe.
Si costituiva in giudizio il convenuto citato Arch. C.N., il quale impugnava e contestava tutto quanto ex adverso dedotto, richiesto e concluso e rilevava quanto segue:
1) Egli era stato dipendente del Comune di P.., responsabile dell’Ufficio Tecnico.
2) In tale qualità, veniva indagato nei procedimenti penali n. 5030/08, 3960/08 R.G.N.R. Procura della Repubblica di Taranto per i reati di cui agli artt. 110 c.p., 54 e 1161 cod. nav. “per avere nella qualità di R.U.P. Responsabile Unico del Procedimento dato corso a pubblici lavori di edificazione di una pista ciclabile con occupazione di spazi del demanio marittimo senza aver richiesto, così come previsto nella conferenza di servizi in data 19.09.07 alcuna autorizzazione".
Accertato in Torre Ovo Torricella il 18.04.2008 nonché dei reati di cui agli artt. 110 c.p. 1161 cod. nav. “per avere in unione e concorso tra loro il N., quale responsabile del procedimento e il D. quale Direttore dei Lavori, avviato i lavori per la realizzazione di una pista ciclabile, sulla Strada Provinciale n. 122 “ Litoranea Salentina” in località “Torre Ovo” rientranti nel progetto area pubblica P.I.S. n. 12 entro i trenta metri dal confine demaniale marittimo in assenza della Autorità Marittima Torre Ovo 08.05.2008”.
3) Con sentenza n. 1065/2011, l’Arch. N. veniva assolto “perché il fatto non costituisce reato”.
4) La richiesta avanzata dall’odierno attore nell’atto introduttivo del presente giudizio appare sfornita di qualsivoglia supporto giustificativo, e si basa esclusivamente su una semplice nota spese redatta dal professionista, priva di certificazione di congruità rilasciata dal Consiglio dell’Ordine Forense o da sentenza.
5) Ad ogni buon conto, poiché l’arch. N., all’epoca dei fatti, era dipendente del comune di P.., si rende necessario chiamare in causa il predetto Ente, ai sensi dell’art. 269, 2° comma, c.p.c..
6) All’uopo chiedeva lo spostamento della data della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo, nel rispetto dei termini di cui all’art. 318, 2° comma, c.p.c. a cura del comparente.
Autorizzata la chiamata in causa del Comune di P.., lo stesso ritualmente chiamato in causa, rimaneva contumace.
Istruita la causa con documentazione depositata dalle parti, fallito ogni tentativo di componimento bonario, all’udienza del 09.10.2015 la causa era riservata per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La presente sentenza viene redatta con l’esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi, cosi come previsto dagli art. 132 nr 4 e 118 disp. att. c.p.c. nel testo introdotto rispettivamente dagli art. 45 e 52 della legge nr. 69 del 18.06.2009, trattandosi di disposizioni applicabili anche ai procedimenti pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della legge (ossia 04.07.2009),ai sensi dell’art. 58, 2° comma, della legge citata.
In via preliminare, si osserva che la nuova formulazione dell’art. 115 c.p.c, intervenuta a partire dal 04.07.2009 consente di ritenere per ammesse le deduzioni delle parti, qualora le stesse non siano specificatamente contrastate.
Detto principio di non contestazione è stato recentemente rivisitato dalla Corte di Cassazione che nel confermare il dovere a carico del giudice di porre a fondamento della decisione anche i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite, subordina tale operatività alla precisa e dettagliata allegazione dei fatti ad opera della parte che invoca la non contestazione (Cassazione civile , sez. III, sentenza 24.03.2015 n. 5482).
Ancora in via preliminare, si ritiene di riportare di seguito alcune considerazioni ritenute condivisibili riportate negli scritti delle parti ed adeguate secondo il convincimento di questo GDP. E ciò conformemente al principio recente della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che ha stabilito: “Non è nulla la sentenza motivata richiamando integralmente atti di parte, depositati nel processo" (Cassaz. SS. UU. 16.01.2015 n. 642).
Nel caso di specie, superato qualsiasi dubbio sull’espletamento della limitata attività difensiva da parte dell’Avv. Di Te. a favore dell’Arch. C.N., in qualità all’epoca di dirigente del Comune di P., occorre ora verificare i presupposti del riconoscimento dell’assunzione del costo della difesa penale da parte dello stesso Comune e ciò si può fare in riferimento all’esito finale del procedimento proseguito con l’attività difensiva di altro avvocato, estraneo al presente giudizio.
Anzitutto si richiama brevemente la fonte del rimborso da parte degli enti locali delle spese legali sostenute da propri dipendenti per procedimenti penali promossi nei loro confronti, che attualmente è regolata dall’art. 28 del C.C.N.L. per il personale del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali del 14.09.2000, disciplina applicabile anche al personale di qualifica dirigenziale degli enti locali (all’epoca rivestita l’Ing. Ce., presso l’UTC), in virtù dell’articolo 12 del C.C.N.L. della dirigenza per il biennio 2000–2001.
Orbene, l’art. 28 del CCNL del 14.09.2000, dispone che: “L’ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento“.
Di conseguenza,
l’assunzione a carico dell’ente locale dell’onere relativo all’assistenza legale al dipendente consegue solo al verificarsi di una serie di presupposti (oltretutto richiamati all’interno della comparsa di costituzione e risposta in favore dell’Arch. N.).
Tali presupposti consistono nei seguenti requisiti:
1) l’esistenza di esigenze di tutela di interessi e diritti facenti capo all’ente pubblico;
2) la stretta inerenza del procedimento penale a fatti verificatisi nell’esercizio ed a causa della funzione esercitata o dell’ufficio rivestito dal dipendente/funzionario pubblico;
3) l’assenza di conflitto di interessi tra gli atti compiuti dal soggetto sottoposto a procedimento penale, conclusosi con il proscioglimento, e l’ente di appartenenza;
4) la conclusione del procedimento con una sentenza definitiva di assoluzione con formula piena o cd. liberatoria, con cui sia stabilita l’insussistenza dell’elemento psicologico del dolo e della colpa grave e da cui emerga l’assenza di pregiudizio per gli interessi dell’Amministrazione.

La formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato” deve essere considerata sufficiente, atteso che è stata dimostrata l’estraneità dell’Arch. N. da qualsiasi responsabilità penale.
Il Giudice penale ha assolto l’Arch. N., assistito da altro difensore di fiducia, avv. R., “perché il fatto non costituisce reato”, escludendo implicitamente lo stesso da qualsiasi responsabilità erariale.
Nella Relazione illustrativa del Decreto Ministero della Giustizia, 20.07.2012, n. 140, con riferimento alle tariffe penali è riportato che “Per l’attività giudiziale penale è stato seguito il medesimo metodo (del giudizio civile)".
L’attività in parola è consistita nella redazione di un’istanza di ammissione all’oblazione, ex art. 162-bis Cod. Pen, rigettata dal GIP in data 24.09.2008, per cui si ritiene che possono essere riconosciuti per l’attività svolta la somma complessiva di € 500,00 oltre CAP.
Si osserva come la sentenza di assoluzione in favore di N. abbia da un lato affermato l’insussistenza dell’elemento psicologico del dolo e della colpa grave, dall’altro abbia fatto emergere l’assenza di qualsivoglia pregiudizio per gli interessi dell’amministrazione.
A tal proposito il Consiglio di Stato, sez. V n. 2242 del 14.04.2000 ha ritenuto ragionevole circoscrivere “
l’eccezionale possibilità di rimborso delle spese ai soli casi in cui sia incontestabilmente accertata l’assenza di responsabilità penale degli imputati; presupposto di rimborsabilità delle spese legali sostenute dall’amministratore è il positivo e definitivo accertamento della mancanza di responsabilità, indipendentemente dalla formula assolutoria utilizzata dal giudice penale…..Pertanto, per la rimborsabilità delle spese legali, occorre una espressa valutazione positiva del comportamento, tale da ritenere il persistere del rapporto organico”.
Ritenendo assorbiti gli altri motivi dedotti dalle parti, si ritiene di accogliere per quanto di ragione la domanda di parte attrice con la condanna del Comune di P.., salvo rivalsa da parte di quest’ultimo a carico di chi di dovere.
Relativamente alle spese di giudizio, non é superfluo rammentare che l’istituzione del Giudice di Pace ha come compito principale quello di dirimere bonariamente le controversie tra le parti, proprio per evitare ulteriori fasi del giudizio che inflazionano gli Organi superiori della Giustizia (Tribunale, Cassazione, ecc.), né il GDP è tenuto a rispondere in ogni punto alle deduzioni avanzate dalle parti, specialmente se del tutto ovviamente infondate ed inconferenti.
Pertanto, le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono determinate, come in dispositivo, atteso che parte attrice poteva anche costituirsi in proprio.
PER QUESTI MOTIVI
Il Giudice DI PACE dott. Ma.Gi., definitivamente pronunciandosi sulla domanda proposta dall’Avv. Do. Di Te. con atto di citazione notificato contro l’ Arch. N.C. ed il Comune di P.., ogni altra istanza e deduzione, eccezione respinta, o ritenuta assorbita, così
PROVVEDE
1) Accerta e dichiara che il Comune di P.. è tenuto a manlevare e tenere indenne il convenuto N. dalla pretesa della parte attrice;
2) Accerta e dichiara che il Comune di P.. è di conseguenza debitore nei confronti dell’avv. D. della somma di euro 500,00 per tutte le causali innanzi dette;
3) per l’effetto condanna il convenuto Comune di P.. in p.l.r.p.t. al pagamento della detta somma in favore di parte attrice oltre interessi ed accessori di legge a partire dalla data della sentenza;
4) Condanna il Comune diP.. in p.l.r.p.t. al pagamento delle spese del presente giudizio in favore dei procuratori Avv. Michele C. e dell’Avv. Claudio, dichiaratisi antistatari e che si liquidano a ciascuno degli stessi in complessivi ed onnicomprensivi € 330,00 ( ivi comprese le spese) per competenze legali, in considerazione della non difficile attività processuale espletata, compensando il resto.
Così deciso a Taranto il 12.10.2015

AGGIORNAMENTO AL 07.09.2016

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AAA: cercasi Giudice Amministrativo di buona volontà:
così, non è più possibile andare avanti, nel disbrigo degli affari correnti, da parte del Tecnico Comunale cui è stata affidata (d'imperio) la missione di "tuttologo" ... un giorno sul fico, un giorno sul pero!!

     Sono parecchi anni che in materia paesaggistica (D.Lgs. n. 42/2004) e, segnatamente, sull'interpretazione della portata applicativa sia dell'art. 146 che dell'art. 167 questo o quell'altro TAR, piuttosto che il CdS, interviene con pronunciamenti dissonanti, mettendo letteralmente in crisi il Tecnico Comunale, abbandonato a sé stesso anche dalle varie spending review degli ultimi tempi, il quale non sa più che pesci pigliare.
     Veniamo al sodo della questione:
possibile che non ci sia un giudice (Collegio giudicante) che abbia la sensibilità (voglia!) di rimettere questioni alquanto delicate al giudizio dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sicché, una volta per tutte, si possano avere certezze sul corretto modus procedendi??
     Alcuni esempi di interpretazione controversa:
1) sul termine di 45 gg., ex art. 146, e di 90 gg., ex art. 167, a disposizione della Soprintendenza per esprimere il proprio parere:
se non viene rispettato cosa succede?? in che termini è obbligatorio e vincolante tale parere??
2) sulle fattispecie abusive passibili di compatibilità paesaggistica ex art. 167, comma 4:
la circolare MIBAC n. 33 del 26.06.2009 e la risposta (nota 13.09.2010 n. 16721 di prot.) del Ministero per i Beni e le attività culturali (MIBAC), al quesito 14.12.2009 n. 421 di prot. posto tramite ANCI nazionale, bisogna tenerne conto in fase istruttoria dell'UTC o no??
    
Intanto, leggete le novità riportate a seguire ...
07.09.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

 

Sul carattere non (più) vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza.
Ben può il suddetto parere essere emesso tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta. L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello della prescindibilità dello stesso parere, con la conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva responsabilità dell’Ente territoriale.

EDILIZIA PRIVATA: Sul carattere non (più) vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza.
Sul carattere non (più) vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza, con l’effetto che il Comune non può negare l’autorizzazione paesaggistica limitandosi a una “pedissequa presa d’atto del parere ministeriale” priva di una sua propria motivazione, autonoma e indispensabile, il Collegio, diversamente da quanto affermato in sentenza circa la “piena permanenza”, in capo alla Soprintendenza, del potere di esprimere un parere tardivo di carattere comunque vincolante, non ha che da fare richiamo, tra gli altri condivisibili precedenti della Sezione, alla recentissima decisione, sempre di questa Sezione, n. 3179 del 2016, con la quale è stato ribadito in particolare che “l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato”.
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni. “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime semplicemente la doverosità del diniego a seguito del carattere vincolante del parere e non anche una autonoma valutazione dello stesso anche in termini di condivisione…".

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... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA - SEZ. I, 10.11.2015 n. 1470, resa tra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso proposto da Co.Im. s.r.l. avverso
- a) il parere negativo di compatibilita' paesaggistica per progetto edificatorio reso dalla Soprintendenza in data 20.06.2014 e
- b) i provvedimenti del Comune in data 08.07.2014 e 07.11.2014, concernenti diniego di autorizzazione paesaggistica;
...
2. Ciò posto è fondato e va accolto il motivo di appello basato sull’asserzione per la quale deve considerarsi illegittimo il diniego di rilascio di un'autorizzazione paesaggistica, con il quale l'Amministrazione comunale si uniformi in modo pedissequo al parere negativo dato dalla Soprintendenza oltre il termine di 45 giorni previsto dall'art. 146, comma 8, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall'art. 25, comma 3, d. l. 12.09.2014 n. 133 (conv. dalla l. 11.11.2014 n. 164), siccome erroneamente ritenuto vincolante, posto che, qualora sia trascorso inutilmente il termine sopra indicato l'organo statale non è privato del potere di esprimere comunque un parere, ma il parere in tal modo dato perde il proprio carattere di vincolatività sicché lo stesso deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall'amministrazione procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del caso concreto.
3. Preliminarmente, in relazione all’accoglimento del primo motivo di appello e, per l’effetto e in riforma della sentenza impugnata, ai fini dell’accoglimento del ricorso di primo grado con conseguente caducazione (esclusivamente) degli atti comunali in epigrafe, concernenti diniego di autorizzazione paesaggistica, non appare ostativa l’eccezione di inammissibilità del ricorso al Tar sollevata dall’Amministrazione statale con la memoria difensiva del 14.07.2016, e ciò sia perché la sentenza impugnata ha respinto espressamente le eccezioni d’inammissibilità mosse in primo grado dal Mibact sicché, ove l’appellata avesse voluto contestare le statuizioni preliminari suindicate, avrebbe dovuto proporre ricorso in via incidentale, il che non è stato fatto; e sia perché, in ogni caso, i profili di inammissibilità dedotti dal Ministero nella recente memoria si riferiscono ad aspetti diversi ed estranei rispetto al motivo d’appello concernente “motivazione insufficiente” e “violazione dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004”, basato, come detto, “sul superamento del termine dei 45 giorni” da parte della Soprintendenza.
4. Nel merito, sul carattere non (più) vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza –e che, nella fattispecie, il parere sia tardivo non è circostanza contestata-, con l’effetto che il Comune non può negare l’autorizzazione paesaggistica limitandosi a una “pedissequa presa d’atto del parere ministeriale” priva di una sua propria motivazione, autonoma e indispensabile, il Collegio, diversamente da quanto affermato in sentenza circa la “piena permanenza”, in capo alla Soprintendenza, del potere di esprimere un parere tardivo di carattere comunque vincolante (cfr. la seconda opzione interpretativa enunciata in sentenza), non ha che da fare richiamo, tra gli altri, condivisibili precedenti della Sezione (v. sentenze Cons. Stato, sez. VI, nn. 4927 e 2136 del 2015), alla recentissima decisione, sempre di questa Sezione, n. 3179 del 2016, con la quale, in relazione a una controversia analoga, sotto svariati profili, a quella odierna, è stato ribadito in particolare che “l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni. “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime semplicemente la doverosità del diniego a seguito del carattere vincolante del parere e non anche una autonoma valutazione dello stesso anche in termini di condivisione…
" (così, testualmente, Cons. Stato, VI, n. 3179 del 2016 cit.).
Ritornando alla controversia odierna, poiché il Comune, con gli atti conclusivi dell’8 luglio e del 07.11.2014, risulta essersi limitato a richiamare in modo “pedissequo” il parere negativo –e tardivo- della Soprintendenza, senza alcuna motivazione specifica e autonoma, il diniego finale, alla luce dei precedenti giurisprudenziali rammentati sopra, va per ciò solo annullato, non potendo il Comune ricusare la chiesta autorizzazione paesaggistica mediante il mero richiamo al parere negativo della Soprintendenza.
5. In relazione al secondo profilo del primo motivo di appello va soggiunto che le considerazioni svolte sopra accrescono il rilievo da riconoscere alla dedotta contraddittorietà tra il diniego finale del Comune e il precedente parere favorevole di compatibilità paesaggistica dato dal Comune stesso il 01.04.2014, posto che la soluzione favorevole alla società faceva seguito a un’istruttoria approfondita, all’esito della quale organi dell’Amministrazione comunale avevano espresso considerazioni opposte a quelle ministeriali, sicché in modo condivisibile si osserva con l’appello che il Comune avrebbe quantomeno dovuto motivare in modo adeguato il proprio mutamento di opinione.
6. Poiché l’appellante sembra avere graduato la domanda giudiziale assegnando priorità all’esame, “in via assorbente”, del primo motivo di appello (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 5 del 2015), il gravame va per ciò solo accolto e, per l’effetto, assorbita ogni altra censura non esplicitamente esaminata, in riforma della decisione impugnata e in accoglimento del ricorso di primo grado, per le ragioni ed entro i termini sopra specificati, va annullato il provvedimento comunale di diniego di autorizzazione paesaggistica, salvi gli atti ulteriori della P.A..
7. Pare il caso di aggiungere, tuttavia, in modo conforme a quanto puntualizzato dall’appellante, e in vista del riesercizio del potere amministrativo, che devono considerarsi coperte dal giudicato le statuizioni della sentenza, non impugnate dal Ministero, con le quali il Tar, con riferimento al giudizio di (in)compatibilità paesaggistica, ha considerato “alcune affermazioni contenute nell’impugnato diniego … in effetti generiche e strumentali:
a) l’affermazione che il progetto “non risulta finalizzato ad un miglioramento della qualità paesaggistica complessiva dei luoghi”, appare del tutto inconferente, dal momento che appare effettivamente molto difficile che un progetto di edificazione possa avere la funzione di migliorare l’aspetto paesaggistico dell’ambiente. Si tratta, semmai, di inserirvi un’edificazione senza incidere sullo stesso in modo non conforme alla legge;
b) secondo la Soprintendenza l’edificazione delle ville “si configura come sostanziale modifica dei caratteri strutturali del terreno agricolo”: tale effetto appare, invero, ineliminabile rispetto a qualsiasi intervento di edificazione in un’area precedentemente agricola e poi trasformata in edificabile.
Anche il passaggio del ricorso in cui si sottolinea, con riferimento al modus operandi della Soprintendenza che: “Dopo aver bocciato il progetto sul piano e sul crinale, viene bocciato quello sul “versante”. Dopo aver bocciato il progetto in area erbosa, viene bocciato quello in area alberata. Bocciato il progetto con gli interrati, viene bocciato anche i progetto senza interrati.” (così il ricorso, al primo capoverso di pag. 16) non può non attirare l’attenzione di questo Tribunale.
Inoltre, è incontestabile che nella parte iniziale e nella parte finale, il provvedimento impugnato indulge in considerazioni generali sulle caratteristiche dell’area che sarebbero pertinenti se si stesse discutendo dell’edificabilità dell’area. Non a caso, infatti, la Soprintendenza dedica l’intera pagina 1 del proprio provvedimento a richiami alla DGR 9/2727 del 22.12.2011, contenente indicazioni che dovrebbero essere considerate e valutate, nonché rispettate, proprio in sede di pianificazione e cioè sono destinate ad orientare le scelte sull’utilizzazione del territorio compiute dal pianificatore.
A parere del Collegio, infatti, il richiamo, contenuto nel parere impugnato, alle regole che escludono e/o limitano l’edificazione sui versanti e a quelle che garantiscono il rispetto dei terrazzamenti (terrazze e ciglioni) che caratterizzano il paesaggio agrario lombardo collinare, integrano più un’inammissibile censura della scelta urbanistica, che una critica alle soluzioni progettuali sottoposte all’attenzione della Soprintendenza.
Nel caso di specie, invece, lo strumento urbanistico ha operato una precisa scelta in ordine all’edificabilità dell’area, che non può, come già più volte affermato dalla giurisprudenza, essere vanificata dal rigetto di ogni possibile soluzione costruttiva da parte dell’ente competente ad esprimere l’obbligatorio parere di compatibilità paesistica. Se il parere si limitasse a ciò, dunque, risulterebbe superato il limite della potestà attribuita all’autorità preposta a verificare il rispetto dei vincoli di tutela del paesaggio (che deve tendere, data l’edificabilità dell’area, all’individuazione della soluzione progettuale di minor impatto con l’ambiente, prendendo le mosse dal punto fisso che non può esistere l’opzione zero, dal momento che l’edificazione modificherà sempre il paesaggio, in specie in una zona particolarmente delicata come quella in questione), così come sostenuto da parte ricorrente…
” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.08.2016 n. 3561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mero decorso dei termini stabiliti dall’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 non ha l’effetto di consumare il potere amministrativo delle Autorità competenti, dal momento che la citata disposizione non fa discendere dall’inerzia la formazione di un silenzio-assenso.
Tanto più considerando il fatto che l’istituto del silenzio-assenso, per espressa previsione di legge (artt. 16, comma 3, 17, comma 2, e 20 della L. n. 241/1990), non poteva trovare applicazione con riferimento ai procedimenti che riguardano il patrimonio paesaggistico.
Come sostenuto da giurisprudenza ormai consolidata, è necessario che il parere della Soprintendenza sia formulato espressamente, atteso che l’apparente antinomìa che viene a crearsi tra la previsione di cui all’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 in tema di termini perentori per le determinazioni sull’autorizzazione ambientale e quella contenuta negli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, della L. n. 241/1990 che esclude, in subiecta materia, la formazione dell’assenso per effetto dell’inerzia dell’Amministrazione, deve risolversi privilegiando l’operatività delle ultime disposizioni, in quanto norme dotate di valenza speciale ed esaustiva.

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La più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha riconosciuto che, nel caso di superamento del termine di quarantacinque giorni fissato dall’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 per l’espressione del parere sulla compatibilità paesaggistica da parte della Soprintendenza, non si determina né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Ben può, pertanto, il suddetto parere essere emesso tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta. L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello della prescindibilità dello stesso parere, con la conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva responsabilità dell’Ente territoriale.
Ed invero, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art. 146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce che “l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”.
L’Amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza non si è espressa, poiché la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il procedimento.
Il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum, dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio tempore concluso dall’Ente territoriale competente.
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In materia di autorizzazioni paesaggistiche, la Soprintendenza adotta il proprio parere sulla base di valutazioni di natura tecnico-discrezionale volte ad accertare la compatibilità dell’opera rispetto alle caratteristiche paesaggistico-ambientali tipiche dei luoghi sottoposti al vincolo.
In quanto tali, le suddette valutazioni possono essere oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo entro limiti ristretti, qualora siano effettivamente ravvisabili profili di illogicità manifesta e travisamento dei fatti –ossia sotto il profilo dell’eccesso di potere, sub specie delle figure sintomatiche dell’arbitrarietà, dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità e dell’errore nella corretta percezione degli elementi che connotano la fattispecie– che, tuttavia, nel caso di specie non si ritengono sussistenti.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, dal canto suo, è tenuta, ai fini dell’espressione del relativo parere, a prendere in considerazione tutti gli elementi fattuali della vicenda dal punto di vista paesaggistico, e, ove si esprima negativamente in relazione alla sanatoria di un’opera vincolata, ad evidenziare le ragioni che ostano al mantenimento di quanto realizzato perché in grado di compromettere gli interessi che il vincolo gravante sull’area considerate mira a tutelare, esplicitando chiaramente il motivo per il quale le opere oggetto della domanda di sanatoria sono incompatibili con il suddetto vincolo.
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Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce della infondatezza delle censure dedotte.
Va, preliminarmente, rilevato che, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente, il mero decorso dei termini stabiliti dall’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 non ha l’effetto di consumare il potere amministrativo delle Autorità competenti, dal momento che la citata disposizione non fa discendere dall’inerzia la formazione di un silenzio-assenso. Tanto più considerando il fatto che l’istituto del silenzio-assenso, per espressa previsione di legge (artt. 16, comma 3, 17, comma 2, e 20 della L. n. 241/1990), non poteva trovare applicazione con riferimento ai procedimenti che riguardano il patrimonio paesaggistico.
Come sostenuto da giurisprudenza ormai consolidata, è necessario che il parere della Soprintendenza sia formulato espressamente, atteso che l’apparente antinomìa che viene a crearsi tra la previsione di cui all’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 in tema di termini perentori per le determinazioni sull’autorizzazione ambientale e quella contenuta negli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, della L. n. 241/1990 che esclude, in subiecta materia, la formazione dell’assenso per effetto dell’inerzia dell’Amministrazione, deve risolversi privilegiando l’operatività delle ultime disposizioni, in quanto norme dotate di valenza speciale ed esaustiva.
Ciò posto, è necessario evidenziare che le censure dedotte dalla ricorrente in relazione alla violazione dell’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 per mancato rispetto del termine ivi previsto ai fini dell’emissione del parere di competenza della Soprintendenza, non appaiono pertinenti.
Ed invero, il suddetto parere è stato reso nell’ambito della procedura di cui all’art. 146 dello stesso D.Lgs. n. 42/2004, innestata sulla pratica di sanatoria di cui alla L. n. 724/1994. Erroneamente si è ritenuto applicabile l’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 che, a ben vedere, opera solo con riferimento alle tipologie di intervento previste dal comma 4 del medesimo articolo, tra le quali non rientrano gli interventi di creazione di superfici utili o volumi e aumento di quelli già legittimamente realizzati.
Ciò posto, pur volendo superare, per esigenze di giustizia sostanziale, il dato letterale e ritenere la censura relativa alla tardività del parere, mossa dalla ricorrente, riferibile ai termini di cui all’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, questa non potrebbe ritenersi fondata per le ragioni che di seguito si espongono.
La più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha riconosciuto che, nel caso di superamento del termine di quarantacinque giorni fissato dall’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 per l’espressione del parere sulla compatibilità paesaggistica da parte della Soprintendenza, non si determina né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Ben può, pertanto, il suddetto parere essere emesso tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta. L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello della prescindibilità dello stesso parere, con la conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva responsabilità dell’Ente territoriale.
Ed invero, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art. 146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce che “l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”.
L’Amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza non si è espressa, poiché la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il procedimento.
Il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum, dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio tempore concluso dall’Ente territoriale competente.
Parimenti infondata è la censura relativa al difetto di motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui si esprime in senso sfavorevole alla sanatoria della tettoia.
Sul punto, è necessario, in primo luogo, considerare che, in materia di autorizzazioni paesaggistiche, la Soprintendenza adotta il proprio parere sulla base di valutazioni di natura tecnico-discrezionale volte ad accertare la compatibilità dell’opera rispetto alle caratteristiche paesaggistico-ambientali tipiche dei luoghi sottoposti al vincolo. In quanto tali, le suddette valutazioni possono essere oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo entro limiti ristretti, qualora siano effettivamente ravvisabili profili di illogicità manifesta e travisamento dei fatti –ossia sotto il profilo dell’eccesso di potere, sub specie delle figure sintomatiche dell’arbitrarietà, dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità e dell’errore nella corretta percezione degli elementi che connotano la fattispecie– che, tuttavia, nel caso di specie non si ritengono sussistenti.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, dal canto suo, è tenuta, ai fini dell’espressione del relativo parere, a prendere in considerazione tutti gli elementi fattuali della vicenda dal punto di vista paesaggistico, e, ove si esprima negativamente in relazione alla sanatoria di un’opera vincolata, ad evidenziare le ragioni che ostano al mantenimento di quanto realizzato perché in grado di compromettere gli interessi che il vincolo gravante sull’area considerate mira a tutelare, esplicitando chiaramente il motivo per il quale le opere oggetto della domanda di sanatoria sono incompatibili con il suddetto vincolo (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 09.08.2016 n. 1794  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon vincolante il parere fuori termine. Consiglio di Stato. La Soprintendenza può autorizzare interventi in aree vincolate pure dopo i 90 giorni.
Nell’ambito dell’autorizzazione per interventi edilizi su immobili e aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge, la Soprintendenza può rilasciare il parere di compatibilità in sanatoria anche dopo i 90 giorni stabiliti dal Codice dei beni culturali (comma 5, articolo 167, Dlgs 42/2004). Però in questo caso la Pa che deve dare il via libera non può più essere obbligata a rispettarlo, ma solo a motivare adeguatamente la decisione, sia se ne discosta sia se lo condivide.
Con questa novità interpretativa, il Consiglio di Stato -sentenza 18.07.2016 n. 3179, VI Sez.- ha bocciato il ricorso del ministero per i Beni e le attività culturali (Mibac) per cui anche nelle procedure non ordinarie il parere della Soprintendenza è sempre vincolante, anche se emesso dopo il termine perentorio di legge.
Ciò poiché lo stesso Consiglio di Stato in altri casi (sentenze 4656 e 4914/2013) ha ritenuto che la perentorietà non riguarda la sussistenza del potere dell'ente ministeriale o la legittimità dell'atto, ma solo l'obbligo di chiudere la procedura amministrativa (“sì” finale entro 180 giorni). In più, perché le stesse norme (comma 9, articolo 146), in caso di inerzia dell'organo nazionale, consentono all’ente locale di “richiamarlo” con una conferenza di servizi.
In questo caso era contestata la tesi opposta con cui il Tar aveva annullato lo stop di un Comune alla realizzazione di ripari temporanei di un bar su suolo pubblico (ordini di rimozione inclusi) poiché si richiamava semplicemente a un parere negativo della Soprintendenza, non più obbligatorio e vincolante poiché adottato dopo oltre cinque mesi, e senza alcuna valutazione dell’ente anche conforme.
I giudici, in linea col primo grado, hanno ritenuto applicabile anche per le pratiche di compatibilità ex-post il più recente orientamento giurisprudenziale della stessa Sezione valido per quelle ordinarie –da ultimo la sentenza 4927/2015- che ha chiarito come il legislatore, per bilanciare la tutela del paesaggio e la certezza dei rapporti giuridici, ha imposto che i poteri degli enti interessati «debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile».
Trascorsi quindi i 90 giorni, anche nelle “sanatorie” il parere della Soprintendenza è «privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante», anche se poi nulla vieta l’organo statale a rilasciarlo comunque, ma in tal caso l’atto va «autonomamente valutato» dalla pubblica amministrazione procedente. Nell’attuale quadro di «cogestione del vincolo», il Comune era dunque “libero” dall’obbligo di bloccare l’intervento proposto, ma doveva motivare la decisione in modo adeguato anche se condivideva il no del Mibac.
Questo principio resta «il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici», in realtà nella tempistica per l’autorizzazione paesaggistica –commi 8, 9, e 10, articolo 146– vi è «un ordito normativo volto a configurare…una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2016).

EDILIZIA PRIVATATutti i termini del procedimento sono ordinatori, salvo che la legge non preveda una espressa sanzione per il loro superamento, sanzione non prevista nel caso di specie.
Segnatamente, il fatto che il termine di cui all’articolo 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 non sia collegato ad alcuna decadenza trova conferma nel fatto che la stessa disposizione prevede, in caso di parere negativo, che la Soprintendenza sia tenuta a comunicare agli interessati il preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Invero, si è affermato che, in caso di mancato rispetto di cui agli artt. 146, comma 5, e 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il potere della Soprintendenza continua a sussistere, mantenendo la sua natura vincolante, in quanto la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
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In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato”.
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni: “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria”.

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Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.

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...per la riforma della sentenza breve del TAR PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZ. I - 18.09.2014 n. 2375, resa tra le parti, concernente parere negativo di compatibilità paesaggistica in sanatoria per la realizzazione di opere edilizie.
...
Con unico ed articolato motivo di appello il Ministero censura la sentenza del Tribunale Amministrativo nella parte in cui ha ritenuto che il parere della Soprintendenza sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, in quanto tardivo, avesse perso la sua natura vincolante, con la conseguenza che l’Amministrazione avrebbe dovuto rendere motivazione in ordine alla eventuale condivisione del medesimo.
Rileva in primo luogo che tutti i termini del procedimento sono ordinatori, salvo che la legge non preveda una espressa sanzione per il loro superamento, sanzione non prevista nel caso di specie.
Evidenzia ancora che il fatto che il termine di cui all’articolo 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 non sia collegato ad alcuna decadenza trova conferma nel fatto che la stessa disposizione prevede, in caso di parere negativo, che la Soprintendenza sia tenuta a comunicare agli interessati il preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Richiama in proposito le sentenze di questo Consiglio (sez. VI, n. 4914/2013 e n. 4656/2013) nelle quali si è affermato che, in caso di mancato rispetto di cui agli artt. 146, comma 5, e 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il potere della Soprintendenza continua a sussistere, mantenendo la sua natura vincolante, in quanto la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
Il Ministero appellante deduce ancora, a sostegno della tesi della persistente natura vincolante del parere, la circostanza che il comma 9 dello stesso articolo 146, prevede che, in caso di inerzia dell’organo statale, l’amministrazione territoriale può procedere all’indizione di una conferenza di servizi. Di conseguenza, anche nell’ipotesi in cui il parere dovesse intervenire prima della pronuncia del Comune, anche dopo la scadenza del termine, esso continuerebbe a mantenere la sua natura vincolante, non potendo il mancato rispetto di esso incidere sui caratteri del provvedimento tardivamente adottato, rendendoli diversi rispetto a quelli previsti dalla norma attributiva del potere.
L’appello non è meritevole di favorevole considerazione alla luce della più recente giurisprudenza della Sezione, che è condivisa dal Collegio (cfr. Cons. Stato, VI, 15.03.2013, n. 1561; sez. VI, 28.10.2015, n. 4927).
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile
”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni: “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime semplicemente la doverosità del diniego a seguito del carattere vincolante del parere e non anche una autonoma valutazione dello stesso anche in termini di condivisione (l’atto di diniego n. 3/2014 del 04.04.2014 così recita: “Ritenuto di non provvedere al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, atteso che il parere della stessa Soprintendenza è vincolante per la definizione della proposta in questione”).
In conclusione, pertanto, l’appello proposto dal Ministero deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza appellata.
L’avvenuta reiezione dell’appello principale determina l’assorbimento dell’esame dell’appello incidentale presentato dalla società St., in quanto, per espressa e palesata volontà di questa, il gravame viene condizionato all’accoglimento di quello principale del Ministero.
Nell’atto di appello incidentale si legge, infatti, che questo è “condizionato” ed è proposto “per la denegata ipotesi in cui l’appello del MiBAC fosse ritenuto fondato”.
Ritiene, infine, la Sezione di precisare che alcuna valenza assumono, ai fini della definizione del presente giudizio, le circostanze rappresentate dall’amministrazione e relative alla presentazione, da parte della società appellata, di un nuovo progetto di sistemazione degli spazi esterni del locale dalla stessa gestito, trattandosi di opere diverse rispetto a quelle oggetto di causa e di differente e nuovo procedimento amministrativo.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
La novità dell’orientamento giurisprudenziale assunto dalla sezione sulla questione costituisce motivo per l’integrale compensazione tra le parti costituite delle spese del grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.07.2016 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il Consiglio di Stato esprime il parere sul decreto in materia di interventi paesaggistici.
Il Consiglio di Stato, Sez. consultiva, parere 01.09.2016 n. 1824, ha espresso avviso favorevole, con alcune osservazioni e proposte di correttivi, sullo schema di decreto proposto dal Ministero per i beni culturali riguardante l’individuazione degli interventi che sono esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sono sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata (Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante “individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’art. 12 del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’art. 25 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164).
Il decreto si pone l’obiettivo di snellire il peso burocratico sulle iniziative dei privati, cittadini e imprese, e di restituire efficienza ed efficacia all’azione amministrativa in un ambito, quale quello della tutela paesaggistica, particolarmente delicato per la rilevanza costituzionale degli interessi pubblici coinvolti.
Il Consiglio di Stato, tra le osservazioni formulate, ha precisato che qualora occorrano sia un’autorizzazione paesaggistica che un permesso di costruzione e c'è disaccordo tra le amministrazioni rispettivamente competenti, è convocata una conferenza di servizi; e che in ogni caso è fatta salva, ove occorrente, la distinta autorizzazione da rilasciare a tutela dei beni di interesse storico, artistico o archeologico.
Infine il Consiglio di Stato ha osservato che anche per gli interventi “liberalizzati”, le disposizioni del decreto hanno immediata applicazione per le regioni a statuto ordinario, laddove le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano hanno l’obbligo di darvi attuazione con proprie disposizioni, secondo i principi statutari (tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

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Al riguardo, si legga anche: Intesa sullo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento, proposto dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, relativo all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164 (Conferenza Unificata, repertorio atti n. 90/CU del 07/07/2016).

EDILIZIA PRIVATAPer costruire in zona sismica obbligatorio ok della regione.
L'appaltatore che realizza in zona sismica un'opera pubblica senza l'autorizzazione della regione rischia un'ammenda. Il costruttore, infatti, è sempre tenuto al deposito del progetto, indipendentemente dal fatto che sia l'ente stesso il committente dell'opera.

A stabilirlo la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 26.08.2016 n. 35491, con la quale gli appaltatori sono stati ritenuti responsabili dei reati previsti agli art. 93, 94 e 95 del dpr 380/2001 e condannati ad una ammenda di 1.000 euro ciascuno.
Nel dettaglio i soggetti interessati sono stati ritenuti responsabili di aver realizzato una struttura, su indicazione del comune, in una zona ad alta sismicità, senza preavviso al comune stesso e senza la preventiva autorizzazione dell'Ufficio tecnico regionale.
In particolare omettendo il deposito dei progetti e procedendo ugualmente alla realizzazione dell'opera. A nulla è, quindi, valsa la motivazione dei ricorrenti in merito al fatto che, in realtà, l'opera fosse di proprietà del comune committente.
A tal proposito, infatti, la Cassazione ha precisato che «il reato in oggetto può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto del preavviso e del deposito dei progetti e degli allegati tecnici e della richiesta al competente ufficio regionale» (articolo ItaliaOggi del 27.08.2016).
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MASSIMA
1. Con sentenza in data 18.12.2014, il Tribunale di Salerno ha condannato Ma.Fr.An., Le.Do. e Gi.Vi., alla pena di € 1.000 di ammenda ciascuno in relazione ai reati di cui agli artt. 93-94 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, previa riqualificazione giuridica dell'originaria imputazione di cui all'art. 328 cod. pen. contestata al Gi., concesse le circostanze attenuanti generiche e aumentata la pena per la continuazione.
I ricorrenti sono stati ritenuti responsabili di aver realizzato una struttura di contenimento in gabbioni metallici a sei file soprapposte, opere assentite con delibera del Comune di Riciliano, comune classificato ad alta sismicità, senza preavviso allo sportello unico del Comune, omettendo il contestuale deposito dei progetti presso quest'ultimo ufficio, ed eseguito le opere senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione Campagna; Ma.Fr.An. quale titolare della ditta Se.Co., esecutrice dei lavori appaltati dal Comune suddetto, Le.Do. quale direttore dei lavori e comunque progettista e rilevatore architettonico e Gi.Vi. quale funzionario del Comune e responsabile del procedimento relativo alle opere in oggetto.
...
4. Il ricorso di Ma.Fr.An. è infondato.
4.1. E' infondato il primo motivo di ricorso con cui si deduce la violazione dell'art. 522, comma 2, cod. proc. pen.
La contestazione di aver dato corso ai lavori senza la preventiva autorizzazione del competente ufficio tecnico regionale, integrante la contravvenzione di cui all'art. 94 cit., è stata contestata nel corpo della contestazione come è facilmente evincibile dalla lettura del capo a), essendo solamente omessa l'indicazione dell'articolo di legge violato, è stato garantito il diritto di difesa, sicché non ricorre la violazione di cui all'art. 522, comma 2, cod. proc. pen.
Non integra la nullità di cui all'art. 522 cod. proc. pen. l'omessa indicazione della norma di legge violata, non essendo necessaria la sua specifica indicazione in presenza di una chiara e precisa enunciazione "in fatto" e quando l'imputato abbia avuto piena cognizione degli elementi dì fatto che la integrano (Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, P.G. in proc. Diaji, Rv. 253776).
4.2. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce la violazione della legge penale in relazione agli artt. 5 cod. pen. e 93 e 94 d.P.R. 380 del 2001, sotto un duplice profilo: l'assenza in capo al medesimo, legale rappresentante della ditta esecutrice di un'opera pubblica conferita con appalto pubblico dal Comune di Riciliano, degli obblighi previsti dalla normativa antisismica sul rilievo che l'ente, che doveva ricevere la comunicazione prevista dall'art. 93 cit. e a cui competeva richiedere l'autorizzazione al competente ufficio regionale, era il medesimo che aveva conferito l'appalto ed era dunque il committente dell'opera, in secondo luogo difetterebbe l'elemento soggettivo del reato ai sensi dell'art. 5 cod. pen. avendo fatto affidamento sulla legge regionale che prevede, nel caso di appalto pubblico, che gli obblighi informativi spettino al titolare del potere di spesa e cioè al Comune.
Con riferimento al primo profilo questa Corte ha ripetutamente affermato che
il soggetto attivo del reato di cui all'art. 95 del d.P.R. 380/2001 è anche il titolare della ditta chiamata ad eseguire opere edilizie in zone sismiche, in quanto destinatario diretto del divieto di esecuzione dei lavori in assenza dell'autorizzazione e senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio regionale (Sez. 3, n. 6675 del 20/12/2011, Lo Presti, Rv. 252021; Sez. F, n. 35298 del 24/07/2008, Sparviero, Rv. 240665; Sez, 3, n. 35387 del 24/05/2007, Trozzo, Rv. 237537; Sez. 3, n. 887 del 10/12/1999, Scardellato Rv. 215602).
Dunque
la contravvenzione in oggetto può essere commessa da chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto del preavviso e del deposito dei progetti e degli allegati tecnici e della richiesta al compente ufficio tecnico regionale, sicché, pur non trattandosi di un reato proprio del proprietario, la configurazione giuridica dello stesso può esser inquadrata in quelli a soggettività ristretta, giacché, oltre che da questi, può esser commesso dal committente, dal titolare della concessione edilizia ed, in genere, da chi ha la disponibilità dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da quei soggetti che esplicano attività tecnica ed hanno iniziato la costruzione senza accertarsi degli intervenuti adempimenti e, come tale, non è esonerato automaticamente da responsabilità per la presenza di un direttore dei lavori.
Tali principi devono essere ritenuti applicabili anche nel caso in esame, posto che il ricorrente ha assunto la qualifica di soggetto "esecutore delle opere", affidate dall'ente pubblico con appalto pubblico (contratto rep. n. 30/2010 del 28.09.2010).
La circostanza che egli fosse esecutore di un'opera pubblica, conferita con contratto di appalto pubblico dal Comune di Riciliano, non lo esonera dagli obblighi che gravano sul medesimo, per la considerazione che nel contratto di appalto, anche pubblico, l'appaltatore si impegna ad eseguire l'opera a regola d'arte con mezzi propri e sotto la sua responsabilità in piena autonomia anche nel caso in cui l'amministrazione pubblica abbia predisposto il progetto e le indicazioni (Cass. Civ. sez. 1, n. 15784, del 02/07/2010, Rv 613928).
Dunque, come correttamente ritenuto nella sentenza impugnata (pag. 10),
l'esecutore di opere pubbliche è costruttore/esecutore delle opere, sicché non si può escludersi la responsabilità per violazione agli obblighi derivanti dalla legge, obblighi che non possono venir meno per il fatto che l'ente appaltante sia lo stesso che doveva ricevere la comunicazioni. E ciò in forza della ratio delle disposizioni dettate in tema di vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, che prevedendo un complesso sistema di cautele rivolto ad impedire l'esecuzione di opere non conformi alle norme tecniche, ed impongono a tutti i soggetti esecutori delle opere (proprietari, committenti, direttore dei lavori) ad osservare le cautele a cui sono connessi gli obblighi, che sono sanzionati con le contravvenzioni in parola.
Deve pertanto ribadirsi il principio secondo cui
il reato di cui all'art. 95 cit., potendo essere commesso da chiunque violi o concorra a violare l'obbligo di deposito del progetto delle opere realizzate in zona sismica, e senza autorizzazione del competente ufficio regionale, può essere realizzato dal proprietario, dall'esecutore di un'opera pubblica, che abbia esplicato attività tecnica ed iniziato la costruzione, senza il doveroso controllo del rispetto degli adempimenti di legge.
Consegue che non possa ravvisarsi alcun errore di diritto scusabile quando l'attività professionale del soggetto, come nel caso di specie, presupponga la conoscenza della normativa di settore e il suo comportamento sia sintomatico della inosservanza dell'obbligo di adeguata informazione per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia (Sez. 3, n. 11045 del 18/02/2015, De Santis, Rv. 263288).
Inoltre, priva di pregio è la tesi difensiva secondo cui il comportamento antidoveroso era conseguente ad un errore di diritto sulla legge extrapenale scusabile.
Il comportamento antidoveroso di aver dato inizio ai lavori senza autorizzazione ex art. 94 cit., non può essere escluso dalla circostanza che la legge regionale della Campania 9/1983 succ. mod. 19/2012 e 1/2012 e Reg. 23/2010, stabilisce che l'obbligato alla presentazione della denunzia è, in caso di committenza pubblica, il committente individuato nel titolare del potere decisionale e di spesa ai sensi del art. 2, comma 3, DPGR 23/2010, e ciò in quanto, come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, la legislazione in materia di governo del territorio non è esercitata, ai sensi dell'art. 117 Cost., in via esclusiva nella regione Campania, bensì concorrente e non può investire la materia della sicurezza staticità degli edifici in zona sismica che rimane di esclusiva competenza statale (Sez. 3, n. 37375 del 20/06/2013, P.M. in proc. Serpicelli, Rv 257594; Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013, Crisafulli, Rv 241287), sicché la legge regionale non esonera da quanto previsto dalla legge statale in termini di precauzione antisismiche e, considera la natura professionale del soggetto agente, non vale ad escludere il dolo del reato invocando l'art. 5 cod. pen..
5. Infondato è, anche, il ricorso di Do.Le..
In primo luogo la qualità di direttore dei lavori non richiede incarico formale, peraltro deve rilevarsi che la sentenza motiva sulla circostanza che egli era direttore dei lavori, con incarico formale per la realizzazione dell'opera principale (opere per la realizzazione delle rete di adduzione per la metanizzazione) e che, con riguardo alle opere in oggetto (gabbioni metallici di contenimento di un muro, opere connesse a quella principale), il Le. aveva redatto la perizia di variante e il progetto sottoposto alla Giunta Comunale, a cui era seguita la sottoscrizione del verbale ripresa lavori in data 25.01.2010, sicché anche privo di fondamento è il vizio di travisamento della prova.
Il Tribunale ha correttamente argomentato la qualifica di progettista e direttore dei lavori assunta con incarico formale (determina n. 154 del 16/07/20109) ed avendo di fatto e in concreto operato, in tale veste, anche con riferimento alle opere in oggetto. La motivazione è priva di censure di illogicità e dunque non sussiste il lamentato vizio di travisamento della prova.
5.1. Con riferimento al secondo motivo è sufficiente richiamare quanto esposto al par. 4.2. e con riguardo alla qualifica ricoperta dal Le., deve ricordarsi che,
in materia di costruzioni in zone sismiche, il direttore dei lavori risponde del reato previsto dall'art. 95 d.P.R. n. 380 del 2001, per l'esecuzione di interventi edilizi in assenza del previo deposito del progetto presso il Genio Civile, in virtù della posizione di controllo affidatagli su costruzioni potenzialmente lesive della pubblica incolumità e del conseguente obbligo di verificare il rispetto degli adempimenti prescritti dalla normativa in materia (Sez. 3, n. 7775 del 05/12/2013, Damiano, Rv. 258854).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di accertata compatibilità paesaggistica (art. 167 dlgs 42/2004), il "profitto conseguito" è l’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le regole che tutelano il bene vincolato.
Secondo la ricorrente, il profitto derivante dall’abuso edilizio sanato dovrebbe essere calcolato  non solo come differenza tra il valore attuale di mercato degli edifici commerciali nella zona in questione (2.000 €/mq) ed il valore del porticato originario (460 €/mq) ma anche detraendo il costo delle opere realizzate (nello specifico € 20.491,81, come da computo metrico).
A sostegno, viene richiamato il DM 26.09.1997 (Determinazione dei parametri e delle modalità per la qualificazione della indennità risarcitoria per le opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo).
La tesi della ricorrente non appare condivisibile.
La disciplina del DM 26.09.1997 aveva come presupposto la perfetta equivalenza tra la sanzione ripristinatoria e la sanzione pecuniaria, secondo un giudizio discrezionale rimesso all’autorità incaricata della tutela del vincolo. Nel regime dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004, invece, la sostituibilità della rimessione in pristino con il pagamento di una somma è un’eccezione al divieto di autorizzazione paesistica in sanatoria.
Il profitto, nel nuovo contesto normativo, non può più avere come riferimento l’autore dell’abuso (per il quale rileva la differenza tra il valore dell'opera realizzata e i costi di esecuzione della stessa), ma si confronta direttamente con l’interesse paesistico.
Il prezzo chiesto all’autore dell’abuso è quindi l’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le regole che tutelano il bene vincolato.
Se nel violare queste regole l’autore dell’abuso ha speso più di quanto il mercato sia disposto a riconoscere per il passaggio di proprietà, il rischio rimane a carico del privato. Lo stesso vale, a maggior ragione, se le spese sono inferiori al prezzo attuale di vendita.
In altri termini, la collettività non può essere chiamata a garantire l’economicità della violazione paesistica attraverso una riduzione della pretesa sanzionatoria, né in relazione alle condizioni soggettive dell’autore dell’abuso, né con riguardo alla situazione del mercato immobiliare.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio del 05.01.2016, con il quale è stato dichiarato l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, ed è stato imposto il pagamento di una sanzione pecuniaria pari a € 27.997,20;
...
Considerato a un sommario esame:
1. La società ricorrente ha realizzato, a partire dal 2009, un intervento di ristrutturazione di un edificio situato nel Comune di Lovere, in via Marconi. L’immobile è sottoposto a vincolo paesistico ex art. 136, comma 1-c, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
2. In difformità dall’autorizzazione paesistica, la ricorrente ha annesso al fabbricato principale un porticato avente superficie pari a 18,18 mq, attribuendo a questa struttura accessoria la medesima destinazione commerciale del resto dell’immobile.
3. Il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio del 05.01.2016, ha dichiarato l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004, e ha imposto il pagamento di una sanzione pecuniaria pari a € 27.997,20 a titolo di profitto conseguito mediante la trasgressione.
Il calcolo è stato effettuato sulla base del valore attuale di mercato degli edifici commerciali nella zona in questione (2.000 €/mq), detraendo il valore del porticato originario (460 €/mq). Non è stato preso in considerazione il parametro del danno ambientale (alternativo al parametro del profitto), in quanto la chiusura del porticato ha in realtà un effetto migliorativo sul paesaggio (v. perizia di stima del 05.10.2015).
4. Secondo la ricorrente, il profitto derivante dall’abuso edilizio sanato dovrebbe essere calcolato detraendo anche il costo delle opere realizzate (nello specifico € 20.491,81, come da computo metrico). A sostegno, viene richiamato il DM 26.09.1997 (Determinazione dei parametri e delle modalità per la qualificazione della indennità risarcitoria per le opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo).
5. La tesi della ricorrente non appare condivisibile.
La disciplina del DM 26.09.1997 aveva come presupposto la perfetta equivalenza tra la sanzione ripristinatoria e la sanzione pecuniaria, secondo un giudizio discrezionale rimesso all’autorità incaricata della tutela del vincolo. Nel regime dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004, invece, la sostituibilità della rimessione in pristino con il pagamento di una somma è un’eccezione al divieto di autorizzazione paesistica in sanatoria. Il profitto, nel nuovo contesto normativo, non può più avere come riferimento l’autore dell’abuso (per il quale rileva la differenza tra il valore dell'opera realizzata e i costi di esecuzione della stessa), ma si confronta direttamente con l’interesse paesistico.
6. Il prezzo chiesto all’autore dell’abuso è quindi l’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le regole che tutelano il bene vincolato.
Se nel violare queste regole l’autore dell’abuso ha speso più di quanto il mercato sia disposto a riconoscere per il passaggio di proprietà, il rischio rimane a carico del privato. Lo stesso vale, a maggior ragione, se le spese sono inferiori al prezzo attuale di vendita.
In altri termini, la collettività non può essere chiamata a garantire l’economicità della violazione paesistica attraverso una riduzione della pretesa sanzionatoria, né in relazione alle condizioni soggettive dell’autore dell’abuso, né con riguardo alla situazione del mercato immobiliare.
7. Non sussistono pertanto i presupposti per concedere una misura cautelare sospensiva o propulsiva (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 23.05.2016 n. 376 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Atti p.a. ad accesso sbarrato. Possono rimanere segreti se non si ha titolo a svelarli. Il Consiglio di stato mette all'angolo le disposizioni del Freedom of information act.
Atti e dati della pubblica amministrazione possono rimanere sotto chiave, se chi chiede di vederli non dimostra di avere titolo alla discovery. Il Consiglio di stato stende così un velo sull'
«accesso civico 2.0».
Questo anche a costo di mettere in un angolo le disposizioni del Freedom of information act (Foia) all'italiana, alias dlgs 97/2016, che ha corretto il precedente dlgs 33/2013.
La norma (quella del 2016) sul riformato accesso civico dice che «chiunque» può avere atti e documenti della p.a.; i giudici di Palazzo Spada (sentenza 12.08.2016 n. 3631) restringono l'accesso, consentendolo solo a chi può dimostrare una posizione legittimante (e quindi non a «chiunque»). Si attendono, ora, lumi dall'Autorità anticorruzione, che deve stendere linee guida per gli enti pubblici.
La questione sembra di lana caprina, aggrappata com'è a terminologie giuridiche; invece è un problema molto concreto, soprattutto per i riflessi economici.
Partiamo da zero.
Il dlgs 97/2016 riscrive l'articolo 5 del dlgs 33/2013, e le parole usate, per descrivere l'accesso civico, sembrano chiare e limpide.
Chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (comma 2): dunque, anche se una p.a. non ha l'obbligo di leggere diffondere sul sito un singolo documento o un dato, queste informazioni sono, comunque, a disposizione di chiunque le richieda.
Inoltre l'esercizio del diritto di accesso civico non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente (comma 3): e cioè non bisogna dimostrare un particolare stato (come la titolarità di un diritto o di un interesse specifico) per poter chiedere copia di documenti e dati.
Infine l'istanza di accesso civico deve identificare i dati, le informazioni o i documenti richiesti, ma non richiede motivazione (comma 3): e, quindi, la richiesta deve far capire alla PA ciò che si chiede, ma non bisogna dichiarare quale uso ci si proponga di fare, perché è accettabile anche una richiesta senza motivazione.
Non è escluso, pertanto, che se ne possa fare un uso per attività economiche, basate sulle potenzialità tendenzialmente infinite dei dati detenuti dal settore pubblico.
Questo quadro disegna un'apertura totale a dati e documenti della p.a..
La norma, tuttavia, seppure con molte ambiguità lessicali, individua limiti all'accesso civico sia relativi a interessi pubblici sia a interessi privati (articolo 5-bis). Per gli interessi pubblici, la loro sussistenza dovrebbe essere a priori tale da escludere l'accesso civico: tuttavia, stando alla lettera, se non c'è uno degli interessi pubblici elencati, non c'è bisogno di accertare legittimazione attiva e motivazione del richiedente.
Per gli interessi privati, si è già osservato (si veda ItaliaOggi Sette del 20.06.2016) che proprio l'assenza della necessità di riscontrare la posizione legittimante e di dichiarare la motivazione della richiesta di accesso civico finiscono per svuotare la possibilità di far prevalere la privacy e, appunto, gli altri interessi privati.
A questo punto interviene la sentenza del Consiglio di stato in commento, che ribalta i termini della questione e opacizza i vetri della casa della p.a.; anche se, per arrivare a questo risultato, i supremi giudici amministrativi forzano la lettera del decreto 97/2016.
Vediamo in che modo. Nella pronuncia si legge, prima, che il decreto legislativo n. 97 del 2016 «svincola il diritto di accesso da una posizione legittimante differenziata» (art. 5 del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato); poi, però, aggiunge che «al contempo, sottopone l'accesso ai limiti previsti dall'articolo 5-bis» (sempre del novellato dlgs 33/2013): «in tal caso, la p.a. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del richiedente».
Siamo al precario equilibrio di parole, che cercano di tenere insieme due concetti opposti: è esclusa una particolare posizione legittimante, ma si deve valutare la posizione legittimante.
Se si deve valutare la posizione di chi chiede l'accesso civico, allora il richiedente dovrebbe dichiarare quale interesse persegue e quale sia lo scopo della richiesta. Solo così la p.a. può fare il bilanciamento tra trasparenza e interessi pubblici o privati. Ma l'articolo 5, stando alla lettera, esclude la necessità di dichiarare la propria legittimazione e la motivazione.
A parte il fatto che il cerino di questa difficile valutazione rimarrebbe nelle mani dei singoli funzionari pubblici, chiamati a decidere sulla richiesta di accesso (con esiti magari diversi e anche contraddittori da ente a ente), in ogni caso qualsiasi valutazione di questo tipo presuppone una interpretazione abrogante dell'articolo 5 sopra citato (accesso disponibile a chiunque, senza motivazione e senza dimostrare di una posizione legittimante).
In sostanza, la sentenza del Consiglio di stato amputa la portata innovativa del nuovo accesso civico a documenti e dati della p.a. e le potenzialità del Foia vengono svilite. Ma non è detta l'ultima parola. Si attendono, infatti, le linee guida dell'Autorità nazionale anticorruzione ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico (articolo 5-bis, comma 6) (articolo ItaliaOggi del 24.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIPer i giornalisti l’accesso agli atti non è automatico. Consiglio di Stato. Il caso derivati del Tesoro.
Resta difficile il diritto di accesso agli atti per i giornalisti.
Secondo la sentenza 12.08.2016 n. 3631 del Consiglio di Stato, Sez. VI, non basta al redattore di una testata specializzata, invocare il diritto di cronaca per ottenere dal ministero dell’Economia copia dei contratti derivati stipulati dallo Stato con 19 istituti di credito stranieri. O, quanto meno, non basta al giornalista invocare la legge 241/1990 e il generico diritto di accesso ivi previsto.
Rimangono così riservati i contratti sottoscritti (per oltre 150 miliardi) dallo Stato per proteggersi dalle oscillazioni di valute e tassi d’interesse. Secondo i giudici, non esiste un rapporto tra diritto d’accesso (legge 241/1990) e libertà di informare. Se il giornalista adopera lo strumento del diritto di accesso previsto dalla legge 241 (articoli 22 e seguenti) invocando la sua «libertà di informarsi per informare», deve rispettare le regole di tale legge e quindi i limiti che essa pone alle richieste di dati.
La Costituzione (articolo 21) configura la libertà di cronaca e quella d’informare, la libertà di opinione e quella di stampa, ma il Consiglio di Stato distingue due profili: attivo e passivo. Il primo coincide con la libertà d’informare (comunicare e diffondere idee e notizie); il diritto di stampa e di opinione, nell’aspetto passivo, attiene invece ai destinatari dell’informazione e consiste nelle libertà di esser informati. Ma un conto è la libertà d’informare, altro è quella di accedere alle informazioni.
La libertà d’informazione, come libertà di informarsi per informare, consiste nell’interesse a ricevere le notizie in circolazione e non coperte da segreto o da riservatezza e a monte ha l’interesse a ricercare le notizie. C’è quindi una relazione giuridica tra chi informa e chi viene informato, ma il diritto a essere informati non può accrescere il diritto di accesso di chi informa, né nei contenuti né nel risultato.
I giudici ritengono quindi insufficiente il richiamo a legge 241 ed esercizio dell’attività giornalistica. Ma la sentenza sottolinea che è in corso un’evoluzione normativa sulla trasparenza: la direttiva 2003/98/Ce sull’informazione nel settore pubblico, il decreto legislativo 33/2013 (sull’accesso civico) con obbligo di pubblicazione sull’uso delle risorse pubbliche e il decreto legislativo 97/2016 (detto Foia, Freedom of information act) con un sito denominato «Soldi pubblici» sono forme diffuse di controllo. E la direttiva 2014/24 sugli appalti amplia la legittimazione dei cittadini in qualità di contribuenti a un corretto svolgimento dell’attività amministrativa.
Del resto, pochi giorni fa il Tar Lazio (sentenza 8755/2016, si veda il Sole 24 Ore del 9 agosto) ha ammesso l’accesso su atti del protocollo diplomatico per la vicenda dei Rolex arabi e il Tar Veneto (sentenza 09.08.2016, n. 952) ha consentito la verifica dei contributi concessi per una tromba d’aria
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.08.2016).
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MASSIMA
4. – L’appello è fondato limitatamente alla statuizione sulle spese del giudizio, per il resto non potendo esser condiviso, anche se la sentenza del Tribunale amministrativo merita, in punto di motivazione, le precisazioni che si esporranno.
4.1 In primo luogo, occorre sgomberare il campo da argomentazioni che, ad avviso del Collegio, non riguardano in maniera decisiva il thema decidendum.
Per quanto riguarda le controdeduzioni dell’Amministrazione appellata, si rammenti che, nel caso in esame, l’odierno appellante ha agito a seguito del silenzio serbato dalla P.A. sulla sua istanza d’accesso. Sicché non dura fatica il Collegio a reputare l’assunto della difesa erariale, sullo scopo dell’accesso per svolgere un controllo generalizzato dell’azione amministrativa e sull’effetto pregiudizievole dell’eventuale ostensione dei richiesti contratti in derivati sul mercato relativo, nulla più che un argomento difensionale. Ma ciò si risolve nella inammissibile –secondo ricevuti princìpi- sostituzione d’un concreto provvedimento di diniego, mai emanato, con uno scritto difensivo che, volto a surrogare una inespressa volontà della P.A., che potrebbe pure avere opinioni più articolate al riguardo.
Per altro verso, con riguardo a quanto deduce l’appellante, è ben noto al Collegio, ma altrettanto non pertinente ai presenti fini, l’arresto di questo Consiglio (cfr. Cons. St., V, 17.03.2015 n. 1370), secondo cui «… il diritto di accesso … è collegato a una riforma di fondo dell’Amministrazione, ispirata ai principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa desumibili dall’art. 97 Cost., che s’inserisce a livello comunitario nel più generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e alla attività… amministrativa quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi e illegalità…», poiché nella specie si controverte non sulla ratio generale dell’accesso, ma della sua utilizzabilità da parte dell’appellante nella concreta situazione per cui è causa e nel contesto normativo della legge n. 241, invocato dall’appellante medesimo.
Invero,
il punto centrale della presente controversia è e resta, avendo voluto l’appellante adoperare proprio lo strumento ex artt. 22 e ss. della l. 07.08.1990 n. 241 deducendo la propria libertà di informarsi per informare, la soggezione del diritto di accesso, come ivi delineato, alle stringenti regole colà previste e, quindi, la legittimazione dell’appellante al loro uso e, di conseguenza, ai rimedi che l’ordinamento appresta a garanzia di questo.
Di ciò il TAR ha dato buona contezza, laddove ha precisato che, se fosse «
… sufficiente l’esercizio dell’attività giornalistica ed il fine di svolgere un’inchiesta… su una determinata tematica per ritenere, per ciò solo, il richiedente autorizzato ad accedere a documenti in possesso… (della P.A.) …, sol perché genericamente riconducibili all’oggetto di detta “inchiesta”, si finirebbe per introdurre una sorta di inammissibile azione popolare sulla trasparenza dell’azione amministrativa che la normativa sull’accesso non conosce…».
4.2 In altri termini,
l’istanza di accesso proposta in via amministrativa dall’appellante e la conseguente domanda giudiziale vanno valutate, per saggiare la legittimità del diniego (rectius: silenzio) opposto dall’Amministrazione alla luce dell’invocato disposto normativo, senza poter prendere in considerazione la successiva evoluzione della disciplina normativa in materia di trasparenza delle pubbliche amministrazioni e di conoscenza dei relativi atti.
Non sfugge al Collegio come dottrina e giurisprudenza abbiano svolto un'opera di ridefinizione della formula dell'art. 21 Cost., giungendo a configurare una libertà di cronaca ed una più ampia libertà d’informare. Ciò ha comportato da tempo il consolidamento dell'autonomia della libertà di informazione, in sé e rispetto alla libertà di opinione e di stampa, ma soprattutto la maturazione della differenza tra profilo attivo e profilo passivo della libertà stessa.
In particolare, per quel che qui concerne, il primo profilo si sostanzia nella libertà d’informare (cioè di comunicare e diffondere idee e notizie), il secondo, che attiene ai destinatari dell’informazione, si specifica nella libertà di esser informati, ma, si badi, come mero risvolto passivo della libertà d’informare, oltre che nella libertà di accedere alle informazioni.
L'elaborazione più significativa, cui ha dato luogo l'interpretazione evolutiva dell'art. 21 Cost., si rinviene senz'altro sul profilo passivo della libertà d’informazione.
Al riguardo, l’attenzione s’è incentrata anzitutto sulle posizioni soggettive inerenti alla libertà di informarsi, con particolare riguardo sia all'interesse a ricevere le notizie in circolazione e non coperte da segreto o da riservatezza, sia all'interesse a ricercare le notizie.
Tralasciando il primo interesse, poiché esula dall’oggetto del presente giudizio,
più complessa è la fisionomia dell'interesse a ricercare le notizie, che l’appellante in sostanza ha azionato in questa sede. V’è, per vero, una stretta interdipendenza tra quell'interesse e l'attività di chi divulga le informazioni, tant’è che la giurisprudenza, anche antica, di questa Sezione si è espressa (cfr. Cons. St., IV, 06.05.1996 n. 570; cfr., più di recente, id., 22.09.2014 n. 4748) sulla posizione qualificata e differenziata degli organi di stampa (e, quindi, dei giornalisti) circa la conoscenza (del contenuto) degli atti detenuti dalla P.A. Si richiama, da ultimo, anche il nuovo approdo «… dell’ordinamento comunitario in subjecta materia circa una compiuta evoluzione verso una società dell’ informazione e della conoscenza (cfr. Direttiva 2003/98/CE) …».
4.3 Tuttavia,
se è vera la relazione giuridica tra chi informa e chi viene informato, non solo non si può legittimamente predicare l’esistenza d’un diritto soggettivo in capo ai destinatari tale addirittura da condizionare la posizione di chi informa pure nei contenuti e nel risultato, ma non si ravvisa, nel corpo dello stesso art. 21 Cost., il fondamento di un generale diritto di accesso alle fonti notiziali, al di là del concreto regime normativo che, di volta in volta e nell’equilibrio dei molteplici e talvolta non conciliabili interessi in gioco, regolano tal accesso.
In altre parole,
occorre evitare ogni generalizzazione sul rapporto tra diritto d’accesso e libertà di informare. Il nesso di strumentalità tra le due figure, che pure esiste, si sostanzia non già reputando, come fa l’appellante, il diritto di accesso qual presupposto necessario della libertà d’informare, ma nel suo esatto opposto. È il riconoscimento giuridico di questa che, in base alla concreta regolazione del primo, diviene il presupposto di fatto affinché si realizzi la libertà d’informarsi.
Sicché, come ha a suo tempo detto la Sezione,
è pur vero che «… in linea di principio non si può equiparare la posizione di una testata giornalistica o di un operatore della stampa a quella di un qualunque soggetto giuridico per quanto attiene al diritto di accesso ai documenti amministrativi…». Tuttavia, «… occorre… pur sempre tener presente l’ambito soggettivo e quello oggettivo prescritti dalla legge entro i quali va riconosciuta la tutela sottesa all’accesso, presupponendo… un interesse personale e concreto, strumentale all’accesso…». Pertanto «… non è consentito dilatare l’ambito applicativo della normativa garantista di cui al citato art. 22 della legge n. 241…».
Ciò non significa che v’è un diniego generale al diritto di accesso alle fonti per l’informazione, né che il diritto ad essere informati si esaurisca nella libertà d’informarsi come mero risvolto fattuale della libertà d’informare.
Vuol dire piuttosto che
va condotta un'indagine circa la consistenza della situazione legittimante all’accesso e che la relativa valutazione va articolata a seconda della disciplina normativa di riferimento, che varia in significative parti sia con riguardo ai caratteri della posizione legittimante (l’interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di cui alla legge n. 241), sia dei vari presidi che la legge pone verso l’accesso generalizzato (non collegato, cioè, ad un interesse qualificato e differenziato o comunque volto a un controllo diffuso sull’attività dei pubblici poteri).
In particolare sul versante dei rapporti con i pubblici poteri, il legislatore non sconta limiti generali nel prevedere in favore dei cittadini una serie più o meno ampia di diritti ad essere informati, come avviene, per esempio, con le regole di pubblicità ex art. 29 del Dlgs. 14.03.2013 n. 33.

E’ fondamentale sottolineare, al riguardo, che
l'evoluzione della legislazione in materia, che pure è via via sempre più aperta alle esigenze di trasparenza dell'azione pubblica, ha portato a configurare le diverse forme di accesso più che a guisa di un unico e globale diritto soggettivo di accesso agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri, come un insieme di sistemi di garanzia per la trasparenza, tra loro diversificati pur con inevitabili sovrapposizioni. Sicché s’avrà una maggiore o minore estensione della legittimazione soggettiva, a seconda della più o meno diretta strumentalità della conoscenza, incorporata negli atti e documenti oggetto d’accesso, rispetto ad un interesse protetto e differenziato, diverso dalla mera curiosità del dato, di colui che esprime sì il bisogno di accedere, ma con le modalità previste dalla specifica disciplina normativa invocata.
In altri termini,
è da considerare che il sistema nel suo complesso dà luogo a vari tipi d’accesso, con diverse finalità e metodi d’approccio alla conoscenza ed altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza dei pubblici poteri. Tali livelli, nel sistema della legge n. 241 –che costituisce il parametro normativo di riferimento nel presente giudizio- saranno più ampi quando riguardano la partecipazione di un soggetto ad un procedimento amministrativo (art. 7, c. 1; art. 8, c. 2, lett. b; art. 10, lett. a) della l. 241/1990) o ad un processo amministrativo già in atto (art. 116, c. 2, c.p.a.: cfr., p. es., Cons. St., III, 14.03.2013 n. 1533), oppure quando l’accesso riguardi «… documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici…» (art. 24, c. 7 della legge n. 241); ma richiederanno pur sempre, nel sistema della legge n. 241, una posizione legittimante nei termini richiesti da quella disciplina.
È allora ben chiaro che
il diritto d’accesso ex legge n. 241 agli atti amministrativi non è connotato da caratteri di assolutezza e soggiace, oltre che ai limiti di cui all’art. 24 della l. 241/1990, alla rigorosa disamina della posizione legittimante del richiedente, il quale deve dimostrare un proprio e personale interesse (non di terzi, non della collettività indifferenziata) a conoscere gli atti e i documenti richiesti. Come si è detto, il diritto di cronaca è presupposto fattuale del diritto ad esser informati ma non è di per sé solo la posizione che legittima l’appellante all’accesso invocato ai sensi della legge n. 241.
Né sembri tutto ciò in contrasto con la c.d. “società dell’informazione” cui a livello europeo tende (cfr. considerando n. 2) la dir. n. 2003/98/CE, poiché, al di là dell’enfasi così manifestata, tale fonte comunque non esclude, nei ben noti ed ovvi limiti di ragionevolezza e proporzionalità, regimi nazionali che possano delimitare l’accesso anche con riferimento alla titolarità di una posizione legittimante).
Diversi sono i presupposti che connotano i casi di c.d. “accesso civico” ex art. 5 del Dlgs 33/2013 (anche nel testo previgente alla novella del 2016), che tuttavia presuppongono la sussistenza di un obbligo di pubblicazione (cfr. funditus Cons. St., VI, 20.11.2013 n. 5515).
E ancora diversi sono i presupposti che disciplinano l’accesso ai sensi del decreto legislativo n. 97 del 2016, che svincola il diritto di accesso da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato) e, al contempo, sottopone l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5-bis. In tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiairtà della posizione legittimante del richiedente.
In conclusione,
l’appello è da respingere per la non dimostrata sussistenza, nel caso di specie, da parte dell’appellante di una posizione legittimante ai sensi e nei termini di cui alla legge n. 241.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - VARI: OGGETTO: Esibizione del certificato di assicurazione ai sensi dell'art. 180, comma 1, lettera d), del Codice della Strada. Provvedimento IVASS n. 41 del 22.12.2015 (Ministero dell'Interno, nota 01.09.2016 n. 300/A/5931/16/106/15 di prot.).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Indirizzi operativi per la redazione di specifiche procedure per la scalata, l'accesso, lo spostamento, il posizionamento, nonché per il recupero del lavoratore non più autosufficiente: prevenzione del rischio di caduta dall'alto nelle attività non configurabili come lavori sotto tensione su elettrodotti aerei (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 30.08.2016 n. 28).

APPALTI SERVIZI: Oggetto: Comuni non metanizzati. Chiarimento (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 09.08.2016).

ENTI LOCALI: Oggetto: Attività di controllo accensione fuochi artificiali (Prefettura di Avellino, nota 14.07.2016 n. 16829 di prot.).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Attività di controllo e ispezione presso fabbriche e depositi di fuochi d'artificio. Linee guida per le Commissioni tecniche territoriali e attività di sorveglianza del mercato (Ministero dell'Interno, nota 05.07.2016 n. 557/PAS/U/010964/XV.H.MASS(77)SM di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 06.09.2016 n. 208 "Regolamento recante la disciplina delle modalità e delle norme tecniche per le operazioni di dragaggio nei siti di interesse nazionale, ai sensi dell’articolo 5-bis, comma 6, della legge 28.01.1994, n. 84" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 15.07.2016 n. 172).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: G.U. 01.09.2016 n. 204 "Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2015" (Legge 12.08.2016 n. 170).

APPALTI: G.U. 31.08.2016 n. 203 "Composizione e modalità di funzionamento della Cabina di regia" (D.P.C.M. 10.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 31.08.2016 N. 203 "Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l’efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa" (D.L. 31.08.2016 n. 168).

ENTI LOCALI: G.U. 29.08.2016 n. 201 "Modifiche alla legge 24.12.2012, n. 243, in materia di equilibrio dei bilanci delle regioni e degli enti locali" (Legge 12.08.2016 n. 164).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ESPROPRIAZIONE - PATRIMONIO: G.U. 10.08.2016 n. 186 "Deleghe al Governo e ulteriori disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione e competitività dei settori agricolo e agroalimentare, nonché sanzioni in materia di pesca illegale" (Legge 28.07.2016 n. 154).
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Di interesse, si leggano:
● Art. 3. - Disposizioni in materia di servitù
● Art. 5. - Delega al Governo per il riordino e la semplificazione della normativa in materia di agricoltura, silvicoltura e filiere forestali
● Art. 9. - Disposizioni in materia di indennità espropriative giacenti
● Art. 11. - Iscrizione ai consorzi e ai sistemi per la raccolta dei rifiuti previsti dal decreto legislativo 03.04.2006, n. 152
● Art. 12. - Esercizio dell’attività di manutenzione del verde
● Art. 16. - Istituzione della Banca delle terre agricole
● Art. 41. - Modifica all’articolo 185 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, in materia di esclusione dalla gestione dei rifiuti

EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 02.08.2016 n. L 208 "RACCOMANDAZIONE (UE) 2016/1318 DELLA COMMISSIONE del 29.07.2016 recante orientamenti per la promozione degli edifici a energia quasi zero e delle migliori pratiche per assicurare che, entro il 2020, tutti gli edifici di nuova costruzione siano a energia quasi zero".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità: gli errori ricostruttivi del Consiglio di stato. Si tratta di vera e propria nuova assunzione (06.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Saitta, Permesso di costruire in sanatoria: in Sicilia non è più necessaria la «doppia conformità» (prime considerazioni a margine dell’art. 14, comma 1, della legge regionale siciliana n. 16 del 2016) (04.09.2016 - link a www.lexitalia.it).
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Sommario: 1. La sanatoria nella legge Bucalossi: brevi cenni. – 2. La sanatoria ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 e la «doppia conformità». – 3. La c.d. «sanatoria giurisprudenziale» alla luce dell’art. 36 del testo unico dell’edilizia. – 4. L’art. 14, comma 1, della legge regionale siciliana n. 16 del 2016.

APPALTI: Appalti: le acquisizioni in economia non esistono più con buona pace dell’Anac (04.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Ribasso e offerta economicamente più vantaggiosa? Non si applicano se si realizzano affidamenti diretti (02.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Riforma della dirigenza: proposte de iure condendo (02.09.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Berti Suman, Il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (art. 17-bis, legge n. 241/1990): dovere di istruttoria e potere di autotutela - Commento al parere n. 1620/2016 del Consiglio di Stato su alcuni problemi applicativi dell’articolo 17-bis della legge 07.08.1990, n. 241, introdotto dall’articolo 3 della legge 07.08.2015, n. 124 (01.09.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’art. 17-bis: “nuovo paradigma” nei rapporti tra pubbliche amministrazioni – 3. Il rapporto con gli articoli 16 e 17 della legge n. 241/1990 – 4. Silenzio-assenso ed interessi sensibili: giurisprudenza costituzionale e europea – 4.1. (segue) un caso recente: l’Adunanza Plenaria sulla perdurante vigenza del meccanismo del silenzio-assenso nel procedimento relativo al nulla osta dell’Ente Parco – 5. Il difetto di istruttoria (e di motivazione) nella formazione del silenzio-assenso – 6. Il potere di autotutela – 7. Brevi considerazioni conclusive.

PUBBLICO IMPIEGO: Riforma della dirigenza pubblica. I dirigenti "squillo", al servizio della politica (27.08.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Foia de noantri. Diritto di accesso per tutti? Ma dai, si scherzava! (22.08.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, L'Agenzia delle Entrate torna all'attacco e fa la voce grossa con i Comuni (15.08.2016 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).
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A Ottobre del 2013 avevo già espresso alcune perplessità sul protocollo d'intesa che l'Agenzia delle Entrate aveva inviato a tutti i Comuni Lombardi ai fini della sua sottoscrizione e con il quale ci si impegnava a versare fino al 50% degli importi introiettati sul bilancio comunale come sanzioni ai sensi degli articoli 31-37 del D.P.R. 380/2001. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Normativa sismica in Lombardia: facciamo il punto per le zone in classe 3... e speriamo bene (31.07.2016 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).
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In riferimento al trasferimento di funzioni della normativa sismica di cui alla Parte II, Capo IV del D.P.R. 380/2001 si erano già espresse notevoli perplessità e preoccupazioni fin già dal mese di ottobre 2014, con l'uscita della prima D.G.R. n. 2129 del 11/10/2014 che, per quanto barcollante, nata zoppa e poi stampellata alla bella meglio, lasciava già chiaramente trapelare il desiderio di trasferire ad altri enti (sempre i soliti) i propri oneri e responsabilità in materia sismica, non a caso a seguito del terremoto dell'Emilia che ha avuto effetti fino alla Bassa Lombardia. (...continua).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni sbloccate in Toscana, Basilicata, Piemonte e Sardegna. Enti locali. Dopo le ricollocazioni.
Si sbloccano ulteriormente le assunzioni degli enti locali.
Con la nota 11.08.2016 n. 42335 di prot. il Dipartimento della Funzione Pubblica ha svincolato dall’obbligo di riassorbimento dei dipendenti di area vasta altri enti territoriali presenti in alcune regioni. A macchia di leopardo procede, quindi, quanto previsto all’articolo 1, comma 234, della legge 208/2015, ovvero il ripristino delle ordinarie capacità assunzionali laddove le regioni dimostrino di aver completato il processo di ricollocazione dei lavoratori in esubero delle province e delle città metropolitane.
La Funzione Pubblica è già intervenuta con le note n. 10669 del 29 febbraio e n. 37870 del 18 luglio. Con il documento in esame, ecco il quadro generale delle regioni in cui sono ripristinate le ordinarie capacità assunzionali, le quali, nel frattempo, con la legge di conversione del Dl 113/2016, sono aumentate negli enti al di sotto dei 10mila abitanti, fino ad arrivare, teoricamente, al 75% della spesa dei cessati nell’anno precedente.
Come noto, vanno tenute suddivise le assunzioni nelle funzioni di polizia locale, rispetto alle altre funzioni. Possono assumere per le funzioni di polizia senza rispettare l’articolo 5 del Dl 78/2015 i comuni e gli enti locali della regioni Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Veneto e Toscana. Quest’ultima è stata proprio aggiunta dalla nota 42335/2016.
Una precisazione è d’obbligo: in questi contesti territoriali, quindi, non opera più la disposizione che prevedeva un tempo massimo di 5 mesi di stagionalità per le assunzioni a tempo determinato o con altre forme di lavoro flessibile. Rimane fermo quanto previsto dall’articolo 36, comma 2, del Dlgs 165/2001 e dall’articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010 (limite di quanto speso nel 2009).
Per quanto riguarda le funzioni diverse dalla polizia locale, la nota in esame aggiunge gli enti locali della Basilicata, Piemonte e Sardegna tra quelli a cui sono ripristinate le ordinarie capacità assunzionali. Le regioni in cui si può assumere a tempo indeterminato senza riservare la capacità assunzionale 2015 e 2016 ai dipendenti di area vasta sono quindi le seguenti: Emilia Romagna, Lazio, Marche, Veneto, Basilicata, Piemonte e Sardegna.
 In questo ambito, quindi, si potrà assumere anche dall’esterno utilizzando la capacità assunzionale dell’anno 2016 (come eventualmente rideterminata per opera della legge di conversione del Dl 113/2016) e di quella risultante da eventuali residui della capacità assunzionale del trienni precedente, ovvero degli anni 2013, 2014 e 2015.
Tutte e tre le note della Funzione Pubblica ricordano, però, che le disponibilità (offerta di mobilità) già inserite nel portale da tutte le amministrazioni per qualsiasi funzione e di qualsiasi territorio, continuano ad essere destinate al processo di ricollocazione del personale interessato, secondo quanto previsto dal Dm del 14.09.2015.
Rimangono due importanti precisazioni. Anzitutto, quando si parla di «ripristino di ordinarie capacità assunzionali», vanno incluse anche le procedure di mobilità di cui all’articolo 30 del Dlgs 165/2001. Infine, per le sole assunzioni del personale insegnante ed educativo, trova applicazione la normativa speciale di cui all’articolo 17 del Dl 113/2016
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.08.2016).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIPa, doppia verifica sugli incarichi. Legge Severino. Le istruzioni dell’Anac sui controlli relativi a inconferibilità e incompatibilità.
Sulle incompatibilità e le inconferibilità previste dai decreti attuativi della legge Severino si applica una doppia vigilanza. La responsabilità di accertare che l’incarico sia conferito senza violare le norme che provano a prevenire i conflitti d’interesse tocca al responsabile anticorruzione dell’ente.
L’Autorità nazionale guidata da Raffaele Cantone mette in campo però un “secondo livello” di controllo, per garantire che il responsabile anticorruzione sia fedele alla legge ma anche per tutelarne l’indipendenza nei confronti dei vertici amministrativi del suo ente: tema, quest’ultimo, particolarmente delicato, perché il responsabile anticorruzione si trova a dover decidere sulla legittimità di incarichi decisi dagli organi politici o da dirigenti apicali, e a far scattare sanzioni a loro carico.
A fissare le istruzioni per le verifiche è la stessa Anac, nella determinazione 03.08.2016 n. 833 (Linee guida in materia di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi inconferibili e incompatibili).
L’obiettivo è un’applicazione il più possibile sicura delle regole scritte nel decreto legislativo 39 del 2013, che vietano una serie di incarichi dirigenziali o di amministratori a chi ha subito condanne per reati contro la Pa oppure ha svolto nel periodo immediatamente precedente ruoli da amministratore o consulente che lo rendono incompatibile.
Le sanzioni riguardano sia chi ottiene un incarico illegittimo, e decade quando il problema è accertato, sia chi lo conferisce, e per tre mesi viene bloccato nella possibilità di assegnare altri incarichi se si accerta che ha agito pur conoscendo l’ostacolo (anche se non si configura il «dolo» o la «colpa grave»). Su tutto questo deve vigilare il responsabile anticorruzione dell’ente: per facilitargli il compito, l’Anac chiede che la dichiarazione sull’assenza di cause di inconferibilità o incompatibilità presentata dall’aspirante sia corredata da tutti gli incarichi ricoperti, e dalle eventuali condanne subite.
Questa dichiarazione dettagliata, che dovrebbe quindi cancellare la prassi dell’autodichiarazione generica, renderebbe evidenti i casi in cui i vertici amministrativi decidono di assegnare l’incarico con una violazione consapevole delle regole, e aumenterebbe la responsabilizzazione del candidato: chi rilascia dichiarazioni false incappa infatti in responsabilità penali (come prevede l’articolo 76 del Dpr 445/2000) e si vede bloccato per 5 anni l’accesso a nuovi incarichi.
L’Anac, come accennato, affianca in modo «collaborativo» il responsabile anticorruzione, ma può anche intervenire direttamente a sospendere il conferimento o a negare il via libera concesso dal responsabile dell’ente
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2016).

APPALTIAppalti, sul nuovo codice pareri dell’Anac più mirati. Cantone: nuova disciplina anche sui pareri di precontenzioso.
Autorità Anticorruzione. Dal 20 agosto in vigore il regolamento sull’attività consultiva.

Orientare le stazioni appaltanti nella corretta applicazione delle norme sugli appalti pubblici e di quelle sull’anticorruzione e la trasparenza.
È questo lo scopo del nuovo regolamento 20.07.2016 (Regolamento per l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 06.11.2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso) sull’attività consultiva varato dall’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, in vigore dal 20 agosto scorso.
Le nuove regole, che sostituiscono quelle del gennaio 2015, sono più stringenti circa l’argomento sul quale si chiede un parere all’Anac. Una lista dettagliata individua tutti i casi di inammissibilità della richiesta, allo scopo di evitare domande generiche, fuori tema o, peggio ancora, strumentali.
In questo modo, l’Anac conta di raggiungere due obiettivi. Il primo è quello di eliminare all’origine le richieste inutili che ingolfano il servizio Precontenzioso e Affari giuridici (nel 2015 sono arrivate 1.166 richieste di parere, cui però sono seguiti solo 290 pareri effettivamente pertinenti e ammissibili). Ma soprattutto si liberano tempo e risorse per l’attività consultiva che il nuovo codice assegna all’Anac nell’architettura della soft law.
«Questo regolamento -spiega Raffaele Cantone- è espressione dell’idea che sta sempre più diventando tipica dell’Autorità di una logica collaborativa con le amministrazioni e con gli interlocutori anche non pubblici ma che hanno un collegamento diretto con le amministrazioni».
Cantone ricorda anche che su questa funzione dell’Authority, nel nuovo codice c’è «un fondamento più forte dal punto di vista normativo perché l’articolo 213 prevede espressamente una attività generica, innominata, direi, di ausilio alle stazioni appaltanti nell’ottica del rispetto delle regole». «Noi riteniamo -aggiunte Cantone- che questa attività si possa sviluppare oltre che con indicazioni di carattere generale anche con indicazioni di carattere più specifico».
Novità in arrivo anche sui pareri di precontenzioso, cioè quei pareri dell’Anac -vincolanti- sulle controversie sorte durante la fase di gara. Il testo è ora al vaglio del Consiglio di Stato. Cantone anticipa che questo regolamento non tocca il delicato tema della cosiddetta “raccomandazione”, cioè l’obbligo per la stazione appaltante di ritirare il bando che presenti vizi di legittimità.
«Pur essendo stabilita quella ipotesi accanto al precontenzioso -spiega Cantone- noi la regoleremo nell’ambito dell’attività di vigilanza». E aggiunge: «Questo potere di raccomandazione vincolante, che prevede anche una sanzione a carico dei pubblici dipendenti, è una questione oggetto di molte critiche»
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2016).

APPALTIPronto, risponde Cantone. In g.u. regolamento sull'attività consultiva dell'Anac.
Pronto, risponde Cantone. L'Autorità nazionale anticorruzione, presieduta appunto da Raffaele Cantone, mette nero su bianco le regole per lo svolgimento della funzione consultiva.

Lo fa con il regolamento 20.07.2016 (Regolamento per l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 06.11.2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso), pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 192.
In base al provvedimento, l'Autorità svolge attività consultiva finalizzata a fornire orientamenti in ordine a particolari problematiche interpretative e applicative poste dalla legge 06.11.2012, n. 190 e dai suoi decreti attuativi, nonché indirizzi al mercato vigilato sulla corretta interpretazione e applicazione della normativa in materia di contratti pubblici con riferimento a fattispecie concrete.
L'attività consultiva è esercitata: quando la questione di diritto oggetto della richiesta ha carattere di novità; quando la soluzione alla problematica giuridica sollevata può trovare applicazione a casi analoghi; quando la disposizione normativa oggetto della richiesta presenta una particolare complessità; quando la richiesta sottoposta all'Autorità presenta una particolare rilevanza sotto il profilo dell'impatto socio-economico; quando i profili problematici individuati nella richiesta per l'esercizio dell'attività di vigilanza e/o in relazione agli obiettivi generali di trasparenza e prevenzione della corruzione perseguiti dall'Autorità, appaiono particolarmente significativi.
Possono rivolgersi all'Anac le pubbliche amministrazioni, gli enti di diritto privato che svolgono attività di pubblico interesse nonché le stazioni appaltanti, i soggetti privati o portatori di interessi collettivi costituiti in associazioni o comitati, gli operatori economici che partecipano a gare per l'affidamento di contratti pubblici. La richiesta di parere va fatta preferibilmente mediante utilizzo di posta elettronica (un modulo è allegato al Regolamento).
Al bando richieste che non riguardano fattispecie specifiche, o interferenti con esposti di vigilanza, atti di regolazione a valenza generale, comunque denominati, e procedimenti sanzionatori in corso di istruttoria presso l'Autorità, o che hanno contenuto generico. I pareri sono pubblicati sul sito internet dell'Autorità (articolo ItaliaOggi del 19.08.201).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASe c'è utile per il privato deve esserci una gara. Delibera Anac sull'applicazione dell'art. 20 del nuovo codice.
La realizzazione di un'opera pubblica a spese di un privato è possibile soltanto se manca qualsiasi utilità a favore del privato stesso e se quindi si configura come atto di liberalità e gratuità, senza oneri pubblici.

Lo afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il parere sulla normativa n. 763 del 16.07.2016 - rif. AG 25/2016/AP che affronta alcuni interessanti profili interpretativi e applicativi dell'articolo 20 del nuovo codice dei contratti pubblici.
Il caso oggetto della delibera riguardava la realizzazione di un intervento sulla viabilità nel comune di Segrate, a servizio della realizzazione di un centro commerciale; l'opera pubblica che il privato (realizzatore del centro commerciale) intendeva prendersi in carico aveva un valore di oltre 160 milioni, da cui andavano esclusi circa 20 milioni concernenti gli oneri per l'acquisto delle aree.
A fronte della proposta dell'operatore privato la regione ha chiesto all'Autorità se la procedure (che poggiava sull'articolo 20 del codice dei contratti pubblici) potesse essere ritenuta legittima anche in riferimento al fatto che si trattava di un'opera ricadente nella legge obiettivo e approvata con delibera Cipe del 2013.
L'Autorità risponde nettamente: «L'istituto contemplato dall'articolo 20 del Codice non può trovare applicazione nel caso in cui la convenzione stipulata tra amministrazione e privato abbia a oggetto la realizzazione di opere pubbliche da parte di quest'ultimo in cambio del riconoscimento in suo favore di una utilità, con conseguente carattere oneroso della convenzione stessa».
In sostanza, dice la delibera, è la presenza della controprestazione a favore del privato che fa sì che si finisca nella categoria dell'appalto pubblico e quindi nella necessità di affidamento tramite procedura di gara. E la presenza di un'utilità «deve ritenersi sussistere in qualunque caso in cui, a fronte di una prestazione, vi sia il riconoscimento di un corrispettivo che può essere, a titolo esemplificativo, in denaro, ovvero nel riconoscimento del diritto di sfruttamento dell'opera (concessione) o ancora mediante la cessione in proprietà o in godimento di beni. In tal caso la convenzione ha natura contrattuale».
La conseguenza dell'obbligo di gara dipende quindi dalla presenza, nell'accordo negoziale fra amministrazione e privato, nell'attribuzione a quest'ultimo di una autorizzazione all'apertura di una attività commerciale che si estrinseca nel «riconoscimento di diritti suscettibili di valutazione economica» a loro volta qualificabile come corrispettivo.
Da ciò la necessità di ricondurre la fattispecie specifica «nella categoria dell'appalto pubblico di lavori, da ciò derivando, come necessario corollario, il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica previste nel Codice» e quindi l'impossibilità di applicare l'articolo 20 del decreto 50/2016 sulla realizzazione di un'opera pubblica a spese del privato che invece si caratterizza come atto di pura «liberalità e di gratuità».
Anche richiamando il parere del Consiglio di stato sullo schema di decreto legislativo (che poi è divenuto il decreto 50/2016) l'Autorità chiarisce che comunque va rispettato il principio per cui il privato deve procedere all'affidamento dei lavori a terzi e, in particolare, a un soggetto qualificato all'esecuzione di lavori pubblici (articolo ItaliaOggi del 12.08.2016).

APPALTIGare, ammissioni a ostacoli. Il 78% delle sanzioni riguarda irregolarità sui requisiti. Il dato reso noto dell'Authority anticorruzione. Procedimenti in aumento del 35%.
Il 78% delle sanzioni irrogate dall'Anac a imprese e professionisti partecipanti ad affidamenti pubblici riguarda le dichiarazioni sul possesso dei requisiti di ammissione alla gara, rispetto all'anno precedente i procedimenti sono aumentati del 35%.

È questo il dato che segnala l'Autorità nazionale anticorruzione nella relazione presentata al Parlamento il 14.07.2016 e relativa all'anno 2015.
Il riferimento è ai procedimenti sanzionatori irrogati a seguito della vigilanza concernete lo svolgimento delle procedure di affidamento di contratti pubblici per la quale il numero di procedimenti sanzionatori definiti dall'Autorità nell'anno 2015 è stato pari a 772 (+35% rispetto ai 571 dell'anno 2014).
Nella maggior parte dei casi (74,2%), il procedimento è derivato da violazioni dell'art. 38 del Codice dei contratti pubblici (oggi articolo 80 del decreto legislativo 50/2016, il nuovo codice dei contratti pubblici) per falsa dichiarazione sul possesso dei requisiti di ordine generale; mentre solo il 10,5% ha riguardato procedimenti di controllo sul possesso dei requisiti di ordine speciali in base al sorteggio sul 10% degli offerenti e sull'aggiudicatario e secondo classificato (art. 48 del «Codice De Lise», decreto 163/2006) per falsa dichiarazione e il 13,5% gli inadempimenti agli obblighi informativi nei confronti dell'Autorità, di cui all'art. 6, commi 9 e 11, sempre del «Codice De Lise».
L'importo complessivo delle sanzioni irrogate nell'anno 2015 è stato pari a 513.000 euro, con una media delle sanzioni, dei procedimenti ex art. 38, di circa 1.800 euro, di entità inferiore rispetto a quello di 2.500 euro per i procedimenti ex art. 48). Valori molto più contenuti delle sanzioni sono stati irrogati per le violazioni degli adempimenti informativi nei confronti dell'Autorità (mediamente 250 euro).
Questa rilevante differenza concernente l' entità delle sanzioni si spiega –dice l'Anac– con la considerazione che le violazioni agli obblighi informativi nei confronti delle stazioni appaltanti, nella prevalenza dei casi, sono state commesse da funzionari o dirigenti pubblici nelle vesti di Rup (Responsabili unici del procedimento), mentre quelle di importo maggiore hanno invece riguardato soggetti che hanno partecipato alle gare e che sono destinatari, in applicazione dell'articolo 6, comma 8, del vecchio Codice, di una sanziona che rimane sempre commisurata al valore del contratto pubblico cui la violazione si riferisce.
I procedimenti sanzionatori determinati da carenze sui requisiti di ordine generale sono stati caratterizzati mediamente da sanzioni di minori importo e periodo (1.800 euro e 1,5 mesi) in cui opera l'interdizione, rispetto a quelli ex art. 48 (2.500 euro e 2,5 mesi).
L'Anac segnala anche che, per effetto di una carente capacità tecnica e/o economico-finanziaria, i partecipanti alle gare «hanno minori attenuanti da invocare per motivare la falsa dichiarazione resa, risultando ben circoscritto il perimetro oggettivo di quanto oggetto di dimostrazione, e suscettibile esclusivamente di difficoltà interpretative causate dall'equivocità delle clausole del bando di gara nella determinazione e nella quantificazione dei parametri di prova delle capacità tecniche richieste ai concorrenti».
È invece del tutto diverso il quadro delle sanzioni inerenti le carenze dei requisiti di ordine generale, per i quali sono molteplici i motivi che attenuano l'entità della colpa nel rilascio della mendace dichiarazione (difficoltà interpretative della norma, carenti previsioni di bando nel formulare la relativa dichiarazione sostitutiva, evoluzioni normative, complessità delle materie trattate) (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGOIncarichi a contratto con limiti. Non basta la conoscenza personale per ottenere il lavoro. Per la Corte dei conti ci devono essere motivazioni oggettive nella scelta del candidato.
Costituisce danno erariale affidare incarichi a contratto di direzione degli uffici comunali previsti dall'articolo 110 del dlgs 267/2000 senza alcuna motivazione di carattere oggettivo sulla scelta del destinatario.
La Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale della Calabria, con la sentenza 04.08.2016 n. 193, fornisce chiarimenti estremamente utili per comprendere i limiti di applicazione degli incarichi a contratto negli enti locali, smentendo in maniera netta l'idea che allo scopo sia sufficiente la conoscenza personale tra amministratori ed incaricato.
Nel caso di specie, la Corte dei conti ha censurato un incarico non di qualifica dirigenziale per la direzione del settore ragioneria di un ente, assegnato allo scopo di coprire la vacanza d'organico determinata dalla concessione della mobilità al precedente responsabile.
I giudici contabili hanno stigmatizzato l'urgenza di coprire il posto vacante mediante l'incarico a contratto, evidenziando che detta esigenza è stata causata direttamente dalla scelta di far trasferire il precedente responsabile verso altra sede.
Soprattutto, comunque, la censura colpisce il sistema di reclutamento dell'interessato, basatosi esclusivamente sulla fiducia e la conoscenza personale, senza attivare nemmeno una minima procedura pubblica.
La Corte dei conti riconosce che l'articolo 110, specie nel testo antecedente alla riforma operata col dl 90/2014, prevede limitati spazi alla fiduciarietà, ma sottolinea che «nell'individuazione dei soggetti cui conferire un incarico ai sensi di tale articolo di legge siano insuperabili i fondamentali canoni di legittimità, imparzialità e buon andamento, ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione, in ragione dei quali, pur essendo insiti in tali procedure il carattere della discrezionalità e un margine più o meno ampio di fiduciarietà, è indispensabile che le amministrazioni assumano la relativa determinazione con una trasparente e oggettiva valutazione della professionalità del soggetto affidatario che non può basarsi su valutazioni meramente soggettive (per esempio, conoscenza diretta), ma deve essere ancorata quanto più possibile a circostanze oggettive».
La sentenza richiama anche fondamentali pronunce della Corte costituzionale (sentenze n. 103 e 104 del 2007 e sentenza n. 161 del 2008), evidenziando che la giurisprudenza della Consulta esclude in modo pacifico l'esistenza di una «dirigenza di fiducia», ritenendo, quindi, impossibile interpretare la normativa vigente «nel senso di ammettere la scelta discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all'ente cui conferire gli incarichi». Conseguentemente, secondo la Corte dei conti, l'individuazione del soggetto cui conferire incarichi a contratto deve rispettare la necessità di preventive forme di pubblicità per assicurare la trasparenza, insieme con procedure comparative che possono anche non essere «concorsuali», ma tali da garantire una procedimentalizzazione dell'iter da seguire per reclutare l'incaricato a contratto.
Il tutto, quindi, impone di ancorare scelte discrezionali «a parametri quanto più possibili oggettivi e riscontrabili»: allo scopo la magistratura contabile ritiene opportuno che le amministrazioni si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali per l'affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi, sempre allo scopo di assicurare trasparenza e riduzione del contenzioso.
L'incarico, invece, è stato assegnato in spregio alle indicazioni oggi per altro meglio specificate nell'articolo 110, comma 1, del Tuel, che impone espressamente una selezione pubblica. Da qui la colpa grave riconosciuta in capo agli amministratori, dovuta anche alla circostanza dell'assenza di una previa indagine sull'impossibilità di far fronte al fabbisogno mediante le professionalità interne.
La sentenza si segnala, ancora, perché chiarisce la differenza tra incarichi a contratto entro la dotazione organica, previsti dal comma 1 dell'articolo 110, e quelli extra dotazione, regolati dal comma 2. Richiamando pronunce delle sezioni riunite della Corte dei conti (delibere 12 e 13 del 2011) la sezione Calabria precisa che il comma 2 è finalizzato solo «a sopperire ad esigenze gestionali straordinarie che, sole, determinano l'opportunità di affidare funzioni, anche dirigenziali, extra ordinem e quindi al di là delle previsioni della pianta organica dell'ente locale» (articolo ItaliaOggi del 25.08.2016).
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MASSIMA
   1. La Corte è chiamata a pronunciarsi in merito ad un’ipotesi di danno erariale perpetrato nei confronti del Comune di Molochio da parte del Sindaco, del Vice Sindaco, degli amministratori Mi. e Ca. e del dott. Mu.An. per il conferimento dell’incarico di “istruttore direttivo categoria responsabile dell’Area Finanziaria”, con contratto individuale di diritto pubblico a tempo parziale e determinato al predetto dott. Mu., dal settembre 2012 e sino al 31.12.2012, prorogato negli anni 2013 e 2014 e sino al 30.06.2015, con decreti sindacali, e dal conferimento con deliberazione G.M. n. 71 del 17.09.2012 dell’incarico esterno per “elaborazione stipendi ai dipendenti” per il periodo settembre–dicembre 2012, con la conseguente corresponsione al predetto degli emolumenti previsti dall’art. 2 del contratto individuale di lavoro a tempo parziale determinato del 17.09.2012, nonché del compenso di € 2.000 oltre IVA e CAP, per l’incarico di consulente esterno, incarichi conferiti senza l’espletamento di procedure selettive o comparative.
Il danno, quantificato dalla Procura Regionale in euro 60.365,31, corrispondenti agli oneri a carico del bilancio del Comune di Molochio per la retribuzione del dott. Mu. dalla costituzione del rapporto di lavoro fino alla sua cessazione avvenuta il 30.06.2015, è così ripartito: € 40.276,31 quale emolumenti stipendiali a carico del Sindaco Be.Al. e del vice sindaco Mi.Fr., € 18.879 al dott. Mu., per rimborso spese di viaggio; € 1.210 a carico di Ca.Ga. e Mi.Fr., cui va aggiunta la somma di € 7.859,63 di cui 1.166,20 a titolo di rimborso spese ed € 6.693,43, per emolumenti stipendiali erogati al Mu. nel 2015.
   2. Tanto precisato, va affrontata preliminarmente l’eccezione di carenza di giurisdizione di questo giudicante.
Secondo la difesa del Mu., la Corte dei Conti non sarebbe dovuta intervenire nella valutazione di un “contratto di diritto privato” di tipo fiduciario –formalmente valido ed efficace- essendo precluso alla Corte un sindacato di legittimità degli atti adottati dagli organi degli enti in base alla normativa vigente in materia di conferimento di incarichi ad esterni, sul quale il giudice penale è pure intervenuto con il provvedimento di archiviazione nei confronti degli odierni convenuti.
Tali asserzioni non sono condivisibili,
rientrando la responsabilità contabile tra quelle in cui astrattamente può incorrere il pubblico dipendente nell’esercizio delle pubbliche funzioni, con le quali quindi può concorrere, non sussistendo alcuna interferenza tra il giudizio della Corte dei Conti e quello penale che possono procedere parallelamente sin dalla verificazione del fatto pluri-illecito, non rinvenendosi alcuna pregiudiziale penale all’azione giuscontabile, salvo i limiti stabiliti dagli artt. 651-653 c.p.c..
In materia di pubblico impiego, la generale applicabilità dell’attuale regime di responsabilità amministrativo-contabile a tutti i dipendenti pubblici, non solo statali, anche dopo l’intervenuta “privatizzazione” del rapporto di impiego pubblico, è confermata da settoriali previsioni, tra cui l’art. 55 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165 (per i dipendenti di cui all’art. 2, comma 2, resta ferma la disciplina attualmente vigente in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), l’art. 93 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (per gli amministratori e per il personale degli enti locali si osservano le disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili dello stato).
Per quanto concerne la tematica del conferimento degli incarichi a soggetti esterni alle pubbliche amministrazioni, la disciplina a partire dagli anni 2000 si è arricchita con interventi settoriali nell’intento da parte del legislatore di assicurare che il ricorso alle collaborazioni esterne avvenisse esclusivamente ove necessario (art. 380 del DPR 10.01.1957 n. 3 e per gli enti locali nell’art. 51, comma 7, della legge 08.06.1990 n. 142; d.lgs. 165/2001; art. 110 TUEL 267/2000; legge 244/2007; art. 46 dl n.11272008 conv. L. 133/2008; L. 150/2009; L. 190/2014; CCNL).
Al riguardo le sezioni riunite della Corte con la delibera 15.02.2005 n. 6 contenente “Le linee di indirizzo e d i criteri interpretativi sulle disposizioni della legge n. 266/2005" hanno
precisato la differenza tra le varie tipologie di incarico, distinguendo anche l’articolazione della Corte dei conti competente, l’oggetto e la tipologia dell’incarico.
Sul piano procedurale, hanno poi precisato che
l’affidamento dell’incarico deve essere preceduto da una accertamento reale, che coinvolge la responsabilità del dirigente competente, sull’assenza dei servizi o di professionalità interne all’ente, che siano in grado di adempiere l’incarico". A siffatto adempimento deve seguire un atto di affidamento dell’incarico in cui siano adeguatamente precisati “i contenuti, ed i criteri per lo svolgimento dell’incarico, la durata dello stesso, una proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione".
L’art. 3, comma 57, della legge 244/2007 colloca inoltre il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi quale parametro normativo ove disciplinare il conferimento degli incarichi. Tale disposizione, inoltre, assegna alla Corte dei conti l’esame, a monte dello stesso regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, in parte qua nonché a valle, l’esame inerente la conformità dell’affidamento dell’incarico.
La Sez. Autonomie (del. Del 24.04.2008) ha precisato “…In relazione alla natura dell’atto, il controllo della Corte, secondo l’orientamento della Corte Costituzionale, è ascrivibile alla categoria del riesame di legalità e regolarità, in una prospettiva non più statica ma dinamica, volto a finalizzare il confronto tra la fattispecie e parametro normativo all’adozione di effettive misure correttive….Al parametro delle disposizioni regolamentari vanno altresì assunti i limiti normativi di settore ed in particolare l’art. 7 del d.lgs. 165/2001 e (l’art. 88 Titolo IV Organizzazione e Personale contenente l'esplicito richiamo alla normativa in materia di pubblico impiego) l’art. 110 del d.lgs. n. 267/2000. Va ricordato che le norme da ultimo richiamate hanno un particolare valore per avere positivizzato principi affermati da una giurisprudenza ormai univoca, quali presupposti essenziali per il ricorso agli incarichi esterni; essi costituiscono regole di organizzazione, non derogabili da disposizioni regolamentari ed, in gran parte, neppure da norme di rango superiore, in quanto trovano fondamento in principi costituzionali…”.
L’esame della Corte in merito al conferimento degli incarichi esterni ha trovato inoltre elaborazione in occasione dei pareri richiesti dagli enti locali ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131 del 2003.
In questo contesto la Corte ha avuto occasione di affermare che per “
l’assegnazione degli incarichi esterni va prevista una procedura comparativa per la valutazione dei curricula con criteri predeterminati, certi e trasparenti, in applicazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione sanciti dall’art. 97 Cost. e pertanto l’assegnazione diretta deve rappresentare un’eccezione, da motivarsi, di volta in volta, nella singola determinazione d’incarico, con riferimento all’ipotesi in concreto realizzatasi e può considerarsi legittima solo ove ricorra il requisito della “particolare urgenza” connessa alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico, oppure quando l’amministrazione dimostra di avere necessità di prestazioni professionali tali da non consentire forme di comparazione con riguardo alla natura dell’incarico, all’oggetto della prestazione, ovvero alle abilità/conoscenza/qualificazioni dell’incaricato” (Corte conti sez. Trentino A.A. 19.04.2010; Corte conti sez. Lombardi 04.04.2012 n. 123).
In tale contesto normativo e giurisprudenziale, appare del tutto ultroneo il richiamo della difesa alla natura dell’atto di conferimento (contratto di diritto pubblico o contratto di diritto privato) per inferirne l’assenza o meno della giurisdizione della Corte dei Conti.
Infatti, la tesi si colloca sulle orme di indirizzi dottrinali e giurisprudenziali secondo cui
la stipulazione di un contratto di diritto pubblico implica l’applicazione delle norme di diritto pubblico per le modalità di reclutamento del dirigente, quanto per la disciplina del rapporto di lavoro. Se il rapporto fosse di diritto privato, ciò stava a significare che i l rapporto di lavoro dovesse essere disciplinato esclusivamente dal codice civile e dal contratto individuale. Nel caso di assunzione con contratto di diritto pubblico (peraltro espressamente richiamato negli atti contestati), esso doveva avvenire soltanto per concorso pubblico; mentre gli enti locali qualora avessero inteso assumere un dirigente con contratto di diritto privato, l’ente locale avrebbe potuto ricorrere a forme di reclutamento diverse, all’interno della propria capacità negoziale di diritto privato.
Tale tesi è infondata, in quanto l’art. 2, comma 2, primo periodo del d.lgs. 165/2001 prevede che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni di carattere imperativo" e il primo periodo del successivo comma 3 del medesimo articolo: ”I rapporti individuali di lavoro di cui al comma 2 sono regolati contrattualmente”.
Così come previsto dall’art. 3 del TUPI e con la sola eccezione di alcuni rapporti di lavoro,
tutti gli altri sono regolati da un contratto e sono pertanto tutti contratti di “diritto privato”, in quanto la loro fonte di costituzione e di regolazione è privatistica e non pubblicistica.
Ora tale dicotomia (contratti di diritto pubblico / diritto privato) è superata dal nuovo art. 110 del TUEL che, anche in relazione alla sostanziale privatizzazione del rapporto degli enti locali, non fa più riferimento al contratto di diritto pubblico, prevedendo al comma 1 solo che “…la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato…”.
Occorre pertanto una previsione statutaria assieme al vincolo del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi per coprire i posti dei responsabili degli uffici e dei servizi. Infatti il soggetto da incaricare attraverso contratto come dirigente deve essere in possesso dei requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire e va individuato ricorrendo a selezione pubblica, "volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
Negli enti locali in cui non è prevista la dirigenza, il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi dovrà stabilire i limiti i criteri e le modalità in cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell’area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire, ma “solo in assenza di professionalità analoghe presenti all’interno dell’ente”.
Su tali principi e regole converge anche la giurisprudenza amministrativa la quale, con riferimento alla questione se la selezione pubblica ex art. 110, comma 1, del TUEL “volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”, pur non avendo natura concorsuale, è ugualmente sottoposta ai principi di parzialità, trasparenza e par condicio, ritenuti inderogabili nella fattispecie, in quanto derivanti da norme costituzionali (art. 97, commi 2 e 4 Cost.) e dai principi generali dell’ordinamento (art. 1, comma 1, L. 241/1990), ha affermato che “
pur ribadendo la natura privatistica degli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, è stato evidenziato che, le norme contenute nell’art. 19, comma 1, d.lgs. n.165/2001, obbligano l’Amministrazione datrice di lavoro al rispetto di criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e di buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., tali norme obbligano la p.a. a valutazioni anche comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove pertanto, l’Amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguite nella scelta dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile" (TAR Umbria Sez. I, n. 192 del 30.4.2015; Corte cass. N. 9814/2008; Cass. N. 2874/2008; Cass. Sez. Lav. N. 7495/2015).
Sempre in materia, secondo la giurisprudenza amministrativa,
l’art. 110 TUEL nel consentire agli enti locali incarichi di responsabilità dirigenziale con contratti a tempo determinato, non li esonera dallo svolgere procedure concorsuali (TAR Campania Sez. V n. 7887/2002; TAR Toscana Sez. I, n. 6578/2010; TAR Piemonte Sez. II n. 362/2012; TAR Sicilia Sez. II n. 2465/2012).
Diversamente opinando, ovvero qualificando la selezione di cui all’art. 110, comma 1, TUEL quale scelta “intuitu personae”, risulterebbe dubbia la compatibilità costituzionale della norme in riferimento all’art. 97, commi 2 e 4 Cost., dal momento che il conferimento degli incarichi dirigenziali ad esterni all’Amministrazione comporterebbe, in quanto costitutivo di un rapporto di pubblico impiego, una aperta deroga al principio costituzionale dell’accesso tramite pubblico concorso, valevole anche per le assunzioni a tempo determinato (Cost. n. 73/2013; C.d.S VI n. 543172014) non sorretta da esigenze di buon andamento e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarla (ex multis Corte cost. n.137/2013; id n. 205/2006; nn. 297,363 e 448 del 2006 etc.).
L’eccezione va pertanto disattesa.
   3. Nel merito, la domanda è fondata, provata e merita accoglimento.
Ai fini del corretto inquadramento della vicenda in esame, occorre richiamare l’art. 110, commi 1, 2 e 3 del TUEL, D.lgs. n. 267/2000 –nel testo precedente le modifiche apportate dal D.L. 24.06.2014, n. 90– che disciplina i cd “incarichi a contratto”: "
1. Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire;
2. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del totale della dotazione organica della dirigenza e dell’area direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti, il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all’interno dell’ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell’area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento della dotazione organica dell’ente arrotondando il prodotto all’unità superiore, o ad una unità negli enti con una dotazione organica inferiore alle 20 unità
;
3. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. Il trattamento economico, equivalente a quello previsto dai vigenti contratti collettivi nazionali e decentrati per il personale degli enti locali, può essere integrato, con provvedimento motivato della giunta, da una indennità ad personam, commisurata alla specifica qualificazione professionale e culturale, anche in considerazione della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Il trattamento economico e l’eventuale indennità ad personam sono definiti in stretta correlazione con il bilancio
”.
La norma precedente (109) nel disciplinare il conferimento degli incarichi per l’attribuzione di funzioni direttive in capo ai dipendenti già appartenenti all’ente, stabilisce che questi sono affidati a tempo determinato con provvedimento motivato e che “L’attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi”. Inoltre nei comuni privi di personale con qualifica dirigenziale, le funzioni “direttive” possono essere attribuite, con provvedimento del Sindaco, “ai responsabili degli uffici e dei servizi indipendentemente dalla loro qualifica funzionale”.
Alla luce del riportato testo normativo,
appare ora necessario esaminare le due distinte previsioni di cui al primo ed al secondo comma del citato art. 110.
Il diverso ambito di applicazione delle due ipotesi, oltre a risultare evidente dal dato letterale, riferendosi un caso di copertura di posti di responsabile di area economico-finanziaria “già in organico”, l’altro ai contratti a tempo determinato stipulati “al di fuori della dotazione organica”, è chiarito anche dalle SS.RR. di questa Corte che in sede di controllo (Del. nn. 12 e 13 del 2011) si sono pronunciate in ordine alla diretta applicabilità agli enti territoriali, limitatamente al conferimento degli incarichi dirigenziali a contratto previsti dall’art. 110, comma 1 TUEL, delle disposizioni contenute nell’art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2011 ed hanno avuto modo di definire quella al comma 2 come “una fattispecie del tutto diversa da quella disciplinata dal comma precedente, in quanto volta a sopperire ad esigenze gestionali straordinarie che, sole, determinano l’opportunità di affidare funzioni, anche dirigenziali, extra ordinem e quindi al di là delle previsioni della pianta organica dell’Ente locale”.
Tanto precisato,
il caso in esame risulta più correttamente riconducibile al comma 1 dell’art. 110, riferendosi all’affidamento di un posto di funzioni già previsto in pianta organica.
Infatti,
la riconducibilità del caso di specie all’ipotesi disciplinata al comma 1 dell’art. 110 del TUEL è peraltro affermata –contraddittoriamente con le motivazioni dei decreti sopra richiamati e con le prospettazioni difensive opposte nell’odierno giudizio– nello stesso iniziale decreto sindacale del 17.09.2012 di conferimento dell’incarico al dott. An.Mu. ove si leggepremesso che con decorrenza dal 01.12.2011 per trasferimento in mobilità del dipendente Sc.Se., inquadrato in categoria D, si è reso vacante il posto di Istruttore direttivo area finanziaria responsabile del servizio, previsto nella pianta organica vigente per come rideterminata con delibera della Giunta Municipale n. 28 del 26.02.2009; …Ritenuta la necessità di coprire immediatamente il posto rimasto vacante onde garantire la continuità del fondamentale servizio finanziario e gli adempimenti propri del servizio medesimo, il cui tempestivo adempimento è indispensabile per ogni attività amministrativa dell’Ente; Considerato che per conoscenza diretta o per altre informazioni assunte lo stesso a dott. An.Mu.……..risulta essere in possesso dei requisiti richiesti dalla qualifica di Istruttore Direttivo Contabile categoria D….”.
Tali motivazioni si rinvengono nei successivi decreti sindacali di rinnovo dell’incarico al dott. Mu., negli anni 2013, 2014 e 2015 (giugno).
Pertanto,
rientrando la fattispecie in esame nell’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 110 TUEL, molteplici appaiono i profili di illegittimità che hanno caratterizzato la condotta dei convenuti.
Comunque, anche prescindendo dal fatto che si applichi al caso di specie il comma 1 e non il comma 2 dell’art. 110 del TUEL,
è indubbio che nell’individuazione dei soggetti cui conferire un incarico ai sensi di tale articolo di legge siano insuperabili i fondamentali canoni di legittimità, imparzialità e buon andamento, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, in ragione dei quali, pur essendo insiti in tali procedure il carattere della discrezionalità ed un margine più o meno ampio di fiduciarietà, è indispensabile che le amministrazioni assumano la relativa determinazione con una trasparente ed oggettiva valutazione della professionalità del soggetto affidatario che non può basarsi su valutazioni meramente soggettive (es. conoscenza diretta), ma deve essere ancorata quanto più possibile a circostanze oggettive.
L’esigenza di operare scelte discrezionali, ancorate a parametri quanto più possibili oggettivi e riscontrabili, evidenzia l’opportunità che le amministrazioni si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali per l’affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi. Ciò al fine di consolidare anche in questo ambito la trasparenza e ridurre le possibilità di contenzioso.
Tale convincimento si fonda anche su costante giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze n. 103 e 104 del 2007 e sentenza n. 161 del 2008) che ha espresso un
chiaro orientamento volto ad escludere l’esistenza di una “dirigenza di fiducia” e dunque la possibilità di un’interpretazione della normativa vigente nel senso di ammettere la scelta discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all’ente cui conferire gli incarichi, nonché la necessità di forme di pubblicità che assicurino la trasparenza, procedure comparative anche non concorsuali, richiedendo quindi una procedimentalizzazione dell’iter da seguire.
Con riferimento al caso di specie
gli odierni convenuti, ciascuno secondo il ruolo ricoperto nell’adozione dei decreti di incarico hanno, invece, determinato il conferimento diretto dell’incarico ad personam al Mu., senza avere preventivamente fissato i criteri per la selezione e valutazione dei curricula dei potenziali aspiranti né adottato misure di pubblicità, ma effettuando tale scelta sulla base di una valutazione personale ampiamente discrezionale.
Appare dunque, in assenza di idonea motivazione, del tutto irragionevole, quasi al limite della contraddittorietà, la scelta operata dal Sindaco, di affidare ad un soggetto estraneo all’Amministrazione le funzioni di Responsabile dell’Area Economico-Finanziaria del Comune di Molochio.
L’illegittimità si coglie a piene mani considerando che –come si evince dalle premesse degli stessi decreti sindacali- la scelta del ricorso all’esterno dell’organizzazione comunale è stata determinata dall’adozione di due provvedimenti amministrativi: il trasferimento per mobilità del responsabile dell’Area Finanziaria e la rideterminazione della pianta organica.
L’art. 34-bis (Disposizioni in materia di mobilità di personale) –richiamato dalla procura- prevede che “Le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 comma 2 (…), prima di avviare le procedure di assunzione di personale, sono tenute a comunicare ai soggetti di cui all’art. 34 commi 2 e 3, l’area, il livello e la sede di destinazione per i quali si intende bandire il concorso nonché, se necessario, le funzioni e le eventuali specifiche idoneità richieste” al fine di agevolare l’assunzione di personale (già) collocato in disponibilità, prescrivendo al successivo comma 5 che “Le assunzioni effettuate in violazione del presente articolo sono nulle di diritto”.
Nel caso di specie, nulla risulta al riguardo.
Nel provvedimento è richiamata la deliberazione della G.M. n. 28 del 26.02.2009 di approvazione della pianta organica dell’Ente per l’individuazione del posto in organico da conferire al soggetto estraneo all’ente; invero, con deliberazione n. 68 della G.M. del 05.09.2012 di poco precedente l’incarico de quo, con determinazione n. 68 del 05.09.2012 la G.M. aveva ridisegnato l’assegnazione del personale alle strutture amministrative comunali, allocando tutto il personale presente nel settore amministrativo e lasciando sprovvisto il settore Finanziario –privandolo del supporto organizzativo indispensabile per l’espletamento delle stesse funzioni– così determinando quella situazione di “vacanza” di posti addotta a fondamento del successivo conferimento dell’incarico a soggetto estraneo stante la necessità di coprire immediatamente il posto rimasto vacante onde garantire la continuità del fondamentale servizio finanziario e gli adempimenti propri del servizio medesimo, il cui tempestivo adempimento è indispensabile per ogni attività amministrativa dell’Ente.
Dalla attenta disamina dei provvedimenti censurati dall’organo requirente, non può non rilevarsi un ulteriore profilo di illegittimità oltre che di contraddittorietà dei provvedimenti di incarico nei quali viene espressamente richiamato l’art. 17, comma 1, lettera a), del Regolamento degli uffici e dei servizi, approvato con delibera della G.M. n. 82 del 24.12.2004, mentre dal 2011 era vigente un nuovo Regolamento degli Uffici e dei Servizi che non prevedeva e non prevede la possibilità di coprire posti in organico mediante contratti a tempo determinato, privi del requisito della pubblica selezione.
Tale mancata previsione è pure coerente con il Regolamento per l’accesso all’impiego (adottato nel 2013 e quindi applicabile in sede di rinnovo dell’incarico), che all’art. 1 recita “Il presente regolamento disciplina le modalità di selezione per l’accesso all’esterno alle posizioni di lavoro della dotazione organica, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e determinato ed a tempo pieno e parziale, in applicazione degli artt. 35 e 36 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165”.
Passando all’incarico affidato allo stesso Mu. con deliberazione della G.M. n. 71 del 07.09.2012, consistente nella “elaborazione di stipendi del personale del Comune”,
è sufficiente richiamare gli stessi motivi di illegittimità e contraddittorietà riscontrati nel conferimento del primo incarico, aggravati dalla violazione dell’art. 7 TUPI nella parte in cui “…impone lo svolgimento di procedure comparative per l’affidamento di ogni incarico…” e relativamente “…alla durata dell’incarico e al contenuto delle mansioni affidate esternamente”.
E difatti, al dott. Mu., per il periodo dal settembre al dicembre 2012, è stato conferito un incarico di collaborazione/consulenza per l’elaborazione di stipendi dei dipendenti per lo stesso periodo di espletamento delle mansioni di dipendente “istruttore direttivo D1-responsabile del servizio finanziario”, nel quale dette funzioni sono normalmente ricomprese secondo la declinatoria di detto profilo mansionale, apparendo quindi, prive dei requisiti dell’alta specializzazione richiesta per gli incarichi disciplinati dall’art. 110, comma 2, del TUEL, cui sarebbe ontologicamente riconducibile l’incarico conferito al Mu. dalla G.M. con delibera n. 71/12.
Inoltre
l’affidamento è stato posto in violazione dell’art. 42 del regolamento degli Uffici, senza alcun rispetto dell’istruttoria necessaria né del principio di pubblica selezione, né di verifica di analoghe professionalità all’interno dell’Ente (considerato che la vacanza in organico era conseguenza della rimodulazione della pianta organica con spostamento del responsabile dell’area finanziaria all’area amministrativa), apparendo anche sotto il profilo motivazionale privo dei necessari requisiti di legge.
In definitiva,
nel caso di specie, "non è dato riscontrare il presupposto di eccezionalità, in quanto la necessità di un dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come permanente. Ne consegue che l’ente locale conferente non può far ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a personale che dovrebbe essere previsto in organico, altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una forma atipica di assunzione, con conseguente elusione delle disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della spesa di personale (cfr. deliberazioni Sez. Regionale Controllo Lombardia n. 83/2014 e n. 84/2014).
Vanno pertanto disattese tutte le argomentazioni difensive dei convenuti circa la durata temporanea degli incarichi, la fiduciarietà, l’esclusione di tali rapporti da procedure di “stabilizzazione” e la loro cessazione in caso di “dissesto” dell’ente, dirette ad escludere la responsabilità amministrativa-contabile per i danni cagionati all’Ente locale.
Passando al profilo di danno da “rimborso spese di viaggio al dott. Mu.”, cui il predetto ha provveduto con atti di liquidazione adottati nella veste di responsabile del servizio finanziario, il Collegio non può che dissentire dalle argomentazioni difensive, secondo cui detto rimborso era previsto nel contratto individuale stipulato con l’ente pubblico (art. 6).
La fondatezza della domanda attrice si basa proprio sull’assenza, in fatto, di una documentazione che dia conto delle finalità istituzionali dei viaggi eseguiti dal predetto con il mezzo proprio, oggetto dei conseguiti rimborsi chilometrici. Manca finanche un’autodichiarazione dell’interessato che illustri: a) le predette finalità, b) l’effettività del viaggio stesso, c) l’impossibilità di compierlo con mezzi pubblici.
Le argomentazioni difensive non aiutano a superare tale grave lacuna e anzi giustificano i rimborsi per difficoltà logistiche di trasporto dalla sede di residenza alla sede di lavoro, circostanza che escluderebbe ab origine la dimostrazione delle sue finalità istituzionali, tant’ è che parte attrice ha escluso la dovutezza dei rimborsi legati al trasferimento giornaliero (escluse missioni) dell’incaricato.
Invero, il convenuto avrebbe dovuto fornire la prova positiva (mediante documentazione giustificativa) dell’effettività del viaggio e della sua correlabilità ai fini istituzionali.
Occorre ora valutare se le condotte finora descritte siano frutto di comportamenti gravemente colposi che hanno prodotto danno all’erario comunale.
In proposito,
si ritiene che il comportamento tenuto da tutti i convenuti nell’odierno giudizio sia particolarmente inescusabile e connotato da colpa grave, alla luce dell’inequivoca normativa di riferimento e della costante giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa Corte formatasi in materia di conferimento di incarichi a soggetti estranei all’Amministrazione.
Risulta di immediata percezione, infatti, che
il carattere indubbiamente fiduciario delle nomine non può debordare nell’arbitrio ma deve comunque corrispondere a dei canoni (sindacabili in questa sede) di ragionevolezza e buona amministrazione.
Pertanto, anche ammettendo l’impossibilità, indimostrata nell’odierno giudizio, di far fronte al fabbisogno con professionalità interne, ipotizzate non idonee,
l’acquisizione dall’esterno di tali figure doveva avvenire previa verifica delle professionalità disponibili, condotta anche a seguito di idonea pubblicità e previa selezione di curricula presentati dagli eventuali aspiranti al posto pubblico da coprirsi con soggetti estranei all’ente.
   4. In relazione alla sussistenza del danno e alla sua quantificazione, la Procura ha indicato la somma di € 60.365,31 (al lordo degli oneri), a titolo di emolumenti stipendiali erogati al dott. Mu., per effetto del conferimento dell’incarico a tempo determinato di responsabile del servizio finanziario e successive proroghe. Da tale somma vanno detratti gli oneri e le ritenute di legge per cui l’importo netto erogato ammonta a € 45.885,42, a cui va aggiunta la somma residua di € 6.693,43 (al netto degli oneri) corrispondente agli emolumenti maturati nel periodo gennaio-giugno 2015, così in totale € 52.578,85.
Tale importo va ripartito, in considerazione dell’apporto causale, tra il vice sindaco Mi. (decreto n. 4852/12) per gli emolumenti (netti) erogati nei mesi di ottobre-novembre-dicembre 2012 ammontanti ad € 6.706,3 e il Sindaco Al.Be. per la restante somma di € 45.872,55, per gli emolumenti erogati dal gennaio 2013 e sino a giugno 2015 (decreti di proroga).
Per quanto concerne l’incarico di collaboratore affidato con delibera della G.M., la residua somma di € 1.210 va ripartita in parti eguali tra l’assessore Mi. e Ca.Ga. (contumace), al netto dell’importo di € 1.210 (già) versato dall’assessore Ce.Gi. e dal segretario comunale Co.Gi..
La somma di € 18.878,00 (rimborso spese), cui va aggiunta la somma di € 1.166,20, va imputata interamente al dott. Mu. avendo provveduto colposamente alla liquidazione della stessa senza alcuna documentazione giustificativa del diritto al rimborso dei viaggi dallo stesso effettuati per recarsi presso la sede comunale.
   5.
Le modalità e le circostanze che hanno determinato l’affidamento degli incarichi in palese violazione di norme di legge e di regolamento non consentono al Collegio di accogliere la richiesta delle difese dei convenuti circa una riduzione del danno, detratta l’utilitas comunque conseguita dall’Amministrazione in esecuzione degli incarichi in esame.
   6. La condanna alle spese segue la soccombenza anche per la convenuta dichiarata contumace, sulla base del consolidato principio della Corte di Cassazione secondo cui “l’individuazione del soccombente si fa in base al principio di causalità, con la conseguenza che parte obbligata a rimborsare alle altre le spese che hanno anticipato nel processo, è quella che, col comportamento tenuto fuori del processo, ovvero col darvi inizio o resistervi in forme e con argomenti non rispondenti al diritto, ha dato causa al processo o al suo protrarsi” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7182 del 30/05/2000 e recentemente Cass. Civ. Sez. VI Ordinanza n. 373 del 13.01.2015).
P.Q. M.
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Calabria, definitivamente pronunciando, reiette ogni istanza eccezione e deduzione contraria,
ACCOGLIE
la domanda attrice e per l’effetto condanna:
– Mi.Fr. al pagamento di €. 6.706,30 e di €. 605,00 per un totale di € 7.311,30;
– Al.Be. al pagamento di € 45.872,55;
- Ca.Ga. al pagamento di € 605,00;
- Mu.An. al pagamento di € 20.044,42 (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria, sentenza 04.08.2016 n. 193).

APPALTI SERVIZI: Acquisti informatici con Consip. Niente appalti autonomi anche sotto i 1.000 euro. Corte conti Umbria: gli enti sono tenuti ad applicare le norme della legge di Stabilità 2016.
Niente appalti autonomi anche sotto i 1.000 euro per l'acquisizione di beni e servizi attinenti l'informatica.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l'Umbria, col parere 28.04.2016 n. 52, ha espresso l'ennesimo parere molto restrittivo su norme vincolistiche dell'ordinamento, specificamente rivolto all'articolo 1, comma 512, della legge 208/2015, in risposta ad un quesito riguardante la possibilità di acquistare beni e servizi informatici, di valore inferiore alla soglia dei 1.000 euro, evitando il tramite di Consip spa e degli altri soggetti indicati dal medesimo comma 512.
Secondo la Corte dei conti anche per acquisizioni di beni e servizi informatici di modico valore e di importo inferiore ai 1000 euro le amministrazioni sono comunque tenute alla complessa disciplina specificamente prevista dalla legge di Stabilità per il 2016.
Agli acquisti informatici, infatti, non si estende la previsione dell'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, come modificato dall'articolo1, comma 502, sempre della legge 208/2015: tale disposizione permette alle amministrazioni di procedere direttamente ad acquisizioni di beni e servizi di importo fino a 1.000 euro senza passare né dalla Consip o altri soggetti aggregatori, né da centrali di committenza.
A giudizio della magistratura contabile questo non vale per l'acquisto di beni e servizi informatici, anche di importo inferiore ai 1.000 euro.
La ragione consiste nella natura speciale dell'articolo 1, comma 512, della legge 508/2015, tale da renderlo inidoneo all'estensione analogica della disciplina generale del comma 502.
Il parere della sezione Umbria evidenzia che il quadro normativo derivante dalla legge di stabilità 2016 comporta l'esonero degli enti locali dell'obbligo di ricorrere al mercato elettronico della pubblica amministrazione solamente per gli acquisti di beni e servizi di carattere generico fino al valore di 1.000 euro. Nei casi, invece, degli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività vige invece un diverso regime, «in quanto la recente normativa, considerandoli una speciale categoria merceologica cui vengono destinate specifiche disposizioni di legge, impone, senza alcuna distinzione di valore, il ricorso alle convenzioni Consip o dei soggetti aggregatori».
Questo è quanto suggerisce l'interpretazione letterale della norma ai sensi della quale è consentito l'approvvigionamento di tali beni «esclusivamente» tramite i soggetti indicati dal legislatore: il che elimina altre modalità di acquisto autonomo.
Però, anche l'interpretazione sistematica secondo la Corte dei conti conduce allo stesso esito. Infatti, possibilità di approvvigionamento al di fuori delle modalità previste dal citato comma 512 è ammessa solamente per beni non disponibili o idonei o nei casi di necessità e urgenza e nel rispetto di una precisa ed onerosa procedura che richiede l'autorizzazione preventiva motivata dell'organo di vertice amministrativo, e la successiva comunicazione all'Anac e all'Agid (articolo ItaliaOggi del 12.08.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOIstituire il capo di gabinetto non è danno erariale. Sentenza della corte conti umbra. Non rileva il mancato conferimento di funzioni di direzione.
Non costituisce danno erariale attivare la figura del capo di gabinetto in un ente locale con qualifica dirigenziale, anche se non gli sono demandate funzioni di direzione ed amministrative.

La sentenza 17.03.2016 n. 23 della Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale dell'Umbria, aiuta in qualche modo a far luce sulla controversa questione del ruolo e dell'utilità del capo di gabinetto negli enti locali, di particolare attualità a seguito delle polemiche per la retribuzione molto alta riconosciuta al capo di gabinetto a Roma.
Quanto deciso dai giudici contabili, se per un verso evidenzia che le norme vigenti forniscono basi di legittimità alla creazione dell'ufficio di gabinetto, per altro verso, al contrario, paiono confermare l'alquanto dubbia utilità concreta di tale figura, specie se connotata da qualifica dirigenziale o se, comunque, compensata con emolumenti parametrati agli stipendi dei dirigenti.
La sentenza ha mandato assolto il presidente della provincia di Terni dall'aver assunto un capo di gabinetto con qualifica dirigenziale evidenziando che, contrariamente a quanto rilevato dalla procura contabile, le funzioni svolte dal capo di gabinetto non erano in contrasto con gli assetti organizzativi e i principi generali che governano la gestione.
Infatti, spiega il collegio giudicante, «le funzioni su cui la procura ha manifestato le proprie valutazioni critiche sono espressione dell'attività di «indirizzo politico-amministrativo», ex art. 4 del dlgs n. 165/2001», tanto che l'incaricato non ha avuto l'incombenza di adottare atti amministrativi di carattere gestionale, bensì di compiere «atti ed interventi a carattere politico/amministrativo», senza svolgere il «coordinamento sulla dirigenza dell'ente, ma di «realizzare un concreto raccordo tra la direzione politica e la dirigenza», tanto che il capo di gabinetto nel caso di specie non ha mai adottato atti amministrativi o altrimenti esercitato funzioni gestionali, proprie dei dirigenti.
Per questa ragione, la sentenza ha mandato assolti i convenuti: la situazione evidenziata non contrasta con gli assetti organizzativi, ben specificati dalla novella apportata nel 2014 all'articolo 90 del dlgs 267/2000, il cui comma 3-bis pone in modo chiaro il «divieto di effettuazione di attività gestionale».
Se, tuttavia, la magistratura contabile esclude responsabilità per l'attivazione dell'ufficio del capo di gabinetto proprio perché detto ufficio non svolge attività gestionale, né di coordinamento dei dirigenti, occorre chiedersi a cosa serva questa figura.
La sezione Umbria dà indirettamente una risposta non soddisfacente: svolgere le funzioni di indirizzo politico. Ma, queste funzioni, in applicazione del principio di separazione tra politica e gestione, spettano agli organi di governo, mentre alla dirigenza compete la concreta attuazione.
Negli enti locali, la funzione di indirizzo politico è assegnata alla competenza diretta del sindaco o del presidente della provincia, allo scopo coadiuvato dal principale organo di coordinamento e trasmissione con la dirigenza, cioè la giunta comunale. Per altro, i singoli assessori dispongono di un esplicito potere di direttiva, proprio per specificare gli indirizzi amministrativi; tanto che ai sensi dell'articolo 109, comma 1, del dlgs 267/2000 gli incarichi dirigenziali possono essere revocati per violazione di tali direttive.
Sul piano tecnico, poi, l'articolo 97, comma 4, del dlgs 267/2000 assegna al segretario comunale il coordinamento dell'attività dei dirigenti.
Il capo di gabinetto, alla luce di queste norme, appare una figura spuria di dubbia efficacia e opportunità. Infatti, viene connotato di funzioni di indirizzo politico che non potrebbe svolgere, a meno di considerarlo come una sorta di organo politico che si aggiunge agli assessori; nello stesso tempo, però, è spesso qualificato come dirigente (o, comunque, è destinatario di stipendi parametrati a quelli dirigenziali), ma senza poter adottare atti amministrativi e gestionali.
Di certo, le funzioni che la labile e confusa normativa vigente (integrata in molti enti da disposizioni regolamentari non meno laconiche e fumose) consentono di attribuire al capo di gabinetto appaiono comunque già di pertinenza di altri soggetti, sia sul piano politico, sia su quello tecnico.
Sicché, non si comprende appieno perché un capo di gabinetto possa ricevere un trattamento economico di molto maggiore di quello degli assessori, dei quali sostanzialmente espleta le funzioni, o, nello stesso tempo, perché possa il suo trattamento essere parametrato a quello della dirigenza, dal momento che deve mancare necessariamente l'assunzione delle responsabilità gestionali che, pure, sono fondamento delle retribuzioni dirigenziali (articolo ItaliaOggi del 23.08.2016).
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MASSIMA
9) – Tutto ciò premesso, nel merito,
la pretesa della Procura Regionale è infondata.
10) – Il Collegio rileva in proposito che
l’addebito mosso ai convenuti si incentra sulla illegittima attribuzione al dott. Gr. della qualifica dirigenziale, per l’espletamento dell’incarico di Capo di Gabinetto del Presidente della Provincia di Terni, ex deliberazione giuntale n. 139/2009.
10.1) – I convenuti, infatti, sono stati individuati in base a tale deliberazione (v. pag. 15 della citazione in giudizio) e sempre in base a tale deliberazione sono stati valutati i profili della loro colpa grave e quelli etiologici del danno (v. pag. 13 della citazione in giudizio).
Il danno, del resto, è costituito dal saldo tra le maggiori somme percepite dal dott. Gr. per la qualifica dirigenziale conferita con la ripetuta deliberazione di Giunta, non spettante secondo la Procura, e quella di livello “D1”, che invece si sarebbe dovuta attribuire con la deliberazione stessa, secondo la Procura medesima (v. pagg. 13-15 della ridetta citazione).
10.2) – Secondo parte attrice, le funzioni di Capo di Gabinetto del Sindaco, o –come nel caso– del Presidente della Provincia (ex art. 90 TUEL), non comportano mai l’espletamento di compiti gestionali, riservate ai dirigenti, ex art. 107 e 110 TUEL (v. pagg. 6-10 della citazione in giudizio), così che la qualifica di dirigente non spetta mai al Capo di Gabinetto.
La censurata deliberazione n. 139/2009, pertanto, avrebbe illegittimamente attribuito la qualifica dirigenziale al dott. Gr., al quale avrebbe affidato altrettanto illegittimamente anche l’espletamento di compiti gestionali, in palese violazione dei principi affermati da questa Corte (di qui anche la colpa grave dei convenuti), che escludono “qualunque sovrapposizione” tra le funzioni politiche, proprie degli organi di staff, e quelle gestionali, proprie dei dirigenti, ex Sez. Contr. Piemonte delib. n. 312-Par./2013, Sez. Contr. Lombardia delib. n. 43-Par./2007 e Sez. I Centr. App. sent. n. 785-A/2012 (v. pagg. 8-15 della citazione in giudizio).
10.3) – Nelle tesi dell’accusa, in sostanza, la qualifica dirigenziale non può mai, già in astratto, essere conferita per le attività di staff, propria degli organi di supporto delle funzioni di indirizzo e controllo politico del Sindaco e del Presidente della Provincia, ex art. 90 TUEL, mentre nel caso sarebbero stati attribuiti anche funzioni gestionali.
10.3.1) – Nel contesto dell’atto introduttivo della causa, il punto centrale dell’accusa si compendia nell’alternativa secondo cui: “o la deliberazione n. 139/2009 ha attribuito funzioni dirigenziali”, così da violare le disposizioni degli artt. 90, 107 e 110 TUEL che vietano una simile attribuzione, “oppure [simili funzioni] non sono state attribuite, prevedendo comunque l’attribuzione della qualifica dirigenziale” ed una corrispondente retribuzione, ed allora sono state violate le regole sinallagmatiche delle prestazioni a confronto, lavorative e retributive (v. pag. 12 della citazione in giudizio).
11) – Nella ricostruzione dell’accusa manca ogni riferimento all’art. 15 del “Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi della Provincia di Terni”, approvato con delibera n. 156/2003 (allegata alla memoria di costituzione in giudizio del dott. Ag.), nella quale espressamente si prevede che: “con deliberazione della Giunta Provinciale, possono essere costituiti Uffici di Collaborazione, ai sensi dell’art. 90, anche di livello dirigenziale”.
In aula, il P.M., si è limitato a considerare tale articolo per sostenere che i convenuti lo avrebbero dovuto “disapplicare”, in rapporto alle prevalenti disposizioni degli artt. 90, 107 e 110 del TUEL.
11.1) –
Il Collegio ritiene che, con la censurata deliberazione n. 139/2009, i convenuti abbiano inteso costituire proprio un ufficio del genere di quello indicato nel precitato art. 15 (pure richiamato nelle premesse della delibera stessa), ossia un “ufficio di supporto agli organi di direzione politica”, ex art. 90 TUEL, “di livello dirigenziale”.
Con la medesima deliberazione, inoltre, al dott. Gr. è stato attribuito “il compito di gestire relazioni interne ed esterne di natura negoziale complessa, [nonché] di predisporre atti ed interventi a carattere politico/amministrativo [e] di realizzare un concreto raccordo tra la direzione politica e la dirigenza”.

11.2) –
Le indicate attribuzioni, secondo il Collegio, non “debordano” in astratto dai compiti di supporto alla direzione politica, né risulta che in concreto il dott. Gr. abbia espletato compiti dirigenziali, contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura Regionale (v. pag. 3 della citazione).
11.3) – Come correttamente evidenziato dalle difese dei convenuti, le funzioni su cui la Procura ha manifestato le proprie valutazioni critiche sono espressione dell’attività di “indirizzo politico-amministrativo”, ex art. 4 del d.lgs. n. 165/2001.
Con la censurata deliberazione, infatti, il dott. Gr. non ha ricevuto il compito di porre in essere atti amministrativi, ma “atti ed interventi a carattere politico/amministrativo”, né ha ricevuto il compito di coordinamento sulla dirigenza dell’Ente, ma di “realizzare un concreto raccordo tra la direzione politica e la dirigenza”.
11.4) – Né, come pure rilevato dalle difese dei convenuti, risulta che il dott. Gr. abbia in concreto adottato atti amministrati, o abbia altrimenti esercitato funzioni gestionali, proprie dei dirigenti.
In particolare, è stato correttamente evidenziato dalle predette difese che:
   a) quanto all’adozione di atti amministrativi, la Procura non ha offerto alcuna indicazione in proposito;
   b) quanto al possibile espletamento in concreto di funzioni dirigenziali, invece, le uniche prove addotte sono le intercettazioni ambientali versate dalla Procura (v. allegati al documento n. 2 della nota di deposito atti n. 1), che tuttavia appaiono talmente generiche e frammentarie da non raggiungere alcuna valida e consistente base dimostrativa (v. pag. 11 della memoria di costituzione in giudizio dell’avv. Ga. e, in senso analogo le memorie degli altri difensori).
11.5) – Né, secondo il Collegio, è enucleabile –con la sicurezza che la materia della responsabilità erariale impone– una qualche attribuzione di funzioni dirigenziali al dott. Gr. dal contesto complessivo delle deliberazioni n. 160/2009, n. 231 del 2009 e n. 304/2010, pure richiamate dalla Procura Regionale.
Come evidenziato dalle difese dei convenuti, infatti, nella deliberazione n. 231/2009 è espressamente precisato che: “alla struttura GABINETTO DEL PRESIDENTE […] non sono assegnate funzioni gestionali di struttura relative all’attività amministrativa dell’Ente” (v. pag. 3 della menzionata deliberazione di Giunta n. 231/2009, in atti).
11.6) – In relazione a quanto sopra, dunque,
è da escludere che i convenuti abbiano mai attribuito funzioni gestionali, propri dei dirigenti, al dott. Gr., nella veste di Capo di Gabinetto del Presidente della Provincia di Terni.
12) – Una simile conclusione, tuttavia, non comporta automaticamente un danno per l’Amministrazione Provinciale di Terni, come ha mostrato di ritenere la Procura Regionale, articolando la riferita alternativa tra l’illecito conferimento di funzioni dirigenziali ed il mancato conferimento delle stesse, ex precedente paragrafo 8.3).
12.1) – L’astratta possibilità di costituire “uffici di collaborazione [per l’esercizio delle funzioni politiche] anche di livello dirigenziale”, prevista dall’art. 15 del “Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei Servizi” della Provincia di Terni, avrebbe infatti imposto una ulteriore ipotesi di verifica, qualora si fosse data attuazione alla riferita previsione normativa dell’“ufficio di livello dirigenziale”, com’è avvenuto con la deliberazione n. 139/2009. Avrebbe, cioè, imposto di valutare la consistenza dei compiti assegnati ed il concreto impegno per il loro esercizio, al fine di accertarne la congruenza e proporzione con la qualifica e –soprattutto– con la retribuzione dirigenziale attribuita.
Solo in ipotesi di incongrua organizzazione dell’ufficio di Gabinetto, rispetto alla predetta qualifica e retribuzione, si sarebbe potuto enucleare un danno, sotto il profilo della lesione sinallagmatica delle prestazioni, lavorativa e retributiva, a confronto.
12.2) – In questa ottica, è bene ricordare che la stessa deliberazione della Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia n. 43-Par./2007, richiamata dalla Procura Regionale nella citazione in giudizio (v. pag. 3 e pag. 9), pone l’accento sul carattere discrezionale del potere degli Amministratori di costituire gli uffici di collaborazione (ex art. 90 TUEL) e sottolinea che essi dovranno scegliere “lo schema organizzatorio più adatto alle esigenze della comunità, in modo che sia assicurato il necessario equilibrio fra le funzioni gestionali e operative e quelle di indirizzo e controllo [politico], sulla base dei principi di sana gestione e di adeguatezza, tenendo conto delle dimensioni del Comune”, o della Provincia, “e della compatibilità dei conseguenti oneri finanziari ed economici”.
12.3) – Una verifica del genere è tuttavia mancata, in quanto la Procura Regionale ha pregiudizialmente collegato la qualifica dirigenziale, conferita con la deliberazione n. 139/2009, alle funzioni gestionali dei dirigenti amministrativi, non considerando che il più volte menzionato art. 15 del Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei Servizi della Provincia di Terni comunque consentiva l’istituzione di “uffici di collaborazione anche di livello dirigenziale”.
Né, secondo l’andamento ordinario delle cose, ovvero secondo “l’id quod plerumquem accidit”, era esigibile la disapplicazione del citato articolo da parte dei convenuti (come sostenuto in aula dal P.M.), tenuto anche conto del fatto che il cennato regolamento è stato adottato dopo l’entrata in vigore del TUEL (nel 2003), secondo una presumibile valutazione di compatibilità con le disposizioni del medesimo TUEL alla quale i convenuti medesimi non hanno partecipato e che invece hanno –ragionevolmente– dato per scontato (v. intervento in aula dei difensori dei convenuti).
12.4) – In rapporto alla ricordata previsione regolamentare, le sopravvenute disposizioni dell’art. 11, comma 4, del d.l. n. 90/2014 (convertito in l. n. 114/2014), avrebbero avuto valore puramente formale, qualora si fosse accertato che la preposizione del dott. Gr. all’ufficio istituito con la deliberazione n. 139/2009, con la qualifica ed il trattamento dirigenziale, rispetta “il necessario equilibrio fra le funzioni gestionali e operative e quelle di indirizzo e controllo politico [tenuto] conto delle dimensioni dell’[Ente] e della compatibilità dei conseguenti oneri finanziari ed economici” (ex precitata deliberazione della Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia n. 43-Par./2007), tenuto anche conto delle indicazioni diramate in proposito con la nota interpretativa ANCI-UPI sugli “Uffici di supporto agli organi di direzione politica”, a seguito delle sopravvenute disposizioni del precitato art. 11, richiamata dall’avv. Be. a pag. 9 della relativa memoria di costituzione in giudizio.
12.5) – Del resto, e con ciò si chiude sul punto, la relazione tecnica di accompagnamento all’art. 11, comma 4, del d.l. n. 90/2014 ha chiarito che “il riferimento all’inquadramento dirigenziale, ove consentito nel regolamento degli uffici e dei servizi anche in deroga ai requisiti di accesso alla qualifica […] è da intendere in termini di mera parametrazione retributiva”.
13) – Per quanto finora esposto e considerato, dunque,
i convenuti vanno assolti dalla domanda attrice, con assorbimento di ogni altra eccezione e deduzione.
14) – Ai difensori dei convenuti vanno liquidate le spese legali (ex art. 3, comma 2-bis, della l. n. 639/1996 e s.m.i.), che il Collegio fissa nei seguenti importi, oltre IVA e CAP, tenuto essenzialmente conto dell’ammontare della controversia per ciascuno di essi, della materia trattata, del numero degli atti posti in essere, della sostanziale identicità delle memorie difensive dell’avv. Ra. e dell’avv. Pa., della parziale prescrizione del diritto risarcitorio (ex SS.RR. n. 3-QM/2008) e degli altri criteri indicati dagli artt. 4 e 11 del d.m. n. 140/2012, applicabile in fattispecie, ai sensi degli artt. 41 e 42 del medesimo decreto:
a) € 2.000 (Euro duemila), per l’avv. Fe.Pa.;
b) € 3.500 (Euro tremilacinquecento), per l’avv. Ma.Ra.;
c) € 3.000 (Euro tremila), per l’avv. Ro.Ga.;
d) € 1.500 (Euro millecinquecento) per l’avv. Pa.Be..
15) – Dato l’esito del giudizio non è luogo a pronuncia sulle spese di giustizia.
Visti gli artt. 82 del r.d. n.2440/1923, 52 del r.d. n. 1214/1934, 43 e ss. del r.d. n. 1038/1933, 18 del d.P.R. n. 3/1957, 1 della l. n. 20/1994 e s.m.i., 5 della l. n. 19/1994 e s.m.i. e 93 del d.lgs. n. 267/2000.
P. Q. M.
La Corte dei conti Sezione giurisdizionale per l’Umbria
ASSOLVE
Dalla domanda attrice i convenuti.
Liquida a favore dei loro difensori le spese legali, nei termini di cui in parte motiva.
Non è luogo a pronuncia sulle spese di giustizia (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria, sentenza 17.03.2016 n. 23).

QUESITI & PARERI

INCARICHI PROFESSIONALI Gli incarichi esterni.
DOMANDA:
Il quesito è inerente a due diversi aspetti della stessa problematica, ovvero i corretti adempimenti da operare e connessi alla cd. "amministrazione trasparente".
1^ Problematica - Incarichi a consulenti e collaboratori esterni: Premesso che il Comune inserisce ed aggiorna sull'apposito sito PERLA.Pa ogni informazione relativa a consulenze e/o incarichi di natura onerosa, si chiede se le stesse informazioni debbano obbligatoriamente essere inserite anche sul sito "trasparenza" di questo Ente;
2^ Problematica - Attività di consulenza: questo Comune ha affidato direttamente servizio consulenziale a società che si avvale di esperto per risposta a quesiti in tema di personale, controllo atti predisposti dall'Ente, aggiornamento sulla normativa del settore e su deliberazioni, pareri, sentenze della Corte dei Conti, nelle sue varie sezioni.
Detto incarico deve essere inserito sul sito PERLA.Pa e sul sito trasparenza dell'Ente?
RISPOSTA:
Il D.Lgs. n. 33/2013, emanato in attuazione dell’art. 1, comma 35 della legge 190/2012, nell’ambito del riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, ha modificato, all’art. 15, le disposizioni in merito agli Obblighi di pubblicazione relativi agli incarichi di collaborazione e consulenza conferiti a soggetti esterni all’Amministrazione.
L’art. 15 cit. prevede l’obbligo di pubblicazione, sul sito istituzionale dell’ente, nella sezione Amministrazione trasparente, degli estremi degli atti di conferimento di collaborazione o di consulenza a soggetti esterni per i quali è previsto un compenso, completi di indicazione dei soggetti percettori, del curriculum vitae, della ragione dell'incarico e dell'ammontare erogato, nonché la comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica, effettuata esclusivamente per via telematica, tramite il sito www.perlapa.gov.it., dei relativi dati ai sensi dell'articolo 53, comma 14, secondo periodo, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
In caso di omessa pubblicazione, il contratto è nullo ed inefficace e l’eventuale pagamento del corrispettivo determina la responsabilità del dirigente che l'ha disposto, e il pagamento di una sanzione pari alla somma corrisposta, fatto salvo il risarcimento del danno del destinatario ove ne ricorrano le condizioni. La pubblicazione deve essere effettuata entro tre mesi dal conferimento dell’incarico e per i tre anni successivi alla cessazione dell’incarico; invece la comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica è semestrale.
La pubblicità delle attività di prestazione di servizi consulenziali, svolte da persona giuridica, non è invece regolata dall’articolo 15, bensì dall’articolo 37 del D.Lgs. 33/2013 (come modificato dall’art. 31 del D.Lgs. 97/2016).
Le stazioni appaltanti hanno l’obbligo di pubblicare sul sito istituzionale dell’ente, nella sezione Amministrazione trasparente, tutti gli atti e documenti relativi alla procedura di affidamento (oggetto del bando, elenco degli operatori invitati a presentare offerte, aggiudicatario, importo di aggiudicazione, ecc…). Ogni qualvolta l’amministrazione per l’affidamento di lavori, servizi e forniture proceda in assenza di gara pubblica, è tenuta a pubblicare la delibera a contrattare (articolo 37, comma 2, del D.Lgs. 33/2013).
Resta salvo quanto previsto dall'articolo 9-bis in materia di pubblicazione delle banche dati, gli obblighi di pubblicità legale, e gli obblighi di pubblicazione previsti dal decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: La distanza minima tra edifici.
DOMANDA:
Il quesito riguarda l’intervento per la realizzazione di una muratura di tamponamento del piano primo (attualmente totalmente privo di muro verso il cortile) del fronte di un rustico-fienile costituto attualmente da box al piano terra e locale aperto al piano primo, accessibile solo dall'esterno, con affaccio su cortile comune.
Il progetto prevede la realizzazione di una scala interna che dal box dia accesso al piano primo, e la formazione del muro di chiusura del fienile (verso il cortile) con l’inserimento di una porta-finestra affacciante come detto su cortile comune. La destinazione d’uso del piano primo sarà sgombero-magazzino, senza permanenza di persone. La previsione di inserire una apertura è funzionale unicamente per l’eventuale movimentazione di oggetti voluminosi dall’esterno anziché attraverso le strette scale interne previste dal progetto.
L’immobile prospiciente al fabbricato oggetto d’intervento è posto a metri 5.60 e presenta una finestra a piano terra posta frontalmente alla basculante del box esistente a piano terra e la casa prospiciente presenta anche una finestra al piano primo, posta a circa 8 metri di distanza dal fabbricato oggetto di intervento.
Il dubbio dello scrivente è in relazione all'assenza della distanza pari a ml 10 fra il nuovo muro di chiusura del rustico/fienile a piano primo con creazione di porta finestra rispetto al fabbricato posto di fronte allo stesso a circa ml 8, seppur, quest’ultimo, risulta già dotato di finestra.
RISPOSTA:
La distanza minima di 10 ml fra edifici dotati di pareti finestrate risulta prevista al n. 2 dell’art. 9 del DM n. 1444/1968 se si tratta di fabbricati ricadenti in “altre zone” territoriali omogenee diverse dalla “A” (vedi le altre disposizioni contenute nella stesso articolo per tale zona “A” e per la zona “C”). Tale distanza va considerata inderogabile perché di ordine pubblico come ribadito più volte dalla giurisprudenza la quale ha anche precisato che non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di esse.
In particolare è stato affermato (Cass. civ. Sez. II, 20.06.2011, n. 13547): “la norma dell´art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in attuazione dell´art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari locali- va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l´applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre” (vedasi anche Cass. civ. Sez. II, 28.09.2007, n. 20574).
Analogamente il Consiglio di Stato (Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909) ha rilevato che: “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell´edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra”.
In ogni caso è stato chiarito che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l´esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Sulla base di tali consolidati indirizzi e principi generali non pare dubbio che anche nel caso di specie si debbano rispettare le citate distanze anche considerando che la tamponatura in muratura che determina, come tale un nuovo volume, riveste la natura di un nuovo intervento costruttivo.
Si ricorda al riguardo che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (cfr. Cons. Stato sez. IV, 17/05/2012, n. 2847 (conferma TAR Basilicata-Potenza, sez. I, n. 849/2009) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Vicesindaco. Compatibilità attività presso Associazione.
A norma dell'art. 63, comma 1, n. 3, del d.lgs. 267/2000, non può ricoprire la carica di amministratore locale il consulente legale, amministrativo e tecnico che presta opera in modo continuativo in favore delle imprese di cui ai numeri 1) e 2) del medesimo comma.
Per consulenza deve intendersi una tipologia di attività professionale altamente qualificata a carattere tecnico/specialistico, nell'ambito di specifiche competenze.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine al sussistere di un'eventuale incompatibilità, riferita alla figura del vicesindaco, in relazione all'attività prestata dal medesimo nel collaborare con una associazione che cura i centri estivi comunali per ragazzi. Nello specifico l'interessato svolge una funzione di 'Responsabile di zona' per i ragazzi che svolgono l'anno di Servizio Civile Solidale, che comporta l'esercizio di 'una funzione di supporto globale alle attività del centro estivo e soprattutto di affiancamento ai vari coordinatori che si susseguono'.
Si precisa che, dovendo sostenere l'interessato con proprio mezzo privato varie trasferte, riceve dall'associazione a tale titolo una somma forfettaria a carattere di rimborso spese (importo che, per la sua modesta entità, non rileva nemmeno ai fini della dichiarazione dei redditi).
Innanzitutto va rammentato che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo
[1]. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti (art. 41 del d.lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, spetta al consiglio medesimo, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall'amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti ritenuti necessari.
Ciò premesso, la situazione prospettata va esaminata con riferimento alla vigente disciplina in materia di incompatibilità per gli amministratori degli enti locali, dettata dal d.lgs. 267/2000.
Preliminarmente è da notare che le disposizioni che definiscono ipotesi di incompatibilità si sostanziano in una limitazione al diritto di elettorato passivo, costituzionalmente garantito e, pertanto, non sono suscettibili di interpretazione analogica.
In linea generale, si osserva che le preclusioni contemplate all'art. 63 del citato decreto sono ascrivibili al novero delle c.d incompatibilità di interessi: esse hanno infatti la precipua finalità di impedire che possano concorrere all'esercizio delle pubbliche funzioni comunali soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli del comune medesimo o che si trovino comunque in condizioni tali da compromettere l'esercizio imparziale della carica elettiva.
Con riferimento alle prescrizioni imposte dall'art. 63, comma 1, n. 2, del d.lgs. 267/2000, si evince che non può ricoprire la carica di amministratore locale colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune, ovvero in società ed imprese volte al profitto di privati, sovvenzionate dal comune in modo continuativo, quando le sovvenzioni non siano dovute in forza di una legge dello Stato o della Regione.
Come rilevato dal Ministero dell'Interno
[2], la situazione di incompatibilità, in detta fattispecie, è ravvisabile 'in presenza di un duplice presupposto: il primo di natura soggettiva ed il secondo di natura oggettiva. Sul piano soggettivo, è necessario che l'interessato rivesta la qualità di titolare (ad esempio, di impresa individuale) o di amministratore' (ad esempio, di società di persone o di capitali) 'ovvero di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento quale può essere, a titolo esemplificativo, l'institore o il procuratore di un'impresa commerciale o il direttore generale di una società per azioni'.
Il Ministero rileva come l'amministratore locale può considerarsi incompatibile qualora, ad esempio, rivestendo uno dei ruoli sopra indicati, abbia parte in appalti nell'interesse del comune, venendo in tal caso a configurarsi una situazione di potenziale conflitto rispetto all'esercizio imparziale della carica elettiva.
Parimenti la citata norma è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di amministratore o dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici economicamente rilevanti con l'ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l'insorgere di un conflitto di interessi.
In relazione al preciso contenuto della norma richiamata, preso atto della tipologia e delle modalità di svolgimento della collaborazione prestata dal vicesindaco a favore dell'Associazione alla quale è affidata la gestione del centro estivo, non sembrano emergere elementi tali da far ritenere sussistente la causa di incompatibilità indicata espressamente al richiamato art. 63, comma 1, n. 2, del d.lgs. 267/2000, atteso che, secondo quanto prospettato, l'interessato non riveste all'interno dell'Associazione né il ruolo di amministratore, né quello di dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento.
Per le medesime ragioni (mancanza del presupposto soggettivo) non pare comunque
[3] potersi configurare nemmeno la causa di incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, n. 1, del citato decreto, il quale prevede che non può ricoprire la carica di amministratore comunale l'amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda soggetti a vigilanza in cui vi sia almeno il 20 per cento di partecipazione rispettivamente da parte del comune o che dallo stesso riceva, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Secondo quanto riferito, l'attività svolta dall'interessato non sembrerebbe configurarsi nemmeno quale incarico professionale di consulenza menzionato all'art. 63, comma 1, n. 3 del d.lgs. 267/2000, il quale stabilisce che non può ricoprire la carica di amministratore locale 'il consulente legale, amministrativo e tecnico che presta opera in modo continuativo in favore delle imprese di cui ai numeri 1) e 2)' del medesimo comma.
Considerato che, in genere, per consulenza si intende una tipologia di attività professionale
[4] altamente qualificata, a carattere tecnico/specialistico, nell'ambito di specifiche competenze [5], si suggerisce comunque all'Ente di valutare in modo specifico se la collaborazione prestata dall'amministratore in oggetto a favore dell'Associazione possa eventualmente, sulla base di ulteriori elementi di fatto, essere riconducibile alla fattispecie della consulenza.
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[1] Si precisa che nella fattispecie prospettata il vicesindaco è anche consigliere comunale.
[2] Cfr. parere del 30.12.2014.
[3] Anche nell'eventualità che sussistano gli altri requisiti richiesti ai fini dell'incompatibilità.
[4] Cfr. Mariani, Menaldi & Associati, Incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità negli enti locali, Nuova Giuridica, 2012, pag. 70.
[5] Cfr., ex multis, Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 34/2016
(29.08.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso, divieti cedevoli. Nessun diniego al consigliere comunale. Ostensibile documentazione generalmente coperta da riservatezza.
L'amministrazione comunale può rendere ostensibili i documenti concernenti il rilascio di titoli abilitativi, studi di fattibilità, documenti del Suap e dell'Ufficio edilizia privata-urbanistica richiesti dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?
L'ente può negare l'accesso ai documenti rientranti in tale elenco in ragione delle eventuali pretese risarcitorie dei soggetti privati coinvolti, eventualmente danneggiati dalla diffusione delle notizie in possesso della amministrazione?

L'art. 43, comma 2, riconosce al consigliere comunale un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del comune di residenza, ai sensi dell'art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000 sia, più in generale, nei confronti della pubblica amministrazione, come disciplinato dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere espresso nella seduta del 28.02.2012, ha affermato che «il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri degli organi elettorali locali ex art. 43 decreto legislativo n. 267/2000 è strettamente funzionale all'esercizio del proprio mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente territoriale, ai fini della tutela degli interessi pubblici, e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (Cons. stato sez. V, 08.11.2011, n. 5895). In tale ottica, al consigliere comunale non può essere opposto alcun diniego, altrimenti gli organi di governo dell'ente sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'estensione del controllo sul proprio operato».
La giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel senso di ritenere che l'ampia prerogativa a ottenere informazioni è riconosciuta ai consiglieri comunali senza che possano essere opposti profili di riservatezza, restando fermi, tuttavia, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali, nei casi specificamente determinati dalla legge, come peraltro previsto dal citato art. 43.
Anche il Tar Lombardia–Milano, con sentenza n. 2363 del 23/09/2014, ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad accedere agli atti del Comune in quanto «non è in dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il consigliere tenuto al segreto d'ufficio» (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione gruppi consiliari.
La materia dei gruppi consiliari, ai sensi dell'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale 'nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto', essendo riconosciuta ai consigli piena autonomia funzionale e organizzativa.
Pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato.

Il Consigliere comunale, che riveste tale carica in qualità di candidato sindaco risultato non eletto, chiede un parere in merito al proprio inserimento nell'ambito di un gruppo consiliare, alla luce della normativa vigente in materia, atteso che lo stesso è stato sostenuto da tre liste, in ciascuna delle quali è stato eletto un consigliere comunale.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si osserva che l'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo
[1].
La materia dei gruppi consiliari, ai sensi dell'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale 'nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto', essendo riconosciuta ai consigli piena autonomia funzionale e organizzativa. Pertanto, le problematiche relative alla costituzione e funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato.
Nel caso di specie, l'articolo 21 dello statuto comunale stabilisce che '1. I consiglieri possono costituirsi in gruppi, secondo quanto previsto nel regolamento del Consiglio comunale e ne danno comunicazione al Sindaco e al Segretario comunale unitamente all'indicazione del nome del capogruppo. Qualora non si eserciti tale facoltà o nelle more della designazione, i gruppi sono individuati nelle liste che si sono presentate alle elezioni e i relativi capigruppo nei consiglieri, non appartenenti alla Giunta, che abbiano riportato il maggior numero di preferenze. 2. I consiglieri comunali possono costituire gruppi non corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono stati eletti purché tali gruppi risultino composti da almeno due membri. (omissis)'.
A sua volta, il regolamento del consiglio comunale (artt. 6 e ss.) ribadisce che i gruppi consiliari sono di norma costituiti dai consiglieri eletti nella medesima lista, a prescindere dal numero, e disciplina le modalità di costituzione degli stessi e di eventuale adesione ad un diverso gruppo.
Premesso che l'interpretazione dello statuto e del regolamento del consiglio comunale spetta unicamente all'organo che li ha approvati, in via collaborativa si rileva che, con riferimento alla necessaria appartenenza di ciascun consigliere ad un gruppo consiliare, le fonti normative comunali nulla contemplano in ordine alla situazione del consigliere già candidato alla carica di sindaco e risultato non eletto
[2], che nel corso della competizione elettorale sia stato collegato ad una o più liste, né disciplinano la costituzione del gruppo misto.
In relazione a quest'ultimo aspetto, si osserva che il gruppo misto è un gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale confluiscono i consiglieri, anche di diverso orientamento, che non si riconoscono negli altri gruppi costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo per mancanza delle condizioni previste dallo statuto o dal regolamento per il funzionamento del consiglio, e la cui costituzione non può logicamente essere subordinata alla presenza di un numero minimo di componenti.
I principi posti alla base della necessaria esistenza del gruppo misto, a prescindere dalla sussistenza di un'espressa previsione statutaria o regolamentare, derivano dal contemperamento di due esigenze fondamentali: da un lato, la necessità che ogni componente del consiglio appartenga ad un gruppo consiliare
[3], dall'altra l'impossibilità di obbligare l'amministratore a fare parte di un gruppo già esistente, pena la frustrazione della sua libertà di autodeterminazione ed in ossequio al principio del divieto di mandato imperativo.
Tale gruppo, pertanto, potrebbe essere costituito anche da un solo componente, che risulterebbe, altrimenti, penalizzato dalla mancata incardinazione in un gruppo consiliare; in tal caso, fino a quando il gruppo misto è composto da un solo membro, lo stesso assume automaticamente la veste di capogruppo.
Alla luce delle considerazioni suesposte, nella fattispecie prospettata il consigliere, attesa l'impossibilità di costituire da solo un nuovo gruppo, e qualora non intenda aderire ad alcuno dei gruppi esistenti, potrà confluire nel gruppo misto, che può essere formato anche da un unico componente, con conseguente acquisizione del ruolo di capogruppo.
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[1] Nel decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 si vedano gli articoli 38, comma 3, ultimo capoverso ('Con il regolamento di cui al comma 2 i consigli disciplinano la gestione di tutte le risorse attribuite per il proprio funzionamento e per quello dei gruppi consiliari regolarmente costituiti'), 39, comma 4 ('Il presidente del consiglio comunale o provinciale assicura una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio.') e 125 ('Contestualmente all'affissione all'albo le deliberazioni adottate dalla giunta sono trasmesse in elenco ai capigruppo consiliari; i relativi testi sono messi a disposizione dei consiglieri nelle forme stabilite dallo statuto o dal regolamento').
[2] L'art. 13, comma 4, della legge regionale 05.12.2013, n. 19 stabilisce che 'Determinato, ai sensi del comma 2, il numero dei seggi spettanti a ciascuna lista e a ciascun gruppo di liste, sono in primo luogo proclamati eletti alla carica di consigliere i candidati alla carica di sindaco risultati non eletti, collegati a liste che hanno ottenuto almeno un seggio. In caso di collegamento di più liste al medesimo candidato alla carica di sindaco risultato non eletto, il seggio spettante a quest'ultimo è detratto dai seggi spettanti complessivamente al gruppo di liste'
[3] Si veda la nota n. 1
(18.08.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 17. Affidamento di servizi legali.
Il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, nell'innovare la disciplina dell'affidamento degli incarichi legali, li definisce come appalti di servizi ed opera una classificazione individuando sostanzialmente due categorie di servizi legali, differenziate in base alla loro natura:
1) i servizi elencati all'art. 17, comma 1, lett. d), (per lo più connessi alla gestione del contenzioso) che soggiacciono alla disciplina codicistica soltanto per il rispetto dei principi generali delineati all'art. 4;
2) le prestazioni legali diverse da quelle lì individuate, che rientrano invece nei servizi di cui all'allegato IX, per il cui affidamento è necessario applicare il Codice dei contratti (con alcune differenziazioni in tema di pubblicità).

Il Comune chiede un parere con riferimento alla procedura da seguire per l'affidamento dei servizi legali di cui all'art. 17 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, nell'ambito delle previsioni contenute nel nuovo Codice degli appalti, che ha apportato significative modifiche alla disciplina di tale settore.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Preliminarmente pare utile ricordare che in base alla normativa previgente, rinvenibile nel decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, i servizi legali (non meglio specificati) erano ricompresi nei servizi elencati all'allegato II B; di conseguenza a tali affidamenti, considerati parzialmente esclusi, si applicavano soltanto alcune norme del D.Lgs. 163/2006
[1].
Al riguardo, la giurisprudenza
[2] e l'AVCP [3] distinguevano il conferimento del singolo incarico di patrocinio legale, che configurava un contratto d'opera intellettuale sottratto alla disciplina del codice, dalla attività di assistenza e consulenza giuridica a carattere complesso, che costituiva invece un appalto di servizi.
Con il nuovo Codice dei contratti il legislatore ha innanzitutto definito i servizi legali come appalti di servizi (art. 17, comma 1), ed ha quindi operato una sorta di classificazione di tali servizi legali, determinando il superamento della distinzione in base alla funzione degli affidamenti (prestazioni complesse e strutturate o incarichi di patrocinio/difesa legale, collegati a necessità contingenti).
L'art. 17, comma 1, lettera d), elenca una serie di servizi legali che non soggiacciono all'applicazione delle disposizioni del Codice (fatto salvo il rispetto, come si dirà nel prosieguo, dei principi di cui all'art. 4); tutti gli altri servizi legali lì non individuati rientrano invece nei servizi di cui all'allegato IX, per i quali trova applicazione il Codice, con alcune differenziazioni in tema di pubblicità.
Nel dettaglio, non sottostanno alla disciplina codicistica i servizi di:
'1) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e successive modificazioni:
   1.1) in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato membro dell'Unione europea, un Paese terzo o dinanzi a un'istanza arbitrale o conciliativa internazionale;
   1.2) in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro dell'Unione europea o un Paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali;
2) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei procedimenti di cui al punto 1.1), o qualora vi sia un indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento, sempre che la consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e successive modificazioni;
3) servizi di certificazione e autenticazione di documenti che devono essere prestati da notai;
4) servizi legali prestati da fiduciari o tutori designati o altri servizi legali i cui fornitori sono designati da un organo giurisdizionale dello Stato o sono designati per legge per svolgere specifici compiti sotto la vigilanza di detti organi giurisdizionali;
5) altri servizi legali che sono connessi, anche occasionalmente, all'esercizio dei pubblici poteri; (...)
'.
Tutti gli altri servizi legali non indicati all'articolo citato, e riferibili sostanzialmente alle prestazioni di un avvocato non connesse al contenzioso, vengono invece ricompresi, come anticipato, nei servizi di cui all'allegato IX, per i quali è previsto l'affidamento con l'applicazione quasi integrale del Codice.
Infatti l'art.35, comma 1, lett. d), del D.Lgs. 50/2016 prevede l'applicazione ai servizi indicati all'allegato IX delle norme del nuovo Codice al superamento della soglia prevista di 750.000 euro e introduce un regime differenziato soltanto per quanto concerne la pubblicazione degli avvisi (art. 142).
[4]
Per quanto riguarda invece le procedure di affidamento dei contratti sotto soglia, compresi quelli relativi ai servizi specifici elencati all'allegato IX per i quali, come detto, la soglia prevista è di 750.000 euro, si rinvia alle Linee guida fornite dall'ANAC, approvate dal Consiglio dell'Autorità nell'adunanza del 28.06.2016.
Per contro, con riferimento ai servizi legali elencati all'art. 17, comma 1, lett. d), è opportuno tenere presente che l'affidamento dei contratti esclusi (in tutto o in parte) deve comunque avvenire nel rispetto dei principi di 'economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità pubblicità (...)' richiamati dall'art. 4.
Ne deriva che le amministrazioni sono tenute a definire le procedure di affidamento dei servizi legali di gestione del contenzioso garantendo adeguate forme di pubblicità e di tutela della concorrenza.
[5]
---------------
[1] L'art. 20, comma 1, del D.Lgs. 163/2006 così recitava: 'L'aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati nell'allegato II B è disciplinata esclusivamente dall'articolo 68 (specifiche tecniche), dall'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento), dall'articolo 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati).' Parimenti, agli affidamenti di contratti aventi ad oggetto servizi esclusi, in tutto od in parte, dall'ambito di applicazione del Codice, si applicava anche l'art. 27, il cui comma 1 disponeva il rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità.
[2] Nella sentenza n. 2730 dell'11.05.2012, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato rimarcava l'esistenza di una 'differenza ontologica che, ai fini della qualificazione giuridica delle fattispecie e delle ricadute ad essa conseguenti in materia di soggezione alla disciplina recata dal codice dei contratti pubblici, connota l'espletamento del singolo incarico di patrocinio legale, occasionato da puntuali esigenze di difesa dell'ente locale, rispetto all'attività di assistenza e consulenza giuridica, caratterizzata dalla sussistenza di una specifica organizzazione, dalla complessità dell'oggetto e dalla predeterminazione della durata. Tali elementi di differenziazione consentono, infatti, di concludere che, diversamente dall'incarico di consulenza e di assistenza a contenuto complesso, inserito in un quadro articolato di attività professionali organizzate sulla base dei bisogni dell'ente, il conferimento del singolo incarico episodico, legato alla necessità contingente, non costituisca appalto di servizi legali ma integri un contatto d'opera intellettuale che esula dalla disciplina codicistica in materia di procedure di evidenza pubblica'.
[3] L'AVCP (ora ANAC), nella determinazione n. 4 del 07.07.2011, affermava che 'il patrocinio legale, cioè il contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente, sia inquadrabile nell'ambito della prestazione d'opera intellettuale, in base alla considerazione per cui il servizio legale, per essere oggetto di appalto, richieda qualcosa in più, 'un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa' (cfr. Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Basilicata, deliberazione n. 19/2009/PAR)'.
[4] Si veda ANAC, FAQ sul D.Lgs. 50/2016 nel periodo transitorio, allegate al Comunicato del Presidente dell'08.06.2016, con riferimento ai servizi sociali rientranti nell'allegato IX.
[5] Si vedano, in dottrina, A. BARBIERO, 'Appalti: per gli incarichi agli avvocati serve la «mini-gara» pubblica' su Il Sole 24 Ore di lunedì 16.05.2016; L. OLIVERI, 'Servizi legali, il nuovo codice dei contratti chiarisce che sono appalti - no intuitu personae' su luigioliveri.blogspot.it; G. PISANO, 'L'affidamento dei servizi legali. Prime considerazioni alla luce del nuovo codice degli appalti (d.lgs. 19.04.2016, n 50)' su www.gianlucapisano.it
(10.08.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

TRIBUTI: Pertinenza dell'abitazione principale.
Ai fini all'imposta municipale propria, la nozione di pertinenza dell'abitazione principale si rinviene nell'art. 817, primo comma, del codice civile («Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un'altra cosa.»).
La giurisprudenza individua i presupposti e delinea i caratteri della pertinenza, precisando che, in materia fiscale, la prova dell'asservimento pertinenziale, che grava sul contribuente, deve essere valutata con maggior rigore rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo privatistico, giacché la scelta pertinenziale potrebbe non avere valenza tributaria, se volta unicamente a ridurre il prelievo fiscale, disattendendo il dettame che prescrive la tassazione 'in considerazione dell'effettiva natura del cespite'.

Il Comune richiede un parere in merito alla correttezza, o meno, dell'accettazione -ai fini dell'imposta municipale propria- della dichiarazione di pertinenzialità
[1], rispetto all'abitazione principale, di due fabbricati, effettivamente adibiti a stalla [2], ancorché diversamente accatastati nelle categorie C/2 e C/6, atteso che la Cassazione civile afferma che «Se la scelta pertinenziale non è giustificata da reali esigenze (economiche, estetiche, o di altro tipo), non può avere valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che impone la tassazione in ragione della reale natura del cespite» [3].
Occorre, anzitutto, chiarire che, in relazione alla problematica rappresentata, questo Ufficio non può che limitarsi a fornire, in via meramente collaborativa, elementi utili ad individuare la nozione ed i caratteri della pertinenza, considerato che la materia oggetto di quesito ricade nell'ambito della competenza dell'Agenzia delle entrate, alla quale il Comune deve rivolgersi direttamente per acquisire il relativo parere
[4].
L'art. 13, comma 2, del decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, dispone -per quanto qui rileva- che l'imposta municipale propria «non si applica al possesso dell'abitazione principale e delle pertinenze della stessa, ad eccezione di quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9» e stabilisce che per pertinenze dell'abitazione principale «si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità ad uso abitativo».
La disciplina dell'imposta municipale propria (così come era avvenuto per quella riguardante la previgente imposta comunale sugli immobili) non fornisce la nozione di pertinenza, cosicché questa va necessariamente rinvenuta nell'art. 817, primo comma, del codice civile, in base al quale «Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un'altra cosa.». Il secondo comma dello stesso articolo dispone, poi, che «La destinazione può essere effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima.».
La predetta nozione civilistica consente, dunque, di affermare che le pertinenze sono costituite da un'aggregazione di cose mobili o immobili in cui l'una, secondaria, è subordinata al servizio o all'ornamento dell'altra, principale, in un 'rapporto di complementarità funzionale', che lascia inalterate l'individualità e l'autonomia giuridica dei singoli beni, che vengono uniti dal trattamento giuridico.
[5]
In via generale, la giurisprudenza afferma che:
- l'insorgenza del vincolo pertinenziale richiede la contemporanea presenza di due presupposti, consistenti nel collegamento funzionale tra la cosa accessoria e la cosa principale (elemento oggettivo) e nell'effettiva volontà dell'avente diritto di destinare una cosa a servizio o ad ornamento dell'altra (elemento soggettivo);
[6]
- il vincolo funzionale che lega tra loro la cosa principale e la pertinenza non può avere un contenuto qualsiasi ad libitum del titolare, ma deve realizzare effettivamente un miglior sfruttamento o una maggiore utilizzazione della cosa principale, di cui deve fornire un riscontro effettivo e attuale.
[7]
Con riferimento all'applicazione dell'istituto in ambito tributario, la Cassazione civile sancisce che:
- l'attribuzione della qualità di pertinenza si fonda sul criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra;
[8]
- per l'art. 817 del codice civile 'le cose' si considerano 'pertinenze' di 'un'altra cosa' non semplicemente perché poste a 'servizio o ad ornamento' della stessa ma solo se tale destinazione sia (soggettivamente ed oggettivamente) 'durevole', ovverosia presenti segni concreti esteriori dimostrativi della volontà del titolare di imporre a quelle cose uno degli scopi considerati dalla norma civilistica;
[9]
- in materia fiscale, stante l'indisponibilità del rapporto tributario, la prova dell'asservimento pertinenziale, che grava sul contribuente, deve essere valutata con maggior rigore rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo privatistico, giacché la scelta pertinenziale potrebbe non avere valenza tributaria, se volta unicamente a ridurre il prelievo fiscale, disattendendo il dettame che prescrive la tassazione 'in considerazione dell'effettiva natura del cespite';
[10]
- la 'simulazione' di un vincolo di pertinenza, ai sensi dell'art. 817 del codice civile, al fine di ottenere un risparmio fiscale, va inquadrata nella più ampia categoria dell'abuso di diritto.
[11]
Parte delle predette indicazioni sono ribadite, in sede interpretativa, dalla circolare n. 3/DF dd. 18.05.2012
[12] del Ministero dell'economia e delle finanze.
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[1] Dichiarazione prodotta di recente ed in virtù della quale il contribuente richiede il rimborso dell'imposta versata negli anni 2012 e 2013.
[2] L'Ente segnala che il contribuente, persona fisica, non svolge alcuna attività di tipo agricolo-imprenditoriale e che nel 2014 egli ha concesso in locazione ad un'azienda agricola le pertinenze in questione, relativamente alle quali l'Agenzia delle entrate ha riconosciuto il carattere di ruralità.
[3] Sez. trib., 30.11.2009, n. 25127 e 29.10.2010, n. 22128.
[4] In www.agenziaentrate.gov.it sono riportate le istruzioni concernenti il ricorso all'istituto dell'interpello ed è precisata la differenza tra questo e l'attività di consulenza giuridica svolta dall'Agenzia delle entrate.
[5] V. Consiglio di Stato - Sez. V, sent. 17.11.2014, n. 5615.
[6] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 5615/2014, cit..
[7] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 5615/2014, cit., il quale soggiunge che il vincolo pertinenziale «non può, quindi, consistere in una semplice dichiarazione di volontà [...], ma deve estrinsecarsi in un comportamento riconoscibile da terzi».
[8] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., 10.11.2010, n. 22844 e 30.12.2015, n. 26077; Sez. VI, 17.02.2015, n. 3148.
[9] Sez. trib., n. 22128/2010, cit. e 08.11.2013, n. 25170.
[10] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., n. 22128/2010, cit. e n. 25170/2013, cit..
[11] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., n. 22128/2010, cit. e n. 25170/2013, cit., che richiamano la pronuncia delle SS.UU. 23.12.2008, n. 30055, nel cui ambito è stato, tra l'altro, affermato che «non può non ritenersi insito nell'ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale».
[12] «Imposta municipale propria (IMU). Anticipazione sperimentale. Art. 13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito dalla legge 22.12.2011, n. 214. Chiarimenti». V. il paragrafo 6
(08.08.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAPronta la «patente» antisismica. Sprint sulle linee guida per la classificazione degli edifici - Si attende il parere del Mit.
In arrivo sei classi, dalla A alla F, per mappare gli edifici esistenti. Con uno schema che ricorda molto quello che attualmente viene utilizzato per la certificazione energetica. Per fotografare in maniera immediata il livello di sicurezza di un edificio.

È questo, in estrema sintesi, il contenuto delle linee guida per la classificazione sismica che il ministero delle Infrastrutture utilizzerà come base per due partite strategiche del prossimo futuro: la mappatura degli edifici esistenti e la nuova versione potenziata dei bonus fiscali per la messa in sicurezza dei fabbricati, da rifinire con la prossima legge di Stabilità.
Il documento che contiene questa nuova classificazione, per la verità, è già in larga parte pronto da qualche mese. Alla sua definizione aveva lavorato, su mandato del ministro, una commissione di esperti, guidata dal provveditore alle Opere pubbliche di Lombardia ed Emilia Romagna, Pietro Baratono.
Dopo un periodo di rallentamento, adesso il dossier è stato messo su una corsia preferenziale, con l’obiettivo di completare il lavoro in vista della Stabilità. Per questo, la commissione sta aggiornando il documento mentre, in contemporanea, il testo è stato inviato all’organo consultivo del Mit, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, che avrà il compito di dare un suo parere.
La classificazione è un prontuario tecnico che consentirà di operare una valutazione degli investimenti da fare. Quindi, uno strumento di pianificazione. Tutto ruota attorno a sei classi, dalla A alla F, che diranno quando un edificio ha un rischio sismico più elevato, in funzione della sua capacità di non danneggiarsi troppo nel corso di un terremoto.
Il principio guida è il concetto di “expected annual loss”, il costo medio annuo da sostenere per riparare i danni e coprire le perdite causate da eventi sismici: in una struttura efficiente questo costo è trascurabile, nelle strutture più vecchie tende a salire, fino al momento in cui può essere più conveniente demolire e ricostruire.
In attesa che il lavoro dei tecnici venga completato, resta da fare una valutazione politica.
Le linee guida, infatti, si prestano a una mappatura del patrimonio esistente che possa dire su quali edifici è più urgente intervenire. E, allo stesso tempo, possono essere utilizzate da supporto ai nuovi bonus fiscali per la messa in sicurezza: ad esempio, sarebbe possibile concedere una premialità solo a chi riesce a guadagnare almeno una classe o fare uno sconto maggiore a chi ne guadagna due. Sul punto si concentrerà l’attenzione del Mit nei prossimi giorni.
Sul fronte dell’emergenza, continua invece l’attività dei soccorsi nelle zone più colpite. La Protezione civile ha appena avviato il monitoraggio sulle scuole danneggiate e la prossima settimana partiranno le verifiche di agibilità per le case private. Ieri è stato individuato il luogo per la ricostruzione della scuola di Amatrice, affidata alla Provincia di Trento, che sarà composta di moduli prefabbricati e avrà una copertura in legno. Il ministero dell’Ambiente, intanto, sta lavorando al decreto per lo smaltimento delle macerie. «Mi sono dato quindici giorni di tempo ma potrebbe essere approvato anche prima. Prima rimuoviamo le macerie, meglio è», spiega Gian?Luca Galletti.
La Protezione civile assicura che non ci sono ancora le condizioni per stilare un censimento della popolazione, un conteggio dei danni o una valutazione esatta del fabbisogno abitativo. Anche per questo non è stata ancora fatta alcuna gara per la fornitura di moduli abitativi. La conta dei danni è necessaria per attivare la richiesta a Bruxelles del fondo per le emergenze, il dossier deve essere inviato necessariamente entro 12 settimane dall’evento.
Per l’approvvigionamento è già attiva l’apposita piattaforma Consip dedicata all’emergency procurement, con convenzioni tipo per container, bagni chimici, moduli abitativi e servizi di trasporto.
Tra gli strumenti utili per le fasi post sisma c’è poi da ricordare anche il plafond "eventi calamitosi" per 1,5 miliardi istituito da Cdp a maggio (ma non ancora operativo) per prestiti agevolati a famiglie e imprese
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATACrolli, i pm indagano sugli abusi edilizi. Mattarella ai funerali: non temete, non vi abbandoniamo - Renzi: ricostruiremo qui pezzo per pezzo.
Abitazioni private: ipotesi di cubature e documenti illegittimi - Edifici pubblici sequestrati, verifiche Anac su gare per la scuola di Amatrice.

Un brutto pasticcio nell’edilizia di Amatrice e Accumoli. Aumenti di cubature illegittimi di abitazioni private senza il relativo adeguamento sismico. Divergenze tra i progetti di ristrutturazione presentati al Genio Civile rispetto a quelli finiti negli archivi dei comuni. Schede di valutazione della vulnerabilità degli stabili pubblici, compreso l’hotel Roma, che potrebbero risultare falsate.
Il fronte investigativo della Procura di Rieti si apre a molteplici scenari. Perché un dato, stando agli inquirenti, sembra ormai acquisito: l’abusivismo edilizio privato può essere una delle cause della distruzione degli immobili dopo il sisma del 24 agosto, 6.0 di magnitudo.
I finanziamenti pubblici -pari a 79 milioni 420mila 393 euro per il post sisma del 1997 in Umbria più altri 5 milioni stanziati dalla Regione Lazio dopo il terremoto del 2009 a L’Aquila- hanno avuto l’unico scopo di mettere in sicurezza tutte quelle strutture, private e pubbliche, che avevano subito danni.
Denaro, nella maggior parte dei casi, gestito (su delega del sub-commissario al sisma del 1997) direttamente dai comuni, che hanno affidato i lavori a trattativa privata. Nessun adeguamento antisismico, come previsto dalla legge, ma solo «ripristini» e «miglioramenti» che hanno sostanzialmente tamponato un problema in un’area, quella della provincia di Rieti, ad alto rischio terremoti.
Documenti al genio civile
Per questo il procuratore capo Giuseppe Saieva e un pool di quattro sostituti procuratori ha delegato la polizia giudiziaria a compiere una serie di acquisizioni documentali alla Provincia di Rieti e al Genio Civile. Gli inquirenti cercano tutte quelle documentazioni amministrative che potrebbero sciogliere il nodo dei vasti e diffusi crolli.
Un faro è puntato sui progetti di ristrutturazione edilizia presentati al Genio Civile, documenti che illustrerebbero lo svolgimento di alcuni lavori su strutture private. Tuttavia sembra ci siano dei contrasti tra i progetti finiti al Genio e quelli, poi, depositati al Comune di riferimento, in particolare ad Amatrice.
Aumenti di cubature
Il nodo da sciogliere riguarda i progettisti ma anche e soprattutto i geometri, che rappresentano la spina dorsale dell’edilizia privata nei piccoli centri della provincia. Per questo si ipotizza che siano stati svolti degli aumenti di cubatura oltre determinate percentuali e senza aver compiuto il dovuto adeguamento antisismico. Un’eventualità, qualora riscontrata dai magistrati, che potrebbe confermare che l’abusivismo edilizio è tra le principali cause della devastazione.
D’altronde negli atti della Regione Lazio risulta un’accurata analisi del contesto edilizio di Amatrice, in cui si afferma che «la tipologia costruttiva (muratura portante in pietrame locale) influenza in maniera determinante la vulnerabilità degli edifici esistenti con potenziali rischi per la popolazione».
In questo capitolo dell’inchiesta rientra anche il vice sindaco di Amatrice, Gianluca Carloni, che col fratello Ivo gestisce uno studio professionale di geometri. Stando a informazioni giunte alla Procura della Repubblica di Rieti, sarebbero tra i principali professionisti che hanno compiuto svariati lavori ad Amatrice.
Valutazioni di vulnerabilità
Tra i documenti che i magistrati stanno cercando ci sono le valutazioni di vulnerabilità delle infrastrutture pubbliche. Si tratta di atti rilasciati dal Comune che rappresentano una sorta di libretto dell’immobile, in cui è illustrato il grado di stabilità e se questo possa supportare la forza sismica. Ai magistrati interessa soprattutto la valutazione di Vulnerabilità della scuola Romolo Capranica (istituto che è stato posto sotto sequestro dagli inquirenti, insieme ad altri edifici pubblici, al fine di conservare lo stato dei luoghi prima di una perizia che sarà compiuta a breve da un consulente della Procura) e l’hotel Roma (anche se privata, rientra fra le strutture strategiche e rilevanti).
Il timore è che in queste valutazioni di Vulnerabilità -comunque non vincolanti ai fini dell’adeguamento antisismico- siano stati inseriti valori sbagliati così da celare il reale rischio di un crollo in caso di sisma. Questo anche se nella stessa relazione della Regione Lazio si afferma che «il Comune di Amatrice è storicamente un territorio frequentemente interessato da eventi sismici».
L’ordinanza del Viminale
L’acquisizione documentale ha riguardato anche l’ordinanza del ministero dell’Interno n. 2741 del 30.01.1998, concernente «lo stato di emergenza nei territori delle province di Rieti e di Arezzo». Si tratta di un documento che ha consentito l’erogazione degli oltre 79 milioni di euro di investimento (solo per la provincia di Rieti) per compiere «ripristini» e «miglioramenti» delle infrastrutture pubbliche e private colpite dal sisma del 1997 in Umbria.
Il deputato del Partito democratico, Fabio Melilli, ex subcomissario per la ricostruzione delle province del Centro Italia dopo il terremoto dell’Umbria, spiega che «la maggior parte degli appalti sono stati gestiti dai comuni. Gran parte dei fondi sono stati spesi dalle amministrazioni locali con appalti di valore sotto una determinata soglia, dunque a trattativa privata».
I progetti a rilento ad Amatrice
Dopo il sisma del 1997 fu stilato un elenco in cui si prevedeva una ventina di interventi di miglioramento anti-sismico per Amatrice e Accumoli (su un totale di circa 140 per tutti i paesi dell’area). L’importo venne stanziato dalla Regione (passando per la Provincia) per varie attività: si va, ad esempio, dai 100mila euro per la Torre civica di Accumoli ai 200mila per la Chiesa di Santa Maria Liberatrice; dai 150mila per la caserma dei Carabinieri di Accumoli ai 260mila per la Chiesa di Sant’Angelo di Amatrice; dai 125mila euro per il complesso parrocchiale di San Pietro e Lorenzo di Accumoli fino ai 105mila per il complesso parrocchiale di Amatrice.
Si parla, sommando le opere ipotizzate per entrambi i paesi, di 1,8 milioni circa. Una piccola entità, dunque, sufficiente a sistemare gli edifici e non certo a organizzare un vero e proprio adeguamento anti-sismico. Tuttavia nemmeno questi investimenti sono stati portati a termine dagli enti locali.
Valutando la situazione nel dettaglio a maggio 2016, quasi 10 anni dopo la decisione del commissario delegato del sisma del 1997, si vede che su 19 interventi sulla carta, 9 hanno subito uno stop: alcuni definanziati, altri appaltati da poco, altri ancora con lavori ancora in corso e, nella migliore delle situazioni, ancora da collaudare.
La situazione è simile, in proporzione, a quella di tutto il territorio di Rieti. Complessivamente dal 1997 ad oggi sono stati stanziati 46,4 milioni per l’area (79,4 milioni se si considerano anche i 33 del piano precedente)
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Un pareggio di bilancio soft. Unico obiettivo, l'equilibrio fra entrate e spese finali. ENTI LOCALI/ In Gazzetta Ufficiale la legge che manda in soffitta il patto di Stabilità.
Dal 2017, il pareggio di bilancio imposto a regioni ed enti locali sarà «meno stupido».

A semplificare i vincoli finanziari che sindaci, presidenti di provincia e governatori devono rispettare, mandando definitivamente in soffitta il vecchio patto di Stabilità, è la legge 164/2012, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 201 di ieri.
Il provvedimento modifica la legge 243/2012 e prevede un unico obiettivo costituito dall'equilibrio fra entrate e spese finali in termini di sola competenza, l'inclusione del fondo pluriennale vincolato nel saldo e l'introduzione di un doppio mercato, a livello regionale e nazionale, per il finanziamento delle spese in conto capitale mediante debito e avanzo di amministrazione. Inoltre, arrivano sanzioni più intelligenti per chi sfora.
La legge 243 fu approvata ai tempi del Governo Monti per «fare i compiti a casa» che l'Unione europea aveva imposto nel nome del rigore finanziario. Fra le richieste di Bruxelles, vi era anche quella di rafforzare i principi di sostenibilità dei bilanci pubblici, introducendoli nella Costituzione. A tal fine, venne varata la legge cost. 1/2012, di cui la 243 detta le disposizioni attuative.
Ben presto, però, il complesso di vincoli imposti da questa disciplina si è rivelata una gabbia in grado di soffocare i timidi segnali di ripresa che si sono registrati in questi mesi. Basti pensare che agli enti territoriali veniva imposto il rispetto di ben quattro saldi di bilancio a preventivo e altrettanti a rendiconto, vincolando sia la competenza (e quindi le nuove spese) che la cassa (ossia i pagamenti per gli impegni già assunti).
In teoria, la 243 avrebbe dovuto entrare in vigore da quest'anno, ma con una lettura un po' forzata la si è rinviata al 01.01.2017. Da tale data, però, senza modifiche, essa avrebbe spiegato appieno i suoi effetti recessivi. Questa eventualità è stata scongiurata dalla legge pubblicata ieri, che alleggerisce tale complesso di «lacci e lacciuoli» prima ancora che diventino pienamente vincolanti, dando copertura piena all'ultima legge di Stabilità (legge 208/2015), che ha cancellato il patto di Stabilità interno sostituendolo con un meccanismo di pareggio di bilancio ispirato alla filosofia della 243 ma decisamente più light (in quanto imperniato solo sulla competenza e non sulla cassa).
Anche nei prossimi anni, quindi, gli enti territoriali avranno come unico obiettivo quello di garantire il pareggio fra quanto accertato in entrata (al netto del debito e dell'applicazione dell'avanzo di amministrazione) e quanto impegnato per spese correnti ed in conto capitale.
La legge affronta anche la questione del fondo pluriennale vincolato, ossia della copertura degli investimenti già finanziati che richiedono più anni per essere portati a compimento. Attualmente, il fpv vale ai fini del pareggio solo per il 2016, complicando la vita a tutte le amministrazioni che hanno programmato interventi più a lungo termine. Il testo pubblicato ieri, invece, lo ingloba nel saldo, in modo stabile a partire dal 2020, anche se limitatamente alla quota finanziata da entrate finali (quindi al netto del debito e dell'avanzo), mentre per il prossimo triennio sarà la legge di bilancio a definire la sua rilevanza compatibilmente con lo stato dei conti pubblici.
Tuttavia, come anticipato da ItaliaOggi del 30/06/2016, un accordo fra governo ed enti territoriali garantisce anche per i prossimi tre anni una copertura annuale al fpv almeno pari a quella del 2016: si tratta di 660 milioni, per un totale di circa 2 miliardi.
Importante anche l'ulteriore correttivo che affianca al meccanismo di solidarietà su base regionale per consentire il ricorso al debito e (altra novità) l'applicazione dell'avanzo di amministrazione per gli investimenti, un analogo meccanismo di livello nazionale.
Infine, vengono alleggerite le sanzioni, che dovranno essere proporzionate alle violazioni e utilizzate per finanziare gli incentivi agli enti virtuosi.
Ovviamente, non mancano i punti critici, che però dovranno essere risolti in sede attuativa: la 243, infatti, è una legge rinforzata ed una sua ulteriore modifica richiederebbe nuovamente la maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato (articolo ItaliaOggi del 30.08.2016).

APPALTIAntiriciclaggio, controlli a 360°. Rispetto della normativa per partecipare alle gare. La bozza di decreto legislativo sulla IV direttiva arruola le pubbliche amministrazioni.
Controlli antiriciclaggio anche per partecipare agli appalti. Le pubbliche amministrazioni vigileranno sul possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità da parte delle imprese in gara, prima di rilasciare loro autorizzazioni, licenze e titoli abilitativi. Di più.
Stesse regole anche per la scelta del contraente per l'affidamento di lavori secondo le procedure del codice appalti. La nozione di pubblica amministrazione è amplissima: rientrano anche le società partecipate, Equitalia e gli altri soggetti preposti alla riscossione dei tributi nell'ambito della fiscalità locale, quale che ne sia la forma giuridica. Ovvero soggetti per i quali spesso è molto alto il rischio di riciclaggio.

Sono queste alcune delle novità che impattano sulle pubbliche amministrazione contenute nella bozza di decreto legislativo che recepisce la IV direttiva antiriciclaggio e che ItaliaOggi è in grado di anticipare.
Pubbliche amministrazioni sentinelle antiriciclaggio. Un intervento capillare nell'azione della pubblica amministrazione a tutela e vigilanza sui fenomeni di riciclaggio ma anche di terrorismo.
Le misure antiriciclaggio dovranno essere seguite per qualunque attività della pubblica amministrazione su cui la stessa effettua i controlli di competenza: dall'attribuzione dei vantaggi economici alla concessione di contributi e sussidi, dalla autorizzazione alla scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi.
Il comitato di sicurezza finanziaria avrà il compito di elaborare delle linee guida per la mappatura e la valutazione dei rischi, cui le «pubbliche amministrazioni», si legge nel testo, «sono esposte nell'esercizio della propria attività istituzionale».
Una volta predisposte queste linee guida, sempre le pubbliche amministrazioni dovranno dotarsi di procedure interne, proporzionate alle proprie dimensioni organizzative e operative idonee, e dovranno adottare una sorta di modello organizzativo antiriciclaggio per la propria struttura operativa.
Sarà compito delle pubbliche amministrazioni, come attualmente è, comunicare all'Uif dati e informazioni concernenti la propria attività per consentire l'effettuazione di analisi mirate a far emergere fenomeni di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo.
Le p.a., inoltre, anche con appositi protocolli di intesa, stipulati con l'Uif, e sotto il cappello del comitato di sicurezza finanziaria, adottano misure di adeguata formazione delle risorse umane per assicurare la predisposizione di efficaci procedure di valutazione del rischio, di individuazione delle misure necessarie a mitigarlo e del riconoscimento delle fattispecie meritevoli di essere comunicate.
Le comunicazioni antiriciclaggio all'Uif delle pubbliche amministrazioni. Le amministrazioni sono ancora fanalino di coda nel numero di segnalazioni che arrivano annualmente all'Unità di informazione finanziaria.
Nel 2015 (ultimi dati disponibili) a fronte di 82.428, oltre 10 mila in più rispetto al 2014 sono solo 21 quelle che arrivano dalle p.a. E in questo ambito Milano è un caso pilota essendo da sola la mittente di dieci segnalazioni.
L'andamento minimo è stato oggetto di riflessione da parte dello stesso direttore dell'Uif Claudio Clemente, proprio durante la presentazione della relazione annuale della task force antiriciclaggio della banca di Italia.
«Resta ancora aperto il fronte della collaborazione degli uffici della Pubblica amministrazione, su cui ho richiamato l'attenzione anche nella Relazione dello scorso anno. Nonostante», riflette Clemente, «l'emanazione, a settembre 2015, da parte del Ministero dell'interno di specifici indicatori di anomalia e criteri organizzativi volti ad agevolare l'intercettazione delle operazioni sospette da parte di tali enti, i segnali di attivazione risultano ancora assolutamente sporadici. Le poche segnalazioni pervenute (21 nell'intero 2015 e solo 7 nel primo semestre 2016) confermano che gli uffici della Pubblica amministrazione possono costituire un osservatorio privilegiato per cogliere sospetti di riciclaggio fondati, di grande interesse e non duplicativi di quanto può essere rilevato dagli operatori privati. In un contesto di sempre maggiore attenzione ai profili della prevenzione, dell'etica e dell'integrità, costituisce motivo di forte perplessità il fatto che l'opportunità della collaborazione, più ancora che il dovere, non sia stata finora colta», conclude Clemente (articolo ItaliaOggi del 30.08.2016).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Enti, dirigente apicale obbligatorio (solo a metà).
Dirigente apicale obbligatorio solo a metà, negli enti locali. Il decreto legislativo attuativo della riforma Madia della dirigenza approvato in prima lettura dal Consiglio dei ministri (Schema di decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della Repubblica - Atto del Governo n. 328) mira all'abolizione definitiva di oltre 100 anni di storia di una figura determinante per la corretta amministrazione dei comuni, qual è il segretario comunale, per sostituirla col «dirigente apicale».
L'esito effettivo della riforma consiste nell'aprire per i sindaci la possibilità di selezionare il dirigente di più stretta collaborazione come meglio crede, senza doversi più necessariamente rivolgere alla selezionata cerchia dei segretari comunali.
Il «dirigente apicale» infatti, sarà scelto nel più vasto ambito dei ruoli unici della dirigenza, cioè in ipotesi tra tutti i 36 mila dirigenti circa che confluiranno nei ruoli.
Ma, non basta. Per quanto sia la legge 124/2015, sia lo schema di decreto stabiliscano l'obbligatorietà della figura del dirigente apicale, chiamato a svolgere compiti di attuazione dell'indirizzo politico, coordinamento dell'attività amministrativa, controllo della legalità dell'azione amministrativa ed esercizio della funzione rogante, in realtà tale figura obbligatoria non lo è affatto, né può considerarsi pienamente operante la riserva triennale di nomina in tale ruolo riconosciuta ai segretari comunali dalla legge delega.
Nei comuni con almeno 100 mila abitanti e nelle città metropolitane, in primo luogo, sarà possibile fare a meno del «dirigente apicale», sostituendolo col direttore generale, reclutato anche fuori dai ruoli unici della dirigenza (e in questo caso, sarà un dirigente dei ruoli unici a svolgere le funzioni connesse al controllo di legalità e al rogito dei contratti).
Anche nei piccoli comuni gli spazi per l'attribuzione delle funzioni del dirigente apicale di restringono. Infatti, negli enti locali privi di posizioni dirigenziali nella dotazione organica la funzione di dirigenza apicale deve essere svolta obbligatoriamente in forma associata: il che riduce ovviamente in modo significativo il numero dei dirigenti apicali e, quindi, la possibilità che i segretari comunali possano effettivamente contare, almeno per il primo triennio successivo alla vigenza della riforma, su un congruo numero di possibilità di essere chiamati a svolgere funzioni coerenti con la propria formazione e preparazione.
Nelle disposizioni finali, lo schema di decreto per i comuni nella cui dotazione non siano previste figure dirigenziali fa, inoltre, «salva la possibilità di attribuire le funzioni dirigenziali ai responsabili degli uffici e dei servizi ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del decreto legislativo n. 267 del 2000».
Una norma di complessa interpretazione, che potrebbe indurre a ritenere che la funzione di «dirigente apicale» possa anche essere assegnata non a un dirigente appartenente ai ruoli unici costituiti dalla riforma, ma a funzionari incaricati di funzioni dirigenziali.
Se questa chiave di lettura fosse corretta, migliaia di comuni (la grandissima parte dei circa 8.100 enti locali non hanno la dirigenza), potrebbero, dunque, affidare la funzione apicale a un funzionario: non a un dirigente di ruolo, né agli ex segretari.
Si tratterebbe, tuttavia, di una conseguenza fin troppo in contrasto con la delega legislativa contenuta nella legge 124/2015, perché si consentirebbe di far svolgere funzioni dirigenziali apicali, riservate agli iscritti ai ruoli della dirigenza e, in particolare, al ruolo della dirigenza locale, a persone non iscritte al ruolo e non in possesso della qualifica dirigenziale.
Più correttamente, dunque, la disposizione lascia ferma la facoltà di attribuire funzioni dirigenziali ai funzionari ai sensi dell'articolo 109, comma 2, allo scopo non di far coprire a funzionari la dirigenza apicale, bensì di continuare a consentire agli enti locali privi di dirigenza di far svolgere le funzioni dirigenziali ai funzionari di vertice, senza istituire necessariamente posti di dirigente in dotazione organica e senza gravare il dirigente apicale di tutte le funzioni dirigenziali dell'ente (articolo ItaliaOggi del 30.08.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa nuova «Pa» al giro di boa dell’attuazione. Provvedimenti da completare entro febbraio.
La riforma della pubblica amministrazione targata Marianna Madia ha effettuato il primo giro di boa. Ieri è, infatti, scaduto il termine per esercitare la prima parte della delega concessa al Governo dalla legge 124 del 2015 di riassetto complessivo dell’universo pubblico, riforma entrata in vigore il 28 agosto dell’anno scorso. Restano ora altri sei mesi per mettere a punto i restanti decreti legislativi, che dovranno arrivare entro fine febbraio.
La prima tranche
Seppure in zona Cesarini, il lavoro della prima fase di disegno del nuovo volto della pubblica amministrazione può dirsi compiuto. Il Consiglio dei ministri di giovedì scorso ha approvato gli ultimi tre decreti del pacchetto in scadenza il 28 agosto, data entro la quale il Governo doveva esercitare la delega.
Si è trattato del sofferto provvedimento sulla dirigenza pubblica -annunciato già al Consiglio dei ministri del 10 agosto e considerato dalla Funzione pubblica propedeutico anche al rinnovo dei contratti del pubblico impiego- e di quello altrettanto elaborato e contrattato di taglio e riorganizzazione delle Camere di commercio, che dovrebbero passare da 105 a 60. In questo caso la soluzione scelta è di affidare direttamente a Unioncamere il compito di ridisegnare la geografia delle proprie sedi sul territorio.
L’ultimo decreto, dei tre in scadenza, ad aver ricevuto il via libera giovedì è quello relativo alla semplificazione delle attività degli enti pubblici di ricerca.
C’è stato, inoltre, un quarto provvedimento su cui il Consiglio dei ministri si è espresso: si tratta dello scorporo del comitato italiano paralimpico dal Coni e la sua trasformazione in ente autonomo di diritto pubblico. Questo decreto, però, non era “urgente” come gli altri tre, perché fa parte della seconda fase di attuazione. Rientra, cioè, tra quei provvedimenti per approntare i quali il Governo può esercitare la delega entro il 28 febbraio prossimo.
Non si tratta dell’unico decreto ascrivibile alla seconda fase e già arrivato al traguardo. Ci sono, infatti, anche quello sull’accorpamento deli Forestali ai Carabinieri e l’altro di riorganizzazione delle Autorità portuali: questi ultimi -a differenza di quello sul comitato paralimpico, che è stato approvato da Palazzo Chigi in via preliminare- hanno anzi già compiuto tutti i passaggi e aspettano l’arrivo sulla «Gazzetta Ufficiale».
Dunque, il giro di boa del primo anno si compie senza lasciarsi quasi niente alle spalle: l’unico provvedimento che manca all’appello è quello sulla razionalizzazione delle spese per le intercettazioni, al quale avrebbe dovuto provvedere il ministero della Giustizia entro il 28 aprile e per il quale la delega è scaduta.
La seconda fase
Questo non vuol dire che la riforma sia ora in uno stato di quasi compiutezza. Più semplicemente significa -per quanto non sia certo da sottovalutare- che i decreti attuativi previsti per la prima fase sono arrivati in porto. Non solo, la gran parte ha già completato l’iter - doppia approvazione, preliminare e definitiva, del Consiglio dei ministri, parere del Consiglio di Stato (dove per snellire le procedure è stata istituita una commissione ad hoc per l’esame dei provvedimenti della riforma), valutazione delle commissioni parlamentari.
Cinque di questi decreti sono già approdati in Gazzetta e gli altri sono in procinto di farlo. A inizio corsa ci sono -oltre ai decreti ancora in fase di predisposizione- solo i quattro provvedimenti approvati dal Governo giovedì.
Per completare l’opera occorre esercitare le altre deleghe in scadenza a febbraio. La prima dovrebbe tradursi in pratica già nelle prossime settimane: si tratta del decreto che riordina l’Aci e il Pra. A quel punto mancheranno all’appello provvedimenti di peso e sui quali c’è da attendersi un serrato lavoro di messa a punto. Si tratta del testo unico sul pubblico impiego, di quello (o quelli) sulla riorganizzazione di Palazzo Chigi, dei ministeri, delle agenzie governative e degli enti pubblici non economici e dell’ultimo sul taglio e riassetto delle prefetture.
Reazione a catena
L’esercizio delle deleghe in genere si traduce in un percorso a cascata: norme che richiamano altre norme. Anche la riforma della Pa non si sottrae all’effetto matrioska. Come le bamboline russe incastonate una dentro l’altra, pure alcuni dei decreti legislativi sulla nuova Pa giunti al traguardo per essere tradotti in pratica rimandano ad altri provvedimenti.
Il caso più eclatante è l’accorpamento della Forestale ai Carabinieri: perché il processo di unificazione si completi saranno necessari anni e serviranno altri 22 atti. Meno numerosi gli ulteriori passaggi richiesti per dare corpo alle modifiche del Cad, al riassetto delle Autorità portuali e al taglio delle partecipate: per completare l’opera “basteranno” altri 9 provvedimenti per ciascun decreto
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIPartecipate alla prova trasparenza. Obbligatorio indicare in dettaglio ambito di attività e prospettive.
Il nuovo Testo unico/1. Gli adempimenti per la costituzione di società e per l’acquisizione di quote.

La costituzione di una società o la semplice acquisizione di una partecipazione societaria devono essere analiticamente motivate dall’ente locale socio, con specifico riferimento alla necessità della società per il perseguimento delle finalità istituzionali della stessa amministrazione.
Il nuovo Testo unico sulle società partecipate
(Atto del Governo n. 297 - Schema di decreto legislativo recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica)
definisce un percorso molto articolato e con una serie di passaggi obbligatori, che vale sia quando la scelta dell’amministrazione ricada su un organismo in house sia quando si riferisca a una società mista.
Oltre all’indispensabilità rispetto alle finalità istituzionali dell’ente socio, infatti, la deliberazione costitutiva (di competenza consiliare, in base a quanto dettato da specifica previsione dello stesso testo unico, raccordata con l’articolo 42 del Tuel) deve esplicitare le ragioni e le finalità che giustificano la particolare scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché, in considerazione della possibilità di destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate, deve evidenziare anche le ragioni della gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato.
La motivazione deve anche dare conto della compatibilità della scelta con i princìpi di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa.
L’amministrazione ha quindi l’obbligo di adottare la sua decisione in merito alla costituzione o alla partecipazione a una società (diretta o indiretta) sulla base di elementi dettagliati, che devono illustrare in modo particolareggiato l’ambito di attività e le prospettive dell’organismo (quindi rapportandosi a un piano industriale completo, comprensivo di proiezioni sul breve e medio periodo, collegate al servizio da affidare) e dimostrare l’equilibrio economico-finanziario del modulo gestionale prescelto (quindi evidenziando le risultanze dell’analisi riportata in uno specifico piano economico-finanziario).
L’importanza delle dinamiche economiche è chiarita anche dall’obbligo della deliberazione costitutiva di dare atto della compatibilità dell’intervento finanziario dell’ente socio con le norme comunitarie in materia di aiuti di Stato alle imprese, dovendo quindi tener conto delle regole derivanti dalle decisioni e dalle raccomandazioni del 2011, nonché del regolamento sulla coerenza dei contributi con la disciplina del “de minimis”.
L’aspetto più rilevante di questa operazione è la necessaria definizione in termini specifici del sistema di remunerazione delle attività affidate alla società, nell’ambito del quale devono essere evidenziate le eventuali compensazioni per obblighi di servizio pubblico, al fine di dimostrare la loro coerenza con i parametri comunitari (fissati dalla sentenza Altmark e ripresi nelle decisioni del 2011).
Il testo unico sulle società partecipate si collega, per quelle in house, alle previsioni contenute nell’articolo 192 del codice dei contratti pubblici, che già aveva stabilito per le amministrazioni parametri più rigorosi nel processo di affidamento dei servizi pubblici e strumentali, mentre per le società miste pone precisi vincoli, tra cui, in particolare, la correlazione necessaria tra la durata della partecipazione del privato alla società e quella della concessione.
Al fine di garantire massima omogeneità nei contenuti, il Testo unico prevede anche una disposizione che specifica gli elementi essenziali della deliberazione costitutiva: l’atto deve quindi essere inviato alla sezione regionale della Corte dei conti e all’Agcm, che può far valere il proprio potere di attivare un ricorso in caso di violazione della normativa sulla tutela della concorrenza.
L’obbligo di illustrare in termini dettagliati il processo di esternalizzazione e la relativa scelta di costituire una società o di parteciparvi a tal fine è peraltro rafforzato dalle previsioni del recente piano nazionale anticorruzione, adottato dall’Anac con la deliberazione n. 831 del 3 agosto e recentemente pubblicato in «Gazzetta Ufficiale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2016).

PUBBLICO IMPIEGOIncarichi, il merito non basta. La rotazione deve diventare comunque fisiologica. DIRIGENZA PUBBLICA/ Analisi del decreto approvato in prima lettura dal governo.
Il merito non è elemento rilevante per la rotazione degli incarichi e per la stessa riforma della dirigenza.
Nonostante il governo enunci in maniera convinta che la riforma dell'ordinamento dei dirigenti pubblici approvata giovedì scorso «in via preliminare» dal Consiglio dei ministri (si veda ItaliaOggi di ieri - Schema di decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della Repubblica - Atto del Governo n. 328) sia fondata sulla valorizzazione della professionalità e del «merito», il sistema è in modo esplicito ed evidente estraneo, invece, a questi elementi.
Una dimostrazione inconfutabile si reperisce nel testo definitivo del Piano nazionale anticorruzione (Pna), recentemente approdato in Gazzetta Ufficiale.
A proposito della «rotazione» dei dirigenti, il documento elaborato dall'Anac insiste molto nel considerarla come uno strumento ordinario e non punitivo di organizzazione del personale, in particolare dei dirigenti. E nel testo si scrive senza equivoci: «Negli uffici individuati come a più elevato rischio di corruzione, sarebbe preferibile che la durata dell'incarico fosse fissata al limite minimo legale. Alla scadenza, la responsabilità dell'ufficio o del servizio dovrebbe essere di regola affidata ad altro dirigente, a prescindere dall'esito della valutazione riportata dal dirigente uscente. Invero, l'istituto della rotazione dirigenziale, specie in determinate aree a rischio, dovrebbe essere una prassi «fisiologica», mai assumendo carattere punitivo e/o sanzionatorio».
Come si nota, secondo l'Anac in ogni caso quando scada un incarico dirigenziale sarebbe necessario far subentrare un altro dirigente, anche se il precedente abbia ottenuto una valutazione positiva.
In fondo, questo è il medesimo pensiero degli estensori del decreto legislativo attuativo della riforma Madia. Infatti, la regola generale impostata è che alla scadenza del quadriennio di durata degli incarichi dirigenziali, l'eventuale «rinnovo» di due anni (che, in realtà, è una proroga) senza passare per le procedure «comparative» ordinariamente previste, è solo una facoltà, sottoposta a due condizioni: che il dirigente abbia ottenuto valutazioni positive (si immagina nel corso del quadriennio) e che vi sia una specifica motivazione.
Di fatto, quindi, il «merito», cioè la capacità dimostrata da valutazioni positive dell'operato, nella logica sia del Pna, sia della riforma, non ha quasi rilevanza sulla prosecuzione dell'attività dei dirigenti che abbiano ricevuto valutazioni positive. In gergo sportivo, si potrebbe parafrasare il proverbio ed affermare che «squadra che vince, si cambia». Pna e riforma, infatti, spingono perché comunque e a prescindere dalle valutazioni i dirigenti continuino a cambiare incarichi.
Gli effetti operativi di questo atteggiamento non appaiono certo semplici. Di fatto, l'applicazione delle indicazioni di Anac e governo si pongono in palese contrasto con la giurisprudenza della Corte costituzionale che a partire dalle sentenze 103 e 104 del 2007 hanno considerato sistemi di decadenza automatica degli incarichi dirigenziali (quali a ben vedere sono quelli previsti dal Pna e dalla riforma) lesivi del principio costituzionale della «continuità amministrativa».
In effetti, le pubbliche amministrazioni si vedrebbero costrette periodicamente a una modifica profonda degli assetti dei vertici amministrativi, in contrasto con qualsiasi buona regola organizzativa che assicuri la continuità operativa.
Il tutto, poi, crea una forte precarizzazione della dirigenza, indotta, a prescindere dalla valutazione positiva ottenuta, a ritrovarsi ogni 4 anni a rischio di restare in disponibilità dei ruoli, con lo stipendio falcidiato. Il che, indubbiamente spingerà i dirigenti, superato il secondo biennio degli incarichi, a concentrare la loro attenzione alla partecipazione agli avvisi pubblici per ottenere nuovi incarichi. Il che contribuirà ad un caos operativo notevole.
L'estensore del decreto attuativo della riforma Madia, per altro, è consapevole di questi rischi: infatti ha previsto che negli avvisi pubblici per attivare le procedure comparative finalizzate ad assegnare nuovi incarichi, le amministrazioni si avvalgano della facoltà di tenere «bloccati» i dirigenti incaricati per almeno 3 anni, riservandosi il diritto di prestare il consenso al dirigente che abbia partecipato a una procedura, superandola, a prendere servizio presso la nuova amministrazione
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Precarizzazione, primo effetto della riforma.
La precarizzazione della dirigenza è uno degli effetti più evidenti della riforma Madia. Nonostante molti osservatori ed esponenti dell'esecutivo affermino che il decreto attuativo intenda valorizzare la dirigenza, la riforma finisce per indebolirla moltissimo e legare eccessivamente il destino lavorativo dei manager pubblici all'appoggio politico.
Gli strumenti per precarizzare la dirigenza pubblica, nonostante sia «di ruolo», dunque assunta a tempo indeterminato mediante concorsi, sono molteplici. Il principale, consiste nella possibilità di licenziare il dirigente che sia rimasto privo di incarico per sei anni, non per demerito circostanziato da valutazioni negative, ma per la circostanza fortuita che, scaduto l'incarico, al termine delle procedure comparative per l'assegnazione di incarichi, pur se il suo curriculum sia selezionato dalle Commissioni nazionali competenti a gestire le procedure, non sarà poi scelto dagli organi di governo, i quali avranno spazi apertissimi fino quasi all'arbitrio per decidere a chi conferire o meno l'incarico.
Ovviamente, il rimedio da ultima spiaggia del demansionamento a funzionario non attenua, per certi versi aggrava, la precarizzazione.
L'altro elemento probabilmente ancor più rilevante consiste nella mera facoltà delle amministrazioni di assegnare gli incarichi dirigenziali ai dirigenti di ruolo. Infatti, la riforma, in linea con la legge delega 124/2015, prevede solo la «possibilità» di incaricare i dirigenti iscritti nei ruoli unici. In altre parole, quindi, i dirigenti, pur selezionati per concorso, non hanno alcuna posizione privilegiata per assumere incarichi dirigenziali e, quindi, continuare a svolgere il proprio lavoro, anche quando ricevano valutazioni positive.
Tanto è vero che il decreto legislativo conferma la possibilità già oggi data alle PA dall'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, di conferire incarichi dirigenziali a persone non appartenenti ai ruoli unici della dirigenza. Dunque, i ruoli sono «unici», ma non saranno l'unica fonte di provenienza degli incarichi, poiché saranno possibili ancora cooptazioni dirette da parte della politica di dirigenti esterni, nelle stesse misure percentuali oggi esistenti: l'8% per i dirigenti generali dello Stato, il 10% per gli altri dirigenti statali e ben il 30% per i dirigenti locali.
C'è, poi, lo strumento della «decadenza da riorganizzazione». Qualsiasi amministrazione può decidere autonomamente di riorganizzarsi e, in conseguenza di ciò, ridurre anche le strutture dirigenziali: un sistema perfetto per realizzare (come in passato è spesso avvenuto) riorganizzazioni «ad person
am», finalizzate proprio a lasciar decadere gli incarichi di dirigenti considerati scomodi.
Su questo tipo di decadenze, le Commissioni competenti alle procedure selettive saranno chiamate a fornire un parere, per evitare che siano appunto create a scopi punitivi, ma si tratta di un parere non vincolante, che, per altro, se non espresso entro 30 giorni si intende acquisito (in senso favorevole) (articolo ItaliaOggi del 27.08.2016).

ENTI LOCALILe Cdc diventeranno 60. Il diritto annuale si dimezza.
Riduzione a 60 camere di commercio, con almeno una Cdc per regione, riduzione al 50% dei diritti camerali; ma anche definizione delle indennità spettanti ai revisori dei conti e dei criteri di rimborso per i componenti di tutti gli organi, come pure dei limiti al trattamento economico dei vertici amministrativi, compresi quelli delle aziende speciali.

Sono questi alcuni dei punti contenuti nello schema di dlgs di riforma delle camere di commercio (Atto del Governo n. 327 - Schema di decreto legislativo recante riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura), attuativo della riforma Madia (si veda ItaliaOggi del 24/08/2016).
Riduzione costi. In particolare, il citato decreto che dovrà adesso essere sottoposto al parere delle commissioni parlamentari e della Sezione consultiva del Consiglio di stato, prevede la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali, con conseguente riduzione del numero delle Camere di commercio entro il limite di 60.
L'obiettivo è quello di ridurre i costi di gestione consentendo in tal modo la riduzione dei cosiddetti diritti camerali. In sede amministrativa è stata già disposta la riduzione del 35% e del 40% del diritto annuale, rispettivamente, per l'anno 2015 e per l'anno 2016; ora è espressamente confermata quella del 50% a decorrere dal 2017.
Funzioni istituzionali. Lo schema di decreto prevede la ridefinizione dei compiti e delle funzioni assegnati alle camere di commercio, eliminando duplicazioni di funzioni con altre amministrazioni ed enti pubblici. E ciò, anche con riferimento alle partecipazioni societarie che sono a loro volta limitate a quelle strettamente funzionali.
Con riferimento a tale aspetto, va rilevato il fatto che con lo schema di decreto SCIA2, e il cui iter di approvazione è in corso è stata mantenuta, in capo agli enti camerali, la competenza in diversi settori tra cui commercio all'ingrosso, facchinaggio, pulizie. E ciò nonostante la previsione di uno «sportello unico».
Le unioni regionali. Il Governo ha previsto anche che l'unione regionale potrà essere costituita soltanto nelle regioni in cui sono presenti almeno tre camere di commercio e nel solo caso in cui tutte le camere aderiscono alla medesima associazione.
Peraltro, l'individuazione o il mantenimento di unioni regionali sarà in ogni caso possibile solo previa approvazione del ministero dello sviluppo economico al quale dovrà essere dimostrata l'economicità della struttura e gli effetti di risparmio rispetto ad altre possibili soluzioni di svolgimento delle relative attività.
Il giudice delle imprese. Una ulteriore novità è quella che il giudice del registro è nominato non più dal presidente del tribunale del capoluogo di provincia ma dal presidente del tribunale delle imprese competente per il territorio dove ha sede la camera di commercio.
Sarà previsto, inoltre, che gli uffici del registro delle imprese su cui avrà competenza il tribunale delle imprese saranno retti da un unico conservatore nominato dal Mise su proposta di Unioncamere, sentiti i presidenti delle camere di commercio operanti nell'ambito della stessa circoscrizione (articolo ItaliaOggi del 27.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Corte dei conti morde a vuoto. Le sentenze restano lettera morta in un caso su tre. Lo si legge nella relazione al dlgs sulla giustizia contabile. Che tenta di porre rimedio.
Le sentenze delle Corte dei conti rimangono lettera morta in due casi su tre. Nella migliore delle ipotesi. Altre stime quantificano, addirittura, a mala pena, nel 10% del dovuto il recupero dei crediti accertati nei confronti dei responsabili di danno erariale. Il nuovo codice della giustizia contabile cerca di metterci una pezza, rivisitando le fasi dell'esecuzione, ma non in modo incisivo.

Sono gli stessi lavori parlamentari a sottolinearlo: anche se il pubblico ministero contabile sarà chiamato a supportare le p.a. danneggiate dal funzionario infedele, infatti, non si tratta di un obbligo cogente, ma solo di una facoltà.
Il decreto legislativo relativo al Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell'articolo 20 della legge n. 124/2015, approvato in via definitiva dal consiglio dei ministri del 10.08.2016, riscrive per intero le disposizioni processuali di tutti i tipi di giudizi che si svolgono davanti alla Corte dei conti.
Il codice, tuttavia, deve confrontarsi con le difficoltà strutturali del processo contabile sulla responsabilità erariale, che stenta a raggiungere i suoi obiettivi: il bilancio dell'attività di recupero vede perdente lo stato. La relazione tecnica allo schema del provvedimento, sul punto, pagina 1, è chiara e impietosa: il dato dei recuperi nel quinquennio 2011-2015 è stato stimato in 213 milioni di euro, a fronte di 646 milioni di importi di condanna, il che conduce ad una percentuale di introiti sulle condanne di circa il 33%.
Ancora più imbarazzante è il dato riferito dalla relazione illustrativa (pag. 37): tolleranze, ritardi, inerzie e omissioni hanno fatto registrare un tasso di riscossione inferiore al 10% annuo. L'analisi della cause di questa situazione allinea sia difficoltà organizzative sia scarsa incisività delle disposizioni processuali.
Vediamo i rimedi studiati dal codice in commento per far riguadagnare terreno all'erario pubblico. Il primo gruppo di interventi fa leva su sconti di sanzione promessi a chi accetta un rito alternativo.
Ecco, dunque, che chi sceglie il rito abbreviato può definire la sua posizione con il pagamento di una somma non superiore al 50% della pretesa risarcitoria prevista nell'atto di citazione. L'istanza può anche essere presentata in appello, ma la somma da pagare lievita e non può essere inferiore al 70 per cento. Insomma: pochi ma sicuri.
Un secondo gruppo di rimedi riguarda direttamente la fase delle esecuzioni delle sentenze della Corte dei conti. Siamo, dunque, arrivati a una pronuncia che condanna un funzionario a pagare una somma di denaro all'amministrazione danneggiata. La regola, che rimane anche nel nuovo codice, è che il recupero deve essere eseguito dalla stessa amministrazione che ha subito il danno.
Ma, come si è visto, disorganizzazione, incapacità gestionali e procedure macchinose non fanno brillare gli enti per efficienza e l'attività esecutiva non è per nulla proficua.
In questo quadro, il codice introduce una novità: vengono potenziate le attività di vigilanza e monitoraggio costante da parte del pubblico ministero contabile. In particolare, il pubblico ministero potrà supportare l'azione delle singole amministrazione coinvolte (ad esempio un piccolo comune), attraverso accertamenti patrimoniali e altre istruzioni impartibili a richiesta.
Ci si chiede se ciò sarà sufficiente. Un certo scetticismo è apertamente dichiarato nel parere del Senato allo schema di decreto legislativo: si prevede, infatti, solo la facoltà (e non l'obbligo sistematico) per il pubblico ministero di indirizzare istruzioni sullo svolgimento dell'azione di recupero.
Peraltro le singole amministrazioni faranno bene a farsi aiutare dalle procure contabili. A queste andranno rivolte le richieste di accertamenti patrimoniali finalizzati alla verifica di solvibilità del debitore e di buon fine della procedura di recupero. A proposito delle procedure di recupero, il codice cita espressamente le compensazioni in via amministrativa, le esecuzioni forzate regolate dal codice di procedura civile e l'iscrizione a ruolo. Peraltro deve ammettersi anche il recupero mediante l'ingiunzione regolata dal regio decreto 639/1910 (articolo ItaliaOggi del 27.08.2016).

PUBBLICO IMPIEGODirigenza pubblica a tempo. Incarichi di 4 anni (+2). A casa chi sta fermo un anno. Il consiglio dei ministri ha approvato lo schema di dlgs attuativo della riforma Madia.
Gli incarichi dirigenziali nella p.a. dureranno quattro anni e saranno prorogabili solo una volta, per altri due anni. Ogni volta che scade un incarico, i dirigenti subiranno la messa in disponibilità, fino al conferimento di un nuovo incarico. I dirigenti potranno restare in disponibilità nei ruoli solo per un anno, decorso il quale senza ottenere nuovi incarichi saranno licenziati.
In alternativa potranno rimanere ma accettando un demansionamento a funzionari.

Lo prevede il decreto legislativo attuativo del riordino della dirigenza pubblica approvato ieri in prima lettura in attuazione della legge 07.08.2015, n. 124 (Riforma Madia), dal consiglio dei ministri (Schema di decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della Repubblica - Atto del Governo n. 328).
Accesso alla dirigenza. I canali saranno due: il corso-concorso e il concorso. Col primo, però, i vincitori non saranno assunti come dirigenti, bensì come funzionari in prova per tre anni. Non risulta chiaro il meccanismo di assegnazione. Si intuisce che i funzionari saranno assegnati agli enti che hanno chiesto l'assunzione dei dirigenti: il che lascia perdurare per tre anni, però, la carenza della figura dirigenziale.
Al termine dei tre anni di prova, l'amministrazione cui è stato assegnato l'aspirante dirigente se formula una valutazione positiva potrà assumerlo come dirigente e assegnargli l'incarico direttamente, senza le procedure selettive previste. Chi non supera la prova potrà rimanere un altro anno in servizio ed ottenere una nuova valutazione. I vincitori del concorso, invece, saranno assunti direttamente come dirigenti, ma con contratto a termine di quattro anni al massimo.
Potranno essere confermati se supereranno, a conclusione del lavoro a termine un esame di conferma. In caso contrario, manterranno l'incarico dirigenziale fino al successivo esame di conferma, non superato il quale decadono da dirigenti. La bozza impone alle amministrazioni di provenienza di riassumerli come funzionari.
Incarichi: dirigenti generali dello Stato. Niente procedura comparativa con avviso pubblico, nelle amministrazioni statali, per gli incarichi di segretario generale della presidenza del consiglio dei ministri e dei ministeri, per quelli di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali, per quelli di livello equivalente, e quelli conferiti presso gli uffici di diretta collaborazione dei ministri.
In ogni caso, nelle amministrazioni statali quando partiranno le procedure comparative per l'assegnazione degli incarichi avranno diritto di preferenza per gli incarichi dirigenziali generali i dirigenti di prima fascia in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto presso l'amministrazione che conferisce l'incarico, fino ad esaurimento.
Incarichi: conferimento e durata. Gli incarichi saranno conferiti a seguito di procedure comparative, svolte da Commissioni composte da nove membri, ciascuna per ciascun ruolo unico (Stato, regioni ed enti locali), anche se la scelta finale sarà degli organi di governo. Inizialmente, gli incarichi dureranno quattro anni e sono prorogabili solo una volta, in caso di valutazione positiva, per altri due anni.
Per evitare un tourbillon di dirigenti, sarà possibile prevedere negli avvisi pubblici che attivano le procedure comparative un periodo minimo di permanenza nell'incarico, non superiore a tre anni, durante il quale l'assunzione di un successivo incarico da parte di dirigente che partecipi a successivi avvisi sarà subordinata al consenso dell'amministrazione che ha conferito il precedente incarico.
Sarà possibile prorogare l'incarico per il periodo strettamente necessario al completamento delle procedure per il conferimento del nuovo incarico, comunque non superiore a novanta giorni. I dirigenti risulteranno assunti dalle amministrazioni che attribuiscono loro gli incarichi. Ogni volta che acquisiranno un incarico presso un'amministrazione differente vi sarà la cessione del contratto di lavoro.
Scadenza. Ogni volta che scada un incarico, i dirigenti subiranno necessariamente la messa in disponibilità nei ruoli, fino al conferimento di un nuovo incarico dirigenziale. I dirigenti privi di incarico hanno l'obbligo di partecipare nel corso di ciascun anno ad almeno cinque procedure comparative di avviso pubblico, per le quali abbiano i requisiti.
La collocazione in disponibilità costerà cara all'ultima amministrazione presso la quale i dirigenti hanno lavorato: infatti, questa dovrà assicurare per il primo anno il trattamento economico fondamentale (senza retribuzione di posizione e risultato). Per ciascuno dei tre anni successivi, le parti fisse o i valori minimi di retribuzione di posizione eventualmente riconosciuti nell'ambito del trattamento fondamentale sono progressivamente ridotti di un terzo del loro ammontare.
Il testo della bozza non prevede più il licenziamento come conseguenza della permanenza in disponibilità e, anzi, prevede che l'anzianità nella condizione di disponibilità sia titolo preferenziale nelle procedure. I dirigenti, comunque, in qualsiasi momento potranno scegliere di demansionarsi a funzionari.
Valutazione negativa. La bozza mira ad un sistema unico di valutazione, che ampia di molto le ipotesi di responsabilità cui collegare la decadenza anticipata dell'incarico per valutazione negativa. In questi casi, i dirigenti, ferma rimanendo la possibilità di demansionamento, potranno restare in disponibilità nei ruoli solo per un anno, decorso il quale senza ottenere nuovi incarichi saranno licenziati (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIFerie finite per i giudici.
Il 1° di settembre riparte il calendario dei termini giudiziari. Riprendono, quindi, le procedure e il conteggio dei giorni per depositare gli atti e i documenti. In materia tributaria la sospensione c'è stata sia per proporre il ricorso sia per proporre l'appello (il conteggio dei 60 giorni è stato sospeso il 31 luglio e ricomincerà il 1° di settembre).
Nel dettaglio, per tutti i procedimenti i termini riprendono a decorrere da dopo la pausa estiva. Nel caso in cui il conteggio dei giorni fosse dovuto cominciare durante l'intervallo estivo, l'inizio dello stesso è slittato al 1° di settembre. Ciò significa che, nel caso in cui si sarebbe dovuto presentare un ricorso contro atti impositivi (il termine, pena l'inammissibilità, di 60 giorni dalla data della notifica) con scadenza nell'intervallo di tempo che va dal 1° al 31 di agosto, i 31 giorni passati, si devono andare ad aggiungere ai 60 che sono a disposizione per impugnare l'atto.
Quindi, se per esempio l'atto è stato notificato il 07.07.2016, l'ultimo giorno per proporre il ricorso sarebbe il 6 ottobre. Questo perché, seguendo il ragionamento fatto sopra: dall'8 al 31 luglio sono 24 giorni, ai quali si devono aggiungere i 36 che vanno dal 1° di settembre al 6 di ottobre. Nel caso in cui, invece, la notifica sia avvenuta in agosto, allora il conteggio dei 60 giorni inizia automaticamente dal 1° di settembre e quindi l'ultimo giorno utile per impugnare l'atto è il 30 di ottobre.
Attenzione perché per presentare appello contro una sentenza, i giorni del periodo feriale sono esclusi dal conteggio del termine ordinario anche se la sentenza riguarda giudizi iniziati prima del 04.07.2009 (termine di un anno) e per tutti quelli che sono stati avviati dopo questa data e per cui il termine è di sei mesi.
Il periodo di ferie vale, invece, per tutte le mediazioni tributarie. Non solo per quanto riguarda i termini per notificare il ricorso e quello per il suo deposito in segreteria, ma anche per quanto riguarda il termine previsto per la conclusione del procedimento della mediazione (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIAtti, le notifiche Pec a rischio. Divergenze sulla validità della posta elettronica. Il confronto di prassi e giurisprudenza sulle regole valide per il processo tributario.
Notifiche degli atti (ricorsi e appelli) nell'ambito delle liti tributarie con posta elettronica certificata (Pec) a rischio.

Ciò emerge dalla combinata lettura degli articoli 20, commi 1 e 2 e 53, comma 2, del dlgs 546/1992, dalla circolare 2/DF del 12.05.2016 e di alcune recenti sentenze della giurisprudenza di merito (Ctr Milano n. 1711/34/2016, Ctr Benevento, n. 365/2013, Ctr Roma, n. 54/10/2010 e, soprattutto, Ctr Bologna, n. 2065/2015).
Con il documento di prassi indicato (circ. 2/DF/2016), il dipartimento delle finanze aveva evidenziato, innanzitutto, che il legislatore ha incentivato l'utilizzo della posta elettronica certificata (Pec) nell'ambito del processo tributario telematico (Ptt).
Nella medesima circolare (§ 2 e 6), il ministero ha ricordato che la procedura si rende applicabile «agli atti processuali relativi ai ricorsi notificati a partire dal primo giorno del mese successivo al decorso del termine di novanta giorni dalla data di pubblicazione del presente decreto, da depositare presso le Commissioni tributarie provinciali e regionali dell'Umbria e della Toscana»; di conseguenza, le disposizioni sul processo tributario telematico si rendono applicabili nelle due regioni indicate, per i ricorsi e gli appelli notificati a partire dall'01/12/2015, previa registrazione al Sistema informativo della giustizia tributaria (in sigla, Sigit).
Si ricorda che l'indirizzo di posta elettronica, se indicato nel ricorso introduttivo o nell'istanza di reclamo e mediazione, equivale a elezione di domicilio digitale, dovendo ritenere risolti i vizi di notifica, ma dovendo rilevare che, ai fini della domiciliazione digitale, devono ritenersi validi i soli indirizzi Pec le cui credenziali di accesso siano state rilasciate previa identificazione del titolare.
Inoltre, in caso di notifica del ricorso (o dell'atto di appello) effettuata mediante Pec, affinché la comunicazione possa ritenersi valida, è necessario che il notificante stampi l'atto notificato in formato Pdf con firma digitale, se si tratta di allegato, depositi le ricevute di accettazione e consegna completa della Pec, presenti il certificato di firma digitale del notificante e il certificato di firma del gestore della Pec e indichi tutte le ulteriori informazioni richieste.
Infatti, «è elemento indispensabile, ai fini della corretta notificazione ( ), la firma digitale, che deve riferirsi in maniera univoca a un solo soggetto e al documento o all'insieme dei documenti cui è apposta o associata» in quanto «l'apposizione della firma digitale integra e sostituisce l'apposizione di sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi genere a ogni fine previsto dalla normativa vigente» giacché «l'apposizione della firma digitale da parte del pubblico ufficiale ha, inoltre, l'efficacia di cui all'articolo 24, comma 2, dlgs. 82/2005» (Ctp Avellino, sentenza 556/2014, Tar Lazio-Roma decreto n. 23921/2013, Tar Campania-Napoli sentenza n. 1756/2013).
Come indicato dalla giurisprudenza inizialmente citata (tra le altre, Ctr Bologna, sentenza 2065/2015), la situazione, invece, è stata chiarita dal comma 2, dell'articolo 46, dl 90/2014, «dal quale è dato evincere come sia da escludere l'ammissibilità delle notificazioni a mezzo Pec nel processo tributario», giacché «per la ricordata norma, infatti, all'articolo 16-quater del dl 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni, dalla legge 17.12.2012, n. 221, dopo il comma 3, è aggiunto, in fine, il seguente: «3-bis. Le disposizioni dei commi 2 e 3 non si applicano alla giustizia amministrativa» .
Pertanto, si dovrebbe concludere, che «a seguito dell'entrata in vigore (19/08/2014) dell'art. 46, comma 2, dl 90/2014, le notifiche ex art. 3-bis ( ) sono da considerarsi escluse dal rito tributario, come conseguenza dell'esclusione delle medesime da quello amministrativo», con la conseguenza che la commissione adita deve necessariamente verificare la correttezza della notifica ed, eventualmente, rilevare d'ufficio l'illegittimità e tardività dell'atto depositato (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIAddio ai segretari comunali. Albo soppresso. E al loro posto il dirigente apicale. Lo prevede il dlgs attuativo della riforma Madia approvato dal consiglio dei ministri.
Addio ai segretari comunali. Quando sarà costituito e funzionante il Ruolo dei dirigenti locali, introdotto dal decreto legislativo attuativo della riforma Madia della dirigenza, approvato ieri in prima lettura dal consiglio dei ministri (Atto del Governo n. 328 - Schema di decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della Repubblica), la figura del segretario comunale e provinciale sarà abolita, con la conseguenza della soppressione del relativo albo.
Al posto del segretario comunale, gli enti locali incaricheranno (come figura obbligatoria) il «dirigente apicale», selezionandolo con le ordinarie procedure per l'incarico dei dirigenti appartenenti ai ruoli.
Si chiuderà così una storia centenaria di servitori dello stato, dotati di una qualificatissima e specifica competenza nella gestione amministrativa degli enti locali. Alcune delle funzioni tipiche del segretario comunale passeranno «in eredità» al dirigente apicale: i compiti di attuazione dell'indirizzo politico, il coordinamento dell'attività amministrativa e controllo della legalità dell'azione amministrativa. Ma, lo statuto o i regolamenti degli enti locali potranno incaricare il dirigente apicale di svolgere «ogni altra funzione».
Nel Ruolo dei dirigenti locali, una volta istituito, confluiranno i segretari comunali e provinciali già iscritti nell'albo nazionale, e collocati nelle fasce professionali A e B e saranno assunti dalle amministrazioni che conferiscono loro incarichi dirigenziali, nei limiti delle dotazioni organiche. I segretari di fascia C e i vincitori dei concorsi da segretario saranno inseriti in servizio per due anni come funzionari. Gli enti presso i quali nei successivi due anni sarà disponibile un ufficio dirigenziale, potranno chiedere alla Commissione che gestirà il Ruolo unico dei dirigenti locali, la loro, presentando un progetto professionale e formativo di inserimento.
Anche i piccoli comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, o a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o più isole, e il comune di Campione d'Italia, avranno l'obbligo di dotarsi del dirigente apicale, ma dovranno gestire la funzione in forma associata, mediante una convenzione che stabilisce le modalità di espletamento del servizio, individua le competenze per la nomina e la revoca del dirigente apicale, e determina la ripartizione degli oneri finanziari per la retribuzione.
Nei grandi comuni con popolazione di almeno 100.000 abitanti e nelle città metropolitane sarà ancora possibile incaricare un direttore generale, in alternativa al dirigente apicale. In questo caso la funzione di controllo della legalità dell'azione amministrativa e la funzione rogante saranno assegnate a un dirigente appartenente a uno dei Ruoli della dirigenza, in possesso dei requisiti prescritti. Da notare che nelle province non sarà più possibile avere direttori generali. Gli incarichi di dirigente apicale cessano laddove non siano rinnovati entro 90 giorni dalla data di insediamento degli organi esecutivi.
Dunque, si prevede una forma anomala di rinnovo: i dirigenti apicali potranno essere rinnovati non per due anni, come gli altri dirigenti, ma per un intero mandato amministrativo, senza passare dalle procedure comparative. Per quanto riguarda i segretari comunali che si ritroveranno privi di incarico alla data di entrata in vigore del decreto legislativo attuativo della riforma e che confluiranno nel ruolo unico dei dirigenti degli enti locali, avranno quattro anni di tempo per ottenere un incarico dirigenziale (o di dirigente apicale), decorso il quale senza ottenerne, cessano dal Ruolo della dirigenza, e il loro rapporto di lavoro si risolve.
In ogni caso, in sede di prima applicazione, e per un periodo non superiore a tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto attuativo, gli enti locali privi di un direttore generale potranno conferire l'incarico di direzione apicale solo agli ex segretari comunali, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (il che vuol dire che il trattamento economico per almeno tre anni resterà quello proprio dei segretari comunali).
Se l'incarico sarà attribuito a un segretario di fascia C o a un vincitore dei concorsi di accesso alla carriera dei segretari, sarà iscritto nel ruolo dei dirigenti degli enti locali dopo aver ricoperto tale incarico per una durata complessiva non inferiore a diciotto mesi (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

ENTI LOCALISrl pubblica, sindaci o revisori. Nelle spa diventa obbligatoria la revisione esterna. Le novità in tema di amministrazione e controlli previste dal decreto sulle partecipate.
In tutte le srl a controllo pubblico dovrà essere nominato un sindaco unico o un collegio sindacale o un revisore. Nelle società per azioni, oltre al collegio sindacale dovrà essere sempre nominato un revisore esterno. Nelle stesse società sarà sempre ammissibile, per ciascuna amministrazione pubblica, richiedere il controllo giudiziario della società anche qualora la stessa operi in forma di srl.
La richiesta di tale controllo diverrà doverosa nei casi in cui l'organo amministrativo non adotti i provvedimenti necessari a prevenire l'aggravamento della crisi. Gli organi di amministrazione e controllo della società partecipata, oltre alla responsabilità tipica di cui al codice civile, saranno sottoposti anche al vaglio della Corte dei conti per eventuali danni erariali.

Sono alcuni dei principali aspetti che riguardano l'amministrazione ed il controllo delle società a partecipazione pubblica nel dlgs definitivamente approvato mercoledì 10 agosto (Atto del Governo n. 297 - Schema di decreto legislativo recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica)
dal consiglio dei ministri.
La composizione del cda
Di norma, tutte le società a controllo pubblico dovranno essere gestite da un amministratore unico. Con apposito dpcm, su proposta del Mef, entro i prossimi sei mesi saranno definiti i criteri in base ai quali, per specifiche ragioni di adeguatezza amministrativa (quindi nelle società presumibilmente grandi e complesse ndr), l'assemblea delle società può deliberare che il cda sia costituito da tre o cinque membri. La stessa può altresì optare, nelle spa, per il sistema monistico o dualistico.
In questi casi, il numero dei componenti complessivo del consiglio di amministrazione e comitato per il controllo di gestione nel monistico e del consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza nel dualistico, non può eccedere il numero massimo di cinque membri. Nella scelta dei componenti degli organi pluripersonali andranno salvaguardati gli equilibri di genere per almeno 1/3 dei componenti.
Nelle srl a controllo pubblico non è ammessa, nel caso di organo gestionale pluripersonale, l'amministrazione disgiuntiva o congiuntiva.
I compensi
L'art. 11 del decreto prevede che con dpcm, da adottarsi su proposta del Mef, di concerto con altri ministeri, entro 6 mesi dalla entrata in vigore delle nuove disposizioni, le società a controllo pubblico saranno suddivise in fasce (fino a cinque) sulla base di una serie di indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi.
Per ciascuna fascia di società, proporzionalmente saranno determinati dei limiti specifici per i compensi massimi da attribuire ai componenti del consiglio di amministrazione e ai componenti degli organi di controllo, nonché ai dirigenti e ai dipendenti.
Il compenso massimo attribuibile individualmente (comprensivo dei contributi previdenziali e assistenziali nonché degli oneri fiscali a carico del beneficiario) non potrà in alcun caso superare i 240 mila euro. Lo stesso limite non sarà superabile anche qualora al soggetto siano attributi compensi da altre pubbliche amministrazioni o da altre società sottoposte a controllo pubblico.
Responsabilità
Sia i componenti degli organi di amministrazione rappresentanti degli enti pubblici o comunque chi ha il potere di decidere, inoltre, sono sottoposti a un duplice ordine di responsabilità. A quella civilistica, propria delle società di capitali, e quella dell'art. 12, che prevede il rischio del «Danno erariale» patrimoniale o non patrimoniale.
In pratica, cristallizzando in legge un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema corte (si veda, Infra Multis Cass. Ss.uu. 26806/2009; Cass. 15/01/2010, nn. 519/520/521 e 522), si prevede la giurisdizione della Corte dei conti qualora, i componenti degli organi decisionali con i loro comportamenti dolosi o colposi abbiano pregiudicato il valore della partecipazione dell'ente.
I controlli
Vanno distinti i controlli delle spa da quelli delle srl. Nelle prime resta obbligatoria, nel sistema classico, la nomina di un collegio sindacale, delegato ai controlli sulla corretta amministrazione ex art. 2403, c.c. ma viene resa doverosa anche la nomina di un revisore esterno (persona fisica o società di revisione) delegato a svolgere le funzioni di revisione legale dei conti.
Nelle srl, di contro, viene prevista, in linea con le disposizioni di cui all'art. 2477 c.c., la nomina di un organo di controllo (monocratico o collegiale) o di un revisore. La differenza, rispetto alle previsioni dell'articolo in commento è che nelle società a controllo pubblico la nomina dell'organo di controllo o di revisione è obbligatoria a prescindere da ciascun limite dimensionale.
Restano validi i poteri ispettivi esercitati dal Dipartimento della funzione pubblica e dal Dipartimento della Ragioneria generale dello stato, sulle società a partecipazione pubblica, ai sensi dell'art. 6, comma 3, della legge 07/08/2012 n. 135
Il controllo giudiziario
Due rilevanti novità, rispetto al diritto societario, vengono previste nell'art. 13 in merito al controllo giudiziario a cui sottoporre gli amministratori (ed eventualmente i sindaci) rei di aver commesso gravi irregolarità nella gestione (o di non avere esercitato correttamente i controlli).
In primo luogo, in tutte le società sottoposte a controllo pubblico viene escluso che per poter effettuare la denuncia al tribunale i soci debbano rappresentare almeno il 10% del capitale, come stabilito dal comma 1 dell'art. 2409 c.c. nelle spa ordinarie. Infatti, viene previsto che sia legittimata a presentare denuncia di gravi irregolarità al tribunale ciascuna amministrazione pubblica socia, a prescindere dall'entità della quota partecipativa.
Inoltre, a differenza delle ordinarie società commerciali, viene estesa la possibilità di ricorrere al controllo giudiziario anche ai soci delle srl .
Crisi d'impresa
Del tutto innovative le disposizioni di cui all'art. 14 sulla crisi d'impresa delle società a partecipazione pubblica, che risolvono un dibattito giurisprudenziale in auge da decenni. Anche allo scopo di evitare una indebita concorrenza fra società ordinarie e società pubbliche operanti sullo stesso mercato (in tal senso, fra l'altro Cass. Ss.uu. 27.09.2013 n. 22209), viene previsto che anche dette società soggiacciano alle procedure fallimentari e al concordato preventivo.
L'organo amministrativo è tenuto ad adottare specifici provvedimenti (che non possono consistere in una mera ricapitalizzazione da parte delle amministrazioni pubbliche socie) finalizzati a prevenire l'aggravamento della crisi, correggerne gli effetti ed eliminarne le cause.
Ciò dovrà, infatti, essere effettuato attraverso un idoneo piano di risanamento. La mancata esecuzione dello stesso da parte degli amministratori determinerà la sottoposizione della società al controllo giudiziario ex art. 2409 c.c. (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

APPALTI: Centro di coordinamento per appalti e concessioni. Cabina di regia a Palazzo Chigi in rapporto con Anac e Ue.
Una cabina di regia per monitorare il nuovo codice degli appalti; sarà costituita presso la presidenza del consiglio anche per segnalare ad Anac anomalie e criticità applicative e per relazionare all'Unione europea.

È quanto prevede uno schema di dpcm in fase di elaborazione che regolerà il funzionamento dell'organo la cui esigenza è sorta in ambito europeo con le direttive del 2014 per avere un centro di coordinamento della politica legislativa in materia di contratti pubblici e che si è concretizzato nell'articolo 212, comma 1, del nuovo codice dei contratti pubblici.
La norma ha istituito, presso la presidenza del consiglio dei ministri, una specifica cabina di regia al fine di assicurare il raccordo tra i diversi attori coinvolti nel settore dei contratti pubblici e di fornire un indirizzo unitario sulle politiche degli appalti pubblici e concessioni.
Compiti specifici della cabina di regia saranno l'attuazione e la ricognizione dello stato di attuazione del nuovo codice ai vari livelli istituzionali e l'attuazione, oltre alla proposta di modifiche; la promozione di un piano nazionale in tema di procedure telematiche di acquisto e di accordi per agevolare la bancabilità delle opere pubbliche; la segnalazione di eventuali violazioni o problemi sistemici all'Anac.
Lo schema di dpcm attua il comma 5 dell'articolo 212 e provvede alla definizione della disciplina relativa alla composizione e alle modalità di funzionamento della cabina di regia che sarà presieduta dal capo del dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della presidenza del consiglio e coinvolgerà i diversi ambiti di competenza, a livello centrale, regionale e locale (ne faranno parte: il capo dell'ufficio legislativo del Mit un rappresentante dell'Agenzia per la coesione territoriale; un rappresentante del dipartimento delle politiche europee; due rappresentanti del Mef, un rappresentante dell'Anac, uno delle regioni, due delle autonomie locali; un rappresentante dell'Agid e uno della Consip). Possibile la nomina di fino a dieci esperti competenti in materia di appalti pubblici e concessioni, di procedure telematiche di acquisto, di bancabilità delle opere.
Ai componenti, delegati, partecipanti e agli esperti non spetta alcun compenso.
Si prevedono riunioni periodiche: entro il 31.03.2017 e, successivamente ogni 3 anni, per approvare la relazione di controllo da inviare alla Commissione europea. Farle materie oggetto di attenzione ci saranno gli appalti telematici, gli elenchi dei soggetti certificatori, il contenzioso, le relazioni uniche sulle procedure di aggiudicazione. La cabina potrà svolgere audizioni e consultazioni di soggetti operanti nei settori di riferimento e potrà stipulare convenzioni e protocolli con soggetti pubblici, senza nuovi o maggiori oneri per lo stato.
Le comunicazioni alla commissione europea saranno effettuate per il tramite del dipartimento delle politiche europee. Il supporto logistico, organizzativo ed informatico è svolto da un'apposita segreteria istituita presso il dipartimento per gli affari giuridici e legislativi (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

ENTI LOCALI: Piccoli enti fuori dagli schemi. Biglio: lotta di libertà contro l'associazionismo imposto. La presidente Anpci anticipa i temi dell'assemblea nazionale che si terrà in settembre.
Una battaglia di libertà contro il pensiero unico dominante in materia di associazionismo. Libertà di scelta nella gestione dei servizi e delle funzioni nel rispetto dei fabbisogni standard. Libertà di gestione delle risorse derivanti dalla tassazione locale. Libertà dai vincoli del pareggio di bilancio e dalla burocrazia inutile per i comuni di piccole dimensioni. Ma per uscire vittoriosi dal confronto con il neocentralismo patrocinato da governo, regioni e grandi comuni, i mini-enti dovranno soprattutto crescere in consapevolezza.
«Perché a furia di sentirci dire che costiamo troppo e che l'associazionismo è la panacea di tutti i mali ci stiamo quasi credendo, e invece dobbiamo affrontare a testa alta la sfida che questo governo ha lanciato al mondo delle autonomie». Franca Biglio, presidente e anima dell'Anpci, anticipa a ItaliaOggi i temi della XVII assemblea nazionale dei piccoli comuni che, assieme alla XII festa nazionale, si svolgerà dal 9 all'11 settembre a Chies d'Alpago (Belluno).
Domanda. Presidente, il 2016 è stato un anno difficile per i piccoli comuni e il futuro non sembra presagire nulla di buono, con gli obblighi di associazionismo destinati a essere riproposti su base provinciale. Con che spirito continuate a portare avanti le vostre battaglie?
Risposta. Con lo spirito di sempre, convinti di essere nel giusto. Quest'anno i piccoli comuni si sono dovuti confrontare con il pareggio di bilancio, con 60 nuovi adempimenti per lo più inutili, con il codice degli appalti che consta di 220 articoli e necessita di 50 decreti attuativi, con l'incertezza dei trasferimenti compensativi di Imu e Tasi, ma soprattutto con varie proposte di accorpamento obbligatorio palesemente incostituzionali.
D. Il riferimento è ovviamente alla proposta di legge Lodolini sulla fusione obbligatoria dei centri sotto i 5.000 abitanti, un'idea da cui, va detto, il governo ha di recente (con il viceministro all'economia Enrico Morando) preso le distanze. Chi spinge per le fusioni, sostiene tuttavia che voi non siate in grado di sostenervi da soli e che solo attraverso le aggregazioni, più o meno spontanee, si possano generare risparmi. È così?
R. Niente di più falso. La stragrande maggioranza dei 5.575 comuni sotto i 5.000 abitanti è virtuosa. Non lo diciamo noi, ma il Mef. Il problema è che i risparmi ottenuti non sono rimasti sul territorio, ma sono stati dirottati al centro. Dal 2010 al 2015 sono state tagliate agli enti sotto i 5.000 abitanti risorse per 2 circa miliardi di euro (204 euro per abitante), ma più della metà di questi soldi è andata a finanziare le 530 unioni e le 46 fusioni oggi esistenti, sottraendole ai singoli comuni.
D. C'è quindi secondo lei una strategia ben precisa per farvi scomparire?
R. Certo, ed è una strategia frutto della miopia politica che, a dir la verità, ha accomunato tutti i governi alternatisi al potere negli ultimi dieci anni. Il governo Renzi ha deciso solo di sferrare l'attacco finale. Basterebbe avere una strategia lungimirante su ciò che possono rappresentare i piccoli comuni per il bene del Paese e allora si capirebbe come la prospettiva di penalizzarli e costringerli a unirsi sia profondamente errata, irrazionale e controproducente.
D. C'è qualcuno da cui vi sentite traditi?
R. C'è chi predica bene e razzola male, come l'Uncem che a Ferragosto ha giustamente invitato i turisti che hanno scelto la montagna per le loro vacanze a fare acquisti nelle botteghe dei piccoli comuni per farle rivivere. Ma va ricordato che il presidente dell'Uncem e deputato Pd, Enrico Borghi, ha votato tutte le leggi che in questi mesi hanno messo più in difficoltà i piccoli comuni, dal codice appalti alla legge di stabilità 2016. Ma l'elenco dei tradimenti è lungo. L'ultima delusione in ordine di tempo è arrivata dalle regioni.
D. Cosa è successo?
R. Il 3 agosto scorso il ministro per gli affari regionali, Enrico Costa, da sempre amico dei piccoli comuni, ha proposto in Conferenza unificata un'intesa per il riconoscimento di maggiori spazi finanziari agli enti sotto i 1.000 abitanti, ma i governatori regionali hanno detto no, nel silenzio della stampa, ItaliaOggi esclusa, ovviamente, e nell'indifferenza generale dei soggetti istituzionali deputati a rappresentare le autonomie, Anci in primis.
D. A proposito di Anci, a ottobre l'Associazione eleggerà a Bari il nuovo presidente. Confidate che questo possa rappresentare un cambio di passo?
R. Sarebbe bello se il successore di Piero Fassino fosse il sindaco di un piccolo o medio comune. C'è già una candidatura in tal senso e ci dichiariamo sin d'ora disponibili a un proficuo confronto sui temi programmatici che da anni l'Anpci porta avanti (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Prendersela con i funzionari è riduttivo. Stato (ed effetti) di una legislazione impazzita.
Negli ultimi tre anni, mentre da un lato i governi centrali tagliavano risorse ai piccoli comuni virtuosi per trasferirle a fantomatiche unioni e fusioni comuni spreconi, dall'altro lato emanavano più di 60 provvedimenti che trasferiscono ai piccoli comuni nuove funzioni, competenze ed adempimenti per la maggior parte di infima o assoluta inutilità: dal Dup ai piani anticorruzione, ai piani trasparenza, performance e chi più ne ha più ne metta.
Ma nel primo semestre l'attuale governo si è superato in questa mania spasmodica di disposizioni inutili e spesso dannose, basta ricordare:
   1) il pareggio di competenza che non consente ai comuni di utilizzare i loro avanzi di amministrazione (frutto di politiche sane) per opere pubbliche (non si possono asfaltare le strade, ma se un cittadino cade in una buca è il sindaco a rispondere del danno). Con il dl 113 e con la riforma della legge 243/2012, si è rimediato a questo vulnus, ma sette mesi fa l'Anpci aveva segnalato e ammonito, proponendo emendamenti, che la legge di stabilità 2016 sarebbe stata un de profundis per i comuni, ma nessuno ci ha ascoltato;
   2) il codice degli appalti composto di 220 articoli avrà bisogno di 50 decreti attuativi. Risultato: lavori pubblici bloccati per 520 milioni di euro, caos assoluto nei comuni e in tutti gli enti pubblici, creazione di centrali di committenza i cui costi di funzionamento non saranno indifferenti, divieto ai tecnici interni di progettare senza abilitazione, dopo che da decenni progettano. Sabato 16 luglio è comparso sulla gazzetta un provvedimento che elimina dal codice 170 refusi su 220 articoli. Ogni commento è superfluo;
   3) i decreti sui criteri minimi ambientali anche per i semplici tagli d'erba di scarpate. Per quanto riguarda il taglio dell'erba, è richiesto un piano degli sfalci che preveda tecniche a basso impatto. Ad esempio è richiesto il taglio frequente con sminuzzamento dell'erba per evitare l'asporto dell'erba tagliata, ma in questo caso aumentano i consumi di energia e carburante per l'uso delle attrezzature. È tutto questo vantaggioso, soprattutto dal punto di vista ambientale?
Il personale deve essere formato sulle pratiche di giardinaggio ecocompatibili in merito alle tecniche di prevenzione dei danni provocati da parassiti, malattie e infestanti, sulle nozioni relative ai prodotti fitosanitari, caratteristiche e indicazione di quelli autorizzati per essere impiegati nella produzione biologica, nozioni sull'uso di prodotti basati su materie prime rinnovabili, sul maneggiamento, la gestione di prodotti chimici e dei loro contenitori, sull'uso legale ed in sicurezza di pesticidi, di erbicidi, e tecniche per evitare fenomeni di resistenza indotta dei parassiti alle sostanze chimiche usate, sull'uso e le caratteristiche del compost; pratiche di risparmio idrico ed energetico; gestione e raccolta differenziata dei rifiuti. Insomma, dovremo assumere ingegneri ambientali al posto dei cantonieri.
Ma l'elenco degli adempimenti che rischiano di strozzare gli enti, soprattutto quelli più piccoli, non finisce qui.
L'entrata in vigore delle nuove regole sul diritto di accesso dettate dal decreto legislativo 97/2016 sul Freedom of information act senza un adeguato supporto organizzativo rimarrà sulla carta, dato che l'aumento della trasparenza dell'attività delle amministrazioni pubbliche è stato disposto senza aver valutato a fondo l'impatto che l'applicazione delle nuove regole determina sull'organizzazione delle Pa. In questo quadro il dettato finale del decreto, cioè che la sua realizzazione deve avvenire a costo zero, sembra una presa in giro per le amministrazioni comunali. Come fa il legislatore a parlare di invarianza di spesa?
Con il nuovo decreto le singole amministrazioni, compresi i comuni più piccoli, devono darsi delle strutture e formare il personale, che deve essere in possesso di un'adeguata preparazione di base, cioè la laurea. Ed ancora, è inevitabile che si dovranno realizzare adeguati investimenti per potenziare la possibilità di utilizzare gli strumenti informatici per semplificare gli iter procedurali.
E mentre ai piccoli comuni si chiedono sacrifici e si assegnano nuove funzioni, si limitano e si complicano le procedure per gli acquisti sopra i 1.000 euro, tranquillamente due giorni prima del ballottaggio, il commissario di Roma riconosceva debiti fuori bilancio per 10 milioni di euro.
La responsabilità di questa follia e ipertrofia legislativa sarà anche dei dirigenti ma va addebitata soprattutto ai politici (Graziano Delrio, ministro delle infrastrutture e padre politico del codice appalti, ha sempre sostenuto che sarebbe stata una legge di semplificazione) che spesso sotto la spinta anche di qualche giornalista (il disastro delle province generato dalla legge Delrio, sì sempre lui, in parte è figlio anche dell'attacco a testa bassa che certa stampa ha sferrato sulle province senza valutarne costi e disfunzioni).
Concludo con uno spot pubblicitario che gira per radio in questi giorni: Quanti adempimenti dobbiamo adempiere per non essere inadempienti? (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

EDILIZIA PRIVATAAlberghi, misure antincendio parametrate al rischio. Strutture ricettive. Le norme tecniche «alternative» - Strutture classificate a seconda del numero dei posti letto.
Per alberghi e villaggi vacanze cambiano (in parte) le regole antincendio: con il decreto del 09.08.2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 196 del 23 agosto) il ministero dell’Interno è intervenuto sul precedente Dm del 03.08.2015, aggiungendo alla sezione V (regole tecniche verticali) il capitolo V.5, dedicato alle attività ricettive turistico-alberghiere.
Queste norme tecniche (da cui sono comunque escluse le strutture turistico-ricettive all’aria aperta e i rifugi alpini) si possono applicare in alternativa alle specifiche disposizioni di prevenzione incendi previste dai decreti dell’Interno del 30.11.1983, 31.03.2003, 03.11.2004, 15.03.2005, 15.09.2005, 16.02.2007, 09.03.2007 e 20.12.2012.
Queste disposizioni “alternative”, infatti, non riguardano tutte le attività ma solo alcune e questo tassello delle attività alberghiere non è certo l’ultimo. Il decreto e il relativo allegato 1 (che è la «regola tecnica verticale») è quindi applicabile alle attività con oltre 25 posti letto: alberghi, pensioni, motel, villaggi albergo, residenze turistico-alberghiere, studentati, alloggi agrituristici, ostelli per la gioventù, bed & breakfast, dormitori e case per ferie.
La regola, che va comunque inserita all’interno delle «Norme tecniche di prevenzione incendi» di cui al Dm dell’Interno del 03.08.2015, prevede anzitutto una serie di classificazioni in relazione al numero di posti letto complessivi e alla quota dei piani, per poi individuare le varie aree di attività; dalla categoria TA (spazi a uso del personale dove la maggior parte degli occupanti è sveglio e conosce l’edificio) sino al TO (locali con affollamento oltre 100 occupanti come sale conferenza o ristorazione), TM e TK (con carico di incendio specifico superiore rispettivamente a qf>600 e 1.200 MJ al metro quadrato, TT (locali tecnici e dove siamo presente molte apparecchiature elettroniche) e TZ (altri spazi).
Nelle aree destinate a «spazi di riposo» (cioè le camere) i mobili imbottiti e i tendaggi devono appartenere al gruppo di materiali classificati GM2.
Le camere e gli appartamenti con affollamento non superiore a 10 occupanti sono esclusi dai limiti minimi previsti per le larghezze delle vie di fuga.
Le aree devono essere dotate di sistemi di rivelazione e allarme, a seconda dei livelli di prestazione. E dove siano installati apparecchi a fiamma libera (caminetti e stufe) occorrono anche rivelatori di monossido di carbonio.
Per quanto riguarda, infine, i vani degli ascensori, se l’impianto non sia inserito all’interno di vani scala di tipo protetto e a prova di fumo, e ve ne sia la necessità, il vano dovrà essere di tipo SB (antincendio)
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2016).

VARIRinnovo patente solo con la visita del medico ad hoc. Ministero trasporti.
Solo i sanitari specificamente individuati dall'art. 119 del codice stradale possono rilasciare la certificazione medica necessaria al conseguimento e al rinnovo della patente di guida. Non possono quindi occuparsene i medici ausiliari e di fiducia dell'autista e neppure i sanitari con contratti a tempo determinato.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la circolare 24.06.2016 n. 14586 di prot..
Alcuni uffici della motorizzazione hanno richiesto di chiarire se la normativa consente, ai medici incaricati o fiduciari, di provvedere alle pratiche di rinnovo o rilascio delle patenti di guida.
A parere dell'organo tecnico centrale non può riconoscersi capacità certificativa in materia di patenti e licenze di guida a sanitari diversi da quelli individuati dall'art. 119 del codice.
Quindi restano fuori gioco i medici ausiliari, quelli fiduciari e gli altri sanitari che con gli enti preposti hanno contratti di lavoro solo a tempo determinato (articolo ItaliaOggi del 25.08.2016).

ENTI LOCALIVariazioni di bilancio, inammissibile il parere dell'organo di revisione. L'analisi.
Per le deliberazioni di variazione di bilancio approvate dalla giunta ai sensi dell'art. 175, c. 4, del Tuel, è inammissibile il parere dell'organo di revisione nella successiva fase della ratifica.
Poiché, tuttavia, diversi enti locali procedono in tal modo, vanno analizzati i punti della normativa che dimostrano l'illegittimità del relativo procedimento.
Ai sensi dell'art. 42, c. 2, lett. b), del dlgs 267/2000, l'organo competente all'approvazione del bilancio, e delle relative variazioni, è il consiglio comunale.
Nondimeno, il successivo art. 175 individua, ai commi 5-bis e 5-quater, per finalità di semplificazione dell'attività amministrativa, fattispecie per le quali, in considerazione della natura non discrezionale dei relativi atti, la competenza è attribuita alla giunta e/o ai responsabili di spesa.
In ordine al precedente comma 4, invece, la competenza è del consiglio, operando la giunta in via non ordinaria, ma per necessità di urgenza.
La ratio del comma 4 dell'art. 175 del dlgs 267/2000 è, quindi, quella di consentire, per esigenze di funzionamento, l'adozione di atti illegittimi per vizio di incompetenza relativa, che siano poi sanati a mezzo di ratifica.
A ogni modo, il comma 2 non lascia spazio ad affermazioni contrarie, precisando che le variazioni di bilancio sono di competenza del consiglio, salvo quelle previste dai commi 5-bis e 5-quater.
È, pertanto, obbligatorio il parere dell'organo di revisione contabile sulle proposte relative alle deliberazioni di variazione di bilancio sottoposte alla giunta in applicazione del comma 4 dell'art. 175.
Il successivo art. 239, c. 1, lett. b), pt. 2, riguarda, infatti, anche le proposte relative alle deliberazioni ricadenti nel suddetto comma 4, trattandosi, come dicevamo, di atti di competenza del consiglio attribuiti, in via temporanea e derogatoria, alla giunta.
La mancanza di parere sulla proposta determina, pertanto, l'illegittimità dell'atto finale (della deliberazione di giunta) per violazione di legge.
Ne deriva che, in caso di mancata ratifica da parte del consiglio, gli effetti già prodotti dall'atto ricadranno nella formale responsabilità di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento.
La questione è rilevante anche per la giuridica invalidità del parere dell'organo di revisione, eventualmente acquisito in fase di ratifica.
Una deliberazione di variazione di bilancio sottoposta a ratifica del consiglio è, infatti, un atto illegittimo (per incompetenza relativa) autorizzato dall'art. 175, comma 4, in considerazione di possibili situazioni di urgenza.
La modalità di sanatoria di tale atto illegittimo (la ratifica) che è richiamata nel suddetto comma, essendo propria dei soli atti viziati da incompetenza relativa, non può di fatto estendersi ad altri vizi di legittimità, come, nel caso specifico, la violazione di legge da omesso parere dell'organo di revisione sulla proposta dell'atto poi deliberato dalla giunta ai sensi del suddetto comma 4 (articolo ItaliaOggi del 25.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALIInvestimenti contabilizzati. Arconet chiarisce il bilancio comunale.
Nella contabilità economico-patrimoniale, i comuni devono contabilizzare gli oneri di urbanizzazione destinati a spese di investimento come riserve di patrimonio netto, effettuando nella relazione al rendiconto la riconciliazione della variazione di quest'ultimo con il risultato del conto economico.

Il chiarimento 20.07.2016 arriva dalla commissione Arconet (l'organismo che sovrintende all'applicazione del bilancio armonizzato agli enti territoriali), che, in risposta ad un quesito posto dall'Ordine dei dottori commercialisti, si è soffermata su una delle tante questioni poste dal nuovo regime di contabilità economico patrimoniale, da quest'anno applicabile a tutte le amministrazioni (e non più solo a quelle sperimentatrici).
Esso prevede che i proventi dei permessi di costruire vadano contabilizzati come ricavi solo quando vanno a finanziare la spesa corrente (per esempio, le manutenzioni ordinarie, allocate a titolo I), mentre devono essere contabilizzati come riserve di patrimonio netto quando vanno a finanziare il conto capitale (per esempio, le manutenzioni straordinarie, allocate a titolo II).
In questo secondo caso, non si verifica più, come in passato, la sterilizzazione del provento pluriennale (che in sostanza stornava in parte o tutto l'ammortamento del bene).
Tuttavia, in questo modo, a fine anno si registra un incremento del patrimonio netto la cui variazione non coincide con il risultato del conto economico. In termini più generali, la variazione del patrimonio netto non coinciderà più con l'utile (variazione positiva) o con la perdita (variazione negativa).
I comuni, però, dovranno evidenziare nella relazione al rendiconto tale discrasia ed effettuare la riconciliazione della variazione del patrimonio netto con il risultato del conto economico, dimostrando l'incidenza degli oneri di urbanizzazione sul risultato (articolo ItaliaOggi del 25.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Case a energia zero, per il 2020. Entro 4 anni bisognerà costruire solo edifici ecosostenibili. Raccomandazione della Commissione Ue. Gli immobili devono prodursi l'energia rinnovabile.
Entro il 2020 tutti gli edifici di nuova costruzione dovranno essere realizzati a energia quasi zero. Gli stati membri entro tale data dovranno elaborare piani nazionali per aumentare il numero di edifici a energia quasi zero.

Questi alcuni suggerimenti della Commissione europea pubblicati nella raccomandazione 2016/1318 del 29.07.2016 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Ue del 02.08.2016 n. L 208/46) rubricata: «Orientamenti per la promozione degli edifici a energia quasi zero e delle migliori pratiche per assicurare che, entro il 2020, tutti gli edifici di nuova costruzione siano a energia quasi zero».
Nel concetto di edificio a energia quasi zero è quindi racchiusa la nozione di sinergia degli interventi sul fronte dell'energia da fonti rinnovabili e su quello dell'efficienza energetica. La produzione nell'edificio stesso di energia da fonti rinnovabili ridurrà la quantità di energia netta fornita. In molti casi, l'energia da fonti rinnovabili prodotta in loco non sarà sufficiente a quasi azzerare il fabbisogno energetico senza ulteriori misure di efficienza energetica o una riduzione significativa dei fattori di energia primaria dell'energia prodotta da fonti rinnovabili non in loco.
Pertanto, l'introduzione di requisiti di prestazione più elevati e stringenti intesi a rendere gli edifici altamente efficienti e quasi azzerarne il consumo energetico stimoleranno anche un maggiore utilizzo dell'energia da fonti rinnovabili in loco e dovrebbero comportare l'adeguamento dei fattori di energia primaria per i vettori energetici extra loco, tenendo conto del loro contenuto di energia da fonti rinnovabili.
Gli stati membri dovrebbero valutare il più rapidamente possibile l'opportunità di adeguare le pratiche esistenti e definire il meccanismo da utilizzare per controllare il conseguimento degli obiettivi in materia di edifici a energia quasi zero e considerare la possibilità di introdurre sanzioni differenziate per gli edifici di nuova costruzione dopo l'entrata in vigore dei requisiti relativi agli edifici a energia quasi zero (articolo ItaliaOggi del 25.08.2016).

ENTI LOCALICamere di commercio, la svolta. Riduzione da oltre 100 a 60. Diritti camerali dimezzati. Dopo la pausa atteso in Consiglio dei ministri il decreto che attua la riforma Madia.
Rideterminazione degli ambiti territoriali di competenza al fine di perseguire obiettivi di economicità ed efficienza; ma anche rideterminazione delle funzioni con esclusione di qualsiasi adempimento connesso all'avvio dell'attività.

È una vera e propria svolta per gli enti rappresentativi del tessuto economico quella disegnata dal governo che va a modificare la legge 580/1993, di riordino delle camere di commercio e che soltanto un paio di anni fa era stata già oggetto di modifica con il dlgs 23/2010.
La proposta di schema di decreto legislativo che sarà posto all'esame del Consiglio dei ministri in una delle sue prossime riunioni, ed emanato in attuazione della legge Madia (124/2015) prevede, in particolare, la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali, con conseguente riduzione del numero delle camere di commercio entro il limite di 60, la limitazione degli ambiti di svolgimento della funzione di promozione del territorio e dell'economia locale, la riduzione del numero dei componenti degli organi e, salvo che per i revisori, l'eliminazione dei relativi compensi.
Inoltre, lo schema di decreto (Atto del Governo n. 327 - Schema di decreto legislativo recante riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura) prevede la riduzione al 50% dei diritti camerali ma anche l'eliminazione delle duplicazioni di compiti e funzioni rispetto ad altre amministrazioni pubbliche. È stata, infatti, prevista la sostituzione dell'intero comma 2 dell'art. 2 della legge 580/1993 che elencava, in via esemplificativa, le funzioni che potevano essere esercitate dagli enti.
Funzioni specifiche istituzionali. Oggi vengono indicate, invece, le precise funzioni di competenza delle Cciaa che vanno dalla pubblicità legale generale e di settore mediante la tenuta del registro delle imprese, del Repertorio economico amministrativo e degli altri registri e albi attribuiti dalla legge alla formazione e gestione del fascicolo informatico di impresa in cui sono raccolti dati relativi alla costituzione, all'avvio e all'esercizio delle attività dell'impresa.
Inoltre, le camere di commercio potranno svolgere anche funzioni di punto unico di accesso telematico (il riferimento è ai Suap) in relazione alle vicende amministrative riguardanti l'attività d'impresa; ma soltanto se a ciò delegate su base legale o convenzionale. L'esclusione di ogni funzione connessa all'avvio di impresa, comunque, è in contrasto con quanto stabilito dal governo, seppur in via preliminare, nello schema di decreto legislativo Scia2.
Nella tabella A che fa parte integrante del decreto, infatti, è stato espressamente previsto che per diverse attività, quali ad esempio il commercio all'ingrosso, di facchinaggio, di pulizie, la Scia che legittima l'esercizio dell'attività va presentata alla Camera di commercio territorialmente competente, anziché al Suap.
Tutela del consumatore. Le camere di commercio continueranno, peraltro, a svolgere le funzioni a tutela del consumatore e della fede pubblica, vigilanza e controllo sulla sicurezza e conformità dei prodotti e sugli strumenti soggetti alla disciplina della metrologia legale (pesi e misure), rilevazione dei prezzi e delle tariffe, rilascio dei certificati di origine delle merci e documenti per l'esportazione.
Internazionalizzazione. Escluse le attività promozionali all'estero, alle camere di commercio è affidata l'attività di informazione, formazione, supporto organizzativo e assistenza alle piccole e medie imprese per la preparazione ai mercati internazionali.
Scuola-lavoro. Rilevante il ruolo affidato agli enti camerali in materia di lavoro. Il decreto legislativo prevede, infatti, il supporto all'incontro domanda-offerta, attraverso servizi informativi anche a carattere previsionale volti a favorire l'inserimento occupazionale e a facilitare l'accesso delle imprese ai servizi dei Centri per l'impiego, in raccordo con l'Anpal; nonché il sostegno alla transizione dalla scuola e dall'università al lavoro, attraverso l'orientamento e lo sviluppo di servizi, in particolare telematici, a supporto dei processi di placement svolti dalle Università (articolo ItaliaOggi del 24.08.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Stop ai guardoni fiscali. Vietati gli accessi ai dati di politici e vip. Nota dell'Agenzia delle entrate ricorda le regole ai dipendenti.
Vietato fare i guardoni fiscali con i dati dei contribuenti. Soprattutto se si tratta dei vertici dell'agenzia, di politici e vip.

L'Agenzia delle entrate invia una nota interna ai propri uffici per ribadire le regole sulla sicurezza dei dati tributari presenti nelle banche dati dell'anagrafe tributaria. «L'attività di monitoraggio e controllo finora effettuata», scrivono dall'amministrazione, «ha fatto emergere abusi dagli utilizzatori della banca dati che evidenziano una insufficiente consapevolezza sulla delicatezza delle informazioni in essa contenute e sulla necessità di adottare comportamenti rispettosi della normativa e delle direttive».
Ecco dunque che l'Agenzia torna sull'argomento del trattamento dei dati conservati nei propri archivi e tira le orecchie ai quei funzionari che fanno gli accessi per «curiosità» sia nei confronti dei vertici dell'Agenzia o di colleghi d'ufficio sia nei confronti di politici, sportivi o personaggi dello spettacolo in genere.
L'Agenzia dunque ricorda che l'accesso alle banche dati e l'utilizzo alle informazioni in essa contenute può avvenire esclusivamente per lo svolgimento dei compiti d'ufficio a cui ciascun dipendente è stato assegnato. Compiti, ribadisce l'Agenzia, legati alle finalità istituzionali dell'Agenzia stessa.
Nella nota l'amministrazione guidata da Rossella Orlandi elenca le misure messe a disposizione per la tutela della privacy dei contribuenti e su come si attivano gli alert in caso di accessi non autorizzati.
L'Agenzia ha previsto un sistema di abilitazione per la gestione delle credenziali degli accessi. Inoltre gli accessi sono tracciati, con le indicazioni delle operazioni e del soggetto che le ha effettuate nonché dei dettagli sulle informazioni accedute.
Inoltre nella nota si ricorda che gli accessi fuori dal luogo di lavoro e fuori dall'orario di lavoro se non autorizzati, sono considerati segnali di alert per far scattare la procedura di controllo sugli accessi irregolari. Le attività di monitoraggio sono affidate all'ufficio audit. Proprio sul punto l'Agenzia specifica che i controlli sono strumenti di verifica dell'attività lavorativa del dipendente ma servono a impedire usi impropri della banca dati e nei casi più gravi reati.
Per l'Agenzia questo meccanismo ha un efficace livello di dissuasione proprio per la possibilità di ricostruire le attività di accesso.
Ogni volta poi che un dipendente accede alle informazioni presenti nell'anagrafe tributaria una finestra informativa ricorda gli obblighi di legge e la tutela dei dati presenti nonché il rischio connesso a responsabilità anche di natura penale oltre che disciplinare per gli accessi riscontrati come illegittimi, non autorizzati o considerati indebiti.
Secondo le Entrate, nel momento in cui il dipendente persiste con l'accesso non autorizzato, dopo la comparsa della nota informativa, porta a evidenziare una «componente volitiva» dell'accesso per cui devono essere comminate sanzioni molto elevate. In buona sostanza, dipendente avvisato... (articolo ItaliaOggi del 23.08.2016).

ENTI LOCALI - VARIMulte scontate con la trappola. La tempestività non basta. Occhio agli avvisi sui verbali. Dal calcolo dei termini alla presentazione della patente: gli elementi da non trascurare.
Al rientro dalle ferie sarà meglio controllare se nella buca lettere ci sono multe in giacenza da ritirare presso l'ufficio postale. E in questo caso sarà opportuno recuperare tempestivamente i verbali per poter tentare di accedere ancora al beneficio del pagamento con lo sconto, facendo sempre attenzione alle intimazioni di presentazione dei documenti scritte in piccolo, per evitare ulteriori sorprese e verbali.
Da tre anni esatti la somma da pagare per le multe stradali è ridotta del 30% se il pagamento è effettuato subito dall'automobilista, entro cinque giorni dalla contestazione.
La riduzione non si applica alle infrazioni per cui non è ammesso il pagamento in misura ridotta, alle violazioni per cui è prevista la sanzione accessoria della confisca del veicolo o della sospensione della patente di guida e alle violazioni stradali non incluse nel codice della strada. L'espressa indicazione dell'importo scontato del 30% dovrà essere riportata su tutti i verbali utilizzati dalle pattuglie della polizia, vigili e carabinieri.
I trasgressori dovranno fare attenzione all'uso dei bollettini di c.c.p. allegati ai verbali ma anche alla compilazione degli stessi e a agli importi esatti da versare. Se il pagamento risulterà insufficiente la differenza costituirà, infatti, acconto in sede di riscossione mediante iscrizione a ruolo. Ovvero partirà una trafila formale costosa e complessa che è decisamente meglio evitare. Interessanti le precisazioni del Ministero dell'interno sul computo dei termini per effettuare il pagamento con lo sconto.
Il termine di cinque giorni va calcolato a decorrere dal giorno successivo alla contestazione su strada; se il termine ultimo cade in giorno festivo, si scorre al giorno feriale successivo. Per esemplificare, se il verbale è stato contestato subito al conducente il 21 agosto, il termine utile di pagamento con la riduzione del 30% è il 26 agosto.
Da qualche mese il trasgressore che paga la multa con strumenti elettronici può però confidare in due giorni di tolleranza per legge. Ma spetta sempre all'automobilista verificare che il pagamento tempestivo del verbale sia sincronizzato con la data ora più flessibile dell'effettiva valuta. Non basterà dunque aver effettuato il bonifico entro cinque giorni. Occorrerà sempre verificare la data della valuta per non correre il rischio di vedersi recapitare a casa, a distanza di qualche tempo, una salata richiesta di integrazione. Stesso discorso in caso di pagamento ridotto normale del verbale, entro 60 giorni.
In buona sostanza alla pubblica amministrazione in questo caso non interessa solo se l'automobilista ha effettuato il pagamento liberatorio in tempo. Serve che lo stesso controlli attentamente anche la data dell'accredito perché solo quel dato mette al riparo l'ignaro trasgressore da inaspettate richieste di conguaglio. Con la novella entrata in vigore in primavera è ora disponibile una tolleranza temporale di due giorni per i tradizionali bonifici online.
Attenzione però per chi ritira la multa in posta. Con l'emissione della comunicazione di avvenuto deposito il termine per lo sconto decorre dall'undicesimo giorno dalla data di spedizione del Cad, salvo che l'interessato ritiri l'atto prima del termine di dieci giorni del deposito. In caso di notificazione tramite esposizione presso la casa comunale, i giorni previsti per il pagamento con la riduzione del 30% decorrono dopo dieci giorni dalla spedizione della raccomandata di avviso, o dalla data di ritiro del plico se anteriore, quando il verbale è depositato ai sensi dell'art. 140 cpc, ovvero dopo 20 giorni se depositato ai sensi dell'art. 143 cpc. Ma non è finita.
Prima di archiviare la multa con la quietanza di pagamento meglio assicurarsi di aver anche assolto all'obbligo di eventuale presentazione della patente per la decurtazione di punteggio. Chi trascura questa comunicazione da effettuare entro 60 giorni a distanza di qualche mese si vedrà recapitare un'ulteriore pesante sanzione di 286 euro. Ma spesso quest'obbligo viene reso impraticabile dagli uffici che scrivono troppo in piccolo sul verbale che il trasgressore deve esibire anche la sua patente di guida per non incorrere in ulteriori problemi.
E il conducente crede di aver esaurito il suo compito con il pagamento tempestivo della multa. Specialmente nel caso di una infrazione semaforica o di un modesto eccesso di velocità. L'unico risultato positivo in caso di mancata presentazione tempestiva della licenza di guida sarà che nessuno perderà punti patente. Poca cosa per chi non ha problemi di crediti residui, specialmente se si tratta di una decurtazione di pochi punti patente (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

VARIAssicurazioni, meglio non abbandonare i documenti cartacei.
Per non incorre in multe o discussioni con gli organi di polizia in caso di controllo stradale circa la regolare copertura assicurativa del veicolo meglio avere ancora al seguito più carta possibile. Diversamente con le banche dati che non sono ancora completamente allineate e le compagnie che prorogano le coperture oltre al giorno di scadenza aumenta il rischio di incorrere in sanzioni e in imbrogli burocratici.

Lo ha evidenziato l'Istituto per la vigilanza delle assicurazioni (IVASS) con la nota 01.06.2016 n. 111471 di prot..
La cessazione dell'obbligo di esposizione del contrassegno assicurativo, entrata in vigore nell'ottobre scorso, ha avviato una serie di riflessioni operative tra le forze dell'ordine che hanno inevitabili ricadute anche sui comportamenti degli automobilisti.
Se da una parte l'utente stradale ha il beneficio di non dover più esporre sul parabrezza il contrassegno, dall'altro sono aumentati i rischi di essere trovati in difetto e spesso per motivazioni assolutamente indipendenti dalla volontà dell'automobilista. Questo perché innanzitutto le banche dati che attestano la regolarità della copertura assicurativa non sono ancora completamente aggiornate.
Poi perché alcune compagnie consentono una estensione della copertura assicurativa per periodi di tempo superiori alle due settimane di rito. Per cercare di rimettere un po' di ordine nel settore, anche l'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale ha diramato istruzioni operative che di fatto evidenziano la necessità di avere sempre al seguito documenti cartacei. Perché rispetto alle indicazioni del ced i documenti risulteranno sempre prevalenti.
Se il certificato risulterà scaduto mentre il Ced indicherà attiva la copertura scatterà un invito formale a esibire il documento aggiornato. Viceversa se il Ced evidenzierà un dato negativo mentre la documentazione esibita sarà positiva, farà fede l'attestazione cartacea. Senza applicazione di alcuna sanzione o invito a esibire documenti ulteriori (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIAEmissioni, in arrivo la stretta. Agli impianti medi imposti autorizzazione e monitoraggi. La legge di delegazione europea avvia il recepimento della direttiva sulla tutela dell'aria.
Stretta in arrivo sulle emissioni degli impianti di combustione medi, largo novero che abbraccia installazioni a uso domestico, agricolo e industriale tra cui quelle deputate a raffreddamento o riscaldamento così come alla produzione di energia.
Con l'approvazione definitiva, avvenuta lo scorso 28/07/2016, della Legge di delegazione europea 2015 si avvicina, infatti, l'allineamento dell'Italia alle prescrizioni comunitarie dettate dalla direttiva 2015/2193/Ue. Prescrizioni che impongono una autorizzazione o registrazione preventiva per l'attivazione degli impianti, il rispetto di specifici valori limite così come il monitoraggio delle emissioni durante l'esercizio.
Gli impianti interessati. Le regole Ue da recepire entro il 17/12/2017 si applicheranno agli impianti di combustione con potenza termica nominale tra 1 e 50 Mw (megawatt), indipendentemente dal tipo di combustione. Resteranno fuori dalla portata delle nuove regole i soli impianti di combustione e quelli di incenerimento rifiuti disciplinati direttamente dalla direttiva 2010/75/Ue (sull'Ippc, Integrated pollution prevention and control, ovvero controllo e prevenzione integrata dell'inquinamento) e le installazioni già oggetto di specifica altra normativa.
La stretta burocratica. In base alla direttiva 2015/2193/Ue l'attivazione degli impianti dovrà essere subordinata al rilascio di specifica autorizzazione o di preventiva registrazione, e questo secondo un regime che dovrà interessare fin da subito le nuove installazioni e progressivamente (dal 2024 in poi) quelle esistenti.
I valori limite. Nuovi e specifici valori limite saranno da rispettare per le specifiche emissioni di anidride solforosa, ossidi di azoto e particolato. Anche questo secondo un calendario di adeguamento che la direttiva 2015/2193/Ue declina in base alla potenza degli impianti interessati: i nuovi limiti dovranno essere rispettati dal 2025 dalle strutture comprese tra 5 e 50 Mw, dal 2030 per quelli tra 1 e 5 Mw.
Sarà però onere per gli Stati membri introdurre limiti più restrittivi per le zone interessate da livelli di inquinamento particolarmente elevati. Così come sarà facoltà degli stessi stati sancire deroghe momentanee (solo fino al 2030) per l'allineamento di alcune strutture, come le reti di riscaldamento a distanza, gli impianti di combustione a biomassa, quelli collegati al sistema nazionale di trasporto gas, gli impianti territorialmente isolati.
Gli impianti rientranti nel campo di applicazione della disciplina Ippc (tradotta come Aia, autorizzazione integrata ambientale, nel dlgs 152/2006) e da essa non esclusi dalle nuove regole Ue dovranno comunque rispettare anche tutte le relative prescrizioni in materia previste.
Le regole di esercizio. Ai gestori saranno imposti monitoraggio degli impianti così come registrazione, elaborazione e conservazione dei relativi risultati. In caso di emissioni oltre soglia, scatterà inoltre l'obbligo di adottare immediate misure di ripristino, salva l'eventuale sospensione dell'esercizio degli impianti imposta dalle Autorità pubbliche. Queste ultime altresì adottare a titolo preventivo un nuovo sistema ad hoc di ispezioni ambientali.
Il restyling del Codice ambientale. Secondo gli specifici criteri dettati della nuova Legge europea 2015, l'attuazione della direttiva 2015/2193/Ue arriverà con un provvedimento di modifica del dlgs 152/2006. E questo con un ampio restyling della Parte V del Codice ambientale dedicata alla tutela dell'aria e al controllo delle emissioni in atmosfera.
Nella riformulazione del dlgs 152/2006 troverà posto la razionalizzazione delle relative procedure autorizzatorie, anche per coordinarle con le parallele regole in materia di «autorizzazione unica ambientale». L'istituto in parola, meglio noto come «Aua» e disciplinato dal dpr 59/2013, prevede infatti per le imprese non soggette alla citata Aia la riunione sotto un'unica autorizzazione dei plurimi e necessari titoli abilitativi ambientali.
Con particolare riferimento alle emissioni in atmosfera, si ricorda che rientrano nell'Aua sia l'autorizzazione ordinaria che quella semplificata per l'inquinamento scarsamente rilevante (ex articoli 269 e 272 del dlgs 152/2006), oltre agli ulteriori titoli eventualmente aggiunti dalle legislazioni di regioni e province autonome.
Con la rivisitazione del Codice ambientale arriverà anche la citata stretta sui valori limite di emissione che sarà modulata (come prevede la Legge di delega) sulle migliori tecnologie disponibili, ossia sulle più efficienti e avanzate norme tecniche messe a punto dall'Ue per singoli comparti produttivi al fine ridurre l'inquinamento.
Il tutto con l'aggiornamento, infine, del relativo sistema sanzionatorio del Codice ambientale (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Nuova Ape, costa caro non allegare il libretto di impianto. Le integrazioni alle faq, pubblicate dal Mise con il supporto tecnico di Enea e Cti.
In pista i nuovi chiarimenti per l'Ape.

Il ministero dello sviluppo economico ha pubblicato una serie di integrazioni alle faq già diffuse lo scorso autunno a beneficio degli operatori del settore.
Come è noto, infatti, dall'01.10.2015 sono in vigore le nuove regole sui requisiti minimi di prestazione energetica degli edifici e per la redazione del relativo attestato. Il ministero, con il supporto tecnico dell'Enea e del Cti (Comitato termotecnico italiano) e previo confronto con le principali associazioni di categoria, ha quindi fornito risposta a oltre 70 delle domande più frequentemente poste in relazione ai nuovi adempimenti.
Vediamo allora di analizzare i punti principali del documento, consultabile integralmente sul sito internet www.sviluppoeconomico.gov.it.
Il nuovo attestato di prestazione energetica. La nuova Ape, disciplinata da due decreti ministeriali del giugno 2015, ha mantenuto la sua validità massima decennale, presenta una metodologia di calcolo più omogenea e ha portato a 10 le classi energetiche (delle quali la classe A4 rappresenta quella più efficiente). È previsto che l'attestato sia aggiornato in caso di interventi di ristrutturazione e riqualificazione che modifichino la classe energetica dell'immobile. Nella faq viene quindi chiarito come detto aggiornamento sia però necessario soltanto nei casi previsti dall'art. 6 del dlgs n. 192/2005 (compravendita, nuova locazione ecc.).
La validità temporale massima resta comunque subordinata al rispetto delle prescrizioni per le operazioni di controllo di efficienza energetica degli impianti tecnici dell'edificio, in particolare per gli impianti termici. Nel caso di mancato rispetto di queste disposizioni, infatti, l'Ape decade il 31 dicembre dell'anno successivo a quello in cui è prevista la prima scadenza non rispettata per le predette operazioni di controllo di efficienza energetica. A tale scopo, all'attestazione devono essere allegati i libretti di impianto in originale, in formato cartaceo o elettronico.
Ci si è però chiesti cosa occorra fare quando un impianto sia sprovvisto di libretto e/o non ci sia un rapporto di controllo di efficienza energetica ancora valido: è possibile in questi casi emettere un Ape sprovvisto dei predetti supporti documentali? A questo proposito nelle faq si evidenzia come emettere un Ape senza allegare il libretto di impianto comprensivo dei relativi allegati, tra i quali anche un valido rapporto di controllo di efficienza energetica, corrisponda a dichiarare il fatto che l'impianto sia esercitato dal responsabile in violazione di legge, con conseguente applicazione della sanzione amministrativa prevista dall'art. 15 del dlgs n. 192/2005.
Nell'attestato, tra l'altro, nei casi in cui è istituito il catasto regionale degli impianti termici, occorre indicare nella quarta pagina il relativo codice, circostanza che implica la regolare registrazione e dotazione del libretto di impianto e dei relativi allegati. All'atto dell'emissione dell'Ape, se necessario, occorre quindi far redigere il libretto di impianto e dotarlo degli allegati richiesti, ivi compreso un valido rapporto di controllo di efficienza energetica.
Solo nel caso in cui l'impianto sia distaccato dalla rete del gas o dichiarato dismesso o disattivato è ammissibile che manchi il rapporto di controllo di efficienza energetica in corso di validità. La decadenza dell'Ape in caso di non rispetto della periodicità dei controlli di efficienza energetica, come chiarito dal ministero, si riferisce quindi a un evento successivo alla data di emissione dell'attestato.
Una delle novità più importanti introdotte dai decreti ministeriali dello scorso autunno è del resto l'indicazione del contenuto minimo che l'Ape deve possedere a pena di invalidità. Risulta quindi particolarmente importante verificare con cura le informazioni riportate nell'attestato, perché in caso contrario il proprietario dell'immobile rischia di incappare nelle pesanti sanzioni previste dal dlgs n. 192/2005. Anche per questo motivo è stato previsto come obbligatorio che il soggetto incaricato di redigere l'attestato abbia effettuato almeno un sopralluogo presso l'immobile interessato.
I chiarimenti sul decreto 26.06.2015, c.d. decreto requisiti minimi. Il primo dei due decreti emanati dal ministero dello sviluppo economico nel 2015, di concerto con i ministeri dell'ambiente e delle infrastrutture, ha riguardato le modalità di applicazione della metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche degli edifici, ivi incluso l'utilizzo delle fonti rinnovabili, nonché le prescrizioni e i requisiti minimi in materia di prestazioni energetiche.
Le faq individuate dal ministero ed elaborate unitamente all'Enea e al Cti riguardano numerosi e specifici aspetti tecnici (si veda la relativa tabella). Viene per esempio affrontato il tema della regolamentazione della modifica della destinazione d'uso dell'immobile.
Premesso che il dm e i suoi allegati prevedono che la classificazione dell'edificio avvenga in base alla sua destinazione d'uso, viene chiarito che qualora la modifica avvenga senza interventi che ricadano nelle casistiche del decreto ministeriale non vi sono requisiti da rispettare, laddove invece andranno osservati i requisiti previsti, a seconda del livello di intervento messo in campo, nel caso opposto in cui quest'ultimo comporti una nuova destinazione d'uso che ricada nelle casistiche regolamentari.
Si fa poi notare che, ove il cambio di destinazione d'uso avvenga contestualmente all'annessione a un'unità immobiliare esistente, tale situazione si configuri come ampliamento di quest'ultima e comporti quindi il rispetto dei relativi requisiti, a seconda del tipo di ampliamento.
Viene poi chiarito cosa si intenda per ristrutturazione di un impianto termico che, secondo il dlgs n. 192/2005, costituisce un insieme di opere che comportano la modifica sostanziale sia dei sistemi di produzione che dei sistemi di distribuzione ed emissione del calore. Rientrano in questa categoria anche la trasformazione di un impianto termico da centralizzato a impianti termici individuali, nonché la risistemazione impiantistica nelle singole unità immobiliari o in alcune parti dell'edificio, in caso di installazione di un impianto termico individuale previo distacco dall'impianto termico centralizzato.
Per modifica sostanziale di un impianto termico si intende sia la sostituzione contemporanea di tutti i sottosistemi (generazione, distribuzione ed emissione) sia la sostituzione combinata della tipologia del sottosistema di generazione, anche con eventuale cambio di vettore energetico, e dei sottosistemi di distribuzione e/o emissione.
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Attestati, diritto di privacy salvo.
Attestati di prestazione energetica a prova di privacy. I certificatori comunicheranno al catasto regionale tutti i propri dati personali, ivi compresi il proprio numero di telefono e il proprio indirizzo email, ma questi ultimi saranno riportati sull'Ape soltanto nel caso in cui lo stesso abbia fornito il proprio consenso al trattamento dei dati. Questo uno dei chiarimenti contenuti nelle risposte alle faq elaborate dal ministero dello sviluppo economico in relazione al c.d. decreto linee guida Ape, il secondo dei regolamenti licenziati dal dicastero la scorsa estate.
Un'altra indicazione di tipo operativo relativamente alla compilazione del format Ape riguarda poi il campo «sopralluogo», nel quale si potrebbe scegliere fra un sì e un no, facendo quindi sorgere il dubbio che il sopralluogo del certificatore presso l'immobile da certificare possa essere soltanto eventuale. In realtà, come già detto, la verifica diretta dell'unità immobiliare per la quale si deve compilare l'attestato è stata prevista come obbligatoria dal decreto ministeriale. Di conseguenza, come indicato nella risposta alla relativa faq elaborata dal ministero, nel campo in questione dovrà essere semplicemente riportata la data del sopralluogo, senza alcuna possibilità di fare a meno del predetto accesso all'immobile.
Per la compilazione dei campi sulle efficienze medie stagionali degli impianti si deve avere cura di indicare il rapporto tra il fabbisogno di energia termica utile per quel servizio dell'edificio reale e il corrispondente fabbisogno di energia primaria totale. Come potenza dell'impianto nel caso di illuminazione occorre invece indicare la somma delle potenze per l'illuminazione interna degli ambienti, mentre per la potenza dell'impianto nel caso di ventilazione meccanica bisogna fare riferimento alla potenza totale espressa dai ventilatori presenti nell'immobile.
Per la compilazione del campo «comune» occorre utilizzare l'apposito menù a tendina presente nel software di redazione dell'attestato, il quale comprende l'elenco dei comuni italiani secondo l'ultima rilevazione Istat. I campi «codice identificativo» e «data» dell'Ape vengono redatti direttamente dal sistema informativo regionale. L'attestato ufficiale dovrebbe infatti essere stampato dal sistema informativo regionale. In tale modo non ci può essere disallineamento tra l'Ape depositato e quello consegnato al committente. Tuttavia, per quelle regioni che non hanno istituito un proprio catasto energetico, il codice identificativo e la data dell'attestato andranno ancora compilate a cura del certificatore.
Quanto al dubbio se sia possibile inserire più motivazioni contemporaneamente nel medesimo Ape, nelle faq si legge che la motivazione da scegliere a cura del certificatore tra quelle indicate alternativamente dal modello ufficiale è quella che risulta essere determinante nel momento in cui viene redatto l'attestato. È tuttavia possibile, oltre alla motivazione indicata, inserire un'ulteriore motivazione alla voce «altro».
Si precisa infatti che, poiché un Ape ha validità di dieci anni, successivamente lo stesso potrà essere utilizzato per altri scopi. Per esempio, un attestato redatto per una nuova costruzione riporterà come selezionata la voce «nuova costruzione» nelle motivazioni. Ma lo stesso Ape potrebbe essere utilizzato negli anni successivi per rimettere in vendita o in affitto lo stesso immobile (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

SICUREZZA LAVOROPiù tutele sui campi elettromagnetici.
Salute e sicurezza. Recepita una direttiva europea che incrementa la protezione per i lavoratori
L’Italia si adegua all’Europa ed emana più rigorose disposizioni a protezione dei lavoratori esposti ai campi elettromagnetici.
Il decreto legislativo 159/2016, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 18 agosto e in vigore dal prossimo 2 settembre, recepisce la direttiva 2013/35/Ue con l’obiettivo di garantire una maggiore protezione dei lavoratori, durante le loro attività professionali, dai campi elettromagnetici nocivi, per quanto tale esposizione sia un rischio complesso e interessi trasversalmente una molteplicità di attività.
Infatti i campi elettromagnetici possono riguardare, per esempio, le motrici ferroviarie, le industrie elettroniche, l’incollaggio del legno e dei manufatti di plastica, il trattamento dei materiali metallici, le apparecchiature biomediche presso le strutture sanitarie (magnetoterapia, marconiterapia radarterapia, elettrobisturi, tomografia, risonanza magnetica), i varchi magnetici per il controllo degli accessi e i metal detector e altro ancora.
Il decreto legislativo sostituisce interamente il Capo IV del Titolo VIII (che tratta delle protezioni da agenti fisici) del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), nonché il corrispondente allegato XXXVI.
Le sostanziali novità riguardano: l’indicazione delle grandezze fisiche contenute nel citato allegato, l’obbligo del datore di lavoro di assicurare che l’esposizione degli addetti ai campi elettromagnetici non superi i valori indicati nell’allegato, l’obbligo di adottare specifiche misure al fine di normalizzare la situazione, qualora uno dei valori sia superato. Verificandosi tale ultima circostanza, il datore di lavoro ha altresì l’obbligo di darne comunicazione all’organo di vigilanza competente, mediante una specifica relazione tecnica-protezionistica.
Ulteriori novità riguardano la procedura di valutazione dei rischi. In particolare, il datore di lavoro ha l’obbligo di misurare e calcolare i livelli dei campi elettromagnetici tenendo conto anche delle linee guida, delle buone prassi e delle informazioni emanate da specifici enti del settore, nonché dagli stessi fabbricanti e distributori delle attrezzature comportanti il rischio in questione.
Viene altresì stabilito l’obbligo, da parte del datore di lavoro, di prestare particolare attenzione, sempre nell’ambito della valutazione dei rischi, alla frequenza, al livello, alla durata e al tipo di esposizione, inclusa la distribuzione sul corpo del lavoratore e al volume del luogo di lavoro, tenendo anche conto delle misure riferite a specifici gruppi di dipendenti (per esempio chi porta dispositivi medici). Sono previsti, inoltre, una apposita segnaletica e l’uso di specifici dispositivi di protezione individuale.
In relazione al risultato della valutazione dei rischi il datore di lavoro dovrà informare e formare i dipendenti sui pericoli propri dei campi elettromagnetici. Valutazione e misure di prevenzione saranno aggiornate nel caso in cui il lavoratore riferisca la comparsa di sintomi transitori.
Con un apposito decreto ministeriale, da emanarsi entro 120 giorni dall’entrata in vigore del decreto, potrà essere prevista la facoltà, per il datore di lavoro, di derogare, in presenza di motivate circostanze, al rispetto dei valori limite di esposizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Controlli stradali seriali al buio. Mancano strumenti omologati per assicurazioni e revisioni. La prefettura di Bergamo: la presenza degli agenti è imprescindibile per fermare i trasgressori.
Non si possono ancora attivare i controlli seriali della mancata copertura assicurativa dei veicoli e della revisione perché mancano gli strumenti omologati. Quindi la presenza degli agenti resta necessaria per fermare i trasgressori. Ma per chi passa davanti alla pattuglia la speranza di farla franca diventa sempre più remota.
Lo ha ribadito la Prefettura di Bergamo con la circolare 12.08.2016 n. 42744 di prot. (Oggetto: violazioni a norme del C.d.S. - Modifiche normative).
Tra le numerose ipotesi previste dal codice stradale circa il controllo automatico della circolazione l'art. 201, comma 1-bis prevede ora espressamente anche la violazione degli articoli 80 e 193 cds. Ovvero la mancata revisione periodica e la mancata copertura assicurativa dei veicoli. Ma solo se i dispositivi, in uso alla polizia stradale, sono stati specificamente omologati per questo impiego.
Fuori dai centri abitati, inoltre, occorre anche l'autorizzazione del prefetto, specifica la nota. Attualmente nessun dispositivo risulta omologato per questo impiego quindi non si possono ancora effettuare controlli automatici. A parere del rappresentante governativo queste infrazioni dovrebbero essere contestate immediatamente dagli organi di vigilanza per evitare duplicazioni e omissioni. La violazione dell'art. 80, in particolare, impone infatti all'agente di annotare subito sul libretto la sospensione del veicolo dalla circolazione.
Ma è anche vero che le cause che legittimano la mancata contestazione immediata sono tante. Se la pattuglia infatti è impegnata con un trasgressore e il sistema evidenzia il passaggio di un altro veicolo non regolare la multa dovrà per forza essere spedita per posta. Stesso discorso nel caso di un accertamento effettuato su un veicolo in sosta, senza la presenza del conducente al momento del controllo.
Oppure nell'ipotesi molto diffusa di un agente che presidia il traffico a fianco di uno strumento elettronico che non è in grado di fornire una risposta così tempestiva da agevolare il fermo immediato del veicolo nei tempi e modi regolamentari. Ovvero senza creare ulteriore pericolo alla circolazione già sufficientemente messa in discussione dagli automobilisti senza assicurazione o con la revisione scaduta (articolo ItaliaOggi del 20.08.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Cartelle, i benefici fanno il bis. Da oggi 60 giorni per le istanze di pagamento agevolato. Approda in Gazzetta Ufficiale n. 194 la legge 160/2016 di conversione del dl enti locali.
Scattano da oggi i 60 giorni per la presentazione delle istanze di riammissione ai piani di pagamento agevolato delle cartelle di Equitalia e degli accertamenti delle Entrate.
A far scattare il count-down sarà la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di oggi della legge di conversione del dl 113/2016 «enti locali» (legge 7 agosto n. 160, G.U. del 20/08/2016 n. 194). I contribuenti decaduti avranno due mesi di tempo per presentare un'apposita richiesta di riammissione al beneficio.
In realtà il provvedimento era stato varato principalmente per dare una mano a sindaci, presidenti di provincia e governatori, ma si è successivamente arricchito di molti contenuti estranei a tale finalità originaria. Oltre a Equitalia, spiccano il rinnovo delle concessioni balneari e gli indennizzi alle vittime dello scontro ferroviario di Andria-Corato.
Per quanto concerne gli enti locali, di particolare rilevanza sono le misure per alleggerire i limiti al turnover nei municipi. A beneficiare dell'allentamento sono, innanzitutto, i comuni medio-piccoli: fino alla soglia dei 10.000 abitanti, gli enti che nell'anno precedente hanno registrato un rapporto dipendenti-popolazione inferiore a quello individuato per gli enti in dissesto potranno assumere fino al 75% (a fronte del 25% fissato dall'ultima legge di Stabilità) della spesa dei cessati nell'anno precedente. Resta fermo il limite del 100% per gli enti che fino allo scorso anno erano esenti dal Patto, per le unioni e per i comuni istituiti mediante fusione.
A questi ultimi, inoltre, spettano le deroghe alle limitazioni assunzionali per i primi cinque anni dalla fusione introdotte dalla legge di stabilità 2015 anche se presentano un rapporto tra spesa di personale e spesa corrente superiore al 30%.
In secondo luogo, il decreto convertito cancella l'obbligo di contenere l'incidenza delle spese di personale sulle spese correnti entro la media fatta registrare dal medesimo rapporto nel triennio 2011-2013. In tal modo, viene meno il divieto di assumere per molti comuni al di sopra dei 1.000 abitanti che, a causa della forte riduzione delle spese correnti causata dalle ripetute ondate di spending review, si trovavano nell'impossibilità di rispettare il parametro.
Da notare che, secondo l'Anci, la rimozione della sanzione ha effetto retroattivo e quindi vale anche per le amministrazioni che sono andate fuori carreggiata nel 2015, quando la norma abrogata era in vigore. Infine, vengono riattivate le procedure di mobilità volontaria per i comuni e le città metropolitane situati nelle regioni ove sia stato ricollocato almeno il 90% del personale soprannumerario delle province.
Tale previsione si collega a quella inserita nella legge di Stabilità 2016, che dispone il ripristino delle ordinarie facoltà di assunzione negli enti territoriali situati nelle regioni nelle quali si è completata la ricollocazione degli ex provinciali. Al momento, sono quattro le regioni in questa situazione (Veneto, Emilia-Romagna, Lazio e Marche. Più ad ampio raggio, invece, lo sblocco per il personale della polizia municipale, che interessa Basilicata, Marche, Emilia Romagna, Lazio, Molise, Piemonte, Puglia e Veneto).
Tornando al decreto, esso contiene anche numerose altre misure di interesse per gli enti locali (si veda tabella in pagina). Fra queste, spicca il condono parziale delle sanzioni per la violazione del Patto 2015. In aggiunta alla cancellazione delle penalità economiche già previsto per gli enti di area vasta, è stato introdotto uno sconto anche a favore dei comuni, che subiranno un taglio pari al 30% (anziché al 100%) dello sforamento.
La medesima penalità verrà ridotta di un importo pari alla spesa per edilizia scolastica sostenuta negli scorsi 12 mesi, purché non già oggetto di altre fattispecie di esclusione, sulla base dei dati che i comuni interessati dovranno comunicare alla Ragioneria generale dello Stato entro i prossimi 30 giorni.
È stato anche stanziato un contributo statale (per complessivi 14 milioni per il 2016 e 48 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018) al fine di consentire l'erogazione di contributi per l'estinzione anticipata, totale o parziale, di mutui e prestiti obbligazionari da parte dei comuni. Le richieste vanno trasmesse per quest'anno entro il 31 ottobre e dal prossimo entro il 31 marzo.
Qualche buona notizia anche per le province, che per il 2016 spuntano un bonus da 48 milioni per il finanziamento delle proprie funzioni fondamentali. Altri 100 milioni in precedenza assegnati all'Anas vengono dirottati nelle casse provinciali per l'attività di manutenzione straordinaria della relativa rete viaria. Siccome tali somme non basteranno a risolvere la ormai cronica crisi finanziaria delle amministrazioni provinciali, il decreto estende loro le norme a favore degli enti in crisi finanziaria (articolo ItaliaOggi del 20.08.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIASocietà agricole fatte in 60 giorni. Gli scarti vegetali esclusi dal regime dei rifiuti generici. Il collegato agricolo in Gazzetta taglia i tempi di costituzione delle imprese e facilita i consorzi.
Riduzione dei tempi (da 180 a 60 giorni) per aprire una società agricola. Con il taglio dei termini del silenzio assenso entro i quali l'amministrazione pubblica deve adottare il provvedimento finale dal ricevimento della richiesta presentata dal centro di assistenza agricola (Caa). Spazio alla formazione aziendale per favorire l'ingresso dei giovani alla guida delle imprese. Meno burocrazia nella produzione dell'olio con l'eliminazione del fascicolo aziendale per i produttori la cui produzione è inferiore ai 350 kg.
Queste alcune delle novità contenute nelle legge 28.07.2016 n. 154 (cosiddetto collegato in agricoltura pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 10.08.2016 n. 186; si veda da ultimo ItaliaOggi dell'11 e del 17 agosto scorso) con il quale sono state dettate le disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione e competitività dei settori agricolo e agroalimentare, nonché sanzioni in materia di pesca illegale.
Esclusione dei rifiuti vegetali dal regime rifiuti. Dal 25 agosto i rifiuti vegetali sono esclusi dal regime dei rifiuti. Sono esclusi infatti dalla disciplina dei rifiuti la paglia, gli sfalci e le potature, nonché ogni altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso destinati alle normali pratiche agricole e zootecniche o utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana. Viene istituita, presso Imea, la banca delle terre agricole con l'obiettivo di creare un inventario dei terreni agricoli disponibili a causa dell'abbandono dell'attività agricola e di prepensionamenti.
Ricambio generazionale. Al fine di favorire processi di affiancamento economico e gestionale nell'attività d'impresa agricola nonché lo sviluppo dell'imprenditoria giovanile in agricoltura, il governo è delegato a adottare, nel rispetto della normativa europea in materia di aiuti di stato, un decreto legislativo per la disciplina delle forme di affiancamento tra agricoltori ultra sessantacinquenni o pensionati e giovani, non proprietari di terreni agricoli, di età compresa tra i diciotto e i quarant'anni, anche organizzati in forma associata, allo scopo del graduale passaggio della gestione dell'attività d'impresa agricola ai giovani.
Birra artigianale, pomodoro e riso. Per la prima volta nell'ordinamento italiano viene introdotta la definizione di birra artigianale come «birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e di microfiltrazione». La norma prevede anche l'obiettivo di favorire lo sviluppo della filiera del luppolo in Italia.
Per tutelare e promuovere la qualità delle produzioni di pomodori vengono previste disposizioni specifiche sulla definizione dei prodotti derivati dalla trasformazione del pomodoro, sui relativi requisiti, sull'etichettatura e sul confezionamento, nonché sulle sanzioni.
Sostegno del settore del riso attraverso la tutela delle varietà tipiche italiane e sostegno al miglioramento genetico delle nuove; valorizzazione della produzione come espressione del valore culturale paesaggistico e ambientale di un territorio; tutela del consumatore; istituzione di un registro per la classificazione delle nuove varietà; disciplina dell'apparato sanzionatorio e individuazione dell'autorità competente in materia.
Vengono promossi sistemi volontari di tracciabilità del riso attraverso strumenti innovativi che possano dare maggiori informazioni ai consumatori sull'origine del prodotto (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).

SICUREZZA LAVOROPiù sicurezza per i campi magnetici. Dlgs in g.u..
Più sicurezza per chi opera a stretto contatto con campi elettromagnetici, per esempio nel settore sanitario o militare.

Queste le novità del dlgs n. 159 del 01.08.2016, di recepimento della direttiva 2013/35/Ue (si veda ItaliaOggi del 29/07/2016), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 192 del 18/08/2016.
Disciplina che andrà a modificare il Testo unico sulla sicurezza, il dlgs 81/2008, per fornire prescrizioni minime di sicurezza e salute. Nessuna incidenza invece per le attività informatiche.
La relazione tecnica del decreto, infatti, al fine di escludere maggiori oneri per la p.a., rilevava in sede di approvazione che le comuni attività non comportano rischi di esposizione.
Ciò in quanto le attrezzature elettriche ed elettroniche più utilizzate nel lavoro d'ufficio quali pc, stampanti, attrezzature informatiche, centri di calcolo, sistemi wi-fi, metal detector, lettori magnetici ecc., risultano conformi ai requisiti di protezione della direttiva 2013/35/Ue sulla base delle norme del mercato interno Ue e della marcatura Ce (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIADal 27 agosto via alle domande per gli incentivi al riciclo dei Raee. In Gazzetta il decreto del ministero dell'ambiente. Interessati privati ed enti pubblici.
Dal 27 agosto è possibile richiedere al ministero dell'ambiente gli incentivi per promuovere lo sviluppo di nuove tecnologie per il trattamento e il riciclaggio dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (cosiddetto Raee). Possono partecipare all'accesso ai contributi i soggetti pubblici e privati, singoli o associati, operanti nella filiera di gestione dei Raee e istituti universitari e di ricerca.

È con il decreto del 25.07.2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12.08.2016 n. 188) che vengono disciplinate dal ministero dell'ambiente le misure volte a promuovere lo sviluppo di nuove tecnologie per il trattamento e il riciclaggio dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Con avviso pubblico vengono definiti i criteri, le modalità, le procedure per l'accesso ai contributi economici e le risorse stanziate annualmente dalla direzione generale per i rifiuti e l'inquinamento del ministero dell'ambiente. I contributi economici sono definiti nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio del ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e attribuiti previo avviso pubblico con cadenza annuale.
Alla procedura di selezione degli interventi provvede la direzione generale per i rifiuti e l'inquinamento del ministero dell'ambiente. Gli interventi per i quali è possibile richiedere i contributi economici sono finalizzati alla massimizzazione della quantità di materia recuperabile o riciclabile in uscita dagli impianti di recupero, riciclaggio e trattamento dei Raee, all'ottimizzazione del consumo energetico dei processi di recupero, riciclaggio e trattamento dei Raee, alla riduzione dei tempi e del numero delle fasi dei processi di recupero, riciclaggio e trattamento dei Raee e alla riduzione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Gli interventi di recupero, riciclaggio e trattamento devono comportare un effettivo incremento del livello tecnologico degli impianti rispetto alle migliori pratiche disponibili allo stato dell'arte del settore. Tali impianti devono essere sono conformi alle disposizioni di cui all'art. 18 del decreto legislativo n. 49 del 2014. Tra gli interventi non sono contemplate le innovazioni tecnologiche riguardanti le attività preliminari al recupero, tra cui la cernita e il deposito (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).

APPALTIIn arrivo l’Albo delle stazioni appaltanti. Il ministero accelera sulla fase attuativa Cantone vara le linee-guida.
Dieci decreti per dare il via alla fase due della riforma degli appalti.
Ruota attorno a questi numeri il lavoro che, in queste settimane estive, gli uffici tecnici del ministero delle Infrastrutture stanno conducendo, con l’obiettivo di piazzare una robusta accelerazione nella tabella di marcia del Dlgs 50/2016.
Lo sprint è iniziato a luglio, quando il Mit ha iniziato a chiudere le prime bozze. Da allora è scattato il valzer dei pareri, dei concerti degli altri dicasteri, degli invii al Consiglio di Stato o alla Conferenza Stato-Regioni, a seconda delle diverse procedure. La sostanza, tecnicalità a parte, è che il ministero sta per assestare una riforma diluita in diverse puntate, ma dall’impatto comunque notevole.
Idealmente, il Mit ha raccolto il testimone dell’attuazione dall’Anac che, dopo avere varato le sue prime sette linee guida, ha optato per una pausa di riflessione: i tre provvedimenti che restano da approvare, già passati dalla consultazione (Ppp, motivi di esclusione e rating di impresa), arriveranno al traguardo dopo la pausa estiva.
Il dicastero di Porta Pia, guardando ai compiti che gli attribuisce il codice, ha invece già mandato in Gazzetta, a fine luglio, il nuovo decreto sui parametri da porre a base delle gare di progettazione: servirà a definire i compensi per tutti i servizi di ingegneria affidati con una procedura pubblica. E non sarà l’ultimo provvedimento dedicato a questo tema.
La novità pesante di questa fase due della riforma è però la qualificazione delle stazioni appaltanti. Un provvedimento molto atteso dalle amministrazioni e su cui si gioca la possibilità degli enti di poter continuare a gestire in autonomia i propri acquisti. L’iscrizione all’albo sarà necessaria per gestire i lavori di importo superiore a 150mila euro e forniture e servizi oltre i 40mila euro. Il sistema sarà articolato in quattro livelli sulla base del valore degli appalti che le Pa potranno gestire in base al grado di competenza e organizzazione dimostrata. Il primo gradino (il “livello minimo”) permetterà di gestire gare di manutenzione fino a un massimo di un milione di euro. All’ultimo piano (il “livello alto”) si attesteranno le stazioni appaltanti di maggiori dimensioni in grado di seguire interventi superiori ai 20 milioni.
Oltre ai requisiti di organico - con personale tecnico dedicato, in possesso di laurea e abilitazione - le stazioni appaltanti dovranno dimostrare il possesso di diversi altri requisiti per accedere al sistema. Tra questi la formazione obbligatoria del personale per un minimo di 30 ore annuali. Ma saranno valutati anche il grado di soccombenza nei contenziosi, il rispetto dei tempi di pagamento e di esecuzione delle opere oltre che l’eventuale aumento dei costi: la percentuale di scostamento tra il prezzo finale e il valore fissato al momento dell’aggiudicazione della gara non potrà superare il 30 per cento. Una volta ottenuta, la qualificazione durerà cinque anni. Ma il nuovo sistema non entrerà in vigore da subito. Per rendere operativo l’albo serve infatti un provvedimento attuativo dell’Autorità anticorruzione, che poi gestirà materialmente l’inter sistema.
Si è invece insediata a fine luglio la commissione del ministero che lavorerà all’introduzione del Bim (Building information modeling): si tratta di una particolare modalità di progettazione che consente, tramite l’ausilio di software, di anticipare già in fase di redazione degli elaborati tutto lo sviluppo dell’opera in cantiere, calcolando ogni dettaglio dei lavori, come le quantità di materiali o i loro prezzi. La commissione è presieduta da Pietro Baratono, provveditore per la Lombardia e l’Emilia-Romagna, e ha il compito di definire una “road map” che porti all’utilizzo di questo strumento su larga scala nelle stazioni appaltanti italiane.
A completare il pacchetto dedicato a questo tema arriveranno, poi, il decreto sui tre livelli di progettazione e quello sui requisiti per l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria. In questo provvedimento, in particolare, sarà finalmente sciolto il nodo del contributo integrativo delle società di ingegneria: una partita che, per il solo bilancio di Inarcassa, vale circa 50 milioni di euro all’anno.
In base a una formulazione infelice del codice appalti, infatti, questa parte della contribuzione rischiava di saltare. Così, l’articolo 9 del nuovo decreto dedica un passaggio alla regolarità contributiva. E spiega che alle società tra professionisti e alle società di ingegneria «si applica il contributo integrativo qualora previsto dalle norme legislative che regolano la cassa di previdenza di categoria cui ciascun firmatario del progetto fa riferimento in forza della iscrizione obbligatoria al relativo albo professionale».
Del pacchetto di provvedimenti necessari a far entrare nel vivo la fase di attuazione della riforma fanno parte anche la circolare sul Documento di gara unico europeo (vedi articolo in basso) e il decreto destinato a chiarire i confini in cui potranno muoversi in cantiere le imprese abilitate a eseguire le opere super-specialistiche.
A chiudere il cerchio, infine, arriverà la costituzione della cabina di regia, la struttura che sarà istituita presso Palazzo Chigi e che servirà, di fatto, ad equilibrare le competenze dell’Autorità anticorruzione, coinvolgendo anche la Presidenza del Consiglio nella regolazione dei contratti pubblici. A guidarla sarà il capo dell’ufficio legislativo della Palazzo Chigi, Antonella Manzione, mentre Elisa Grande, capo del legislativo del Mit, le farà da vice.
Alla “cabina” sarà affidata, soprattutto, una competenza chiave: il monitoraggio della situazione del mercato, per individuare su quali passaggi sono necessarie correzioni e modifiche, in vista del correttivo del 2017.
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I LIVELLI DI PROGETTAZIONE. Nel progetto di fattibilità tutte le indagini, anche ambientali.
Tutte le indagini sulle opere pubbliche passano dal definitivo alla fattibilità. Analisi sismiche, topografiche, urbanistiche, storiche, geologiche, geognostiche andranno realizzate nel quadro del primo livello di progettazione. Insomma, finisce l’era dei preliminari di poche pagine, regolarmente smentiti dagli elaborati successivi.
Il ministero delle Infrastrutture, acquisito il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, ha completato il lavoro tecnico sul decreto in materia di livelli di progettazione regolato dal Codice appalti. Dopo una gestazione rapidissima il testo, composto da 36 articoli, si avvia a grandi passi verso l’ok finale. Manca solo il disco verde dei Beni culturali e dell’Ambiente, che devono dare il loro concerto.
Il decreto è previsto dall’articolo 23 del Dlgs 50/2016 e, almeno in una prima versione, è appena stato completato dal Mit. Nei 36 articoli del Dm viene definito un sistema che si articolerà su tre livelli: progetto di fattibilità tecnica ed economica, progetto definitivo e progetto esecutivo. L’innovazione più grande sarà costituita dal primo livello, che sostituirà il preliminare e che sarà rafforzato in modo consistente: l’idea è mettere a disposizione di stazioni appaltanti e imprese un dato tecnico ed economico che resti fisso e non venga modificato nelle fasi successive.
Quindi, il progetto di fattibilità, secondo quanto spiega l’articolo 6 del provvedimento, sarà «finalizzato a definire gli obiettivi e le caratteristiche dell’intervento da realizzare, attraverso l’individuazione e l’analisi di tutte le possibili soluzioni progettuali alternative». Questo vuol dire che questo progetto sarà più ricco del vecchio preliminare e conterrà una serie di indagini che venivano solo accennate in passato.
Spiega, ancora, il decreto: «Il progetto di fattibilità tecnica ed economica è redatto sulla base dell’avvenuto svolgimento di rilievi topografici, di indagini geologiche, idrologiche, idrauliche, geotecniche, sismiche, finalizzate alla progettazione dell’intervento, di indagini trasportistiche ove necessarie», nonché «della verifica preventiva dell’interesse archeologico e dello studio preliminare ambientale».
Questa revisione del primo livello porta, a cascata, conseguenze sui due livelli successivi. Soprattutto, sarà il progetto definitivo ad essere rivisto in maniera più sostanziosa. Il perimetro del secondo livello, cioè, risulterà complessivamente più ridotto, dal momento che una parte della progettazione transiterà sul primo. Il terzo livello di progettazione, invece, terrà conto della «manutenzione dell’opera e delle sue parti, in relazione al ciclo di vita dell’opera stessa».
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LA COMPILAZIONE DEL DGUE. Dichiarazioni semplificate nel nuovo Documento di gara.
Il modello di formulario allegato al comunicato del Mit del 22.07.2016, con le linee guida necessarie a supportare le stazioni appaltanti e, soprattutto, gli operatori economici nella compilazione del Documento di gara unico europeo (Dgue), contiene importanti indicazioni per il superamento delle incertezze derivanti dal non perfetto allineamento tra il modello standard europeo con l’ordinamento nazionale, anche alla luce del nuovo codice appalti.
Le modifiche e le integrazioni indicate dal Mit si concentrano, in particolare, nella parte III del documento, quella dedicata alle cause di esclusione e alle relative dichiarazioni. Tra queste, sicuramente significativa è la specificazione del contenuto delle dichiarazioni che l’operatore economico dovrà rendere, nel caso in cui i soggetti indicati dal comma 3 dell’articolo 80 (a seconda del tipo di operatore economico interessato), siano incorsi in una sentenza definitiva di condanna (o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o applicazione della pena su richiesta) per uno dei reati indicati al comma 1 del medesimo articolo 80.
Con il Dgue viene definitivamente superata la logica per cui erano i soggetti elencati dalla norma a dover rendere personalmente le dichiarazioni in ordine alla mancata sussistenza di condanne a loro carico, problematica che si era posta in passato soprattutto per i soggetti ormai cessati dalla carica che, dunque, non avrebbero avuto alcun interesse a collaborare con l’operatore economico, per consentirgli di partecipazione alla gara. Il Dgue approvato dalla Commissione europea non conteneva alcun campo, nella parte terza, che fosse specificamente relazionato con gli oneri dichiarativi relativi ai soggetti sensibili e a quelli cessati, sicché era sorto il dubbio in ordine a chi e con quali modalità dovesse rendere le dichiarazioni.
Nel nuovo Dgue targato Mit appare chiaro che deve essere l’operatore economico a dichiarare se i soggetti “sensibili” -cioè quelli indicati dal comma terzo dell’articolo 80– abbiano o meno riportato condanne nel periodo rilevante (o nel quinquennio antecedente, a meno che la condanna non avesse previsto un periodo di esclusione maggiore), specificando i dati identificativi delle persone condannate e le misure di self-cleaning adottate.
Al punto 5 della sezione A della parte III del modello di Dgue allegato alle linee guida, viene richiesto all’operatore economico di specificare, nel caso in cui le pronunce abbiano riguardato soggetti cessati, le misure adottate che dimostrino la completa ed effettiva dissociazione dalla condotta tenuta, mentre nessun cenno viene fatto all’obbligo di acquisizione della dichiarazione personale degli interessati.
Un passo in più sulla via della semplificazione che, comunque, resta ancora decisamente lunga da percorrere.
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PROJECT FINANCING. Lavori finanziati dai privati in gara se c’è un aiuto della Pa.
Anche le opere pubbliche completamente pagate dai privati non possono evitare le gare, se il privato che si propone di eseguire l’intervento a sue spese riceve un qualunque “aiuto” dalla Pa.
È questo il principio con cui il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, prova a circoscrive gli effetti di una delle tante innovazioni nascoste tra le pieghe del nuovo Codice appalti. In ballo ci sono i lavori finanziati dai privati, disciplinati in modo a dire il vero piuttosto generico, dall’articolo 20 del Dlgs 50/2016.
Il punto è la possibilità di aggirare le gare, assegnando la realizzazione degli appalti senza applicare le procedure formali previste dal Codice, a fronte del pagamento delle spese da parte dei privati. L’occasione per dettare gli indirizzi di applicazione della norma -quasi una linea guida sull’attuazione di questo nuovo istituto- è offerta all’Anac da un parere richiesto dalla Regione Lombardia. In ballo c’è la realizzazione della cosiddetta «Cessanese-bis», vale a dire la viabilità speciale di Segrate, in appoggio alla realizzazione di un nuovo centro commerciale di 99mila mq (15mila per il settore alimentare e il resto non alimentare).
Un progetto in ballo da anni per un’opera dal valore complessivo di circa 160 milioni. Westfield Milan Spa, promotore del nuovo centro commerciale, propone di realizzarla a spese proprie (esclusi 20 milioni per i costi di acquisto delle aree), a fronte dell’autorizzazione ad aprire lo shopping center. La strada sarebbe proprio quella offerta dall’articolo 20 del nuovo Codice. La Regione Lombardia chiede se è davvero percorribile.
Con il parere arriva l’alt di Cantone. Per il presidente dell’Anticorruzione non c’è spazio per evitare le gare, se il privato che realizza le opere ottiene dall’amministrazione una qualunque forma di controprestazione: non solo un prezzo, ma anche un’altra forma di corsia preferenziale, incluse le autorizzazioni. In questo caso, infatti, si rientra in un contratto che prevede l’applicazione del Codice.
«L’istituto contemplato dall’articolo 20 del Codice -si legge nel parere messo nero su bianco nella delibera 763- non può trovare applicazione nel caso in cui la convenzione stipulata tra amministrazione e privato abbia ad oggetto la realizzazione di opere pubbliche da parte di quest’ultimo, in cambio del riconoscimento in suo favore di una utilità, con conseguente carattere oneroso della convenzione stessa».
Il carattere oneroso della convenzione, chiarisce il documento, «deve ritenersi sussistere in qualunque caso in cui, a fronte di una prestazione, vi sia il riconoscimento di un corrispettivo che può essere, a titolo esemplificativo, in denaro, ovvero nel riconoscimento del diritto di sfruttamento dell’opera (concessione), o ancora mediante la cessione in proprietà o in godimento di beni. In tal caso la convenzione ha natura contrattuale». La conseguenza è l’obbligo di gara. «Simili fattispecie -specifica infatti il parere- sono da ricondurre nella categoria dell’appalto pubblico di lavori, da ciò derivando, come necessario corollario, il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica previste nel Codice».
Il parere contiene altri chiarimenti importanti sull’applicazione dell’articolo 20. Il primo è che il nuovo istituto non può avere efficacia retroattiva, ma può «trovare applicazione esclusivamente alle convenzioni stipulate successivamente all’entrata in vigore del Codice stesso». Il secondo chiarimento riguarda l’obbligo, per l’operatore privato che ottiene l’ok, a realizzare le opere senza gara «di affidare i lavori a terzi».
Il terzo punto riguarda i requisiti che le imprese impegnate in cantiere devono dimostrare. Anche se la norma tace sul punto specifico, per Cantone «il soggetto esecutore dell’opera “pubblica”» deve comunque essere «in possesso di adeguati requisiti di qualificazione, quale principio di carattere generale, sancito nell’articolo 84 del Dlgs 50/2016, ai sensi del quale i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici devono essere in possesso di adeguata qualificazione».
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L’APPROFONDIMENTO. Project financing, regole più severe.
Le norme del nuovo Codice appalti in materia di concessioni e Ppp (Partenariato pubblico privato) rivelano un obiettivo chiaro: evitare, come spesso accaduto in Italia negli ultimi dieci anni, che vengano lanciati progetti di opere pubbliche in project financing poco studiati, poco trasparenti e nel lungo periodo svantaggiosi per la Pa.
In parte si tratta di una severità derivante dalla direttiva europea 2014/23/Ue sulle concessioni: in particolare l’obbligo di trasferimento al privato del rischio operativo, e cioè, il fatto che nel contratto non ci siano clausole o garanzie che proteggano il concessionario dal rischio effettivo di non recuperare gli investimenti effettuati, o i costi sostenuti per la gestione, vuoi perché gli introiti da mercato sono meno del previsto (rischio legato alla domanda), vuoi perché la qualità della gestione non rispetta i parametri concordati (rischio legato all’offerta).
Nel nuovo Codice (articoli 164-191) ci sono poi una serie di vincoli aggiuntivi: un tetto massimo per i contributi pubblici, fissato al 30% dell’investimento (era al 50% nella legge Merloni 1994, tetto poi eliminato dal 2002); limiti alla cessione in permuta di beni pubblici (con retromarcia rispetto alle norme Monti 2012 più flessibili); obbligo di fare il closing con le banche (contratto di finanziamento) entro 12 mesi dalla firma della concessione (con il vecchio Codice era «entro 24 mesi» dall’ok al progetto definitivo); revisione dell’equilibrio del Pef (piano economico-finanziario) che non è mai un diritto del concessionario, come invece era fino a ieri in caso di variazioni apportate da Pa o leggi. Per le concessioni autostradali, inoltre, il rischio da trasferire al privato deve sempre comprendere il rischio traffico.
Insomma: più chiarezza di rapporti tra Pa e privati, meno rischio di dover continuamente aggiustare i piani finanziari, meno progetti che si bloccano in corso d’opera.
«Mai più effetto bancomat nel Pf», ha più volte dichiarato il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, riferendosi a concessioni che, grazie a contratti poco chiari e una normativa poco severa, consentivano ai concessionari privati di chiedere negli anni continui aggiustamenti all’equilibrio economico, a carico delle casse pubbliche.
Alcune operazioni di project financing considerate un modello dieci anni fa, si sono poi rivelate mal concepite e fonte di continui aggiustamenti. Pensiamo alle autostrade Tem Milano e Brebemi, salvate con i finanziamenti statali rispettivamente del Dl 69/2013 e della legge di Stabilità 2015; alla Pedemontana Veneta, finanziata con il Dl 69 ma ancora una volta, oggi, sull’orlo del fallimento (a cantieri i corso) e la Pedemontana Lombarda, in situazione simile a quella veneta (e con cantieri bloccati). O all’ospedale di Mestre, che negli anni ha rivelato un canone annuale molto svantaggioso per l’azienda sanitaria, ma difficilissimo da modificare.
E pensiamo poi a molti degli ospedali lombardi in concessione, avviati come project financing e poi riclassificati nel 2014 dall’Istat (sulla base delle regole Eurostat) on balance, cioè nel debito pubblico, perché le clausole contrattuali coprivano di fatto i privati da rischi effettivi. La severità del nuovo Codice (che si riferisce solo alle nuove operazioni messe a gara dal 19.04.2016), dovrebbe dunque contribuire a modernizzare il mercato italiano del project financing, premiando solo le imprese più efficienti e innovative.
Tuttavia i nuovi vincoli, gettati a freddo su un mercato già in difficoltà e su amministrazioni non sempre pronte a gestire il nuovo ruolo di severi selettori di proposte di Pf, potrebbero produrre la paralisi. Anche perché, nonostante l’ipotesi comparisse nelle prime bozze del nuovo Codice, non è poi stata prevista nessuna struttura nazionale di supporto o di centralizzazione delle operazioni di Ppp, come ad esempio esiste nel Regno unito.
La cabina di regia di monitoraggio sul Codice, che avvierà i suoi lavori a settembre dopo il Dpcm del governo, ha tra i suoi compiti quello di promuovere accordi e convenzioni con enti e associazioni private per favorire la bancabilità dei progetti; ma non è la stessa cosa di una struttura permanente di assistenza. Applicare il concetto di rischio operativo è infatti complesso, non è solo una prescrizione giuridica, ma implica valutazioni economico-finanziarie sulla gestione dell’opera, valutazioni che nel dubbio potrebbero frenare i responsabili degli uffici gare.
In teoria giusto, poi, il tetto ai contributi pubblici (al massimo il 30% del costo dell’investimento), ma è più rigido di quello fissato da Eurostat, pari al 50%, per classificare le concessioni on balance
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARIA scuola dall’agricoltore per subentrare dopo tre anni. Collegato agricolo. L’affiancamento per le nuove leve.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale (la 186 del 10.08.2016) il «collegato agricolo». La legge 154 del 28.07.2016 entrerà in vigore il 25 agosto: esaminiamola nel dettaglio.
L’apprendistato
L’articolo 6 introduce una sorta di apprendistato innovativo per favorire il ricambio generazionale. In questo caso la norma ha il carattere di delega e rimanda a un Dlgs, da emanare entro un anno, che dovrà passare al vaglio delle commissioni parlamentari: tuttavia il nuovo istituto è già ben delineato.
L’affiancamento deve avvenire tra un agricoltore pensionato che abbia compiuto i 65 anni e un giovane di età compresa tra i 18 e 40 anni, non proprietario di terreni agricoli. Non è vietato un vincolo di parentela e l’affiancamento deve avvenire per un periodo massimo di tre anni. Le agevolazioni e gli sgravi fiscali vigenti saranno applicati prioritariamente a favore dei soggetti che intraprendono questo percorso.
Le attuali agevolazioni fiscali come l’acquisto di terreni applicando l’imposta fissa di registro ed ipotecaria, non conoscono priorità, ma solo requisiti che chiunque può possedere: il legislatore, quindi, dovrebbe introdurre nuove agevolazioni per i soggetti che intraprendono l’affiancamento in agricoltura.
Dopo l’apprendistato
La norma pensa anche alla fase successiva, per favorire il trasferimento dell’impresa agricola al giovane che abbia superato l’apprendistato. È previsto un contratto di conduzione che dovrebbe trovare la sua collocazione giuridica nell’affitto di fondo rustico (legge 203/1982) e la cessione o donazione di azienda agricola. Tali istituti sono già ben presenti nel nostro ordinamento giuridico e si tratterà di agevolarli sotto il profilo della forma e della tassazione. Il giovane dovrà presentare un progetto imprenditoriale sottoscritto anche dall’agricoltore anziano, che definisca i reciproci obblighi.
Il Dlgs dovrà stabilire le forme di compartecipazione agli utili: la fattispecie ricade nella conduzione associata (articolo 33 del Dpr 633/1972) e prevede che il reddito agrario sia imputato agli associati in base alle percentuali risultanti da un atto scritto. Al giovane agricoltore viene inoltre riconosciuto il diritto di prelazione nella vendita del terreno oggetto di conduzione nell’ambito dell’affiancamento.
La norma stabilisce, infine, la copertura infortunistica, il diritto del giovane all’utilizzo delle macchine agricole ed un ristoro per gli eventuali miglioramenti fondiari.
Prelazione agraria
L’articolo 1 della legge introduce il diritto di prelazione a favore dell’imprenditore agricolo professionale(Iap) iscritto nella previdenza agricola, relativamente ai terreni agricoli confinanti con il proprio, qualora il terreno posto in vendita non sia utilizzato da affittuari coltivatori diretti. A nostro parere, se l’affittuario coltivatore diretto del fondo rinuncia all’acquisto, il confinante Iap dovrebbe acquisire il diritto di prelazione come avviene tuttora per i confinanti coltivatori diretti.
L’Ismea
L’articolo 20 della legge prevede che l’Ismea (Ente del ministero delle Politiche agricole) effettui interventi finanziari a condizioni agevolate, o a condizioni di mercato, in società sia cooperative a mutualità prevalente, che con scopo di lucro, a condizione che siano economicamente e finanziariamente sane.
Le società partecipate devono operare nei settori della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, nonché della pesca e della acquacoltura, ovvero nell’ambito delle attività agricole connesse. L’Ismea opera soltanto come socio di minoranza, o mediante prestiti obbligazionari. Qualora l’Ente acquisisca le partecipazioni, stipula con gli altri soci un diritto di vendita ad una determinata scadenza e al prezzo di mercato. In alternativa l’Ismea può concedere mutui
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.08.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni sbloccate a partire dal 2015. Ifel: il dl 113 ha abolito il blocco con decorrenza immediata.
Gli enti locali che nel 2015 hanno sforato il limite del rapporto fra spese di personale e spese correnti possono effettuare nuove assunzioni.

Lo afferma l'Ifel, l'Istituto per la finanza locale dell'Anci, nella propria nota 05.08.2016 di commento al recente dl 113/2016. L'art. 16 del provvedimento ha abrogato la lettera a) dell'art. 1, comma 557, della legge 296/2006, che secondo la Corte dei conti (si vedano, in particolare, le deliberazioni della sezione delle autonomie nn. 16/20216 e 27/2015) imponeva agli enti già soggetti al Patto (ossia tutti quelli dai 5.000 abitanti in su) di ridurre l'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente rispetto al valore medio registrato negli anni 2011-2013.
Tale lettura ha posto numerose e rilevanti criticità: ad esempio, se negli anni benchmark si sono sostenute spese di natura eccezionale o non ricorrente e poi le uscite sono tornate al loro livello fisiologico, rispettare l'obiettivo può essere complicato.
E la stessa cosa accade se un ente decide (magari per migliorare efficacia ed efficienza) di esternalizzare un servizio prima svolto in forma diretta. In altri termini, poiché negli scorsi anni il denominatore del rapporto si è spesso ridotto più del numeratore, tale previsione rappresentava un forte ostacolo alle politiche di reclutamento, dato che chi non era in regola incappava nel divieto assoluto di assumere. Gli stessi giudici contabili avevano stigmatizzato tali distonie, ma per correggerle occorreva un intervento del legislatore, che adesso è finalmente arrivato.
Tuttavia, secondo la tesi più rigorosa (si veda ItaliaOggi del 22 luglio), l'abrogazione del parametro normativo su cui si basava la lettura restrittiva della Corte, conformemente ai principi generali, vale solo pro futuro, per cui nel 2015, a rigore, il vincolo rimarrebbe cogente. Da qui, in caso di sforamento, l'applicabilità delle sanzione prevista dal comma 557-ter mediante rinvio all'art. 76, comma 4, del decreto legge n. 112/2008, che vieta di assumere nell'anno successivo alla violazione.
Di diverso avviso l'Ifel, secondo cui il citato art. 16 «ha abolito con decorrenza immediata il presupposto sul quale poggiava l'applicazione della sanzione del divieto assunzionale di cui al comma 557-ter della stessa legge 296, formalmente non abrogato e che continua ad essere applicabile agli enti che non abbiano assicurato il contenimento in valore assoluto delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio 2011-2013 (ai sensi del combinato disposto tra il comma 557 e il comma 557-quater della medesima legge)».
Ifel ritiene, pertanto, «che le amministrazioni che nel 2015 non hanno registrato la riduzione del rapporto fra spese di personale e spese correnti di cui alla norma abrogata non sono soggette al divieto assunzionale richiamato dal citato comma 557-ter».
Si tratta di una tesi che sarebbe decisamente più favorevole agli enti, ma che necessita di una conferma da parte della Corte dei conti (articolo ItaliaOggi del 12.08.2016).

ENTI LOCALIVia 5mila partecipate, lista esuberi entro 6 mesi. Sì definitivo del Consiglio dei ministri - Alta tensione sul decreto dirigenti Pa, slittamento a fine agosto.
La riforma delle partecipate (Schema di decreto legislativo recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica - Atto del Governo n. 297) arriva al traguardo dell’adozione definitiva senza modifiche di sostanza ai parametri scritti per dividere le società pubbliche che possono continuare a operare da quelle destinate invece a chiusura, privatizzazione o aggregazione.
Sul tavolo del Cdm, invece, non arriva la riforma dei dirigenti, ancora al centro delle discussioni all’interno del governo e dell’alta burocrazia ministeriale soprattutto dopo che il testo aveva perso la clausola di salvaguardia per i direttori generali (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
Lo slittamento trascina con sé anche gli altri decreti alla prima lettura, su camere di commercio ed enti di ricerca: se ne riparlerà il 25 agosto. Nel capitolo dei rinvii va inserito in realtà anche un decreto approvato ieri in via definitiva, quello che riforma il Codice dell’amministrazione digitale: il suo primo effetto concreto è infatti quello di cancellare nei fatti la scadenza di domani, data a partire dalla quale anche gli enti locali avrebbero dovuto abbandonare la carta nella creazione dei propri atti, e di rimandare il tutto a data da destinarsi, quando saranno pronte le nuove regole tecniche. Nel frattempo, quindi, l’amministrazione digitale può attendere.
È il taglia-partecipate, comunque, a dominare per il suo peso specifico i lavori del governo di ieri, con l’obiettivo di cancellare in prima battuta almeno 5mila partecipazioni locali. Nonostante le molte resistenze incontrate anche da questo provvedimento, il testo definitivo conferma l’impianto complessivo della riforma, che chiede agli enti proprietari di scrivere entro sei mesi un piano di razionalizzazione prevedendo obbligatoriamente l’abbandono delle partecipazioni in aziende che non rispondono a un doppio piano di requisiti.
Il primo è quello degli ambiti di attività: le pubbliche amministrazioni potranno essere socie solo di spa, srl (anche in forma cooperativa, come precisato nell’ultimo testo) e società consortili che producono servizi di interesse generale, compresa la realizzazione di reti e impianti, opere pubbliche, beni strumentali o attività di supporto agli enti non profit.
All’interno di questo ventaglio di opzioni, che esclude i tanti settori di mercato, dai servizi professionali al commercio all’ingrosso e al dettaglio, in cui oggi sono attive le società pubbliche, le partecipate dovranno rispettare il secondo gruppo di criteri: rimane il fatturato minimo da un milione, nonostante le richieste parlamentari di abbassare l’asticella a 500mila euro, e l’addio alle società con più dipendenti che amministratori, alle aziende doppione (attive cioè in settori simili o uguali a quelli già coperti da altre partecipate) e, fuori dai servizi di interesse generale, alle aziende che hanno chiuso in rosso quattro degli ultimi cinque bilanci.
Su questi punti il piano di razionalizzazione, da adottare entro sei mesi per non incorrere in una sanzione amministrativa fino a 500mila euro, non ha possibilità di scelta, ma deve limitarsi a censire le partecipate che entro un anno vanno chiuse, privatizzate oppure aggregate per superare i parametri minimi di fatturato e organici. Entro sei mesi, anche le società pubbliche “in regola” con i nuovi parametri dovranno effettuare una revisione straordinaria del personale per individuare gli esuberi.
Una novità importante spunta nel testo esaminato ieri dal consiglio dei ministri per le assunzioni di nuovo personale: alle società controllate viene esteso l’obbligo, previsto fin dal 2008 per le aziende di servizi pubblici locali, di definire con provvedimenti autonomi il rispetto dei principi di trasparenza e selezione pubblica nel reclutamento del personale, ma in caso di mancata adozione dei regolamenti si applicheranno direttamente i cardini del concorso pubblico previsti per le Pa dal testo unico del pubblico impiego (articolo 35, comma 3, del Dlgs 165/2001).
Trovano poi una nuova definizione gli affidamenti senza gara alle società in house: serve il «controllo analogo», ovviamente, e l’eventuale presenza di soci privati deve essere limitata a quella eventualmente imposta da normative di settore, a patto che comunque i privati non abbiano un’«influenza dominante».
Chiude il quadro dei provvedimenti attuati ieri la riforma della Corte dei conti, che dà nuovi poteri al pm per vigilare sull’esecuzione delle sentenze senza però affidargli la responsabilità diretta.
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Tetti ad amministratori e manager, nuovi criteri per l’in house.
I provvedimenti attuativi della legge Madia. Per i compensi saranno individuati limiti differenti per ciascuna delle cinque fasce di società definite in base alle dimensioni aziendali - Resta il tetto generale di 240mila euro.

Via libera definitivo del Consiglio dei ministri a tre decreti che ridisegnano tre aspetti importanti della galassia della pubblica amministrazione: il “taglia partecipate”, il nuovo Codice dell’amministrazione digitale e il Testo unico sul processo contabile. «Riduzione delle società partecipate e cittadinanza digitale approvate definitivamente oggi. La riforma della Pa continua», ha scritto ieri via Twitter la ministra Marianna Madia. Ora manca solo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale dopo di che i nuovi decreti entreranno in vigore.
Il provvedimento per la razionalizzazione delle partecipate è molto articolato: si va dai paletti per costituire nuove società, al piano straordinario per varare le dismissioni, alla gestione degli esuberi, passando per i nuovi tetti per i compensi degli amministratori, per finire con le nuove norme che chiariscono la materia fallimentare. La prima tappa è il decreto sui nuovi tetti per i manager e i dipendenti delle società pubbliche, si passa da tre a cinque fasce. Tra sei mesi invece la prima “black list” delle aziende da tagliare, con relativo elenco di esuberi.
Il nuovo Codice dell’amministrazione digitale spiana invece la strada al Pin unico, il cosiddetto Spid, per accedere ai servizi della Pa e soprattutto dà il via al domicilio elettronico, «l’indirizzo online» al quale il cittadino potrà essere raggiunto dalle pubbliche amministrazioni, spiega il comunicato di Palazzo Chigi.
Arriva poi il restyling del processo contabile, «fin qui disciplinato da norme risalenti molte addirittura agli anni '30», ha ricordato la presidenza del Consiglio. Ora diventa più veloce e le garanzie della difesa vengono rafforzate. Per il Governo quindi «obiettivo raggiunto senza perdere di vista l’interesse pubblico al ristoro del danno erariale e al contrasto agli sprechi e alla corruzione»
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: P.a., rinviata la digitalizzazione. A data da destinarsi lo stop alla carta (previsto domani). CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Approvate ieri in via definitiva le modifiche al Codice.
L'addio definitivo alla carta da parte della p.a. può attendere. L'obbligo di dematerializzare i provvedimenti (e i procedimenti) amministrativi, che sarebbe dovuto entrare in vigore domani, slitta in attesa di un decreto della Funzione pubblica che dovrà riscrivere le regole tecniche.
Fino a quel momento l'obbligo per gli enti pubblici di adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti sarà sospeso. Ma chi lo vorrà potrà adeguarsi prima.
Lo slittamento è contenuto nel decreto legislativo sul Codice dell'amministrazione digitale approvato in via definitiva dal consiglio dei ministri di ieri e attuativo della riforma Madia (Atto del Governo n. 307 - Schema di decreto legislativo recante modifiche e integrazioni al codice dell'amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82), di cui, peraltro, costituisce l'incipit a riprova, come sottolinea la relazione illustrativa, “della centralità che il parlamento ha inteso riconoscere alle tecnologie dell'informazione nei rapporti tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione”.
Il debutto della gestione informatica dei procedimenti p.a. che, come detto, sarebbe dovuto partire il 12.08.2016 (18 mesi dal dpcm 13.11.2014 che lo ha previsto) viene rinviato, ma non alle calende greche. La tempistica è definita perché dall'entrata in vigore del dlgs, il dicastero di palazzo Vidoni avrà quattro mesi di tempo per approvare il decreto ministeriale con le nuove istruzioni tecniche. Anche se, come spesso accade, si tratta di termini ordinatori che la p.a. può rispettare con una certa flessibilità.
Vediamo tutte le novità introdotte dal decreto legislativo che riscrive a oltre dieci anni di distanza il Codice dell'amministrazione digitale del 2005 (dlgs 82).
Domicilio digitale e Spid. Per i cittadini sono in arrivo molte novità. Arriva il “domicilio digitale” che permetterà di ricevere sulla propria casella di posta elettronica certificata notifiche e comunicazioni. I cittadini potranno indicare la propria casella al comune di residenza per facilitare le comunicazioni con le p.a. L'accesso sarà attraverso il pin unico (il sistema Spid), in collegamento con l'Anagrafe nazionale della popolazione residente.
E sempre attraverso Spid si potrà accedere ai servizi pubblici con un unico nome utente e un'unica password. Prenotare visite mediche, pagare tributi, iscrivere i propri figli a scuola saranno pratiche a portata di click, senza la necessità di dover memorizzare e conservare decine di password. Le pubbliche amministrazioni saranno obbligate ad accettare pagamenti attraverso i sistemi elettronici, inclusi gli strumenti di micro pagamento e il credito telefonico.
Gli enti che non si adegueranno alla rivoluzione digitale rischieranno di subire azioni collettive, vere e proprie class action, da parte dei cittadini. Le azioni collettive saranno attivabili non solo in caso di mancata erogazione dei servizi online, ma anche qualora gli standard dei servizi siano inferiori a quelli previsti dalla legge.
Banda larga negli uffici pubblici. Le amministrazioni dovranno rendere disponibili agli utenti la connessione internet wifi presso i propri uffici. Quando gli uffici sono chiusi, la connessione sarà a disposizione di tutti i cittadini che potranno accedervi senza bisogno di particolari sistemi di autenticazione. Il governo è infatti tornato sui propri passi rispetto all'idea di rendere il servizio accessibile solo agli utenti Spid perché una scelta del genere avrebbe tagliato fuori i turisti, il cui accesso alla rete, invece, va incentivato.
Validità dei documenti informatici. Se sottoscritti con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale e formati nel rispetto delle regole tecniche previste dal decreto, i documenti informatici faranno piena prova fino a querela di falso.
Società a controllo pubblico e società quotate. Il dlgs estende l'ambito di applicazione del Codice dell'amministrazione digitale alle società a controllo pubblico. Sono invece escluse le società quotate. In quanto soggette al Cad, anche le società a controllo pubblico saranno obbligate ad accettare i pagamenti elettronici in qualsiasi forma, incluso l'utilizzo dei micro-pagamenti e del credito telefonico.
Ufficio per il digitale. La responsabilità della transizione al digitale sarà affidata a un unico ufficio dirigenziale assegnato a un responsabile dotato di adeguate competenze tecnologiche e manageriali (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2016).

ENTI LOCALIPartecipate, scatta la stretta. Da alienare entro un anno 5 mila quote fuori legge. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ L'ok definitivo al decreto che attua la riforma Madia.
Scatta la stretta sulle partecipate pubbliche (Schema di decreto legislativo recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica - Atto del Governo n. 297).
Il governo, infatti, ha approvato ieri in via definitiva il decreto legislativo che, in attuazione della legge «Madia», ridefinisce in modo più restrittivo le regole che disciplinano la costituzione di società, nonché l'acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni, da parte delle pp.aa.
La riforma prevede un doppio meccanismo attuativo: dapprima (entro sei mesi) scatterà una revisione straordinaria, che dovrà portare nel giro di un anno alla alienazione delle partecipazioni «fuori legge», che si stimano essere almeno 5.000. Dal 2018, invece, scatteranno gli obblighi di razionalizzazione periodica, in modo da evitare che i carrozzoni usciti dalla porta rientrino dalla finestra.
In linea generale, alle pubbliche amministrazioni è fatto divieto di costituire o mantenere partecipazioni (anche indirette) in società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. Non si tratta di una novità, ma finora non è bastato a contenere l'esuberanza degli amministratori.
Ecco perché il decreto varato ieri introduce ulteriori limiti, definendo in modo rigido i settori nei quali le partecipazioni rimangono consentite, ovvero: produzione di un servizio di interesse generale (ivi inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi), progettazione, realizzazione e gestione di opere pubbliche, autoproduzione di beni o servizi strumentali, servizi di committenza.
I vari adattamenti che ha subito il testo nei suoi vari passaggi hanno introdotto ulteriori deroghe, che riguardano, per esempio, le finanziarie regionali, le società aventi per oggetto sociale prevalente la gestione di spazi fieristici e l'organizzazione di eventi fieristici, nonché la realizzazione e la gestione di impianti di trasporto a fune per la mobilità turistico sportiva eserciti in aree montane. Escluse dalla riforma anche alcune partecipate statali come Anas, Invitalia, Coni servizi, Invimit, Sogin e il Poligrafico.
Il terzo ordine di paletti riguarda i requisiti che anche le società che rientrano nei settori ammessi devono rispettare per poter sopravvivere. Nel mirino, finiscono le realtà che risultino prive di dipendenti o abbiano un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti, quelle che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali e quelle che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a un milione di euro (il parlamento aveva chiesto di dimezzare tale soglia, ma l'esecutivo ha tenuto duro). Per le società diverse da quelle costituite per la gestione di servizi d'interesse generale, scatta l'obbligo di dismissione in presenza di un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti.
Entro il prossimo mese di febbraio (ossia entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto), le pp.aa. dovranno redigere un piano che individui le società da dismettere entro l'anno successivo. In mancanza, vedranno congelati i propri diritti sociali e la partecipazione dovrà essere liquidata in denaro. Dal 2018, questa sorta di «spending review» applicata alle partecipate dovrà essere effettuata con cadenza annuale.
Il decreto affronta anche il nodo occupazionale. Entro sei mesi, le società a controllo pubblico dovranno effettuare una ricognizione del personale in servizio, per individuare eventuali eccedenze, che saranno gestite da regioni e Funzione pubblica con una procedura simile a quella che ha consentito la ricollocazione degli esuberi delle province. In pratica, verrà formato un elenco dei lavoratori dichiarati eccedenti, che saranno coinvolti in processi di mobilità in ambito regionale.
La stretta, ovviamente, non risparmia neppure i cda. In generale, il decreto prevede che l'organo amministrativo delle società a controllo pubblico è costituito da un amministratore unico. Sarà un dpcm ad individuare i casi in cui, «per specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa», l'assemblea della società potrà prevedere un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri, ovvero i sistemi alternativi (monistico e dualistico) previsti dal codice civile.
Infine, immancabile, la sforbiciata sui compensi: saranno definiti «indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi» al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione delle società, cui corrisponderanno limiti massimi agli emolumenti, che comunque non potranno eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui. Stop, infine, a premi e bonus in caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell'amministratore (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2016).

PUBBLICO IMPIEGORiforma Pa, il governo accelera ma è alta tensione sulla dirigenza.
L’attuazione della «Madia». Atteso oggi in Consiglio dei ministri un «pacchetto» di decreti legislativi, dal via libera al riordino delle partecipate al primo esame delle norme sulle camere di commercio.

Dopo un serrato confronto all’interno del Governo e dell’alta burocrazia ministeriale, prende una forma definita il nuovo pacchetto di decreti attuativi della riforma della Pubblica amministrazione atteso oggi pomeriggio alle 17 in consiglio dei ministri: un pacchetto che, a partire dal decreto sulla dirigenza e dall’adozione finale del taglia-partecipate, entra nel vivo dei temi più delicati per le strutture e per i dipendenti dell’amministrazione pubblica.
Proprio il testo sui dirigenti, che introduce la regola degli incarichi a tempo e il rischio di tagli di stipendio fino al licenziamento per chi rimane senza posto, rappresenta uno dei passaggi più critici dell’intera riforma e su cui il confronto è ancora aperto in queste ore tanto che oggi ci potrebbe essere soltanto un primo via libera “salvo intese” per rivedersi il 25 agosto.
Nelle settimane scorse si era addirittura fatta largo la tentazione di accantonare il tema, viste le resistenze probabili (e ufficiosamente già annunciate) da parte di molte strutture, al punto che era intervenuto lo stesso premier Matteo Renzi per spiegare che la linea del governo è quella di non far scadere senza attuazione nessun capitolo della delega. Di qui l’accelerata del decreto verso l’ultimo consiglio dei ministri utile prima della pausa estiva che, a quanto si apprende, potrebbe riservare qualche sgradita sorpresa per i direttori generali: nel testo che sarà esaminato oggi, infatti, dovrebbe essere saltata all’ultimo la clausola di salvaguardia che li escludeva dal meccanismo del ruolo unico.
Anche loro dovrebbero quindi rientrare nel sistema generale disegnato dalla riforma, in base alla quale le amministrazioni sceglieranno i propri dirigenti all’interno dei ruoli (dedicati rispettivamente a Stato, regioni ed enti locali, a cui si dovrebbe affiancare un quarto elenco per le autorità indipendenti) per affidare gli incarichi quadriennali, rinnovabili una sola volta ed esclusivamente nei casi in cui l’incaricato abbia ottenuto una valutazione positiva della performance individuale.
I nuovi dirigenti accederanno invece ai ruoli tramite un concorso o un corso-concorso, a seconda del curriculum, banditi ogni anno per sostituire i pensionati dell’anno prima (ma la Funzione pubblica potrà allargare un po’, fino al 20%, i posti messi a bando). I vincitori (non ci saranno idonei) dovranno poi affrontare una prova sul campo di tre anni, riducibili a uno per chi ha un curriculum particolarmente brillante.
Tutto il meccanismo si baserà come accennato sul sistema degli incarichi quadriennali, e chi resterà senza incarico dovrà accontentarsi dello stipendio base, che vale tra il 30 e il 50% della busta paga complessiva, fatta anche di retribuzione di posizione e di risultato e dovrà partecipare a un numero minimo di bandi per non rischiare il licenziamento. Per provare a centrare l’obiettivo dichiarato dal governo di una vera “meritocrazia” ai vertici della Pa, il nuovo sistema dovrà essere arricchito da meccanismi di valutazione solidi e in grado di resistere al contenzioso, perché la riforma promette di diversificare i premi di risultato tagliandoli drasticamente, anche dell’80%, per i dirigenti che «colpevolmente» non vigilano sugli standard qualitativi e quantitativi necessari all’attività dei propri uffici.
Per la riforma delle partecipate, invece, quello di oggi è l’ultimo passaggio per un testo già finito due volte in Cdm e Parlamento. Il decreto, che dà sei mesi di tempo per scrivere i piani di razionalizzazione e poi un anno per attuarli, punta a cancellare almeno 5mila società, vietando le partecipazioni in aziende che operano in settori di mercato e in quelle che non raggiungono requisiti minimi di organico, fatturato e risultati di bilancio. Proprio su questi parametri si sono accese le discussioni più animate, ma salvo sorprese il Governo dovrebbe tirare dritto sulla richiesta di un fatturato minimo di almeno un milione, magari con qualche esclusione settoriale in più oltre a quelle già previste per fiere e funivie (si discute ad esempio del fotovoltaico e dei servizi alla persona).
Anche sul versante delle società, i temi più delicati sono quelli del personale, e in particolare degli esuberi che saranno prodotti dalla chiusura delle società fuori regola (le alternative sono la privatizzazione o le aggregazioni) e dalla revisione degli organici nelle aziende che sopravviveranno: le società pubbliche, infatti, saranno chiamate a monitorare le proprie strutture indicando la presenza di esuberi, che dovranno essere gestiti in prima battuta dalle regioni, con una sorta di ruolo di regia nella mobilità territoriale, e poi dall’Agenzia nazionale per il lavoro.
Un robusto alleggerimento dovrebbe poi riguardare presidenti e consiglieri: la riforma introduce infatti la regola dell’amministratore unico, confinando la presenza dei cda ai casi in cui saranno indispensabili per ragioni di adeguatezza organizzativa, in base a parametri che palazzo Chigi dovrà individuare con decreto. Entro 30 giorni dall’entrata in vigore, poi, dovrebbero finalmente essere attuate le cinque fasce che limitano i compensi di amministratori e dirigenti sulla base delle dimensioni dell’azienda. A queste indicazioni dovrebbero tendenzialmente adeguarsi anche le società miste, a cui gli enti pubblici dovranno fornire atti di indirizzo che chiedano regole su compensi e amministratori analoghe a quelle fissate per le aziende pubbliche.
Il terzo provvedimento che interessa da vicino gli organici della Pubblica amministrazione è quello sulle Camere di commercio, il cui primo approdo in consiglio dei ministri è stato preceduto da un dibattito vivace con tanto di assemblee pubbliche. L’orizzonte, già definito nella delega, è quello di ridurre del 40% le Camere di commercio, passando a 60 enti: Unioncamere sarà chiamata a definire entro sei mesi un piano di razionalizzazione del personale, in cui però non dovrebbero trovar spazio le percentuali minime di riduzione (15% degli organici, 25% degli uffici di staff) scritti nelle prime bozze.
Anche in questo caso, gli obblighi di alleggerimento si estendono agli organismi di amministrazione, con una revisione delle tre fasce dimensionali (saranno solo due sopra o sotto le 80mila imprese)e del numero di consiglieri previsti in ogni fascia: passeranno da 3.000 a 1.600, mentre i componenti di giunta scenderanno complessivamente da 1.000 a 300.
Completano il quadro il codice dell’amministrazione digitale, gli enti di ricerca (si veda Il Sole 24 di domenica scorsa) e il comitato paraolimpico.
Tra le novità in arrivo con il Cad l’ampliamento dei diritti di cittadinanza digitale e il diritto per ogni cittadino del domicilio elettronico accessibile con un pin unico collegato all’Anagrafe nazionale della popolazione residente. Scompare, inoltre, il termine del 12.08.2016 entro cui le amministrazioni avrebbero dovuto adottare le regole tecniche per i documenti elettronici. La norma rinvia a un futuro Dm della Funzione pubblica
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il Consiglio di Stato afferma la possibilità, anche nel silenzio del bando, di disporre il pagamento della cauzione ex art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 del concorrente che ha vinto la gara ma non ha stipulato il contratto.
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Pubblica amministrazione – Contratti della p.a. – Aggiudicatario - Rifiuto a stipulare il contratto - Art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 - Applicabilità anche nel silenzio del bando di gara
Ai sensi dell’art. 93 d.lgs. 18.04.2016, n. 50 per la partecipazione alle gare pubbliche è obbligatoria la presentazione di «garanzie a prima richiesta», commisurate in percentuale fissa al prezzo di gara e aventi anch’esse una funzione di garanzia, che attribuiscono alla stazione appaltante una ‘tutela rafforzata’, cioè il potere di disporre l’escussione dell’importo previsto, per il caso in cui l’aggiudicatario non intenda stipulare il contratto; la stazione appaltante può chiedere al giudice di disporre la condanna dell’autore del fatto illecito, anche se il bando non prevede tali forme di tutela “rafforzata”.
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 9.2. Ciò posto, risulta infondato il primo profilo delle censure con cui l’appellante incidentale ha ritenuto insussistente la giurisdizione amministrativa esclusiva.
Va premesso che per la consolidata giurisprudenza amministrativa in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva l’Amministrazione pubblica ben può agire con un ricorso, a tutela di un proprio diritto soggettivo (per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen., 20.07.2012, n. 28; Sez. IV, 25.06.2010, n. 4107, sulla proponibilità dell’azione ex art. 2932 c.c.).
Sul punto, si è poi pronunciata la Corte Costituzionale, che ha affermato principi aventi un rilievo generale sui casi nei quali il ricorso al giudice amministrativo può essere proposto nei confronti di un soggetto privato.
Con la sentenza n. 179 del 2016 (§ 3.1.), la Corte Costituzionale ha evidenziato che, «sebbene gli artt. 103 e 113 Cost. siano formulati con riferimento alla tutela riconosciuta al privato nelle diverse giurisdizioni, da ciò non deriva affatto che tali giurisdizioni siano esclusivamente attivabili dallo stesso privato, né che la giustizia amministrativa non possa essere attivata dalla pubblica amministrazione; tanto più che essa storicamente e istituzionalmente è finalizzata non solo alla tutela degli interessi legittimi (ed in caso di giurisdizione esclusiva degli stessi diritti), ma anche alla tutela dell’interesse pubblico, così come definito dalla legge»: ai fini della compatibilità costituzionale delle norme di legge devolutive di controversie alla giurisdizione esclusiva, rileva il fatto «che vi siano coinvolte situazioni giuridiche di diritto soggettivo e di interesse legittimo strettamente connesse».
Risulta dunque infondata la tesi dell’appellante incidentale, secondo la quale non potrebbe sussistere la giurisdizione esclusiva, quando il ricorso sia proposto al TAR da una Amministrazione pubblica (o da un soggetto ad essa equiparato, come l’organismo di diritto pubblico, nel settore dei contratti pubblici).
Risulta altresì infondata l’altra tesi dell’appellante incidentale, secondo cui il TAR avrebbe incongruamente richiamato il principio di concentrazione delle tutele: la medesima sentenza n. 179 del 2016 della Corte Costituzionale, al § 3.2., ha evidenziato che «l’ordinamento non conosce materie ‘a giurisdizione frazionata’, in funzione della differente soggettività dei contendenti. Elementari ragioni di coerenza e di parità di trattamento esigono, infatti, che l’amministrazione possa avvalersi della concentrazione delle tutele che è propria della giurisdizione esclusiva e che quindi le sia riconosciuta la legittimazione attiva per convenire la parte privata avanti il giudice amministrativo».
9.3. Per un duplice ordine di considerazioni, risulta altresì infondato il secondo profilo in base al quale l’appellante incidentale ha dedotto che non sussisterebbe la giurisdizione amministrativa esclusiva, in ragione della tipologia del contratto rispetto al quale è stata bandita la gara.
9.3.1. Come ha evidenziato l’appellante principale, sotto il profilo sostanziale l’allegato II A del codice dei contratti pubblici, approvato con il decreto legislativo n. 163 del 2006, ha previsto che il contratto di mutuo rientra tra gli appalti di servizi ivi elencati, sicché si applica l’art. 20, comma 2, del medesimo codice.
Infatti, la voce 6 del citato allegato II A include tra gli appalti di servizi i «servizi bancari e finanziari», con l’eccezione «dei contratti dei servizi finanziari relativi all’emissione, all’acquisto, alla vendita e al trasferimento di titoli e di altri strumenti finanziari, nonché dei servizi forniti da banche centrali».
9.3.2. Inoltre, per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio,
rilevano le disposizioni dell’art. 27 del medesimo codice dei contratti pubblici (applicabile ratione temporis), il quale –estendendo in materia i relativi doveri delle Amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad essi equiparati, come gli organismi di diritto pubblico- ha disposto l’applicazione dei principi del Trattato anche ai contratti esclusi (per ragioni di soglia o di oggetto), imponendo il rispetto delle ‘regole minimali’ della evidenza pubblica (Sez. VI, 04.10.2013, n. 4902; Sez. V, 24.04.2013, n. 2282; Sez. VI, 03.02.2011, n. 775; Ad. Plen., 01.08.2011, n. 16).
Ciò comporta che, contrariamente a quanto ha dedotto l’appellante incidentale, la s.p.a. Ospedale di Sassuolo ha doverosamente indetto la procedura ad evidenza pubblica, che ha condotto alla controversia in esame.
10. Così riaffermata la sussistenza della giurisdizione amministrativa esclusiva, si deve esaminare la censura della s.p.a. Banca Carige, la quale ha lamentato che il TAR non avrebbe esaminato la sua eccezione, formulata in primo grado, secondo cui sarebbe inconfigurabile una propria responsabilità, poiché la domanda risarcitoria ha riguardato «una fase anteriore rispetto all’aggiudicazione in suo favore (che, nella fattispecie, non è pacificamente mai stata disposta)».
11. Ritiene la Sezione che tale censura sia infondata e vada respinta.
Il richiamo al fatto che non vi è stata la stipula del contratto, più che fondare una eccezione in senso tecnico, ha riguardato una ‘linea difensiva’ della s.p.a. Banca Carige, volta a rappresentare l’insussistenza di profili di una propria responsabilità.
Dall’esame della complessiva ratio decidendi della sentenza impugnata, si evince che il TAR ha ricostruito compiutamente i fatti accaduti, ha evidenziato che tra le parti non vi è mai stata la stipula del contratto (prendendo così in considerazione la ‘linea difensiva’ della s.p.a. Banca Carige) ed ha qualificato in linea di principio la domanda della s.p.a. Ospedale di Sassuolo come riconducibile ad una pretesa risarcitoria per responsabilità precontrattuale (pur se ha poi respinto la domanda, per l’assenza di danni giuridicamente risarcibili).
12. A questo punto, si deve passare all’esame del merito delle questioni controverse tra le parti.
13. Per ragioni di ordine logico, va innanzitutto esaminata la questione se la s.p.a. Banca Carige abbia commesso un fatto illecito, nel rifiutare la stipula del contratto, dopo aver saputo che la sua offerta era stata collocata al primo posto nella graduatoria, nel verbale del 28.11.2006.
Infatti, ove si dovesse escludere la sussistenza di un illecito, diventerebbe del tutto irrilevante verificare se sia stato cagionato un danno risarcibile.
14. Ritiene la Sezione che vadano condivise le deduzioni della s.p.a. Ospedale di Sassuolo, già ritenute fondate dal TAR, sulla sussistenza di un fatto illecito della s.p.a. Banca Carige (sicché risultano infondate le deduzioni dell’appello incidentale).
E’ decisivo considerare che l’offerta economica della Banca (trasmessa il 16.11.2006: v. il doc. 9, depositato in allegato al ricorso di primo grado) non ha operato alcun richiamo alla necessità o alla eventualità della approvazione di suoi organi deliberanti ed ha indicato la sua incondizionata disponibilità a stipulare il mutuo (nel caso di esito favorevole della procedura di evidenza pubblica), precisando che «l’offerta resterà valida 60 giorni decorrenti da quello di scadenza per la presentazione dei documenti di gara».
Il testo di tale dichiarazione è univoco nell’evidenziare l’impegnatività di tale offerta: non solo esso non ha fatto riferimento ad una condizione sospensiva o risolutiva, ma ha inoltre fatto riferimento ai «60 giorni decorrenti da quello di scadenza per la presentazione dei documenti di gara», così evidenziando che -decorso tale termine– non sarebbe stata rilevante una eventuale determinazione della s.p.a. Ospedale di Sassuolo di concludere il contratto con la medesima Banca offerente.
Contrariamente a quanto ha dedotto la s.p.a. Banca Carige, tale dichiarazione è univoca, anche se nella stessa data 16.11.2006 vi era stata la trasmissione di un’altra dichiarazione, che precisava come l’approvazione fosse stata presentata «nelle more dell’approvazione della relativa pratica di affidamento da parte dei competenti organi deliberanti».
Poiché l’offerta è stata presentata senza l’apposizione di alcuna condizione e a firma del legale rappresentante della Banca, questa ulteriore dichiarazione sul piano obiettivo non può essere che intesa come l’impegno di attivare e di far concludere positivamente la «pratica» da parte degli «organi deliberanti».
Va pertanto confermata la statuizione del TAR, che ha considerato ingiustificato il «rifiuto di stipulazione del contratto, a seguito della presentazione della migliore offerta da parte di Banca Carige s.p.a.».
15. Si deve ora passare all’esame della censura proposta con l’appello principale, secondo cui sarebbe in concreto risarcibile il danno cagionato dalla s.p.a. Banca Carige, consistente nel maggiore importo da corrispondere complessivamente per la stipula del mutuo con la Banca Popolare dell’Emilia Romagna (e quantificato nella memoria conclusiva di primo grado in euro 122.729,24, tenuto conto della differenza del meno favorevole spread offerto da tale Banca).
16. Osserva al riguardo la Sezione che
l’ordinamento ha tradizionalmente disciplinato il caso in cui l’aggiudicatario di una gara d’appalto poi si rifiuti di stipulare il contratto con l’Amministrazione che abbia emanato il bando.
16.1.
Nel sistema della legge sulla contabilità di Stato (v. il regio decreto 18.11.1923, n. 2440, e successive modificazioni), era previsto il sistema del versamento di una «cauzione provvisoria», per la partecipazione alla gara.
Come era evidenziato dalla pacifica giurisprudenza,
la «cauzione provvisoria» aveva «natura di garanzia» e non poteva essere considerata una «caparra penitenziale» (la quale presuppone che le parti si siano riservate il diritto di recesso dal contratto): nel caso di mancata stipula del contratto da parte dell’aggiudicatario, l’Amministrazione poteva incamerare la cauzione provvisoria, salva la sua possibilità di ottenere il risarcimento del maggior danno effettivo (per tutte, Cass., 05.04.1976, n. 1220; Cass., Sez. Un., 16.05.1977, n. 1962).
Pertanto,
già nel vigore della legge sulla contabilità di Stato si è consolidato nella giurisprudenza un principio generale, per il quale –quando l’aggiudicatario di una gara pubblica senza giustificazione non stipula il contratto– non rilevano le discussioni concernenti la natura della sua responsabilità: il danno risarcibile è quello conseguente alle spese di indizione di una nuova gara (se non vi sono stati altri partecipanti), ovvero quello conseguente ai maggiori esborsi di denaro, conseguenti alla aggiudicazione disposta in base allo ‘scorrimento’.
16.2. In attuazione del Trattato di Roma del 1957 e delle direttive comunitarie (ed all’esigenza di evitare la perdita di liquidità delle imprese), dapprima la legge n. 348 del 1982 (poi trasfusa nella legge n. 109 del 94) aveva consentito ai partecipanti alle gare di non depositare somme a titolo di cauzione, ma di produrre «polizze fideiussorie».
Successivamente, per la partecipazione alle gare l’art. 75 del codice n. 163 del 2006 e l’art. 93 del codice n. 50 del 2016 hanno disposto la presentazione di «garanzie a prima richiesta» (commisurate in percentuale fissa al prezzo di gara e aventi anch’esse una funzione di garanzia), che attribuiscono alla stazione appaltante una ‘tutela rafforzata’, cioè il potere di disporre l’escussione dell’importo previsto, per il caso in cui l’aggiudicatario non intenda stipulare il contratto.
Ab antiquo, le leggi hanno dunque previsto che l’impresa per partecipare alla gara debba previamente consentire alla stazione appaltante la più rapida soddisfazione nel caso di mancata stipula del contratto, mediante:
- l’incameramento della cauzione, nel sistema della legge di contabilità di Stato;
- la richiesta di pagamento «a prima richiesta» al garante, nel sistema a base dei codici del 2006 e del 2016.
Tuttavia, anche se il bando non prevede tali forme di tutela ‘rafforzata’ della stazione appaltante, essa ben può chiedere al giudice di disporre la condanna dell’autore del fatto illecito.

16.3.
Le leggi sopra indicate –sull’onere per i partecipanti di versare la cauzione provvisoria, ovvero di presentare la «polizza fideiussoria»- si sono basate sul principio indiscusso –basato anche sul buon senso- della risarcibilità del danno prodotto dal partecipante che rifiuti senza motivo di stipulare il contratto.
Mentre nel diritto privato il codice civile del 1942 ha previsto regole per i casi di responsabilità precontrattuale, nel diritto pubblico la normativa sulla contabilità di Stato ed i codici sui contratti pubblici hanno posto regole specifiche sullo specifico caso in cui l’aggiudicatario violi i principi di buona fede e di correttezza.
Il principio sopra rilevato –sulla risarcibilità del danno cagionato– rende irrilevante in questa sede la questione della natura della responsabilità dell’aggiudicatario (che si porrebbe, ad es., in tema di prescrizione dell’azione risarcitoria).
16.4. Anche in considerazione di tale normativa di settore, in giurisprudenza si è infatti consolidato il principio per il quale
la stazione appaltante può ottenere il risarcimento del danno effettivo per il caso di mancata stipula dell’aggiudicatario, pur se esso ecceda l’importo della cauzione provvisoria (v. anche Cass., Sez. Un., 04.02.2009, n. 2634; Cons. Stato, Sez. IV, 22.12.2014, n. 6302; citate dall’appellante principale).
17. Nel caso di specie, il bando indetto dalla s.p.a. Banca di Sassuolo non ha previsto –ai fini della partecipazione alla gara- né il versamento di una cauzione provvisoria, né la presentazione di una «garanzia a prima richiesta».
Tuttavia, malgrado tale mancata previsione del bando, la s.p.a. Ospedale di Sassuolo ha ben potuto chiedere il risarcimento dei danni conseguenti alla mancata stipula del contratto da parte dell’aggiudicatario: il principio generale sulla risarcibilità del danno si applica pur se il bando non abbia richiesto il versamento della cauzione provvisoria o la presentazione della polizza fideiussoria.
Se una tale previsione vi fosse stata, non ci sarebbe stato bisogno verosimilmente della domanda di liquidazione in sede giurisdizionale, se non per la quantificazione del danno effettivo, ma anche in sua assenza la stazione appaltante può agire per ottenere dal giudice l’accertamento della responsabilità e la liquidazione del danno risarcibile.
18. Contrariamente a quanto ha ritenuto la sentenza appellata, risulta dunque fondata la pretesa della s.p.a. Ospedale di Sassuolo ad ottenere il risarcimento del danno, conseguente ai maggiori oneri da essa sopportati a seguito della stipula del contratto di mutuo con la Banca Popolare dell’Emilia Romagna.
Tali maggiori oneri risultano anche qualificabili come ‘perdita’ in termini di danno emergente, come è stato dedotto dall’appellante principale (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 31.08.2016 n. 3755 - massima tratta da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il regolamento Comunale per la tutela e la salvaguardia dei centri storici nella parte in cui impone, per gli infissi esterni degli edifici, il divieto di utilizzare materiali non lignei.
La norma de qua è, invero, ad avviso del Collegio, illegittima, giusta le formulate ragioni di doglianza, nella parte in cui vieta, in modo assoluto, per gli infissi esterni dei fabbricati, l'utilizzo di materiali non lignei, senza, tenere conto del fatto che esistono notoriamente in commercio e ben possono essere adoperati anche materiali diversi che non sono facilmente distinguibili dal legno e che garantiscono ugualmente il rispetto delle esigenze di decoro e di tutela del centro storico.
Appare in effetti illogico –e, in definitiva, violativo del primario canone di proporzionalità, che guida la complessiva razionalità teleologica dell’azione amministrativa nei doverosi sensi della incidenza compressiva degli interessi privati non oltre i limiti di uno scrutinio di stretta necessità– imporre al privato l'utilizzo esclusivo di un certo tipo di materiale (legno) per una determinata tipologia di opere, laddove, invece, pur assicurandosi il medesimo risultato estetico, è possibile utilizzare anche altri materiali (alluminio "tipo legno"), maggiormente adatti alle caratteristiche climatiche e/o ambientali dei luoghi.
È noto, in effetti, che il ridetto principio –da riguardarsi quale immanente nell’ordinamento, essendo desumibile dalla congiunta valorizzazione dei principi di buon andamento, di pari trattamento e di libertà di cui agli artt. 97, 13, 41 e 42 Cost.– impone la triplice e cadenzata verifica che le misure limitative della sfera di libertà privata adottate in prospettiva potestativa siano: a) necessarie alla salvaguardia o alla valorizzazione di meritevoli interessi pubblici; b) adeguate rispetto allo scopo; c) proporzionate.
Con la conseguenza che, laddove esistano possibilità parimenti idonee al risultato, ma meno incisive o condizionanti della sfera privata, esse devono essere preferite, rendendo eccessive (anche nella tradizionale logica dell’eccesso di potere) le misure sproporzionate.
Il che deve, appunto, ritenersi nel caso di specie, in cui è, anzitutto, di immediata percezione che gli infissi esterni, in una zona posta a ridosso del mare, sono soggetti ad una rapida e continua usura, dovuta alle infiltrazioni dell'acqua e della salsedine: con il che l'utilizzo di infissi di alluminio "tipo legno", che pur sono difficilmente distinguibili dagli infissi in legno, garantisce una migliore tenuta nel tempo ed evita continui interventi di manutenzione e/o di periodica sostituzione.
Del resto, la finalità di garantire il decoro urbano viene garantita in forma equipollente, tenendo conto degli sviluppi della tecnologia, che consentono di garantire un impatto estetico equivalente, con materiali tecnicamente più avanzati ed evoluti.
Al riguardo, anche in giurisprudenza si trova affermato che «l'utilizzo degli infissi in legno è fungibile con l'impiego di materiali che producono un'immagine visiva equivalente, ma che sono tecnologicamente migliorativi e più vantaggiosi» e che «gli infissi in alluminio verniciato tipo legno ben difficilmente possono essere distinti, anche da occhio esperto, dagli infissi in legno».
D'altra parte, «anche la tutela di beni sottoposti a vincolo paesaggistico ed ambientale, di rilevanza costituzionale, deve essere contemperata con altri diritti pure costituzionalmente garantiti, tra i quali rientra il diritto di proprietà, del quale la facoltà di utilizzare materiali e tecnologie più o meno innovativi, più o meno economici, più o meno adatti alle condizioni climatiche, più o meno funzionali ed esteticamente graditi, costituisce una delle estrinsecazioni».

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... per l'annullamento:
   a) dell'ordinanza del Responsabile dell'U.T.C. del Comune di Pollica n. 14/2006 del 16.03.2006, successivamente notificata, con la quale, ai sensi dell'art. 37, comma 2, D.P.R. n. 380/2001 e dell'art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, si è ordinato alla Sig.ra An.Pi. di provvedere, entro il termine di 90 giorni dalla notifica del provvedimento, alla rimozione di presunte opere edilizie abusive e al ripristino dello stato dei luoghi e, segnatamente, alla rimozione di infissi in alluminio e alla posa in opera di infissi in legno sul fabbricato di proprietà, sito alla Via ... della frazione ... e catastalmente individuato al foglio di mappa 21, particella 410;
   b) della relazione dell'U.T.C. prot. n. 694 del 26.01.2006, con la quale si è evidenziato che, sul fabbricato di proprietà, in presunta difformità alla D.I.A. n. 5954 del 04.08.2003, sarebbero stati posti in opera infissi in alluminio anziché in legno;
   c) della relazione del Comando di Polizia Municipale n. 695 del 26.01.2006;
   d) ove e per quanto occorra e nei limiti di interesse, del Regolamento Comunale per la tutela e la salvaguardia dei centri storici, approvato con deliberazione del Consiglio Comunale di Pollica n. 42 del 18.05.2002, nella parte in cui, all'articolo 11, ha imposto, per gli infissi esterni degli edifici, il divieto di utilizzare materiali non lignei;
   e) ove e per quanto occorra, dell'ordinanza del Responsabile dell'U.T.C. del Comune di Pollica n. 04/06 del 25.01.2006, con la quale erano stati cautelativamente sospesi i lavori sul fabbricato di proprietà;
...
FATTO
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito, Ni. ed An.Pi., come in atti rappresentati e difesi, premettevano di essere proprietari di un fabbricato adibito a civile abitazione sito alla frazione Acciaroli del Comune di Pollica (SA), individuato nel N.C.E.U. al foglio 21, particella 410.
Necessitando il proprio immobile di lavori di manutenzione straordinaria, anche per ovviare ai danni causati da infiltrazioni d'acqua e dalla salsedine marina, An.Pi. aveva presentato al Comune una denuncia di inizio di attività (prot. n. 5954 del 04.08.2003) per la realizzazione di modesti interventi edilizi, non comportanti alterazione dei volumi e delle superfici o modifica delle destinazioni d'uso (nei sensi imposti dall'art. 3, comma 1, lettera b), D.P.R. n. 380/2001), né ancora alcuna alterazione dello stato dei luoghi e dell'aspetto esteriore dell'edificio (come prescritto dall'art. 149, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 42/2004).
Successivamente, la Sig.ra Pi. presentava una variante alla D.I.A. (prot. n. 8495 del 18.11.2005), per poter riadattare un piccolo locale da adibire a w.c. al piano terra, invece che al primo piano come originariamente previsto.
Per il resto, anche la nuova denuncia di inizio di attività, così come la precedente, aveva avuto sostanzialmente ad oggetto l'esecuzione dei lavori di rifacimento della pavimentazione e dell'intonaco interno, di rifazione degli impianti elettrico ed idrico in conformità alla normativa vigente e dei servizi igienico-sanitari, nonché di sostituzione degli infissi.
Osservavano i ricorrenti che, pur non essendovi tenuto, con nota prot. n. 9227 del 13.12.2005, il tecnico istruttore, incaricato dall'Amministrazione, aveva espresso parere favorevole all'intervento di cui alla richiesta presentata in data 18.11.2005 prot. n. 8495, in quanto rientrante nella fattispecie di cui all'art. 3, comma 1, lettera b), D.P.R. n. 380/2001 (manutenzione straordinaria).
Lamentavano, peraltro, che, del tutto inopinatamente, con ordinanza n. 04/06 del 25.01.2006, il Responsabile dell'U.T.C. del Comune di Pollica, sulla base delle risultanze di un accertamento tecnico dal quale sarebbe emersa l'esecuzione di lavori in difformità alla D.I.A. presentata in data 18.11.2005 prot. n. 8495 (ma senza specificare quali fossero le presunte opere eseguite in difformità), aveva sospeso cautelativamente i lavori in corso sul fabbricato.
Di seguito, con il provvedimento indicato in epigrafe, il Responsabile dell'U.T.C., dopo aver chiarito che le opere in difformità avrebbero dovuto essere individuate "nella posa in opera di infissi in alluminio anziché in legno", ciò che sarebbe risultato in contrasto con la previsione dell'art. 11 del Regolamento Comunale per la tutela e salvaguardia dei centri storici, aveva ordinato alla ricorrente, Sig.ra An.Pi., di provvedere, nel termine di 90 giorni, alla loro rimozione e al ripristino dello stato dei luoghi.
...
DIRITTO
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
Deve, all’uopo, preliminarmente essere disattesa l’eccezione di inammissibilità, formulata dal Comune resistente sull’assunto della tardiva impugnazione della (violata) previsione del regolamento edilizio comunale (nella parte in cui, all’art. 11, precludeva la praticabilità della sostituzione, in prospettiva manutentiva, degli infissi in legno con quelli in alluminio), assunta a fondante ed assorbente presupposto del provvedimento impugnato.
Di là da ogni altro profilo, invero –ed in disparte il rilievo che le disposizioni di natura regolamentare, ove contrastanti con il paradigma primario di riferimento, appaiono suscettibili di disapplicazione, senza necessità di espressa e formale impugnazione– deve osservarsi che i ricorrenti hanno, in effetti, lamentato anche, nel corpo del ricorso, l’illegittimità della ridetta disposizione regolamentare, censurandola –come appare lecito, alla luce dei principi generali– unitamente all’atto applicativo, che ne ha concretizzato, in loro danno, la astratta portata lesiva.
Non è esatto, cioè, che i ricorrenti, avendola conosciuta o, dovendo come che sia conoscerla, avrebbero avuto l’onere di tempestiva impugnazione della ridetta disposizione regolamentare: noto essendo che l’onere di immediata impugnazione vale, giusta i principi ricevuti, nei soli casi in cui la disposizione formalmente regolamentare, palesi, di fatto, concreta portata provvedimentale, come tale suscettiva di immediata incidenza lesiva nella sfera degli individuati destinatari. Il che non può ritenersi, all’evidenza, nel caso di specie, trattandosi di previsione genericamente conformativa del generale esercizio delle facoltà dominicali inerenti lo jus aedificandi.
2.- Sulle esposte considerazioni, appare logicamente (se non giuridicamente) prioritaria, nell’ordine delle questioni rimesse al Collegio, la valutazione della legittimità della ridetta disposizione regolamentare, assunta ad (unico) presupposto dei provvedimenti inibitori e ripristinatori adottati dall’Amministrazione in danno dei ricorrenti.
2.1.- La norma de qua è, invero, ad avviso del Collegio, illegittima, giusta le formulate ragioni di doglianza, nella parte in cui vieta, in modo assoluto, per gli infissi esterni dei fabbricati, l'utilizzo di materiali non lignei, senza, tenere conto del fatto che esistono notoriamente in commercio e ben possono essere adoperati anche materiali diversi che non sono facilmente distinguibili dal legno e che garantiscono ugualmente il rispetto delle esigenze di decoro e di tutela del centro storico.
Appare in effetti illogico –e, in definitiva, violativo del primario canone di proporzionalità, che guida la complessiva razionalità teleologica dell’azione amministrativa nei doverosi sensi della incidenza compressiva degli interessi privati non oltre i limiti di uno scrutinio di stretta necessità– imporre al privato l'utilizzo esclusivo di un certo tipo di materiale (legno) per una determinata tipologia di opere, laddove, invece, pur assicurandosi il medesimo risultato estetico, è possibile utilizzare anche altri materiali (alluminio "tipo legno"), maggiormente adatti alle caratteristiche climatiche e/o ambientali dei luoghi.
È noto, in effetti, che il ridetto principio –da riguardarsi quale immanente nell’ordinamento, essendo desumibile dalla congiunta valorizzazione dei principi di buon andamento, di pari trattamento e di libertà di cui agli artt. 97, 13, 41 e 42 Cost.– impone la triplice e cadenzata verifica che le misure limitative della sfera di libertà privata adottate in prospettiva potestativa siano: a) necessarie alla salvaguardia o alla valorizzazione di meritevoli interessi pubblici; b) adeguate rispetto allo scopo; c) proporzionate.
Con la conseguenza che, laddove esistano possibilità parimenti idonee al risultato, ma meno incisive o condizionanti della sfera privata, esse devono essere preferite, rendendo eccessive (anche nella tradizionale logica dell’eccesso di potere) le misure sproporzionate.
Il che deve, appunto, ritenersi nel caso di specie, in cui è, anzitutto, di immediata percezione che gli infissi esterni, in una zona posta a ridosso del mare, sono soggetti ad una rapida e continua usura, dovuta alle infiltrazioni dell'acqua e della salsedine: con il che l'utilizzo di infissi di alluminio "tipo legno", che pur sono difficilmente distinguibili dagli infissi in legno, garantisce una migliore tenuta nel tempo ed evita continui interventi di manutenzione e/o di periodica sostituzione.
Del resto, la finalità di garantire il decoro urbano viene garantita in forma equipollente, tenendo conto degli sviluppi della tecnologia, che consentono di garantire un impatto estetico equivalente, con materiali tecnicamente più avanzati ed evoluti.
Al riguardo, anche in giurisprudenza si trova affermato che «l'utilizzo degli infissi in legno è fungibile con l'impiego di materiali che producono un'immagine visiva equivalente, ma che sono tecnologicamente migliorativi e più vantaggiosi» e che «gli infissi in alluminio verniciato tipo legno ben difficilmente possono essere distinti, anche da occhio esperto, dagli infissi in legno» (si cfr. TAR Sicilia-Catania, I, 30.05.2005 n. 950).
D'altra parte, «anche la tutela di beni sottoposti a vincolo paesaggistico ed ambientale, di rilevanza costituzionale, deve essere contemperata con altri diritti pure costituzionalmente garantiti, tra i quali rientra il diritto di proprietà, del quale la facoltà di utilizzare materiali e tecnologie più o meno innovativi, più o meno economici, più o meno adatti alle condizioni climatiche, più o meno funzionali ed esteticamente graditi, costituisce una delle estrinsecazioni».
3.- Alla luce delle esposte premesse –che finiscono per assorbire ogni altro dei dedotti profili di criticità– la disposizione regolamentare assunta a fondamento dei provvedimenti impugnati deve ritenersi illegittima: discendendone, per ciò solo, l’accoglimento del gravame (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 31.08.2016 n. 2037 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Se è pur vero che “Nel caso in cui il ricorrente impugni dinanzi al giudice uno strumento urbanistico, anche particolareggiato, o una variante e, in generale, un atto preordinato alla definizione di un corretto assetto del territorio, la dimostrazione circa i danni patrimoniali subiti e, in generale, circa il deterioramento delle condizioni di vita risulta necessaria e l'obbligatoria allegazione dei pregiudizi subiti è, in tal caso, giustificata dalla necessità di evitare che il ricorso si fondi sulla generica lesione all'ordinato assetto del territorio da parte di uno qualunque dei residenti o di enti esponenziali: infatti, la pianificazione territoriale rientra nell'alveo della discrezionalità amministrativa e non può incontrare limiti in situazioni di mero fatto non tutelate specificamente dall'ordinamento", tale principio è a torto invocato nella fattispecie in esame, avendo i ricorrenti evidenziato come l’area interessata dalla variante risulti confinante con la propria abitazione e che -per effetto della suddetta variante- un’area a consolidata destinazione a verde pubblico (non solo programmatica ma concretamente in atto da decenni) venga resa edificabile, con perdita di pregio ambientale e danno alle caratteristiche della zona.
In tale contesto deve ritenersi sia stata fornita la prova che la nuova destinazione urbanistica dell’area contermine incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area viciniore o comunque su interessi propri e specifici dei ricorrenti.
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Abilmente la difesa del Comune rileva che l’obbligazione (convenzionale di P.L.) risultava prescritta per decorso del termine di adempimento (10+10 anni), ma tale circostanza non può avere rilevanza dirimente.
Un conto è l’impossibilità di ottenere oggi la cessione dell’area in forza della convenzione del 1957/1964 altra questione è quella –che sola qui viene in rilievo– della possibilità di accogliere una osservazione infondata in punto di fatto e di diritto.
In punto di fatto, perché le controinteressate hanno taciuto al Comune che l’area era rimasta in loro proprietà nonostante la convenzione di lottizzazione del 1964 ne prevedesse espressamente la cessione al Comune.
In punto di diritto, perché hanno affermato, nel proporre l’osservazione alla variante del PRG, che l’area era stata gravata da vincolo espropriativo da tempo decaduto mentre veniva in rilievo una destinazione a verde pubblico avente caratteristiche di vincolo a carattere non già espropriativo ma conformativo.
Non v’è motivo per non credere alla tesi della buona fede dei tecnici comunali (anche se la mancata acquisizione connota di negligenza e inefficienza l’agere complessivo dell’Amministrazione comunale negli anni decorsi). Peraltro va osservato che si era in presenza di area avente de iure e de facto destinazione di verde attrezzato. Né vale sostenere che analoghe richieste sono state accolte.
I ricorrenti hanno affermato che sull’area in questione sono state poste dal Comune attrezzature sportive, porte per il calcio e recinzione, circostanza non smentita dalla Amministrazione comunale da ritenersi quindi comprovato ex art. 64, c. 2 c.p.a..
In tale contesto l’affermazione della difesa comunale secondo cui “Ben lungi dall'essere viziato da sviamento di potere, il comportamento del Comune è invece del tutto rispondente al pubblico interesse ed ai principi di equità che devono informare l'agire della Pubblica Amministrazione”, in quanto “il diritto a pretendere la cessione si era ormai da decenni prescritto e non sussisteva, pertanto, alcuna ragione per trattare diversamente i proprietari di quell'area destinata a verde dai proprietari delle altre aree, situate nella stessa zona, che sono state riclassificate in cambio della cessione del 50% della superficie”, astrattamente condivisibile si infrange contro la sussistenza -nella fattispecie- di un obbligo di cessione non eseguito e del concreto e duraturo utilizzo –senza alcuna opposizione delle formali proprietarie- dell’uso pubblico dell’area a verde attrezzato.
Del resto non vi è affatto analogia fra un area astrattamente classificata a verde ma rimasta in possesso dei proprietari e quella qui in contestazione che era oggetto di pattuizione di cessione e che è da lustri dedicata all’uso pubblico.
Va soggiunto che, ove fosse stata posta in essere la ripubblicazione del piano dopo l’accoglimento dell’osservazione, i diretti interessati (gli attuali ricorrenti così come i cittadini utenti del parco ai quali è riferimento a pag. 6 della memoria del Comune) avrebbero potuto proporre osservazioni al riguardo. In tal modo l’amministrazione sarebbe venuta a conoscenza della reale situazione dell’area ed avrebbe potuto assumere a ragion veduto e non su un falso presupposto le proprie determinazioni pianificatorie.
In ogni caso il Comune ben avrebbe potuto instaurare un giudizio per fare valere comunque l’usucapione a seguito del possesso ultraventennale dell’area. Non va esclusa neppure la possibilità del verificarsi della fattispecie della c.d. dicatio ad patriam, che, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima.

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Con il ricorso all’esame Gi.Pa. e Mo.Gi. –proprietari di un’area sita al largo ... nn. ..., ove hanno realizzato le loro abitazioni e lo studio professionale- propongono impugnazione avverso la delibera di Consiglio comunale di Parma n. 71 del 20.07.2010 recante l’approvazione della variante al Regolamento Urbanistico nella parte in cui ha parzialmente accolto l'osservazione (rubricata al numero 535) proposta dalle proprietarie dell’area contermine alla loro proprietà, classificandola per una metà come edificabile (ZB5- Zona di completamento residenziale, disciplinata dall'art. 3.2.37 del RUE), così capovolgendo quanto statuito in sede di adozione della variante, nella quale era stata confermata la destinazione a verde Parco Urbano e Sub-Urbano che l’area già aveva in precedenza.
Preliminarmente va disaminata le eccezione di inammissibilità del ricorso -per carenza d’interesse- sollevata dalla controinteressata nella memoria del 09.06.2016 e dal Comune con la memoria di replica, sostenendosi che la variante impugnata non riguarda in alcun modo l’area dei ricorrenti e non ne modifica l’azzonamento e la relativa disciplina, soggiungendo che, in tema di atti pianificatori, non basterebbe la mera vicinitas per radicare l’interesse al ricorso, in assenza della dimostrazione del concreto pregiudizio derivante dall’atto impugnato.
L’eccezione non risulta fondata.
Se è pur vero che “Nel caso in cui il ricorrente impugni dinanzi al giudice uno strumento urbanistico, anche particolareggiato, o una variante e, in generale, un atto preordinato alla definizione di un corretto assetto del territorio, la dimostrazione circa i danni patrimoniali subiti e, in generale, circa il deterioramento delle condizioni di vita risulta necessaria e l'obbligatoria allegazione dei pregiudizi subiti è, in tal caso, giustificata dalla necessità di evitare che il ricorso si fondi sulla generica lesione all'ordinato assetto del territorio da parte di uno qualunque dei residenti o di enti esponenziali: infatti, la pianificazione territoriale rientra nell'alveo della discrezionalità amministrativa e non può incontrare limiti in situazioni di mero fatto non tutelate specificamente dall'ordinamento" (cfr. ex multis Cons. St. Sez. IV, 22/02/2016, n. 719), tale principio è a torto invocato nella fattispecie in esame, avendo i ricorrenti evidenziato come l’area interessata dalla variante risulti confinante con la propria abitazione e che -per effetto della suddetta variante- un’area a consolidata destinazione a verde pubblico (non solo programmatica ma concretamente in atto da decenni) venga resa edificabile, con perdita di pregio ambientale e danno alle caratteristiche della zona.
In tale contesto deve ritenersi sia stata fornita la prova che la nuova destinazione urbanistica dell’area contermine incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area viciniore o comunque su interessi propri e specifici dei ricorrenti (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 6016 del 2011; sez. IV, n. 3137 del 2012 e n. 3180 del 2015).
Va quindi esaminata l’istanza istruttoria avanzata dai ricorrenti con la memoria finale, volta ad acquisire dal Comune copia della domanda di rilascio del permesso di costruire convenzionato presentata nel 2014 dalle controinteressate, della quale si fa cenno in atti depositati dal Comune in vista della pubblica udienza, con riserva di presentazione di motivi aggiunti.
La richiesta, contrastata dalla difesa del Comune di Parma, non può essere accolta.
Invero, una volta affermato che il ricorrente ha interesse all’annullamento della variante nella parte in cui modifica la destinazione d’uso -da verde pubblico a parzialmente edificabile– dell’area contermine, deve trovare applicazione il principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 2, c. 2 del c.p.a., con la necessità che il presente ricorso vada a sentenza. Del resto la difesa del Comune ha rilevato che sulla domanda di rilascio del permesso a costruire l’Amministrazione procederà ad assumere le proprie determinazioni solo all’esito del presente giudizio, sicché in assenza di titolo edificatorio non vi è atto da impugnare con motivi aggiunti.
In ogni caso, la vicenda relativa ad un futuro permesso di costruire è del tutto scissa da quella che qui si pone che si colloca a monte della stessa, risultandone la risoluzione pregiudiziale rispetto a detto ipotetico giudizio.
Nel merito il ricorso risulta fondato.
Ai fini di una più compiuta comprensione dei motivi di censura è opportuno premettere una analitica ricostruzione degli antefatti, come risultante dalla documentazione versata in atti dalle parti.
Va premesso che l’area di cui qui si fa questione faceva parte del territorio del preesistente Comune di Vigatto, che nel 1962 venne unito con Parma.
Con delibera di consiglio n. 58 del 06.11.1957 (doc. n. 1 del Comune di Parma), il Comune di Vigatto aveva approvato il <<disciplinare di zona per la lottizzazione del podere "Rii o Carmelitani" in frazione Antognan>>, nell’ambito del suddetto PL –proposto da Po.Fe. e Vi.Ro.- era prevista la cessione dell’area oggi in contestazione (v. art. 18 e 19 del all. 2 del disciplinare prodotto come doc. 4 dai ricorrenti).
A seguito dell’aggregazione del territorio di Vigatto a Parma, questo è subentrato nelle posizioni giuridiche del Comune di Vigatto ed il territorio del Comune soppresso è stato assoggettato al Piano Regolatore Generale e alle Norme Tecniche di Attuazione del Comune di Parma.
Con delibera n. 380 del 02.10.1964 (doc. 2 del Comune) il consiglio comunale di Parma la accettava la proposta irrevocabile presentata dai lottizzanti Po. e Vi., con la quale essi si impegnavano a cedere al Comune di Parma un'area di 4.613 mq. all'interno della lottizzazione (ora denominata "Cinghio").
Una volta completata la lottizzazione, con le edificazioni e l’esecuzione della rete stradale, della fognatura e della pubblica illuminazione, con delibera di Consiglio Comunale n. 817 del 10.10.1966 (doc. n. 3 del Comune), venne approvato il certificato di regolare esecuzione delle opere, che il Comune prese in carico, assumendone gli oneri di manutenzione, svincolando i depositi cauzionali istituiti a garanzia degli obblighi e degli oneri inerenti alla lottizzazione, mentre non venne invece mai pretesa la effettiva cessione delle aree destinate a verde, che sono pertanto rimaste di proprietà dei lottizzanti.
In tutti gli strumenti urbanistici che si sono succeduti, l'area che avrebbe dovuto essere ceduta al Comune di Parma (e che era invece rimasta di proprietà di Po. e Vi.) rimase classificata con destinazione verde pubblico e nel POC da ultimo approvato come "verde pubblico attrezzato".
Nel 2009, il Comune di Panna adottò una variante al Regolamento Urbanistico Edilizio, per adeguarlo alla normativa urbanistica regionale nel frattempo entrata in vigore.
Nella variante adottata, per l'area controversa, veniva conservata la precedente classificazione.
Con osservazione n. 535 le attuali proprietarie dell’area chiesero la riclassificazione dell'intera area destinata a verde, al fine di vederla trasformata in zona di completamento residenziale — ZB3.
Nell'osservazione si sottolineava come l'area fosse destinata a verde pubblico fin dal 1989/1992 e si sosteneva che il comportamento tenuto dal Comune integrasse la fattispecie della reiterazione di un vincolo espropriativo senza motivazione e senza indennizzo.
Si sosteneva, conseguentemente, la illegittimità del vincolo stesso e si chiedeva pertanto la riclassificazione dell'intera area.
In sede di esame delle osservazioni l’Amministrazione espresse parere parzialmente favorevole, sicché con la delibera di Consiglio Comunale n. 71 del 20.07.2010 di approvazione del RUE l'area venne riclassificata come Permesso di Costruire Convenzionato n. 62, con contributo alla città pubblica, confermando la classificazione a verde pubblico attrezzato della metà dell'area stessa.
Con il primo motivo i ricorrenti -in relazione alla circostanza che l’area in questione avrebbe dovuto essere ceduta dai proprietari al Comune in forza del P.L. del 1957- rilevano che del tutto illegittimamente ad una mancata acquisizione del terreno da parte dell’Amministrazione si è aggiunta la trasformazione dell'area edificabile, sostenendo che l’Amministrazione comunale quindi si è privata di beni che ben potrebbe pretendere e che comunque sino ad ora ha usato a beneficio della collettività.
La censura è fondata.
La difesa dell’Amministrazione ha evidenziato come, a causa del gran tempo trascorso, nessuno dei tecnici comunali era a conoscenza del fatto che l'area era stata in passato promessa in cessione al Comune, sicché trattarono l'osservazione presentata dalle sigg.re Po. come tutte quelle di analogo tenore: accolsero parzialmente l'osservazione, riclassificando solo la metà dell'area come ZB5 e pretendendo in cambio la cessione della restante metà.
Abilmente la difesa del Comune rileva che l’obbligazione risultava prescritta per decorso del termine di adempimento (10+10 anni), ma tale circostanza non può avere rilevanza dirimente.
Un conto è l’impossibilità di ottenere oggi la cessione dell’area in forza della convenzione del 1957/1964 altra questione è quella –che sola qui viene in rilievo– della possibilità di accogliere una osservazione infondata in punto di fatto e di diritto.
In punto di fatto, perché le controinteressate hanno taciuto al Comune che l’area era rimasta in loro proprietà nonostante la convenzione di lottizzazione del 1964 ne prevedesse espressamente la cessione al Comune.
In punto di diritto, perché hanno affermato, nel proporre l’osservazione (v. doc. n. 7 del Comune), che l’area era stata gravata da vincolo espropriativo da tempo decaduto mentre veniva in rilievo una destinazione a verde pubblico avente caratteristiche di vincolo a carattere non già espropriativo ma conformativo (cfr. l’univo indirizzo della giurisprudenza sul punto: ex multis di recente Consiglio di Stato, sez. IV, 09.12.2015, n. 5582: La destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale).
Non v’è motivo per non credere alla tesi della buona fede dei tecnici comunali (anche se la mancata acquisizione connota di negligenza e inefficienza l’agere complessivo dell’Amministrazione comunale negli anni decorsi). Peraltro va osservato che si era in presenza di area avente de iure e de facto destinazione di verde attrezzato. Né vale sostenere che analoghe richieste sono state accolte.
I ricorrenti hanno affermato (allegato fotografie (doc. n. 6 del deposito del 20.12.2010) che sull’area in questione sono state poste dal Comune attrezzature sportive, porte per il calcio e recinzione, circostanza non smentita dalla Amministrazione comunale da ritenersi quindi comprovato ex art. 64, c. 2 c.p.a..
In tale contesto l’affermazione della difesa comunale secondo cui “Ben lungi dall'essere viziato da sviamento di potere, il comportamento del Comune di Panna è invece del tutto rispondente al pubblico interesse ed ai principi di equità che devono informare l'agire della Pubblica Amministrazione”, in quanto “il diritto a pretendere la cessione si era ormai da decenni prescritto e non sussisteva, pertanto, alcuna ragione per trattare diversamente i proprietari di quell'area destinata a verde dai proprietari delle altre aree, situate nella stessa zona, che sono state riclassificate in cambio della cessione del 50% della superficie”, astrattamente condivisibile si infrange contro la sussistenza -nella fattispecie- di un obbligo di cessione non eseguito e del concreto e duraturo utilizzo –senza alcuna opposizione delle formali proprietarie- dell’uso pubblico dell’area a verde attrezzato.
Del resto non vi è affatto analogia fra un area astrattamente classificata a verde ma rimasta in possesso dei proprietari (quale deve ritenersi, in mancanza di alcuna prova fornita dall’amministrazione al riguardo quella di cui all’osservazione n. 527), e quella qui in contestazione che era oggetto di pattuizione di cessione e che è da lustri dedicata all’uso pubblico.
Va soggiunto –anticipando quanto si verrà ad esporre trattando del secondo motivo- che, ove fosse stata posta in essere la ripubblicazione del piano dopo l’accoglimento dell’osservazione, i diretti interessati (gli attuali ricorrenti così come i cittadini utenti del parco ai quali è riferimento a pag. 6 della memoria del Comune) avrebbero potuto proporre osservazioni al riguardo. In tal modo l’amministrazione sarebbe venuta a conoscenza della reale situazione dell’area ed avrebbe potuto assumere a ragion veduto e non su un falso presupposto le proprie determinazioni pianificatorie.
In ogni caso il Comune ben avrebbe potuto instaurare un giudizio per fare valere comunque l’usucapione a seguito del possesso ultraventennale dell’area. Non va esclusa neppure la possibilità del verificarsi della fattispecie della c.d. dicatio ad patriam, che, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (cfr. ex multis Cassazione civile, sez. I, 11/03/2016, n. 4851) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 26.08.2016 n. 250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In base alla originaria legislazione nazionale (art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150), lo strumento urbanistico deve essere ripubblicato solo laddove tra la fase dell'adozione e quella dell'approvazione siano state introdotte modifiche sostanziali.
Va ricordato che in detta l. n. 1150/1942 lo schema procedimentale era il seguente: adozione del piano da parte del Comune, presentazione delle osservazioni da parte dei privati, controdeduzioni del Comune alle osservazioni presentate mediante delibera del Consiglio, trasmissione degli atti per approvazione alla Regione.
Con riguardo al suddetto schema procedimentale è stato affermato che “In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni".
In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni può non implicare volontà di modifica immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta di modifiche d'ufficio rivolta alla regione; per cui non occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad essere modificato.
Viceversa, se il comune, controdeducendo alle proposte di modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova adozione che necessita di pubblicazione.

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Per effetto della legislazione regionale concorrente, il suddetto schema in molte Regioni è stato modificato prevedendosi l’approvazione del piano regolatore da parte dello stesso Comune con delibera del Consiglio comunale.
E’ evidente che in tale differente quadro, in cui tutte le scelte sono ricondotte al solo livello comunale, la suddetta impostazione giurisprudenziale deve essere letta ed applicata con maggiore rigore, soprattutto nella tutela delle posizioni giuridiche dei soggetti destinatari di consistenti modifiche della posizione della loro proprietà per l’effetto di accoglimento di osservazioni di soggetti terzi.
In tale contesto, appare condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l'accoglimento di un'osservazione ad un P.R.G. in itinere che sia stata presentata da un soggetto diverso dal proprietario dell'area interessata e che possa arrecare a questo un nocumento esige la ripubblicazione del piano stesso, onde consentire alla proprietà di formulare le proprie osservazioni.
Invero, le osservazioni presentate dai privati nei confronti di un piano regolatore in itinere sono finalizzate a consentire che il punto di vista del soggetto potenzialmente leso assuma rilevanza e venga adeguatamente considerato, in modo che l'amministrazione si determini correttamente e compiutamente in omaggio ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.) che devono presiedere all'esercizio dell'azione amministrativa.
Sulla base della valorizzazione della finalità partecipativa assicurata dalla ripubblicazione, che serve proprio a consentire ai soggetti interessati di concorrere e di collaborare, con le loro proposte od osservazioni, alla formazione del piano, si deve, infatti, ritenere che, nelle ipotesi in cui il progetto iniziale risulti sostanzialmente modificato, nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto essenziale, nel corso del procedimento finalizzato alla sua approvazione, si renda necessaria la riapertura della fase istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e della conseguente riattivazione dell'interlocuzione con i soggetti interessati.
Il Collegio ritiene che -ampliando ulteriormente detto principio, portandolo alle sue massime conseguenze- debba riconoscersi la necessità della ripubblicazione anche nell’ipotesi all’esame, nella quale è pur vero che l’osservazione risulta proposta dai formali proprietari delle aree, ma gli effetti della radicale trasformazione della destinazione d’uso, da verde ad uso pubblico ad edificabile, riversano indiscutibili effetti sulla posizione giuridica di soggetti terzi (sia i confinanti sia gli abitanti del quartiere che usufruivano dello spazio a verde), che altrimenti non ne avrebbero contezza.
Che il mutamento di destinazione d’uso costituisca modifica sostanziale non può essere messo in dubbio (cfr. al riguardo Cons. St., n. 3497/2011, ove si osserva: “se importante è senza dubbio la destinazione di zona (non oggetto di modifica), altrettanto non può dirsi delle singole prescrizioni previste dalle NTA per la specifica utilizzazione dell’area, costituendo esse, senza alcun dubbio, una disciplina di dettaglio, nell’ambito di una più generale precisione di zonizzazione, la cui eventuale modifica non può certo comportare obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico.”).
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Non convince  la tesi secondo cui la riclassificazione di una modesta porzione di terreno in una zona determina una modifica puntuale e del tutto marginale che non può integrare una stravolgimento delle previsioni del PSC (che classifica un vasto ambito nella quale la stessa è ricompresa come Parco urbano e suburbano).
Infatti, se si tiene conto che uno strumento urbanistico (o una sua variante) contiene una serie di previsioni, per ogni singola proprietà, che risultano unite in un disegno programmatorio armonico e funzionale al raggiungimento di determinati obiettivi, va rilevato che non è alla grandezza o piccolezza dell’area che deve farsi riferimento ma alla congruenza o meno della modificazione della disciplina del singolo ambito proprietario rispetto ai criteri generali.
In altri termini, se il piano persegue l’obiettivo della riduzione del consumo di suolo o di mantenimento delle aree a verde il mutamento radicale (da inedificabile ad edificabile) costituisce una modifica radicale, sovvertendo completamente il tipo di utilizzo dell’area.
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Con il secondo motivo si lamenta la mancata ripubblicazione della variante a seguito dell’accoglimento dell’osservazione n. 535, che ha comportato la modifica di destinazione dell'area, così eliminando la fase di partecipazione dei cittadini interessati.
Inoltre i ricorrenti stigmatizzano la prassi di introdurre –mediante la proposizione delle osservazioni- vere e proprie richieste/proposte del privato, che non abbiano attinenza con le scelte effettuate dall'amministrazione in sede di adozione del piano, che produce l'effetto di eliminare completamente ogni trasparenza nella assunzione delle decisioni di pianificazione.
La censura è fondata.
La resistente e la controinteressata richiamano il consolidato orientamento giurisprudenziale in forza del quale “sono ammissibili modifiche di strumenti adottati a seguito della presentazione di osservazioni, senza bisogno di procedere alla nuova pubblicazione del progetto, purché le modifiche apportate non comportino sostanziali innovazioni o deviazioni dei criteri connotanti il piano adottato", sostenendo che la modifica di classificazione di un'area di dimensioni assai modeste, con la restante parte conservata alla destinazione originaria (e con la cessione al Comune di tale restante parte, ad ulteriore garanzia che l'area rimarrà verde pubblico attrezzato) non configura affatto una sostanziale innovazione o deviazione dai criteri che connotano il piano.
La fattispecie in esame non è però configurabile in detti termini.
In via generale va –con un maggiore approfondimento rispetto alla stringata massima di cui sopra– va rilevato quanto segue.
In base alla originaria legislazione nazionale (art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150), lo strumento urbanistico deve essere ripubblicato solo laddove tra la fase dell'adozione e quella dell'approvazione siano state introdotte modifiche sostanziali.
Va ricordato che in detta l. n. 1150/1942 lo schema procedimentale era il seguente: adozione del piano da parte del Comune, presentazione delle osservazioni da parte dei privati, controdeduzioni del Comune alle osservazioni presentate mediante delibera del Consiglio, trasmissione degli atti per approvazione alla Regione.
Con riguardo al suddetto schema procedimentale è stato affermato (cfr. Cons. St., Sez. IV, 26.04.2006, n. 2297) che “In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni" (cfr. ex plurimis, Consiglio di stato, sez. IV, n. 4980 del 05.09.2003; sez. IV, 20.11.2000, n. 6178).
In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni può non implicare volontà di modifica immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta di modifiche d'ufficio rivolta alla regione; per cui non occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad essere modificato (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 20.02.1998, n. 301).
Viceversa, se il comune, controdeducendo alle proposte di modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova adozione che necessita di pubblicazione (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, n. 4980 del 05.09.2003; sez. IV, 20.11.2000, n. 6178; sez. IV, 20.02.1998, n. 301 cit.; 27.03.1995, n. 206).
Va posto in luce che, per effetto della legislazione regionale concorrente, il suddetto schema in molte Regioni è stato modificato prevedendosi l’approvazione del piano regolatore da parte dello stesso Comune con delibera del Consiglio comunale. Tale è la situazione nella Regione Emilia Romagna per effetto della disciplina introdotta con la legge regionale 24.03.2000 n. 20 (per il RUE si veda l’ art. 33).
E’ evidente che in tale differente quadro, in cui tutte le scelte sono ricondotte al solo livello comunale, la suddetta impostazione giurisprudenziale deve essere letta ed applicata con maggiore rigore, soprattutto nella tutela delle posizioni giuridiche dei soggetti destinatari di consistenti modifiche della posizione della loro proprietà per l’effetto di accoglimento di osservazioni di soggetti terzi.
In tale contesto, appare condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale (cfr. TRGA Trento 24.07.2008 n. 191, 28.02.2008, n. 53, 05.03.2004, n. 91 e 12.07.2005, n. 204, TAR Sicilia, Catania, sez. I, 06.12.2007, n. 1395, TAR Toscana, sez. I, 03.10.2005, n. 4614, TAR Lombardia-Brescia 03.06.2003, n. 826; Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.12.2000, n. 6178; Sez. IV, 26.09.2001, n. 5038; Sez. IV, 04.03.2002, n. 1197; Sez. IV, 05.09.2003, n. 4977) secondo il quale l'accoglimento di un'osservazione ad un P.R.G. in itinere che sia stata presentata da un soggetto diverso dal proprietario dell'area interessata e che possa arrecare a questo un nocumento esige la ripubblicazione del piano stesso, onde consentire alla proprietà di formulare le proprie osservazioni.
Invero, (cfr. TAR Catania, I, 30.01.2007, n. 179), le osservazioni presentate dai privati nei confronti di un piano regolatore in itinere sono finalizzate a consentire che il punto di vista del soggetto potenzialmente leso assuma rilevanza e venga adeguatamente considerato, in modo che l'amministrazione si determini correttamente e compiutamente in omaggio ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.) che devono presiedere all'esercizio dell'azione amministrativa.
Sulla base della valorizzazione della finalità partecipativa assicurata dalla ripubblicazione, che serve proprio a consentire ai soggetti interessati di concorrere e di collaborare, con le loro proposte od osservazioni, alla formazione del piano, si deve, infatti, ritenere che, nelle ipotesi in cui il progetto iniziale risulti sostanzialmente modificato, nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto essenziale, nel corso del procedimento finalizzato alla sua approvazione, si renda necessaria la riapertura della fase istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e della conseguente riattivazione dell'interlocuzione con i soggetti interessati.
Il Collegio ritiene che -ampliando ulteriormente detto principio, portandolo alle sue massime conseguenze- debba riconoscersi la necessità della ripubblicazione anche nell’ipotesi all’esame, nella quale è pur vero che l’osservazione risulta proposta dai formali proprietari delle aree, ma gli effetti della radicale trasformazione della destinazione d’uso, da verde ad uso pubblico ad edificabile, riversano indiscutibili effetti sulla posizione giuridica di soggetti terzi (sia i confinanti sia gli abitanti del quartiere che usufruivano dello spazio a verde), che altrimenti non ne avrebbero contezza.
Che il mutamento di destinazione d’uso costituisca modifica sostanziale non può essere messo in dubbio (cfr. al riguardo Cons. St., Sez. IV, 08.06.2011 n. 3497, ove si osserva: “se importante è senza dubbio la destinazione di zona (non oggetto di modifica), altrettanto non può dirsi delle singole prescrizioni previste dalle NTA per la specifica utilizzazione dell’area, costituendo esse, senza alcun dubbio, una disciplina di dettaglio, nell’ambito di una più generale precisione di zonizzazione, la cui eventuale modifica non può certo comportare obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico.”).
Nella memoria di replica la difesa comunale sostiene che la riclassificazione di una modesta porzione di terreno in una zona determina una modifica puntuale e del tutto marginale che non può integrare una stravolgimento delle previsioni del PSC (che classifica un vasto ambito nella quale la stessa è ricompresa come Parco urbano e suburbano).
L’argomentazione non convince.
Infatti, se si tiene conto che uno strumento urbanistico (o una sua variante) contiene una serie di previsioni, per ogni singola proprietà, che risultano unite in un disegno programmatorio armonico e funzionale al raggiungimento di determinati obiettivi, va rilevato che non è alla grandezza o piccolezza dell’area che deve farsi riferimento ma alla congruenza o meno della modificazione della disciplina del singolo ambito proprietario rispetto ai criteri generali.
In altri termini, se il piano persegue l’obiettivo della riduzione del consumo di suolo o di mantenimento delle aree a verde il mutamento radicale (da inedificabile ad edificabile) costituisce una modifica radicale, sovvertendo completamente il tipo di utilizzo dell’area.
L’accoglimento delle prime due doglianze riveste carattere assorbente sicché il Collegio è dispensato dalla disamina delle ulteriori censure (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 26.08.2016 n. 250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOMalattia da comunicare. L'assenza va resa nota tempestivamente. La Cassazione sul licenziamento disciplinare dei dipendenti pubblici.
Legittimo il licenziamento disciplinare dei dipendenti pubblici che omettano o ritardino la comunicazione della loro assenza per malattia.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 25.08.2016 n. 17335.
La Suprema corte, riformando la sentenza della Corte d'appello di Catanzaro, ha chiarito la portata esatta delle previsioni contenute nell'art. 55-quater, comma 1, lettera b), del dlgs 165/2001, che commina la sanzione del licenziamento disciplinare nel caso di assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione.
Questa previsione è da leggere e coordinare con l'art. 55-septies, comma 1, ai sensi del quale «nell'ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare l'assenza viene giustificata esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale».
Per questa ragione, secondo la Cassazione, per escludere la responsabilità disciplinare non bastava dimostrare che effettivamente il dipendente fosse malato. Ma occorreva, invece, che l'assenza fosse stata effettivamente comunicata nei termini e con le forme imposte dalla normativa citata prima. In mancanza di ciò, il licenziamento disciplinare risulta inevitabile e legittimo (articolo ItaliaOggi del 27.08.2016).
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MASSIMA
13. Il secondo ed il quarto motivo, da trattarsi congiuntamente, sono fondati.
14. L'art. 55-quater, c. 1, dispone che, "ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione del licenziamento del licenziamento disciplinare, tra gli altri casi, nell'ipotesi, prevista dalla lettera b) della citata disposizione di assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione".
15. L'art. 55-septies del D.Lgs. 161 del 2001, che disciplina i "controlli sulle assenze' del lavoratore pubblico dipendente, dispone che "1. Nell'ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare l'assenza viene giustificata esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale.
2. In tutti i casi di assenza per malattia la certificazione medica è inviata per via telematica, direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria che la rilascia, all'Istituto nazionale della previdenza sociale, secondo le modalità stabilite per la trasmissione telematica dei certificati medici nel settore privato dalla normativa vigente, e in particolare dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri previsto dall'articolo 50, comma 5-bis, del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.11.2003, n. 36, introdotto dall'articolo 1, comma 810, della legge 27.12.2006, n. 296, e dal predetto Istituto è immediatamente inoltrata, con le medesime modalità, all'amministrazione interessata.
3. L'Istituto nazionale della previdenza sociale, gli enti del servizio sanitario nazionale e le altre amministrazioni interessate svolgono le attività di cui al comma 2 con le risorse finanziarie, strumentali e umane disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica
".
16. La disposizione (c. 4) qualifica come illecito disciplinare l'inosservanza degli obblighi di trasmissione per via telematica della certificazione medica concernente assenze di lavoratori per malattia e prevede, in caso di reiterazione, l'applicazione della sanzione del licenziamento ovvero, per i medici in rapporto convenzionale con le aziende sanitarie locali, della decadenza dalla convenzione, in modo inderogabile dai contratti o accordi collettivi.
17. E' inoltre previsto (c. 5) che l'Amministrazione dispone il controllo in ordine alla sussistenza della malattia del dipendente anche nel caso di assenza di un solo giorno, tenuto conto delle esigenze funzionali e organizzative e che (c. 6) il responsabile della struttura in cui il dipendente lavora nonché il dirigente eventualmente preposto all'amministrazione generale del personale, secondo le rispettive competenze, curano l'osservanza delle disposizioni del presente articolo, in particolare al fine di prevenire o contrastare, nell'interesse della funzionalità dell'ufficio, le condotte assenteistiche, con richiamo, quanto alle conseguenze, delle disposizioni degli articoli 21 e 55-sexies, comma 3.
18. Il dato testuale contenuto nella lettera b) dell'art. 55-quater, che qualifica come illecito disciplinare punibile con il licenziamento "l'assenza priva di valida giustificazione" e il dato sistematico, costituito dalla disciplina, contenuta nel richiamato art. 55-septies, del controllo delle assenze, inducono a ritenere che
l'assenza per malattia è priva di rilievo disciplinare non quando è solo "esistente", né quando è (anche) comunicata ma quando è "giustificata" nelle forme, inderogabili, previste dall'art. 55-septies, c. 1, e cioè quando è stata attestata da certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio Sanitario nazionale, il quale è tenuto ad inviarla con la modalità telematica all'Inps che provvede all'inoltro, sempre per via telematica, all'Amministrazione datrice di lavoro.
19. Deve, in conclusione affermarsi il principio di diritto secondo cui "
Ai sensi dell'art. 55-quater, lett. b), del D.Lgs. 165/2001 l'assenza per malattia è priva di rilievo disciplinare non quando è solo "esistente", né quando è (anche) comunicata ma quando è "giustificata" nelle forme, inderogabili, previste dall'art. 55-septies, c. 1, e pertanto quando sia stata attestata da certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio Sanitario nazionale".
20. Ha errato, pertanto, la Corte territoriale nell'escludere che il ritardo della comunicazione della assenza e dell'invio della certificazione medica non rientrino nell'ambito della fattispecie di cui all'art. 55-quater, lett. b).
21. L'accoglimento del secondo e del quarto motivo non comporta la cassazione della sentenza impugnata, ma solo la sua correzione, in parte qua, ai sensi dell'art. 384, c. 4 c.p.c., perché il dispositivo è conforme a diritto, sulla scorta delle considerazioni che sono svolte di seguito nell'esame del terzo motivo.
22. Il terzo motivo è infondato.
23. Come più volte affermato da questa Corte (ex plurimis Cass. 10842/2016, 1315/2016, 24796/2010, 26329/2008) ed anche dalla Corte Costituzionale (cfr. C. Cost. 971/1988, 239/1996, 286/1999),
deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
24.
La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative ex art. 11, l. n. 689 dei 1981, etc.), e risulta trasfusa per l'illecito disciplinare nell'art. 2106 c.c., con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione "eccessiva", proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari.
25. I principi sopra richiamati sono stati affermati anche con riguardo all'art. 55-quater da questa Corte, che, nella decisione n. 1351/2016, ha rilevato che
l'art. 2106 c.c. risulta oggetto di implicito richiamo da parte dell'art. 55-quater, c. 2, e che ed alla giusta causa ed al giustificato motivo fa riferimento il c. 1 comma della medesima disposizione, con la conseguenza per la quale nessun "automatismo" è predicabile anche con riguardo alla citata più recente disposizione .
26. Questa Corte, inoltre, ha affermato che
l'art. 2119 c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che l'operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass. 1351/2016, 12069/2015, 6501/2013, 18247/2009), poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento.
27.
La relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo (Cass. 1977/2016, 1351/2016, 12059/2015 25608/2014 del 2014).
28. Ciò precisato, deve rilevarsi che
nella specie, seppur erroneamente escludendo la "ingiustificatezza" della assenza, la Corte territoriale ha adeguatamente motivato circa la insussistenza nel caso esaminato di tale proporzionalità ed ha escluso che la sanzione risolutiva fosse proporzionata agli addebiti, avendo considerato che il ritardo nella comunicazione della malattia si era protratto per due soli giorni (le giornate del 13 e del 14 febbraio cadevano, rispettivamente, di sabato e di domenica), che la malattia era risultata effettivamente sussistente in sede di visita di controllo e che le condizioni di salute del Pu., invalido al 100%, erano gravissime (patologia oncologica con disturbi minzionali) e certamente incidenti sulla stessa percezione dei propri doveri.

AMBIENTE-ECOLOGIADepenalizzazione esclusa se l’azienda disturba di notte. Immissioni sonore. Oltre la tollerabilità.
Chi fa un eccessivo rumore nello svolgere la sua attività produttiva, disturbando di notte il sonno delle persone non può invocare la depenalizzazione. In tal caso scatta anzi il concorso formale tra le due ipotesi previste dal primo e dal secondo comma dell’articolo 659 del Codice penale. Il primo comma punisce con il carcere fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro chi con schiamazzi e rumori disturba le occupazioni e il risposo di chi abita nelle vicinanze, mentre il secondo, che prevede l’ammenda da 103 a 516 euro scatta quando un mestiere o una professione rumorosa viene svolta «contro le disposizioni di legge e le prescrizioni dell’autorità».
Nel caso esaminato, la Corte di Cassazione, Sez. III penale con la sentenza 24.08.2016 n. 35422, considera integrate entrambe le ipotesi: sia la violazione delle prescrizioni amministrative (nello specifico quelle sull’orario) sia il superamento dei valori soglia fissati in materia di immissioni rumorose. La Suprema corte afferma il concorso formale tra i due reati e nega la possibilità di applicare, alla condotta indicata nel secondo comma dell’articolo 659, la depenalizzazione prevista dalla legge 447/1995 .
L’articolo 10 della legge quadro sull’inquinamento acustico, invocato dai ricorrenti, è stato modificato per effetto della depenalizzazione (legge 205/1999) e prevede, infatti, la possibilità di punire con la sola sanzione amministrativa «chiunque, nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, supera i valori limite di emissione o di immissione».
La Cassazione ricorda che in tema di disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone, l’esercizio di un’attività o di un mestiere rumoroso integra l’illecito amministrativo, indicato dall’articolo 10, quando si verifica esclusivamente il semplice superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni in materia. Mentre resta un reato (comma secondo dell’articolo 659 del Codice penale) la violazione delle specifiche disposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che regolano l’esercizio del mestiere, diverse da quelle relative ai valori limite di emissione.
La Corte conferma poi anche che i due commi dell’articolo 659 costituiscono due titoli autonomi di reato rendendo possibile l’affermazione del concorso formale. Un tipico esempio di violazione delle disposizioni della legge è lo svolgimento dell’attività rumorosa in orari diversi da quelli previsti, mentre l’abuso che si concretizza quando le emissioni superano la normale tollerabilità si configura indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale il rumore proviene e quindi scatta anche nel caso di un uso smodato dei mezzi tipici della professione o del mestiere.
Nello specifico c’erano entrambe le circostanze e correttamente i giudici di merito hanno affermato il concorso formale ed escluso la depenalizzazione per la violazione delle diposizioni di legge (secondo comma)
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2016).
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2. Con il primo motivo i ricorrenti si dolgono di violazione di legge per la ritenuta applicazione concorrente di entrambe le norme incriminatrici di cui all'art. 659, primo e secondo comma, cod. pen. nonché per la mancata considerazione della avvenuta depenalizzazione ex art. 10, L. 447/1995 di quella, che si asserisce unicamente applicabile, di cui al secondo comma di tale disposizione codicistica.
La censura è manifestamente infondata.
Il Collegio intende anzitutto ribadire l'orientamento prevalente della giurisprudenza di questa Corte secondo il quale «
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia;
B) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete;
C) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995
» (tra le molte, da ultimo, Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885).
Va poi anche confermato un altro principio di diritto espresso nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale «
In tema di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, le due ipotesi dell'art. 659 cod. pen. costituiscono distinti titoli di reato, con conseguente ammissibilità del concorso formale tra le due norme.
In particolare, l'abuso previsto dal secondo comma è solo quello costituito da una violazione delle disposizioni della legge o delle prescrizioni dell'autorità che disciplinano l'esercizio della professione o del mestiere: un tipico esempio di abuso rientrante in questa previsione è costituito dallo svolgimento dell'attività rumorosa in orari diversi da quelli previsti dalla legge o dai regolamenti che disciplinano l'esercizio della specifica attività; invece l'abuso che si concretizza nella emissione di rumori eccedenti la normale tollerabilità ed idonei a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, rientra nella previsione del primo comma dell'art. 659 cod. pen., indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale i rumori provengono, quindi anche nel caso in cui l'abuso si concretizzi in un uso smodato dei mezzi tipici di esercizio della professione o del mestiere rumoroso
» (in questo senso, Sez. 1, n. 382 del 19/11/1999, Piccioni, Rv. 215139).

PUBBLICO IMPIEGOLo scritto salva la domanda. Concorsi.
La domanda di concorso senza firma non «mette alla porta» il candidato che abbia partecipato alle prove scritte.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 24.08.2016 n. 3685, che apre la strada anche alla regolarizzazione postuma dell'istanza, indicandone le modalità temporali.
In punto di diritto Palazzo Spada condivide il principio secondo cui nei concorsi pubblici «la necessità di presentare la domanda di partecipazione con sottoscrizione in originale non è solo il frutto di una regola destinata a tutelare la parità tra i concorrenti alla selezione ma è anche coerente col principio di auto responsabilità.
Tuttavia il Consesso giudicante precisa che “la ratio del principio”, non è quella di “punire” una distrazione (non firmare la domanda di partecipazione), ma piuttosto quella di “assicurare l'Amministrazione sulla provenienza dell'atto, e sulla riferibilità della domanda a chi ne appare l'autore”».
Quindi, prosegue la sentenza, la sanzione espulsiva potrebbe essere evitata se il candidato, accortosi dell'errore circa l'omessa sottoscrizione, con un nuovo atto ne «riconosca» la riferibilità a se medesimo, prima dell'esclusione dal concorso. In tal modo viene pertanto ammessa la regolarizzazione postuma (su iniziativa dell'autore, prima che l'Amministrazione si determini, e senza che ciò possa costituire un «diritto» dell'istante) in quanto l'interesse tutelato è solo quello di certezza dei rapporti giuridici.
I giudici amministrativi hanno poi dato ragione alla ricorrente, la quale era stata ammessa alle prove e vi aveva partecipato. In tal caso quindi: «a) non v'era alcun dubbio sulla identità della medesima; b) non v'era alcun dubbio sulla coincidenza tra il soggetto autore della domanda ed il soggetto che partecipò alle prove; c) non v'era alcun dubbio sulla persistenza della volontà della autrice della domanda di partecipare alle prove».
Resta ferma la giurisprudenza restrittiva in caso di domanda non firmata tout court (senza partecipazione o superamento delle prove scritte), mentre l'odierna apertura in appello riecheggia precedenti risalenti (ad esempio Tar Catania 13.11.2001 n. 1928 e 18.07.2000 n. 1472, nonché Tar Catanzaro 17.10.2001 n. 1558) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
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1. L’appello è fondato e va accolto, con conseguente riforma della impugnata sentenza, accoglimento del ricorso di primo grado, ed annullamento degli atti impugnati.
2. Il Collegio conosce e condivide, sotto il profilo generale, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. II, 29.06.2015, n. 2179) “
nei pubblici concorsi la necessità di presentare la domanda di partecipazione con sottoscrizione in originale non è solo frutto di una regola destinata a tutelare la parità tra i concorrenti alla selezione ma è anche coerente, in termini più generali, con il principio di autoresponsabilità atteso che in forza di detto principio, le conseguenze della non conformità della dichiarazione al modello fissato a pena di esclusione dall’Amministrazione ricadono inevitabilmente sul dichiarante; né in questo caso può invocarsi il soccorso istruttorio trattandosi di istituto che può operare solo in presenza di profili di incompletezza o di lacunosità della documentazione sanabili con l’attività, per così dire, di supplenza del responsabile del procedimento, ai sensi dell’art. 6, l. 07.08.1990 n. 241”.
Ed è altresì noto che,
quale corollario del generale principio su richiamato, si è affermato che deve quindi ritenersi che la partecipazione ad una procedura selettiva per mezzo di una domanda inoltrata in fotocopia è inficiata da irregolarità radicale e non rimediabile per mezzo del soccorso istruttorio trattandosi di deficit che autorizza a dubitare di trovarsi al cospetto di una dichiarazione di partecipazione ad una procedura selettiva della sua autenticità; in un caso del genere, ammettere la possibilità del soccorso istruttorio significa introdurre surrettiziamente la possibilità di eludere il termine perentorio di presentazione delle domande di partecipazione alla procedura selettiva con conseguenze scongiurabili sotto il profilo della imparzialità e della trasparenza dell’attività amministrativa.
2.1. Ritiene però che detto generale orientamento non sia applicabile al caso di specie, in ragione della singolarità e particolarità della fattispecie concreta.
2.2.
La ratio del principio prima enunciato, invero, non è quella di “punire” una distrazione (che tale è quella di chi dimentica di apporre una sottoscrizione alla domanda di partecipazione compilata); la ratio è invece quella di assicurare l’Amministrazione sulla provenienza dell’atto, e sulla riferibilità della domanda a chi ne appare l’autore (al fine di evitare il progredire di una procedura di selezione concorsuale certamente inutile, laddove la domanda non sia stata effettivamente compilata dall’apparente autore).
2.3.
Se così è, la sanzione espulsiva ben potrebbe essere evitata laddove il soggetto che presentò la domanda, ad esempio, accortosi dell’errore riposante nella omessa sottoscrizione, con un nuovo atto ne “riconosca” la riferibilità a se medesimo, prima che l’Amministrazione ne disponga l’esclusione dal concorso.
2.3.1
Ammessa la regolarizzazione postuma (su iniziativa dell’autore, prima che l’Amministrazione si determini, e senza che ciò possa costituire un “diritto” dell’istante), è evidente che l’interesse tutelato dal principio de quo, è solo quello di certezza dei rapporti giuridici, e che esula da esso qualsivoglia finalità sanzionatoria.
2.4. Nel caso di specie, sulla scorta della domanda non sottoscritta, l’odierna appellante venne ammessa alle prove, vi partecipò, e pertanto:
a) non v’era alcun dubbio sulla identità della medesima;
b) non v’era alcun dubbio sulla coincidenza tra il soggetto autore della domanda ed il soggetto che partecipò alle prove;
c) non v’era alcun dubbio sulla persistenza della volontà della autrice della domanda di partecipare alle prove.
2.5. In conclusione, tutte le esigenze generali individuate dal Tar (riferibilità della domanda al concorrente; responsabilizzazione sulla serietà della partecipazione; autodichiarazione e responsabilizzazione sulla veridicità dei contenuti della domanda di partecipazione stessa) risultavano pienamente soddisfatte.
2.6. In tale quadro, non assume rilievo preclusivo la disposizione del bando, che all’evidenza “sposta” in avanti i termini del controllo dei requisiti, ma non esclude che ciò potesse avvenire prima, e soprattutto non è direttamente e specificamente riferibile alla fattispecie in esame, per cui il ricorso di primo grado era ammissibile, ed alla stregua delle superiori considerazioni è anche fondato.
3. Conclusivamente, alla stregua delle superiori, assorbenti, precisazioni l’appello va accolto e per l’effetto, in riforma della impugnata decisione, va accolto il ricorso di primo grado con annullamento degli atti impugnati.
3.1. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 cod. proc. civ., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: cfr. ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260 e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).

ATTI AMMINISTRATIVIIl centro può essere inibito ai fuochi d'artificio.
È valida e deve essere rispettata da tutti l'ordinanza comunale che vieta l'utilizzo degli artifici pirici all'interno del centro abitato. In questo caso dunque niente fuochi d'artificio, scoppi di petardi, mortaretti e razzi, anche se di libera vendita.

Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 24.08.2016 n. 970.
Il sindaco del comune di Bussolengo ha adottato una coraggiosa ordinanza finalizzata a limitare i tradizionali spari di fine anno che danneggiano la tranquillità ed il benessere anche degli amici a quattro zampe. Contro questa disposizione, confermata da un successivo regolamento di polizia urbana, alcuni imprenditori interessati al commercio dei materiali pirotecnici hanno proposto censure al collegio ma senza successo.
La limitazione locale, specifica la sentenza, innanzitutto non viola la disciplina europea in materia di libera vendita del materiale pirotecnico perché vieta l'uso dei petardi e dei fuochi solo all'interno del centro abitato, non anche sull'intero territorio comunale. La sussistenza di una oggettiva situazione di pericolo per la sicurezza urbana, prosegue il collegio, è insita «nell'obiettiva pericolosità connessa allo sparo di fuochi di artificio in area densamente popolata quale il centro abitato, e ciò a prescindere dai controlli che sul materiale pirotecnico in genere vengono effettuati ai sensi del dlgs n. 58/2010».
Inoltre l'ordinanza è limitata temporalmente e territorialmente, specifica il Tar. Il conseguente regolamento limitativo comunale sulla polizia urbana infine non è in contrasto con la disciplina nazionale sui prodotti pirici laddove la stessa prevede l'adozione di specifiche misure locali idonee a rafforzare la prevenzione. Lo stesso regolamento non è in contrasto neppure con l'ordinanza urgente adottata del sindaco, trattandosi di due strumenti complementari ma ben differenziati dall'ordinamento.
Il materiale pirotecnico può pertanto continuare ad essere venduto anche in libera vendita ma non può essere utilizzato all'interno del centro abitato del comune di Bussolengo che ha adottato misure limitative per gli spari, conclude la sentenza (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
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MASSIMA
Considerato nel merito che:
- deve essere rigettato il primo motivo a mezzo del quale si sostiene che l’ordinanza impugnata si porrebbe in contrasto con la disciplina europea in tema di libera vendita e circolazione di materiale pirotecnico all’interno del mercato comune, atteso che
il provvedimento in questione vieta per motivi di sicurezza l’utilizzo di materiale pirotecnico limitatamente “all’interno del centro abitato” e non anche sull’intero territorio comunale, risultando pertanto coerente con la ratio di cui all’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 58/2010, recante disposizioni di “Attuazione della direttiva 2007/23/CE relativa all’immissione sul mercato di prodotti pirotecnici”, la cui disciplina non osta “all’adozione di misure di pubblica sicurezza idonee a rafforzare la prevenzione” nell’impiego di articoli pirotecnici;
- né è possibile ritenere che detta ordinanza si ponga in contrasto con gli artt. 14, 15 e 16 del medesimo d.lgs. n. 58/2010, in tema di poteri spettanti al Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno di sorveglianza sul mercato, d’inibizione di specifici articoli pirotecnici e di poteri speciali prefettizi,
non risultando, dal tenore del provvedimento impugnato, che il Sindaco del Comune resistente abbia invaso i descritti ambiti di competenza statale;
- deve, parimenti, essere rigettato il secondo motivo con il quale si lamenta che il provvedimento in esame sarebbe stato adottato in assenza dei presupposti di cui all’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 in tema di provvedimenti contingibili e urgenti adottati dal Sindaco, atteso che
la sussistenza di una oggettiva situazione di pericolo per la sicurezza urbana è insita nell’obiettiva pericolosità connessa allo sparo di fuochi di artificio in area densamente popolata quale il centro abitato, e ciò a prescindere dai controlli che sul materiale pirotecnico in genere vengono effettuati ai sensi del d.lgs. n. 58/2010;
- sempre per il rigetto, deve concludersi in ordine all’asserito difetto di motivazione,
risultando invero le ragioni per le quali è stato introdotto il divieto in contestazione adeguatamente esplicitate nel provvedimento impugnato, oltreché coerenti con le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica poste a base dello stesso;
- deve, nondimeno, esser respinto il terzo motivo con il quale si sostiene che detto provvedimento sarebbe viziato da incompetenza assoluta e/o difetto di attribuzione e assunto in contrasto con il principio di legalità sostanziale, atteso che, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente,
il divieto in questione non si atteggia a regola generale ed astratta sull’uso dei fuochi pirotecnici in genere, essendo al contrario la sua operatività specificatamente limitata sia dal punto di vista temporale (festività ed eventi particolari) che spaziale (all’interno del centro abitato);
- deve, nondimeno, essere rigettata la prima doglianza per motivi aggiunti, con la quale si lamenta l’incompetenza del Consiglio comunale a recepire nel Regolamento di polizia urbana i divieti introdotti con l’ordinanza impugnata con il ricorso originario, atteso che le prescrizioni in questione sono limitatamente connesse, si ribadisce, all’uso improprio e non confacente dei fuochi di artificio nelle circostante normalmente adibite al loro utilizzo (festività ed eventi particolari) e non possono pertanto ritenersi invasive della competenza legislativa statale in materia di “armi munizioni ed esplosivi” ex art. 117 della Cost., né, tantomeno, in contrasto con la disposizione di cui all’art. 57 del T.U.L.P.S., riguardante specificatamente la licenza di pubblica sicurezza allo sparo ed accensione di materiale esplodente anche pirotecnico;
- deve, parimenti, essere rigettata la censura con la quale si sostiene che il Regolamento in questione si sarebbe indebitamente sovrapposto alla normativa statale di cui al d.lgs. n. 58/2010, atteso che, come peraltro rappresentato in relazione al ricorso introduttivo,
è la stessa normativa statale che non osta “all’adozione di misure di pubblica sicurezza idonee a rafforzare la prevenzione” nell’impiego di articoli pirotecnici (cfr., art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 58/2010, come recentemente sostituito dal d.lgs. n. 123/2015);
- né è possibile ritenere che nel trasporre in sede regolamentare i divieti precedentemente introdotti in via provvedimentale, il Consiglio comunale abbia leso le competenze riservate al Sindaco ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000, posto che
detta disposizione fa esclusivo riferimento a situazioni temporanee di necessità ed urgenza e non può pertanto confliggere in alcun modo con la potestà regolamentare riservata al predetto organo consiliare nel dettare prescrizioni generali anche in tema di materiale pirotecnico nei soli limiti e termini dianzi rappresentati;
- deve, da ultimo, essere respinto il secondo motivo per motivi aggiunti con il quale si assume che detta normativa regolamentare si porrebbe in contrasto con il principio di legalità sostanziale in quanto incidente sulle libertà individuali di autodeterminazione, di iniziativa economica individuale e di libera circolazione anche di matrice comunitaria, atteso che,
si ribadisce ulteriormente, le disposizioni ivi contenute riguardano specificatamente l’uso improprio dei fuochi d’artificio in determinate circostanze e non incidono in alcun modo sulla vendita di materiale pirotecnico in genere né, tantomeno, sul suo normale utilizzo al di fuori dei limiti prescritti;
- per quanto precede, le domande di annullamento dei provvedimenti impugnati con il ricorso introduttivo e dell’atto impugnato con motivi aggiunti devono essere respinte siccome infondate;
- deve, conseguentemente, essere respinta la domanda di risarcimento del danno formulata nel ricorso introduttivo, datane la natura accessoria rispetto alla respinta domanda caducatoria;
- in definitiva, il ricorso deve essere rigettato siccome infondato.

PUBBLICO IMPIEGOFuori» chi altera il registro presenze. Pubblico impiego.
È legittimo il licenziamento del dipendente scolastico che altera il registro online delle presenze facendo figurare di aver lavorato un giorno in cui l’istituto era chiuso.
Così hanno stabilito i giudici della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 23.08.2016 n. 17259, rigettando il ricorso presentato dall’interessato.
Quest’ultimo, il 23 dicembre aveva espresso l’intenzione di lavorare alla vigilia di Natale e aveva criticato la decisione di concedere le ferie a tutto il personale per il giorno successivo. Il 24 dicembre si è presentato davanti all’istituto scolastico, ma non vi è potuto entrare in quanto chiuso e il personale addetto all’apertura in ferie. Nei giorni successivi è però entrato nel sistema informatico di registrazione delle presenze per far risultare come lavorato il 24 dicembre.
Il dipendente ha sostenuto che, sulla base dell’articolo 2, comma 2, del Dlgs 165/2001, «non ha solo il dovere di rendere la prestazione lavorativa ma anche il diritto di lavorare» e di conseguenza «l’offerta della sua prestazione lavorativa, nel giorno in cui l’edificio scolastico era chiuso, escluderebbe la rilevanza disciplinare della sua condotta e la illegittimità delle registrazioni effettuate, perché volte al pagamento della retribuzione».
Secondo i giudici, invece, l’alterazione del registro presenze ha «raggiunto lo scopo di ottenere la retribuzione di una giornata di lavoro non prestato» e, indipendentemente dalla motivazione, tale comportamento non è giustificabile «non potendo il lavoratore farsi ragione da sé».
Ne consegue la validità del licenziamento per falsa attestazione della presenza in servizio, come previsto dall’articolo 55-quater, lettera a del Dlgs 265/2011 (articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2016).
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MASSIMA
14. Con il secondo motivo il Br. denuncia, ai sensi dell'art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell'art. 55-quater, v. 1, lett. a), del D.Lgs 165/2001, lamentando erronea sussunzione della fattispecie concreta nell'ipotesi astratta prevista da questa disposizione.
Deduce che la registrazione dell'orario di lavoro del giorno 24.12.2009 non era ideologicamente falso né ispirato da intento fraudolento in quanto esso ricorrente si era presentato davanti all'ingresso dell'ufficio scolastico per accedervi, così manifestando la volontà di adempiere il proprio dovere.
15. Il motivo è infondato.
16. Ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 55-quater, lett. a) -applicabile nella specie-
tra i casi in cui si applica la sanzione disciplinare del licenziamento rientra anche quello della "falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio".
17. Non è mai stato contestato che il giorno 24.12.2009 il Br. non era presente in ufficio, pur avendo diritto a non esserci, perché l'edificio era chiuso e che lo stesso non aveva potuto accedervi per la mancanza del personale di servizio adibito alla apertura ed alla chiusura della Scuola. Nemmeno è contestato li fatto che nei giorni successivi il ricorrente, attestò, attraverso annotazioni nel sistema informatico di rilevamento della presenza, la sua presenza in servizio in detta giornata.
18. Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi sul fatto che,
dal punto di vista oggettivo, il comportamento contestato al ricorrente è sussumibile entro la fattispecie astratta prevista dalla disposizione sopra richiamata, nella parte in cui, appunto) punisce con il licenziamento la "falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente", posto che effettivamente quelle annotazioni attestarono una circostanza non vera e cioè la presenza in servizio del Br..
19. Le deduzioni svolte in merito alla assenza di volontà fraudolenta sono prive di pregio ed esulano dal perimetro del vizio, di sussunzione, denunciato, perché attengono non alla ricostruzione della fattispecie oggettiva ma alla rilevanza dell'elemento soggettivo.
20. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, c. 1, n. 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell'art. 55-quater, c. 1, lett. a), 4 e 36 Cost. 2094 e 2099, 1206, 1207, 1217, 2103 cc e 44, c. 4, 46, 47, c. 1, lett. a), del CCNL computo scuola, quadriennio 2006-2009 e biennio economico 2006-2007, e delle tabelle A, C allegate al CCNL, nel loro combinato disposto.
21. Sostiene che l'interpretazione della Corte territoriale dell'art. 55-quater, c. 1, lett. a), D.Lgs 165/2001, postulerebbe l'illiceità della registrazione ogni volta che il lavoratore non abbia potuto rendere la prestazione, indipendentemente dalle ragioni e dal contesto e sostiene che la norma in questione mirerebbe ad espellere dal mondo del lavoro gli "assenteisti" e non chi, come esso ricorrente, voleva lavorare nella giornata del 24 dicembre.
22. Richiama i lavori preparatori del Senato, la giurisprudenza di questa Corte penale sulla differenza tra falsa attestazione della presenza e falso ideologico in atto pubblico, per affermare che non potrebbe essere affermata l'irrilevanza della fraudolenza nel caso di sussistenza del diritto alla retribuzione.
23. Lamenta che la sentenza avrebbe violato il c. 2 dell'art. 2 del D.Lgs 165/2001 che richiama, quanto alla disciplina del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, il codice civile e le disposizioni della contrattazione collettiva. Assume che il lavoratore non ha solo il dovere di rendere la prestazione lavorativa ma anche il diritto di lavorare e assume che l'offerta della sua prestazione lavorativa, nel giorno in cui l'edificio scolastico era chiuso, escluderebbe la rilevanza disciplinare della sua condotta e la illegittimità delle registrazioni effettuate, perché volte al pagamento della retribuzione. Deduce che tra le sue mansioni non rientrava, per previsione di CCNL, quella di procedere all'apertura della scuola.
24. Con il quarto motivo il Br. denuncia, ai sensi dell'art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., il combinato disposto degli artt. 2, c. 2, e 55, commi 1 e 2, del D.Lgs. 165/2001 e 2119 c.c. 4 e 36 Cost., lamentando che la Corte territoriale non avrebbe valutato adeguatamente la proporzionalità della sanzione espulsiva alla condotta addebitata , in contrasto con quanto previsto dall'art. 2119 c.c..
25. Il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
26. Come più volte affermato da questa Corte (ex plurimis Cass. 10842/2016, 1315/2016, 24796/2010, 26329/2008) ed anche dalla Corte Costituzionale (cfr. C. Cost. 971/1988, 239/1996, 286/1999),
deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
27.
La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative ex art. 11, l. n. 689 dei 1981, etc.), e risulta trasfusa per l'illecito disciplinare nell'art. 2106 c.c., con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione "eccessiva", proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari.
28. I principi sopra richiamati sono stati affermati anche con riguardo all'art. 55-quater da questa Corte, che nella decisione n. 1351/2016 ha rilevato che l'art. 2106 c.c. risulta oggetto di implicito richiamo da parte dell'art 55-quater, c. 2 e che ed alla giusta causa ed al giustificato motivo fa riferimento il c. 1 comma della medesima disposizione.
29. Va anche considerato che, in tema di giusta causa di licenziamento, questa Corte ha affermato che l'art. 2119 c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto. A tale processo non partecipa tuttavia la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza.
30. Ne consegue che l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass. 1351/2016, 12069/2015, 6501/2013, 18247/2009), poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento.
La relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.
31. Pertanto,
va valutato il comportamento del lavoratore non solo nel suo contenuto oggettivo -ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate- ma anche nella sua portata soggettiva e, quindi, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente (Cass. 1977/2016, 1351/2016, 12059/2015 25608/2014 del 2014).

PUBBLICO IMPIEGOInduzione indebita anche «tentata». Funzionari pubblici condannati per le minacce su una pratica già archiviata.
Reati contro la Pa. Per la Cassazione la fattispecie è «bilaterale»: non necessario il tornaconto della vittima.
La condanna per induzione indebita tentata rimane anche se la pratica delle vittime designate era già stata archiviata all’epoca delle “pressioni” dei funzionari infedeli.
La VI Sez. penale della Corte di Cassazione (sentenza 22.08.2016 n. 35271) ribadisce la natura «non bilaterale» del reato previsto dalla riforma Severino degli illeciti contro la Pa; pertanto, il tentativo resta perfettamente integrato -cioè “utile” per la condanna- anche se il privato non aveva già più alcun indebito vantaggio da trarre dalla proposta contra legem del funzionario pubblico.
Il caso ripercorso dai giudici di legittimità riguardava un episodio avvenuto negli anni scorsi all’agenzia delle Entrate di Varese, in cui due funzionari avevano minacciato indagini fiscali a danno di una coppia -e del loro commercialista- a margine del rientro di capitali collegati al terzo e ultimo scudo del decennio scorso. Le vittime, che si erano viste richiedere una somma definita «ingente» nella carte processuali, avevano finto di stare al gioco denunciando però subito la vicenda ai carabinieri, facendo così partire le intercettazioni telefoniche e ambientali.
Tra i motivi del lungo ricorso per Cassazione -incentrati soprattutto su questioni procedimentali e sulla valutazione della chiamata di correo tra gli imputati- c’era però anche l’aspetto relativo all’inquadramento giuridico della fattispecie: secondo i legali dei due funzionari infedeli, l’assenza dell’indebito vantaggio come “corrispettivo” per le vittime -indebito costituente «requisito implicito della fattispecie dell’articolo 319-quater del codice penale»- avrebbe dovuto indurre i giudici a reinquadrare l’ipotesi nel meno grave reato di «istigazione non accolta alla corruzione». Una soluzione, questa, che invece i magistrati di legittimità hanno respinto senza margini di incertezza, richiamandosi peraltro a un precedente del gennaio scorso (6846/16, della medesima Sezione).
Il requisito del perseguimento dell’indebito vantaggio da parte dei privati, argomenta la Sesta, è fuori dal perimetro del “tentativo”, nonostante sia un pilastro portante del delitto consumato di «induzione indebita a dare o promettere utilità». Le Cassazione stessa ha definito tale indebito vantaggio come il «criterio di essenza» della fattispecie induttiva che, in una interpretazione costituzionalmente orientata, diventa il presupposto per estendere la punizione allo stesso privato/pagatore/beneficiato (che in questo caso rischia fino a tre anni di reclusione, a fronte dei 10 e mezzo per il funzionario infedele).
Ma, aggiunge l’estensore, se il privato resiste all’induzione, allora «viene meno la ratio che si colloca a fondamento del requisito del perseguimento di un indebito vantaggio da parte del destinatario della condotta induttiva; non per questo però crolla la possibilità di perseguire l’agente pubblico che compie atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il privato a dare o promettere denaro o utilità
».
In sostanza, chiosa la Sesta sezione, il delitto di induzione indebita non è un «reato bilaterale», perché le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto «si perfezionano autonomamente e in momenti diversi, sicché il reato si configura in forma tentata nel caso in cui l’evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente»
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).
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MASSIMA
8. Non possono essere condivise le doglianze mosse dai ricorrenti in punto di qualificazione giuridica della fattispecie (punti 2.5 e 3.4 del ritenuto in fatto).
Occorre precisare che i ricorrenti contestano l'inquadramento giuridico della fattispecie muovendo da premesse diverse, dal momento che Me. rileva che, nella specie, non sarebbe ravvisabile un indebito vantaggio in capo ai privati, asserendo che esso costituisce requisito implicito della fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 319-quater cod. pen.; D'Er. evidenzia -da una prospettiva opposta- che i coniugi Fr. non versavano in uno stato di soggezione rispetto ai pubblici ufficiali, avendo agito al fine di ottenere un indebito vantaggio.
8.1. Innanzitutto, è necessario fare chiarezza in punto di fatto dando atto che i Giudici della cognizione hanno expressis verbis escluso che i coniugi Fr. abbiano agito allo scopo di perseguire un indebito vantaggio (v. in calce a pagina 11).
Deve, d'altra parte, ritenersi pacifico che il delitto di induzione indebita sia configurabile nella forma tentata, nel caso in cui l'evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente, che -come nel caso di specie- presenti denuncia ai Carabinieri (Sez. 6, n. 46071 del 22/07/2015, Scarcella e altro, Rv. 265351; Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, Farina e altro, Rv. 265901).
8.2. Tanto premesso, giudica il Collegio che
ineccepibilmente la Corte distrettuale abbia ritenuto comunque integrata la fattispecie di tentata induzione indebita, pur in assenza di un correlativo interesse dei privati.
Come questo Giudice della nomofilachia ha già avuto modo di chiarire,
il tentativo di induzione indebita di cui all'art. 319-quater cod. pen. è configurabile anche quanto il privato non abbia perseguito un indebito vantaggio, poiché tale elemento rileva esclusivamente per la sussistenza della fattispecie consumata (Sez. 6, n. 32246 del 11/04/2014, Sorge, Rv. 262075).
Nella motivazione della pronuncia appena ricordata, si è condivisibilmente osservato che "
qualificare la fattispecie concreta in disamina come tentativo di induzione indebita prevista dagli artt. 56 e 319-quater c.p., non implica la necessità dell'ulteriore requisito, di cui il giudice a quo rileva l'insussistenza, costituito dal perseguimento di un indebito vantaggio da parte dei privati.
Questo requisito, giustifica -in coerenza con i principi fondamentali del diritto penale e con i valori costituzionali in tema di colpevolezza, pretesa punitiva dello Stato, proporzione e ragionevolezza- la punibilità dell'indotto che abbia dato o promesso l'utilità al pubblico ufficiale, secondo quanto sottolineato, nella pronuncia poc'anzi richiamata, dalle Sezioni unite, secondo cui esso assurge al rango di "criterio di essenza" della fattispecie induttiva.
L'elemento in disamina si colloca dunque nell'ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata e funzionale alla salvaguardia dell'esigenza, imposta dall'art. 27 Cost., di giustificare la punibilità del privato, che cede alle richieste dell'agente pubblico non perché coartato e vittima del "metus", nella sua accezione più pregnante, ma perché attratto dalla prospettiva di conseguire un indebito vantaggio.
Ne deriva che tale requisito in esame è necessario solo nell'ipotesi della consumazione del reato di cui all'art. 319-quater c.p., e non anche in quella del tentativo.
Il destinatario della condotta di abuso induttivo, infatti, ove si sia determinato a dare o a promettere l'utilità al pubblico ufficiale, pur disponendo, a differenza del concusso, di ampi margini discrezionali, è punibile per aver prestato acquiescenza alla richiesta di prestazione non dovuta in quanto motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale: ciò che lo pone in una posizione di complicità con il pubblico agente e lo rende meritevole di sanzione.
Quando invece, come nel caso sub iudice, il privato non dia o non prometta denaro o altra utilità al pubblico ufficiale, resistendo alle illecite richieste di quest'ultimo, viene meno la ratio che si colloca a fondamento del requisito del perseguimento di un indebito vantaggio da parte del destinatario della condotta induttiva, che pertanto esula dal paradigma delineato dalla norma incriminatrice.
Qualora dunque l'agente pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, compia atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il privato a dare o a promettere indebitamente un'utilità, senza riuscire nel suo intento, perché, l'evento non si verifica per la resistenza del privato, il requisito del perseguimento, da parte di quest'ultimo, di un indebito vantaggio rimane estraneo alla struttura della norma incriminatrice di cui agli artt. 56 e 319-quater c.p.
".
Di recente, si è affermato che
il delitto di induzione indebita non integra pertanto un reato bilaterale, in quanto le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto si perfezionano autonomamente ed in tempi diversi, sicché il reato si configura in forma tentata nel caso in cui l'evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente (Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, Farina e altro, Rv. 265901).
8.3. La decisione in verifica risulta pertanto corretta in diritto nella parte in cui recepisce i sopra delineati principi con riguardo alla
configurabilità del delitto di induzione indebita tentata anche nel caso in cui il privato "resista" all'abuso costrittivo rivolgendosi alle forze dell'ordine ed a prescindere dal perseguimento di un ingiusto vantaggio.

SICUREZZA LAVOROLa responsabilità del committente non è «automatica». Sicurezza. Va verificato il comportamento.
Nei lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto di prestazione d’opera il dovere di sicurezza è riferibile al committente oltre che al datore di lavoro, che di regola è un appaltatore destinatario delle disposizioni antinfortunistiche.
Tuttavia questo è un principio, come rileva la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 22.08.2016 n. 35185, che non conosce una applicazione automatica, non potendo comunque richiedersi al committente un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione dei lavori e sul loro andamento.
Pertanto, ai fini della configurazione della responsabilità del committente, non si può prescindere dal verificare, in concreto, quale sia stata l’incidenza della sua condotta nel verificarsi dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta e con riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, nonché alla agevole e immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo.
In primo e secondo grado i proprietari di un fabbricato sono stati condannati per l’incidente mortale che si è verificato nel corso di un contratto di prestazione d’opera, durante il quale il prestatore è caduto dal tetto. I committenti, come accertato dai giudici di merito, erano perfettamente consapevoli dell’assenza di qualsiasi struttura idonea a evitare il pericolo di caduta, risultando invece escluso qualsiasi comportamento abnorme della vittima.
Infatti i primi erano consapevoli che il lavoratore per eseguire l’incarico conferitogli –verificare l’idoneità dei precedenti lavori svolti sul tetto che presentava ancora delle infiltrazioni– doveva nuovamente salire sul tetto, pur in assenza di qualsiasi struttura idonea a evitare pericolo di caduta. Si è trattato quindi di un comportamento del lavoratore caratterizzato da una condotta sicuramente imprudente ma di certo non abnorme.
Con tale comportamento la Cassazione ha rilevato che la richiesta di tale intervento rivolta dagli imputati al prestatore d’opera era essa stessa fonte di pericolo, avendo richiesto a quest’ultimo, tenuto contrattualmente a garantire la qualità del precedente intervento, a intervenire nuovamente, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa, specie per un soggetto privo di una reale e adeguata struttura di tipo imprenditoriale.
A questo punto appare determinante quanto statuito dalla stessa Corte, secondo cui nella scelta del soggetto cui affidare i lavori il committente ha l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione agli incarichi affidati, attraverso l’iscrizione alla Camera di commercio, ma a fronte della presentazione di una serie di documenti connessi direttamente con la materia della sicurezza
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).
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MASSIMA
Giova premettere che questa Corte, annullando la sentenza in data 01/03/2011 della Corte di Appello di Catania, che aveva confermato la sentenza condannatoria di primo grado, ha avuto modo di affermare che,
in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d'opera, è riferibile, oltre che al datore di lavoro (di regola l'appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche), al committente, anche se detto principio non conosce una applicazione automatica, non potendo esigersi da quest'ultimo un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori.
Ne consegue che,
ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare, in concreto, quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo (Sez. 4, n. 3563 del 18/1/2012, Rv. 252672).
Nel caso di specie, alla Corte territoriale, quale giudice di rinvio, è stato chiesto di colmare le carenze motivazionali rilevabili nella sentenza annullata mediante un più approfondito e specifico esame delle circostanze fattuali rilevanti ai fini della individuazione di profili di colpa nella condotta dei committenti, in relazione ai principi di diritto appena ricordati e, segnatamente, avuto riguardo alle capacità tecniche ed organizzative della ditta del prestatore d'opera, circostanza questa che, se accertata, assume rilievo in relazione al profilo di colpa concernente la "culpa in eligendo", ed anche alla eventuale ingerenza da parte dei committenti nell'esecuzione dei lavori, circostanza questa che se concretamente accertata rileva in relazione alla ravvísabilità di una responsabilità concorrente dei committenti che avessero assunto di fatto una posizione direttiva nei confronti del prestatore d'opera.
Sui punti oggetto d'indagine, la Corte di Appello etnea ha evidenziato che non corrisponde alle emergenze probatorie la circostanza, da sempre prospettata dalla difesa dei ricorrenti, che il PE. si fosse recato di propria ed autonoma iniziativa sul luogo dove aveva eseguito i precedenti lavori commissionati dagli imputati, essendo stato al medesimo richiesto, una settimana prima dell'incidente, come peraltro confermato da MA.Se., di verificare le ragioni delle persistenti infiltrazioni d'acqua lungo le pareti dell'immobile sul cui tetto era stata posata la guaina impermeabilizzante, tant'è che anche il mezzadro, NA.Se., presente sul luogo, era stato informato del fatto che il PE. doveva sistemare tale guaina.
Orbene, del tutto correttamente il Giudice del rinvio ha considerato, per un verso, la sussistenza dello specifico incarico dei committenti di verificare -al fine evidentemente di eliminare il difetto- la corretta esecuzione dei precedenti lavori e, per altro verso, la consapevolezza da parte dei medesimi della necessità -per fare ciò- che il PE. doveva salire nuovamente sul tetto, pur in assenza di qualsiasi struttura idonea ad evitare pericoli di caduta.
Tutto ciò nell'ambito di un quadro probatorio dal quale
emergeva con evidenza "la qualifica di lavoratore-artigiano della vittima", descritta come persona "priva di una complessa dotazione di mezzi, circostanza quest'ultima ben nota ai committenti" e resa -drammaticamente- evidente dall'uso della bombola di gas prelevata dall'abitazione dei MA. allo scopo di "fissare" a caldo la guaina su un cornicione del tetto, con una condotta sicuramente imprudente ma, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, non certo abnorme.
La motivazione, ancorché sintetica, è perfettamente
in linea con la giurisprudenza -che qui interessa- elaborata da questa Corte in relazione ai casi di c.d. committenza "non qualificata" e cioè quando non ricorre la figura del vero e proprio datore di lavoro-committente, assoggettata alle rigorose disposizioni antinfortunistiche, in quanto non v'è dubbio che la richiesta rivolta dagli odierni ricorrenti al prestatore d'opera fosse essa stessa fonte di pericolo, avendo determinato il PE., tenuto contrattualmente a garantire la qualità esecutiva dell'intervento eseguito sul tetto dell'immobile di proprietà dei MA., ad intervenire nuovamente, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa, dovendosi realizzare, senza opere provvisionali o altra misura di sicurezza, una lavorazione non ad altezza uomo ma ad un'altezza dal suolo che ne rendeva più difficile e rischiosa la esecuzione, specie per un soggetto privo di una reale -e comunque adeguata- struttura organizzativa di tipo imprenditoriale (Sez. 4, n. 44131 del 15/7/2015, Rv. 264974).
Non v'è dubbio che gli imputati hanno finito per esigere dal prestatore d'opera che si comportasse in quel determinato modo, per conseguire il risultato voluto -l'eliminazione delle infiltrazioni- con conseguente efficacia causale della violazione delle obbligazioni di garanzia di cui si discute rispetto all'evento mortale occorso al PE..
Quanto alla colpa nella scelta del soggetto al cui affidare i lavori, la giurisprudenza di questa Corte ha statuito che
il committente ha l'obbligo di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione ai lavori affidati, anche attraverso l'iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, ma non esclusivamente in tal modo (Sez. 4, sent. n. 8589 del 14/01/2008, Rv. 238965).

APPALTI: Il Consiglio di Stato si pronuncia sulla debenza della sanzione ex art. 83, d.lgs. n. 50 del 2016 nel caso in cui il concorrente non usufruisca del soccorso istruttorio.
Pubblica amministrazione – Contratti della p.a. – In genere – Soccorso istruttorio per carenza e incompletezza documentale – Rifiuto – Sanzione pecuniaria – Art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione – Differenza con la pregressa disciplina ex artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, d.lgs. n. 163 del 2006 - Individuazione.
L’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 -secondo cui la sanzione pecuniaria, prevista dal bando di gara in caso di mancanza, incompletezza e ogni altro caso di irregolarità essenziale della documentazione di gara, è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione- lascia ai concorrenti la possibilità di integrazione documentale non onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della domanda ed è quindi innovativamente incentrato sul concetto di sanatoria conseguente al soccorso istruttorio e non separa il momento procedimentale da quello sanzionatorio.
Tale norma, quindi, si discosta dalla pregressa disciplina dettata dagli artt. 38 comma 2-bis, e 46 comma 1-ter, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, secondo cui la sanzione si applica nel caso in cui il concorrente ha presentato una offerta mancante di una dichiarazione e di un documento prescritto mentre è irrilevante se decide di avvalersi del soccorso istruttorio o meno.

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1.- Il thema decidendum, sul quale convergono i motivi di appello, che possono dunque essere esaminati congiuntamente, è incentrato sull’ambito di applicabilità della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38, comma 2-bis, del Codice dei contratti pubblici, e in particolare (sul quesito) se la stessa sia irrogabile anche nel caso in cui il concorrente decida di non avvalersi del soccorso istruttorio.
Non viene in rilievo la questione (su cui, anteriormente alla novella del giugno 2014, si è pronunciata la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 25.02.2014, n. 9, e, successivamente, questa V Sezione con le sentenze 21.04.2016, n. 1597 e 02.08.2016, n. 3481) dell’ampiezza, secondo i parametri del combinato disposto degli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006, del potere di soccorso istruttorio, e anzi tale profilo -che presuppone la qualificazione dell’incompletezza documentale come irregolarità essenziale -qui risulta incontroverso.
Non occorre perciò verificare se la mancanza/incompletezza del possesso del requisito tecnico riferito alla progettazione esecutiva contestato alla società appellante costituisca “irregolarità essenziale”. Del pari, non si pone qui un problema di valutazione della suscettibilità della mancanza documentale di regolarizzazione postuma. Del resto, la CO. non ha inteso comunque avvalersi del soccorso istruttorio.
1.1.- Con questa premessa,
occorre vagliare l’esatto significato da attribuire, stando al Codice dei contratti pubblici, alla locuzione, invalsa nell’uso, di “soccorso istruttorio a pagamento”; se vi sia un collegamento necessario tra l’avvalersi del soccorso istruttorio da parte dell’operatore economico e il pagamento della sanzione pecuniaria stabilita dal bando, o se invece la sanzione –ricorrendo la fattispecie- sia dovuta indipendentemente dall’integrazione o regolarizzazione delle dichiarazioni da parte del concorrente che ha dato causa al doveroso esercizio del potere di soccorso istruttorio, come ritenuto dalla sentenza di prime cure.
Ad avviso dell’appellante, rinvenendosi il fondamento di razionalità del soccorso istruttorio nell’obiettivo di evitare che l’esclusione dalla gara sia disposta per mere irregolarità formali, a tale scopo consentendosi strumentalmente all’interessato di colmare le lacune riscontrate dal seggio di gara, la sanzione è dovuta nel solo caso in cui il concorrente intenda avvalersi di tale possibilità; e tanto più in un’evenienza come quella oggetto di controversia, dove il soccorso istruttorio è intervenuto tardivamente, successivamente all’iniziale esclusione non contestata (primo motivo di appello).
Ulteriore argomento difensivo di CO. è che l’applicazione della sanzione pecuniaria in una fattispecie di mera irregolarità della dichiarazione (i suoi progettisti erano tutti in possesso dei requisiti richiesti dal bando), comporta un’illegittima (quanto a difetto di proporzionalità e a violazione dell’art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006) equiparazione tra l’ipotesi sostanziale in cui il concorrente non sia in possesso dei requisiti prescritti dalla lex specialis (non potendo per ciò partecipare alla procedura di evidenza pubblica) e l’ipotesi formale in cui abbia reso dichiarazioni incomplete (secondo e terzo motivo di appello).
Allega, ancora, l’appellante, con il quarto ed ultimo motivo, che la sentenza impugnata incorre in un’erronea interpretazione degli artt. 59, paragrafo 4, e 56 della direttiva 2014/24/UE, disposizioni che non condizionano il soccorso istruttorio alla comminatoria di una sanzione, come posto anche in evidenza dalla determinazione A.N.A.C. n. 1 del 2015.
2. - Ritiene la Sezione che gli argomenti della società appellante, per quanto seri, non siano condivisibili.
Invero,
l’introduzione (ad opera del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114) dell’art. 38, comma 2-bis, nel Codice dei contratti pubblici, con la sanzione pecuniaria proporzionale per il caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2, ha inteso prevenire, nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione alla gara delle offerte presentate, il fenomeno delle esclusioni dalla procedura causate da mere carenze documentali; e ha «in tal caso» (cioè: di fronte alla semplice mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale di cui sopra) imposto uno spedito sub-procedimento –il “soccorso istruttorio”-ordinato alla produzione, integrazione o regolarizzazione delle dichiarazioni necessarie, e ha previsto l’esclusione solamente quale conseguenza dell’inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, dell’obbligo di integrazione documentale entro il termine perentorio accordato, a tale fine, dalla stazione appaltante.
Corollario di tale innovazione è una sostanziale dequalificazione, in principio, delle “irregolarità” dichiarative da cause escludenti a carenze regolarizzabili.
In tale contesto,
ad evitare l’abuso del ricorso al soccorso istruttorio e il conseguente aggravamento complessivo delle procedure, si pone a contrappeso la previsione della speciale sanzione pecuniaria: scopo di questa misura è dunque l’assicurare la serietà e la completezza originaria delle offerte, e il responsabilizzare a questi fini i partecipanti alla gara.
Detta sanzione, come si evince dalla lettera della disposizione («la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara …»), colpisce dunque il semplice fatto dell’aver presentato una dichiarazione difettosa: resta irrilevante il fatto che l’omissione venga poi sanata dall’impresa interessata o che questa, benché richiestane, rinunzi a regolarizzarla.
La norma a questi fini nulla dice riguardo alla condotta successiva dell’offerente, sia in punto di avvenuta regolarizzazione, sia in punto di abbandono della gara mediante il comportamento concludente della non risposta alla richiesta di regolarizzazione: sicché si deve rilevare che per la sanzione pecuniaria la legge non contempla una causa estintiva successiva. La sanzione insomma non è alternativa o sostitutiva alla esclusione per insufficiente regolarizzazione o all’abbandono volontario della gara.
L’esclusione dalla gara è altra cosa rispetto alla sanzione, la cui fattispecie costitutiva è ormai già perfetta, ed è la conseguenza procedimentale della mancata corrispondenza al soccorso istruttorio. Nel sistema del comma 2-bis, l’irregolarità essenziale porta di suo all’applicazione della sanzione pecuniaria. Rispetto alla sanzione resta così ultroneo il diverso profilo funzionale del determinare l’avvio del procedimento di soccorso istruttorio.
L’esclusione dalla gara si colloca in una successiva fase procedimentale, quale esito della mancata o insoddisfacente risposta al soccorso istruttorio, e risulta pertanto distinta, strutturalmente e funzionalmente, dalla sanzione pecuniaria, che è conseguenza del mero inadempimento inizial
e (in termini Cons. Stato, VI, 27.11.2014, n. 5890). Così, l’abbandono volontario della gara determina l’esclusione, ma non influisce sulla già consumata fattispecie da sanzionare.
La distinzione tra le due fattispecie è in qualche misura confermata dalla disposizione contenuta nel terzo periodo del comma 2-bis, la quale, per l’ipotesi di “irregolarità non essenziali”, prevede che la stazione appaltante non ne richieda la regolarizzazione, né applichi la sanzione, evidenziando come il soccorso istruttorio e la sanzione pecuniaria si pongano su due piani diversi, seppure originanti da un unico fatto.
2.1.- Queste considerazioni di base non consentono di attribuire rilievo a quanto allegato dall’appellante circa il fatto che nel caso di specie la sanzione è stata comminata per una mera incompletezza documentale.
Infatti
la norma, in modo non irragionevole ove si consideri la ratio che la permea, non gradua le varie ipotesi di irregolarità essenziale.
Piuttosto, va qui rilevato che la sanzione pecuniaria ed il soccorso istruttorio hanno fatto seguito a una precedente esclusione non contestata da CO., la quale non ha dunque indotto la stazione appaltante ad un aggravamento del procedimento di verifica della regolarità e completezza della documentazione.
Neppure tale circostanza, per quanto possa essere suscettibile di una qualche valutazione quanto a correttezza e buona fede della società, è idonea a rendere illegittimo l’impugnato provvedimento, espressione di un riesame in autotutela da parte della stazione appaltante, comportante un regresso del procedimento alla fase di valutazione dell’offerta, disposta in difformità di quanto previsto dalla disciplina vigente.
Se non è pertanto ravvisabile un’applicazione della sanzione pecuniaria non proporzionata, tanto meno è rinvenibile una violazione dell’art. 46, comma 1, del Codice dei contratti pubblici, disposizione inapplicabile alla vicenda amministrativa in esame, cui è invece riferibile il successivo comma 1-ter, in combinato disposto con l’art. 38, comma 2-bis, dello stesso Codice.
2.2. - Anche il quarto motivo di appello, con cui si deduce la violazione dell’art. 59, par. 4, e dell’art. 56, par. 3, della direttiva n. 2014/24/UE, disposizioni che non condizionano il soccorso istruttorio al pagamento di una sanzione pecuniaria, ma solamente al rispetto del principio di parità di trattamento e di trasparenza, non merita condivisione.
Infatti l’interpretazione della norma di diritto interno seguita dalla sentenza appellata non contrasta con le invocate disposizioni del diritto europeo, le quali non precludono una onerosità dell’accesso al soccorso istruttorio, così da rimettere tale scelta, ovviamente nei limiti della congruità, al legislatore nazionale.
Conseguentemente non si evidenziano quei dubbi interpretativi, che imporrebbero al giudice nazionale di ultima istanza di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea ai sensi dell’art. 267 del T.F.U.E.-Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
3. - Le considerazioni che precedono inducono il Collegio a ritenere condivisibile il ragionamento della sentenza appellata.
Ove occorra, si deve considerare che,
trattandosi di sanzione pecuniaria infraprocedimentale che fa sistema con la disciplina del procedimento definita dal d.lgs. n. 163 del 2006,il principio di irretroattività della nuova legge impedisce di dar rilievo alla circostanza che il d.lgs. 18.04.2016, n. 50 preveda, all’art. 83, comma 9, che «la sanzione è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione»: l’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, resta cioè applicabile ratione temporis.
Il sistema della nuova disciplina, (che muove dal criterio direttivo indicato dall’art. 1, lett. z), della legge di delega 28.01.2016, n. 11, che attribuisce ai partecipanti alla gara la piena possibilità di integrazione documentale non onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della domanda) è innovativamente incentrato sul concetto di sanatoria conseguente al soccorso istruttorio e non separa il momento procedimentale da quello sanzionatorio.

4. - Alla stregua di quanto esposto, l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.08.2016 n. 3667 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolire non si prescrive. Cassazione. Anche se dal giudice penale.
L’”ordine” di demolizione, anche se disposto dal giudice penale, resta una sanzione amministrativa e non si prescrive.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 19.08.2016 n. 35052, torna sugli abusi edilizi per sgombrare il campo dall’equivoco sulla possibilità di applicare per analogia al provvedimento di demolizione l’articolo 173 del Codice penale sulla prescrizione delle pene.
Un’interpretazione fornita dal Tribunale di Asti (sentenza Delorier), che ha dichiarato l’estinzione per decorso del tempo dell’ordine di demolizione, sul presupposto che fosse non una sanzione amministrativa ma una pena. Il giudice di merito si sarebbe mosso sulla scia di una lettura sostanzialistica della giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Per la Cassazione si tratta però di un’applicazione eccentrica del diritto Cedu.
La Suprema corte nega che la natura giuridica del provvedimento possa mutare in funzione dell’autorità che la dispone. La demolizione d’ufficio e l’ingiunzione alla demolizione sono disposte dall’autorità amministrativa, senza che venga messa in dubbio la “veste” amministrativa e non penale della misura e senza che ricorra una pertinenza fatto-reato, dal momento che la demolizione può essere disposta immediatamente senza individuare i responsabili. Detto questo, non si può affermare che la “demolizione giudiziale”, identica nell’oggetto e nel contenuto, cambi natura solo in virtù dell’organo che la dispone.
Anche perché è pacifico che l’ordine del giudice penale può essere da questo revocato se incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore. Si tratta della stessa sanzione amministrativa, la cui emissione è demandata anche al giudice penale all’esito dell’affermazione di responsabilità, per assicurare la celerità dell’esecuzione.
In ogni caso -sottolinea la Cassazione- ci sono due elementi ad impedire l’applicazione analogica della causa di esclusione della pena, disegnata dall’articolo 173 del Codice penale. L’applicazione analogica presuppone, infatti, l’esistenza di una lacuna normativa sul punto e un’identica ratio. Che, nel caso specifico, non ci sono. Non c’è vuoto legislativo perché non è indispensabile prevedere una causa estintiva della sanzione dipendente dal decorso del tempo e manca anche l’elemento di identità tra il caso indicato e quello non disciplinato. L’articolo 173 riguarda, infatti, solo le pene principali e la demolizione non ha natura penale né intento repressivo, ma solo ripristinatorio.
Con l’occasione, i giudici invitano a non considerare la giurisprudenza di Strasburgo come un diritto “à la carte” dal quale scegliere l’ingrediente ritenuto più adatto. Il distorto utilizzo delle decisioni delle corti europee può condurre a compiere «disanalogie» attraverso le quali si finisce per universalizzare in maniera arbitraria la portata di un principio affermato in un determinato contesto.
Proprio la Cedu (sentenza Ivanova, aprile 2016) ha ribadito che la demolizione è in linea con la Convenzione e può essere considerata come diretta a ristabilire lo stato di diritto anche se il suo unico scopo è garantire l’effettiva attuazione delle disposizioni normative che gli edifici non possono essere costruiti senza autorizzazione.
Fermo restando il rispetto della proporzionalità della misura con la situazione personale dell’interessato, la Corte, nel valutare la compatibilità con il diritto di abitazione, ha ritenuto che la misura possa rientrare nella prevenzione dei disordini ed essere finalizzata a promuovere il benessere economico del Paese
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2016).
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MASSIMA
4. Il secondo motivo, relativamente alla pretesa estinzione per prescrizione dell'ordine di demolizione, è manifestamente infondato.
Invero, il ricorso censura l'omessa dichiarazione della prescrizione, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., dell'ordine di demolizione, in quanto sanzione 'sostanzialmente penale', richiamando, seppur implicitamente, una interpretazione 'convenzionalmente' conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
La tesi è fondata, come noto, su una decisione, del tutto isolata, di un giudice di merito (Tribunale Asti, ordinanza del 03/11/2014, Delorier), che ha dichiarato l'estinzione per decorso del tempo dell'ordine di demolizione, sul presupposto che si trattasse non già di una sanzione amministrativa, bensì di una vera e propria "pena", nella declinazione 'sostanzialistica' fornita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in tal senso, dunque, anche all'ordine di demolizione sarebbe applicabile l'art. 173 cod. pen. sulla prescrizione delle pene.
4.1. Al riguardo, va evidenziato che la tesi della natura 'sostanzialmente penale' dell'ordine di demolizione, oltre ad essere, come di dirà, frutto di una applicazione del diritto eurounitario eccentrica rispetto al sistema costituzionale delle fonti, è infondata.
Al riguardo,
la giurisprudenza di legittimità ha elaborato una serie di principi che hanno costantemente ribadito la natura amministrativa della demolizione, quale sanzione accessoria oggettivamente amministrativa, sebbene soggettivamente giurisdizionale, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (ex multis, Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez. 3, n.37906 del 22/5/2012, Mascia, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/3/1994, Sorrentino Rv. 198511; si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/6/1996, RM. in proc. Monter); in tale quadro, coerentemente è stata negata l'estinzione della sanzione per il decorso del tempo, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., in quanto tale norma si riferisce alle sole pene principali, e comunque non alle sanzioni amministrative (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670); ed altresì è stata negata l'estinzione per la prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative, stabilita dall'art. 28 I. 24.11.1981, n. 689, in quanto riguardante le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva ("il diritto a riscuotere le somme ... si prescrive"), mentre l'ordine di demolizione integra una sanzione 'ripristinatoria', che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio (Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176).
Ebbene, la tesi della natura intrinsecamente penale della demolizione risulta fondata su una serie di indici 'diagnostici' della "materia penale", ovvero la pertinenzialità rispetto ad un fatto-reato, la natura penale dell'organo giurisdizionale che la adotta, l'indubbia gravità della sanzione e l'evidente finalità repressiva; sulla base di tali indici si afferma la natura penale, facendone poi discendere una disinvolta operazione di applicazione analogica dell'art. 173 cod. pen.
4.2. Nel solco di quanto già evidenziato da questa Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, 265540; analogamente, Sez. 3, n. 9949 del 20/01/2016, Di Scala, non ancora massimata), nel sindacato di legittimità dell'ordinanza del Tribunale di Asti,
il quadro normativo che disciplina la demolizione delle opere abusive esclude, innanzitutto, che ricorra l'indice, indiziante la natura penale della misura, della pertinenzialità rispetto ad un fatto reato; invero, l'art. 27 d.P.R. 380 del 2001 disciplina la c.d. demolizione d'ufficio, disposta dall'organo amministrativo a prescindere da qualsivoglia attività finalizzata all'individuazione di responsabili, sul solo presupposto della presenza sul territorio di un immobile abusivo; una demolizione, dunque, che ha una finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario assetto del territorio.
L'art. 31 T.U. edil. disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la sentenza di condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una lettura sistematica, e non solipsistica, della disposizione, dunque,
impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone.
Anche perché è pacifico che
l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010, dep. 2011, D'Avino, Rv. 249309; resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza, cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/1/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa, adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la cui emissione è demandata (anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del procedimento di esecuzione della demolizione.
Del resto, anche la dottrina più consapevole ha sottolineato la
differente finalità e natura delle misure amministrative previste a salvaguardia dell'assetto del territorio: la demolizione, infatti, è connotata da una finalità ripristinatoria, l'acquisizione gratuita del bene e dell'area di sedime e le sanzioni pecuniarie alternative alla demolizione hanno una finalità riparatoria dell'interesse pubblico leso, le sanzioni pecuniarie previste in caso di inottemperanza all'ingiunzione a demolire sono connotate da una finalità punitiva.
Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della demolizione, che non può conseguire automaticamente dall'incidenza della misura sul bene.
In tal senso, non sembra ricorrere neppure l'ulteriore 'indice diagnostico' della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia dell'assetto del territorio, mediante il ripristino dello status quo ante (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736: "
In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva"; che non ricorra una finalità repressiva, del resto, è confermato altresì dalla possibilità di revoca della demolizione, allorquando gli interessi pubblici sottesi alla tutela del territorio siano diversamente ponderati dall'autorità amministrativa, divenendo incompatibili con l'esecuzione della misura ripristinatoria. L'attitudine di un interesse pubblico a paralizzare l'esecuzione della sanzione, dunque, sembra escluderne la asserita finalità repressiva.
4.3. L'altro profilo di perplessità che suscita l'interpretazione (asseritamente) conforme alla giurisprudenza 'eurounitaria' riguarda l'applicazione analogica della norma sulla prescrizione delle pene, che appare addirittura disinvolta.
4.3.1. L'applicazione analogica viene infatti fondata sulla sostanziale obliterazione ermeneutica dell'art. 14 delle Preleggi, sul rilievo che, poiché tale norma non può riferirsi a previsioni di favore, non occorre il presupposto dell'eadem ratio.
La delimitazione del divieto di analogia appare innanzitutto arbitraria, oltre che immotivatamente assertiva.
Se è vero, infatti, che il divieto di analogia in materia penale è considerato, dalla dottrina più attenta, relativo, concernente soltanto le norme penali sfavorevoli, nondimeno l'art. 14 Preleggi impedisce l'integrazione della norma mediante il procedimento analogico nei casi di norme eccezionali.
Al riguardo, la dottrina penalistica più accorta ritiene che il ricorso al procedimento analogico sia precluso rispetto alle cause di non punibilità (denominate anche "limiti istituzionali della punibilità") fondate su specifiche ragioni politico-criminali o su situazioni specifiche: in tal senso, l'analogia non sarebbe consentita rispetto alle immunità, alle cause di estinzione del reato e della pena, e alle cause speciali di non punibilità (ad es., il rapporto di famiglia rilevante ex art. 649 cod. pen.).
Già tale rilievo impedirebbe, dunque, l'applicazione analogica di una causa di esclusione della pena come la prescrizione disciplinata dall'art. 173 cod. pen.
4.3.2. Ma, in ogni caso, ciò che impedisce tale disinvolta operazione interpretativa è la carenza dei due presupposti dell'analogia, alla stregua della tradizionale e condivisa teoria generale del diritto: l'esistenza di una lacuna normativa e l'eadem ratio.
L'applicazione analogica, infatti, presuppone la carenza di una norma nella indispensabile disciplina di una materia o dì un caso (per riprendere la formula dell'art. 14 Prel.), che altrimenti la scelta di riempire un preteso vuoto normativo sarebbe rimesso all'esclusivo arbitrio giurisdizionale, con conseguente compromissione delle prerogative riservate al potere legislativo e del principio di divisione dei poteri dello Stato.
Nel caso di specie, non sembra scorgersi una lacuna normativa, non potendo ritenersi indefettibile la previsione di una causa estintiva della sanzione amministrativa della demolizione in conseguenza del decorso del tempo.
L'opzione di individuare una lacuna normativa, dunque, è del tutto arbitraria, e rimessa alle personali e soggettive scelte dell'interprete. Del resto, l'assenza di una causa di estinzione è comune alla demolizione e ad altre sanzioni amministrative, e sarebbe irragionevole, e comunque arbitraria, un'applicazione analogica della prescrizione alla prima e non alle altre; anche perché mentre la prescrizione (del reato e della pena) in materia penale è legata alla tutela di interessi individuali (libertà personale e dignità umana) ed alla progressiva erosione dell'attitudine risocializzante della pena, in ragione del decorso del tempo (tempori cedere), nella materia lato sensu amministrativa il legislatore ragionevolmente può decidere di non dare rilevanza, in una o più fattispecie sanzionatorie, al decorso del tempo quale causa estintiva, in ragione della prevalenza di interessi pubblicistici oggetto di privilegiata considerazione normativa (nel caso di specie, la prevalenza è attribuita al ripristino dell'assetto del territorio).
Inoltre, manca anche l'eadem ratio, l'elemento di identità fra il "caso" previsto ed il "caso" non disciplinato, sulla quale la tesi della natura intrinsecamente penale della demolizione sorvola.
L'art. 173 cod. pen., infatti, disciplina l'"estinzione delle pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del tempo" (così come, analogamente, l'art. 172 cod. pen. disciplina la prescrizione delle pene della reclusione e della multa); la causa di estinzione, dunque, è limitata alle sole pene principali, non è una norma 'di favore' generale, applicabile, ad esempio, anche alle pene accessorie. A conferma, peraltro, della natura eccezionale della disposizione, già solo per tale motivo insuscettibile di applicazione analogica.
Non si scorge un motivo, ragionevole (inteso non già nella declinazione 'soggettiva', bensì costituzionale, di parità di trattamento di situazioni analoghe) e ancorato a criteri oggettivi, dunque, per applicare analogicamente la prescrizione alla sanzione della demolizione, e non alle pene accessorie -la cui natura penale, peraltro, oltre ad essere normativamente sancita, non è revocabile in dubbio- ovvero agli effetti penali della condanna.
La diversa natura e finalità delle pene principali, da un lato, e della demolizione, dall'altra, non consentono, infatti, di individuare un elemento di identità tra i due "casi" che consenta un'applicazione analogica della norma sulla prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le pene 'principali' hanno una natura lato sensu 'repressiva', ed una finalità rieducativa (recte, risocializzante), ai sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha una natura intrinsecamente 'repressiva', né persegue finalità risocializzanti, perseguendo invece una finalità ripristinatoria dell'assetto del territorio sulla quale le esigenze individuali legate all'oblio per il decorso del tempo risultano necessariamente soccombenti rispetto alla tutela collettiva di un bene pubblico (Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque, deve negarsi innanzitutto la natura intrinsecamente penale della demolizione, ed in secondo luogo la legittimità di un procedimento analogico, in assenza dei due presupposti della lacuna normativa e dell'eadem ratio.
4.4. Non ricorrendo gli estremi di una legittima analogia legis, secondo i canoni interpretativi tradizionalmente desunti dall'art. 14 Prel., si deve prendere in considerazione l'ipotesi che l'operazione 'Interpretativa' a fondamento dell'applicazione analogica della prescrizione alla sanzione della demolizione sia in realtà frutto di una analogia iuris, nella quale si è proceduto alla (invero arbitraria) formulazione ed applicazione di principi generali dell'ordinamento, secondo i canoni desunti dall'art. 12 Prel.
E tuttavia anche tale procedimento interpretativo sarebbe frutto di una soggettiva ed arbitraria opzione politica dell'interprete, in assenza di una inequivocabile lacuna normativa.
Innanzitutto l'analogia iuris presupporrebbe la necessità di risolvere un "caso dubbio" -e non sembra il caso dell'estinzione della sanzione della demolizione-; in secondo luogo imporrebbe l'individuazione di un principio generale applicabile al 'caso dubbio': e non sembra che l'estinzione di una sanzione amministrativa (ma neppure penale) per il decorso del tempo possa plausibilmente integrare un principio generale dell'ordinamento, sia nazionale che sovranazionale.
Va al riguardo sempre rammentato che l'integrazione dell'ordinamento è solo residuale e succedanea all'interpretazione, e, se il caso non è dubbio, non è necessario ricorrere all'applicazione dei principi, in quanto è sufficiente l'applicazione della disposizione scritta.
4.5. Particolarmente attuale appare il monito, espresso anche da consapevole dottrina, che il diritto ‘eurounitario', ed in particolare il diritto proveniente dalla giurisprudenza-fonte della Corte di Strasburgo, non venga adoperato dall'interprete alla stregua di un diritto à la carte, dal quale scegliere l'ingrediente ermeneutico ritenuto più adatto ad un'operazione di precomprensione interpretativa.
Il distorto utilizzo della giurisprudenza casistica delle Corti europee, infatti, può condurre, come nel caso dell'applicazione analogica della prescrizione alla demolizione, a compiere una "disanalogia", con la quale si universalizza arbitrariamente la portata di un principio affermato in un determinato contesto.
In realtà, il principale ostacolo al procedimento analogico adoperato nell'applicazione della prescrizione alla demolizione risiede nel limite 'logico' del tenore lessicale della disposizione di cui all'art. 173 cod. pen.; una norma dall'univoco significato letterale, che non consente esiti ermeneutici contra legem, e che impedisce la (sovente malintesa) interpretazione conforme.
Per impedire forme di "normazione mascherata", infatti, il nostro sistema costituzionale delle fonti, come interpretato nel diritto vivente della Corte costituzionale, ha chiarito, fin dalle c.d. "sentenze gemelle" (n. 348 e 349 del 2007), che il diritto CEDU non è direttamente applicabile; il giudice comune, infatti, ha la sola alternativa di esperire una interpretazione "convenzionalmente conforme" della norma nazionale, ove percorribile, ovvero proporre una questione di legittimità costituzionale, adoperando il diritto CEDU quale parametro interposto di legittimità, ai sensi dell'art. 117 Cost. (Corte Cost. n. 80 del 2011).
Ebbene, nel caso di specie, poiché la norma sulla prescrizione delle pene non appare suscettibile né di applicazione analogica, né tanto meno di interpretazione 'convenzionalmente conforme', a tanto ostandovi l'univoco tenore lessicale (che limita la prescrizione alle pene 'principali'), il giudice comune, ove avesse avuto un fondato dubbio di costituzionalità della norma, per l'omessa previsione di una causa estintiva della demolizione, in virtù della ritenuta natura penale della stessa, avrebbe potuto percorrere l'unica strada della proposizione di una questione di costituzionalità.
5. Del resto, la Corte di Strasburgo ha di recente ribadito la legittimità 'convenzionale' della demolizione, allorquando, valutandone la compatibilità con il diritto alla abitazione, ha affermato che anche se il suo unico scopo è quello di garantire l'effettiva attuazione delle disposizioni normative che gli edifici non possono essere costruiti senza autorizzazione, la stessa può essere considerata come diretta a ristabilire lo stato di diritto; salvo il rispetto della proporzionalità della misura con la situazione personale dell'interessato, la Corte, richiamando quanto previsto dall'art. 8, § 2, della Convenzione e.d.u., ha ritenuto che, nel contesto in esame, la misura può essere considerata come rientrante nella "prevenzione dei disordini", e finalizzata a promuovere il "benessere economico del paese" (Corte EDU, Sez, V, 21/04/2016, Ivanova e Cherkezov vs, Bulgaria).
Altrettanto importante appare l'affermazione della Corte e.d.u. laddove esclude che l'ordine di demolizione contrasti con l'art. 1 del protocollo n. 1 (protezione della proprietà), con la precisazione che l'ordine, emesso dopo un ragionevole lasso di tempo dopo la sua edificazione (per un precedente, cfr. il caso Hamer c. Belgio, deciso il 27.11.2007, n. 21861/03), ha l'obiettivo di garantire il ripristino dello "status quo ante", così ristabilendo l'ordine giuridico violato dal comportamento dell'autore dell'abuso edilizio, e di scoraggiare altri potenziali trasgressori (§ 75).
6. Va dunque riaffermato il principio di diritto (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, 265540; analogamente, Sez. 3, n. 9949 del 20/01/2016, Di Scala, non ancora massimata) secondo cui "
la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen.".

VARINon è stalking lanciare escrementi in giardino.
Nei rapporti di vicinato non basta il lancio di escrementi nel giardino del vicino per fare scattare l'ammonimento del questore ai sensi della legge sullo stalking. Questo comportamento, per quanto molesto, non mette a repentaglio l'incolumità delle persone e può essere inibito con una semplice diffida da parte degli organi di polizia.

Lo ha evidenziato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la sentenza 19.08.2016 n. 792.
Un'anziana signora dei lidi di Comacchio ha preso l'abitudine di salutare l'arrivo dei villeggianti confinanti lanciando nel loro giardino delle deiezioni. Le vittime del fastidioso atteggiamento hanno ripreso l'autrice del lancio con tanto di documentazione audio-video e hanno inviato alla questura un esposto con richiesta di ammonimento della nonnina monella.
Il responsabile provinciale dell'ordine e della sicurezza però ha rigettato questa domanda formale evidenziando che non si tratterebbe di stalking e quindi la vicenda va risolta diversamente. In effetti anche per il collegio bolognese la richiesta di ammonimento ai sensi dell'art. 8 del dl 11/2009 in questo caso è eccessiva perché il lancio di escrementi nel giardino del vicino non può configurare il reato previsto e punito dall'art. 612-bis del codice penale. Non si tratterebbe cioè di una condotta atta a cagionare un perdurante stato di ansia o di paura per l'incolumità personale. Al massimo in questo caso possono sorgere timori di carattere igienico, prosegue la sentenza.
I rapporti di vicinato sono spesso caratterizzati da condotte moleste che possono avere le più svariate ragioni ma non sempre sussistono i presupposti per poter richiedere l'ammonimento. Questo istituto infatti è stato previsto per condotte più gravi che mettono a repentaglio l'incolumità delle persone. Per scoraggiare questo tipo di comportamenti è sufficiente una diffida da parte dei vigili o della polizia, ai sensi dell'art. 1 del tulps.
In buona sostanza questo tipo di atteggiamenti richiede l'intervento della pattuglia per tentare innanzitutto una bonaria composizione della vicenda. E in caso di reiterazione scatteranno sanzioni anche di carattere penale (articolo ItaliaOggi del 24.08.2016).

EDILIZIA PRIVATACavi Enel aperti alla fibra. Coinvolti pochi edifici, non c’è il rischio di posizione dominante.
Telecomunicazioni. Il Tar di Brescia riafferma l’obbligo di ospitare reti «minori» a vantaggio di un Comune.

Obbligo di ospitalità per il gestore delle linee elettriche ai cavi in fibra ottica: lo impone all’Enel il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con sentenza 17.08.2016 n. 1114.
La vicenda riguarda il Comune di Gardone Val Trompia che, con ordinanza del 2015, aveva ingiunto a Enel Distribuzione di consentire che un’impresa terza ponesse una rete in fibra ottica al servizio di edifici comunali: la fibra doveva correre all’interno dei cavidotti di proprietà Enel situati in alcune vie, permettendo così, all’impresa incaricata dal Comune della realizzazione della rete comunale in fibra, di eseguire la posa in sicurezza.
I cavi in fibra ottica, nel loro insieme, sono elettricamente inerti e non aumentano il rischio di elettrocuzione (folgorazione). Il problema, tuttavia, si è posto in quanto il decreto legislativo 33/2016 facilita l’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità, promuovendo l’uso condiviso dell’infrastruttura fisica esistente (cavidotti), ma condizionandola alla disponibilità dello spazio e all’assenza di rischi per l’incolumità, sicurezza, sanità ovvero integrità delle reti. In particolare, tale condizione è prevista dall’articolo 3, che regola l’ospitalità.
A monte, la direttiva dell’Unione europea 61/2014 individua espressamente (nel considerando 13, articolo 2, punto 1ii) la rete di distribuzione dell’energia elettrica definendola infrastruttura fisica ospitante. Quindi, gli operatori titolari delle reti maggiori sono obbligati a dare ospitalità alle reti minori, salvo rifiuto giustificato: in altre parole l’ospitalità è un obbligo per gli enti pubblici e per i gestori dei servizi pubblici.
Su questi princìpi, sopravviene il decreto legislativo del 2016, il quale (articolo 3) consente agli operatori di rete di rivolgersi all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni per risolvere in via amministrativa divergenze con altri operatori di rete circa l’obbligo di ospitalità. L’Autorità decide fissando condizioni eque e ragionevoli anche sul prezzo dell'ospitalità (articolo 9, decreto 33).
Secondo il Tar Brescia, questa procedura lascia intatto, per gli uffici comunali, il potere di accertamento dei presupposti della “coubicazione” degli impianti. Quindi, esiste una doppia facoltà, di rivolgersi all’Autorità garante oppure, in via giurisdizionale, contestare il rifiuto di ospitalità (articolo 9, comma 6, decreto 33/2016).
È un meccanismo simile a quello che, negli appalti pubblici, colloca l’Autorità anticorruzione (Anac) a fianco dei giudici. Quindi, i cavidotti sotterranei già utilizzati per il passaggio di altri sottoservizi sono opere di urbanizzazione e sede prioritaria di nuove reti, sicché secondo il Tar rimane solo un problema tecnico, cioè la verifica di elementi di incompatibilità tra fibra ottica e la tecnologia utilizzata per distribuzione dell'energia elettrica in un determinato segmento della rete elettrica.
Nel caso del Comune bresciano, discutendosi di connettere solo alcuni edifici comunali, a parere del Tar non emergono problemi di posizione dominante sul mercato, terreno insidioso per la presenza di eventuali accordi tra Enel distribuzione e Telecom: in altri termini, essendo limitato il tratto di coubicazione, secondo i giudici occorre solo un confronto tecnico (conferenza di servizi), verificando l’idoneità dei cavidotti ad ospitare la fibra ottica. La logica (il minimo impatto) è la stessa che sarà applicata nei condomini (articolo 8, decreto 33), evitando conflitti tra privati e operatori di rete che intendano raggiungere nuovi abbonati
 (articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2016).
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MASSIMA
5. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sullo strumento dell’ordinanza
6. L’ordinanza impugnata non appartiene al genere delle ordinanze contingibili e urgenti ex art. 54, comma 4, del Dlgs. 18.08.2000 n. 267, non sussistendo evidentemente i presupposti necessari per l’emissione un simile ordine (gravi pericoli per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana).
7. È vero che l’ordine dato dal Comune a Enel Distribuzione non trova una puntuale descrizione come potere di ordinanza all’interno delle norme che regolano la posa delle infrastrutture digitali.
8. Questo però non significa che il Comune abbia agito in carenza di potere. In realtà,
lo strumento dell’ordinanza è utilizzabile ogni volta che sia necessario dare attuazione a un obiettivo definito in modo preciso da una norma. Se i privati non rispettano il divieto di fare, o l’obbligo di fare o di sopportare, contenuti in una norma, quando si tratti di una norma che individua chiaramente una categoria di destinatari, e se questo atteggiamento dei privati può avere conseguenze negative sull’interesse pubblico descritto nella norma stessa, l’amministrazione competente alla tutela del suddetto interesse può intervenire formulando un ordine individuale al privato perché rispetti il contenuto di tale norma.
9. Occorre quindi stabilire se, alla data dell’ordinanza oggetto di impugnazione, vi fosse l’obbligo per Enel Distribuzione di consentire l’utilizzo dei propri cavidotti per la posa della rete in fibra ottica di un gestore di servizi di telecomunicazione, e se l’amministrazione comunale avesse la competenza per imporre l’esecuzione di tale obbligo.
Sulla coubicazione delle reti di servizi pubblici
10. La risposta al primo quesito è affermativa.
Le norme nazionali e comunitarie hanno individuato da tempo un interesse pubblico allo sviluppo delle reti in fibra ottica (v. art. 2 del DL 112/2008) e alla diffusione della banda larga ad alta velocità (v. considerando n. 1 e 2 della Dir. 2014/61/UE).
Per il raggiungimento del predetto obiettivo sia la normativa nazionale sia quella comunitaria stabiliscono un obbligo strumentale, imponendo a ogni concessionario di servizi pubblici di ospitare nella propria infrastruttura fisica le reti in fibra ottica (v. art. 2 comma 2 del DL 112/2008; art. 3 par. 2 della Dir. 2014/61/UE).
11. In via generale, inoltre,
i soggetti pubblici non possono opporsi all’installazione nella loro proprietà di impianti interrati in fibra ottica, tranne quando si tratti di beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni, e l’installazione possa arrecare concreta turbativa al pubblico servizio (v. art. 2, comma 14, del DL 112/2008). Nel contesto, per soggetti pubblici svolgenti un pubblico servizio si devono intendere anche i concessionari di servizi pubblici.
12.
Le infrastrutture destinate all'installazione di impianti in fibra ottica sono assimilate a ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’art. 16, comma 7, del DPR 06.06.2001 n. 380 (v. art. 2, comma 5, del DL 112/2008). Ne consegue che, per definizione legislativa, la rete in fibra ottica è un’opera di urbanizzazione primaria che si inserisce all’interno di un’altra opera di urbanizzazione primaria (nello specifico, la rete di distribuzione dell'energia elettrica).
13. Il servizio pubblico gestito da Enel Distribuzione non ha caratteristiche di specialità tali da fuoriuscire dal perimetro regolatorio sopra delineato. Le formule utilizzate nella normativa nazionale sono in grado di ricomprendere anche i cavidotti del servizio di distribuzione dell’energia elettrica. La Dir. 2014/61/UE individua espressamente (v. considerando n. 13; art. 2 punto 1-ii) la rete di distribuzione dell’energia elettrica come infrastruttura fisica ospitante.
14. In questo quadro,
poiché gli operatori titolari delle reti maggiori sono obbligati dare ospitalità alle reti minori, salvo rifiuto giustificato, e poiché un rifiuto ingiustificato rappresenta un’ostruzione al raggiungimento di un interesse pubblico nazionale e comunitario, è legittimo l’utilizzo di uno strumento autoritativo per superare le resistenze di una delle parti coinvolte.
Sulla competenza comunale
15.
L’autorizzazione alla posa della fibra ottica nelle infrastrutture di un altro operatore di rete rientra tra i poteri di cui sono investiti i comuni. Questi ultimi sono infatti competenti a ricevere e a valutare tutte le denunce di inizio attività relative alle infrastrutture in fibra ottica (v. art. 2, comma 4, del DL 112/2008).
In queste comunicazioni sono indicate anche le infrastrutture civili esistenti da utilizzare ai sensi dell’art. 2, comma 2, del DL 112/2008 per la posa della fibra ottica. Gli uffici comunali possono inibire l’effetto della denuncia di inizio attività solo in assenza di una o più delle condizioni legittimanti, oppure qualora esistano specifici motivi ostativi di sicurezza, incolumità pubblica o salute (v. art. 2, comma 10, del DL 112/2008).
16.
Poiché tra le condizioni legittimanti non rientra l’assenso dell’operatore della rete ospitante (essendo l’ospitalità un obbligo ex lege per gli enti pubblici e per i gestori di servizi pubblici), e poiché le controversie economiche tra chi chiede e chi nega l’ospitalità non possono ritardare lo svolgimento dei lavori (v. art. 2 comma 2 del DL 112/2008), l’approvazione della denuncia di inizio attività da parte degli uffici comunali accerta anche la soccombenza dell’opposizione del gestore della rete ospitante.
17.
Per superare il successivo atteggiamento di inerzia dell’operatore della rete ospitante, che vanifica la posizione giuridica dell’altro operatore riconosciuta come fondata dall’amministrazione comunale, quest’ultima può utilizzare lo strumento dell’ordinanza. Resta ferma la possibilità dell’operatore della rete ospitata di tutelarsi autonomamente in via giurisdizionale, anche contro l’eventuale silenzio dell’amministrazione di fronte all’ostruzionismo dell’operatore della rete ospitante.
18. Su questo meccanismo autorizzatorio è intervenuta in corso di causa la disciplina del Dlgs. 15.02.2016 n. 33, che ha introdotto la facoltà per gli operatori di rete di rivolgersi all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) allo scopo di risolvere in via amministrativa le divergenze con gli altri operatori di rete circa l’obbligo di ospitalità (v. art. 3, comma 5, del Dlgs. 33/2016). Nel termine di due mesi l’AGCOM emette una decisione vincolante, fissando condizioni eque e ragionevoli, anche sul prezzo dell’ospitalità (v. art. 9, comma 2, del Dlgs. 33/2016).
19. Peraltro, l’innovazione normativa non cancella la competenza comunale sulla denuncia di inizio attività. È vero, infatti, che è stato abrogato il comma 2 dell’art. 2 del DL 112/2008 sull’obbligo di prestare ospitalità (riformulato e precisato nell’art. 3 del Dlgs. 33/2016, in conformità all’art. 3 par. 2 e 3 della Dir. 2014/61/UE).
Sono però rimasti invariati i commi 4, 5, 10 e 14 dell’art. 2 del DL 112/2008 sulla procedura di autorizzazione alla posa della fibra ottica, e dunque permane in capo agli uffici comunali il potere di accertamento dei presupposti della coubicazione degli impianti. A questo punto, nella nuova disciplina, una delle parti può attivare un subprocedimento davanti all’AGCOM, oppure ricorrere subito in via giurisdizionale contro il rifiuto di ospitalità (v. art. 9, comma 6, del Dlgs. 33/2016).
Nulla impedisce, naturalmente, che l’AGCOM sia interpellata prima del deposito della denuncia di inizio attività. L’attivazione del subprocedimento davanti all’AGCOM nel corso della procedura davanti agli uffici comunali comporta necessariamente la sospensione di quest’ultima. La decisione dell’AGCOM sull’obbligo di ospitalità è vincolante anche ai fini della pronuncia degli uffici comunali, potendo essere messa in discussione solo in via giurisdizionale (v. art. 9, comma 5, del Dlgs. 33/2016).
20. La nuova disciplina, applicabile con decorrenza 01.07.2016 (v. art. 15, comma 1, del Dlgs. 33/2016), non può essere invocata nel presente giudizio, che si è radicato con riferimento a situazioni sostanziali e procedurali esaurite nella vigenza della vecchia normativa.
Sul rifiuto di ospitalità
21.
Il rifiuto di Enel Distribuzione non può essere giustificato sulla base dell’art. 3, comma 3, del DM 01.10.2013. Al contrario, tale norma individua nei cavidotti sotterranei già utilizzati per il passaggio di altri sottoservizi la sede prioritaria delle nuove infrastrutture digitali. Il problema è quindi soltanto tecnico, ossia se vi siano in concreto elementi di incompatibilità tra la fibra ottica e la tecnologia utilizzata per la distribuzione dell’energia elettrica in un determinato segmento della rete elettrica.
22. Restano invece del tutto estranee alla possibilità di motivare il rifiuto sia le questioni circa il mercato della banda larga in generale sia le relazioni commerciali intercorrenti nello specifico tra il Comune e Intred spa. Del resto, appare evidente che la coubicazione chiesta da Intred spa per il collegamento di alcuni edifici comunali non ha alcun peso sull’evoluzione della banda larga, né a livello nazionale né a livello locale.
In proposito si può anzi osservare che una posizione dominante sul mercato potrebbe essere assunta proprio da Enel Distribuzione, attraverso accordi come quello con Telecom Italia sopra richiamato, il quale prevede appunto lo sviluppo su ampia scala della rete in fibra ottica all’interno delle infrastrutture elettriche.
23. Pertanto,
l’unico (limitato) profilo sotto cui le preoccupazioni di Enel Distribuzione possono trovare accoglimento consiste nella verifica, in contraddittorio, dell’idoneità dei cavidotti in esame a ospitare la fibra ottica. Il Comune ha già raccolto documentazione tecnica a sostegno della propria posizione.
È ora necessario, come già osservato in sede cautelare (v. ordinanza n. 413 del 24.03.2015), che il confronto con Enel Distribuzione si procedimentalizzi attraverso un confronto tecnico, nella forma della conferenza di servizi aperta alla partecipazione di Intred spa, con la presenza degli esperti e dei tecnici di fiducia delle parti. La finalità del suddetto confronto riguarda l’analisi delle condizioni tecniche per la posa e il mantenimento della fibra ottica nei cavidotti indicati dal Comune, compresa la tempistica dei lavori.
Rimangono invece estranee a questo supplemento istruttorio eventuali questioni economiche, tenendo conto della circostanza che Enel Distribuzione (v. pag. 23 del ricorso) non ha subordinato la posa della fibra ottica a un corrispettivo monetario.
Conclusioni
24. Il ricorso deve quindi essere accolto parzialmente, nel senso che il provvedimento impugnato è annullato soltanto nella parte in cui stabilisce la data di posa della fibra ottica nei cavidotti.
25. L’effetto conformativo della pronuncia vincola il Comune a indire, e a concludere, la sopra descritta procedura di confronto tecnico nel termine di 90 giorni dal deposito della presente sentenza.
Successivamente a tale termine, il Comune potrà adottare una nuova ordinanza di diffida nei confronti di Enel Distribuzione, motivata in relazione alle risultanze del confronto tecnico, e, se necessario, integrata da ulteriori controdeduzioni o prescrizioni.

PUBBLICO IMPIEGOSpacciarsi per un poliziotto costituisce reato.
Spacciarsi per un poliziotto è un reato.

Lo afferma la V Sez. penale della Corte di Cassazione, nella sentenza 16.08.2016 n. 34894, che ha esaminato il ricorso di un uomo, La Mo. Lu., condannato nel 2015 a 10 mesi e 20 giorni di carcere dalla Corte d'appello di Bolzano per aver utilizzato un falso distintivo della polizia spacciandosi per agente così da intimare a Maria S., una cittadina straniera, di spostare l'automobile altrimenti avrebbe annotato la targa e rimosso l'automobile.
La donna, accortasi dell'inganno e dell'improbabile distintivo, «per il comportamento tenuto dal falso poliziotto che non si era qualificato correttamente, non comunicando nome, cognome e grado, come richiestogli e, poi, per la custodia apparsa troppo consumata per essere vera agli occhi della malcapitata», si era recata dalla polizia (quella vera) per sporgere querela.
L'uomo ha presentato ricorso in Cassazione spiegando il suo atteggiamento come un «falso innocuo», perché appunto la donna si accorse subito della simulazione, quindi non avrebbe subìto alcun danno in merito. Ma i giudici hanno sentenziato come il ricorso sia «inammissibile, generico e comunque manifestamente infondato», perché l'articolo 497-ter del codice penale punisce «chiunque illecitamente detiene segni distintivi, contrassegni o documenti di identificazione in uso ai corpi di polizia, ovvero oggetti o documenti che ne simulano la funzione».
E oltre al rigetto, infine, il falso agente dovrà pagare 1.000 euro per le spese processuali (articolo ItaliaOggi del 18.08.2016).

VARILavoratori furbetti, investigatore valido.
Validi gli 007 in azienda per smascherare i lavoratori furbetti.
A stabilirlo la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella sentenza 16.08.2016 n. 17113, in cui i porporati hanno esaminato il ricorso di un uomo, che nel 2012 è stato licenziato da un'azienda gelese per simulazione fraudolenta del suo stato di malattia, con tanto di certificato medico.
Nel febbraio 2015 la Corte d'appello di Caltanissetta rigettò il ricorso, presentato nel gennaio 2014, specificando che «dal materiale probatorio acquisito, anche attraverso filmati e fotografie nonché mediante deposizione testimoniale di un agente investigativo, risultasse accertato l'addebito», oltre al fatto che fosse stata evidenziata «tutta una serie di azioni e movimenti del tutto incompatibili con la sussistenza della malattia», ovvero una lombalgia.
Il lavoratore però ha presentato ricorso in Cassazione, criticando le modalità di verifica dell'azienda, che avrebbe violato sia lo Statuto dei lavoratori che la legge sulla privacy, ritenendo inammissibile «che la ricerca degli elementi utili a verificare l'attendibilità della certificazione medica inviata dal lavoratore era stata compiuta da un'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro».
I giudici di piazza Cavour, esaminando il ricorso, non hanno accolto le motivazioni dell'uomo che poggiavano sulle norme dello Statuto, le quali «non precludono che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in genere degli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto atta a dimostrare l'insussistenza della malattia, o la non idoneità di quest'ultima, a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l'assenza».
Pieni poteri quindi al datore di lavoro che, sospettando di un dipendente furbetto, può «prendere conoscenza di comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro», il quale «può ricorrere alla collaborazione di soggetti (come nella specie un'agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale».
La Cassazione però ha accolto solo un motivo del ricorso dell'uomo, quello in cui lamenta dei vizi di forma. La Corte nissena ha evidenziato come ordinatorio l'art. 8 c. 4 dello Statuto, che spiega come «se il provvedimento non verrà comminato entro i sei giorni successivi a tali giustificazioni, queste si riterranno accolte», perché «la contestazione dell'addebito non richiede l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa».
Con il licenziamento quindi spetterà al giudice attribuire al lavoratore, come indennità di licenziamento, «da un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione» (articolo ItaliaOggi del 18.08.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocato inganna cliente, non c’è la «lieve tenuità». Impunità esclusa anche se il danno è minimo e il legale incensurato.
Cassazione. Niente applicazione dell’articolo 131-bis per chi lucra sulla parcella.
All’avvocato che fa pagare al cliente una parcella per un’attività mai svolta non può essere applicata la particolare tenuità del fatto. Neppure se la somma lucrata è minima e il legale è incensurato: a rendere impossibile l’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale è la lesione al vincolo di fiducia che lega l’assistito al proprio difensore.
Con la sentenza 16.08.2016 n. 34887, la Corte di cassazione -Sez. feriale penale- respinge il ricorso di un avvocato condannato per truffa (articolo 640 del Codice penale ) ai danni del proprio assistito.
Il legale aveva chiesto e ottenuto una somma per una denuncia che affermava di aver depositato in Procura, per poi ritirarla in un secondo momento. Circostanza che in realtà non si era verificata: la denuncia non era mai stata fatta e, ovviamente, mai ritirata.
Il ricorrente ha tentato di giocarsi la carta della particolare tenuità del fatto. La norma, introdotta con il Dlgs 28/2015, consente di restare “impuniti” a particolari condizioni: quando l’offesa è particolarmente tenue, la pena resta sotto il minimo edittale dei cinque anni, e il reato non è abituale. Requisiti che il legale riteneva di possedere.
La Cassazione spiega però che il beneficio è stato correttamente negato dalla Corte d’appello, perché quello che pesa è il "tradimento” della fiducia che l’assistito ripone nel difensore.
La condotta sotto esame è stata, infatti, realizzata nel contesto del delicatissimo ed assai rilevante rapporto fiduciario avvocato-cliente. La lesione non può essere considerata né trascurabile né marginale, a prescindere dall’importo lucrato con il reato, perché sono state disattese le aspettative e l’affidamento della parte lesa. Per la Suprema corte, si è trattato di un’azione rimarchevole, grave e intrinsecamente dotata di una carica di offensività penale palese, anche perché consumata nell’esercizio della professione forense a danno di un soggetto che con fiducia aveva chiesto aiuto legale ad un professionista del settore.
Ma non basta. I giudici della sezione feriale valorizzano anche la percezione che del reato si può avere all’esterno.
«Si è trattato inoltre -si legge nella sentenza- di un’azione dotata di un tasso di partecipazione psicologica e soggettiva, in capo al prevenuto, intenso, francamente incompatibile con la previsione e con i parametri normativi delineati dall’articolo 131-bis del Codice penale, pensati ovviamente per episodi minimali, realmente blandi e percepiti o percepibili dai destinatari della sanzione penale e dalla collettività dei consociati come tali».
Nulla da fare, dunque, per evitare una condanna che arriva malgrado le attenuanti dell’incensuratezza e della esiguità del danno siano state considerate dei giudici di merito prevalenti sull’aggravante, di aver commesso il fatto nell’ambito di una prestazione d’opera (articolo 61, numero 11, del Codice penale)
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.08.2016).

VARIFinta malattia, il certificato non basta. Gli accertamenti sanitari prodotti dal lavoratore contestabili dall’azienda.
Licenziamenti. Valido il recesso se esistono elementi oggettivi che provano l’inesistenza della patologia denunciata.

Il certificato medico non basta ad attestare l’esistenza della malattia del lavoratore quando esistono elementi oggettivi che provano l’inesistenza della patologia denunciata dal dipendente come motivo per assentarsi dal lavoro.
La Corte di Cassazione (Sez. lavoro - sentenza 16.08.2016 n. 17113) torna ad affrontare la spinosa questione della valenza che assumono i certificati medici quando il dipendente tiene una condotta palesemente incompatibile con la malattia accertata dal medico curante. La vicenda al vaglio dei giudici di legittimità riguarda un lavoratore licenziato per «simulazione fraudolenta dello stato di malattia»; il licenziamento era stato intimato in quanto l’azienda aveva accertato che aveva compiuto tutta una serie di azioni e movimenti incompatibili con la malattia che lo stesso aveva dichiarato di avere: una lombalgia.
Il dipendente aveva impugnato il recesso, facendo leva sull’esistenza di una documentazione medica attestante l’esistenza della patologia denunciata. La Corte di cassazione -confermando le pronunce dei giudici di merito- ritiene valido il licenziamento, facendo presente (come già affermato in alcune decisioni precedenti, la n. 6236/2001 e la più recente n. 25162/2014) che le certificazioni mediche e gli accertamenti sanitari prodotti dal lavoratore possono essere contestate dall’azienda.
Tali contestazioni, osserva la Corte, non devono basarsi necessariamente su accertamenti medici contrari a quelli forniti dal dipendente, ma possono essere fondate anche su elementi di fatto: in questo contesto la credibilità della certificazione può venire meno ogni volta che esistano elementi di fatto capaci di dimostrare l’inesistenza della malattia o, comunque, la sua inidoneità a impedire la prestazione lavorativa.
La sentenza ricorda anche che, per giurisprudenza costante, il datore di lavoro ha facoltà di investigare sulle condotte del dipendente estranee allo svolgimento della prestazione lavorativa se queste possono incidere negativamente sul corretto adempimento della prestazione lavorativa. In quest’ottica, la Corte ricorda che il datore di lavoro può incaricare un’agenzia investigativa di seguire il dipendente assente per malattia allo scopo di verificare se la certificazione medica inviata per motivare l’assenza sia attendibile oppure no, anche se non c’è la certezza di un illecito ma esiste solo un semplice sospetto circa la commissione di atti non regolari.
L’unico limite che incontra tale facoltà riguarda l’adempimento diretto della prestazione lavorativa, il cui controllo spetta direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e non può essere delegato a soggetti esterni. La pronuncia potrà agevolare la repressione dei casi di assenteismo agevolati da certificazioni mediche troppo generose, in quanto consente di andare oltre queste certificazioni quando la realtà è oggettivamente diversa da quanto attestato dal medico
 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.08.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIPrestazione difensiva unitaria. Il diritto al compenso matura al termine dell'incarico. La Corte di cassazione sulla deducibilità dei costi legati all'assistenza legale.
In materia di prestazioni professionali vige la regola della postnumerazione (artt. 2225 e 2233 c.c.), secondo la quale il diritto al compenso pattuito matura una volta posta in essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il risultato a cui la prestazione è diretta. La prestazione difensiva ha, quindi, carattere unitario. Unitarietà che deve essere rapportata ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio e quindi al momento della pronuncia che conclude ciascun grado. Aveva, pertanto, errato il giudice di merito che aveva invece riconosciuto il diritto del professionista all'immediata percezione del compenso per ogni singola prestazione, dove la prestazione veniva intesa come singolo atto difensivo. Il corrispettivo della prestazione del professionista e la relativa spesa si considerano invece rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 11.08.2016 n. 16969.
Nel caso di specie, secondo l'amministrazione finanziaria ricorrente, i costi per prestazioni di assistenza legale, per attività svolta per causa ancora pendente, non erano deducibili, dovendo questi essere considerati sostenuti solo alla definitiva ultimazione delle prestazioni e cioè solo a conclusione della controversia giudiziaria.
Il motivo di impugnazione, secondo i giudici di legittimità, era fondato, come anche confermato dal fatto che gli onorari di avvocato debbono essere liquidati in base alla tariffa vigente nel momento in cui la prestazione è condotta a termine e dal fatto che, ai sensi dell'art. 2957 c.c., la prescrizione del diritto dell'avvocato al compenso decorre dal momento dell'esaurimento dell'affare per il cui svolgimento fu conferito l'incarico dal cliente.
Tale regola è mitigata soltanto da un duplice ordine di diritti del professionista: quello all'anticipo delle spese occorrenti all'esecuzione dell'opera e quello all'acconto, da determinarsi secondo gli usi sul compenso da percepire una volta portato a termine l'incarico professionale (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).
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MASSIMA
Il motivo è fondato.
In materia di prestazioni professionali vige la regola della postnumerazione (artt. 2225 e 2233 c.c.), secondo la quale il diritto al compenso pattuito si matura una volta posta in essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il risultato a cui la prestazione è diretta (regola mitigata da un duplice ordine di diritti del professionista: quello all'anticipo delle spese occorrenti all'esecuzione dell'opera e quello all'acconto, da determinarsi secondo gli usi sul compenso da percepire una volta portato a termine l'incarico - Cass. 10.11.2006, n. 24046).
La prestazione difensiva ha così carattere unitario e ciò importa che gli onorari di avvocato debbano essere liquidati in base alla tariffa vigente nel momento in cui la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale, unitarietà che va rapportata ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio, e quindi al momento della pronunzia che chiude ciascun grado (fra le tante Cass. 03.08.2007, n. 17059).
Ulteriore manifestazione dell'unitarietà della prestazione è la decorrenza della prescrizione. Ai sensi dell'art. 2957 c.c. la prescrizione del diritto dell'avvocato al compenso decorre dal momento dell'esaurimento dell'affare per il cui svolgimento fu conferito l'incarico dal cliente (Cass. 30.06.2015, n. 13401).
Ha quindi errato il giudice di merito che ha riconosciuto il diritto del professionista all'immediata percezione del compenso per ogni singola prestazione, dove prestazione, essendo indipendente dalla decisione della lite, va inteso come singolo atto.
Il giudice tributario dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto:
il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale.

ENTI LOCALI - VARI: Verbali multe, l'ufficio ha più tempo per presentare le carte. Risolto uno dei nodi delle cause di impugnazione.
Più chance alla difesa delle multe. La p.a. ha più tempo per presentare i documenti relativi ai verbali. Anche oltre il termine di dieci giorni prima dell'udienza, previsto dalle norme processuali, che deve, dunque, considerarsi non perentorio.

La Corte di Cassazione - Sez. VI civile (sentenza 09.08.2016 n. 16853) ha così risolto uno dei nodi delle cause di impugnazione di verbali e ordinanze.
Nel caso specifico un automobilista ha impugnato una sanzione relativa a una infrazione alla segnalazione di semaforo rosso, in orario in cui il segnalatore avrebbe dovuto rimanere spento.
Nel giudizio è emersa la questione della tardività dei documenti presentati, anche con fax, dalla prefettura a sostegno del verbale.
L'estromissione dei documenti avrebbe comportato la vittoria dell'automobilista, per mancanza di prova dell'infrazione.
Secondo l'interessato, in base alla legge processuale relativa alle opposizioni a verbali e ordinanze (art. 7 dlgs 150/2011), i documenti, a pena di decadenza, devono essere presentati in giudizio al più tardi entro il decimo giorno precedente l'udienza. Questo perché il dlgs 150/2011 estende ai processi sulle sanzioni amministrative il rito del lavoro, disciplinato nel codice di procedura civile.
E in questo rito c'è effettivamente il termine di dieci giorni per la costituzione in giudizio: entro tale termine la parte interessata deve svolgere le difese sulle questioni non rilevabili d'ufficio dal giudice, altrimenti decade; inoltre, sempre entro i dieci giorni, si devono indicare i mezzi di prova e depositare i documenti, altrimenti la regola è che le prove e i documenti presentati successivamente sono inammissibili e non se ne può tenere conto ai fini della decisione.
La Cassazione è stata di diverso parere. Vediamo perché. Innanzitutto una premessa di carattere storico.
Prima del dlgs 150/2011 era vigente la legge 689/1981, che prevedeva, per il deposito da parte della p.a. dei documenti relativi ai verbali, il termine di dieci giorni: tale termine è sempre stato unanimemente ritenuto non perentorio. Bisogna però vedere se l'orientamento precedente trova appigli nelle nuove norme.
La sentenza analizza, dunque, il dlgs 150/2011 e scopre un'apparente ripetizione. L'articolo 7 del dlgs 150/2011 in un comma, il settimo, indica il termine (dieci giorni) per il deposito in giudizio della documentazione inerente il verbale e, in un altro comma, il primo, attraverso il richiamo del rito del lavoro, rende applicabile l'articolo 416 codice procedura civile, che pure prevede un termine (dieci giorni) per le difese e, quindi, per il deposito dei documenti.
Nel dettaglio, secondo il comma settimo, il giudice, nel fissare l'udienza, deve ordinare all'autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell'udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all'accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione.
Nel primo comma, nel recepire il rito del lavoro, si estendono alla p.a. le norme sulla costituzione in giudizio, con deposito di memoria almeno dieci giorni prima dell'udienza, nelle quali indicare tutte le difese e allegare i documenti difensivi.
Il problema è se siamo di fronte a un doppione. Per la Cassazione la risposta è no, considerando che, proprio il dlgs 150/2011 (articolo 7, comma 1), per le cause sui verbali, richiama sì il rito del lavoro, ma solo se «non diversamente disposto» dal medesimo decreto.
La sentenza, allora, ritiene che il dlgs 150/2011, al comma settimo, abbia previsto una specifica regolamentazione del regime del deposito dei soli atti strettamente collegati all'atto sanzionatorio.
Questo, dunque, con una deroga al rito del lavoro. Quindi, per gli atti strettamente relativi al verbale, il termine è quello di dieci giorni dell'articolo 7, comma 7, del dlgs 150/2011 (e non quello, perentorio, dell'articolo 416 del codice di procedura civile).
Rimane, però, il quesito e cioè se, a sua volta, il termine di dieci giorni abbia o meno natura perentoria. Secondo la cassazione il termine non è perentorio e il suo decorso non comporta una decadenza: questo sia perché non è previsto espressamente il contrario, sia per dare un seguito agli orientamenti consolidati sulla cassazione sulla natura del termine, nella specifica materia e nella vigenza della precedente normativa.
Secondo la pronuncia in commento, quindi, si deve considerare che il processo sui verbali necessita di adattamenti, «specie per quanto riguarda la produzione in giudizio della documentazione della stessa amministrazione»: solo così, infatti, si dà la possibilità al giudice di conoscere tutto ciò che è stato accertato e valutato dall'amministrazione ai fini della adozione e notifica dell'atto sanzionatorio.
Attenzione, però, a non far dire alla sentenza cose che non dice. La pronuncia riguarda solamente il deposito di documenti strettamente inerenti il verbale (cosa diversa, per esempio, dalla costituzione in giudizio e dalla formulazione di eccezioni non rilevabili d'ufficio). Salvo la norma sul deposito dei documenti strettamente inerenti l'atto impugnato (e le altre deroghe espresse contenute negli articoli 2, 6 e 7 del dlgs 150/2011), per tutto il resto, si applica il rito del lavoro.
I principi della sentenza in commento valgono per le cause sui verbali per contravvenzioni amministrative e per le cause sulle ordinanze ingiunzioni nella medesima materia, sia per violazioni del codice della strada sia per altri tipi di illeciti (articoli 6 e 7 del dlgs 150/2011) (articolo ItaliaOggi del 18.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Revocazione, strada in discesa. Riproposizione dei motivi di ricorso.
L'esistenza di un motivo di ricorso, non esaminato dal giudice di primo grado, in quanto espressamente ritenuto assorbito dall'accoglimento di altro motivo, ma espressamente riproposto in appello, e nondimeno in quella sede ancora dichiarato assorbito per la stessa ragione, costituisce un fatto processuale la cui affermata (o supposta) inesistenza, contrariamente all'evidenza, costituisce errore di fatto percettivo idoneo a condurre alla revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c., ove immediatamente percepibile dagli atti e decisivo.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 09.08.2016 n. 16798.
Nel caso di specie la ricorrente lamentava che la sentenza (della stessa suprema Corte) per la quale proponeva revocazione, nell'accogliere l'unico motivo di ricorso proposto dall'ufficio, aveva omesso di prendere in esame gli ulteriori tre motivi posti a fondamento del ricorso introduttivo, e che, riproposti in appello, erano stati dichiarati assorbiti dalla Ctr ed erano stati altresì riproposti con il controricorso per cassazione.
La decisività dell'errore era nella specie evidente, in quanto, ove la Corte avesse tenuto presente l'esistenza dei detti motivi, rimasti assorbiti nel precedente gradi di merito, una volta accolto il ricorso della parte rimasta soccombente, con ciò escludendo la fondatezza dell'unico motivo esaminato nel merito, non avrebbe potuto decidere nel merito, ma avrebbe dovuto rinviare al giudice a quo, al fine di risolvere la parte residua della controversia (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Con l’esposto anonimo scatta il sequestro. Indagini penali. Basta che la polizia giudiziaria trovi un minimo riscontro alla notitia criminis.
Una denuncia anonima può bastare a far scattare perquisizioni e sequestri: è sufficiente che la polizia giudiziaria, dopo la ricezione dell’esposto, abbia svolto quel minimo di attività necessaria ad acquisire la notitia criminis, per poi dar tempestivamente seguito all’accertamento della prova di cui il sequestro è lo strumento principe.

La Corte di cassazione -VI Sez. penale, sentenza 04.08.2016 n. 34450- scioglie le briglie degli investigatori allargando i paletti dell’articolo 240 del Codice di procedura («I documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti né in alcun modo utilizzati, salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato»).
Il caso arrivato al giudizio di legittimità riguardava l’inchiesta della procura di Ancona contro un dipendente pubblico che nel dicembre scorso aveva caricato sul social media Facebook una serie di post offensivi verso il presidente della Repubblica e di vilipendio della nazione italiana (articoli 278 e 291 del Codice penale).
L’uomo, un quarantenne del posto, era stato denunciato con un esposto anonimo e dopo poco si era trovato la polizia giudiziaria in casa e al lavoro per vedersi sequestrare il telefono cellulare, una pen drive e gli hard disk dei due computer in uso. Immediata l’impugnazione davanti al Riesame, con esito negativo, e quindi il ricorso in Cassazione per lamentare l’utilizzo improprio del sequestro probatorio, fondato appunto su una “delazione” anonima.
Anche la Suprema Corte ha però validato le iniziative adottate nell’indagine preliminare -cioè i sequestri- in quanto orientate ad «assicurare le fonti di prova». In questo contesto, scrive la Sesta sezione, «si è in presenza di una fonte valida a stimolare l’attività di indagine d’iniziativa della polizia giudiziaria», pg che proprio sulla base dell’esposto aveva subito riscontrato la notitia criminis sul profilo Facebook riferibile alla persona finita sotto indagine. E per trovare ulteriori riscontri all’ipotesi di reato, e soprattutto sulla responsabilità dell’indagato, la procura aveva immediatamente avviato la rogatoria internazionale per ottenere i dati in possesso del gestore del servizio di social media.
Se è vero che una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici di indagine, scrive l’estensore, «e quindi non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono indizi di reità», è altresì vero che gli elementi contenuti nell’anonimo «possono stimolare l’attività del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi elementi utili per l’individuazione di una notitia criminis»
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: La Scia semplifica il commercio. Niente comunicazione al comune per chiudere l'attività. Le novità del dlgs che ha avuto l'ok di palazzo Spada. Incentivi alle bonifiche da parte di terzi.
Basterà la Scia anche per aprire o trasferire la sede di esercizi commerciali che somministrano alimenti e bevande (comprese quelle alcoliche) in zone soggette a tutela. Abolita la comunicazione al comune della cessazione dell'attività degli esercizi di vicinato, nonché delle medie e grandi strutture di vendita. Per le attività soggette ad autorizzazione di pubblica sicurezza, la Scia produrrà gli effetti dell'autorizzazione, anche ai fini ispettivi. Mentre per quanto riguarda il settore ambientale, vengono incentivate le bonifiche da parte di terzi, ossia di soggetti diversi da quelli che hanno contaminato i siti.

Lo schema di decreto legislativo sulla cd «Scia 2» che ha ricevuto l'ok dal Consiglio di stato nel parere 04.08.2016 n. 1784 (si veda ItaliaOggi di ieri) introduce rilevanti novità non solo nel campo delle autorizzazioni edilizie, ma anche nel commercio, nella pubblica sicurezza e nel settore ambientale.
Commercio
La bozza di dlgs semplifica il regime per l'apertura o il trasferimento di sede degli esercizi commerciali che somministrano alimenti e bevande (comprese quelle alcoliche) in zone soggette a tutela. Per tutte queste tipologie di pratiche basterà la Scia. Inoltre, viene abolita la comunicazione al comune della cessazione dell'attività degli esercizi di vicinato, nonché delle medie e grandi strutture di vendita.
L'applicabilità della Scia, precisa tuttavia il Consiglio di stato, resta esclusa per taluni procedimenti per i quali siano previsti specifici strumenti di programmazione settoriale, come il commercio nelle medie e grandi strutture di vendita e la somministrazione di alimenti e bevande, per i quali la legislazione prevede di norma un regime autorizzatorio, che risponde alle regole di una programmazione settoriale basata su criteri individuati dalle regioni e dai comuni.
Pubblica sicurezza
Per le attività soggette ad autorizzazione di pubblica sicurezza, la Scia produrrà gli effetti dell'autorizzazione, anche ai fini ispettivi. La ratio è chiara: far prevalere la vocazione commerciale dell'attività, fermo restando il potere di controllo da parte degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza.
Ambiente
Incentivate le bonifiche da parte di terzi, ossia da parte di soggetti diversi da coloro che hanno contaminato i siti. La ragione è incoraggiare l'iniziativa privata di chi decida di attivarsi volontariamente in considerazione del risparmio che ciò comporta per la spesa pubblica. Infatti, ai sensi del dlgs n. 152 del 2006, spetta alla pubblica amministrazione effettuare d'ufficio gli interventi di ripristino qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente oppure non siano individuabili oppure in caso di inadempimento del proprietario del sito e degli altri soggetti interessati.
Il Consiglio di stato ha apprezzato la novità. «L'idea di costruire un regime di favore per l'impiego di capitali privati, provenienti dai soggetti incolpevoli, nei siti che richiedono interventi di bonifica e, soprattutto, nei Siti di interesse nazionale, è convincente», osservano i giudici. «In primo luogo, si contribuisce all'obiettivo di riqualificare ambiti territoriali compromessi sotto il profilo ambientale, avviando un efficace processo di rigenerazione urbana e limitando fortemente il consumo di suolo. In secondo luogo l'impatto macroeconomico è virtuoso, essendo prevedibili esternalità positive, in termini di crescita dei livelli occupazionali».
Altri interventi
Nel parere il Consiglio di stato solleva il problema di quale sia la sorte degli altri interventi potenzialmente interessati alla delega, dato che lo schema di decreto tratta solo edilizia, ambiente, commercio e pubblica sicurezza, mentre la delega copre l'intero ordinamento delle funzioni amministrative. In considerazione di ciò, palazzo Spada invita il governo «a non interrompere l'opera di ricognizione della disciplina di altri settori di attività private, specialmente quelle oggetto di libertà di iniziativa economica».
Per questo, secondo il Cds, l'esecutivo dovrà prendere in considerazione «il progressivo completamento della riforma tramite decreti integrativi e correttivi» da emanarsi entro un anno dall'entrata in vigore del dlgs.
A questo proposito la commissione speciale del Consiglio di stato propone un'interpretazione «ragionevole», anche se un po' restrittiva, della disposizione di chiusura sulle attività libere contenuta nell'art. 1, comma 2, del decreto Scia 1 (dlgs n. 126/2016).
Il decreto prevede che «allo scopo di garantire certezza sui regimi applicabili alle attività private e di salvaguardare la libertà di iniziativa economica, le attività private non espressamente individuate con decreto o specificamente oggetto di disciplina da parte della normativa europea, statale e regionale, sono libere».
Per Palazzo Spada la disposizione di chiusura sulle attività libere deve intendersi applicabile ai settori oggetto del futuro decreto e non anche ai settori rimasti completamente al di fuori dell'opera di riordino. In tal senso deve intendersi il riferimento alle attività che non siano «specificamente oggetto di disciplina da parte della normativa europea, statale e regionale», riferimento che consente di ritenere ancora pienamente vigenti le normative esistenti nei settori non interessati dalla riforma (articolo ItaliaOggi del 10.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARISosta oltre ticket, c'è sanzione. La permanenza configura danno erariale per la p.a.. Sentenza della Corte di cassazione ritiene infondato il ricorso di un automobilista.
Lasciare la propria vettura in una zona di sosta a pagamento oltre il limite indicato dal ticket acquistato giustifica l'irrogazione di una sanzione pecuniaria in quanto la permanenza del veicolo oltre il limite di tempo presuppone un danno erariale per l'amministrazione.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 03.08.2016 n. 16258 (pres. S. Petiti, rel. A. Giusti) con la quale i supremi giudici hanno posto fine alla vicenda che aveva preso avvio dall'opposizione sollevata da un automobilista contro il verbale di accertamento con il quale gli era stata inflitta una sanzione pecuniaria per aver sostato con il proprio veicolo, negli spazi delimitati da strisce blu, un'ora in più rispetto a quanto pagato con apposito contrassegno.
Il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione di due norme: l'art. 157, commi 7 e 8 (arresto, fermata e sosta di veicoli) e l'art. 7, c. 15 (regolazione della circolazione nei centri abitati) del codice della strada. A suo dire, il mancato versamento dell'importo per le ore di sosta ulteriori rispetto a quelle effettivamente pagate non costituiva una violazione del codice della strada ma un mero inadempimento dell'obbligazione contrattuale conclusa al momento del pagamento del biglietto.
La Suprema corte ha invece ritenuto infondato il motivo di ricorso; in particolare ha ribadito che l'art. 157, c. 6, Cds prevede due distinte condotte: nel caso di sosta a tempo limitato il conducente deve indicarne l'inizio e nell'ipotesi di presenza di un dispositivo di controllo della durata della sosta l'automobilista ha l'obbligo di azionarlo. Con il sintagma «dispositivo di controllo della durata della sosta» si fa riferimento anche ai posteggi a pagamento mediante acquisto di apposita scheda (cosiddetto «ticket»).
Secondo la Suprema corte in materia di sosta a pagamento su suolo pubblico, ove la sosta si protragga oltre l'orario per il quale è stata corrisposta la tariffa, si incorre in una violazione delle prescrizioni della sosta regolamentata, ai sensi dell'art. 7, comma 15, del codice della strada.
Infatti, poiché l'assoggettamento al pagamento della sosta è un atto di regolamentazione della sosta stessa, la sosta del veicolo con ticket di pagamento esposto scaduto per decorso del tempo di sosta pagato ha natura di illecito amministrativo e non si trasforma in inadempimento contrattuale, trattandosi, analogamente al caso della sosta effettuata omettendo l'acquisto del ticket orario, di una evasione tariffaria in violazione della disciplina della sosta a pagamento su suolo pubblico, introdotta per incentivare la rotazione e razionalizzare l'offerta di sosta (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
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MASSIMA
1. - Con l'unico mezzo (violazione o falsa applicazione degli artt. 157, commi 6 e 8, e 7, comma 15, del codice della strada), il ricorrente sostiene che chi paga il ticket ma non integra il versamento per le ore successive non incorrerebbe in alcuna violazione del codice della strada, bensì soltanto in una violazione dell'obbligazione contrattuale sorta nel momento in cui si acquista il ticket, regolata dal codice civile.
2. - Il motivo è infondato.
Questa Corte (Sez. II, 25.02.2008, n. 4847; Sez. Il, 04.10.2011, n. 20308) ha già statuito che l'art. 157 del codice della strada prevede, sottoponendo al coma 8 la loro violazione alla medesima sanzione, due distinte condotte, quella di porre in sosta l'autoveicolo senza segnalazione dell'orario di inizio della sosta, laddove essa è prescritta per un tempo limitato, ed il fatto di non attivare il dispositivo di controllo della durata della sosta, nei casi in cui esso è espressamente previsto; ed ha precisato che l'espressione «dispositivo di controllo di durata della sosta», utilizzata dal comma 6, vale a comprendere i casi di c.d. parcheggi a pagamento mediante acquisto di apposita scheda, ciò discendendo dal rilievo che tale formula è la medesima di quella usata dalla disposizione del codice della strada che consente ai Comuni, nell'ambito delle loro competenze in materia di regolamentazione della circolazione nei centri abitati, di stabilire aree di parcheggio a pagamento, anche senza custodia dei veicoli (art. 7, comma 1, lettera f).
La sentenza di questa Sezione 02.09.2008, n. 22036, ha affermato che, l
à dove il sindaco si sia avvalso del potere di stabilire, previa deliberazione della giunta, aree destinate al parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di controllo di durata della sosta, anche senza custodia del veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe, la stessa non si sottrae all'operatività della sanzione amministrativa pecuniaria nei casi di sosta protrattasi in violazione dei limiti o della regolamentazione al cui rispetto essa era subordinata.
A sua volta, Sez. V1-2, 09.01.2012, n. 30, ha cassato la sentenza del giudice del merito che aveva escluso "che nell'ipotesi di cui all'art. 7 del codice della strada, superata l'ora scatti la medesima violazione come avviene nel caso del sistema previsto per la sosta limitata di cui all'art. 157 del codice della strada", sul rilievo -non condiviso da questa Corte di legittimità- che nel primo caso "scatti soltanto il diritto del Comune di riscuotere la tassa per l'utilizzo del parcheggio a pagamento ed in relazione alla durata stessa della sosta".
Questo orientamento è stato recepito dalla giurisprudenza della Corte dei conti (Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, sentenza 19.09.2012, n. 888). Il giudice contabile ha infatti affermato che
la mancata contestazione della sanzione pecuniaria da parte dell'ausiliario del traffico (e della società affidataria del servizio) nel momento in cui è stata accertata la sosta del veicolo senza ticket comprovante il pagamento del corrispettivo dovuto oppure con tagliando esposto scaduto per decorso del tempo di sosta pagato (che è pur sempre una fattispecie di mancato pagamento che il codice della strada, senza distinzioni, sanziona), configura una ipotesi di danno erariale per il Comune, rappresentato dal mancato incasso dei proventi che sarebbero derivati dalla applicazione della sanzione per violazione delle norme che disciplinano la sosta in aree a pagamento.
In questo quadro giurisprudenziale, va affermato il principio secondo cui,
in materia di sosta a pagamento su suolo pubblico, ove la sosta si protragga oltre l'orario per il quale è stata corrisposta la tariffa, si incorre in una violazione delle prescrizioni della sosta regolamentata, ai sensi dell'art. 7, comma 15, del codice della strada. Infatti, poiché l'assoggettamento al pagamento della sosta è un atto di regolamentazione della sosta stessa, la sosta del veicolo con ticket di pagamento esposto scaduto per decorso del tempo di sosta pagato ha natura di illecito amministrativo e non si trasforma in inadempimento contrattuale, trattandosi, analogamente al caso della sosta effettuata omettendo l'acquisto del ticket orario, di una evasione tariffaria in violazione della disciplina della sosta a pagamento su suolo pubblico, introdotta per incentivare la rotazione e razionalizzare l'offerta di sosta.
Di tale principio il Tribunale ha fatto corretta applicazione.

TRIBUTI: Dietrofront sull'Ici. Ruralità non basta per esenzioni. La Cassazione rivede la sua tesi sui benefici fiscali.
La Cassazione cambia posizione sui requisiti per fruire del trattamento agevolato Ici sui fabbricati rurali e rivede la tesi espressa con alcune pronunce nel 2015.

Con la sentenza 03.08.2016 n. 16179, infatti, ha chiarito che vanno ritenute isolate le pronunce dello scorso anno con le quali aveva ritenuto esenti dall'imposta comunale i fabbricati rurali, in presenza dei requisiti di legge, a prescindere dal loro inquadramento catastale.
Dunque, ha affermato che non va dato seguito alle sentenze con le quali è stato sostenuto che conta solo la ruralità degli immobili per avere diritto ai benefici fiscali. Ha precisato, inoltre, che le autocertificazioni presentate dagli interessati per l'annotazione di ruralità possono avere effetto retroattivo, ma limitato ai 5 anni precedenti, sempre che abbiano fatto domanda di variazione catastale nelle categorie A/6 o D/10.
Per i giudici di legittimità, i possessori di fabbricati utilizzati per l'esercizio dell'attività agricola possono reclamare l'esenzione Ici solo se hanno ottenuto l'iscrizione catastale di questi immobili nelle categorie A/6 (destinati ad abitazione) o D/10 (destinati alla manipolazione, trasformazione e vendita di prodotti agricoli). Ciò costituisce «un presupposto necessario e indefettibile» per l'esclusione del fabbricato dall'assoggettamento all'Ici. E sono da disattendere alcuni precedenti della stessa Corte (Cass. 16973/2015; 10355/2015; 14013/2013) secondo i quali l'esenzione spetterebbe al contribuente in ragione del solo carattere di ruralità dell'immobile.
Con la sentenza in esame la Cassazione ha posto in rilievo che si tratta «di alcune pronunce isolate», «alle quali non si ritiene di dover dare seguito». Ha poi ribadito che la retroattività dei benefici fiscali non può andare oltre il quinto anno antecedente la data di presentazione dell'autocertificazione imposta dalla legge, con la quale i titolari di fabbricati rurali hanno attestato la sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi.
Requisiti e retroattività dei benefici. Le variazioni catastali e le annotazioni di ruralità richieste dai titolari di fabbricati rurali hanno effetto retroattivo per i cinque anni antecedenti a quello in cui sono state presentate le relative domande. Lo prevede l'articolo 2, comma 5-ter, del dl 102/2013, in sede di conversione nella legge 124/2013. L'efficacia retroattiva di questa disposizione di interpretazione autentica può arrivare fino all'anno d'imposta 2006, considerato che i contribuenti avrebbero potuto inoltrare le prime istanze di variazione entro il 30.09.2011.
Il decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 26.07.2012 ha indicato quali adempimenti devono porre in essere i titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu delle agevolazioni. Va ricordato, però, che per quest'ultimo tributo sono escluse dai benefici le unità immobiliari utilizzate come abitazione.
In base alla norma citata, quindi, le domande di variazione catastale, disciplinate dall'articolo 7, comma 2-bis, del dl 70/2011, e l'inserimento negli atti catastali della ruralità degli immobili producono effetti per i 5 anni antecedenti a quello in cui sono state presentate. Quindi non c'è più alcun dubbio, come è accaduto in passato, sulla valenza retroattiva delle istanze, ma nei limiti temporali fissati dalla norma sopra citata.
Per i fabbricati rurali conta l'annotazione catastale per l'esenzione Ici e Imu, mentre per la Tasi gli interessati hanno diritto solo a fruire di un'aliquota agevolata. Se è stata presentata in catasto l'autocertificazione che attesta la sussistenza dei requisiti di legge entro il 30.09.2012, al titolare dell'immobile rurale spetta l'esenzione Ici anche per i cinque anni precedenti. Alla stessa agevolazione hanno diritto i possessori di fabbricati strumentali censiti nella categoria D/10, perché l'inquadramento in questa categoria certifica la loro ruralità.
Al riguardo, la commissione tributaria regionale di Milano, sezione staccata di Brescia, con la sentenza 1014/2016. Per i giudici d'appello, l'inserimento dell'annotazione di ruralità negli atti catastali attesta i requisiti a decorrere dal quinto anno antecedente a quello di presentazione della domanda, se prodotta entro il 30.09.2012.
La commissione regionale, tra l'altro, ha evidenziato che
«per i fabbricati aventi funzioni produttive connesse alle attività agricole il requisito della ruralità è certificato solo se gli stessi sono censiti nella categoria D/10». Per tutti gli altri immobili strumentali non censibili nella suddetta categoria la ruralità va riconosciuta in presenza dell'annotazione ottenibile mediante domanda presentata al catasto.
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Categoria catastale pomo della discordia.
Continua la diatriba sulla rilevanza della categoria catastale per fruire dell'esenzione dall'imposta municipale. Non è infatti stata ancora trovata una soluzione condivisa nella giurisprudenza di legittimità e di merito, anche per via dei continui cambiamenti normativi riguardo al trattamento fiscale dei fabbricati rurali.
Contrariamente a quanto affermato di recente, per esempio, dalla Ctr di Cagliari (sentenza 29/2016), la posizione assunta dalla Cassazione dopo la pronuncia a Sezioni unite (18565/2009) è stata quasi sempre, a parte qualche caso isolato, quella di legare l'esenzione Ici alla categoria catastale.
Ha riconosciuto l'esenzione Ici solo per i fabbricati inquadrati catastalmente nelle categorie A/6, se destinati a abitazione, o D/10, se strumentali all'esercizio dell'attività agricola.
La commissione tributaria regionale di Cagliari, invece, ha stabilito che per il riconoscimento dell'esenzione Ici per i fabbricati rurali strumentali non conta la categoria catastale. L'immobile va considerato rurale se utilizzato per la manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli dei soci. La regola vale non solo per l'Ici ma anche per l'Imu.
A conforto di questa interpretazione viene richiamata nella sentenza una pronuncia della Cassazione (16979/2015).
Tuttavia, come confermato dalla Cassazione con la sentenza 16179, le pronunce del 2015 vanno ritenute superate, perché per ottenere i benefici fiscali conta sempre l'inquadramento catastale (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

TRIBUTISui fabbricati rurali la Cassazione smentisce se stessa: per l'esenzione non basta solo la ruralità dell'immobile.
La Cassazione smentisce se stessa e afferma di ritenere isolate le pronunce del 2015 con le quali aveva ritenuto esenti dall'imposta municipale i fabbricati rurali, in presenza dei requisiti di legge, a prescindere dal loro inquadramento catastale.

Con la sentenza 03.08.2016 n. 16179, infatti, i giudici di legittimità (Sez. V civile) chiariscono che non va dato seguito alle sentenze con le quali hanno sostenuto che conta solo la ruralità degli immobili per avere diritto ai benefici fiscali.
Inoltre, le autocertificazioni presentate dagli interessati per l'annotazione di ruralità possono avere effetto retroattivo, ma limitato ai 5 anni precedenti, sempre che abbiano fatto domanda di variazione catastale nelle categorie A/6 o D/10.
Secondo i giudici di piazza Cavour, i fabbricati strumentali all'attività agricola devono essere classificati catastalmente nelle categorie A/6 o D/10. Ciò costituisce «un presupposto necessario ed indefettibile» per l'esclusione del fabbricato dall'assoggettamento all'Ici. Nonostante questo orientamento sia «stato disatteso da alcuni precedenti di questa Corte (Cass. 16973/2015; 10355/2015; 14013/2013) secondo i quali l'esenzione spetterebbe al contribuente in ragione del solo carattere di ruralità dell'immobile», pone in rilievo la Cassazione che si tratta «di alcune pronunce isolate», «alle quali non si ritiene di dover dare seguito».
Tra l'altro, ricordano i giudici, la retroattività dei benefici fiscali non può andare oltre il quinto antecedente la data di presentazione dell'autocertificazione da parte dei contribuenti con la quale hanno attestato la sussistenza dei requisiti.
È una questione dibattuta da tempo e che non ha ancora trovato una soluzione condivisa nella giurisprudenza di legittimità e di merito, anche per via dei continui cambiamenti normativi. Per esempio, la commissione tributaria regionale di Cagliari, quarta sezione, con la sentenza n. 29 dell'01.02.2016, non si è allineata alla tesi della Cassazione, in quanto ha stabilito che per il riconoscimento dell'esenzione Ici per i fabbricati rurali strumentali non conta la categoria catastale. L'immobile va considerato rurale se utilizzato per la manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli dei soci.
In realtà, contrariamente a quanto affermato dalla Ctr di Cagliari, la posizione assunta dalla Cassazione dopo la pronuncia a sezioni unite (18565/2009) è stata sempre quella di legare l'esenzione alla categoria catastale, tranne in alcuni casi che, come evidenziato con la pronuncia in esame, non fanno testo (articolo ItaliaOggi del 10.08.2016).

TRIBUTI: Tariffe alte per chi fa attività ricettive. La Sentenza della corte di cassazione sulla tassa sui rifiuti.
Chi svolge attività ricettiva e fornisce agli ospiti servizi similari a quelli degli alberghi deve pagare la tassa rifiuti con tariffe elevate, maggiori rispetto a quelle previste per le abitazioni civili.

La Corte di Cassazione - Sez. V civile, con la sentenza 03.08.2016 n. 16176, è tornata sulla tassazione delle strutture turistico-ricettive calcando ulteriormente la mano rispetto a quanto già sostenuto lo scorso anno per i b&b, affermando che a un residence che fornisce servizi particolari agli inquilini vanno applicate tariffe più alte delle abitazioni.
Ha ritenuto, infatti, legittima la scelta del comune di assoggettare alla tassa rifiuti come alberghi gli immobili locati da una società che fornisce agli ospiti una lavabiancheria a gettone o altri servizi produttivi di rifiuti come un'attività alberghiera, per la quale sono previste dal regolamento dell'ente tariffe più salate rispetto alle abitazioni. Dai servizi offerti alla clientela emerge che la società svolge un'attività turistico-ricettiva e non di locazione di immobili. E quello che conta ai fini fiscali è la potenziale produzione di rifiuti riferita all'attività in concreto esercitata dai contribuenti.
Per i giudici di legittimità la società gestisce alcuni appartamenti «fornendo servizi agli ospiti del residence, quali una lavabiancheria a gettone e altri genericamente considerati come produttivi di rifiuti in misura similare a una tipica attività alberghiera». Quindi, non si limita «a svolgere un'attività di mera locazione di semplici unità abitative».
La posizione espressa dalla Cassazione con la pronuncia in esame è ancora più rigida rispetto a quanto sostenuto nel 2015 con la sentenza 16972, secondo cui va differenziata la tariffa per l'attività di b&b svolta in una civile abitazione, rispetto alla tariffa abitativa ordinaria. Ha precisato che i b&b non sono assimilabili agli alberghi, atteso che svolgono attività ricettiva in maniera occasionale e in forma non imprenditoriale.
Tuttavia, secondo la Cassazione, i bed & breakfast producono più rifiuti rispetto alle abitazioni, anche se in misura minore rispetto agli alberghi. Pertanto, i comuni devono fissare una tariffa ad hoc per il pagamento della tassa rifiuti, prevedendo una sottocategoria con l'applicazione di coefficienti di quantità e qualità intermedi, considerato che si tratta di un'attività promiscua destinata ad abitazione e a ricezione. In mancanza di un'apposita tariffa deliberata dal comune, va applicata la tariffa dell'utenza domestica.
La regola vale per Tarsu, Tares e Tari. L'attività di bed & breakfast è un'attività ricettiva, di ospitalità e somministrazione di alimenti e bevande, con una produzione di rifiuti certamente differente e superiore rispetto a un'utenza domestica. Ma la Cassazione ha giudicato inopportuno equiparare il b&b a un albergo, come è avvenuto con la sentenza 16176 per i residence che offrono servizi accessori, che vanno oltre la semplice locazione degli immobili.
Con la sentenza 12679/2015, però, è stato confermato l'orientamento consolidato che impone di differenziare sempre le tariffe per utenze domestiche e non domestiche, e dunque quelle degli alberghi, dei b&b e delle strutture di ospitalità in genere, da quelle delle abitazioni. Le amministrazioni locali hanno il potere di fissare le tariffe Tarsu più elevate per gli alberghi rispetto a quelle delle abitazioni. Per la Cassazione (sentenza 302/2010) la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto a una civile abitazione costituisce un dato di comune esperienza.
In effetti, l'articolo 68 del decreto legislativo 507/1993 non imponeva ai comuni di inserire gli immobili adibiti a attività alberghiere nella stessa categoria di quelli utilizzati come abitazioni, poiché non manifestano la stessa potenzialità di produzione di rifiuti. Così come non sono inseriti nella stessa categoria per la Tari (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).

EDILIZIA PRIVATASebbene a seguito della presentazione della DIA non si formi alcun provvedimento tacito, una volta spirato il termine per l'esercizio del potere inibitorio, l'amministrazione può ancora intervenire per contrastare l'attività edilizia non conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di autotutela sui generis (sui generis proprio perché non ha ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l'ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l'esercizio.
Affinché tale potere possa dirsi legittimamente esercitato, è indispensabile, dunque, che, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l'autorità amministrativa invii all'interessato la comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che l'atto di autotutela intervenga tempestivamente, e che in esso si dia conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati.

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Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, sebbene a seguito della presentazione della DIA non si formi alcun provvedimento tacito, una volta spirato il termine per l'esercizio del potere inibitorio, l'amministrazione può ancora intervenire per contrastare l'attività edilizia non conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di autotutela sui generis (sui generis proprio perché non ha ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l'ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l'esercizio (cfr. Consiglio di Stato, A.P., 29.07.2011 n. 15).
Affinché tale potere possa dirsi legittimamente esercitato, è indispensabile, dunque, che, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l'autorità amministrativa invii all'interessato la comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che l'atto di autotutela intervenga tempestivamente, e che in esso si dia conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Nella fattispecie oggetto di giudizio, il Comune di Arzano non solo non ha indicato le ragioni di interesse pubblico, concreto ed attuale, alla base dell’annullamento degli effetti della DIA di cui è causa, intervenendo a distanza di oltre un anno dalla presentazione della D.I.A. (e, dunque, ben oltre il termine perentorio normativamente stabilito), ma non ha neanche considerato il legittimo affidamento ingenerato negli interessati dal consolidamento degli effetti della dichiarazione e dalle precedenti determinazioni assunte dallo stesso ente con riferimento alla D.I.A. n. 7588 del 18.04.2013 (avente ad oggetto la realizzazione di un muretto di contenimento al solaio di copertura), con le quali è stata disposta la irrogazione della sola sanzione pecuniaria, in applicazione dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, sul presupposto della conformità urbanistica dell’intervento.
Giova evidenziare, peraltro, che non emerge dalla documentazione versata in atti che le opere eseguite siano difformi rispetto a quelle oggetto della D.I.A. presentata nel giugno del 2013, avente il seguente oggetto: «cambio di destinazione d'uso del solaio di copertura apponendo per questo mattonelle, impianto elettrico lungo í muri perimetrali ed una adduzione di acqua per le dovute pulizie. Inoltre si porrà in opera un pergolato in legno prefabbricato allo scopo di ombreggiare il terrazzo e rendere termicamente già agibile il piano sottostante ... si intende inoltre eseguire una diversa distribuzione degli spazi interni per una maggiore fruibilità degli stessi"».
L’amministrazione comunale, pertanto, è stata posta nelle condizioni di valutare compiutamente e tempestivamente la consistenza e le caratteristiche dell’intervento dovendosi escludere fraudolenze da parte degli interessati, sicché anche sotto tale profilo non può revocarsi in dubbio la sussistenza del legittimo affidamento degli interessati.
Da quanto sopra esposto discende l’illegittimità del provvedimento in autotutela impugnato, con assorbimento delle residue censure, e, in via derivata, anche dell’ordinanza di demolizione adottata sul presupposto dell’annullamento degli effetti della D.I.A. assunta al prot. n. 11323 del 17.06.2013.
Del pari, l’accoglimento del ricorso introduttivo determina anche la fondatezza delle censure dedotte con il ricorso per motivi aggiunti, in via derivata, avverso il provvedimento prot. 17874 del 18.08.2015, restando assorbite le altre contestazioni articolate in via autonoma stante l’assenza di profili di utilità ulteriore per i ricorrenti (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 02.08.2016 n. 3988 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Dissuasore messo male, il comune deve risarcire.
Se un automobilista patisce guai seri a causa un fittone di cemento poco visibile al traffico veicolare spetta al comune risarcire il malcapitato e gli eredi. Specialmente se la collocazione del manufatto risulta tutt'altro che appropriata.

Così la Corte d  Cassazione, Sez. III civile, sentenza 29.07.2016 n. 15785.
Uno sfortunato autista ha perso la vita andando a scontrarsi contro un dissuasore di sosta posizionato in maniera negligente da un comune piemontese. Contro la condanna al risarcimento danni a favore dei parenti pronunciata dalla Corte d'appello di Torino il comune ha avanzato censure ma senza successo.
Anche se l'autista percorreva la strada comunale superando il limite di velocità il dissuasore di sosta è stato posizionato male rappresentando una vera e propria insidia. L'investimento da parte di un veicolo del panettone di cemento posizionato in mezzo alla strada a parere dei giudici risulta essere un fatto probabile.
Ai sensi dell'art. 2051 cc il comune aveva il potere-dovere di custodia del manufatto che è risultato mal posizionato rappresentando un pericolo occulto per il traffico veicolare. Circolare a una velocità leggermente superiore al limite consentito rappresenta circostanza prevedibile quindi non sufficiente per interrompere il nesso causale tra custodia del bene e danno (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: L’impresa ha diritto di vedere gli atti. Procedimenti sanzionatori. Secondo il Consiglio di Stato l’Antitrust non può vietare l’accesso indiscriminatamente.
Il diritto di accesso “difensivo” consente alle imprese interessate da procedimenti sanzionatori disposti da autorità pubbliche di controllo di conoscere gli atti e i dettagli delle contestazioni a loro imputate senza che siano le stesse autorità a vietarlo in assoluto e a stabilire quali siano quelli utili alla difesa nel procedimento e nel processo.
L’ha chiarito il Consiglio di Stato nella sentenza 28.07.2016 n. 3409, depositata dalla VI Sez., accogliendo il ricorso di una società di calcestruzzi sanzionata dall’Antitrust per un cartello di settore in Friuli Venezia Giulia.
Alla ricorrente era stato negato l’accesso perché, come stabilito anche in primo grado, aveva chiesto di conoscere un procedimento diverso su accordi anticoncorrenziali accertati in un’altra regione e con «informazioni commerciali sensibili» di terzi ritenuti non coinvolti nel proprio provvedimento.
Il Consiglio di Stato ha giudicato illegittimo vietare l’accesso per garantire comunque la riservatezza delle informazioni contenute in questo tipo di procedure –intese, abusi di posizione dominante e operazioni di concentrazione- se la domanda, come nel caso in esame, è ritenuta necessaria a ottenere documenti (verifiche della Guardia di finanza) che possono rivelarsi utili per esercitare il diritto di difesa, considerata «la natura sostanzialmente penale delle sanzioni inflitte (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 27.09.2011, n. 43509/08)».
Lo prevedono la disciplina sull’accesso amministrativo -anche per documenti con dati sensibili e giudiziari «nei limiti in cui sia strettamente indispensabile» e con l’oscuramento di quelli che possono rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (comma 7, articolo 24, legge 241/1990)- e il regolamento sulle procedure istruttorie della stessa Agcm (articolo 13, Dpr 217/1998) che in tale fase “apre” i propri «documenti formati o stabilmente detenuti…ai soggetti direttamente interessati».
Come spiegato dal collegio, l’Autorità non può perciò opporre «un diniego generalizzato» nemmeno a chi chiede di accedere ad atti diversi da quelli con cui è stata inflitta la sanzione, poiché al limite deve «consegnare esclusivamente i documenti richiesti con tutti gli accorgimenti finalizzati ad evitare che vengano svelate informazioni riservate di carattere personale, commerciale, industriale e finanziario».
Nel giudizio in esame spetta quindi alla stessa Agcm la «prudente valutazione» di fornire gli atti che non richiamino dati sensibili di operatori economici giudicati estranei e che ne dimostrino la stessa estraneità al procedimento sulla ricorrente.
La sentenza precisa che in questi casi si possono «bilanciare gli interessi in gioco contrapposti» solo coi citati “paletti” normativi che regolano il prevalente diritto d’accesso “difensivo”: la Pubblica amministrazione non deve rendere pubblici atti considerati non rilevanti che riguardano altri soggetti non coinvolti e le società sanzionate hanno diritto a “controllare” direttamente i propri documenti detenuti solo dalla Pa
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2016).
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MASSIMA
6.– L’appello è fondato.
L’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 dispone che deve essere garantito «ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici». La norma aggiunge che, nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e, in presenza di situazioni giuridiche di pari rango, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
L’art. 13 del d.p.r. n. 217 del 1998, in relazione ai procedimenti dell’Autorità, prevede che «il diritto di accesso ai documenti formati o stabilmente detenuti dall'Autorità nei procedimenti concernenti intese, abusi di posizione dominante ed operazioni di concentrazione è riconosciuto nel corso dell'istruttoria dei procedimenti stessi ai soggetti direttamente interessati».
Nella fattispecie in esame la richiesta di accesso è finalizzata ad ottenere documenti che possono essere utili ai fini dell’esercizio del diritto di difesa nell’ambito di un procedimento applicativo di sanzioni amministrative.
In questi casi, per la natura sostanzialmente penale delle sanzioni inflitte (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Menarini, 27.09.2011, n. 43509/08), deve essere assicurata all’impresa la conoscenza di tutti quegli elementi che possono essere utili per difendersi nel procedimento e nel processo.
Né potrebbe valere il rilievo, contenuto nella memoria difensiva dell’Autorità, secondo cui, da un lato, tutti i documenti richiesti sarebbero estranei al perimetro dell’indagine I-780 (che include i mercati di “Venezia mare” e “Belluno”), dall’altro, sarebbe mancata la richiesta relativa al procedimento I-772.
Tali rilievi possono rilevare non ai fini dell’ammissibilità dell’istanza di accesso, che ricomprendeva la documentazione pretesa, quanto ai limiti che la richiesta stessa incontra quando essa attiene a documenti afferenti a procedimenti diversi che coinvolgono altre imprese. L’Autorità, dovrà consegnare esclusivamente i documenti richiesti con tutti gli accorgimenti finalizzati ad evitare che vengano svelate informazioni riservate di carattere personale, commerciale, industriale e finanziario.
In altri termini,
in fattispecie quale quella in esame, non è consentito un diniego generalizzato fondato su valutazioni rimesse alla stessa Autorità ma occorre fornire la documentazione richiesta nel rispetto delle modalità sopra indicate. Del resto, tale soluzione è l’unica in grado di bilanciare gli interessi in gioco contrapposti: quello dell’Autorità a non rilasciare documenti ritenuti non rilevanti che coinvolgono altri operatori economici; quello dell’impresa ad avere diretta contezza della documentazione che si trova nell’esclusiva disponibilità della parte pubblica.
La soluzione prescelta dal Collegio è quella di
rimettere alla prudente valutazione dell’Autorità di fornire esclusivamente quegli atti che non attengono a dati sensibili di altri imprese e che sono in grado di dimostrare l’assunto dell’estraneità dei dati stessi al procedimento sanzionatorio che riguarda l’appellante.

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl Comune non ferma le delibere. Impianti autonomi. Ripristino del «centralizzato» solo se urgente.
Il Comune non può ordinare, in via di urgenza, ai condòmini il ripristino dell’impianto termico centralizzato.
L’articolo 50, comma 5, del Dlgs 267/2000 prevede infatti una serie di casi tassativi. E, dunque, il Comune non può emettere ordinanze in via di urgenza, per fronteggiare situazioni permanenti, come la decisione di un condominio di dismettere l’impianto termico centralizzato, per passare ad impianti di riscaldamento autonomi ed individuali, per questioni di contenimento energetico e di riduzione dei consumi.

Questo in sintesi, il contenuto della sentenza 26.07.2016 n. 3369 del Consiglio di Stato, Sez. V.
Oggetto del provvedimento del sindaco era la decisione assunta dall’assemblea di un condominio di ricercare individualmente soluzioni alternative per assicurarsi il calore necessario per l’imminente) stagione invernale, non essendo più ripristinabile l’impianto termico centralizzato.
Non solo: già nell’inverno del 2012, era venuta meno, per finita locazione, la disponibilità del locale di proprietà privata dove era ubicata la caldaia comune. Il condominio si era immediatamente attivato per cercare soluzioni tecniche alternative, senza tuttavia reperire un locale adatto.
Per il Consiglio di Stato è, quindi, legittimo il comportamento dei condòmini che si sono procurati altre fonti di calore, mediante impianti di riscaldamento autonomi, per «cause tecniche o di forza maggiore», anche ai sensi della della legge Regione Piemonte 13/2007 (all’epoca vigente)
 (articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2016).
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MASSIMA
1. Il Collegio rileva in punto di fatto che il Comune appellante ha emanato l’impugnata ordinanza contingibile ed urgente per ordinare agli attuali appellati, tutti condomini e proprietari di alloggi del Condominio Flora, ubicato in Alessandria, Via ..., con l’eccezione della parte appellata Dott. Sa.Gi., che era ed è l’amministratore in carica, di provvedere all’immediato ripristino dell’impianto di riscaldamento centralizzato nel Condominio Flora medesimo, entro 7 giorni dalla notifica dell’ordinanza stessa, e con l’eliminazione degli impianti di riscaldamento autonomi realizzati.
In data 02.07.2013 l’assemblea condominiale, cui hanno partecipato 12 dei 13 proprietari del condominio aveva deliberato, all’unanimità dei partecipanti, che, non essendo fattibile realizzare una nuova centrale termica, ogni condomino avrebbe dovuto provvedere ad adottare le soluzioni più idonee per “
assicurarsi il calore necessario per la prossima stagione invernale”.
2. Ciò premesso in punto di fatto
la Sezione deve rilevare e ribadire che l’ordinanza contingibile ed urgente adottata dal Comune di Alessandria difetta dei presupposti dell’imprevedibilità ed urgenza e tende a risolvere, in modo illegittimo, una questione condominiale di tipo privatistico, che è stata oggetto di una deliberazione vincolante per l’amministratore e per tutti i condomini, che avrebbe dovuto essere contestata, dagli eventuali dissenzienti, nella sede competente.
Il Comune appellante ha formulato il suo unico ed articolato motivo di appello sul presupposto che il TAR non avrebbe tenuto conto né che l’attività istruttoria posta in essere dal Comune era stata adeguata ed immune da vizi di illogicità ed irragionevolezza, né che l’adozione dell’ordinanza era necessitata dalle violazioni della normativa vigente, giacché l’ordinanza si sarebbe limitata ad imporre l’adeguamento dell’impianto di riscaldamento entro un congruo termine, senza alcuna indebita interferenza nei rapporti privati fra i condomini.
3. A prescindere dall’eccezione formulata dagli appellanti secondo cui l’Amministrazione comunale ha omesso di impugnare due punti fondamentali su cui è incentrata la sentenza di primo grado, relativamente ai presupposti di contingibilità ed urgenza, con la conseguenza, che sui detti capi, non specificamente investiti da motivi di impugnazione, si sarebbe formato il giudicato, la Sezione ritiene che le prospettazioni dell’amministrazione siano comunque infondate nel merito.
4.
Il TAR, infatti, ritenendo insussistenti gli elementi dell’imprevedibilità ed urgenza, ha fatto corretta applicazione di consolidati principi circa i presupposti per l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente, principi incentrati sulla sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall’ordinamento, e sulla provvisorietà e temporaneità degli effetti, nella proporzionalità del provvedimento (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 29.05.2015, n. 2697 e Sez. VI, 31.10.2013, n. 5276).
Non è, infatti, legittimo adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità.
Nel caso di specie, il problema del riscaldamento del condominio si era evidenziato molto tempo prima dell’adozione dell’ordinanza, quando, a dicembre 2012, per la legittima disdetta del contratto di locazione (doc. 8 parte appellata) da parte della società proprietaria, era noto a tutti i condomini che, a far data dal 1° luglio 2013, sarebbe venuta meno la disponibilità del locale ove era stata collocata la centrale termica che serviva il condominio, con il conseguente smantellamento della stessa.
Il problema era stato, peraltro, affrontato tempestivamente dal condominio, che aveva cercato soluzioni tecniche alternative e, nell’impossibilità di reperire un locale idoneo in base alla normativa tecnica vigente, in sede assembleare aveva preso atto dell’impossibilità di ripristino della centrale termica o dell’individuazione di un locale idoneo, lasciando liberi i condomini, vista l’imminenza della stagione autunnale ed invernale, di procurarsi in modo alternativo il riscaldamento del proprio alloggio.
Detta delibera è stata adottata consensualmente da tutti i condomini e gli stessi condomini si sono procurati in via alternativa altre fonti di calore necessarie senza rischio di compromissione del diritto alla salute l’autunno e l’inverno, come documentalmente provato (cfr. doc n. 21 appellati), mediante impianti di riscaldamento autonomo, la cui realizzazione è dovuta all’evidenza a cause tecniche e di forza maggiore (cfr. art. 4 d.P.R. n. 59 del 2009 e art. 19, comma 1., L.R. Piemonte n. 13 del 2002).
Non sussiste, pertanto, né il presupposto della situazione imprevedibile, né l’urgenza di provvedere con un rimedio eccezionale extra ordinem per una situazione già affrontata e risolta dagli stessi condomini destinatari del provvedimento impugnato.
Infatti,
le finalità della normativa contenuta nel d.P.R. n. 59 del 2009, che il Comune ha ritenuto violate, sono esclusivamente quelle del contenimento energetico e della riduzione dei consumi e non la tutela della salute collettiva, finalità per la cui salvaguardia non possono certo emanarsi ordinanze extra ordinem che hanno finalità diverse e tendono alla tutela dell’incolumità pubblica, non compromessa dall’adozione della delibera condominiale sopra richiamata.
Anche la lamentata violazione, da parte degli appellati, degli artt. 123 e 125 del Testo unico dell’edilizia, per mancata presentazione della denunzia di inizio lavori non può costituire presupposto per l’adozione di un provvedimento eccezionale come quello di specie, previsto, come detto, per casi di straordinaria urgenza non altrimenti fronteggiabili,
5. Peraltro, i destinatari dell’ordinanza impugnata, come correttamente ha rilevato il TAR, sono giuridicamente impossibilitati, quali singoli, ad eseguirlo, ripristinando l’impianto centralizzato, posto che l’ordine di ripristino riguarda parti e servizi comuni dell’edificio condominiale, quali sono per l’appunto gli impianti tecnologici, sui quali solo la volontà dell’assemblea condominiale, cioè della maggioranza dei condomini, consente di intervenire.
6. Per completezza deve osservarsi che anche le censure evidenziate espressamente nell’atto di appello sono infondate.
Infatti, l’attività istruttoria posta in essere dal Comune, proprio perché non ha correttamente considerato la situazione di imprevedibilità ed urgenza, nei sensi sopra precisati e proprio perché non si è posto il problema dell’esatta individuazione dei soggetti passivi, legittimamente destinatari dell’ordine, non risulta per nulla adeguata ed è, dunque, affetta dai lamentati vizi di illogicità ed irragionevolezza.
Né è condivisibile la tesi, propugnata dal Comune, secondo cui il provvedimento impugnato sarebbe stato giustificato dalla necessità di tutelare la salute ed incolumità pubblica, mediante l’imposto ripristino dell’impianto centralizzato, per garantire a sei famiglie, che non avevano ancora installato impianti autonomi di non essere esposte ai rigori invernali.
In proposito, anche a prescindere dalla circostanza che risulta in atti che dette sei famiglie avevano, comunque, risolto in altro modo il problema del riscaldamento (cfr. doc. 20, punto 3, parte appellata),
deve essere ribadito che il pericolo per la pubblica incolumità deve essere di considerevoli dimensioni e deve tradursi in un’emergenza igienico-sanitaria per la popolazione, vale a dire per la collettività o comunque per un numero indeterminato di persone, e non per un numero ristretto di privati individui, senza che l’Autorità possa arrogarsi una funzione di risoluzione di liti o controversie tra privati, che invece è devoluta ad altre forme di tutela, segnatamente a quella civilistica, a pena dell’indebita interferenza dell’amministrazione in una lite tra privati, priva di ogni rilevanza di interesse pubblico.

COMPETENZE GESTIONALI: Non spetta al primo cittadino la regolazione del traffico.
La competenza ad adottare provvedimenti relativi alla disciplina della circolazione stradale spetta al dirigente e non al sindaco.

Lo ha chiarito il TAR Piemonte, Sez. II, con la sentenza 27.07.2016 n. 1077.
Nel caso sottoposto all'esame del collegio UN sindaco ha adottato, ai sensi dell'art. 7 del codice stradale, un generico divieto di transito ai mezzi pesanti in ambito comunale. Contro questo provvedimento il titolare di un'attività agricola ubicata nella zona interessata dalla limitazione ha proposto ricorso.
Senza entrare nel merito delle altre doglianze avanzate dal ricorrente, i giudici hanno ritenuto di accogliere l'istanza a causa della manifesta incompetenza del sindaco ad emanare ordinanze limitative della circolazione urbana.
Secondo l'orientamento ormai consolidato in giurisprudenza queste ordinanze rientrano infatti nella esclusiva competenza del dirigente e pertanto il ricorso è fondato e il provvedimento deve essere annullato (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).
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MASSIMA
Ritenuto, in diritto:
- che il primo motivo è fondato ed ha carattere assorbente (sulla rilevanza del vizio di incompetenza relativa, cfr. Cons. Stato, ad. plen., n. 5 del 2015);
- che l’ordinanza impugnata è essenzialmente motivata in relazione all’esigenza di regolamentare la circolazione nel centro cittadino;
- che, secondo l’orientamento ormai consolidatosi in giurisprudenza,
i provvedimenti con i quali si disciplina la circolazione sulla viabilità comunale, la modalità di accesso alla stessa ed i relativi orari, l’eventuale divieto per talune categorie di veicoli, i controlli e le sanzioni, ai sensi degli artt. 6 e 7 del Codice della Strada, assumono natura tipicamente gestoria ed esecutiva e quindi appartengono alla competenza dei dirigenti e non del Sindaco, anche avendo riguardo all’assenza di qualsiasi presupposto di urgenza che potrebbe giustificare l’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5191 del 2015; TAR Lombardia, Milano, sez. III, n. 2886 del 2015; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, n. 69 del 2015; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 3204 del 2014; TAR Veneto, sez. III, n. 494 del 2013; TAR Piemonte, sez. II, n. 1923 del 2010; TAR Sardegna, sez. I, n. 1391 del 2009);
Ritenuto, in conclusione, di dover accogliere il ricorso, assorbite tutte le ulteriori censure, con condanna del Comune di Moncalvo al pagamento delle spese processuali nella misura indicata in dispositivo;

EDILIZIA PRIVATALa sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d. indennità risarcitoria) di cui all'art. 167, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 è soggetta alla prescrizione quinquennale di cui all'art. 28, l. 24.11.1981 n. 689.
Tale termine prescrizionale, sebbene il potere-dovere della p.a. di irrogare sanzioni in relazione ad illeciti amministrativi in materia di abusi edilizi non sia soggetto a prescrizione e/o decadenza, inizia a decorrere dal momento in cui cessa la permanenza dell'illecito con il rilascio delle autorizzazioni ancorché postume.

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... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. 7127 del 26.03.2013 del Capo Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di Sabaudia, contenente richiesta di pagamento di oneri relativi all’istanza di condono edilizio;
- del provvedimento prot. 4139 del 140.2.2013 del Capo Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di Sabaudia, contenente richiesta di pagamento della indennità risarcitoria prevista dall’art. 167 del D.lgs n. 42/2004.
...
4) Il ricorso è parzialmente fondato.
5) Con riguardo all’ingiunzione di pagamento dell’indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, il ricorrente ha ottenuto la determinazione paesaggistica n. 208 del 06.12.2001 favorevole alla sanatoria del frazionamento.
Sul punto, la Sezione ha già avuto occasione di precisare che la sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d. indennità risarcitoria) di cui all'art. 167, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 è soggetta alla prescrizione quinquennale di cui all'art. 28, l. 24.11.1981 n. 689; tale termine prescrizionale, sebbene il potere-dovere della p.a. di irrogare sanzioni in relazione ad illeciti amministrativi in materia di abusi edilizi non sia soggetto a prescrizione e/o decadenza, inizia a decorrere dal momento in cui cessa la permanenza dell'illecito con il rilascio delle autorizzazioni ancorché postume (TAR Lazio Latina 19.01.2012 n. 30).
6) Pertanto, essendo stata rilasciata l’autorizzazione paesaggistica in data 06.12.2001, il diritto a pretendere l’indennità risarcitoria in argomento si è prescritto il 06.12.2006 (TAR Lazio-Latina, sentenza 25.07.2016 n. 499 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi edilizi richiede, quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione, che si risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito sostanziale, relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'amministrazione comunale.
Conseguentemente, il termine per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia carente della documentazione prevista dalla legge.
Pertanto, il termine di 24 mesi, previsto dall'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, per l'eventuale formazione del silenzio-assenso relativo al rilascio di concessione edilizia in sanatoria, e quello collegato di trentasei mesi per la prescrizione del diritto al conguaglio degli oneri, iniziano a decorrere dal momento in cui l'amministrazione procedente è posta in condizioni di esaminare compiutamente la relativa domanda, in quanto integrata la documentazione necessaria richiesta "ex lege" all'interessato dall'amministrazione.
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... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. 7127 del 26.03.2013 del Capo Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di Sabaudia, contenente richiesta di pagamento di oneri relativi all’istanza di condono edilizio;
- del provvedimento prot. 4139 del 140.2.2013 del Capo Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di Sabaudia, contenente richiesta di pagamento della indennità risarcitoria prevista dall’art. 167 del D.lgs. n. 42/2004.
...
7) Con riguardo alla nota del 26.03.2013, invece, osserva il Collegio che l’Amministrazione non si è limitata a chiedere il pagamento di somme ma ha anche richiesto al ricorrente di produrre diversi documenti necessari per la definizione della domanda di condono.
8) In particolare l’Amministrazione ha chiesto copia del titolo di proprietà o altro titolo attestante il godimento di diritti reali sull’immobile, prova dell’avvenuto accatastamento con visura e planimetria catastale, autorizzazione allo scarico fognario, autocertificazioni di cui alla L. 662/1996, autocertificazione di cui all’art. 35 L. 47/1985, grafici riguardanti il frazionamento del piano terra con evidenziazione delle porzioni abusive, planimetrie in scala con l’esatta ubicazione del fabbricato, la rappresentazione dei distacchi dai confini e dalle altre costruzioni, piante quotate con destinazione d’uso dei locali, prospetti e sezioni con indicazione delle altezze, calcolo grafico e analitico delle superfici utili e di quelle non residenziali nonché della volumetria (autorizzata e oggetto di condono).
9) In ordine a tale richiesta il ricorrente non ha dedotto alcunché, non ha fornito prova di avere già prodotto tali documenti, limitandosi ad eccepire la prescrizione.
10) In tema, la giurisprudenza ha spiegato che "La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi edilizi richiede, quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione, che si risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito sostanziale, relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell' amministrazione comunale.
Conseguentemente, il termine per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia carente della documentazione prevista dalla legge.
Pertanto, il termine di 24 mesi, previsto dall'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, per l'eventuale formazione del silenzio-assenso relativo al rilascio di concessione edilizia in sanatoria, e quello collegato di trentasei mesi per la prescrizione del diritto al conguaglio degli oneri, iniziano a decorrere dal momento in cui l'amministrazione procedente è posta in condizioni di esaminare compiutamente la relativa domanda, in quanto integrata la documentazione necessaria richiesta "ex lege" all'interessato dall'amministrazione
" (TAR Campania Napoli sez. VIII 04.03.2015 n. 1383).
11) Pertanto, nel caso che ci occupa, non avendo il ricorrente assolto integralmente agli oneri di documentazione, non si è formato il silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria, né quello collegato di trentasei mesi per la prescrizione del diritto al conguaglio degli oneri.
12) In conclusione, quindi, il ricorso va accolto limitatamente alla richiesta di pagamento dell’indennità risarcitoria ex art. 167 del d.lgs. 42/2004, con conseguente annullamento dell’atto impugnato, e va respinto con riguardo ai restanti atti (TAR Lazio-Latina, sentenza 25.07.2016 n. 499 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Legali, disciplina col bollino. Sanzione del Cnf non censurabile in sede di legittimità. Il principio ribadito in una sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione.
Disciplinare avvocati: confermata la sanzione della sospensione di tre mesi per il legale che viola scientemente i precetti sulla competenza funzionale, territoriale e sulla regolare instaurazione del contraddittorio.

Con la sentenza 22.07.2016 n. 15203, le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione, intervenendo sul ricorso mosso dal professionista avverso la decisione di sospensione comminatagli dal proprio ordine di appartenenza, hanno ricordato come il potere di applicare o meno, a carico degli avvocati, la sanzione disciplinare, adeguata alla gravità e alla natura dell'offesa arrecata al prestigio dell'ordine professionale, sia «riservato» ai soli organi disciplinari, con la conseguenza che «la sanzione inflitta all'incolpato dal Cnf non è censurabile in sede di legittimità, salvo il caso di assenza di motivazione», che nell'ipotesi non ricorreva.
A nulla infatti sono valse le censure lamentate, tra le quali, appunto, la mancanza di motivazione sia relativamente all'accertamento della responsabilità e alla valutazione degli addebiti, sia in merito alla domanda di riduzione della sanzione: nel definire «nebulosi» i rilievi di parte ricorrente e «generiche» le sue doglianze, gli Ermellini hanno rammentato come in tema di procedimento disciplinare, alle sezioni unite non è data la possibilità di sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dal momento che la Corte deve semplicemente limitarsi a esprimere un giudizio di congruità sull'adeguatezza e sull'assenza di vizi logici della motivazione, motivazione che, nella specie, era «esistente e pure congrua».
Le censure mosse, quindi, non potevano trovare accoglimento in sede di legittimità, «concernendo elementi che il giudice del disciplinare, nel proprio percorso decisionale, potrebbe avere diversamente valutato, ovvero non aver considerato, perché ritenuti, anche implicitamente, recessivi e/o ininfluenti, rispetto agli elementi probatori, invece, positivamente individuati, ritenuti decisivi e utilizzati a fini decisori».
Hanno, quindi, rigettato il ricorso, senza disporre nulla in ordine alle spese del giudizio, non avendo la parte intimata svolto alcuna attività difensiva (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Senza le parti presenti in aula la querela decade.
Senza le parti presenti in aula la querela decade.

Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, nella sentenza 21.07.2016 n. 31668, in seguito al ricorso presentato dal Procuratore generale della Corte d'appello di Lecce.
Nel marzo 2014 il giudice di pace di Taranto stabilì di non procedere contro un uomo accusato da una donna di ingiuria e minaccia, ma l'assenza sia del querelante che dell'accusato venne interpretato come una tacita remissione e quindi accettazione dei presunti reati.
Il procuratore generale invece dedusse una violazione di legge: il procedimento infatti venne disposto dal pm ma soprattutto ritenne che l'assenza del querelante non corrispondesse alla sua volontà di procedere, anche se il giudice aveva informato le parti.
Le Sezioni Unite hanno esaminato il ricorso e hanno stabilito che «se nel procedimento davanti al giudice di pace, instaurato a seguito di citazione disposta dal pubblico ministero configura remissione tacita di querela la mancata comparizione del querelante, previamente ed espressamente avvisato, che l'eventuale sua assenza sarebbe stata interpretata come volontà di non insistere».
E gli ermellini, in conclusione, hanno esposto il principio di diritto secondo cui «integra remissione tacita di querela la mancata comparizione all'udienza dibattimentale del querelante, previamente ed espressamente avvertito dal giudice, che l'eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela» (articolo ItaliaOggi del 17.08.2016).

TRIBUTILa Tari va motivata. Anzi no. Il Tar Latina da ultimo: sufficiente applicare i coefficienti. Continua il contrasto giurisprudenziale sull'obbligo di giustificare le scelte tariffarie.
Continua il contrasto giurisprudenziale sull'obbligo delle amministrazioni locali di motivare le scelte tariffarie per il pagamento della tassa rifiuti.
Per il TAR Lazio-Latina (sentenza 21.07.2016 n. 486), contrariamente a quanto sostenuto da altri giudici amministrativi, le tariffe Tari non richiedono la motivazione se i comuni applicano i coefficienti fissati dal regolamento statale per la determinazione della quota fissa e di quella variabile del tributo.
Si tratta di una questione dibattuta da tempo in ordine alla quale i giudici amministrativi non hanno ancora trovato una soluzione condivisa e che continua a generare contenzioso. Il contrasto di posizioni era già emerso negli anni scorsi anche per la Tarsu e la Tares e non è venuto meno neppure per la Tari, istituita a partire dal 2014.
In primo luogo, secondo il Tar Latina, la delibera che fissa le tariffe Tari non richiede «una particolare o specifica motivazione dato che si tratta di un atto generale». Inoltre, i ricorrenti laddove lamentano che la tariffa stabilita per gli stabilimenti balneari non tiene conto della diversa attitudine alla produzione di rifiuti dell'arenile rispetto al chiosco e del carattere stagionale delle attività svolte, non tengono conto del fatto «che la valutazione di questi elementi è per così dire insita nel metodo normalizzato, nel senso che i coefficienti previsti dalle tabelle allegate al dpr n. 158 per la determinazione della quota fissa e della quota variabile per gli stabilimenti balneari già tengono conto delle caratteristiche dell'attività».
E non a caso i coefficienti previsti per gli stabilimenti balneari sono diversi e soprattutto notevolmente più bassi rispetto a quelli previsti per es. per bar, pasticcerie e ristoranti o campeggi e alberghi. Quello che la legge impone all'amministrazione comunale è che nello scegliere il coefficiente per l'applicazione del metodo normalizzato «si mantenga all'interno del range previsto dalle tabelle» allegate al dpr 158/1999.
Dunque, nel caso in esame «poiché i coefficienti scelti si collocano in un ambito intermedio, la tariffa non sarebbe sindacabile trattandosi di scelte rientranti nel merito della discrezionalità amministrativa». In effetti, nonostante in alcuni casi e per particolari attività coefficienti di produzione dei rifiuti e tariffe deliberate possano sembrare eccessive, non è sindacabile la scelta comunale che fissi delle tariffe in linea con i parametri stabiliti dal citato regolamento statale sul metodo normalizzato. Ancorché l'ente abbia il potere di aumentarle o diminuirle in modo consistente per alcune tipologie di attività in relazione alla loro tendenziale maggiore o minore produzione di rifiuti.
In realtà, il contrasto giurisprudenziale sull'obbligo o meno di motivare le delibere tariffarie era già emerso prepotentemente in regime di Tarsu, anche se per il vecchio tributo i comuni non avevano vincoli ad hoc nella scelta delle tariffe da applicare. L'unico limite era rappresentato dal raggiungimento dell'obbiettivo primario di copertura dei costi del servizio di smaltimento rifiuti.
Il contrasto giurisprudenziale. È da molto tempo che la questione relativa all'obbligo di motivazione delle tariffe Tarsu, Tia, Tares e Tari non trova pace. Il panorama giurisprudenziale è piuttosto oscillante, con posizioni diversificate tra giudici di legittimità e di merito e anche tra giudici amministrativi.
Sono infatti state emanate diverse sentenze che sono tra loro in aperto contrasto. Però interessa molto ai contribuenti sapere se le amministrazioni pur di coprire i costi del servizio devono dar conto o meno delle loro scelte.
La Commissione tributaria regionale di Palermo, sezione XXV, con la sentenza 02.02.2016 n. 400, ha sostenuto che le delibere comunali che fissano le tariffe della tassa rifiuti non devono essere motivate. Si tratta di atti generali per i quali non è imposto l'obbligo di motivazione.
La delibera comunale che non contiene una motivazione dettagliata dei costi del servizio di smaltimento rifiuti che giustifichi le tariffe adottate, non si pone in contrasto con l'articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000) e non è sindacabile per eccesso di potere. Per i giudici d'appello la delibera fa riferimento ai costi del servizio, «quali si ricavano dal bilancio di previsione allegato all'atto deliberativo».
Tra l'altro, precisano, «va richiamato l'orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è configurabile alcun obbligo di motivazione della delibera comunale di determinazione della tariffa di cui al dlgs n. 507 del 1993, art. 65, poiché la stessa, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, si rivolge ad una pluralità indistinta, anche se determinabile ex post di destinatari, occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili ai sensi degli artt. 62 e 63».
In linea con questa tesi si è espresso il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce (II), con la sentenza 1238/2013. Ha stabilito che il comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu. L'aumento può essere giustificato dalla necessità di coprire i costi del servizio.
Questa interpretazione è stata ancor prima assunta dalla Cassazione. I giudici di legittimità (sentenza 22804/2006; ordinanza 26132/2011) hanno sempre escluso l'obbligo di motivazione per gli atti generali, come previsto dall'articolo 3 della legge 241/1990 e dall'articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000).
Il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010), invece, ha affermato che il comune deve motivare la delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu. E non può invocare genericamente la necessità di assicurare la tendenziale copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costo del servizio.
Anche con la sentenza 504/2015 ha ribadito che l'amministrazione comunale deve indicare nella delibera le ragioni che hanno comportato l'aumento delle tariffe della tassa rifiuti, con l'obbiettivo di coprire integralmente i costi del servizio, ma è insindacabile la scelta di privilegiare le utenze domestiche rispetto alle attività produttive. Quindi, può prevedere tariffe più elevate per le utenze non domestiche.
Principio fatto proprio anche dal Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia Romagna (sentenza 1056/2015), secondo cui la delibera che fissa le tariffe della tassa rifiuti deve essere motivata e deve indicare i costi di esercizio dell'anno precedente, le stime dell'anno di competenza, il gettito della tassa e le ragioni dell'eventuale aumento dei costi e delle tariffe.
Si tratta di una deroga alla regola generale che esclude la motivazione per tutti gli atti a contenuto generale, vale a dire delibere e regolamenti. In particolare, per il Tar, nella delibera con la quale il comune determina le tariffe relative alla tassa rifiuti «deve esplicitare con chiarezza tutte le risultanze istruttorie, fornendo motivazione dettagliata delle ragioni delle proprie decisioni».
Devono essere indicati, dunque, il costo di esercizio dell'anno precedente e il relativo gettito, nonché il costo preventivato per l'anno di competenza e il quantum dell'aumento degli oneri per la raccolta e lo smaltimento rifiuti svolto dal gestore del servizio.
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Mano libera ai comuni sulle agevolazioni.
I comuni oltre a determinare le tariffe Tari hanno ampi poteri anche nel concedere agevolazioni fiscali. Infatti, hanno il potere di concedere con regolamento riduzioni tariffare, senza limiti, e esenzioni anche legate al reddito familiare. Le agevolazioni Tari possono essere collegate alla capacità contributiva dei contribuenti desunta dagli indicatori della situazione economica (Isee).
Con regolamento possono essere deliberate riduzioni tariffarie, che a differenza della Tares non sono più soggette alla soglia massima del 30%, o esenzioni per particolari situazioni espressamente individuate dalla legge. Normalmente le riduzioni della tassa per il servizio di smaltimento vengono riconosciute in presenza di determinate situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità di produzione di rifiuti. Inoltre, nei casi previsti dalla legge in cui il comune ha il potere di deliberare le riduzioni tariffarie, può andare oltre fino ad arrivare al riconoscimento delle esenzioni.
In particolare, questi benefici possono essere concessi per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).

APPALTIMafia, basta anche un solo dipendente. Appalti e malavita. Il Consiglio di Stato precisa i limiti del concetto di infiltrazione.
Per ipotizzare il condizionamento mafioso dell’azienda che partecipa agli appalti pubblici, non è necessario che i dipendenti siano in gran parte collegati alle cosche mafiose: in questi casi, la gravita dei fatti che fa scattare l’interdittiva antimafia può riferirsi anche a un solo lavoratore in qualche modo vicino ai gruppi criminali.
Il Consiglio di Stato -sentenza 20.07.2016 n. 3299, III Sez.– ha così dato ragione al ministero dell’Interno, che chiedeva di ribaltare la tesi di primo grado secondo cui è illegittima l’interdittiva basata, senza idonee motivazioni, sull’ipotesi di scelte aziendali influenzate da un «trascurabile» numero di addetti nell’orbita della malavita, per di più se con mansioni solo esecutive e mai decisionali anche di fatto.
In questo caso, era stata bloccata una società del settore rifiuti affidataria di dieci contratti comunali, poiché ritenuta condizionata da 15 dipendenti su 90 con gravi precedenti penali, anche per associazione a delinquere di stampo mafioso o con rapporti di parentela e frequentazione con esponenti di cosche locali.
Dettagli che, secondo l’azienda, avrebbero avuto «rilevanza sproporzionata» senza la prova del peso sui quadri dirigenziali o societari, facendo passare per «presenza massiva» una quota minima di operai, peraltro divisa in più cantieri, in parte assunta per subentri a ex gestori e paradossalmente con requisiti morali poiché con porto d’armi.
Il Consiglio di Stato spiega che la giurisprudenza ormai riconosce «numerose situazioni, non tipizzate dal legislatore,...“spie” dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa)» e che le stesse, diverse per tempi, luoghi e persone, si possono valutare per desumere il tentativo di infiltrazione come da Codice antimafia (comma 6, articolo 91, Dlgs 159/2011).
Tra esse, proprio l’assunzione di personale col profilo sospetto citato, quindi con presenza anche solo «rilevante» e non per forza, come la stessa Sezione ha chiarito in altri casi (sentenza 1743/2016), «esclusiva o prevalente».
Il condizionamento è infatti ipotizzabile «anche dalla presenza di un solo dipendente “infiltrato”, del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, ciò che può risultare da atti investigativi..., frequentazioni ed altri elementi sintomatici»: l’obiettivo delle cosche «non è solo –o non sempre– la scalata delle gerarchie societarie, ma il controllo delle attività economiche più lucrose con ogni mezzo e con ogni uomo idoneo allo scopo, con una flessibilità di forme interne che sfugge…, per non attirare controlli esterni, alle “armonie prestabilite” del diritto societario».
Secondo il principio del «più probabile che non», come precisa la sentenza, in questi casi un numero comunque «non certo esiguo» di “infiltrati” –stabilito che non è una questione solo numerica- non può far escludere che gli atti e la vita stessa dell’impresa, soprattutto se piccola o media, dipendano da «direzione esterna». L’interdittiva è perciò legittima «se tale anomala presenza non è giustificata né preceduta da un’efficace attività di vigilanza e di selezione» dovuta per l’azienda che decide di avere rapporti con la Pa
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2016).
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MASSIMA
4. Ritiene la Sezione che l’appello è fondato e deve essere accolto.
4.1. La articolata motivazione del primo giudice poggia su una centrale ratio decidendi e, cioè, che nessun elemento indiziario o sintomatico sarebbe stato evidenziato dall’informativa a carico dei soggetti aventi un ruolo di vertice, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, o ai quali possano essere comunque riferiti livelli decisionali inerenti all’esercizio dell’impresa, laddove i soggetti interessati dagli elementi istruttori svolgono tutti mansioni esecutive e non decisionali, né sarebbe emerso che, nonostante la mancanza di un formale riconoscimento di responsabilità gestionali in capo ai dipendenti controindicati, vi fossero gli estremi per la configurabilità di eventuali posizioni sostanziali di amministratori di fatto.
4.2. Le considerazioni del primo giudice, pur ampiamente argomentate, ad avviso della Sezione non sono tuttavia condivisibili, per le ragioni che ora si esporranno.
5. Come emerge dalla vasta giurisprudenza formatasi sul punto nel corso di oltre venti anni,
vi sono numerose situazioni, non tipizzate dal legislatore, che costituiscono altrettante ‘spie’ dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa), anche se non ricomprese nel ‘catalogo’ dell’art. 84 del d.lgs. n. 159 del 2011.
5.1.
Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono infatti forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono ad un preciso inquadramento, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso (Cons. St., sez. III, 03.05.2016, n. 1743).
5.2.
Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un ‘catalogo aperto’ di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso, come si desume chiaramente dall’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011.
5.3.
Tra queste situazioni sintomatiche non tipizzate dal legislatore, come la Sezione ha già chiarito nella citata sentenza n. 1743 del 2016, figura anche «l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali».
5.4. Con riferimento al caso di specie, occorre qui precisare ulteriormente che la presenza di un ‘numero rilevante’ di dipendenti –come lo è il numero di 15 su 90– legati alle cosche mafiose e gravati da specifici precedenti penali in una piccolo-media impresa può assurgere ad elemento di inquinamento mafioso, anche indipendentemente dal loro ruolo di ‘amministratori di fatto’, se tale anomala presenza non è giustificata né preceduta da un efficace attività di vigilanza e di selezione da parte degli organi decisionali o gestionali dell’impresa.
5.4.1.
Consentire, infatti, che la propria attività esecutiva sia affidata a soggetti contigui o affiliati alle cosche non può far ragionevolmente escludere che anche le decisioni e la vita stessa dell’impresa siano affidati ad una ‘direzione esterna’, per il tramite di uomini di fiducia posti dalle cosche all’interno dell’impresa.
5.5.
La mafia non si serve necessariamente, infatti, dei soli amministratori o dei soci di una società per condizionare l’impresa e strumentalizzarla ai propri scopi, ben potendo avvalersi di soggetti che nell’impresa svolgono una qualsivoglia mansione, poiché il suo scopo non è solo –o non sempre– la scalata delle gerarchie societarie, ma il controllo delle attività economiche più lucrose con ogni mezzo e con ogni uomo idoneo allo scopo, con una flessibilità di forme interne che sfugge e intende sfuggire, per non attirare controlli esterni, alle ‘armonie prestabilite’ del diritto societario.
5.6. Ne deriva quindi che, sul piano qualitativo, il condizionamento mafioso (ovvero il ‘controllo del territorio’ con la creazione di un clima di paura o di omertà) può derivare anche dalla presenza di soggetti che non svolgano ruoli apicali all’interno della società, ma siano o figurino come meri dipendenti, entrati a far parte dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri preventivi.
5.7. Sul piano quantitativo, poi, è evidente che non si tratta qui, come ha ritenuto il primo giudice, nemmeno di una questione meramente numerica, apprezzabile cioè soltanto in base alla misura percentuale dei dipendenti ‘controindicati’ assunti dall’impresa rispetto all’organico totale dei dipendenti, sicché l’assunzione di 15 dipendenti contigui ad associazioni mafiose o con gravi precedenti penali, rispetto ad un numero complessivo di 90, si dovrebbe considerare un valore trascurabile.
6. Accade che i ‘protocolli di legalità’ prevedano e precisino, sempre più di frequente, quali attività di vigilanza e di controllo debbano necessariamente porre in essere gli imprenditori, ma anche laddove tali protocolli di legalità non siano stati stipulati l’assenza di tale vigilanza e di controllo ben può formare oggetto di valutazione da parte del Prefetto.
6.1. L’obbligo di vigilanza non ha solo un fondamento pattizio, ex contractu, nei protocolli di legalità, ma trova nelle previsioni del d.lgs. n. 159 del 2011 un sicuro fondamento normativo, ex lege, secondo una lettura sistematica e anche costituzionalmente orientata di tali disposizioni.
6.2. Al di là delle previsioni dei ‘protocolli di legalità’ e degli obblighi da esse previsti, infatti,
il condizionamento mafioso, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, si può desumere anche dalla presenza di un solo dipendente ‘infiltrato’, del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, ciò che può risultare da atti investigativi (intercettazioni), frequentazioni, ed altri elementi sintomatici.
6.3.
Il condizionamento si può altresì desumere anche dalla assunzione o dalla presenza di dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità organizzata, pur quando non emergano specifici riscontri oggettivi sull’influenza delle scelte dell’impresa.
6.4.
In presenza di tali situazioni, infatti, la Prefettura ben può trarre elementi per ritenere sussistente un fattore di inquinamento mafioso all’interno dell’impresa, in considerazione dell’atteggiamento dell’impresa, già sul piano della scelta dei suoi dipendenti.
7.
Le imprese possono effettuare liberamente le assunzioni che meglio credano, qualora non abbiano o non intendano avere i rapporti economici con la pubblica amministrazione, disciplinati dal d.lgs. n. 159 del 2011.
7.1.
Ove però intendano avere tali rapporti, le imprese devono garantire la massima affidabilità, non solo nelle selezione di amministratori e soci, ma anche dei dipendenti, e devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti risultati contigui al mondo della criminalità organizzata.
7.2. Contrariamente a quanto ha rilevato il TAR, tuttavia,
l’impresa che intenda intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione –fondati sulla affidabilità necessaria ex lege– deve essere vigile e responsabile nella selezione dei dipendenti di cui si avvale.
7.3.
Sia in sede di assunzione che nel corso dei rapporti di lavoro, infatti, essa si deve organizzare in modo tale da avere una struttura su cui non possa interferire la criminalità organizzata, ben potendo l’impresa far valere anche la giusta causa del recesso da rapporti di lavoro già instaurati, rappresentando che la loro prosecuzione, con chi ne sia risultato contiguo, può indurre la Prefettura a disporre misure interdittive.
8.
La Prefettura del tutto ragionevolmente rileva la sussistenza del rischio di infiltrazioni, quando l’impresa –per disattenzione o per ‘quieto vivere’– non abbia disposto controlli o abbia esercitato filtri selettivi sulle assunzioni (in un contesto per di più ad alta densità criminale).
9. Sotto tale profilo, dunque,
le disposizioni del codice antimafia (d.lgs. n. 159 del 2011) –nella misura in cui costituiscano, come detto, la fonte ex lege di obblighi di vigilanza dell’impresa in ordine alla gestione delle proprie strutture e dei propri dipendenti– rinvengono una propria giustificazione nell’art. 41, terzo comma, Cost., per il quale «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
9.1.
Ciò risponde ad una interpretazione di tale disposizione costituzionale che, superata la originaria matrice dirigistica, evolva invece verso una più matura e democratica visione del rapporto tra autonomia imprenditoriale e pubblico potere, intesa a responsabilizzare massimamente e a rendere consapevoli le imprese, che intendano svolgere la loro attività economica con lo Stato e per lo Stato, circa il fondamentale presupposto e, insieme, il «fine sociale» di tale rapporto, riguardato sul versante della legislazione antimafia, ossia la loro alta affidabilità e la loro impermeabilità al fenomeno mafioso.
10. L’informativa impugnata in primo grado ha dettagliatamente evidenziato, seppure nella chiave preventiva che le è propria, lo spessore e anche i precedenti dei dipendenti, molti dei quali sono risultati affiliati, in posizioni non secondarie, alla cosca ‘-OMISSIS-’ o al -OMISSIS-.
10.1. La gravità di tale quadro, al di là del dato della ‘presenza massiva’ o meno dei dipendenti in un numero che, comunque, non è certo esiguo, pienamente giustifica la constatazione del rischio che –con riferimento alla data di emanazione del provvedimento impugnato in primo grado- le scelte strategiche della società possano essere considerate condizionabili dalle cosche.
10.2. Per le ragioni sopra esposte,
la Prefettura ha legittimamente attribuito rilevanza alla presenza dei dipendenti risultati contigui alle cosche (pur se alcuni di essi sono stati assunti in base alla ‘clausola sociale’), ravvisando la indubbia esistenza di un grave quadro indiziario che, secondo la logica del «più probabile che non», rende verosimile e non remoto il rischio di condizionamento mafioso dell’impresa, priva del fondamentale requisito richiesto dalla normativa antimafia, di cui si è detto, ossia la sua massima affidabilità e la sua credibile impermeabilità al condizionamento mafioso.
10.3.
Resta salva, ovviamente, la possibilità, per l’impresa, di richiedere l’aggiornamento e il riesame dell’informativa, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011, una volta rimosse le ragioni del possibile inquinamento mafioso (e impregiudicati i provvedimenti adottati dal giudice del lavoro, in sede contenziosa, sui licenziamenti intimati per giusta causa ai singoli dipendenti dalla società, come emerge dalla documentazione depositata dall’appellata, da ultimo, il 10.05.2016).
11. In conclusione, per le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, sicché –in riforma della sentenza impugnata– va respinto il ricorso di primo grado n. 708 del 2014.

APPALTIGare, se manca l'invito non c'è la trasparenza. Alla seduta pubblica per aprire le buste.
Il mancato invito a presenziare alla seduta pubblica di apertura delle buste in una gara pubblica viola il principio di trasparenza e non necessita della prova dell'avvenuta manipolazione della documentazione.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 20.07.2016 n. 3266 in cui si premette che il principio di trasparenza in materia di contratti pubblici ha portata fondamentale ed informa profondamente le procedure di gara.
Corollario di questa affermazione è che la rilevanza della violazione (del principio di trasparenza) «prescinde dalla prova concreta delle conseguenze negative derivanti dalla sua violazione, rappresentando un valore in sé, di cui la normativa nazionale e comunitaria predica la salvaguardia a tutela non solo degli interessi degli operatori, ma anche di quelli della stazione appaltante».
Nel caso esaminato dalla sentenza era accaduto che la stazione appaltante non avesse inviato la comunicazione via Pec., del giorno di apertura dei plichi, privando il concorrente della possibilità di partecipare alla seduta pubblica e, conseguentemente, determinando una lesione del principio di trasparenza.
I giudici affermano che è sufficiente questa mancanza a ritenere illegittimo il comportamento della stazione appaltante, a nulla rilevando il fatto che si sia poi prodotto una manipolazione della documentazione di gara: «non spetta all'operatore economico provare che il mancato rispetto del principio di trasparenza abbia in concreto prodotto una manipolazione indebita della documentazione nella disponibilità della commissione di gara».
D'altro canto il Consiglio di stato aveva precisato in passato che nelle gare d'appalto la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza e all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli e aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).
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6. L’appello è infondato e non può essere accolto.
Va innanzitutto sottolineato che
il principio di trasparenza in materia di contratti pubblici ha portata fondamentale, come si evince dall’art. 2, d.lgs. 163/2006, ratione temporis applicabile alla procedura de qua, ed informa profondamente le procedure di gara, sicché la rilevanza della sua violazione prescinde dalla prova concreta delle conseguenze negative derivanti dalla sua violazione, rappresentando un valore in sé, di cui la normativa nazionale e comunitaria predica la salvaguardia a tutela non solo degli interessi degli operatori, ma anche di quelli della stazione appaltante.
Occorre ribadire (cfr. Cons. St., Sez. V, 07.06.2013, n. 3135) che
in materia di gare d'appalto, e con specifico riferimento alle operazioni preliminari da svolgere in seduta pubblica, la verifica dell'integrità dei plichi non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura, giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza e all'imparzialità dell'azione amministrativa.
Pertanto, nella fattispecie non spetta all’operatore economico provare che il mancato rispetto del principio di trasparenza abbia in concreto prodotto una manipolazione indebita della documentazione nella disponibilità della commissione di gara. Da qui l’irrilevanza che si sia in presenza di una procedura telematica con asta elettronica; circostanza del resto a tal fine non presa in esame nemmeno dalla stessa lex specialis.
Al riguardo, infatti, occorre rilevare che il punto 12.2. del disciplinare di gara stabilisce che la commissione procede in seduta pubblica, il giorno comunicato via p.e.c., all’apertura dei plichi contenenti l’offerta tecnica. Questa diposizione ha natura derogatoria e comunque speciale rispetto alla previsione generale contenuto nel punto 3.5 del disciplinare di gara, che consente alla stazione appaltante di effettuare le comunicazioni anche attraverso la mera pubblicazione delle stesse sul profilo del committente.
Ciò del resto è pienamente in linea con quanto affermato dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 13/2011, secondo la quale: “
Nelle gare d’appalto in cui il contratto venga affidato col criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e in relazione alle operazioni preliminari da svolgere in seduta pubblica, anche con specifico riferimento all'apertura della busta dell'offerta tecnica, vige il principio secondo il quale la "verifica della integrità dei plichi" non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza e all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato; pertanto, l'Amministrazione non può sottrarre alla seduta pubblica l'operazione di apertura della busta recante l'offerta tecnica disponendone lo svolgimento nella seduta riservata di valutazione del merito”.
La manca comunicazione via p.e.c., come prescritto dal disciplinare di gara al punto 12.2, ha privato l’originaria ricorrente della possibilità di partecipare alla suddetta seduta, cagionando una lesione del principio di trasparenza, come correttamente rilevato dal primo giudice.
7. L’appello deve, quindi, essere respinto.

APPALTIL'interdittiva antimafia fa revocare il contratto.
Una interdittiva antimafia giunta in sede di esecuzione di un contratto obbliga la stazione appaltante alla revoca del contratto; sulla controversia è competente il giudice amministrativo perché l'interdittiva determina l'incapacità originaria a contrattare.

Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 20.07.2016 n. 3247 con riferimento a un caso che aveva visto una stazione appaltante procedere alla risoluzione del contratto di appalto di lavori determinata dalla ricezione di una informativa antimafia.
I giudici hanno stabilito che se l'informativa antimafia interdittiva sopravviene in corso di esecuzione di un contratto stipulato con la pubblica amministrazione ciò non costituisce una «sopravvenienza» impeditiva dell'ulteriore esecuzione del contratto stipulato, bensì l'accertamento dell'incapacità originaria del privato ad essere parte contrattuale della pubblica amministrazione.
Affermato questo principio, la sentenza ne deduce, in primo luogo la competenza del giudice amministrativo e non del giudice ordinario (come sarebbe quando si discute di diritti soggettivi come quelli legati all'esecuzione del contratto) in quanto si recede unilateralmente dal contratto per effetto di una sopravvenuta informativa antimafia interdittiva.
In secondo luogo la sentenza afferma la riconduzione del provvedimento di revoca del contratto agli atti che concernono l'affidamento dell'appalto, avvenuto in favore di un soggetto a ciò interdetto, e dunque in difetto dei presupposti necessari per essere destinatario dell'affidamento.
Infine i giudici ritengono di dovere anche escludere l'obbligo di invio della comunicazione di avvio del procedimento di revoca dell'atto di affidamento ovvero di recesso dal contratto, «non potendosi l'amministrazione appaltante determinare diversamente (art. 21-octies, comma 2, legge n. 241/1990), né potendo, peraltro, la stessa né procedere ad istruttoria e a valutazioni autonome su quanto risultante dall'informativa, né valutare lo stato di esecuzione del contratto, stante il chiaro disposto dell'art. 92, dlgs n. 159/2011
».
«Quest'ultima norma prevede infatti che l'amministrazione sia costretta all'emanazione di un tipico “atto vincolato” derivante semplicemente dalla ricezione della interdittiva antimafia» (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).
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2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
In linea generale,
ai sensi dell’art. 91 d.lgs. 06.09.2011 n. 159, i soggetti che vi sono tenuti devono acquisire la cd. informazione antimafia, in particolare “prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti” (co. 1).
Ciò in quanto la sussistenza di condizioni per l’emissione di informativa antimafia interdittiva determina (così argomentando dall’art. 67 d.lgs. n. 159/2011) una particolare forma di incapacità giuridica, riferita in particolare alla stipulazione di contatti e ad essere parte nei conseguenti rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione.
Tuttavia., in talune ipotesi di urgenza, ovvero di superamento dei termini previsti per il rilascio dell’informativa da parte del Prefetto, è possibile procedere anche in assenza di informativa antimafia; in questa ipotesi, però, “i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all’art. 67 sono corrisposti sotto condizione risolutiva e i soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” (art. 92, co. 3).
Nelle ipotesi ora descritte, l’eventuale stipulazione del contratto, pur consentita dalla legge al fine di tutelare l’efficienza, e dunque il buon andamento dell’attività amministrativa, avviene tuttavia sub condicione del possesso (non tanto di requisiti di ordine generale, ma più precisamente) della indispensabile capacità giuridica.
Di modo che, laddove l’informativa antimafia interdittiva sopravvenga in corso di esecuzione di un contratto stipulato con la pubblica amministrazione (e segnatamente, come nel caso di specie, di un contratto di appalto), ciò non costituisce una “sopravvenienza” impeditiva dell’ulteriore esecuzione del contratto stipulato, bensì l’accertamento dell’incapacità originaria del privato ad essere parte contrattuale della pubblica amministrazione.

Da ciò consegue:
- per un verso,
la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo (ex art. 133, co. 1, lett. e), n. 1 Cpa) in ordine ai provvedimenti con i quali l’amministrazione committente revoca il provvedimento di affidamento di un appalto ovvero recede unilateralmente dal contratto, per effetto di una sopravvenuta informativa antimafia interdittiva;
- per altro verso,
la riconduzione del provvedimento così adottato agli atti che concernono l’affidamento dell’appalto (avvenuto in favore di un soggetto a ciò interdetto, e dunque in difetto dei presupposti necessari per essere destinatario dell’affidamento), con conseguente applicazione dell’art. 120 Cpa e dei termini dimidiati ivi previsti (il che fonda il rigetto del primo motivo di appello);
- per altro verso ancora,
l’esclusione dell’obbligo di invio della comunicazione di avvio del procedimento di revoca dell’atto di affidamento ovvero di recesso dal contratto, non potendosi l’amministrazione appaltante determinare diversamente (art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990), né potendo, peraltro, la stessa né procedere ad istruttoria ed a valutazioni autonome su quanto risultante dall’informativa, né valutare lo stato di esecuzione del contratto, stante il chiaro disposto dell’art. 92 d.lgs. n. 159/2011 (il che determinerebbe, in ogni caso, il rigetto dei motivi proposti con il ricorso instaurativo del giudizio di I grado e riproposti in appello: sub lett. b), c) e d) dell’esposizione in fatto).
Per tutte le ragioni esposte, il primo motivo di appello (sub a) dell’esposizione in fatto) deve essere rigettato, stante la sua infondatezza, con conseguente reiezione dell’appello proposto e conferma della sentenza impugnata.

VARI: Assegno non trasferibile, la banca non si libera dell'obbligazione.
La Corte di Cassazione ha stabilito che
la banca che abbia effettuato il pagamento di un assegno non trasferibile in favore di chi non era legittimato a riceverlo «non è liberata dall'originaria obbligazione finché non paga il prenditore esattamente individuato, e ciò a prescindere dalla sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sulla identificazione» (sentenza 19.07.2016 n. 14777).
Si tratta di una presa di posizione rispetto a due differenti impostazioni. Per la prima, la banca è esente da responsabilità se ha proceduto ad identificare il portatore dell'assegno e a verificare che la firma riportata sul titolo corrisponda a quella del traente. Altri, invece, afferma che la banca debba essere sempre ritenuta responsabile a prescindere dalla configurabilità o meno di colpa nell'errata identificazione del beneficiario con la conseguenza che essa sarà tenuta in ogni caso a ripetere il pagamento al vero creditore.
La sentenza stabilisce il principio predetto poiché deriva dal fatto che la legge assegni (rd 21.12.1933, n. 1736), «nel disporre che colui che paga a persona diversa dal prenditore, o dal banchiere giratario per l'incasso, disciplina in modo autonomo il pagamento dell'assegno non trasferibile, con deviazione dalla regola generale che libera il debitore che esegua il pagamento in buona fede in favore del creditore apparente».
L'orientamento scelto dalla Cassazione sembra essere maggiormente coerente con la funzione propria della legge assegni che è quella di evitare che l'assegno sia riscosso da soggetti diversi dal beneficiario. La sentenza in esame ritiene che la responsabilità che si configura per la banca in ordine al pagamento di un assegno munito di clausola di non trasferibilità a persona diversa dal prenditore rivesta sia di tipo contrattuale.
Tale natura della responsabilità discende dalla circostanza che per la banca esiste un obbligo professionale di protezione, definito come preesistente, specifico e volontariamente assunto, che opera «nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso» (articolo ItaliaOggi del 06.08.2016).

VARI: Auto all'amico? C'è il diritto al risarcimento.
Se affidiamo l'automobile a un amico ma commette un incidente il diritto al risarcimento è mantenuto.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. III civile, nella sentenza 19.07.2016 n. 14699, la quale ha accolto il ricorso di una donna che aveva portato in giudizio un ragazzo, in possesso del solo foglio rosa, a cui aveva affidato l'auto per verificare uno strano rumore.
La vicenda risale al novembre 2003: durante la guida il giovane perse il controllo dell'auto e andò a sbattere contro un muro e un lampione. L'auto riportò gravissimi danni così come la donna che accusò diverse ferite e si rivolse, per ottenere un risarcimento dal guidatore incauto, al tribunale di Milano che però respinse la richiesta nell'ottobre 2013.
I giudici ritennero che la donna avesse rivestito i panni di «un'assistente in una simulazione di guida», quindi la responsabilità era la sua.
Nel settembre 2012 la Corte d'appello milanese confermò la sentenza, quindi tutto passò ai giudici di piazza Cavour che accolsero il ricorso perché «il ruolo, inesistente, di assistente alla guida, desunta in maniera “creativa”, è una figura assolutamente nuova», oltre al fatto che «la cooperazione colposa, con la causazione del sinistro, non può essere identificata nel salire su un'auto, condotta da una persona che il trasportato sa non essere in grado di fornire una guida adeguata», con l'accettazione che «la guida del veicolo sia effettuata da un soggetto a ciò non idoneo non può intendersi come valida rinuncia a ogni risarcimento dei danni» (articolo ItaliaOggi del 18.08.2016).

ESPROPRIAZIONEIndennizzo sanante non retroattivo. La pronuncia che precede l’esproprio è irrevocabile e incontestabile.
Consiglio di Stato. Acquisizione vietata dopo la sentenza che impone alla Pa di restituire il bene al privato.
La pubblica amministrazione non può acquisire il bene privato occupato illegittimamente per interesse pubblico, dopo la sentenza passata in giudicato che le ha ordinato di restituirlo al proprietario. L’acquisizione sanante, infatti, non è retroattiva e, non avendola attivata prima, la Pa non può contestare la pronuncia ormai irrevocabile nemmeno appellandosi alla mancanza di risorse economiche necessarie per eseguirla, né ai conseguenti disagi per i cittadini.
A stabilirlo è il Consiglio di Stato (IV Sez.) con la sentenza 19.07.2016 n. 3200, confermando il giudizio di primo grado che aveva annullato il decreto di «acquisizione sanante» (ai sensi dell’articolo 42-bis del Testo unico sugli espropri, il Dpr 327/2001), disposto da un Comune per un suolo privato già occupato senza titolo, nell’ambito dei lavori per la costruzione della rete fognaria comunale.
L’Ente aveva adottato l’atto a distanza di oltre tre anni dalla sentenza con cui un Tribunale lo aveva condannato a rimuovere il tratto di rete e a restituire il suolo ai proprietari.
La decisione era passata in giudicato, poiché mai impugnata. Per il Comune, però, questo caso era differente, poiché non era possibile restituire il bene per «evidentissimi elementi ostativi»: l’impossibilità di trovare coperture finanziarie, ma soprattutto quella di interrompere un servizio ormai garantito alla popolazione, seppur avvalendosi di una proprietà di terzi, senza un valido provvedimento ablatorio.
I giudici, al contrario, hanno spiegato che per la natura non retroattiva della procedura, così come ha precisato la Consulta nel ribadirne la compatibilità col dettato costituzionale (sentenza 71/2015), il giudicato restitutorio «impedisce» alla Pa di acquisire il bene al proprio patrimonio indisponibile con indennizzo al privato.
Il collegio ha sottolineato che questo principio è stato chiarito di recente dall’Adunanza plenaria di Palazzo Spada (sentenza 2/2016), secondo cui esso «assume un rilievo centrale» che caratterizza questo tipo di acquisizioni e «si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’articolo 42-bis, nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio, ma anche esplicitamente restitutorio».
La Sezione ha quindi affermato «il carattere del tutto recessivo» degli oneri finanziari che la Pa sosterrebbe per eseguire la decisione del Tribunale e l’«assoluta irrilevanza» sia delle opere pubbliche realizzate, sia degli «ipotetici disagi» che la comunità potrebbe subire dopo la rimozione.
Nella sentenza si è ritenuto che la responsabilità esclusiva non può non essere del Comune se, nei casi come quelli in esame, decide di non provvedere all’«acquisizione sanante» in pendenza di giudizio, né di appellare la sentenza di primo grado che gli ha ordinato la restitutio in integrum della proprietà occupata illegittimamente.
In questa cornice poi, violata la citata norma espropriativa e accertata la responsabilità della Pa, «risulta superfluo anche solo accertare in via istruttoria se quanto allegato dal Comune risponda al vero o meno»
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.08.2016).
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MASSIMA
1. Il presente contenzioso concerne un suolo sito nel territorio del Comune di Morigerati, di proprietà degli originari ricorrenti, signori It. De Fi. e Ma.Au.Va., oggetto di occupazione sine titulo nell’ambito dei lavori per la realizzazione della rete fognante comunale.
A seguito di pregresso giudizio instaurato dagli interessati, il Tribunale di Sala Consilina, con sentenza nr. 50 del 06.06.2009, ha condannato l’Amministrazione comunale alla rimozione del tratto di rete fognante che attraversava la proprietà degli istanti ed alla restituzione del suolo in loro proprietà; detta sentenza non ha formato oggetto di impugnazione da parte del Comune, ed è pertanto passata in giudicato.
Successivamente, con provvedimento del 26.11.2012, il Comune ha disposto l’acquisizione della porzione di suolo de qua, ai sensi dell’art. 42-bis del d.P.R. 08.06.2001, nr. 327.
La determina di acquisizione è stata impugnata in sede giurisdizionale dai proprietari interessati, dando luogo al giudizio definito in prime cure con la sentenza oggetto dell’appello oggi all’esame della Sezione.
In detta sentenza, accogliendo la domanda attorea, il TAR della Campania ha reputato fondata e assorbente la censura di violazione del giudicato formatosi sulla precitata sentenza nr. 50 del 2009, da intendersi ormai preclusivo dell’esercizio del potere di acquisizione del suolo per cui è causa.
2. La ricostruzione in fatto che precede, ricavata dalla documentazione in atti e ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non risulta contestata dalle parti costituite per cui, vigendo la preclusione di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm., deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.
3. Tutto ciò premesso, può prescindersi dall’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dalle parti resistenti, in quanto l’appello risulta infondato nel merito.
4. Ed invero, il primo giudice ha individuato il fattore ostativo all’esercizio del potere di acquisizione nella più volte citata sentenza del Tribunale di Sala Consilina nr. 50 del 2009, passata in giudicato, con la quale il Comune è stato condannato sic et simpliciter alla restituzione del suolo illegittimamente occupato, previa rimozione di quanto in esso realizzato.
Tanto alla luce del principio enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza nr. 71 del 30.04.2015, laddove, nel riaffermare la compatibilità col quadro costituzionale dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bis del d.P.R. nr. 327/2001, ha evidenziato che uno dei suoi tratti caratteristici, e cioè il carattere non retroattivo dell’acquisizione, “impedisce l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al privato”.
A fronte di tale rilievo, il Comune odierno appellante, pur dando atto di condividere il principio enunciato dalla Corte, assume che esso non si applicherebbe alla presente fattispecie, la quale si configurerebbe come “diversa” per l’esistenza di “evidentissimi elementi ostativi all’esecuzione dell’ordine restitutorio, rappresentati dall’impossibilità di reperire le necessarie risorse economiche e, soprattutto, dall’impossibilità di interrompere la continuità del servizio erogato alla popolazione”.
5. Il Collegio ritiene che gli elementi di mero fatto così rappresentati non siano idonei a escludere l’applicazione della regola circa il carattere preclusivo del giudicato restitutorio rispetto all’esercizio del potere di acquisizione ex art. 42-bis del d.P.R. nr. 327/2001.
Tale regola è stata recentemente esplicitata dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, la quale ha precisato: “…assume un rilievo centrale (…)un ulteriore elemento caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario; tale elemento -valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi principi elaborati dalla Corte di Strasburgo- si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutorio (…)” (sent. 09.02.2016, nr. 2).
Da quanto sopra discende, con riguardo al caso che qui occupa e alle deduzioni dell’Amministrazione appellante, a fronte del giudicato restitutorio formatosi sulla più volte citata sentenza del 2009:
- il carattere del tutto recessivo dell’argomento relativo agli ingenti oneri finanziari che il Comune dovrebbe sostenere per dare esecuzione al decisum giudiziale;
- l’assoluta irrilevanza della questione di se e quali opere siano state realizzate sul suolo per cui è causa, come pure degli ipotetici disagi che la loro rimozione provocherebbe alla collettività.
A tale ultimo riguardo, è a dirsi che parte appellata definisce “apodittica” l’affermazione contenuta nell’appello circa i suddetti inconvenienti; e, tuttavia, alla luce della portata in radice preclusiva della regola giuridica dianzi evocata, risulta superfluo anche solo accertare in via istruttoria se quanto allegato dal Comune risponda al vero o meno.
Insomma, imputet sibi il Comune se, a fronte dell’iniziativa a suo tempo intrapresa dai proprietari interessati presso il giudice ordinario, non ritenne di disporre l’acquisizione del suolo de quo in pendenza del giudizio, e neanche di appellare la sentenza di primo grado che ordinava la restitutio in integrum.
6. In conclusione, s’impone una pronuncia di reiezione dell’appello e conferma della sentenza impugnata.
Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 cod. proc. civ., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: cfr. ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, nr. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, nr. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso

PUBBLICO IMPIEGO: Il gip non può archiviare se manca contraddittorio.
Illegittimi i decreti di archiviazione del gip se manca il contraddittorio dell'altra parte.

A ribadire l'annoso principio di diritto i giudici della Corte di Cassazione - Sez. IV penale, nella sentenza 17.07.2016 n. 32551, in cui è stato preso in esame il caso di un giudice per le indagini preliminari del tribunale di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, che aveva richiesto l'archiviazione avanzata del pubblico ministero, nel settembre 2014, «sottraendo la discussione a qualsiasi contraddittorio».
Nella vicenda erano coinvolte 12 persone del pronto soccorso della città, indagate per omicidio colposo per presunta responsabilità medica in cui un paziente, ricoverato per problemi cardiaci, perse la vita. Sebbene l'autopsia dimostrasse come l'uomo morì per il suo gravissimo stato di salute, figli e parenti avanzarono ricorso per presunte condotte omissive dell'intero staff medico, aggiungendo delle ulteriori consulenze tecniche sull'accaduto ritenute però «né rilevanti, né pertinenti» dal giudice, specificando che «i parenti della persona offesa avevano presentato due distinte denunce, e non era dato sapere su che cosa avrebbero dovuto essere ulteriormente sentiti».
La famiglia, impugnato il decreto sui tavoli dei giudici della Corte di cassazione, accusava il gip di «essere andato oltre il proprio compito», si legge nella sentenza, «pronunciando un provvedimento con la valutazione di merito, senza permettere alle persone offese di esercitare il proprio diritto di difesa», aggiungendo a questo che «replicava con valutazioni aventi il contenuto del giudizio, anticipando l'esito di quella che doveva essere l'udienza di comparizione».
Alla fine però i porporati della IV sezione penale hanno dato ragione alla famiglia, in quanto «il ricorso deve essere accolto, perché fondato. Non è consentito al gip, in presenza di temi suppletivi d'indagine, anche se presumibile di scarsa incidenza, obliterare la regola del contraddittorio, anticipando valutazioni di merito in ordine alla fondatezza o all'esito delle indagini suppletive indicate, in quanto l'opposizione è preordinata esclusivamente a sostituire il provvedimento “de plano” con il rito camerale» (articolo ItaliaOggi del 31.08.2016).
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MASSIMA
1. Il ricorso deve essere accolto perché fondato.
Deve osservarsi che
la possibilità di definire il procedimento in assenza di contraddittorio costituisce un'eccezione giustificata, oltre che, ovviamente, dal convincimento di infondatezza della notizia di reato, dall'inammissibilità dell'opposizione.
Se è pur vero che l'inammissibilità può essere ricollegata, oltre che alla carenza dei requisiti di legittimazione e tempestività, all'enunciazione di temi di prova estranei rispetto all'ipotesi formulata, non è consentito al G.I.P., in presenza di temi suppletivi d'indagine, anche se di presumibile scarsa incidenza
, obliterare la regola del contraddittorio, anticipando valutazioni di merito in ordine alla fondatezza o all'esito delle indagini suppletive indicate, in quanto l'opposizione è preordinata esclusivamente a sostituire il provvedimento "de plano" con il rito camerale (Cfr. da ultimo Cass., Sez. IV, 17.01.2013 Rv 255500; sez. VI, n. 35787 del 10/07/2012, Rv. 253349; conformi: n. 14360 del 2003 Rv. 224839, n. 34152 del 2006 Rv. 235204, n. 40593 del 2008 Rv. 241360, n. 9184 del 2009 Rv. 243010, n. 19808 del 2009 Rv. 243852, n. 34676 del 2010 Rv. 248085, n. 40509 del 2010 Rv. 248855, n. 41625 del 2010 Rv. 248914, n. 1304 del 2011 Rv. 249371, n. 8129 del 2012 Rv. 252476; sez. V, 25.11.2014 rv 263194; sez. II, 10.12.2015 rv 265490, sez.VI 08.01.2016 rv 265915).

PUBBLICO IMPIEGOSpoils system alla Consulta. Paletti alla decadenza automatica dei dirigenti. Ordinanza di rimessione della Cassazione fa tornare d'attualità il dibattito.
L'incostituzionalità della decadenza automatica dei dirigenti derivante dall'insediamento di un nuovo vertice politico-amministrativo torna d'attualità e mette in seria discussione l'impianto della riforma Madia.

La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con ordinanza interlocutoria 15.07.2016 n. 14593 indirettamente entra nel dibattito aperto sulla riforma della dirigenza, sollevando la questione di legittimità costituzionale relativamente all'articolo 9, comma 6, delta legge reg. Friuli Venezia Giulia del 03.03.1998, n. 6, nella parte in cui, appunto, dispone la decadenza automatica dei dirigenti dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente.
La Sezione lavoro fa sue e riprende le motivazioni con le quali la Corte costituzionale esprime da anni un indirizzo giurisprudenziale fortemente contrario agli elementi di spoils system che vìolino l'articolo 97 della Costituzione in tema di accesso agli impieghi pubblici mediante concorsi e, soprattutto, il principio di continuità dell'azione amministrativa.
Tale indirizzo, ricorda la Cassazione citando alcune delle sentenze più rilevanti pronunciate dalla Consulta, afferma che meccanismi di decadenza automatica, se riferiti a dirigenti preposti alla direzione di uffici amministrativi per la cui scelta l'ordinamento non attribuisce, in ragione della loro funzioni, rilievo esclusivo o prevalente al criterio della personale adesione del nominato agli orientamenti politici del titolare dell'organo che nomina, pregiudicano la continuità dell'azione amministrativa oltre ad introdurre altri elementi problematici.
In primo luogo, la parzialità del dirigente, se scelto in relazione all'orientamento politico; inoltre, la sottrazione del dirigente dichiarato decaduto dalle garanzie del giusto procedimento, a causa del fatto che la decadenza automatica svincola la rimozione del dirigente dall'accertamento oggettivo dei risultati conseguiti. Indirettamente queste affermazioni, ormai pacifiche nella giurisprudenza costituzionale, incidono sulla riforma della dirigenza, in elaborazione frenetica in questi giorni.
La legge 124/2015, infatti, pur non prevedendo ipotesi di decadenza automatica dei dirigenti connessa all'insediamento di nuovi organi di governo, di fatto estende a dismisura la lesione del principio di continuità dell'azione amministrativa. Infatti, si prevede una durata degli incarichi dirigenziali al massimo di quattro anni, prorogabili di altri due in caso di valutazioni positive, dopo di che si ha la decadenza necessaria dall'incarico e la collocazione a disposizione dei ruoli dirigenziali, a prescindere da qualsiasi valutazione dei risultati conseguiti.
La riforma Madia, insomma, così come pensata espone tutti i dirigenti all'assenza di incarico per fatti del tutto casuali, come la scadenza dell'incarico e la mancata nomina per nuovi incarichi, del tutto estranei alle vicende del rapporto di lavoro, proprio perché l'assenza dell'incarico dirigenziale non sarebbe giustificata da ragioni aziendali o soggettive, come valutazioni concernenti i risultati aziendali o il raggiungimento degli obiettivi o il verificarsi di cause che legittimerebbero la risoluzione per inadempimento del rapporto.
Anzi, paradossalmente la riforma porrebbe sullo stesso piano tanto i dirigenti rimasti senza incarico per scadenza naturale del termine, quanto i dirigenti privati dell'incarico in conseguenza di valutazioni negative: in entrambi i casi i dirigenti si ritroverebbero a languire nei ruoli unici, privi della retribuzione di posizione e risultato (che va dal 40% al 70% circa del trattamento stipendiale complessivo a seconda degli enti e dei tipi di incarico), con la prospettiva di essere licenziati se tale condizione si prolunga per sei anni nel corso dei quali annualmente la retribuzione si riduce del 10% annuo, oppure di chiedere il demansionamento a funzionari.
Simili conseguenze possono ammettersi in presenza di un giustificato motivo soggettivo. Ma, la casuale indisponibilità di determinati organi di governo ad assegnare incarichi ai dirigenti difficilmente si forma consiste nel dissociare la qualifica dirigenziale dal simmetrico obbligo degli organi di governo a reperire dai ruoli dei dirigenti i vertici da incaricare.
La riforma vuole puntare sulla rotazione dei dirigenti: ma la dissociazione tra appartenenza al ruolo e diritto all'incarico (vulnerato ovviamente nel caso di valutazioni negative) non crea rotazione, ma solo quello spoils system automatico, che consente di lasciare a casa dirigenti non apertamente aderenti all'orientamento politico, senza alcun riferimento ai risultati ed alla capacità espressi nell'espletamento del loro incarico (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl progetto è da esibire ai vicini. Diritto di visione dei confinanti anche se il titolare nega. Sentenza del Tar Puglia sugli obblighi di trasparenza del comune in merito ai permessi.
Il proprietario del terreno confinante ha diritto a prendere visione del progetto edilizio del vicino anche se quest'ultimo si oppone: in base alla legge sulla trasparenza, infatti, è possibile ottenere dal comune una copia del permesso di costruire rilasciato dagli uffici dell'ente locale, benché il titolare dell'autorizzazione si opponga: nell'ostensione del documento non vengono in gioco valori come la privacy delle persone, ma profili soltanto pubblicistici, laddove l'accesso al nuovo immobile da realizzare prevede il passaggio sulla proprietà del vicino richiedente.

È quanto emerge dalla sentenza 14.07.2016 n. 1136, pubblicata dal TAR Puglia-Lecce, II Sez..
Interesse qualificato. Sbaglia il comune: non può esimersi dal rilasciare una copia del titolo edilizio assentito al proprietario del terreno che vede come il fumo negli occhi l'iniziativa del confinante, di cui ha saputo in paese in maniera via informale; il progetto prevede un immobile residenziale e un garage e sull'accesso al cespite esiste già una controversia con l'ente locale.
L'amministrazione motiva il rifiuto dell'ostensione facendo riferimento all'opposizione del titolare dell'autorizzazione. Ma l'articolo 24, comma 6, lettera d), della legge 241/1990 legittima il diniego del comune soltanto se la diffusione della copia del documento può ledere la riservatezza delle persone, mentre il permesso a costruire costituisce un atto che per sua stessa natura è soggetto al controllo del terzo confinante.
Il fatto che il richiedente sia proprietario del terreno limitrofo gli conferisce un interesse qualificato dal punto di vista giuridico a ottenere l'accesso al documento. All'ente locale non resta che pagare le spese di giudizio.
Strumentalità necessaria. Per gli obblighi di trasparenza amministrativa il comune è chiamato spesso in causa nelle controversie fra confinanti e condomini, che spesso e volentieri finiscono davanti al giudice. Se per esempio il vano tecnico diventa un locale abitabile, l'ente locale deve mostrare l'agibilità al vicino che vuol fare causa.
Dopo la lite sull'appartamento all'ultimo piano, nonostante la sanatoria, l'amministrazione non può negare le carte sulla conclusione dell'iter al condomino perché deve preparare la difesa in tribunale. Il proprietario del penultimo piano fa la guerra a quello che abita sopra perché è convinto che nei lavori realizzati vi sia qualcosa di strano: il vano tecnico diventa abitazione civile grazie a una sanatoria, ma non risulta chiaro se sussiste o meno l'agibilità dei locali.
L'ufficio dell'ente, tuttavia, resta in silenzio rispetto all'istanza del vicino. E sbaglia perché fra i condomini pendono ben due cause e quello del piano di sotto ha diritto a ottenere i documenti per preparare la sua difesa in giudizio. È quanto emerge dalla sentenza 898/2016, pubblicata dal Tar Puglia, seconda sezione della sede di Lecce.
In effetti sono gli stessi giudici amministrativi a instradare sul da farsi il condominio battagliero che vuole bloccare i lavori all'ultimo piano. Il Tar, infatti, ha già respinto un primo ricorso precisando che con il rilascio del permesso di costruire si sono sanate esclusivamente le opere edilizie, mentre l'utilizzazione dell'immobile come civile abitazione è soggetto al rilascio del certificato di agibilità.
Ma ora accoglie il ricorso, ordinando all'amministrazione locale di mostrare come si è concluso il procedimento relativo all'agibilità dei locali richiesta dall'altro condomino litigante. E ciò perché non c'è dubbio che ricorra il presupposto ex articolo 24 della legge 241/1990: secondo la normativa sulla trasparenza, infatti, il condomino che si sente leso dall'iniziativa del rivale ha diritto ad accedere ai documenti amministrativi necessari per curare o difendere i suoi interessi giuridici.
Nella specie si configura il requisito della «strumentalità necessaria» fra le carte richieste e la necessità di impostare la strategia processuale. Al comune non resta che pagare le spese di giudizio.
Stop abusi. La glasnost imposta dalla legge all'amministrazione vale a maggior ragione in caso di programma di lottizzazione: lo conferma la giurisprudenza. Il comune è tenuto a esibire i titoli edilizi rilevanti se uno dei proprietari coinvolti nell'iniziativa ritiene di essere danneggiato dalla variante urbanistica adottata dall'amministrazione per il terreno attiguo al suo: l'interessato per non avere sorprese si è già rivolto al Tribunale.
E ciò anche prima della novità legislativa rappresentata dall'accesso civico introdotto dalla riforma Severino: a tanto bastano le regole del testo unico dell'edilizia e della legge sulla trasparenza amministrativa. È quanto emerge dalla sentenza 923/2014, pubblicata dalla prima sezione del Tar Marche.
Accolto il ricorso del confinante: l'ente locale non può rifiutare di mostrare i documenti al richiedente, che è comproprietario del lotto interessato dall'intervento edilizio. Non c'è bisogno di invocare le novità introdotte dal decreto legislativo 33/2013 che ha fatto seguito alla riforma di cui alla legge 190/2012, che non contiene soltanto norma anticorruzione ma anche disposizioni per migliorare il rapporto fra amministrazione e cittadini. E ciò perché è lo stesso dpr 380/2001 a prescrivere che dopo il rilascio di un titolo edilizio deve essere dato l'avviso all'albo pretorio e che chiunque deve avere facoltà di accedere agli atti del procedimento, visionando sia gli atti amministrativi sia gli elaborati progettuali.
Insomma: sul progetto della lottizzazione non c'è privacy che tenga. Nella specie il vicino ha soltanto l'esigenza di verificare la presenza di eventuali abusi edilizi o altre similari evenienze che possano ledere la sua proprietà (e non importa se si tratti di proprietà individuale o di comproprietà), il che non implica quindi la conoscenza di dati sensibili; diversamente si darebbe la possibilità agli autori di abusi edilizi di poter evitare qualsiasi controllo su impulso di parte, accampando un inesistente diritto alla riservatezza. Il comune paga le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.201).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Come è noto, l’art. 22 l. 241/1990, per l’esercizio del diritto di accesso, richiede l’interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
L’art. 24, comma 6, lettera d), prevede che le amministrazioni possano sottrarre all’accesso i documenti quando riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono.
Nel caso di specie, gli atti richiesti riguardano il permesso di costruire rilasciato al confinante. Rispetto a tali documenti non può ravvisarsi alcuna esigenza di riservatezza tutelata ai sensi del comma 6 dell'art. 24, non essendo dati relativi alla vita privata delle persone, ma essendo per loro stessa natura soggetti al controllo dei terzi confinanti.
In particolare, la giurisprudenza ha condivisibilmente ritenuto che “
per gli atti relativi al permesso di costruire, la sussistenza del requisito della vicinitas tra la proprietà dell’istante e quella del controinteressato fanno sì che debba riconoscersi la sussistenza in capo al ricorrente dell'interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso; e che si tratta di atti che per la loro diretta inerenza a provvedimenti amministrativi pubblici, non possono essere in alcun modo sottratti all'accesso, in quanto l'art. 20, comma 6, del T.U. n. 380 del 2001 assicura a qualsiasi soggetto interessato la possibilità di visionare gli atti del procedimento di rilascio di permesso di costruire, in ragione del controllo sull'attività edilizia, che il legislatore ha inteso garantire ed atteso che in subiecta materia non può essere affermata l'esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati” (Tar Lazio, sez. II, 01.12.2015, n. 13545).
Ne deriva, nel caso di specie, che non può esservi dubbio circa la sussistenza in capo al ricorrente del diritto di accesso agli atti richiesti e della illegittimità del diniego espresso dal Comune con riferimento alla mera opposizione del controinteressato.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto.

APPALTII limiti al subappalto vanno giustificati. Lo dice la corte di giustizia Ue.
Illegittimo prevedere obbligo di svolgimento di una quota dell'appalto con risorse proprie se non vi sono esigenze di competenze particolari.

Lo afferma la sentenza 14.07.2016 n. C-406/14 della Corte europea che ha si è trovata a giudicare della legittimità di una clausola di un capitolato che obbligava l'esecutore dell'appalto a eseguire una quota di lavori con risorse proprie per almeno il 25% del totale dei lavori, peraltro oggetto di finanziamento da parte di fondi europei.
I giudici ricostruiscono il quadro normativo vigente all'epoca della gara bandita in Polonia e censurano il comportamento della stazione appaltante partendo dalla considerazione che la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che un'amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata a imporre, mediante una clausola del capitolato d'oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie.
Nella sentenza si legge che una clausola come quella prevista dalla stazione appaltante, che si limita a fissare implicitamente una percentuale dei lavori, non consentirebbe di determinare se la restrizione del ricorso al subappalto riguardi lavori la cui esecuzione necessita di competenze particolari.
Inoltre, dicono i giudici, questa previsione si configura come irregolarità anche rispetto alla normativa in materia di utilizzo dei fondi Ue. Anche in base all' articolo 98 del regolamento europeo n. 1083/2006 del Consiglio, dell'11.07.2006, recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione, il fatto che, nell'ambito di un appalto pubblico di lavori relativi ad un progetto che beneficia di un aiuto finanziario dell'Unione, l'amministrazione aggiudicatrice abbia imposto che il futuro aggiudicatario esegua almeno il 25% di tali lavori avvalendosi di risorse proprie, in violazione della direttiva 2004/18, costituisce un'«irregolarità» ai sensi di detto articolo 2, punto 7, che giustifica la necessità di applicare una rettifica finanziaria (articolo ItaliaOggi del 12.08.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
1) La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (CE) n. 2083/2005 della Commissione, del 19.12.2005, deve essere interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie.
2) L’articolo 98 del regolamento (CE) n. 1083/2006 del Consiglio, dell’11.07.2006, recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione e che abroga il regolamento (CE) n. 1260/1999, in combinato disposto con l’articolo 2, punto 7, dello stesso, deve essere interpretato nel senso che il fatto che, nell’ambito di un appalto pubblico di lavori relativi ad un progetto che beneficia di un aiuto finanziario dell’Unione, l’amministrazione aggiudicatrice abbia imposto che il futuro aggiudicatario esegua almeno il 25% di tali lavori avvalendosi di risorse proprie, in violazione della direttiva 2004/18, costituisce un’«irregolarità» ai sensi di detto articolo 2, punto 7, che giustifica la necessità di applicare una rettifica finanziaria ai sensi di detto articolo 98, nei limiti in cui non possa escludersi che tale violazione abbia avuto un effetto sul bilancio del Fondo interessato.
L’importo di tale rettifica deve essere determinato tenendo conto di tutte le circostanze concrete rilevanti alla luce dei criteri citati al paragrafo 2, primo comma, dell’articolo 98 di detto regolamento, vale a dire la natura dell’irregolarità constatata, la gravità della stessa e la perdita finanziaria che ne è risultata per il Fondo interessato.

TRIBUTIScuole religiose senza imposta comunale.
L'ente religioso che svolge attività di insegnamento e di oratorio è esente dal pagamento dell'imposta comunale sugli immobili utilizzati nel compimento dei propri fini istituzionali; in tal senso, non rileva il fatto che gli alunni paghino una retta annuale, il che non trasforma l'attività da non commerciale a commerciale e nulla cambia in merito all'esenzione dal pagamento dell'Ici.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 11.07.2016 n. 1679/03/16 della Ctp di Taranto.
I giudici tributari erano chiamati a dirimere una controversia in materia di Ici, tra il comune di Taranto e un istituto religioso, titolare di un immobile in cui veniva esercitata l'attività di insegnamento e oratorio. Agli alunni che intendessero frequentare detta scuola, era richiesto il pagamento di una retta.
Tale circostanza induceva il comune a richiedere l'Ici sull'immobile, qualificando come commerciale l'attività in esso esercitata. L'ente religioso, di contro, manifestava il proprio dissenso, impugnando l'avviso di accertamento, e sostenendo l'assenza di ogni finalità lucrativa e il pieno diritto all'esenzione dall'imposta.
La Ctp ha accolto il ricorso e annullato l'accertamento. La previsione del pagamento di una retta da parte degli alunni frequentanti i corsi scolastici, spiega la sentenza, non trasforma affatto l'attività da non commerciale a commerciale, stante l'assenza di uno scopo di lucro.
In verità, si tratta di una necessità di sopravvivenza dell'ente, rispondente a elementari principi di economicità, secondo cui le entrate devono almeno coprire le spese, per evitare che l'attività, pur non lucrativa, non sia in perdita, rischiando la chiusura, dovendosi comunque coprire i costi, tale da arrivare a un pareggio di gestione.
Dunque, osserva la Ctp, per gli istituti religiosi che svolgano esclusivamente attività di insegnamento e/o di oratorio, non ha alcuna rilevanza accertare se la retta versata dagli alunni sia meramente simbolica, oppure copra le spese (personale, utenze ecc.) o addirittura che ecceda quest'ultime. L'importante è che l'attività sia svolta senza fine di lucro, come nel caso in esame, anche se, necessariamente, in conformità ai necessari criteri di economicità.
Criteri che sono giustificati, peraltro, dalla «sacrosanta garanzia costituzionale della funzione didattica svolta da altri enti in parallelo allo stato e le nozioni generali di economia e di impresa». In ragione della affermata incertezza interpretativa, il collegio ha comunque disposto la compensazione integrale delle spese.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Il ricorso è fondato e va accolto.
L'istituto ricorrente è un ente religioso, in cui si svolge in modo esclusivo, per circostanza pacifica e come comprovato dall'allegato regolamento interno, secondo i valori ispiratori dell'ordine dei Salesiani, attività di insegnamento e di oratorio, cioè ricreative e sportive, tutte rientranti in quelle previste dall'art. 7, comma 1, lett. i), del dlgs n. 504 del 1992, espressamente esenti da Ici, ove non abbiano natura esclusivamente commerciale, in base a quanto disposto con decreti legge n. 203 del 2005 e n. 223 del 2006.
Nella fattispecie, il regolamento interno esclude specificamente la finalità di lucro. Consegue, implicitamente, che nessuna delle eventuali entrate economiche può avere carattere di profitto ed essere incamerata a titolo definitivo, anziché essere reimpiegata per le medesime, istituzionali finalità non di lucro.
L'istituzione, quindi, possiede ontologicamente i requisiti per lo svolgimento delle suddette attività con modalità non commerciali ex art. 7 citato, così come interpretati anche dal decreto del Mef n. 200/2012.
Tra l'altro, non esiste nessun'altra attività concorrente di natura eventualmente commerciale, che pure potrebbe esserci, in aggiunta, senza per questo far venir meno l'esenzione, a tenore della novelle legislative del 2005 e del 2006, come potrebbe essere, per esempio, quella alberghiera, notoriamente praticata presso ben altre realtà.
La previsione del pagamento di una retta da parte degli alunni frequentanti i corsi scolastici non trasforma affatto l'attività da non commerciale a commerciale, stante l'assenza di uno scopo di lucro.
Si tratta soltanto di una necessità di sopravvivenza dell'ente, rispondente ad elementari principi di economicità, secondo cui le entrate devono almeno coprire le spese, a evitare che l'attività, per quanto non lucrativa, non sia in perdita, rischiando la chiusura, dovendone sopportare i costi, ma, almeno, vada in pareggio, se possibile. Sicché, per gli istituti religiosi che svolgano esclusivamente attività di insegnamento e/o di oratorio, non ha nemmeno alcuna rilevanza accertare se la retta versata dagli alunni sia meramente simbolica oppure copra le spese (personale, utenze...).
L'importante è che l'attività sia svolta senza fine di lucro, come nel caso in esame, anche se, necessariamente, in conformità agli esposti, necessari criteri di economicità, per comprendere i quali non c'è neanche bisogno di richiamare, benché pertinenti, la sacrosanta garanzia costituzionale della funzione didattica svolta da altri enti in parallelo allo stato e le nozioni generali di economia e di impresa.
L'incertezza interpretativa in materia giustifica la compensazione delle spese (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

APPALTI SERVIZIPer la concessione non va indicato l’incasso presunto. Tar di Bologna. Bandi e gare pubbliche.
Le gare per collocare distributori automatici in luoghi pubblici non devono indicare il potenziale valore del contratto, perché spetta all’imprenditore reperire i dati per formulare un’offerta remunerativa.
Questo è il principio posto dal TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, nella sentenza 11.07.2016 n. 699, relativa ad un’Asl che poneva in gara la concessione di macchinette per distribuire bevande e snack.
Un’impresa contestava la gara, lamentando di non poter formulare un’offerta economica perché il bando comunicava solo l’importo del canone da versare all’Asl (1.258.000 euro per un triennio), mentre mancava il dato del fatturato conseguibile. La tesi dell’Asl era invece che, in mancanza di un dato sul fatturato, era sufficiente conoscere i luoghi di ubicazione, il numero delle macchine e il potenziale bacino di utenza.
Questa seconda tesi è stata condivisa dal Tar, sottolineando che l’Asl aveva bandito una concessione (e non un appalto) di servizi, in quanto il corrispettivo della fornitura consisteva solo nel diritto di gestire i servizi riscuotendo un prezzo (art. 3, co. 12, codice dei contratti 163/2006).
È una concessione perché l’impresa utilizza ciò che l’ente le consente (la possibilità di collocare distributori), assumendo il rischio economico connesso alla gestione del servizio (vendita), che viene svolto con mezzi propri. Per godere dell’area in cui viene collocato il distributore, il concessionario corrisponde un canone e non riceve dall’amministrazione alcun corrispettivo.
Non trattandosi di un appalto, è stato ritenuto applicabile l’articolo 30 del previgente Codice dei contratti (Dlgs 163/2006), che esigeva solo l’adozione di principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità, il tutto attraverso procedura selettiva e gare anche informali. Non si applicava invece l’articolo 29 dello stesso Dlgs, che imponeva di comunicare anche il valore stimato dell’appalto.
Il Tar ha condiviso la tesi dell’amministrazione, cioè che il servizio potesse essere affidato senza fornire elementi circa il fatturato potenziale, ad esempio perché si tratta della prima installazione, con un ragionamento già adottato in un caso analogo, relativo ai distributori nelle sedi del ministero dell’Economia (Tar Lazio, sentenza 3756/2016). Bastano quindi dati relativi al bacino di utenza, al numero e collocazione dei distributori, al numero dei dipendenti e, per le Asl, ai posti letto, per consentire agli operatori del settore di offrire un importo remunerativo.
Nel regime del nuovo Codice degli appalti (Dlgs 50/2016, articolo 4) per le concessioni sotto soglia (5.225.000 euro) operano oggi i princìpi di economicità, efficacia, imparzialità e parità di trattamento simili a quelli del precedente articolo 30 del Dlgs 163. Quindi il principio adottato dal Tar Bologna potrà essere valido anche per il futuro.
Dal 01.01.2017, peraltro, il problema sarà risolto grazie alle nuove tecnologie: l’articolo 2 del Dlgs 127/2015 impone di comunicare all’agenzia delle Entrate i corrispettivi incassati da ogni distributore automatico (si veda Il Sole 24 Ore del 18 luglio). Ciò gioverà anche alle pubbliche amministrazioni, che potranno bandire gare con dati più precisi
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2016).
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MASSIMA
6. Passando all’esame del merito deve premettersi che
l'affidamento del servizio di gestione di distributori automatici di snack e bevande è ricondotto dalla giurisprudenza prevalente nell'ambito della concessione di servizi che si differenzia dall'appalto di servizi in quanto il corrispettivo della fornitura "consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi, o in tale diritto accompagnato da un prezzo" (art. 3, comma 12, del codice dei contratti).
Sul piano economico, il concessionario utilizza quanto ottiene in concessione a fini di lucro, assumendo il rischio economico connesso alla gestione del servizio, svolto con mezzi propri; per godere delle risorse materiali appartenenti all'amministrazione, il concessionario normalmente corrisponde un canone e non riceve dalla stessa alcun corrispettivo
(così, in termini, Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015 n. 3571).
L'art. 30 del codice dei contratti sottrae le concessioni alle disposizioni riferite ai contratti pubblici, ma le assoggetta comunque al rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, con residuale obbligo, pertanto, di procedure selettive che, anche attraverso una gara informale, assicurino il rispetto dei suddetti principi.
7. Si tratta dunque di stabilire se, all’interno delle norme applicabili, debba farsi rientrare l'art. 29 del codice dei contratti in materia di "calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori o servizi pubblici".
Ciò in quanto la reale e pressoché unica doglianza della ricorrente risiede nel fatto che una stima carente, insufficiente o, comunque, non corretta, del potenziale bacino di utenza cui il servizio è destinato possa vulnerare i principi di trasparenza, parità di trattamento e proporzionalità nell'affidamento delle concessioni.
Il rilievo di tale elemento è stato colto dall'ANAC, la quale, anche relativamente alla tipologia dei contratti di concessione, ha più volte sottolineato la necessità di calcolare il fatturato presunto derivante dalla gestione del servizio (cfr., da ultimo, il parere di precontenzioso n. 104 del 17.06.2015, che richiama la delibera n. 40 del 19.12.2013 e la deliberazione n. 75 del 01.08.2012).
Secondo l'Autorità "
qualora si tratti di una concessione, non essendovi un prezzo pagato dalla stazione appaltante, ma solo quello versato dagli utenti, sarà quest'ultimo a costituire parte integrante dell'importo totale pagabile di cui è fatta menzione nella norma sopra citata; il canone a carico del concessionario potrà altresì essere computato, ove previsto, ma certamente, proprio in quanto solo eventuale, non può considerarsi l'unica voce indicativa del valore della concessione (Cfr. Deliberazione n. 9 del 25.02.2010).
La mancata indicazione del valore stimato dell'affidamento può rendere più difficoltosa per le imprese interessate alla partecipazione, la formulazione di un offerta economica consapevole. Inoltre, l'erronea indicazione del valore del contratto può determinare la mancata assicurazione di un adeguato livello di pubblicità, che -in base a quanto da tempo chiarito dalla Commissione Europea nella Comunicazione interpretativa sulle concessioni del 2000 sulla scorta di orientamenti costanti della Corte di Giustizia- per le concessioni di servizi di importo superiore alle soglie comunitarie, consiste nella pubblicazione del relativo avviso sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea (cfr. Deliberazione n. 73 del 20.07.2011 e Deliberazione n. 13 del 12.03.2010).
Ulteriore conseguenza della non corretta valutazione dell'importo dell'affidamento, può essere anche l'erronea commisurazione del contributo dovuto all'Autorità e delle cauzioni previste dal codice dei contratti pubblici, in quanto i relativi importi sono fissati proprio sulla base del predetto valore [...]
".
Le considerazioni dell'Autorità vanno tuttavia poste a raffronto con le evenienze dei casi concreti, in cui, ad esempio, un servizio venga affidato per la prima volta, o, comunque, l'amministrazione non disponga del dato relativo al fatturato generato dalla concessione eventualmente già in essere (TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.03.2016, n. 3756).
In ogni caso,
qualora non sia possibile calcolare il fatturato presunto, l'amministrazione è tenuta quantomeno a fornire indicazioni analitiche circa il potenziale bacino di utenza del servizio da affidare.
In proposito, dalla documentazione in atti e alla stregua delle norme della lex specialis innanzi riportate risulta che l'amministrazione ha assolto l'onere di indicare i dati relativi al bacino di utenza, dai quali i concorrenti, tutti operatori del settore, potevano ragionevolmente ricavare il fatturato potenziale derivante dalla gestione del servizio.
Infatti il capitolato reca in coda 5 allegati, riguardanti i 5 lotti, in cui si indica per ciascun presidio il numero e la collocazione dei distributori.
I suddetti dati sono integrati con l'indicazione del numero dei dipendenti e dei posti letto per ogni sede.
Ritiene il Collegio che l'amministrazione abbia fornito tutti gli elementi a sua disposizione, dai quali i concorrenti potevano ragionevolmente desumere la stima del potenziale fatturato generato dalla gestione del servizio mediante la propria organizzazione imprenditoriale.
La censura principale, sviluppata nei primi due motivi, è dunque infondata.

INCARICHI PROFESSIONALI: Indulto, pene accessorie salve. Resta la sanzione disciplinare a carico dell'avvocato. CASSAZIONE/ Sentenza sulla decisione assunta dal Consiglio dell'Ordine di Potenza.
L'indulto non annulla le pene accessorie.

Lo ribadisce la Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, nella sentenza 08.07.2016 n. 14039, in cui un'avvocatessa, F.S., propose ricorso contro la decisione del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Potenza, di sospenderla per sei mesi nell'aprile 2013 per concorso in bancarotta fraudolenta.
L'avvocatessa impugnò, in maggio, la sanzione disciplinare davanti le Sezioni unite della Cassazione e il Consiglio nazionale forense per ottenere il condono, basandosi sulla legge di concessione dell'indulto 241/2006.
A settembre il Cnf respinse il ricorso, che tuttavia si rivolse alle Sezioni unite presentando diverse pronunce della Cassazione in merito, in particolare la 23287/2010 in cui è spiegato che «trovano applicazione le norme del codice di procedura penale invece quando la legge professionale ne faccia espresso rinvio ovvero quando siano da applicare istituti, quali l'amnistia e l'indulto».
Ma la Cassazione non ha accolto la motivazione, spiegando che «non è in alcun modo sostenibile l'interpretazione prospettata dalla ricorrente», in quanto l'articolo 174 del codice di procedura penale recita che «l'indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un'altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie», quindi «il Consiglio nazionale forense, allorquando ha escluso che la legge di indulto potesse implicare effetti estintivi della sanzione disciplinare ha adottato una decisione del tutto corretta» (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti per la pa, i prezzi sono revisionabili al rialzo. E' nulla la clausola che impediva la revisione periodica delle condizioni economiche dei contratti.
È tuttora nulla la clausola che impediva la revisione periodica dei prezzi negli appalti di servizi per le scuole, assegnati con la vecchia normativa: il decreto legislativo n. 163/2006. Il nuovo codice degli appalti (decreto n. 50/2016) è stato pubblicato il 19.04.2016, ma, stante la recente introduzione della vi è da ritenere che la maggior parte dei contratti in essere sia ancora sotto il regime della precedente legislazione.

Il TAR Campania-Napoli - Sez. VIII, per l'appunto, con la sentenza 08.07.2016 n. 3504 (camera di consiglio il 18 maggio, quindi dopo l'abrogazione) ha dato ragione ad un'impresa di pulizie facendo riferimento all'art. 115 del d.lgs. 163, vigente all'epoca dell'appalto. La sentenza ha pertanto annullato la clausola impeditiva e prescritto adempimenti di revisione.
Il relativo contratto che ne era seguito prevedeva la subordinazione della revisione dei prezzi ad eventuali incrementi di stanziamenti annuali di bilancio a favore della stazione appaltante da parte dell'amministrazione centrale. Così composta la situazione era soggetta alla regola di ragioni di bilancio erariale e restava svincolata da effettive condizioni di ordine economico temporale che, in caso di prestazioni di lungo periodo, sono soggette a variazioni di mercato che possono poi incidere sugli equilibri contrattuali.
Mostrando sensibilità ed attenzione all'andamento economico, i giudici campani hanno sottolineato l'inderogabilità dell'art. 115 che, rubricato “Adeguamenti dei prezzi”, disponeva: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi”.
Di particolare interesse è la motivazione che sorregge la decisione giudiziaria che recepisce la revisione periodica del corrispettivo nello scopo di tenere indenni gli appaltatori delle amministrazioni pubbliche da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell'offerta, potrebbero indurre l'appaltatore a svolgere i servizi o ad eseguire le forniture a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi pubblici.
Ai giudici non sfugge la presenza nella vecchia norma di un procedimento istruttorio che assegna alla stazione appaltante (la pa, ossia la scuola) particolare priorità e conduzione nel rideterminare e riproporre l'entità del corrispettivo revisionato; in tal senso la sentenza prescrive che l'adeguamento deve essere calcolato utilizzando l'indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai ed impiegati reso noto dall'Istat, il cosiddetto indice FOI.
Restano da annotare le novità introdotte nel nuovo codice degli appalti dal legislatore, che, invece, non ha dedicato medesimo riguardo alla tematica, prevedendo (art. 106 del d.lgs. n. 50/2016) solo la possibilità di inserimento di clausole di revisione privilegiando ragioni di erario onde evitare turbamenti del quadro finanziario che inducono la pa a ricorrere all'appalto, ed in tal modo da rendere subordinata l'impresa privata nell'equilibrio tra le parti (articolo ItaliaOggi del 23.08.2016).
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MASSIMA
Il Collegio, confermando l’orientamento di questa Sezione, dal quale non ha motivo di discostarsi, deve, in via preliminare, osservare che
la proposta domanda di riconoscimento delle somme spettanti in virtù dell’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, previo accertamento della nullità della clausola negoziale limitativa della revisione periodica dei prezzi prescritta da tale norma, rientra nella giurisdizione esclusiva dell'adito giudice amministrativo (cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione VIII, 11.03.2015, n. 1462 e n. 1475).
Ed invero, l'art. 244 del d.lgs. n. 163/20063 prevede che "
il codice del processo amministrativo individua le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di contratti pubblici" e l'art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm. stabilisce che "sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell'ipotesi di cui all'articolo 115 del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163".
Tanto premesso in punto di giurisdizione, nel merito, la suindicata domanda è fondata per le ragioni di seguito esposte.
Ai sensi dell’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, “tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all'articolo 7, comma 4, lett. c), e comma 5”.
La giurisprudenza amministrativa è ormai costante nell'affermazione secondo cui
l'art. 115 citato (che riprende la formulazione già contenuta nell'art. 6 della l. n. 537/1993) è una norma imperativa, che si sostituisce di diritto ad eventuali pattuizioni contrarie (o mancanti) nei contratti pubblici di appalti di servizi e forniture ad esecuzione periodica o continuativa (cfr., ex multis, Cons. Stato, n. 2461/2002; n. 916/2003; n. 3373/2003; n. 3994/2008): ciò, in quanto la clausola di revisione periodica del corrispettivo di tali contratti ha lo scopo di tenere indenni gli appaltatori delle amministrazioni pubbliche da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell'offerta, potrebbero indurre l'appaltatore a svolgere i servizi o ad eseguire le forniture a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi pubblici.
Per evitare tali inconvenienti,
il legislatore ha, quindi, disposto l'inserimento obbligatorio della clausola di revisione prezzi ed ha contemporaneamente delineato il procedimento istruttorio attraverso cui la stazione appaltante deve determinare l'entità del compenso revisionale.
Peraltro,
è noto che le disposizioni del previgente art. 6 della l. n. 537/1993 non sono state completamente attuate, visto che, ad esempio, non ha mai concretamente funzionato il meccanismo di rilevazione del costo dei beni e servizi, cosicché si applica normalmente il c.d. indice FOI fissato dall'ISTAT (cfr. Cons. Stato n. 3373/2003; n. 2461/2002; n. 4801/2002).
Può, pertanto, affermarsi che,
per i contratti ad esecuzione periodica o continuativa –relativi a servizi e forniture– stipulati da amministrazioni pubbliche, la regola ordinaria è quella per cui la revisione prezzi spetta senza alcun margine di alea a danno dell'appaltatore.
Nella fattispecie oggetto di gravame devono ritenersi applicabili i principi sopra richiamati, atteso che la clausola contenuta nell’art. 12, comma 2, del contratto normativo (“la revisione dei prezzi … potrà essere effettuata subordinatamente ed entro i limiti di eventuali incrementi degli stanziamenti annuali di bilancio”) e recepita nel susseguente contratto attuativo risulta irrefutabilmente arbitraria nell’an e limitativa nel quantum dell’adeguamento periodico del corrispettivo, contraria, come tale, alla norma imperativamente prescrittiva del compenso revisionale tramite apposita statuizione contrattuale.
Conseguentemente, è da ritenersi operante, per effetto sostitutivo automatico, la clausola revisionale prevista dall'art. 115 del d.lgs. n. 163/2006.
Con riferimento al quantum revisionale, il meccanismo legale di aggiornamento del canone degli appalti pubblici di servizi e delle pubbliche forniture prevede che la revisione venga operata a seguito di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili della acquisizione dei beni e servizi sulla base dei dati rilevati e pubblicati semestralmente dall'ISTAT sull'andamento dei prezzi dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni appaltanti, ma l'insegnamento giurisprudenziale consolidato ha chiarito che –a fronte della mancata pubblicazione di tali dati da parte dell'ISTAT– l’adeguamento dei corrispettivi debba essere calcolato utilizzando l'indice (medio del paniere) di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (c.d. indice FOI) mensilmente pubblicato dal medesimo ISTAT (cfr., ex multis, Cons. Stato, n. 2461/2002).
Quanto al maggior costo sostenuto per il personale impiegato per l'espletamento del servizio di pulizia, che –come argomentato da parte ricorrente– incide sull’economia del contratto nella misura dell’85%, ritiene il Collegio che il relativo importo debba essere riconosciuto in base agli incrementi desumibili dalle tabelle ministeriali, in rapporto ai valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, alle norme in materia previdenziale e assistenziale, ai diversi settori merceologici ed alle differenti aree territoriali.
Alla stregua delle superiori considerazioni, la domanda in esame va accolta per quanto di ragione, con conseguente condanna dell’amministrazione resistente al pagamento, in favore del C.N.S. e del Consorzio Stabile Miles, del compenso revisionale ex 115 del d.lgs. n. 163/2006.
Detto compenso revisionale andrà determinato, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., su proposta dell’amministrazione resistente, secondo i predetti principi di diritto, e tenendo conto sia delle fatture emesse dalla parte ricorrente ai fini del calcolo della rivalutazione dei canoni sulla base delle variazioni dell’indice FOI rilevato dall’ISTAT, sia delle fatture già saldate dalla stazione appaltante, nonché decurtando le somme già forfetariamente e parzialmente riconosciute a titolo di adeguamento dei corrispettivi.
L’importo così determinato andrà maggiorato degli interessi moratori che –ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 231/2002– decorreranno dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento fino all’effettivo soddisfo (cfr. TAR Napoli, Sezione VIII, 11.03.2015, n. 1475 cit.).
La proposta di determinazione a cura dell’amministrazione resistente e il pagamento, in favore dei ricorrenti, dell’importo dovuto a titolo di compenso revisionale dovranno avvenire entro il termine che si fissa, quanto alla proposta, in 40 giorni decorrenti dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della presente decisione, e, quanto al pagamento, in 40 giorni dalla notizia dell’accettazione della proposta.

APPALTI SERVIZI: Circa la domanda di rimborso dei maggiori costi sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del personale impiegato in appalto, ritiene il Collegio  di dover declinare la giurisdizione di questo adito giudice amministrativo in favore della giurisdizione del giudice ordinario.
La domanda in esame ha per oggetto il totalmente distinto profilo del rimborso dei maggiori oneri economici derivanti da una circostanza estranea all’andamento di mercato dei costi del servizio affidato e, segnatamente, consistente nell’incremento dell’orario di lavoro della manodopera in corso di appalto; profilo che attiene, quindi, alla variazione del quantum delle prestazioni richieste al gestore, nonché all’incidenza della stessa sulla remuneratività del corrispettivo ab origine pattuito, e che non può, come tale, considerarsi attratto all’orbita di giurisdizione esclusiva dell’adito giudice amministrativo, essendo inammissibile una estensione analogica della eccezionale norma istitutiva di quest’ultima.
In realtà, la fattispecie in scrutinio rientra pacificamente nella giurisdizione del giudice ordinario.
Essa sussegue, infatti, allo spartiacque rappresentato dalla stipula del contratto affidato ed afferisce alla fase della sua esecuzione, così da attingere, in via diretta e immediata, posizioni di diritto soggettivo scaturenti da un rapporto negoziale ‘iure privatorum’, perfezionato ed efficace, e cioè posizioni di diritto soggettivo che, in quanto tali, si incanalano nell’alveo naturale della cognizione del giudice ordinario, chiamato a verificare la conformità delle regole convenzionali e delle relative condotte attuative alla normativa civilistica.
Più in dettaglio, investe pretese patrimoniali ingenerate dalla modifica quantitativa del contenuto delle obbligazioni gravanti su ciascuna delle parti –quale, da un lato, l’incremento del monte ore della manodopera impiegata e, quindi, delle prestazioni erogate dall’impresa appaltatrice e, d’altro lato, la proporzionale maggiorazione del compenso dovuto dalla stazione appaltante–, nonché l’interpretazione e l’applicazione della disciplina convenzionale dettata per tale ipotesi (art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo del 28.12.2006).
Ebbene, l’esercizio, da parte della stazione appaltante, del c.d. ius variandi, ossia del diritto potestativo di avvalersi di simili modifiche alla quantità (o anche alla qualità) delle prestazioni affidate, così come, specularmente, il diritto dell’appaltatore di esigere l’adeguamento del corrispettivo in proporzione alle modifiche stesse non si correlano –come, invece, inferito dai ricorrenti– ad un potere dell’amministrazione di tipo autoritativo, ma si esplicano a guisa di diritti soggettivi nell'ambito di un rapporto paritetico.
Pertanto, la controversia originata dall’esercizio del ius variandi è da intendersi esulante dalla giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che la modifica, quantitativa o qualitativa, delle prestazioni contrattuali rientra nell'ambito della fase negoziale di esecuzione del contratto già affidato e stipulato, devoluta –come illustrato– alla cognizione del giudice ordinario.
In questo senso, è stato, più in generale, ribadito che appartengono al giudice amministrativo le controversie che attengono alla fase preliminare –antecedente e prodromica alla stipula del contratto pubblico– di formazione della volontà dell’amministrazione e di scelta del contraente privato in base alle regole della c.d. evidenza pubblica; mentre sono devolute al giudice ordinario le controversie che radicano le loro ragioni nella serie negoziale successiva, a partire dalla stipula del contratto pubblico fino alle vicende del suo adempimento, e che riguardano la disciplina dei rapporti instaurati in forza del contratto medesimo e sono, quindi, volte all’accertamento dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, nonché delle condizioni di sua validità ed efficacia.

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Venendo ora alla domanda di rimborso dei maggiori costi sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del personale impiegato in appalto, il Collegio, confermando l’orientamento già fatto proprio dalla Sezione in casi omologhi a quello dedotto nel presente giudizio, ritiene di dover declinare la giurisdizione di questo adito giudice amministrativo in favore della giurisdizione del giudice ordinario (cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione VIII, 23.10.2015, n. 5000, 05.11.2015, n. 5131).
Al riguardo, giova, in primis, chiarire gli esatti termini della controversia.
Il Collegio rileva, in particolare, che, stando alla prospettazione dei ricorrenti:
- in seguito all’accordo sindacale stipulato il 30.07.2007, l’orario di lavoro della manodopera adibita all’esecuzione dell’appalto, costituita da ex lavoratori socialmente utili (LSU) o di pubblica utilità (LPU), sarebbe stato innalzato da 35 a 36 ore settimanali;
- ciò avrebbe comportato il proporzionale aumento della retribuzione media mensile pro capite da € 1.544,08 a € 1.588,20;
- in capo al gestore del servizio di pulizia affidato, all’obbligo contrattuale “di assicurare, in ogni caso, il mantenimento dei livelli occupazionali … del personale ex LSU ed ex LPU esistenti alla data di stipula del … contratto” (art. 4, comma 6, del contratto normativo del 28.12.2006) –così come, appunto, quello imposto dal citato accordo sindacale del 30.07.2007– avrebbe dovuto corrispondere il diritto di percepire un compenso commisurato all’andamento della spesa per la manodopera, non potendo, quest’ultimo, tradursi in un fattore a discapito del gestore medesimo.
Rileva, altresì, il Collegio che la copertura dei maggiori costi derivanti dall’incremento dell’orario di lavoro in corso di appalto rinviene la propria disciplina negoziale nell’art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo del 28.12.2006: “L’importo contrattuale … –recita, segnatamente, la clausola in parola– rimane fisso ed invariabile per l’intera durata del contratto anche in presenza di variazione del numero di lavoratori. Le ore erogate infatti non subiranno variazioni in diminuzione. Tale importo non deve considerarsi comunque garantito per l’assuntore stante la facoltà per il contraente di avvalersi di quanto stabilito dall’art. 11 del r.d. n. 2443/1923. Il contraente, pertanto, potrà richiedere all’assuntore di incrementare l’importo contrattuale stesso fino a concorrenza del limite di 1/5 … alle stesse condizioni, termini e corrispettivi del presente contratto normativo e del contratto attuativo … L’assuntore curerà di assicurare, in ogni caso, il mantenimento dei livelli occupazionali e retributivi del personale ex LSU ed ex LPU esistenti alla data di stipula del presente contratto; le economie rivenienti dalle cessazioni del personale a qualunque titolo verificatesi nell’arco temporale di durata del contratto, nonché quelle maturate, per effetto delle precedenti cessazioni, a decorrere dalla stipula del presente contratto, saranno utilizzate per il progressivo adeguamento contrattuale del personale dalle attuali 35 ore settimanali fino ad un massimo di 40 ore pro capite, per migliorare la qualità dei servizi prestati ovvero per far fronte, con le ore aggiuntive, alle predette cessazioni, alle quali, comunque, non potrà far seguito alcuna nuova assunzione di unità lavorative”.
Ciò posto, il Collegio ritiene che la controversia, così come dianzi inquadrata, esuli dal novero di quelle riservate dall’art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, c.p.a. alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, le quali ineriscono alla “clausola di revisione del prezzo” ed al “relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuativa o periodica, nell’ipotesi di cui all’art. 115 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163”.
La clausola e il provvedimento di revisione periodica disciplinati dal menzionato art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 concernono, infatti, –come desumibile anche dal richiamo al precedente art. 7, commi 4, lett. c), e 5– l’adeguamento del prezzo degli appalti di servizi e forniture rispetto all’andamento di mercato dei costi dei fattori produttivi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.01.2013, n. 465; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 23.09.2014, n. 2328; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 26.01.2015, n. 293), ‘ceteris rebus sic stantibus’, ossia ferme restando le condizioni negoziali originariamente pattuite dalle parti in ordine alla natura ed alla quantità delle prestazioni dovute.
La domanda in esame, a differenza di quella già scrutinata ed accolta, ha, invece, per oggetto il totalmente distinto profilo del rimborso dei maggiori oneri economici derivanti da una circostanza estranea all’andamento di mercato dei costi del servizio affidato e, segnatamente, consistente nell’incremento dell’orario di lavoro della manodopera in corso di appalto; profilo che attiene, quindi, alla variazione del quantum delle prestazioni richieste al gestore, nonché all’incidenza della stessa sulla remuneratività del corrispettivo ab origine pattuito, e che non può, come tale, considerarsi attratto all’orbita di giurisdizione esclusiva dell’adito giudice amministrativo, essendo inammissibile una estensione analogica della eccezionale norma istitutiva di quest’ultima (art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm., sulla cui natura tassativa, cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.07.2014, n. 4015; TAR Abruzzo, L’Aquila, 12.02.2015, n. 88; 14.05.2015, n. 391; più in generale, nel senso del carattere ‘particolare’ delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, cfr. Corte cost., 06.07.2004, n. 204).
In realtà, la fattispecie in scrutinio rientra pacificamente nella giurisdizione del giudice ordinario.
Essa sussegue, infatti, allo spartiacque rappresentato dalla stipula del contratto affidato ed afferisce alla fase della sua esecuzione, così da attingere, in via diretta e immediata, posizioni di diritto soggettivo scaturenti da un rapporto negoziale ‘iure privatorum’, perfezionato ed efficace, e cioè posizioni di diritto soggettivo che, in quanto tali, si incanalano nell’alveo naturale della cognizione del giudice ordinario, chiamato a verificare la conformità delle regole convenzionali e delle relative condotte attuative alla normativa civilistica (cfr. Cass. civ., sez. un., 23.12.2003, n. 19787; 05.04.2005 n. 6992; 18.10.2005 n. 20116; 07.11.2008, n. 26792; 05.04.2012, n. 5446; 23.11.2012, n. 20729; 08.07.2015, n. 14188; Cons. Stato, sez. V, 28.12.2006, n. 8070; 17.10.2008, n. 5071; 25.07.2012, n. 4224; 16.01.2013, n. 236; 30.07.2014, n. 4025; 31.12.2014, n. 6455; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 05.06.2009, n. 3110; sez. VIII, 25.10.2012, n. 4228; TAR Abruzzo, Pescara, 14.07.2009 n. 511; 23.11.2011, n. 642; 28.01.2013, n. 44; 12.04.2013, n. 217; L’Aquila, 22.04.2014, n. 361; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 24.11.2010, n. 7346; 02.04.2015, n. 868; TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 07.12.2011, n. 2932; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 12.12.2011, n. 1925; TAR Molise, Campobasso, 08.02.2012, n. 20; 17.02.2012, n. 63; 19.03.2014, n. 174; 28.11.2014, n. 653; TAR Basilicata, Potenza, 09.03.2012, n. 114; 08.11.2013, n. 704; TAR Calabria, Reggio Calabria, 05.06.2012, n. 407; TAR Valle d’Aosta, Aosta, 19.07.2012, n. 70; TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.10.2012, n. 8755; 13.12.2012, n. 10379; sez. III, 02.05.2013, n. 4399; Latina, 19.07.2013, n. 648; TAR Emilia Romagna, Parma, 20.12.2012, n. 364; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 21.12.2012, n. 1389 e n. 1390; 06.02.2015, n. 259; TAR Liguria, Genova, sez. II, 16.05.2014, n. 769; 12.02.2015, n. 173; TAR Puglia, Lecce, sez. II, 13.02.2015, n. 571).
Più in dettaglio, investe pretese patrimoniali ingenerate dalla modifica quantitativa del contenuto delle obbligazioni gravanti su ciascuna delle parti –quale, da un lato, l’incremento del monte ore della manodopera impiegata e, quindi, delle prestazioni erogate dall’impresa appaltatrice e, d’altro lato, la proporzionale maggiorazione del compenso dovuto dalla stazione appaltante–, nonché l’interpretazione e l’applicazione della disciplina convenzionale dettata per tale ipotesi (art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo del 28.12.2006).
Ebbene, l’esercizio, da parte della stazione appaltante, del c.d. ius variandi, ossia del diritto potestativo di avvalersi di simili modifiche alla quantità (o anche alla qualità) delle prestazioni affidate, così come, specularmente, il diritto dell’appaltatore di esigere l’adeguamento del corrispettivo in proporzione alle modifiche stesse non si correlano –come, invece, inferito dai ricorrenti– ad un potere dell’amministrazione di tipo autoritativo, ma si esplicano a guisa di diritti soggettivi nell'ambito di un rapporto paritetico. Pertanto, la controversia originata dall’esercizio del ius variandi è da intendersi esulante dalla giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che la modifica, quantitativa o qualitativa, delle prestazioni contrattuali rientra nell'ambito della fase negoziale di esecuzione del contratto già affidato e stipulato, devoluta –come illustrato– alla cognizione del giudice ordinario (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 07.02.2014, n. 897).
In questo senso, Cass. Civ., SS.UU., 05.04.2012, n. 5446 ha, più in generale, ribadito che appartengono al giudice amministrativo le controversie che attengono alla fase preliminare –antecedente e prodromica alla stipula del contratto pubblico– di formazione della volontà dell’amministrazione e di scelta del contraente privato in base alle regole della c.d. evidenza pubblica; mentre sono devolute al giudice ordinario le controversie che radicano le loro ragioni nella serie negoziale successiva, a partire dalla stipula del contratto pubblico fino alle vicende del suo adempimento, e che riguardano la disciplina dei rapporti instaurati in forza del contratto medesimo e sono, quindi, volte all’accertamento dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, nonché delle condizioni di sua validità ed efficacia.
Alla luce delle considerazioni svolte, con riguardo alla domanda di rimborso dei maggiori costi per incremento dell’orario di lavoro della manodopera impiegata in appalto, deve essere, conseguentemente, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, appartenendo la giurisdizione al giudice ordinario.
In conclusione, alla luce di quanto sopra esposto, il ricorso in epigrafe deve essere accolto limitatamente alla domanda di adeguamento periodico dei corrispettivi dell’appalto di pulizia eseguito, con conseguente accertamento della nullità della clausola contrattuale limitativa di esso e condanna dell’amministrazione resistente al pagamento delle somme da determinarsi a tale titolo, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a.; con riguardo alla proposta domanda di rimborso dei maggiori costi sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del personale impiegato in appalto, va dichiarato il difetto di giurisdizione di questo adito giudice amministrativo, appartenendo la giurisdizione al giudice ordinario.
La riproposizione della relativa domanda è disciplinata dell’art. 11 del decreto legislativo 02.07.2010 n. 104 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.07.2016 n. 3504 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONecessaria massima correttezza fuori dall'ufficio come all'interno. PUBBLICI UFFICIALI/ Una decisione del Tar Emilia sulla polizia di stato.
La condotta improntata alla massima correttezza non deve essere mantenuta dal dipendente della polizia di stato nei soli rapporti esterni, ma anche nei confronti dell'amministrazione di appartenenza, con la conseguenza che costituiscono fatti oggettivamente delineanti una condotta contraria al decoro delle funzioni.

Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la sentenza 08.07.2016 n. 694.
La questione sottoposta all'attenzione dei giudici amministrativi bolognesi vedeva un dipendente della polizia di stato che chiedeva l'annullamento della decisione con la quale il capo della polizia aveva respinto il ricorso gerarchico presentato dal medesimo avverso il provvedimento con cui il dirigente di reparto, a conclusione del relativo procedimento disciplinare, gli aveva irrogato sanzione della «pena pecuniaria».
Avverso i suddetti provvedimenti il dipendente deduceva motivi in diritto rilevanti violazione dell'articolo 61 del decreto del presidente della repubblica numero 782 del 1985; violazione dell'articolo 97 Cost. e degli articoli 13, 14 e 17 del decreto del presidente della repubblica numero 737 del 1981; eccesso di potere per travisamento di fatto, ingiustizia manifesta, contraddittorietà carenza di motivazione.
Il ministero dell'interno, costituitosi in giudizio, ritenendo infondato il ricorso ne chiedeva la reiezione.
A parere dei giudici dell'Emilia Romagna tale sanzione irrogata risultava essere proporzionata e sussumibile nell'ambito applicativo dell'art. 4 n. 18 del decreto del presidente della repubblica numero 737 del 1981, in quanto era stata con essa effettivamente sanzionata una condotta del dipendente della polizia di stato «non conforme al decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli dell'amministrazione della pubblica sicurezza».
Nel caso specifico, secondo l'avvocatura erariale «una simile condotta denota una scarsa attenzione del dipendente alla correttezza e al rispetto delle procedure organizzative inerenti la gestione del personale».
Inoltre, il Tribunale amministrativo regionale sostiene nella sentenza in commento che non ci sia nel caso specifico alcun travisamento dei fatti da parte dell'amministrazione procedente, risultando in atti che il ritardo nella presentazione del certificato medico era effettivamente di sette giorni, che esso era ingiustificato, stante la palese incompletezza della documentazione presentata dall'interessato dopo due giorni e dopo sei giorni dal rientro in servizio e che, infine, la regolare presentazione del certificato sia avvenuta solo a seguito di diversi solleciti da parte dell'amministrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene che il ricorso non sia meritevole di accoglimento.
Entrambi i gravati provvedimenti, rispettivamente di irrogazione al ricorrente della sanzione disciplinare della “pena pecuniaria” e decisione del Capo della polizia di rigetto del ricorso gerarchico dal medesimo proposto avverso detto provvedimento, risultano infatti immuni dai vizi di legittimità segnalati in ricorso.
In particolare, il Tribunale ritiene che sia proporzionata e sussumibile nell’ambito applicativo dell’art. 4 n. 18 del D.P.R. n. 737 del 1981, la sanzione della “
pena pecuniaria” irrogata al ricorrente, in quanto è stata con essa effettivamente sanzionata una condotta del dipendente della Polizia di Stato “…non conforme al decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza.”.
La condotta improntata alla massima correttezza non deve infatti essere mantenuta dal dipendente della Polizia di Stato nei soli rapporti esterni, ma anche nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, con la conseguenza che costituiscono fatti oggettivamente delineanti una condotta contraria al decoro delle funzioni, l’avere presentato il certificato medico di malattia per una assenza pregressa, con ben 7 giorni di ingiustificato ritardo rispetto al termine prescritto dalla norma regolamentare e solo dopo avere ricevuto più inviti e solleciti in tal senso dai competenti uffici della sede in cui l’interessato presta servizio.
Sul punto, si ritengono del tutto condivisibili le considerazioni svolte dall’Avvocatura erariale, laddove si afferma che
“…una simile condotta denota una scarsa attenzione del dipendente alla correttezza ed al rispetto delle procedure organizzative inerenti la gestione del personale…”.
In conclusione, ritiene il Collegio che l’amministrazione procedente abbia applicato correttamente l’art. 4 n. 18 del D.P.R. n. 737 del 1981 e che, pertanto, debbano essere giudicati insussistenti i vizi di legittimità rassegnati in ricorso, delineanti diverse figure sintomatiche di eccesso di potere.
Non sussiste alcun travisamento dei fatti da parte dell’amministrazione procedente, risultando in atti che il ritardo nella presentazione del certificato è effettivamente di 7 giorni, che esso è ingiustificato, stante la palese incompletezza della documentazione presentata dall’interessato dopo 2 giorni e dopo 6 giorni dal rientro in servizio e che, infine, la regolare presentazione del certificato sia avvenuta solo a seguito di diversi solleciti da parte dell’amministrazione.
Nemmeno risulta sproporzionata e affetta da contraddittorietà, come sostiene il ricorrente, la sanzione disciplinare inflittagli, risultando effettivamente esistenti le precedenti sanzioni disciplinari irrogate anche di recente, con conseguente incidenza ti tale fattore sulla misura e graduazione della sanzione disciplinare.
Per le suesposte ragioni, il ricorso è respinto.

EDILIZIA PRIVATAUna struttura costituita esclusivamente da uno scheletro di carpenteria metallica idoneo solo a sorreggere i panelli solari, e che non sviluppa una superficie utile, è passibile di compatibilità paesaggista ex art. 167 dlgs 42/2004.
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Ai sensi dell’art. 3, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, l’atto amministrativo deve recare l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno determinato l'adozione in relazione alle risultanze dell'istruttoria. In conseguenza sussiste il difetto di motivazione quando non è possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito dall'Autorità emanante ed appaiano indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione assunta.
Nel caso in esame, il tenore letterale del provvedimento impugnato non consente di ripercorrere l’iter logico-giuridico seguito dalla Soprintendenza nella redazione del provvedimento impugnato e non consente, soprattutto, di conoscere i motivi giuridici che hanno condotto l’amministrazione stessa all’emanazione del parere contrario.
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Limitandosi, infatti, ad affermare che «questa Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa, considerato che le opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio, per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene compatibili le stesse», l’amministrazione non rende adeguatamente comprensibile la ragione dell'adozione del provvedimento.
Il vizio dedotto non può essere superato dalla nota depositata in giudizio dall’amministrazione considerato che la motivazione del provvedimento amministrativo non può essere integrata nel corso del giudizio, dovendo la motivazione stessa precedere e non seguire ogni provvedimento. In tal senso la nota depositata urta contro il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.
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Quanto al profilo della compatibilità dell’intervento, non appare corretto il riferimento alla costruzione di una “tettoia” che svilupperebbe una superficie utile e, per questo, non rientrante nella casistica delle opere ammissibili ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Nella relazione tecnica allegata al progetto e richiamata dalla stessa nota della soprintendenza si legge, infatti:
- che il progetto riguarda “un progetto di installazione di un impianto fotovoltaico (D.Lgs. n. 387/2003) su carpenteria metallica”,
- che “L'impianto è stato realizzato sulla superficie già esistente (e già destinata a parcheggio) facente parte del piazzale interno dell'opificio” e
- che “La tipologia architettonica della struttura in oggetto è quella di una pensilina fotovoltaica di copertura della superficie già esistente (e già destinata a parcheggio), completamente aperta sui lati e aperta superiormente con una distanza in pianta fra le "strisce" dei pannelli di circa 1,68 mt.
I pannelli sono collegati alla struttura portante avendo un inclinazione rispetto all'orizzontale di circa 30°. All'interno del piazzale al di sotto dei pannelli fotovoltaici è stata prevista una altezza libera di 4,00 mt. così come riportato negli elaborati grafici al fine di conservare la funzione di parcheggio per l'area sottostante.
L'intervento quindi non varia la consistenza originaria del manufatto e non comporta creazione di superfici utili o volumi ovvero modifiche di quelli esistenti.

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Con istanza protocollata agli atti del Comune di Lecce in data 28.07.2011 la "Nu.Ed.Pe." S.a.s. chiedeva il rilascio di autorizzazione paesaggistica in sanatoria relativamente ad una struttura metallica reggente un impianto fotovoltaico (della potenza di 19,92 Kw) realizzata, insieme al medesimo impianto, nel piazzale interno (asfaltato e destinato a parcheggio) dell'opificio artigianale per la manutenzione di macchine ed attrezzatura per l'edilizia del quale la stessa "Nu.Ed.Pe." S.a.s. è proprietaria, in area sottoposta a vincolo ex L. 29.06.1939, n. 1497 e ricadente in un A.T.E. di tipo C del P.U.T.T./p. della Regione Puglia.
La Commissione locale per il paesaggio del Comune di Lecce esprimeva parere favorevole al rilascio in data 01.12.2011.
Sennonché, giusta provvedimento prot. n. 5391 del 26.03.2012 il Soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici della Provincia di Lecce ed il Responsabile del procedimento comunicavano che «questa Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa, considerato che le opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio, per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene compatibili le stesse».
Detto parere veniva notificato alla "Nu.Ed.Pe." S.a.s. giusta nota prot. n. 44629/12 del 05.04.2012 a firma del Dirigente dell'Ufficio tecnico - Settore urbanistico del Comune di Lecce.
Avverso detti provvedimenti insorge l’odierna ricorrente chiedendone l’annullamento.
Si è costituito il Dicastero intimato resistendo al ricorso e chiedendone la reiezione.
All’udienza dell’08.06.2016 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Con un articolato motivo di ricorso, l’"Nu.Ed.Pe." lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione; eccesso di potere per erronea presupposizione in fatto, illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà e perplessità dell'azione amministrativa; illegittimità in via derivata.
In particolare, il parere soprintendentizio impugnato, nel ritenere «le opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici"» incompatibili "per tipologia di intervento e dimensioni", si paleserebbe frutto di attività istruttoria carente, nonché di erronea presupposizione in fatto.
Nello specifico, nella relazione paesaggistica e nella relazione P.U.T.T./p. allegate alla istanza protocollata agli atti del Comune di Lecce in data 28.07.2011 si precisava che la struttura metallica reggente l'impianto fotovoltaico, nonché l'impianto stesso, sono localizzati nel piazzale interno (asfaltato e destinato a parcheggio) dell'opificio artigianale del quale la "Nu.Ed.Pe." S.a.s. è proprietaria e, quindi, in un contesto a vocazione produttiva rispetto al quale non è dato comprendere quale sia il significato dell’affermazione inerente l'incompatibilità per "tipologia di intervento".
Allo stesso modo, non si comprende quale sia il parametro al quale rapportare la presunta incompatibilità per "dimensioni".
Con nota depositata in udienza, la Soprintendenza ha affermato che “tale intervento "per tipologia" non rientra nella casistica delle opere ammissibili dall'art. 167 Dlvo 42/2004 in quanto la tettoia prevista per una altezza libera di 4.00 mt. ... al fine di conservare la funzione di parcheggio dell'area sottostante- ha sviluppato una superficie utile all'appoggio dei pannelli fotovoltaici (cfr Relazione tecnica All. 1);
- non rientra altresì per "tipologia" ammissibile alla casistica del succitato articolo in quanto come specificato dalla circolare Mibact n. 33/2009, esplicativa in merito alla definizione dei termini "lavori", "superfici utili" e "volumi", per superfici utili si intende "qualsiasi superficie utile, qualunque sia la sua destinazione. Sono ammesse le logge e i balconi nonché i ponici. collegati al fabbricato, aperti su Ire lati contenuti entro il 25% dell'area di sedime del fabbricato stesso”.
La censura è fondata e deve essere accolta.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, l’atto amministrativo deve recare l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno determinato l'adozione in relazione alle risultanze dell'istruttoria. In conseguenza sussiste il difetto di motivazione quando non è possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito dall'Autorità emanante ed appaiano indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione assunta.
Nel caso in esame, il tenore letterale del provvedimento impugnato non consente di ripercorrere l’iter logico-giuridico seguito dalla Soprintendenza nella redazione del provvedimento impugnato e non consente, soprattutto, di conoscere i motivi giuridici che hanno condotto l’amministrazione stessa all’emanazione del parere contrario.
Limitandosi, infatti, ad affermare che «questa Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa, considerato che le opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio, per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene compatibili le stesse», l’amministrazione non rende adeguatamente comprensibile la ragione dell'adozione del provvedimento.
Il vizio dedotto non può essere superato dalla nota depositata in giudizio dall’amministrazione considerato che la motivazione del provvedimento amministrativo non può essere integrata nel corso del giudizio, dovendo la motivazione stessa precedere e non seguire ogni provvedimento. In tal senso la nota depositata urta contro il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.
In ogni caso, anche la motivazione fornita nella nota depositata in giudizio appare frutto di un errore sui presupposti di fatto.
Infatti, quanto al profilo della compatibilità dell’intervento, non appare corretto il riferimento alla costruzione di una “tettoia” che svilupperebbe una superficie utile e, per questo, non rientrante nella casistica delle opere ammissibili ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Nella relazione tecnica allegata al progetto e richiamata dalla stessa nota della soprintendenza si legge, infatti, che il progetto riguarda “un progetto di installazione di un impianto fotovoltaico (D.Lgs. n. 387/2003) su carpenteria metallica”, che “L'impianto è stato realizzato sulla superficie già esistente (e già destinata a parcheggio) facente parte del piazzale interno dell'opificio di proprietà della Im.Pe. s.a.s.” e che “La tipologia architettonica della struttura in oggetto è quella di una pensilina fotovoltaica di copertura della superficie già esistente (e già destinata a parcheggio), completamente aperta sui lati e aperta superiormente con una distanza in pianta fra le "strisce" dei pannelli di circa 1,68 mt. I pannelli sono collegati alla struttura portante avendo un inclinazione rispetto all'orizzontale di circa 30°. All'interno del piazzale al di sotto dei pannelli fotovoltaici è stata prevista una altezza libera di 4,00 mt così come riportato negli elaborati grafici al fine di conservare la funzione di parcheggio per l'area sottostante. L'intervento quindi non varia la consistenza originaria del manufatto e non comporta creazione di superfici utili o volumi ovvero modifiche di quelli esistenti”.
La stessa documentazione fotografica depositata in atti dimostra che la struttura è costituita esclusivamente da uno scheletro di carpenteria metallica idoneo solo a sorreggere i panelli solari e che non sviluppa una superficie utile.
Per i predetti motivi il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 07.07.2016 n. 1080 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazioni con l'alternativa. La p.a. può decidere di sanare tutto con l'acquisizione. Al posto della restituzione. Lo afferma la terza sezione del Tar Puglia con una sentenza.
Sta all'amministrazione valutare se disporre, in alternativa alla sua restituzione, l'acquisizione sanante alla mano pubblica del bene illecitamente occupato, alle condizioni e con le modalità prescritte dalla legge.

Così la III Sez. del TAR Puglia-Bari con la sentenza 07.07.2016 n. 894, che ha, altresì, rilevato che il potere di disporre l'acquisizione ex art. 42-bis, dpr 327/2001, dell'area abusivamente occupata dall'amministrazione risulta essere espressione del più generale potere di amministrazione attiva che compete agli enti pubblici, cui il giudice amministrativo non può sostituirsi al di fuori dei casi di giurisdizione estesa al merito.
Pertanto, anche in virtù di una recente giurisprudenziale (Consiglio di stato, sez. IV, 15.09.2014, n. 4696), la valutazione comparativa degli interessi in gioco e la conseguente decisione in ordine all'acquisizione o alla restituzione del bene costituisce quindi scelta riservata alla discrezionalità dell'amministrazione.
Il thema decidendum vedeva i sig.ri Tizi che agivano per l'esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza del Tar. Con la predetta sentenza, il Comune di Caiopoli veniva condannato alla restituzione dei terreni oggetto di procedura espropriativa, i cui atti erano stati annullati, «previa riduzione in pristino degli stessi, fatta salva l'attivazione a cura dell'Amministrazione competente del procedimento di acquisizione sanante di cui all'art. 42-bis del dpr n. 327/2001», mentre veniva respinta la domanda risarcitoria.
I ricorrenti riferivano di aver appellato la menzionata sentenza limitatamente al rigetto della domanda risarcitoria, mentre non era stata impugnata la pronuncia di condanna alla restituzione delle aree espropriate. Aggiungevano, inoltre, di aver diffidato il comune all'esecuzione della sentenza e che, nonostante l'avvenuto passaggio in giudicato della parte relativa alla condanna alla restituzione degli immobili, l'amministrazione civica era rimasta inerte.
Agivano, pertanto, per l'adempimento dell'obbligo del comune di conformarsi al giudicato e chiedevano, inoltre, la nomina di un commissario ad acta incaricato di provvedere, ai sensi dell'art. 114, comma 4, lett. d), cpa (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
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MASSIMA
4 - Il ricorso è fondato nei termini che sono di seguito precisati.
Il Collegio ritiene che la regolamentazione dell’assetto di interessi tra le parti trovi la sua disciplina specifica nel giudicato contenuto nella sentenza TAR n. 648/2015 sopra citata, nella parte in cui ha disposto l’obbligo di restituzione concreta da parte del Comune a favore dei ricorrenti della quota parte dei terreni di loro proprietà, fatta salva l’eventuale attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis del DPR n. 327/2001.
L’amministrazione civica, sulla base di tale sentenza, aveva in sostanza due sole alternative: restituire i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino allo status quo ante; attivarsi per acquisire un legittimo titolo di acquisto dell'area da parte del suo legittimo proprietario (Cons. Stato, Sez. IV, 10.03.2014, n. 1105).
Rispetto a tale statuizione, allo stato, non risulta che l’amministrazione abbia ottemperato, né adempiendo all’obbligo di restituzione, né attivando il procedimento di cui all’art. 42-bis del DPR n. 327/2001.
Va in proposito rilevato che
il potere di disporre l'acquisizione ex art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327, dell'area abusivamente occupata dall'amministrazione è espressione del più generale potere di amministrazione attiva che compete agli enti pubblici, cui il giudice amministrativo non può sostituirsi al di fuori dei casi di giurisdizione estesa al merito; la valutazione comparativa degli interessi in gioco e la conseguente decisione in ordine all'acquisizione o alla restituzione del bene costituisce quindi scelta riservata alla discrezionalità dell'amministrazione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2014, n. 4696).
Sta dunque all’amministrazione valutare se disporre, in alternativa alla sua restituzione, l’acquisizione sanante alla mano pubblica del bene illecitamente occupato, alle condizioni e con le modalità prescritte dall’art. 42-bis citato.
5 - Alla stregua di quanto sin qui illustrato, occorre conseguentemente ordinare al Comune di Vieste di determinarsi, nel termine di 90 giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in forma amministrativa del presente provvedimento, procedendo:
a) alla restituzione della quota parte degli immobili agli odierni ricorrenti, in quanto proprietari, demolendo quanto realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino allo status quo ante;
b) in alternativa, all’acquisizione di un legittimo titolo di acquisto dell'area, anche ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. 08.06.2001, n. 327.
6 - Decorso infruttuosamente tale termine, ai medesimi adempimenti provvederà, sostitutivamente, un Commissario ad acta, nella persona del Prefetto di Foggia, con facoltà di delega ad idoneo Funzionario della relativa struttura organizzativa, che vi provvederà, in luogo e a spese dell’amministrazione comunale intimata, nell’ulteriore termine di 90 (novanta) giorni dalla comunicazione (a cura di parte ricorrente) dell'inottemperanza.
7 - Deve, invece, essere respinta la richiesta della misura prevista dalla disposizione dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. (secondo il quale “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”).
In linea generale, sulla questione la Sezione si è già pronunciata (v. sentenze n. 665/2016 e n. 1560/2015), escludendola, in casi analoghi, in ragione del limite, espressamente contemplato dall’art. 114 del codice del processo amministrativo, rappresentato dal fatto che l’uso dell’astreinte non risulti “manifestamente iniquo, ovvero sussistano altre ragioni ostative” (in senso conforme v. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, decisione del 25.06.2014 n. 15).
Nel caso in esame, pur sussistendo l’imprescindibile presupposto della richiesta di parte ricorrente, non si ritiene di poter accogliere la richiesta di astreintes, ravvisandosi ragioni ostative consistenti nell’esigenza di contenimento della spesa pubblica in relazione alla particolare condizione di crisi della finanza pubblica e all’ammontare del debito pubblico.

PUBBLICO IMPIEGOAnnullamento solo per chi fa ricorso.
Qualora il giudice amministrativo annulli una graduatoria di un concorso pubblico, accogliendo il ricorso di chi abbia lamentato l'illegittimità dei criteri applicati per la redazione della graduatoria, a parità di punteggio tra i candidati, l'annullamento si deve intendere disposto nei soli confronti di coloro che abbiano proposto il ricorso, poi accolto.

È quanto stabilito dai giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 06.07.2016 n. 3005.
Alcuni dipendenti del Ministero dell'interno avevano partecipato a procedure di riqualificazione professionale. L'Amministrazione aveva redatto le graduatorie, nelle quali gli appellanti –a seguito della applicazione dei criteri di preferenza a parità di punteggio- non si erano collocati utilmente in posizione utile, pur avendo risposto esattamente agli ottanta quesiti previsti.
Già il Tar in accoglimento dei ricorsi proposti da altri partecipanti avverso le graduatorie provvisorie aveva statuito che l'Amministrazione –a parità di punteggio– avrebbe dovuto dapprima applicare il criterio di preferenza della posizione nel ruolo di anzianità e solo successivamente il criterio della maggiore età anagrafica dei partecipanti. Nel dare esecuzione alle sentenze, l'Amministrazione aveva rideterminato le graduatorie dei vincitori, prendendo in considerazione –e inserendo in soprannumero– unicamente i partecipanti che avevano proposto i ricorsi accolti dal Tar.
Pertanto, con il ricorso di primo grado al Tar, gli appellanti della sentenza in commento avevano impugnato gli atti con cui erano state rideterminate le graduatorie, lamentando la violazione dell'art. 2909 c.c., degli artt. 3 e 97 della Costituzione, nonché vari profili di eccesso di potere per disparità di trattamento e ingiustizia manifesta. Essi avevano altresì dedotto che l'Amministrazione avrebbe dovuto prendere in considerazione tutte le posizioni coinvolte, poiché le graduatorie in questione avrebbero natura di atti inscindibili.
 Ma il Tar con sentenza respingeva il ricorso. A parere dei giudici del Consiglio di stato: «Per la scindibilità delle posizioni dei candidati, nei confronti di coloro che non abbiano proposto ricorso la graduatoria è suscettibile di divenire inoppugnabile, per acquiescenza» (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).
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MASSIMA
1. Gli appellanti, dipendenti del Ministero dell’Interno, hanno partecipato ad alcune procedure di riqualificazione professionale, indette con decreti del Ministero dell’Interno di data 27.04.2007.
In applicazione dei criteri fissati dall’art. 5, settimo comma, dei bandi, l’Amministrazione ha redatto le graduatorie, nelle quali gli appellanti –a seguito della applicazione dei criteri di preferenza a parità di punteggio- non si sono collocati utilmente in posizione utile, pur avendo risposto esattamente agli ottanta quesiti previsti.
2. In accoglimento dei ricorsi n. 699 e n. 701 del 2008, proposto da altri partecipanti avverso le graduatorie provvisorie, le sentenze del TAR per il Lazio n. 8309 e n. 7913 del 2011 ha statuito che l’Amministrazione –a parità di punteggio- avrebbe dovuto dapprima applicare il criterio di preferenza della posizione nel ruolo di anzianità e solo successivamente il criterio della maggiore età anagrafica dei partecipanti.
3. Nel dare esecuzione alle sentenze, l’Amministrazione ha rideterminato le graduatorie dei vincitori, prendendo in considerazione –e inserendo in soprannumero– unicamente i partecipanti che hanno proposto i ricorsi accolti dal TAR.
4. Con il ricorso di primo grado n. 12663 del 2014 (proposto al TAR per il Lazio), gli odierni appellanti hanno impugnato gli atti con cui sono state rideterminate le graduatorie, lamentando la violazione dell’art. 2909 c.c., degli artt. 3 e 97 della Costituzione, nonché vari profili di eccesso di potere per disparità di trattamento e ingiustizia manifesta.
Essi hanno altresì dedotto che l’Amministrazione avrebbe dovuto prendere in considerazione tutte le posizioni coinvolte, poiché le graduatorie in questione avrebbero natura di atti inscindibili.
5. Con la sentenza n. 10812 del 2015, il TAR ha respinto il ricorso ed ha compensato tra le parti le spese del giudizio.
6. Con l’appello in esame, gli interessati hanno impugnato la sentenza del TAR ed hanno chiesto che –in sua riforma– il ricorso di primo grado sia accolto.
7. Ritiene la Sezione che l’appello va respinto perché infondato.
Con motivazioni che vanno integralmente confermate (e rispetto alle quali le articolate deduzioni degli appellanti non hanno prospettato argomenti ulteriori e rilevanti), la sentenza appellata ha evidenziato l’infondatezza di tutte le censure di primo grado, riproposte in questa sede.
7.1. In primo luogo, non sussiste la violazione dell’art. 2909 c.c., poiché gli appellanti non hanno proposto i ricorsi, poi accolti dal TAR con le sentenze n. 7913 e n. 8309 del 2011.
7.2. In secondo luogo, tali sentenze non hanno inciso direttamente o indirettamente sulle posizioni degli odierni appellanti.
Qualora il giudice amministrativo annulli una graduatoria, accogliendo il ricorso di chi sia abbia lamentato l’illegittimità dei criteri applicati per la redazione della graduatoria, a parità di punteggio tra i candidati, l’annullamento si deve intendere disposto nei soli confronti di coloro che abbiano proposto il ricorso, poi accolto.
Infatti, per la scindibilità delle posizioni dei candidati, nei confronti di coloro che non abbiano proposto ricorso la graduatoria è suscettibile di divenire inoppugnabile, per acquiescenza.
Sotto tale aspetto, va evidenziato che
la limitazione degli effetti della sentenza, in favore dei soli ricorrenti vittoriosi, è stata espressamente statuita nella sentenza n. 7913 del 2011, ma si deve intendere statuita anche con la sentenza n. 8309 del 2011, la quale –in assenza di una espressa statuizione ‘estensiva’ della sua efficacia anche ai ‘non ricorrenti– va interpretata sulla base del principio generale sopra enunciato.
7.3. Infine, come correttamente rilevato dal TAR, l’Amministrazione neppure poteva discrezionalmente estendere nei confronti degli appellanti gli effetti delle sopra citate sentenze del TAR, per il divieto disposto dall’art. 1, comma 132, della legge n. 31 del 2004 (le cui regole si applicano «anche per gli anni successivi al 2008», ai sensi dell’art. 41, comma 6, del decreto legge n. 207 del 2008, convertito con modificazioni nella legge n. 14 del 2009).
Pertanto, non sono configurabili i dedotti profili di eccesso di potere per disparità di trattamento e manifesta ingiustizia.
8. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.

ATTI AMMINISTRATIVIOk all'accesso per difendersi. Ha portata generale il diritto di acquisire gli atti. In una sentenza del Consiglio di stato richiamate alcune pronunce sulla Consob.
Il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall'art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 che, nel rispetto dell'art. 24 della Costituzione, prevede, con una formula di portata generale, che «deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici».
Fermo restando che, nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile.

A sottolinearlo sono stati i giudici della VI Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 06.07.2016 n. 3003.
Nella sentenza in commento i giudici amministrativi hanno, poi, richiamato alcune pronunce della Corte costituzionale circa la Consob e il diritto d'accesso, evidenziando i limiti entro i quali può essere consentito l'accesso agli atti della Commissione nazionale per le società e la borsa, riguardanti l'esercizio delle sue funzioni istituzionali di vigilanza, ritenuti eccessivamente rigidi e in possibile contrasto con diverse norme di rango costituzionale.
La Corte costituzionale, con sentenza 23.10-03.11.2000, n. 460, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 10, del dlgs n. 58 del 24.02.1998, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 21, 24, 97, primo comma, e 98, primo comma, della Costituzione. Successivamente la Corte, con ordinanza 19-23.03.2001, n. 80, e con ordinanza 21-30.03.2001, n. 93 ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità.
La stessa Corte, con sentenza 12-26.01.2005, n. 32, ha poi dichiarato ancora non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 10, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 97 della Costituzione.
I giudici di palazzo Spada hanno, altresì, evidenziato come la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 460 del 2000, nel ritenere infondata la questione di legittimità costituzionale, abbia peraltro ritenuto, sulla base di una interpretazione sistematica della norma, che la sfera di applicazione dell'art. 4, comma 10, del dlgs n. 58 del 1998, quale che ne sia l'effettiva estensione, con certezza non comprende gli atti, le notizie e i dati in possesso della Commissione in relazione alla sua attività di vigilanza, posti a fondamento di un procedimento disciplinare, sicché questi nei confronti dell'interessato non sono affatto segreti e sono invece pienamente accessibili non solo nel giudizio di opposizione alla sanzione disciplinare, ma anche nello speciale procedimento di accesso regolato dall'art. 25 della legge n. 241 del 1990, strumento esperibile anche dall'incolpato nei procedimenti disciplinari, per orientare preventivamente l'azione amministrativa onde impedirne eventuali deviazioni.
E quindi le esigenze di segretezza, che costituiscono la «ratio» dell'art. 4 del Tuf, sarebbero a parere della Corte costituzionale, recessive rispetto al diritto di accesso «defensionale», nell'ipotesi in cui si chieda l'ostensione di atti confluiti in un procedimento sanzionatorio o a carattere contenzioso e la loro conoscenza sia necessaria per la difesa dell'interessato nell'ambito del procedimento stesso (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

TRIBUTIIl piano annullato evita i prelievi tributari locali.
Il comune non può pretendere il pagamento dell'imposta municipale se il piano particolareggiato, con relativa variante, è stato bocciato dalla regione con effetto retroattivo. Non può cambiare la destinazione di un'area da agricola a edificabile in assenza di un valido provvedimento, anche se medio tempore è stato proposto ricorso al Tar per ottenere la sospensiva e poi l'annullamento della delibera regionale. Stante l'incertezza sulla natura giuridica dell'area, il ricorso al giudice amministrativo proposto dal comune, infatti, aveva la finalità di giustificare la riscossione del tributo entro i termini di decadenza.

Così la Ctr Torino, sez. XXVI (sentenza 06.07.2016 n. 874).
Per i giudici, al momento dell'emissione dell'avviso di accertamento il terreno oggetto di contesa «doveva iuris et de iure reputarsi agricolo, in mancanza della necessaria approvazione del piano particolareggiato da parte della regione», che aveva dichiarato la nullità della variante con efficacia retroattiva.
Del resto, la presentazione del ricorso non «può avere l'effetto di far considerare il procedimento per l'acquisizione dell'edificabilità, in itinere, ai fini della «legge Bersani», stante l'intervenuta caducazione del piano del comune, da parte della regione». Secondo l'art. 2 del dlgs 504/92 per area fabbricabile s'intende quella utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici «
generali o attuativi».
Mentre per la caratteristica dell'edificabilità è sufficiente che essa risulti da un piano regolatore generale, la potenzialità di edificazione è maggiore quando l'area è ricompresa in un piano particolareggiato e ciò ha effetti nella determinazione del valore dell'area stessa e della quantificazione della base imponibile Ici, Imu e Tasi. Tra l'altro, l'edificabilità di un'area non può essere esclusa neppure dalla presenza di vincoli o di particolari destinazioni urbanistiche. In questi casi l'area è comunque soggetta al pagamento delle imposte locali (Cass., sent. 5161/14), anche se la questione non è pacifica.
Al riguardo, la Consulta (sent. 41/2008) ha stabilito che ai fini della determinazione dell'imponibile Ici non si possono distinguere le aree edificabili in concreto da quelle edificabili in astratto (cioè considerate edificabili da strumenti urbanistici non approvati o non attuati). L'astratta edificabilità del suolo giustifica di per sé la valutazione del terreno secondo il suo valore venale e differenzia radicalmente tali suoli dagli agricoli non fabbricabili (articolo ItaliaOggi del 12.08.2016).

VARILe telecamere vanno segnalate. Un avviso fuori dal negozio deve indicare la sorveglianza. La Cassazione interviene sui dispositivi video nei locali, dando ragione al garante privacy.
Per la videosorveglianza all'ingresso non basta un cartello interno al locale commerciale.

Secondo la sentenza 05.07.2016 n. 13663 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, l'avviso deve essere sistemato prima delle telecamere.
La pronuncia dà ragione al garante della privacy che aveva sanzionato una farmacia per irregolarità dell'informativa.
La sanzione è stata annullata dal tribunale, ma ora la Cassazione ha ribaltato il verdetto. Ma vediamo i dettagli della questione.
Una farmacia comunale ha ricevuto una sanzione di 2.400 euro per non avere dato una idonea informativa circa la videosorveglianza operata con una telecamera posizionata all'esterno dell'edificio, all'ingresso principale. Oltre a questa telecamera ce n'erano altre tre: una posizionata all'esterno con controllo dell'ingresso secondario; una con osservazione del locale di dispensazione ed una ancora con visione del locale ufficio e smistamento farmaci. Quanto all'informativa era presente un cartello, ma collocato su parete interna della farmacia non visibile all'esterno.
La farmacia ha impugnato la sanzione e, in primo grado, il tribunale ha dato ragione al trasgressore. La pronuncia di primo grado ha fatto leva sul fatto che la prescrizione sull'informativa (e cioè il cartello con l'avviso), da sistemare prima dell'accesso (e non dopo) a un'area videosorvegliata, sarebbe stata esplicitata con il provvedimento generale del garante dell'08.04.2010, mentre i fatti, oggetto del giudizio, erano anteriori.
Secondo il tribunale, dunque, all'epoca della contestazione era sufficiente che gli interessati fossero informati del fatto che stavano per accedere oppure che si trovavano in zona videosorvegliata: insomma non ci sarebbe stato l'obbligo unico della preventiva informativa, ma sarebbe stato sufficiente un avviso nel luogo videoripreso.
Di diversa opinione è stata la Cassazione, sollecitata dal garante a rivedere la sentenza del tribunale.
Il garante ha evidenziato che, a prescindere dalle prescrizioni contenute nei provvedimenti generali sulla videosorveglianza, l'articolo 13 del Codice della privacy (dlgs 196/2003) prevede l'obbligo della informativa preventiva quando si trattano dati personali. E la Cassazione ha ricordato che senz'altro l'immagine di una persona costituisce dato personale, trattandosi di dato immediatamente idoneo a identificare una persona a prescindere dalla sua notorietà: l'installazione di un impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio commerciale, allo scopo di controllare l'accesso degli avventori, costituisce, dunque, trattamento di dati personali e deve formare oggetto dell'informativa, rivolta a chi entra nel locale.
Basta il citato articolo 13 a obbligare gli esercenti a posizionare il cartello prima che gli interessati accedano nella zona videosorvegliata.
Considerata la novità e l'importanza della materia, la Cassazione ha formulato espressamente il principio di diritto per cui l'installazione di un impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio commerciale, costituendo trattamento di dati personali, deve formare oggetto di previa informativa, resa ai soggetti interessati prima che facciano accesso nell'area videosorvegliata, mediante supporto da collocare perciò fuori del raggio d'azione delle telecamere che consentono la raccolta delle immagini delle persone e danno così inizio al trattamento stesso.
La Cassazione fa, poi, un collegamento con il consenso dell'interessato, che, in generale, deve essere informato e, quindi, il cartello dovrebbe, anche per questa ragione, essere sistemato prima della ripresa video.
Si tratta, però, di una riflessione impropria, in quanto per la videosorveglianza, già in base al provvedimento del garante del 2004 (conforme quello del 2010), non è necessario il consenso degli interessati, nel caso in cui la ripresa sia finalizzata a protezione delle persone, della proprietà o del patrimonio aziendale, relativamente all'erogazione di particolari servizi pubblici o a specifiche attività (che si svolgono per esempio in luoghi pubblici o aperti al pubblico, o che comportano la presenza di denaro o beni di valore, o la salvaguardia del segreto aziendale o industriale in relazione a particolari tipi di attività).
Costituiscono, quindi, un legittimo interesse, che supera la necessità del consensi preventivo, la raccolta di mezzi di prova e la tutela di persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro.
L'esclusione del consenso è stata prevista, sempre nel provvedimento del 2004, anche per la videosorveglianza senza registrazione, nei casi in cui le immagini siano unicamente visionate in tempo reale, oppure conservate solo per poche ore mediante impianti a circuito chiuso (Cctv): questo vale in particolare per esercizi commerciali esposti ai rischi di attività criminali in ragione della detenzione di denaro, valori o altri beni (come gioiellerie, supermercati, filiali di banche, uffici postali). Tuttavia la videosorveglianza può risultare eccedente e sproporzionata quando sono già adottati altri efficaci dispositivi di controllo o di vigilanza oppure quando vi è la presenza di personale addetto alla protezione.
Infine, anche se non c'è bisogno del consenso, il garante, nell'uso delle apparecchiature puntate su aree esterne a edifici e immobili, prescrive di limitare l'angolo visuale all'area effettivamente da proteggere, evitando la ripresa di luoghi circostanti e di particolari non rilevanti (come vie, edifici, esercizi commerciali, istituzioni) (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSanzioni, p.a. tutte alla cassa. Enti pubblici, responsabilità amministrativa diretta. PRIVACY/ La precisazione giunge (per la prima volta) dalla Corte di cassazione.
Società ed enti pubblici chiamati alla cassa delle sanzioni privacy.
Il codice della privacy prevede una responsabilità amministrativa diretta delle persone giuridiche in caso di contravvenzioni al codice della riservatezza (dlgs 196/2003).

È quanto ha precisato, per la prima volta, la Corte di Cassazione con la sentenza 05.07.2016 n. 13657 (solo ora resa nota), che ha spiegato come si applica l'articolo 162, comma 2-bis, del codice della privacy.
Nel caso specifico un ente provinciale è stato sanzionato dal garante per la protezione dei dati personali (nella misura minima di 20 mila euro) per violazione dell'art. 162, comma 2-bis, del dlgs n. 196/2003.
La violazione è consistita nella pubblicazione sul portale web della provincia di graduatorie, liberamente consultabili, degli iscritti negli elenchi del collocamento obbligatorio dei disabili: con il risultato che erano conoscibili da chiunque le particolari condizioni di disabilità di oltre 6 mila soggetti indicati nominativamente, in violazione di quanto disposto dall'articolo 22, comma 8, del codice della privacy (divieto di diffusione di dati sullo stato di salute).
In primo grado il tribunale ha annullato l'ordinanza del garante, che ha presentato ricorso per Cassazione.
I problemi affrontati dalla Suprema corte sono stati stabilire chi è il titolare del trattamento e a chi è imputabile la sanzione pecuniaria.
In dettaglio ci si è chiesti se sia possibile o meno l'irrogazione delle sanzione amministrativa anche a un ente oppure solo a una persona fisica.
Il garante ha sostenuto che la sanzione è applicabile anche all'ente. La Cassazione si è dichiarata d'accordo con questa impostazione.
La sentenza non nega affatto il principio generale della imputabilità personale della sanzione amministrativa; nega, però, che il principio possa essere forzato fino al punto di stabilire la sostanziale irresponsabilità dell'ente.
Vediamo di ricostruire il quadro giuridico.
Si parte dal principio della natura personale della responsabilità amministrativa e della imputabilità, dell'elemento soggettivo della violazione, delle cause di esclusione della responsabilità e del concorso di persone.
Cioè il trasgressore è una persona fisica, di cui bisogna valutare il grado di colpa o dolo o se è capace di intendere e volere e così via.
Ma la stessa legge 689/1981 (legge quadro sulla responsabilità amministrativa pecuniaria) prevede una responsabilità solidale della persona giuridica: il trasgressore è una persona fisica, ma è tenuto al pagamento della sanzione anche l'ente che sia, per esempio, datore di lavoro o proprietario della cosa con cui sia stato commesso l'illecito.
Si prenda il caso di una violazione del divieto di sosta dei veicoli commesso dal dipendente di una spa: il trasgressore è il dipendente, ma al pagamento della sanzione è tenuta anche la spa, per responsabilità solidale (salvo rivalsa sul responsabile).
Questo impianto, dice però la Cassazione, non esclude di per sé la possibile autonoma responsabilità della persona giuridica in base al codice della privacy.
La sentenza spiega, infatti, che la diversa natura giuridica delle sanzioni amministrative, contenute nel codice in materia di protezione dei dati personale, è dimostrata dall'art. 162, comma 2-bis, del codice stesso, nella parte in cui si prevede testualmente che in caso di trattamento di dati personali effettuato in violazione delle disposizioni indicate nell'articolo 167 è altresì applicata in sede amministrativa, in ogni caso, la sanzione pecuniaria. Per la Cassazione l'articolo 162, comma 2-bis, del codice della privacy prevede una sanzione amministrativa che si aggiunge a quella penale, con un regime proprio e autonomo e che scatta in ogni caso e, quindi, anche nei confronti di un ente e non solo della persona fisica.
È lo stesso meccanismo della responsabilità amministrativa delle imprese per le ipotesi di reato commessi da manager e dipendenti (dlgs 321/2001).
Il principio formulato dalla Cassazione concorda anche con la definizione di titolare del trattamento: è considerato titolare del trattamento dei dati non solo la persona fisica, ma espressamente anche la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione o organismo cui competono le decisioni del trattamento (articolo 4 del codice della privacy).
Se il titolare del trattamento è la persona giuridica, allora, questa è direttamente sanzionabile ai sensi della normativa in materia di trattamento dei dati personali (articolo ItaliaOggi del 18.08.2016).
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MASSIMA
1.- Con l'unico motivo del ricorso principale si censura il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 28, 162 e 166 del dlgs. n. 196/2003 in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c.. Con il motivo si pone, nella sostanza, la questione dei limiti di compatibilità del rinvio alla L. 689/1981 da parte dell'art. 166 d.lvo. 196/2003 e, quindi, della "identificazione" del soggetto titolare del trattamento e della imputabilità delle sanzioni.
E, quindi, conseguentemente se sia possibile o meno l'irrogazione delle sanzione amministrativa prevista ex lege anche ad un Ente (quale, in ipotesi, la Provincia) oppure solo ad una persona fisica.
Il principio che, con il motivo in esame, parte ricorrente chiede affermarsi è quello per cui la sanzione de qua è applicabile anche all'ente.
Il motivo è fondato.
Il richiamo al noto principio della imputabilità personale della sanzione, di cui alla L. n. 689/1981, non può giustificare —come ritenuto nella decisione gravata- la sostanziale irresponsabilità dell'Ente tenuto al trattamento dei dati sensibili protetti dalla legge.
Non è corretto, in particolare, il richiamo, operato dalla sentenza impugnata, al dictum di Cass. n. 12664/2007 e, quindi, al principio (in essa pure richiamato) della natura personale della responsabilità e dei conseguenti profili della imputabilità, dell'elemento soggettivo della violazione, delle cause di esclusione della responsabilità e del concorso di persone.
Giova al riguardo evidenziare che quanto affermato dalla citata decisione di questa Corte attiene, più propriamente, al regime sanzionatorio considerato dalla generale legge di depenalizzazione.
Quest' ultima preesisteva alla normativa sanzionatoria specifica del Codice e quest'ultimo, pur richiamando (al suo art. 166)
la L. n. 689/1981 rende possibile la configurabilità di una responsabilità solidale della persona giuridica, ma non esclude di per sé la possibile autonoma responsabilità della stessa siffatta persona quanto al successivo e specifico regime sanzionatorio previsto dal predetto Codice stesso.
Infatti la diversa natura giuridica delle sanzioni amministrative contenute nel Codice in materia di protezione dei dati personale (D.lvo. n. 196/2003) è confermata dal tenore della norma di cui all'art. 162, co. Il-bis (aggiunto ex D.L. n. 207/2008 conv. in L. n. 14/2009) del detto codice laddove si prevede testualmente che: "
in caso di trattamento di dati personali effettuato in violazione ...delle disposizioni indicate nell'art. 167 è altresì applicata in sede amministrativa, in ogni caso, la sanzione del pagamento di una somma....".
Insomma con l'anzidetta norma di legge si prevede una sanzione amministrativa che si aggiunge a quella penale, con un regime proprio ed autonomo e che scatta in ogni caso e, quindi, anche nei confronti di un Ente e non solo della persona fisica.
Peraltro la suddetta previsione appare in linea proprio con l'inquadramento generale dato dal citato Codice quanto alla configurazione dei soggetti (persone fisiche o giuridiche) titolari del trattamento dei dati.
Difatti, ai sensi dell'art. 4 del predetto Codice, è considerato titolare del trattamento dei dati non solo la persona fisica, ma espressamente anche "...la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione o organismo cui competono...".
D'altra parte questa Corte, già con nota pronuncia ( Cass. civ., Sez. VI-2°, Ord. 08.04.2014, n. 8184), ha già avuto modo di affermare che
"il titolare del trattamento è la persona giuridica", come tale perfettamente sanzionabile ai sensi della normativa in materia di trattamento dei dati personali.
In conclusione il motivo esaminato deve essere accolto con conseguente cassazione dell'impugnata decisione e rinvio, anche per le spese del presente giudizio, al Tribunale di Avellino in diversa composizione, che provvederà alla stregua dei principi innanzi enunciati.

VARIIl giornalista può usare il sarcasmo. Corte diritti dell’uomo. Secondo i giudici europei la libertà di espressione consente anche di scegliere lo stile.
Sarcasmo e ironia in articoli di stampa quasi senza limiti. Anche quando singole espressioni come «stupido» e «lento a capire» sono in sé offensive, perché i giornalisti hanno diritto ad usare tecniche stilistiche, su questioni di interesse pubblico, con sarcasmo e ironia anche eccessivi.
Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 05.07.2016, con la quale ha condannato la Polonia per violazione dell’articolo 10 della Convenzione che assicura il diritto alla libertà di espressione, dando ragione, su tutta la linea, a un giornalista (caso Ziembinski, 1799/07).
A rivolgersi alla Corte era stato un cronista polacco che aveva pubblicato un articolo sul quotidiano del quale era anche proprietario, in cui criticava aspramente un progetto dell’amministrazione comunale che, in pratica, prevedeva il via libera a un allevamento di quaglie ritenendo potesse essere utile a fronteggiare la disoccupazione nella zona. Malgrado non avesse citato nominativamente il sindaco e due funzionari pubblici, il reporter era stato denunciato e condannato per diffamazione.
Di qui il ricorso alla Corte europea che, ancora una volta, ha rafforzato la libertà di espressione dei giornalisti rispetto ad altri diritti in gioco come quello alla reputazione. E questo soprattutto quando oggetto degli articoli sono politici e dipendenti pubblici.
La Corte europea critica l’operato dei giudici nazionali che hanno deciso la condanna del giornalista valutando le singole espressioni e non il contesto generale. L’articolo, molto critico nei confronti di alcuni amministratori pubblici –osservano i giudici di Strasburgo– conteneva termini in sé forti sottolineando che chi aveva effettuato la scelta di dare il via a un allevamento di quaglie era «stupido», «lento a capire», «smorto». Detto questo, però, i giudici nazionali hanno sbagliato a considerare le espressioni in sé e non nel contesto dell’articolo, nel quale il giornalista aveva fatto una scelta stilistica precisa, ugualmente protetta dall’articolo 10 della Convenzione.
La valutazione delle autorità nazionali –scrive la Cort– non può essere staccata dal contesto e senza considerare che il giornalista ha diritto di scegliere una comunicazione ironica e sarcastica quando riporta alla collettività questioni di interesse generale. «Un livello di esagerazione –osserva la Corte– e di provocazione è permesso al giornalista» e questo anche quando arriva a un certo grado di intemperanza e a taluni eccessi.
Senza dimenticare che i destinatari non erano indicati nominativamente (anche se identificabili) e, soprattutto, erano personaggi pubblici. L'articolo, infatti, prendeva di mira il sindaco che, in quanto politico, è maggiormente esposto a critiche rispetto a un privato cittadino, con un obbligo di tolleranza maggiore. Con la conseguenza che, nei suoi confronti, le autorità nazionali hanno margini di intervento molto ristretti laddove intendano limitare la libertà di espressione. Tanto più che è compito del giornalista animare e suscitare un dibattito su questioni di interesse generale.
Inevitabile, quindi, la bocciatura dell’operato dei giudici nazionali, che si sono limitati a decidere nel senso della diffamazione senza considerare l’articolo nel suo complesso. Con la conseguenza che la Polonia dovrà versare al giornalista oltre 4mila euro tra danni patrimoniali e morali
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).

APPALTI: L'offerta economica è segreta. Conoscenza anticipata interdetta alla commissione. Principio ribadito dal Tar Marche sulle gare a offerta economicamente più vantaggiosa.
Nelle procedure di affidamento con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le regole di segretezza dell'offerta economica e di separazione del relativo esame rispetto a quello dell'offerta tecnica impongono tassativamente che, prima della conclusione di quest'ultimo, sia interdetta alla commissione giudicatrice l'anticipata conoscenza degli elementi dell'offerta economica.

È quanto hanno ribadito i giudici della I Sez. del TAR Marche con la sentenza 30.06.2016 n. 425.
A parere dei giudici amministrativi di Ancora, ciò deve realizzarsi affinché, in omaggio ai canoni di imparzialità e trasparenza, la preventiva valutazione dell'offerta tecnica non ne resti influenzata (effettivamente o anche solo potenzialmente), così da inficiare l'obiettività nell'assegnazione dei punteggi e la regolarità della selezione.
Inoltre, in ossequio ad un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (si vedano: Cons. stato, sez. VI, n. 5928/2012; Tar Marche n. 334/2015; Tar Sardegna, sez. I, n. 390/2013; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, n. 25894/2010; Tar Lazio, Roma, sez. II, n. 2393/2007), i giudici del Tar nella sentenza in commento hanno evidenziato come l'indicazione di elementi economici tra la documentazione costituente l'offerta tecnica risulti, in alcuni casi, insuscettibile di inquinare la valutazione della commissione giudicatrice nel caso in cui, ad esempio, «le voci e le entità economiche incluse nell'offerta rivestono portata quantitativamente marginale a fronte alle voci e alle entità del computo metrico estimativo a base di gara, oppure quando, pur trattandosi di voci di entità rilevante, vengono riportate al lordo del ribasso che è possibile conoscere solo dall'esame dell'offerta economica».
Infine, nel caso specifico, è stato osservato dai giudici amministrativi che, l'aver chiesto agli offerenti «elementi di computo metrico» a corredo delle proprie offerte tecniche, avrebbe reso comunque possibile, da parte di una Commissione «tecnica» farsi un'idea orientativa dell'entità economica delle migliorie, conoscendo sia i prezziari ufficiali di riferimento (lordi), che i prezzi effettivamente praticati nella zona per lavorazioni analoghe (netti).
Sono queste le circostanze in cui la giurisprudenza amministrativa ha comunque ritenuto ammissibile una tale disciplina di gara, osservando che, quando essa «richiede o permette soluzioni migliorative, la cui tecnicità richieda necessariamente anche esami di tipo aritmetico o l'indicazione di parametri dei costi o, ancora, comparazioni rispetto a prezzi di mercato o listini ufficiali, ne viene che fatalmente l'offerta tecnica va a dover contenere alcuni elementi di rilievo economico, al limite indici indiretti di prezzi. Il che, nel limite della ragionevolezza e delle proporzionalità, non vulnera il principio generale di separatezza delle due offerte» (cfr. Cons. stato, sez. V, n. 703/2016) (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).
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MASSIMA
2.2 Riguardo al secondo profilo, il Collegio non ignora che, per univoco orientamento giurisprudenziale fatto proprio anche da questo Tribunale in ripetute occasioni (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 7431/2003; Sez. V, n. 3575/2009; n. 1734/2011; n. 2734/2012; n. 10/2013; n. 2214/2013; n. 3841/2013; TAR Marche nn. 307/2004 e 380/2013; TAR Lazio, Roma, Sez. I n. 5196/2005; TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, n. 1236/2006; Sez. III, n. 1852/2007; n. 1969/2007; TAR Friuli Venezia Giulia n. 296/2006; TAR Campania, Napoli, Sez. I, n. 7089/2006; TAR Toscana, Sez. II, n. 1385/2010; TAR Puglia, Bari, Sez. I, n. 693/2011; Lecce, Sez. III, n. 1001/2011; TAR Liguria, Sez. II, n. 73/2012; TAR Piemonte, Sez. I, n. 1177/2012; TAR Abruzzo, Pescara, n. 526/2013),
nelle procedure di affidamento con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le regole di segretezza dell’offerta economica e di separazione del relativo esame rispetto a quello dell’offerta tecnica impongono tassativamente che, prima della conclusione di quest’ultimo, sia interdetta alla commissione giudicatrice l’anticipata conoscenza degli elementi dell’offerta economica, affinché, in omaggio ai canoni di imparzialità e trasparenza, la preventiva valutazione dell’offerta tecnica non ne resti influenzata (effettivamente o anche solo potenzialmente), così da inficiare l’obiettività nell’assegnazione dei punteggi e la regolarità della selezione.
Va tuttavia anche ricordato che l’indicazione di elementi economici tra la documentazione costituente l’offerta tecnica risulta, in alcuni casi, insuscettibile di inquinare la valutazione della commissione giudicatrice quando, ad esempio, le voci e le entità economiche incluse nell’offerta rivestono portata quantitativamente marginale a fronte alle voci e alle entità del computo metrico estimativo a base di gara, oppure quando, pur trattandosi di voci di entità rilevante, vengono riportate al lordo del ribasso che è possibile conoscere solo dall’esame dell’offerta economica (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 5928/2012; TAR Marche n. 334/2015; TAR Sardegna, Sez. I, n. 390/2013; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, n. 25894/2010; TAR Lazio, Roma, Sez. II, n. 2393/2007).
Questi ultimi aspetti caratterizzano proprio il caso in esame.
In primo luogo va osservato che alcuni dei prezzi inseriti nei computi metrici delle singole proposte sono stati desunti dal prezziario regionale utilizzato anche per l’elaborazione del computo metrico estimativo e dell’elenco dei prezzi unitari del progetto a base di gara, come si può facilmente rilevare dal confronto fra tali documenti (v. ad es. per la proposta 1.1, i prezzi 09.04.005 e 09.05.006.02 rispettivamente di € 252,52 e 86,68 che corrispondono alle identiche voci del prezziario regionale riportate ai nr. 52 e 30 dell’elenco dei prezzi unitari depositato dall’Amministrazione).
Tali voci sono state evidentemente riportate al lordo del ribasso che la Commissione ha potuto conoscere solo aprendo la busta contenente l’offerta economica.
Peraltro va osservato che anche le altre offerenti (tra cui la ricorrente) hanno elaborato i loro “elementi di computo metrico” indicando i numeri di tariffa del prezziario regionale, per cui sarebbe stato facile, per la Commissione, conoscere il valore lordo delle proposte migliorative, per quanto irrilevante se si ignora il relativo ribasso.
I computi metrici della controinteressata contengono, tuttavia, anche nuovi prezzi di tariffa non contenuti nel prezziario regionale, che vengono riportati con allegata una scheda analitica di incidenza delle singole componenti (manodopera, materiali, mezzi, noli, trasporti, sicurezza, spese generali, utile) la cui somma viene indicata come “prezzo di applicazione”.
Anche a voler ipotizzare che per “prezzo di applicazione” debba intendersi quello effettivamente praticato al cliente (quindi al netto del ribasso), va osservato che la loro incidenza (per complessivi € 63.700 circa) è minimale, sia rispetto all’importo complessivo delle migliorie proposte (€ 209.900 circa), sia all’importo a base d’asta (€ 299.683,61 + € 8.439,07), non potendo quindi costituire elemento utile per dedurre anticipatamente e con un apprezzabile margine di precisione, in sede di valutazione dell’offerta tecnica, l’entità dell’offerta economica.
Da ultimo va osservato che, l’aver chiesto agli offerenti “elementi di computo metrico” a corredo delle proprie offerte tecniche (sul punto la lex specialis non è in contestazione), rende comunque possibile, da parte di una Commissione “tecnica” (composta da due ingegneri e un geometra, come nel caso in esame), farsi un’idea orientativa dell’entità economica delle migliorie, conoscendo sia i prezziari ufficiali di riferimento (lordi), che i prezzi effettivamente praticati nella zona per lavorazioni analoghe (netti).
In tali circostanze la giurisprudenza amministrativa ha comunque ritenuto ammissibile una tale disciplina di gara, osservando che,
quando essa “richiede o permette soluzioni migliorative, la cui tecnicità richieda necessariamente anche esami di tipo aritmetico o l’indicazione di parametri dei costi o, ancora, comparazioni rispetto a prezzi di mercato o listini ufficiali, ne viene che fatalmente (come è stato qui) l’offerta tecnica va a dover contenere alcuni elementi di rilievo economico, al limite indici indiretti di prezzi. Il che, nel limite della ragionevolezza e delle proporzionalità, non vulnera il principio generale di separatezza delle due offerte. Infatti diversamente si dovrebbero ritenere a priori precluse tutte le formulazioni dell’offerta tecnica –e, a maggior ragione, le richieste di formulazioni dell’offerta tecnica a opera della lex specialis– che prendano in considerazione siffatti parametri economici: mentre ne ricorre il divieto solo nel caso in cui quel limite sia concretamente superato e dunque dall’offerta tecnica si possa agevolmente desumere l’offerta economica, con conseguente lesione effettiva della separatezza dell’offerta tecnica dall’offerta economica”, concludendo che “una sommatoria di poco superiore a un terzo del complesso delle lavorazioni non può dar luogo a una previa conoscenza dell’importo globale dell’offerta economica: dunque ad una vera anticipazione dell’offerta economica fatta in sede di offerta tecnica (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 703/2016).

INCARICHI PROFESSIONALIGiudici di legittimità all'angolo. C'è incompetenza a statuire in tema di responsabilità. AVVOCATI/ È quanto ha ribadito la terza sezione civile della Corte di cassazione.
In tema di responsabilità dell'avvocato il giudice di legittimità è incompetente a statuire sul merito.

Lo hanno ribadito i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 28.06.2016 n. 13292.
Già la stessa Cassazione (sez. 3, 13.02.2014 n. 3355) aveva sottolineato come «nelle cause di responsabilità professionale nei confronti degli avvocati, la valutazione prognostica compiuta dal giudice di merito circa il probabile esito dell'azione giudiziale malamente intrapresa o proseguita, sebbene abbia contenuto tecnico-giuridico, costituisce comunque valutazione di un fatto, censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione».
Nel caso di specie con sentenza il Tribunale condannava per responsabilità professionale l'avvocato Tizio a risarcire danni alla controparte che era stata sua cliente, Caio Srl.
Avendo Tizio proposto appello contro tale sentenza, la Corte d'appello lo rigettava con sentenza.
Tizio presentava, quindi, ricorso sulla base di quattro motivi: il primo denunciava violazione di legge in relazione al capo della sentenza che dichiara la sua responsabilità professionale per avere proposto domanda di condanna nel confronti di Caietta Sri nel giudizio in cui assisteva Caio Srl; il secondo denuncia ancora violazione di legge sul capo della sentenza che lo riteneva responsabile per avere proposto nel suddetto giudizio azione di arricchimento senza causa; il terzo contestava l'asserita mancanza di valido consenso informato della cliente Caio Srl; il quarto atteneva al profilo probatorio e all'effettiva sussistenza o meno di una responsabilità professionale.
Emerge, quindi, evidentemente che, lungi dall'identificare una violazione dell'articolo 112 c.p.c. da parte del giudice d'appello, il ricorrente argomentava al fine di ottenere dal giudice di legittimità una valutazione di merito, e precisamente una ricostruzione alternativa rispetto a quella effettuata nell'impugnata sentenza dei presupposti fattuali della responsabilità professionale del ricorrente.
Secondo i giudici di piazza Cavour il contenuto della domanda che, secondo la corte territoriale, anche se fosse stata vagliata non avrebbe apportato alcuna modifica agli esiti del giudizio in cui ritiene che l'attuale ricorrente non abbia ben adempiuto al suo mandato professionale rientra nell'accertamento della condotta posta in essere dall'avvocato per adempiere al suo mandato, e pertanto nell'ambito della cognizione di merito.
Non risulta, inoltre, a parere degli Ermellini, essere incidente in senso contrario, poi, l'indiscutibile dato che, per compiere tale accertamento, sia necessario da parte dei giudicante anche un vaglio tecnico al fine di determinare le prevedibili conseguenze della condotta dell'avvocato, poiché tale valutazione non può qualificarsi questione di diritto (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 149 del dlgs 42/2004 prevede che “...non é comunque richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146, dall'articolo 147 e dall'articolo 159: a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici...”.
Gli interventi  consistenti nell’istallazione:
- “di due unità di condizionamento, di corpi illuminanti e di grillages sul parapetto perimetrale del terrazzo” nonché nella realizzazione “di un insegna pubblicitaria fissata sull’inferriata situata nella parte superiore del varco d’accesso”,
non possono rientrare nella fattispecie di cui all'art. 149, lett. a), del dlgs 42/2004, e ciò in quanto tali opere, complessivamente considerate, comportato un’alterazione dell’aspetto esteriore dell’immobile vincolato, atteso che le medesime, consistendo in opere esterne, incidono sulla percezione visiva rilevante ai fini della tutela del vincolo ricadente sull’immobile de quo.
Ne deriva, quindi, che i succitati interventi -non rientrando nella fattispecie di cui all’art. 149, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004- sono soggetti al regime autorizzatorio di cui all’art. 146 del medesimo decreto legislativo, con la conseguenza che l’Amministrazione, dopo aver riscontrato che tali opere erano state realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, ha correttamente proceduto a intimarne la demolizione.
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Non può, peraltro, opporsi la circostanza che le succitate opere sarebbero temporanee e amovibili.
Infatti, la Sezione deve rilevare che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie. Ciò, in quanto il manufatto non precario non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo. Infatti, la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire ... postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo”.
Orbene, nel caso di specie, gli interventi concernenti l’illuminazione, il sistema di condizionamento e l’insegna pubblicitaria non costituiscono opere aventi una finalità temporalmente delimitata ma risultano funzionalmente diretti a soddisfare esigenze durevoli nel tempo, con la conseguenza che la loro ipotetica ed astratta amovibilità non risulta una circostanza adeguata ad inficiare la rilevata legittimità del provvedimento impugnato.

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Osserva, preliminarmente, la Sezione che l’art. 146, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 42 del 2004 dispone che “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all'articolo 157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli 138 e 141, tutelati ai sensi dell'articolo 142, ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o all'ente locale al quale la regione ha affidato la relativa competenza i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione”.
L’art. 149 del medesimo decreto legislativo prevede, inoltre, per quanto d’interesse in questa sede, che “...non é comunque richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146, dall'articolo 147 e dall'articolo 159: a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici...”.
Orbene, per quanto concerne il caso di specie, la Sezione deve in primo luogo rilevare che gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza -così come individuati dalla nota della Soprintendenza di Napoli e Provincia n. 14402 del 27.08.2012, non contestata in atti- sono stati realizzati su un immobile vincolato ope legis ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Inoltre, i suddetti interventi -consistiti, come esplicitato al precedente n. 4, nell’istallazione “di due unità di condizionamento, di corpi illuminanti e di grillages sul parapetto perimetrale del terrazzo” nonché nella realizzazione “di un insegna pubblicitaria fissata sull’inferriata situata nella parte superiore del varco d’accesso”- non possono rientrare nella fattispecie di cui al richiamato art. 149, lett. a) del succitato decreto legislativo, e ciò in quanto tali opere, complessivamente considerate, hanno comportato un’alterazione dell’aspetto esteriore dell’immobile vincolato, atteso che le medesime, consistendo in opere esterne, incidono sulla percezione visiva rilevante ai fini della tutela del vincolo ricadente sull’immobile de quo.
Ne deriva, quindi, che i succitati interventi -non rientrando nella fattispecie di cui all’art. 149, lett. a) del d.lgs. n. 42 del 2004- erano soggetti al regime autorizzatorio di cui all’art. 146 del medesimo decreto legislativo, con la conseguenza che l’Amministrazione, dopo aver riscontrato che tali opere erano state realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, ha correttamente proceduto a intimarne la demolizione.
A quanto esposto non può, peraltro, opporsi la circostanza che le succitate opere sarebbero temporanee e amovibili.
Infatti -anche volendo prescindere dalla circostanza che la società ricorrente si è limitata ad asserire l’amovibilità di tali opere senza fornire adeguati elementi probatori al riguardo, eccezion fatta per il solo intervento relativo ai “grillages”, cui si fa riferimento nella relazione tecnica allegata alla SCIA del 16.04.2012- la Sezione deve rilevare che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie. Ciò, in quanto il manufatto non precario non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo. Infatti, la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire ... postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo” (Cons. di Stato, Sez. VI, 04.09.2015, n. 4116).
Orbene, nel caso di specie, gli interventi concernenti l’illuminazione, il sistema di condizionamento e l’insegna pubblicitaria non costituiscono opere aventi una finalità temporalmente delimitata ma risultano funzionalmente diretti a soddisfare esigenze durevoli nel tempo, con la conseguenza che la loro ipotetica ed astratta amovibilità non risulta una circostanza adeguata ad inficiare la rilevata legittimità del provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 28.06.2016 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, i provvedimenti demolitori “non necessitano di una motivazione particolarmente estesa, essendo sufficiente che l'Amministrazione individui con chiarezza le ragioni giuridiche assunte a fondamento della decisione, anche con mero richiamo alle disposizioni di legge delle quali viene fatta applicazione”, con la conseguenza che il Comune, una volta accertata l’abusività delle opere de quibus, realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, non aveva alcun obbligo di motivare il provvedimento di demolizione in relazione a quanto rilevato nella succitata relazione tecnica.
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In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato “in caso di abusivismo edilizio, non sussiste a carico del Comune l'onere di verificare la sanabilità dell'opera prima di emettere un’ordinanza di demolizione, atteso che, nello schema giuridico delineato dal testo unico dell'edilizia, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, dal momento che l'esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia”.
In altri termini, una volta accertata la natura abusiva delle opere, l’Amministrazione non ha l’obbligo di valutarne in via preventiva la sanabilità, e ciò sia perché tale valutazione non è esplicitamente richiesta dalla normativa di settore sia perché l’adozione di una ordinanza di demolizione non preclude all’interessato la possibilità di presentare una successiva domanda di sanatoria.
Ne deriva, quindi, che la mancanza di una preventiva valutazione, da parte dell’Amministrazione comunale, in merito alla sanabilità delle opere de quibus ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non risulta una circostanza adeguata a viziare l’impugnato provvedimento demolitorio, con la conseguenza che il medesimo deve ritenersi legittimo.
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Infine, per quanto concerne la censura relativa alla mancata comunicazione, da parte del Comune, del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la Sezione deve rilevare che l’istituto del preavviso di rigetto, per espressa previsione normativa, trova applicazione esclusivamente nei “procedimenti ad istanza di parte” mentre, nel caso di specie, il procedimento che ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza di demolizione non è stato avviato sulla base di un’istanza della società ricorrente ma in ragione di quanto rilevato nella nota della Soprintendenza, con la conseguenza che l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo di adottare il preavviso di rigetto di cui al predetto art. 10-bis.

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Infine, per quanto concerne la censura relativa al fatto che l’Amministrazione comunale non avrebbe proceduto a confutare analiticamente la relazione tecnica allegata alla SCIA del 16.04.2012, la Sezione rileva che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, i provvedimenti demolitori “non necessitano di una motivazione particolarmente estesa, essendo sufficiente che l'Amministrazione individui con chiarezza le ragioni giuridiche assunte a fondamento della decisione, anche con mero richiamo alle disposizioni di legge delle quali viene fatta applicazione” (Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2008, n. 2977), con la conseguenza che il Comune, una volta accertata l’abusività delle opere de quibus, realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, non aveva alcun obbligo di motivare il provvedimento di demolizione in relazione a quanto rilevato nella succitata relazione tecnica.
6. Con il secondo motivo di gravame la società ricorrente ha dedotto l’illegittimità dell’impugnata ordinanza per violazione dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004; violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990; eccesso di potere sotto i profili del presupposto erroneo, del travisamento dei fatti, del difetto d’istruttoria e della motivazione errata e contraddittoria; nonché violazione dell’art. 15 del regolamento edilizio.
Secondo la società ricorrente, infatti, gli interventi de quibus non avrebbero comportato la creazione di superfici utili e volumi o l’aumento di quelli legittimamente assentiti e sarebbero, quindi, sanabili ai sensi dell’art. 167, lett. a) e c) del d.lgs. n. 42 del 2004, con la conseguenza che il Comune, prima di adottare il contestato provvedimento demolitorio, avrebbe dovuto comunicare alla società ricorrente il preavviso di diniego di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, consentendo alla società di depositare una istanza di sanatoria paesaggistica ai sensi del succitato art. 167.
Detta censura non può essere condivisa.
Rileva, infatti, la Sezione che, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato “in caso di abusivismo edilizio, non sussiste a carico del Comune l'onere di verificare la sanabilità dell'opera prima di emettere un’ordinanza di demolizione, atteso che, nello schema giuridico delineato dal testo unico dell'edilizia, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, dal momento che l'esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia” (Cons. di Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4279).
In altri termini, una volta accertata la natura abusiva delle opere, l’Amministrazione non ha l’obbligo di valutarne in via preventiva la sanabilità, e ciò sia perché tale valutazione non è esplicitamente richiesta dalla normativa di settore sia perché l’adozione di una ordinanza di demolizione non preclude all’interessato la possibilità di presentare una successiva domanda di sanatoria.
Ne deriva, quindi, che la mancanza di una preventiva valutazione, da parte dell’Amministrazione comunale, in merito alla sanabilità delle opere de quibus ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non risulta una circostanza adeguata a viziare l’impugnato provvedimento demolitorio, con la conseguenza che il medesimo deve ritenersi legittimo.
Infine, per quanto concerne la censura relativa alla mancata comunicazione, da parte del Comune, del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la Sezione deve rilevare che l’istituto del preavviso di rigetto, per espressa previsione normativa, trova applicazione esclusivamente nei “procedimenti ad istanza di parte” mentre, nel caso di specie, il procedimento che ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza di demolizione non è stato avviato sulla base di un’istanza della società ricorrente ma in ragione di quanto rilevato nella nota della Soprintendenza di Napoli e Provincia n. 14402 del 27.08.2012, con la conseguenza che l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo di adottare il preavviso di rigetto di cui al predetto art. 10-bis (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 28.06.2016 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Questa Corte di legittimità
non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
E' dunque pacifico che in tema di reati edilizi,
l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Inoltre,
la valutazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di legittimità della Suprema Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza.
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1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema si è stabilmente assestata nell'affermare che
in tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (così questa sez. 3, n. 33540 del 19.06.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri rv. 253169; conforme sez. 4 n. 19714 del 03.02.2009, Izzo F., rv. 243961).
Questa Corte di legittimità
non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
E' dunque pacifico che in tema di reati edilizi,
l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa (Sez. 3, 27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi; 10.08.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n. 9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013, Rv. 257676; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Rv. 261522).
Inoltre,
la valutazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di legittimità della Suprema Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza (sez. 3, n. 35631 dell'11.07.2007, Leone ed altri, rv. 237391).
Alla stregua di tali principi, nella fattispecie in esame, i giudici del merito -con motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici- hanno ricondotto all'imputata l'attività di edificazione illecita in oggetto sui rilievi che essa era "proprietaria esclusiva" del fondo oggetto dei lavori abusivi, ne aveva la disponibilità giuridica e di fatto, ed avesse sicuro interesse all'esecuzione delle opere.
Essa, inoltre, non ha dimostrato che non avesse avuto piena conoscenza dei lavori abusivi e che non fosse stata messa in condizione di esprimere il suo dissenso.
Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nel caso in oggetto, da logico e coerente apparato argomentativo e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26428 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia edilizia, l'estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera, indipendentemente da una espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una sanzione amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria giustificazione nella accessorietà alla sentenza di condanna.
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con variazioni essenziali- (che riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo comma della legge n. 47 del 1985) prevede, infatti, testualmente che "
per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio (non di una pena accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale), caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è attribuita l'applicazione, la cui catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova ragione giuridica proprio nella sua accessività alla "sentenza di condanna".
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come presupposto -diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47 del 1985, art. 19 ed attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2, per la confisca dei terreni abusivamente lottizzati- la pronuncia di una sentenza di condanna o ad essa equiparata e non il mero accertamento della commissione dell'abuso edilizio, come nel caso dì sentenza dì estinzione per prescrizione.
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5. Vanno, inoltre, eliminati l'ordine di demolizione e la disposta confisca, alla stregua delle argomentazioni che seguono.
Con riferimento all'ordine di demolizione, va osservato che questa Corte ha affermato che,
in materia edilizia, l'estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera, indipendentemente da una espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una sanzione amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria giustificazione nella accessorietà alla sentenza di condanna (Sez. 3, n. 10/2/2006, Cirillo, Rv. 233673; Sez.3, n. 8409 del 30/11/2006, dep. 28/02/2007, Rv. 235952; Sez. 3, n. 756 del 02/12/2010, dep. 14/01/2011, Rv. 249154; Sez. 3, n. 50441 del 27/10/2015 Rv. 265616).
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con variazioni essenziali- (che riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo comma della legge n. 47 del 1985) prevede, infatti, testualmente che "
per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio (non di una pena accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale), caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è attribuita l'applicazione, la cui catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova ragione giuridica proprio nella sua accessività alla "sentenza di condanna" (vedi, in tal senso, Cass., Sez. Unite, 24.07.1996, ric. Monterisi).
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come presupposto -diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47 del 1985, art. 19 ed attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2, per la confisca dei terreni abusivamente lottizzati- la pronuncia di una sentenza di condanna o ad essa equiparata e non il mero accertamento della commissione dell'abuso edilizio, come nel caso dì sentenza dì estinzione per prescrizione (vedi Cass., Sez. 3 16.02.1998, n. 4100, ric. Maniscalco).
Nella specie, quindi,
la declaratoria di estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione impartito con la sentenza impugnata.
Con riferimento alla confisca, va osservato che questa Corte ha affermato che
non può essere disposta la confisca dell'area adibita a discarica abusiva, in caso di estinzione del reato (nella specie, per prescrizione), né a norma dell'art. 256, comma terzo, d.lgs. n. 152 del 2006, né a norma dell'art. 240, comma secondo, cod. pen. (Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687; Sez. 3 n. 13741, 22.03.2013, non massimata).
Quanto al primo profilo, va rimarcato che il d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 3, stabilisce, infatti, che
unicamente alla sentenza di condanna o alla sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. consegue la confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell'autore o del compartecipe al reato.
Il tenore della disposizione richiamata è, quindi, estremamente chiaro nello stabilire che
la confisca è applicabile soltanto in caso di condanna o applicazione pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., tanto che la sua perentorietà è stata indicata tra le ragioni che consentono di escluderne l'applicabilità con il decreto penale di condanna (Sez. 3, n. 26548 del 22/05/2008, Rv. 240343; Sez. 3, n. 24659 del 19/03/2009, Rv. 244019).
Quanto al secondo profilo, questa Corte ha affermato che
un'area adibita a discarica abusiva non rientra certamente tra le ipotesi di cui all'art. 240, comma 2, cod. pen., sia perché la realizzazione e la gestione di una discarica, se debitamente autorizzata, è lecita, sia perché la disposizione che la prevede consente la soggezione a confisca obbligatoria solo se l'area appartenga all'autore o al compartecipe al reato (Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687, cit.).
Nella specie, quindi,
la declaratoria di estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge anche la confisca disposta con la sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26428 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATARiguardo agli abusi paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito.
E' stato altresì osservato che
l'individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Sicché,
il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consista nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario assetto.
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai fini dell'integrazione della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo.
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La ratio della introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella valutazione che l'integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza.
La severità del relativo trattamento sanzionatorio «trova giustificazione nella entità sociale dei beni protetti e nel ricordato carattere generale, immediato ed interinale, della tutela che la legge ha inteso apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere comportamenti tali che possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili all'integrità ambientale
.
I reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge hanno introdotto «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del territorio individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o morfologiche), improntata a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale.
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta sostanziale identità dei valori in gioco,
il bene paesaggistico non può essere considerato qualcosa di avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta nella norma è sufficientemente determinata.
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In proposito, occorre preliminarmente osservare che la sentenza della Corte Costituzionale n. 56, depositata il 23.03.2016 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale "dell'art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui prevede «:a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed»", determinando così una parificazione delle condotte di cui al comma 1°-bis dello stesso art. 181 con la disciplina di cui al comma 1, purché non vengano superate le soglie volumetriche indicate dal comma 1-bis.
La predetta pronunzia, relativa al solo trattamento sanzionatorio della norma in esame, non ha però rilievo ai fini della declaratoria di estinzione per intervenuta rimessione in pristino.
In ogni caso, a prescindere dal fatto che l'eccezione di estinzione del reato ex art. 181, comma 1-quinquies citato non risulta richiesta con i motivi di appello, la Corte territoriale non se ne è occupata, ritenendo, correttamente, che l'autorizzazione della Provincia di Varese non rilevasse ai fini dell'applicazione dell'art. 129 c.p.p., anche perché, come sostenuto dal Tribunale e ripreso dalla stessa Corte, il predetto provvedimento amministrativo si riferiva all'attività di cava autorizzata.
4.4. Da parte di questa Suprema Corte è stato ripetutamente affermato il principio secondo il quale,
riguardo agli abusi paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito. Si tratta, ad avviso del Collegio, di considerazioni che vanno ribadite anche in questa occasione, non essendovi ragione alcuna per discostarsi da un orientamento che può dirsi ormai consolidato [Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 (dep. 16/03/2015), Murgia, Rv. 263289; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493].
E' stato altresì osservato che
l'individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato (v. ex plurimis Sez. 3, n. 14461 del 07/02/2003, Carparelli, Rv. 224468; Sez. 3, n. 14457 del 06/02/2003, De Marzi, Rv. 224465; Sez. 3, n. 12863 del 13/2/2003, Abbate, Rv. 224896; Sez. 3, n. 10641 del 30/01/2003, Spinosa, Rv. 224355) e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Sulla base di tali considerazioni si è giunti, pertanto, ad affermare che
il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consista nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario assetto (Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493, cit.).
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai fini dell'integrazione della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo (Sez. 3, n. 10463 del 25/1/2005, Di Cesare, Rv. 231247).
Ciò posto, deve rilevarsi come, avuto riguardo alla consistenza delle opere come descritta nell'imputazione, la decisione della Corte territoriale appaia perfettamente in linea con i principi richiamati. Appare inoltre dirimente il fatto che -pur ribadendo la natura di reato di pericolo della fattispecie contestata- già il Tribunale avesse individuato un danno effettivo arrecato all'ambiente (pag. 4 secondo periodo).
Come ha condivisibilmente sostenuto la sentenza impugnata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 181 D.Lvo n. 42/2004 -per la parte invocata dal ricorrente- è manifestamente infondata.
Il giudice delle leggi ha infatti già avuto modo di affermare che «
la ratio della introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella valutazione che l'integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza (sentenze n. 247 del 1997, n. 67 del 1992 e n. 151 del 1986; ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)» e che la severità del relativo trattamento sanzionatorio «trova giustificazione nella entità sociale dei beni protetti e nel ricordato carattere generale, immediato ed interinale, della tutela che la legge ha inteso apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere comportamenti tali che possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili all'integrità ambientale (sentenze n. 269 e n. 122 del 1993; ordinanza n. 68 del 1998)» (ordinanza n. 158 del 1998).
I reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge hanno introdotto «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del territorio individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o morfologiche), improntata a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale (v., da ultimo, ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)» (ordinanza n. 158 del 1998).
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta sostanziale identità dei valori in gioco,
il bene paesaggistico non può essere considerato qualcosa di avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta nella norma è sufficientemente determinata (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2016 n. 25041 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumori estivi, paga l'esercente che non controlla gli avventori.
Spetta al barista attivarsi per limitare il disagio dei residenti nel caso in cui i clienti siano troppo rumorosi soffermandosi per strada impedendo il riposo delle persone. Altrimenti potranno scattare delle multe con la sospensione della diffusione sonora o la riduzione dell'orario di apertura del locale.

Lo ha evidenziato il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 15.06.2016 n. 644.
Un pubblico esercizio posizionato nel centro storico è stato ripetutamente sanzionato per rumori e schiamazzi e per questo motivo il comune ha adottato un'ordinanza di completo silenzio musicale per un mese. Contro questa decisione l'interessato ha proposto ricorso al Tar ma senza successo.
Se l'esercente non controlla il comportamento dei suoi clienti che stazionano in strada parlando a voce alta con tanto di musica ad altro volume all'arrivo dei vigili scattano le multe. Poi il dirigente ha facoltà di adottare ulteriori misure sanzionatorie a carico dell'esercente che vanno dalla limitazione della musica alla riduzione anticipata dell'orario di chiusura (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).

VARIEstorsione, non è reato registrare conversazioni.
Registrare una conversazione per difendersi dall'estorsione non è reato.
Così la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con sentenza 10.06.2016 n. 24288: «Le registrazioni di conversazioni tra presenti, compiute di propria iniziativa da uno degli interlocutori, non necessitano dell'autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, in quanto non rientrano nel concetto di intercettazione in senso tecnico ma si risolvono in una particolare forma di documentazione, che non è sottoposta alle limitazioni ed alle formalità proprie delle intercettazioni».
Per gli Ermellini esse possono essere prove, soprattutto di estorsione: la legge «qualifica documento tutto ciò che rappresenta fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo. Il nastro contenente la registrazione non è altro che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare (si pensi alla vittima di un'estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la propria difesa» (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).
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MASSIMA
Il terzo motivo di ricorso è infondato.
Deve premettersi che la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che
le registrazioni di conversazioni tra presenti, compiute di propria iniziativa da uno degli interlocutori, non necessitano dell'autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell'art. 267 c.p.p., in quanto non rientrano nel concetto di intercettazione in senso tecnico, ma si risolvono in una particolare forma di documentazione, che non è sottoposta alle limitazioni ed alle formalità proprie delle intercettazioni.
Al riguardo le Sezioni Unite hanno evidenziato che, "
in caso di registrazione di un colloquio ad opera di una delle persone che vi partecipi attivamente o che sia comunque ammessa ad assistervi, difettano la conpromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà" del captante. L'acquisizione al processo della registrazione del colloquio può legittimamente avvenire attraverso il meccanismo di cui all'art. 234 c.p.p., comma 1, che qualifica documento tutto ciò che rappresenta fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo; il nastro contenente la registrazione non è altro che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare (si pensi alla vittima di un'estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la propria difesa, con l'effetto che una simile pratica finisce col ricevere una legittimazione costituzionale" (Cass. Sez. Un. 28.05.2003 n. 36747).
Diversa è l'ipotesi di registrazione eseguita da un privato, su indicazione della polizia giudiziaria ed avvalendosi dì strumenti da questa predisposti.
Dette registrazioni secondo la giurisprudenza di questa Corte (n. 23742 del 2010 Rv. 247384, N. 42939 del 2012 Rv. 253819 N. 7035 del 2014 Rv. 258551), alla quale il collegio aderisce, essendo effettuate col pieno consenso di uno dei partecipi alla conversazione, implicano un minor grado di intrusione nella sfera privata; sicché, ai fini della tutela dell'art. 15 Cost., è sufficiente un livello di garanzia minore, rappresentato da un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, che può essere costituito anche da un decreto del pubblico ministero.
Tale provvedimento, infatti, rappresenta il "livello minimo di garanzie" richiamato in varie pronunce della Corte Costituzionale (sentenze n. 81 del 1993 e n. 281 del 1998) e al quale la giurisprudenza di legittimità ha fatto riferimento, in mancanza di una specifica normativa, sia in materia di acquisizione dei tabulati contenenti i dati identificativi delle comunicazioni telefoniche (Sez. Un. 23.02.2000 n. 6), sia in tema di videoriprese eseguite in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost., per la riservatezza delle attività che vi si compiono (Cass. Sez. Un. 28.03.2006 n. 26795).
Nel caso di specie, come indicato nella sentenza impugnata e non disatteso in fatto dal ricorrente che si limita a ventilare la verosimiglianza di un accordo con le forse dell'ordine, la registrazione è stata effettuata dal Palazzolo, su sua iniziativa e senza l'ausilio di strumentazione fornita dalla polizia giudiziaria, correttamente pertanto l'acquisizione al processo della registrazione del colloquio è avvenuta attraverso il meccanismo di cui all'art. 234 c.p.p., comma 1.

EDILIZIA PRIVATANé può contestarsi la legittimità della sanzione pecuniaria se la sua irrogazione avviene a distanza di tempo ragguardevole dalla realizzazione dell’opera abusiva; ciò, dal momento che il potere repressivo dell’Amministrazione dinanzi ad abusi edilizi non è soggetto a termini di decadenza o di prescrizione, qualunque sia l’entità della violazione posta in essere e che le opere abusive non vengono legittimate per effetto del mero decorso del tempo, in assenza di un esplicito provvedimento che disponga in tal senso.
Per tali ragioni, anche nei casi di protratta inerzia dell’Amministrazione nell’attività di vigilanza e accertamento delle violazioni edilizie, non può ritenersi sorto in capo al privato alcun affidamento meritevole di tutela circa la legittimazione dello stato dei luoghi.

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Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce della infondatezza delle censure dedotte.
Va, preliminarmente, rilevato che l’irrogazione nei confronti della società Casa di Cura Privata Ma./Vi. dei Pl. S.p.A. della sanzione contestata è legittima e coerente con le norme previste in materia edilizia di cui al d.P.R. n. 380/2001.
L’art. 36 dello stesso decreto, infatti, sancisce la possibilità di ottenere, nel caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, il permesso in sanatoria, sempre che l’intervento realizzato sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dello stesso che della presentazione della domanda. Per gli interventi non in regola, per i quali è comunque preclusa la demolizione, l’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prescrive l’applicazione di una sanzione pari al doppio del valore venale della parte dell’opera priva dei necessari titoli abilitativi edilizi.
Né può contestarsi la legittimità di tale sanzione se la sua irrogazione avviene a distanza di tempo ragguardevole dalla realizzazione dell’opera abusiva; ciò, dal momento che il potere repressivo dell’Amministrazione dinanzi ad abusi edilizi non è soggetto a termini di decadenza o di prescrizione, qualunque sia l’entità della violazione posta in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. 04.05.2012, n. 1592) e che le opere abusive non vengono legittimate per effetto del mero decorso del tempo, in assenza di un esplicito provvedimento che disponga in tal senso.
Per tali ragioni, anche nei casi di protratta inerzia dell’Amministrazione nell’attività di vigilanza e accertamento delle violazioni edilizie, non può ritenersi sorto in capo al privato alcun affidamento meritevole di tutela circa la legittimazione dello stato dei luoghi.
Peraltro, nel caso di specie, deve osservarsi che è stata la stessa ricorrente ad ammettere esplicitamente la non piena conformità edilizia della struttura sanitaria, anche con riferimento al terzo piano del fabbricato, avendo richiesto il rilascio del permesso di costruire in parziale sanatoria di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 09.06.2016 n. 1354  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONella p.a. ok al segnatempo. Il cartellino per attestare la presenza in servizio. Una sentenza del Tar Sardegna sugli avvocati dipendenti delle amministrazioni.
Anche la presenza in servizio degli avvocati dipendenti di enti locali, può essere attestata mediante l'utilizzo di cartellini segnatempo.

Questo è quanto ha affermato il TAR Sardegna con la sentenza 09.06.2016 n. 493.
Nel caso in esame due avvocati, dipendenti comunali, iscritti all'elenco speciale degli avvocati di enti pubblici tenuto dall'Ordine degli avvocati di Cagliari, avevano impugnato una norma del regolamento per il funzionamento dell'Avvocatura comunale secondo la quale «le mansioni degli avvocati non sono assoggettate a vincoli d'orario. La presenza degli stessi in servizio dovrà essere comunque attestata mediante i sistemi automatici delle presenze, compatibilmente con la partecipazione alle udienze giudiziarie e alle altre attività istituzionali».
I ricorrenti lamentavano che gli avvocati dipendenti di Enti pubblici, nell'esercizio delle funzioni di rappresentanza e difesa giudiziale e stragiudiziale dell'Amministrazione, devono essere considerati come dei professionisti e non possono essere costretti ad un'osservanza rigida e rigorosa dell'orario di lavoro alla stessa stregua degli altri dipendenti.
Contrariamente a quanto sostenuto dai legali, invece, i giudici amministrativi ritengono la norma legittima: pur riconoscendo che il sistema automatico di rilevazione delle presenze in dotazione presso l'Ente locale deve essere fornito di idonei correttivi, tali da consentire di rilevare la presenza in servizio dei professionisti legali compatibilmente con la partecipazione alle udienze giudiziarie e alle altre attività istituzionali degli stessi, il collegio reputa la disposizione ragionevole.
È ovvio che una uniforme ed omogenea applicazione dell'orario di servizio e delle connesse modalità di rilevazione delle presenze potrà esigersi nei loro confronti unicamente quando essi non sono impegnati all'esterno dei locali per l'esercizio delle peculiari funzioni loro demandate. Tuttavia, per quanto concerne il restante orario di lavoro, si rileva che alla stregua di tutti gli altri dipendenti dovranno ritenersi sottoposti al potere disciplinare dell'Amministrazione di appartenenza (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016).
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MASSIMA
Una sintesi delle censure proposte dalle ricorrenti è utile ai fini della soluzione della controversia.
L’art. 2, comma 5, del regolamento viene contestato sulla base del fatto che la peculiarità dello status degli avvocati dipendenti della P.A. è incompatibile con l’utilizzo dei sistemi automatici di rilevazione delle presenze. Sussiste, a dire delle ricorrenti, una incompatibilità logica e strutturale tra le mansioni implicate dal profilo professionale di avvocato e il sistema automatico di rilevazione fondato sul c.d. “badge”.
Si deve aggiungere che
le ricorrenti sono dirigenti e quindi non soggette a vincolo d’orario.
L’art. 6, comma 3, viene contestato per le ragioni che seguono.
La disposizione trova la sua fonte negli indirizzi impartiti con la deliberazione della Giunta comunale n. 210/2014 che prevede l’individuazione dello stanziamento di bilancio dell’anno 2013 per compensi e onorari agli avvocati quale tetto massimo di spesa complessivo per le diverse tipologie di compensi.
Tale disposizione è, a dire delle ricorrenti, in violazione di legge e, precisamente, in violazione dell’art. 9, comma 6, del d.l. 90/2014 convertito in L. 114/2014.
La limitazione al corrispondente stanziamento relativo all’anno 2013 è previsto nel comma 6 con esclusivo riferimento alla corresponsione e non “ripartizione” dei compensi professionali nel caso di compensazione integrale delle spese. Tale disposizione non può estendersi, secondo le ricorrenti, al di là di quanto espressamente previsto, fino a ricomprendere anche le somme recuperate a seguito dell’addebito in sentenza delle spese legali a carico della controparte soccombente.
L’unico tetto previsto nella legge ed esteso a entrambe le tipologie di compensi è quello derivante al comma 7 (“i compensi professionali di cui al comma 3 e al primo periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo”).
In ordine all’art. 7, le contestazioni sono molteplici.
Esso viene censurato integralmente sia nella parte in cui assoggetta la ripartizione o la corresponsione di tutti i compensi professionali a una valutazione del rendimento individuale da parte del Nucleo di Valutazione del Comune, sia nella parte in cui detta i parametri di misurazione dell’apporto quali–quantitativo fornito da ciascun avvocato.
La fonte dell’assoggettamento degli avvocati alla valutazione dell’apposito Nucleo dovrebbe essere la disposizione del comma 5 del già citato art. 9 d.l. 90/2014 laddove esso dispone che debbano essere disciplinati i criteri di riparto delle somme secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l’altro della puntualità negli adempimenti processuali.
Secondo le ricorrenti, il rendimento individuale riguarda l’attività di difesa in giudizio effettuata dagli avvocati e non anche l’attività consulenziale.
Le ricorrenti rimarcano poi che il Nucleo di valutazione non è un organo terzo e indipendente.
Esso è infatti presieduto dal Direttore generale del Comune. Sottoporre la valutazione degli avvocati a tale organo significa introdurre, secondo le ricorrenti, una forma di cripto–subordinazione a d un altro dirigente del Comune.
Inoltre, con riguardo alla composizione del Nucleo, va rilevato che esso è composto, oltre che dal Direttore generale, da tre membri esterni esperti in tecniche di gestione, valutazione e controllo di gestione. Nessuna di tali professionalità ha attinenza alcuna con la valutazione del rendimento professionale di un Avvocato.
Le ricorrenti censurano ancora l’art. 7 nella parte in cui definisce i criteri di valutazione.
Anzitutto si rileva la violazione del principio desumibile dal d.lgs. 196/2003 in base al quale i dati personali relativi a terzi non possono essere impunemente diffusi al di là del motivo e della cerchia (legali e addetti) che ad essi ha motivo di accedere ratione officii.
Ciò premesso, i criteri definiti violano la disposizione di legge che prescrive che il rendimento individuale deve essere posto a base del riparto delle somme “secondo criteri oggettivamente misurabili”.
L’art. 5 dell’Accordo 13.01.2015, approvato con la delibera G.C. n. 10/2015 non è stato trasposto nel Regolamento. In esso, si stabiliscono criteri più dettagliati di quelli generici stabiliti dal Regolamento.
Secondo le ricorrenti, gli unici criteri oggettivamente misurabili sono quelli di ripartizione delle somme a seconda dell’apporto individuale, dato dalla trattazione della causa da solo o in Collegio di difesa e dall’eventuale apporto dei colleghi della stessa avvocatura, anche in relazione alla specifica veste di ciascuno (ad es. per le sostituzioni reciproche in udienza). Si tratta dei criteri di riparto di cui all’art. 3 dell’accordo integrativo decentrato 13.01.2015.
Ancora, le ricorrenti rilevano che non si comprende il richiamo alla “puntualità negli adempimenti processuali”. I termini, secondo le ricorrenti, si rispettano o non si rispettano.
Le ricorrenti censurano poi l’art. 8, comma 1, del regolamento laddove si dispone che i compensi sono comprensivi dell’Irap.
Le molteplici questioni sottoposte al Collegio devono essere risolte partendo da una compiuta ricostruzione della figura dell’Avvocato dipendente dell’ente pubblico.
Non sfuggono a questo Giudice la complessità e la delicatezza di tali questioni che involgono da un lato la potestà organizzativa dell’ente pubblico, dall’altro, la tutela della indipendenza della figura dell’Avvocato e della peculiare figura dell’avvocato dipendente dell’ente (con i connessi problemi di conciliare l’appartenenza dell’avvocato pubblico a un ordine professionale e la sua veste di dipendente).
La L. 31.12.2012, n. 247 (Nuova disciplina dell'Ordinamento della professione forense) contiene una specifica disposizione e cioè l’art. 23 (in vigore dal 02.02.2013) dedicata agli Avvocati degli Enti Pubblici che così recita:
1. Fatti salvi i diritti acquisiti alla data di entrata in vigore della presente legge, gli avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici, anche se trasformati in persone giuridiche di diritto privato, sino a quando siano partecipati prevalentemente da enti pubblici, ai quali venga assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta, sono iscritti in un elenco speciale annesso all'albo. L'iscrizione nell'elenco è obbligatoria per compiere le prestazioni indicate nell'articolo 2. Nel contratto di lavoro è garantita l'autonomia e l'indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell'avvocato.
2. Per l'iscrizione nell'elenco gli interessati presentano la deliberazione dell'ente dalla quale risulti la stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente stesso e l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni; la responsabilità dell'ufficio è affidata ad un avvocato iscritto nell'elenco speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i principi della legge professionale.
3. Gli avvocati iscritti nell'elenco sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio dell'ordine
”.
Attenta dottrina ha lucidamente sottolineato che con il nuovo art. 23, rispetto al sistema previgente (r.d.l. 27.11.1933, n. 1578) assumono dignità di legge i profili della piena indipendenza ed autonomia, della esclusività e stabilità nella trattazione degli affari legali, del trattamento economico adeguato alla funzione professionale, quali requisiti, garantiti anche in via contrattuale per l'iscrizione nell'elenco speciale della legge professionale.
Alla affermazione della piena indipendenza ed autonomia dell’avvocato consegue, per espressa disposizione di legge, la limitazione sia dei poteri di organizzazione degli uffici sia della libertà contrattuale delle parti posto che nel contratto di lavoro, appunto, è garantita l'autonomia e l'indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell'avvocato.
In definitiva, una volta che l’Amministrazione costituisce un'avvocatura interna ha l’obbligo di rispettare i principi sopra citati, utilizzare la propria autonomia organizzativa per conformarsi a quelli e applicarli in sede di disciplina contrattuale e regolamentare.
Va poi precisato che siccome il citato art. 23 della L. 247/2012 attribuisce la responsabilità dell'ufficio ad un avvocato e non ad un dirigente amministrativo è evidente che la piena autonomia ed indipendenza non può essere solo rapportata all’ufficio ma anche e sopratutto, al singolo avvocato. I rapporti tra gli avvocati sono di coordinamento; il responsabile deve esercitare una attività di indirizzo nel pieno rispetto delle singole scelte difensive degli altri avvocati.
Svolta questa premessa diventa più agevole risolvere le numerose questioni che le ricorrenti hanno sottoposto al Collegio.
Quanto alla prima censura va rilevato quanto segue.
Intanto va osservato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’Amministrazione, la censura non è tardiva. La mancata impugnazione della nota di servizio del direttore generale prot. 165813 del 31.07.2012 (documento 5 produzioni dell’Amministrazione) non rende tardivo il ricorso qui esaminato per il semplice fatto che quella nota, consistente in un “invito” ad utilizzare il sistema di rilevazione automatica, non ha alcun valore provvedimentale e non doveva pertanto essere impugnata nei termini di decadenza.
La censura va quindi esaminata nel merito.
L’applicazione dei principi sopra riportati e l’analisi dell’art. 23 della L. 247/2012 hanno condotto la giurisprudenza ad affermare che le avvocature degli enti pubblici devono essere costituite in un apposito ufficio dotato di adeguata stabilità ed autonomia organizzativa, nonché distinzione dagli altri uffici di gestione amministrativa al quale devono essere preposti avvocati addetti in via esclusiva alle cause e agli affari legali con esclusione dello svolgimento di “attività di gestione”.
Tali regole costituiscono l’applicazione ai professionisti legali degli enti pubblici, che sono soggetti agli obblighi deontologici e alla vigilanza degli ordini forensi di appartenenza, dei principi che caratterizzano la professione legale, la quale deve essere svolta senza condizionamenti che potrebbero comprometterne l’indipendenza.
Tale principio, già predicabile durante la vigenza dell’art. 3 del R.D.L. 27.11.1933 n. 1578, è ormai previsto esplicitamente dall’art. 23 della legge 31.12.2012, n. 247, il quale, nel dettare la nuova disciplina dell’ordinamento forense, ha chiarito e meglio delineato i requisiti di tale autonomia precisando che deve essere garantita anche sul piano organizzativo (Tar Veneto, Sez. II, 27.11.2015 n. 1274).
Una delle questioni più significative, più volte affrontata dalla giurisprudenza, è proprio quella dell'orario di lavoro e delle concrete modalità di controllo sull'attività di servizio del professionista dipendente.
La Corte Costituzionale (Corte Cost. 28.07.1988, n. 928) aveva inizialmente ritenuto legittima la predisposizione di un orario unico per tutti i dipendenti degli enti pubblici di cui alla legge n. 70 del 1975 e uguale posizione era stata espressa per gli avvocati delle Regioni con la sentenza del 10.06.1988, n. 624. Ma il problema effettivo è sempre consistito nelle modalità di controllo dell’orario data la peculiarità dell'attività legale.
E’ noto ed è questione che non necessita di grande riflessione, che l’attività sia svolta anche per larga parte, fuori dall'ufficio e con orari non preventivabili né prevedibili. Lo stesso lavoro svolto all’interno dell’ufficio è legato a scadenze processuali che possono determinare sovraccarico in alcuni periodi. Tutte situazioni inconciliabili con il rispetto di un orario rigido di permanenza in ufficio. Se è indubbia la necessità di attestare in qualche modo la presenza in servizio, la questione dell'orario è stata risolta nel senso di consentire forme di controllo idonee a conciliare la presenza in ufficio con la peculiare organizzazione del lavoro propria dell’avvocato.
La giurisprudenza amministrativa ha affermato che l'attività degli avvocati, anche se pubblici dipendenti, è soggetta a scadenze e ritmi di lavoro che sfuggono alla potestà organizzativa delle Amministrazioni, dipendendo dalle esigenze dei processi in corso nei quali essi sono impegnati, l'esercizio dell'attività di avvocato pubblico comportando, infatti, operazioni materiali (precipuamente procuratorie) ed intellettuali (esemplificativamente studio delle controversie e predisposizione delle difese) necessitate dai tempi delle scadenze processuali e proiettate all'esterno, direttamente ascrivibili alla responsabilità del professionista che le svolge.
Ne deriva che il principio da tenere fermo è che gli avvocati dipendenti di Enti Pubblici, nell'esercizio delle funzioni di rappresentanza e difesa giudiziale e stragiudiziale dell'Amministrazione, in attuazione del mandato in tal senso ricevuto, sono dei professionisti i quali non possono essere costretti ad un'osservanza rigida e rigorosa dell'orario di lavoro alla stessa stregua degli altri dipendenti, senza tenere conto della peculiarità dell'attività da loro svolta.
Invero, una uniforme ed omogenea applicazione dell'orario di servizio e delle connesse modalità di rilevazione delle presenze può esigersi nei loro confronti unicamente allorquando essi non sono impegnati all'esterno dei locali ove sono ubicati gli uffici dell'Ente di appartenenza per l'esercizio delle peculiari funzioni loro demandate, atteso che, in tal caso, essi (ad eccezione dell'avvocato coordinatore che risponde unicamente al legale rappresentante dell'ente), alla stregua di tutti gli altri dipendenti, devono ritenersi sottoposti al potere disciplinare dell'Amministrazione di appartenenza, ma allorquando una tale evenienza non sussista necessita individuare delle modalità che consentano al professionista di usufruire di una elasticità di azione che non può essere costretta da una rigida e precostituita osservanza dell'orario di servizio (Tar Campania, Napoli, sez. V, 13/04/2012, n. 1727).
Ciò premesso, va rilevato che questione analoga a quella sottoposta a questo Giudice è già stata affrontata dalla giurisprudenza che ha affermato quanto di seguito si riporta:
Questa Sezione ha infatti già statuito (cfr. da ultimo sentenza 24.01.2013, n. 547) ritenendo un'incompatibilità logica e strutturale fra le mansioni implicate dal profilo professionale di avvocato e il sistema automatico di rilevazione fondato sul cd. "badge", ancorché previsto in astratto come alternativo alla rilevazione delle presenze mediante apposito foglio, tenuto conto che, in definitiva, spetta comunque all'amministrazione decidere di quale modalità concreta valersi in un certo momento storico.
Il sistema di rilevazione automatica "si risolve, quanto meno in astratto (anche al di là delle intenzioni di chi decide di adottarlo), in uno strumento idoneo obiettivamente a produrre una limitazione dei profili di autonomia professionale e di indipendenza che vanno invece riconosciuti a questa figura, per prassi amministrativa, dalla costante giurisprudenza e soprattutto nel rispetto della vigente legislazione.
In secondo luogo (...) l'avvocato di un ente pubblico, per intuibili ragioni connesse alle esigenze di patrocinio, è spesso costretto ad assentarsi dal posto di lavoro per raggiungere le sedi giudiziarie dove pendono le controversie in cui è parte l'ufficio da lui rappresentato ed è evidente quanto siffatta necessaria mobilità sia in contrasto con gli obblighi, ma anche con le formalità ed i tempi legati ad un (obbligatorio) utilizzo del badge" e, deve aggiungersi, con la preventiva comunicazione dei servizi esterni a sua volta incompatibile con la spesso non prevedibile esigenza di prestare la propria attività professionale fuori della sede di servizio interno.
"Infine, a definitivo conforto della tesi qui esposta, vale la pena di ricordare che la giurisprudenza -dalla quale non vi è motivo di discostarsi in questa sede- ha costantemente affermato i principi sopra condivisi (cfr., da tempi risalenti, in materia di sistemi di rilevazione automatica della presenza degli avvocati degli enti pubblici questo Tar Campania, Napoli, Sez. II, 04.12.1996 n. 560, secondo cui: "Il provvedimento col quale l'Inps dispone che anche i dipendenti appartenenti al ruolo legale soggiacciano alle medesime procedure di rilevazione automatica delle presenze vigenti per il restante personale, è da considerasi illegittimo perché il lavoro esterno che in talune occasioni può essere richiesto al detto personale, non può giustificare metodi di accertamento del rispetto dell'orario di servizio differenti
" (Tar Campania, Napoli, sez. V, 17/02/2014, n. 1045).
Ma questa posizione non è condivisa dal Collegio.
Intanto va chiarito che il regolamento approvato dal Comune di Cagliari non prevede (né pretende) una rigida applicazione del sistema automatico della rilevazione delle presenze. Sono previsti idonei correttivi e tanto basterebbe a ritenere infondata la censura.
Il sistema automatico di rilevazione delle presenze è applicato “compatibilmente con la partecipazione alle udienze giudiziarie ed alle altre attività istituzionali”.
Non si può poi mancare di osservare che
quello che viene comunemente chiamato “badge” per la rilevazione delle presenze non è (non è più) quello che in passato era un comune apparecchio “marcatempo”.
Oggi, un sistema di rilevazione delle presenze è un insieme di apparecchiature che registrano il passaggio dei dipendenti in entrata e in uscita, collegate ad un personal computer su cui è installato un complesso software di gestione.
Quel che caratterizza questi sistemi (è fatto notorio) è l'alta configurabilità del software di gestione che rende possibile adattare il sistema automatico a qualsiasi realtà organizzativa, anche alla più particolare.
Si deve quindi concludere che la disposizione regolamentare impugnata, tenuto conto della clausola che consente l’adattabilità del sistema alla particolarità della posizione degli avvocati, non sia da considerarsi illegittima.

Il primo motivo di ricorso è quindi infondato.
In ordine alla seconda censura va anche qui descritto il quadro giuridico di riferimento.
Questo perché anche la retribuzione è indice della doppia identità dell'avvocato dipendente.
In linea generale, accanto ad una quota di retribuzione ricollegabile allo stipendio tabellare e alle relative voci integrative ed accessorie, l’avvocato alle dipendenze degli enti pubblici riceve una quota di compensi regolamentati sulla base della propria attività professionale, di importo variabile.
La Corte Costituzionale (Corte Cost., 06.02.2009, n. 33) pronunciandosi sulla legittimità dell'art. 1, c. 208, della l. 23.12.2005, n. 266, disposizione che consente alle amministrazioni dotate di uffici legali interni di effettuare, sulle somme dovute ai legali dipendenti a titolo di compensi professionali, la trattenuta degli oneri previdenziali ha fondato la propria decisione sul presupposto della natura retributiva del trattamento economico corrisposto agli avvocati degli enti pubblici, comprensivo, in aggiunta allo stipendio tabellare, di una quota di retribuzione quantificata sulla base di legge e tariffe professionali forensi.
La Corte dei Conti, Sez. Giur. della Regione Lombardia con un parere del 16.02.2016 (n. 44) si è espressa sugli onorari spettanti agli avvocati appartenenti alle avvocature degli enti pubblici affermando che “la previsione contenuta nell’art. 9, comma 3, ultimo periodo del D.L. n. 90/2014, convertito dalla L. 11.08.2014, n. 114 (secondo cui “la parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell’amministrazione”), deve intendersi nel senso che l’ente locale può stabilire, con il regolamento previsto dalla norma di finanza pubblica, di destinarne in favore dei dipendenti avvocati solo una quota della somma riscossa dalla controparte che è stata condannata al pagamento delle spese di lite. Infatti, l’art. 3 cit. consente all’amministrazione locale di determinare, oltre che le modalità, la “misura” del compenso spettante al dipendente avvocato.
La previsione contenuta nell’art. 9, comma 6, del D.L. n. 90/2014 (che fa riferimento allo “stanziamento relativo all’anno 2013”) lascia alla contrattazione integrativa la competenza a determinare i criteri di riparto dei compensi, fermi restando tre tetti:
a) il primo è quello retributivo individuale generale, per cui ai sensi dell’art. 23-ter del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito in L. 22.12.2011, n. 214, in base alla norma estensiva dell’art. 1, commi 471 ss., della L. 147/2013, anche gli enti locali dovranno dare applicazione al DPCM 23.03.2012; negli emolumenti percepiti vanno calcolati tutti i compensi professionali percepiti in funzione delle sentenze favorevoli, senza distinzione tra sentenze con vittoria o compensazione di spese;
b) il secondo è quello retributivo individuale specifico, per cui i compensi professionali percepiti dall’avvocato interno nell’anno non possono eccedere il suo trattamento economico complessivo, da percepirsi nello stesso anno (per il calcolo del quale è possibile fare riferimento per analogia alla norma dell’art. 9, comma 1, del D.L 31.05.2010, n. 78, che comprende anche il trattamento accessorio);
c) il terzo è quello finanziario collettivo (assente nelle sentenze favorevoli con vittoria di spese), previsto in caso di sentenza favorevole con compensazione delle spese o con transazione, in quanto l’ente non può stanziare somme superiori allo stanziamento corrispondente previsto nell’anno 2013. In tal caso i criteri di assegnazione del compenso seguono le norme regolamentari o contrattuali vigenti.
Ai fini della corresponsione dei compensi dovuti agli avvocati di Enti pubblici per l’attività professionale prestata, il tetto massimo è quello retributivo individuale specifico, per cui i compensi professionali percepiti dall’avvocato interno nell’anno non possono eccedere il suo trattamento economico complessivo, da percepirsi nello stesso anno (per il calcolo del quale è possibile fare riferimento per analogia alla norma dell’art. 9, comma 1, del DL 31.05.010, n. 78, che comprende anche il trattamento accessorio). Il limite, essendo rapportato ad un’annualità, è apposto non solo alla misura dell’incentivo del singolo incarico, ma anche alla sommatoria degli incentivi relativi agli incarichi eseguiti, anche parzialmente, nel corso dell’anno
”.
Quel che è chiaro è che la legge attribuisce alle Amministrazioni il potere di stabilire la misura della ripartizione delle somme liquidate in sentenza e quindi un tetto massimo.
Va incidentalmente osservato quanto segue.
E’ la contrattazione l'ambito naturale della disciplina dei compensi professionali. Si tratta di una materia dove il potere unilaterale dell'amministrazione è limitato alla disciplina esecutiva e di dettaglio e l’Amministrazione di questo dovrà tenere conto.
Tutto ciò rilevato, il secondo motivo di ricorso non può comunque essere accolto per i motivi sopra esposti.
In ordine al terzo motivo di ricorso occorre osservare quanto segue.
L’art. 7 impugnato prevede che la ripartizione dei compensi professionali agli avvocati è soggetta ad una valutazione di rendimento individuale e attribuisce tale valutazione al Nucleo di valutazione del Comune.
Tre sono le contestazioni mosse all’art. 7 del Regolamento impugnato:
1) la valutazione non potrebbe riguardare anche l’attività di consulenza legale;
2) la valutazione non poteva essere attribuita al Nucleo di valutazione;
3) i criteri per la valutazione degli avvocati non sarebbero oggettivamente misurabili.
La questione sottoposta al Collegio non è nuova.
La Corte dei conti, Campania, in sede consultiva, con delibera 14/2009/PAR, depositata il 26/03/2009, ha avuto modo di esaminare la questione dei limiti entro i quali è consentito di sottoporre l'avvocato dipendente da ente pubblico a valutazione del nucleo di valutazione dell'amministrazione.
La problematica è stata esaminata in vigenza del r.d.l. n. 1578 del 1933. I principi allora affermati devono pertanto tenere in debito conto della L. 247 del 2012. La giurisprudenza, anche della Corte costituzionale, ha valorizzato la posizione di esclusività delle prestazioni, di autonomia e di indipendenza dell’avvocato pubblico (tra le altre, Corte Costituzionale, 21.11.2006, n. 390) ammettendo però una autonomia degli enti locali in materia di istituzione di propri organi tecnico-legali (Tar Lazio, Roma. Sez. III, 30.11.1990, n. 1886).
In linea generale, pur tenendo conto della particolarità degli avvocati degli enti pubblici, non può ritenersi preclusa la loro sottoposizione a un’attività di valutazione esercitata da organi degli enti stessi nell’ambito dei controlli interni previsti dalla legge e da contratti collettivi di lavoro nazionali o decentrati, e ciò sia nei confronti di avvocati rivestenti qualifica dirigenziale sia per figure apicali e non dirigenziali.
E’ però chiaro che qualunque modalità di valutazione posta in essere nei confronti del personale di avvocatura di enti locali, non può espandersi sino a prevedere ‑espressamente o surrettiziamente- forme di condizionamento e di soggezione che introducano una non tollerabile ingerenza nell’autonomia di giudizio e di iniziativa nella trattazione degli affari giuridico-legali attinenti specificamente alle competenze che il professionista può svolgere in virtù della sua iscrizione al relativo albo professionale
(Corte di cassazione, Sez. un., 18.04.2002, n. 5559; Corte costituzionale, 21.11.2006, n. 390 cit.).
La Corte dei Conti (Sezione regionale di controllo per la Campania Del/Par n. 14/2009) concludeva affermando che “
Resta dunque affidato alla equilibrata discrezionalità degli enti interessati l’esercizio al riguardo dei poteri statutari e regolamentari di auto-organizzazione nel rispetto delle già illustrate peculiarità tipiche della funzione svolta dagli avvocati pubblici, che, pur se professionalmente incardinati nelle strutture operative degli enti locali, restano tuttavia sostanzialmente “estranei all’apparato amministrativo” (Corte di cassazione, Sezioni unite civili, 18.08.2002, n. 5559 cit.) e “posti in diretta connessione unicamente con il vertice decisionale dell’ente, al di fuori di ogni intermediazione (Tar Sardegna, Sezione II, 14.01.2008, n. 7; cfr. anche Consiglio di Stato, Sezione V, 16.09.2004, n. 6023 cit.).
Il Collegio condivide questa impostazione e non può che concludere per la legittimità della disposizione regolamentare impugnata.
Non può sfuggire il fatto che la stessa è effettivamente (come affermano le ricorrenti) del tutto generica e tale genericità non può che essere dovuta proprio alla peculiare posizione degli avvocati degli enti locali. Peraltro, nella parte in cui il regolamento fa riferimento alla predisposizione della relazione da parte dell’avvocato Coordinatore, si rende possibile un apporto alla valutazione proprio da parte dell’unico soggetto effettivamente competente ad effettuarla. Non può poi sfuggire che i criteri di valutazione individuati dall’impugnato art. 7 sono così generici da non produrre alcuna lesione in capo alle ricorrenti.
Una analisi degli stessi aiuta a comprendere la situazione.
In ordine alla “tempestività negli adempimenti processuali” quanto affermato dalla difesa delle ricorrenti corrisponde al vero e cioè che un adempimento o scade o non scade. Non vi sono pertanto margini di discrezionalità né particolari valutazioni che dovranno essere effettuate dal Nucleo.
In ordine alla “tempestività nella resa di pareri ai servizi comunali” la valutazione non potrà che essere effettuata sulla base della relazione dell’avvocato coordinatore.
Altrettanto si può dire per gli altri criteri quali la “capacità di analisi e problem solving” la “polivalenza funzionale e versatilità nell’assolvimento delle attribuzioni di competenza” e la “capacità di interlocuzione e confronto a supporto degli altri servizi”.
Analizzando compiutamente la disposizione regolamentare impugnata, l’unica lettura che se ne può dare è che la valutazione del Nucleo non potrà in alcun modo entrare nel merito né delle consulenze rese dagli avvocati né dell’attività processuale. Intanto perché i membri del Nucleo non sono, all’evidenza, competenti a farlo, poi perché il secondo capoverso del comma 4, limita del tutto la valutazione all’esame della relazione del coordinatore e ai criteri sopra indicati che non potranno in alcun modo entrare nel merito delle consulenze (ma solo sulla tempestività) e dell’attività processuale (ma solo sul rispetto formale dei termini).
La censura è quindi infondata.
In ordine all’art. 8, comma 1, del regolamento, le censure delle ricorrenti sono sicuramente fondate.
E’ pacifico che soggetto passivo dell’IRAP, ossia obbligato in proprio al pagamento nei confronti dell’erario, è l’ente pubblico.
Il presupposto dell’imposta indicato dall’art. 2 del d.lgs. 446 del 1997 e successive integrazioni è infatti costituito dall’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. Il successivo articolo 3 individua i soggetti passivi dell’imposizione; la mancata esplicita inclusione tra i soggetti passivi dei lavoratori dipendenti comporta ex se la inapplicabilità del tributo in esame all’avvocatura interna degli Enti.
Conseguentemente l’onere fiscale inerente l’IRAP non può gravare sul lavoratore dipendente ma unicamente sull’ente datore di lavoro.

Non sfugge a questo Collegio che la questione è stata anche affrontata dalla Corte dei Conti, sezione regionale Liguria che, con la deliberazione n. 38/2014 del 30.05.2014 ha affermato:
- "Al riguardo rappresenta un punto fermo la pronuncia delle Sezioni Riunite della Corte dei conti che, con deliberazione n. 33 del 30.05.2010 resa in funzione nomofilattica (ai sensi dell'articolo 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102), soffermandosi sulle modalità di determinazione del compenso spettante al dipendente avvocato in caso di vittoria in sede giudiziale, hanno affermato quanto segue: Può concludersi nel senso che, mentre sul piano dell'obbligazione giuridica, rimane chiarito che l'Irap grava sull'amministrazione (secondo blocco delle citate disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di 'tutti gli oneri', l'amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l'onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico ... Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l'Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l'avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante sull'amministrazione";
- "Pertanto due sono i punti fermi espressi dalla delibera citata. Da una parte l'Irap grava, giuridicamente, sull'amministrazione comunale e non poteva essere deciso diversamente in quanto il presupposto stesso dell'imposta, indicato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997 e successive integrazioni, è, infatti, costituito dall'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. La disposizione è strettamente collegata al successivo articolo 3, che individua i soggetti passivi dell'imposizione; la mancata esplicita inclusione tra i soggetti passivi dei lavoratori dipendenti comporta, ex se, la inapplicabilità del tributo in esame all'avvocatura interna degli Enti (delibera n. 34/2007 Sezione di controllo per l'Emilia Romagna). Dall'altra parte, però, le somme destinate al pagamento dell'Irap devono trovare copertura finanziaria nell'ambito dei fondi destinati a compensare l'attività dell'avvocatura comunale nel rispetto del principio di cui all'art. 81, comma 4 della Costituzione: 'le somme indicate per fronteggiare in materia di pubblico impiego gli oneri di spesa, ivi inclusi i fondi di produttività e per i miglioramenti economici, costituiscono le disponibilità complessive massime e, pertanto, non superabili. In sostanza, sui bilanci dello Stato o degli altri enti pubblici, non potranno gravare ulteriori oneri che non trovino adeguata copertura' (Sez. Controllo Piemonte, delibera n. 16/2012)";
- in conclusione, l'IRAP va esclusa "dall'ambito degli oneri riflessi restando in capo all'Ente l'obbligo giuridico di provvedere al pagamento della stessa. Contestualmente, però, le risorse per finanziare il pagamento del tributo devono gravare sui fondi destinati a compensare l'attività dell'avvocatura comunale" (Corte dei Conti Liguria deliberazione n. 38/2014 del 30.05.2014).
Ma la soluzione proposta non è assolutamente condivisibile.
L’Irap deve essere pagata dall’Ente pubblico e non può essere considerata a carico del dipendente, ovviamente, salvo diverso accordo contrattuale esplicitamente previsto. Questo principio, affermato dalla Suprema Corte con sentenza n. 20917 del 12.09.2013, è talmente pacifico che non necessita di particolare approfondimento.
Tale assunto è da estendere, chiaramente, a qualsiasi dipendente pubblico. Affermare il principio per cui il soggetto passivo d’imposta è l’Ente pubblico ma che le relative somme devono essere trattenute al dipendente significa confondere norme contabili con norme tributarie.

L’Irap, come è noto, non è un onere riflesso e di conseguenza, lo si ribadisce, non può gravare sul lavoratore dipendente in relazione ai compensi di cui è pacifica la natura retributiva, quali ad esempio i compensi aggiuntivi agli avvocati interni all’ente (ma anche ogni retribuzione aggiuntiva quale ad esempio l’incentivo ai progettisti interni). A questa conclusione era peraltro già giunta l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 123/2008 con argomentazioni oggi ancora valide.
Dal compenso lordo, legislativamente o contrattualmente previsto, si possono sottrarre solo gli oneri riflessi e non anche l’Irap che, appunto, non rientra in tale categoria. L’Irap, come è del tutto pacifico (si veda peraltro, Corte costituzionale n. 156 del 2001), colpisce un fatto economico diverso dal reddito comunque espressivo di capacità contributiva in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti, che concorrono alla sua creazione.
Insomma,
il carico d’imposta non può essere trasferito unilateralmente da un soggetto all’altro e meno che meno con una norma regolamentare che determinerebbe una impropria traslazione dell’imposta comportante, tra l’altro, la trasformazione della stessa in imposta sul reddito.
Il motivo è pertanto fondato.
Il ricorso è, in definitiva fondato nei limiti esposti in motivazione.

EDILIZIA PRIVATASecondo costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai fini del regime premiale di cui all'art. 9, comma 1, lettera f), della legge nr. 10/1997 (ora art. 17, comma 3, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380), è indispensabile accertare la sussistenza di due profili, uno di carattere soggettivo, l’altro oggettivo.
Sotto il primo aspetto, bisogna tenere conto delle specifiche qualità soggettive del richiedente il titolo abilitativo: alla luce, infatti, dell’evoluzione del concetto di pubblica amministrazione, inteso non più meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le amministrazioni formalmente previste e riconosciute come tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori individuali, società per azioni) che esercitino un’attività pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di longa manus della p.a..
Tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia legata a un interesse generale da un nesso di mera strumentalità.
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla base della sola destinazione che il titolare dell’opera intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non provocando un’evidente elusione del sistema normativo che prevede come regola generale, in un’ottica di corretto governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost., l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di stretta interpretazione.
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6. Fondato è invece il terzo motivo, col quale il Comune appellante si duole del fatto che il giudice di primo grado non abbia fatto buon governo della consolidata interpretazione della norma di cui al citato art. 9, comma 1, lettera f), della legge nr. 10/1997 (ora art. 17, comma 3, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380) la quale prevede che: “…Il contributo di cui al precedente art. 3 non è dovuto (…)per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Ad avviso dell’appellante, in particolare, tenuto conto della specifica opera in costruzione (edificio destinato a ospitare le strutture tecnico-amministrative della società), non poteva ritenersi integrato il requisito oggettivo necessario per l’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Tale prospettazione merita condivisione in ragione delle seguenti considerazioni.
6.1. Va innanzi tutto premesso, che, secondo costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai fini del regime premiale di cui alla norma citata, è indispensabile accertare la sussistenza di due profili, uno di carattere soggettivo, l’altro oggettivo.
Sotto il primo aspetto, bisogna tenere conto delle specifiche qualità soggettive del richiedente il titolo abilitativo: alla luce, infatti, dell’evoluzione del concetto di pubblica amministrazione, inteso non più meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le amministrazioni formalmente previste e riconosciute come tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori individuali, società per azioni) che esercitino un’attività pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di longa manus della p.a..
Tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia, per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia legata a un interesse generale da un nesso di mera strumentalità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2014, nr. 3421; id., sez. V, 07.05.2013, nr. 2467; id., sez. IV, 02.03.2011, nr. 1332; id., sez. VI, 05.06.2007, nr. 2981).
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla base della sola destinazione che il titolare dell’opera intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non provocando un’evidente elusione del sistema normativo che prevede come regola generale, in un’ottica di corretto governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost., l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di stretta interpretazione.
6.2. Da tali considerazioni discende che, nel caso di specie, pur essendo pacifica la natura di affidataria di servizio pubblico della società richiedente il titolo edilizio (circostanza peraltro non contestata dal Comune), la stessa, con il titolo abilitativo richiesto, ha inteso realizzare una “struttura destinata ad ospitare le attività direzionali/amministrative”, la cui evidente polifunzionalità, anche alla luce della natura privatistica della società stessa, impedisce l’esclusiva funzionalizzazione della stessa a scopi unicamente pubblicistici.
A fronte di ciò, poco condivisibilmente il primo giudice ha giustificato la natura pubblicistica dell’opera sulla base della destinazione del suolo su cui la stessa doveva essere eretta (zona F4), laddove invece la verifica deve essere evidentemente condotta esclusivamente sulle caratteristiche intrinseche dell’opera, e non su elementi esteriori quale è la disciplina urbanistica (peraltro suscettibile di variazioni) del territorio su cui la stessa deve essere collocata.
7. L’accoglimento del motivo di appello testé esaminato, essendo ex se sufficiente a far concludere nel senso della fondatezza dell’impostazione del Comune, esonera il Collegio dall’esame della questione posta col quarto mezzo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.06.2016 n. 2394 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIPer rettificare un Docfa è necessario il sopralluogo. Catasto. Classamento.
La rettifica della rendita catastale proposta tramite procedura Docfa deve passare attraverso un sopralluogo e deve contenere i motivi tecnici e le valutazioni effettuate per soddisfare la motivazione e confutare le argomentazioni del contribuente e non rileva il classamento delle unità dello stesso stabile. In caso di omesso sopralluogo, poi, il contribuente può sempre provare classamento e rendita proposti tramite perizia giurata di stima che è da ritenersi valida in caso di mancata contestazione.
Queste le conclusioni della Ctr Liguria, sentenza 25.05.2016 n. 747/5/2016 (presidente Pasca, relatore Laurenzana).
La controversia
Due fratelli modificano la distribuzione degli spazi interni della loro unità immobiliare e presentano la dichiarazione Docfa proponendo nuovi classamento (categoria A/2, classe 3) e rendita (1.859 euro). Ma l’amministrazione rettifica il classamento in A/1, classe 4 e la rendita in 3.977 euro.
I contribuenti si oppongono in Ctp, sostenendo che per rettificare il classamento Docfa è necessaria l’effettuazione di un’attività istruttoria, quale il sopralluogo la cui omissione genera il difetto di motivazione dell’atto.
Entrando nel merito i due fratelli evidenziavano inoltre che le caratteristiche intrinseche ed estrinseche dell’immobile lo inquadrano correttamente in A/2, come avallato dalla perizia giurata di un geometra.
L’amministrazione resiste in giudizio. Secondo l’ufficio la rettifica è motivata anche senza sopralluogo, in quanto l’unità immobiliare possiede “ex se” caratteristiche intrinseche di signorilità con un valore facilmente stimabile. Nel merito, poi, l’amministrazione sottolinea che abitazioni simili situate nello stesso stabile sono censite in A/1 e spetterebbe quindi al contribuente provare che il classamento proposto è stato attribuito in tempi recenti dall’amministrazione anche ad altri immobili della zona con analoghe caratteristiche.
La decisione
La Ctp dà ragione all’amministrazione, ma la Ctr accoglie l’appello proposto per i seguenti motivi:
l’amministrazione per la rendita proposta dal contribuente con Docfa, non può classificare deliberatamente l’immobile quale abitazione signorile di categoria A/1 senza avere prima effettuato il sopralluogo e spiegato i motivi tecnici e le valutazioni effettuate. A questo fine non conta che le unità immobiliari dello stesso stabile siano accatastate in categoria A/1 in quanto l’amministrazione deve comunque motivare l’atto impositivo e confutare, se documentate, le contrapposte argomentazioni del contribuente;
il contribuente, se propone con Docfa la rendita, in caso di omesso sopralluogo da parte dell’amministrazione, può provare classamento e rendita tramite perizia giurata di stima da parte di un tecnico, corredata da foto e contenente le caratteristiche abitative intrinseche dell’immobile quali struttura, opere esterne, dimensioni, qualità delle parti comuni, ampiezza vani, distribuzione vani, servizi e rifiniture in grado escludere le caratteristiche di pregio proprie delle abitazioni di pregio di categoria catastale A /1;
in assenza di contestazione della perizia da parte dell’amministrazione il classamento proposto è da ritenersi legittimo
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Processo amministrativo, l'avvocato è obbligatorio.
Inutile provarci. Anche chi è in possesso della laurea magistrale in giurisprudenza ma non ha conseguito l'abilitazione forense non può difendersi da solo nel giudizio amministrativo e deve rivolgersi a un avvocato vero. E ciò anche se la controversia riguarda soltanto una carta di identità non valida per l'espatrio laddove il cittadino chiede che sia rimosso il vincolo apposto dalla questura.
Il Codice del processo amministrativo, infatti, impone il conseguimento dell'abilitazione per poter patrocinare le cause e l'obbligo di difesa tecnica, lungi dall'essere superato dalla realtà dei fatti, costituisce una misura dettata a tutela del cittadino e del suo diritto alla Giustizia.

È quanto emerge dalla sentenza 18.05.2016 n. 504, pubblicata dalla I Sez. del TAR Liguria.
Il ricorso in questione, dunque, non può essere esaminato dai giudici perché chi l'ha presentato ammette di non aver superato le prove di legge necessarie ex artt. 22 e 23 del dlgs 104/2010 per patrocinare se stesso o altri davanti al tribunale amministrativo.
Il ricorrente ha sì conseguito il massimo titolo esistente in legge, come riconosce lo stesso collegio chiamato a pronunciarsi sulla questione, ma la necessità di rivolgersi a un tecnico abilitato resta tuttavia estesa a tutti e senza eccezioni. E non giova al ricorrente sostenere durante la Camera di consiglio che l'obbligo di difesa tecnica sarebbe ormai contrario all'art. 24 della Costituzione. Più volte, infatti, la Consulta si è pronunciata sulla legittimità delle norme in materia.
«In ogni caso», si legge in sentenza, «ammettere ogni cittadino a rappresentare se stesso in tribunale costituirebbe una riduzione della tutela e non un incremento». Anche per i giudici, quindi, la presenza dell'avvocato al fianco della parte rappresenta un rafforzamento della capacità di chi si rivolge alla giustizia. L'interessato dovrà quindi superare gli esami di stato se vuole che le sue censure contro il provvedimento amministrativo siano prese in considerazione dai magistrati (articolo ItaliaOggi del 25.08.2016).
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MASSIMA
Il dottor En.Ie. in proprio chiede che il tribunale amministrativo annulli gli atti emarginati, ed ha per ciò notificato il ricorso depositato il 29.04.2016, con cui chiede altresì adottarsi una misura cautelare.
Con decreto 03.05.2016, n. 91 il presidente del tribunale amministrativo ha disatteso la domanda interinale del ricorrente.
L’amministrazione statale si è costituita in causa con memoria, ed ha allegato una difesa con dei documenti.
Con successivo atto si è costituito in causa il comune di Andora che ha chiesto dichiararsi inammissibile e respingersi il ricorso.
Il collegio può pronunciare una sentenza brevemente motivata, vista la rituale instaurazione del contraddittorio, la proposizione della domanda cautelare e la sussistenza di un profilo di inammissibilità del ricorso.
Il ricorrente dichiara infatti di aver conseguito la laurea magistrale in giurisprudenza, ma tale qualificazione non è sufficiente (artt. 22 e 23 del d.lvo 2.7.2010, n. 104) a conferire il titolo a difendere sé od altri avanti al tribunale amministrativo: non ricorrono infatti le situazioni descritte dall’art. 23 del codice del processo amministrativo per esonerare la parte dell’obbligo di munirsi di un difensore abilitato, prima di proporre l’impugnazione in esame.
Nel corso della camera di consiglio l’interessato ha specificato che la persistente previsione dell’obbligo di conseguire l’abilitazione per essere dotati della capacità di difendere in giudizio risponde ad un’esigenza superata dalla realtà, e contraria all’art. 24 cost.
Il tribunale non può condividere tale assunto, posto che
la giurisprudenza della corte costituzionale si è più volte pronunciata nel senso della piena compatibilità con la Costituzione dell’obbligo di dotarsi di una difesa tecnica; a ben vedere si tratta con ciò di un rafforzamento della capacità di chi si rivolge alla Giustizia, posto che allo stato dell’evoluzione della società si deve ritenere che ammettere ogni cittadino alla personale difesa nei tribunali costituirebbe una menomazione della tutela, e non già una sua implementazione.
Nel caso in questione l’interessato dichiara di essersi laureato in materie giuridiche, cosa che non è di tutti, sì che comunque la realtà pone delle differenziazioni a cui il legislatore ha inteso porre rimedio prevedendo il generale obbligo di difesa tecnica.

Il ricorrente ammette di non aver superato le prove di legge a tale riguardo, dal che consegue che il collegio non può prendere in esame le censure, dovendosi limitare a dichiarare l’inammissibilità del ricorso.
Le spese possono essere compensate, attesa l’oggettiva anomalia della vicenda.

EDILIZIA PRIVATANon può sostenersi che le opere eseguite (da considerare unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere necessitanti del previo permesso di costruire, perché comportano una permanente e significativa trasformazione del territorio.
Invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in muratura necessita del permesso di costruire, non essendo sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una D.I.A./S.C.I.A..
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Nel caso di specie, i ricorrenti hanno presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
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L’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere, ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio, trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto distinti.
Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione della demolizione irrogata dal Comune per la verificata mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua sostituzione con la sanzione pecuniaria.
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Per giurisprudenza consolidata, l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella constatazione della loro esecuzione in mancanza del necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento;
Ancora di recente si è precisato che per i provvedimenti di ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.

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Richiede un ulteriore approfondimento la questione del rapporto tra procedimento di rilascio del parere di compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia delle opere eseguite.
Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, dell’ordinanza del Comune di Fondi n. 31 del 09.03.2015, notificata il 17.03.2015, recante ingiunzione di demolire le opere abusive ivi descritte, realizzate in loc. Torre Canneto;
...
1. I sigg.ri Gi.Ma. e Pa.Lu. espongono di essere proprietari di un fondo rustico in Fondi, loc. Torre Canneto, ubicato in zona soggetta a vincolo paesaggistico, e di aver richiesto al Comune di Fondi il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una recinzione di detto fondo.
1.1. In data 06.08.2013 il Comune rilasciava il nulla osta paesaggistico per la realizzazione della recinzione con muretto e rete soprastante su un solo lato (dalla parte di via L. Cristini), mentre per gli altri confini veniva autorizzata la messa in opera di paletti e rete metallica.
1.2. Gli esponenti in data 21.03.2014 comunicavano all’Amministrazione comunale l’inizio di lavori di manutenzione ordinaria, costituiti dalla sistemazione del giardino e dalla realizzazione del muro di cinta con cancello, e di seguito davano corso ai lavori.
1.3. In particolare, procedevano a realizzare la recinzione con cordolo in muratura per tutti i lati del lotto, nonché ad appoggiare sul terreno piastre precompresse da giardino (senza stabilità alcuna) ed a porre cancelli di entrata.
1.4. Con ordinanza n. 71 del 31.03.2014 la P.A. ingiungeva l’immediata sospensione dei lavori, cui faceva poi seguito l’ordinanza n. 31 del 09.03.2015, recante ingiunzione di demolizione delle opere eseguite (recinzione in muratura e paletti di ferro del terreno; al suo interno, pavimentazione in marmette prefabbricate di circa mq. 130, delimitata con cigli; due tratti di delimitazione dell’area, con all’interno parziale posa di brecciame), in quanto abusive.
...
3.3. Va premesso che, come già osservato in sede cautelare, è indiscutibile la difformità delle opere eseguite rispetto ai titoli vantati dai ricorrenti: questi, infatti, da un lato hanno presentato istanza di permesso di costruire in data 10.01.2013, ma ad oggi siffatto permesso non risulta rilasciato e, nonostante ciò, le opere sono state ugualmente realizzate.
Dall’altro, hanno ottenuto dal Comune di Fondi l’autorizzazione paesaggistica n. 365 del 06.08.2013, che però riguarda la realizzazione di un cordolo e del muro di recinzione solo dal lato di via L. Cristini, mentre per gli altri confini della proprietà consente soltanto la messa in opera di paletti e rete.
In terzo luogo, hanno presentato il 21.03.2014 comunicazione di inizio lavori di “manutenzione ordinaria”, ma è evidente che i lavori effettivamente eseguiti –per come descritti nella stessa comunicazione (riparazione della corte nel giardino; sostituzione del mattonato appoggiato senza malta cementizia, né leganti; realizzazione di muro di cinta con cancello)– esorbitano dalla manutenzione ordinaria.
3.4. Ciò premesso, le doglianze dedotte dai ricorrenti si rivelano destituite di fondamento giuridico, per le seguenti ragioni:
- non può sostenersi che le opere eseguite (da considerare unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere necessitanti del previo permesso di costruire, perché comportano una permanente e significativa trasformazione del territorio;
- ed invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in muratura necessita del permesso di costruire, non essendo sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una D.I.A./S.C.I.A. (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 25.09.2013, n. 2017; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.04.2012, n. 1542; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 11.09.2009, n. 8644);
- nel caso di specie, come detto, i ricorrenti hanno presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
- nessuna censura (di contraddittorietà o altro) può essere avanzata nei confronti dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata ai ricorrenti dal Comune di Fondi nel 2013, che “copre” la costruzione della recinzione in cordolo e muratura soltanto dal lato di via L. Cristini, non avendo detta autorizzazione formato oggetto di impugnativa da parte dei ricorrenti;
- l’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere, ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio, trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto distinti. Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione della demolizione irrogata dal Comune per la verificata mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua sostituzione con la sanzione pecuniaria;
- per giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014, n. 1100; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.06.2013, n. 956; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.09.2010, n. 17302), l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella constatazione della loro esecuzione in mancanza del necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento;
- ancora di recente si è precisato (C.d.S., Sez. V, 11.07.2014, n. 3568) che per i provvedimenti di ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 08.09.2015, n. 603; id., 11.12.2013, n. 963).
4. Richiede un ulteriore approfondimento la questione del rapporto tra procedimento di rilascio del parere di compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia delle opere eseguite. Ciò, in ragione del rilascio da parte della Regione Lazio, con determinazione n. 400597 del 29.01.2016, del parere positivo circa la compatibilità delle opere stesse sotto il profilo paesaggistico.
4.1. L’assunto del Collegio poc’anzi illustrato –secondo cui i due procedimenti in questione sono e devono restare distinti ed autonomi– trova conferma, anzitutto, nel dato normativo di riferimento e cioè nello stesso art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, nonché, in secondo luogo, nella determinazione della Regione Lazio del 29.01.2016, ora citata.
4.2. Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
In questo senso è, poi, decisiva la determinazione della Regione Lazio n. 400597 del 29.01.2016, la quale, nell’accertare la compatibilità dal lato paesaggistico delle opere, al par. 2 del dispositivo recita: “la presente determinazione è rilasciata ai soli fini paesaggistici. Il Comune dovrà accertare, nella propria competenza, l’ammissibilità o meno del progetto in ordine alle vigenti norme urbanistiche ed edilizie e a vincoli di altra natura, nonché alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali e sovra comunali”.
4.3. Alla luce di quanto appena visto, non può perciò ammettersi una ricaduta del parere favorevole della Regione (e di quello altrettanto favorevole emesso dalla Soprintendenza) sulla qualificazione dell’intervento sotto l’aspetto edilizio: qualificazione che resta rimessa in via esclusiva alla sfera di attribuzioni del Comune e che, nel caso di specie, appare corretta e condivisibile, visto che le opere eseguite non possono certo ritenersi dei semplici lavori di manutenzione ordinaria rispetto a quanto autorizzato nel 2013.
Dal punto di vista edilizio, appare evidente l’abuso commesso dai ricorrenti, i quali hanno eseguito opere che incidono sull’assetto del territorio, senza alcun titolo edilizio ed anzi in contrasto con l’autorizzazione del 2013: il richiamo, nell’ordinanza impugnata, alla possibilità di chiedere una sanatoria (evidentemente riferito alla sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001), lungi dal denotare un’ulteriore incongruità del provvedimento, come lamentato dai ricorrenti, è invece del tutto coerente con la normativa di settore, poiché l’ottenimento della sanatoria edilizia ex art. 36 cit. precluderebbe i successivi sviluppi del procedimento sanzionatorio, ed in particolare l’acquisizione gratuita.
5. In definitiva, pertanto, il ricorso è nel suo complesso infondato e da respingere (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.05.2016 n. 317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn abuso consistente in una realizzazione doppia rispetto a quella consentita (165 mq. rispetto a 83 mq.) esclude ex se che la fattispecie possa rientrare nelle ipotesi delineate dalla nota Mibact 13.09.2010 prot. n. 1672, circolare invocata, ossia della non percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore.
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E' legittimo che, in presenza di un abuso ictu oculi non sanabile, il Comune possa rigettare l’istanza di sanatoria (ex art. 167 dlgs 42/2004) senza coinvolgere l’Amministrazione dei beni culturali.

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10. Parimenti infondato è il ricorso della sig.ra Sc..
11. La presentazione di un’istanza di sanatoria, respinta dal Comune di Assisi, con ordinanza n. 312, prot. 30027, del 05.08.2010, avverso la quale l’interessata propose, in primo gado, motivi aggiunti, dimostra la piena consapevolezza dell’abusività (sia pure parziale) dell’opera.
12. Il ricorso in appello può ricondursi a un’unica censura: l’aver il comune adottato il diniego di sanatoria senza sottoporla al preventivo parere della competente soprintendenza.
Anche nel giudizio d’appello la parte invoca la nota del Ministero del beni culturali 13.09.2010, prot. n. 16721 che, a suo giudizio, dichiara paesaggisticamente irrilevanti gli interventi non percepibili e visibili.
Orbene in tale nota si afferma che “la non percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto elide in radice la sussistenza stessa dell’illecito contestato”.
Ove addirittura l’incremento di volume o di superficie (che dovrà per forza di cose essere di minima entità) non risulti neppure visibile, allora dovrà evidentemente ritenersi insussistente in radice l’illecito e, dunque, la domanda di sanatoria dovrà (a rigore) essere dichiarata inammissibile, e ciò non già perché osti al suo eventuale accoglimento la carenza del sopra detto presupposto negativo per la sanatoria, bensì perché trattasi in realtà di illecito insussistente, per non essere dovuta <a monte> la stessa autorizzazione paesaggistica, in presenza di un intervento obiettivamente incapace di introdurre <modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione>, in quanto oggettivamente non percepibile”.
Le opere oggetto del procedimento sono quelle indicate al § 1.
Parte appellante sostiene l’erroneità delle dimensioni dell’abuso indicate nell’originario provvedimento impugnato in quanto:
- la parte autorizzata del piano fuori terra non è di mq. 48 come affermato nell’ordinanza, ma di mq. 83, come da progetto approvato in quanto va aggiunta anche la tettoia di mq. 35,
- la parte interrata autorizzata non è di mq. 112, ma aggiunte le intercapedini di mq. 66, l’autorizzato risulta di mq. 178 come dall’ultimo progetto in variante presentato;
- non vi è stato mutamento della destinazione d’uso dell’annesso agricolo in abitativo, in quanto il manufatto è rurale, non avendo le caratteristiche e le condizioni per essere definito abitabile.
Orbene, nell’originario provvedimento impugnato il piano fuori terra veniva indicato con una dimensione di mq 165, rispetto ad una superficie autorizzata di mq 48: quindi il triplo del consentito.
Anche ad ammettere quanto sostenuto dall’appellante (ossia che la costruzione autorizzata era di 83 mq), si ha pur sempre un abuso consistente in una realizzazione doppia rispetto a quella consentita (165 rispetto a 83).
Tale circostanza esclude ex se che la fattispecie possa rientrare nelle ipotesi delineate dalla circolare invocata, ossia della non percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore.
Né può contestarsi che, in presenza di un abuso ictu oculi non sanabile, il Comune possa rigettare l’istanza di sanatoria senza coinvolgere l’Amministrazione dei beni culturali.
13. In conclusione entrambi gli appelli vanno rigettati con compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2016 n. 1939 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROIncidenti, la responsabilità sale. I prof devono dimostrare di aver messo in sicurezza gli alunni. La Cassazione aggrava la posizione degli educatori: non bastano le esortazioni a fare attenzione.
La Cassazione rende gravosa la responsabilità dei precettori: la portata dell'art. 2048 del codice civile va riferita al caso specifico onde verificare in concreto se il fatto sia stato inevitabile, così da escludere gli addebiti alla scuola.

Con la sentenza 09.05.2016 n. 9337, la I Sez. civile di Piazza Cavour ha riformato una sentenza di appello rilevando il seguente principio di diritto in tema di responsabilità civile dei maestri: non è sufficiente la sola dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo dopo l'inizio della causa sfociata nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo.
Tanto va valutato, per la scuola, tenendo in considerazione l'età ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi, in relazione alle circostanze del caso concreto, dovendo la sorveglianza dei minori essere tanto più efficace e continuativa in quanto si tratti di fanciulli in tenera età.
La presenza di un manufatto (o di una situazione oggettiva: si pensi ad una siepe o ad un albero) che di fatto ostacola la piena e totale visibilità dello spazio da controllare preclude che possano essere ritenute idonee le misure organizzative quali la previsione della presenza di insegnanti in area se non opportunamente dislocati proprio in relazione allo stato dei luoghi.
Il caso è sorto presso una primaria quando in occasione della ricreazione una bambina cadeva in terra riportando danni perché urtata da un ragazzino che, inseguito da un compagno, sbucava improvvisamente correndo da dietro un muretto. A nulla vale, a parere della Cassazione, il fatto accertato che le insegnanti presenti in loco avessero richiamato gli scolari a “non correre troppo”.
In sentenza si legge che tale è una mera esortazione generica, e che ha finito per l'essere intesa dagli alunni come un'autorizzazione a correre, pur senza eccedere. Venendosi così, da un lato, a creare una condizione lasciata alla libera valutazione dei bambini sulla velocità e le modalità dei propri movimenti, ancorché sia evidente che gli stessi non possano avere piena consapevolezza delle situazioni di rischio.
D'altro canto il vago monito ha denotato scarsa attenzione sul fatto che, a prescindere dallo stato dei luoghi, vi era compresenza di bambini di classi inferiori, notoriamente più deboli e delicati; e quindi meno capaci di auto-proteggersi, senza il concreto intervento di un adulto.
Nella specie, la presenza, all'interno del cortile, di un muretto che non consentiva una completa visuale alle persone addette al controllo degli allievi, avrebbe dovuto indurre queste ultime ad una maggiore e più completa vigilanza, estesa anche alla zona posteriore al suddetto manufatto, ovvero ad imporre ai ragazzi di astenersi dal giocare correndo, per non rischiare di fare del male a se stessi ed agli allievi più piccoli.
Così argomentando la Corte ha riformato la sentenza impugnata e rimesso l'esame di merito ad un altro giudice che abbia attenzione per la situazione dei luoghi ed alle misure disposte dalla scuola per ravvisare quanto fosse ragionevolmente imprevedibile, in concreto, il fatto accaduto alla piccola (articolo ItaliaOggi del 30.08.2016).

EDILIZIA PRIVATANo a proroghe a chi non si attiva in tempo.
È legittimo il rifiuto opposto dal comune alla proroga del permesso di costruire se il titolare dell'autorizzazione si decide troppo tardi a dare il via alla variante del progetto; il tutto benché abbia scoperto da tempo che sotto il suo terreno ci sono parti delle fondamenta riconducibili all'edificio confinante.
Nessuna «moratoria» può allora essere concessa dall'amministrazione locale se non risulta che chi vuole realizzare i lavori sul proprio fondo si è attivato in modo tempestivo per risolvere i problemi che ha col vicino e che impediscono alle ruspe di entrare in azione.

È quanto emerge dalla sentenza 04.05.2016 n. 864, pubblicata dal TAR Lombardia-Milano, Sez. II.
Deve rassegnarsi il titolare del permesso scaduto che voleva realizzare un edificio industriale con annesse abitazioni di pertinenza. Solo con i primi scavi di cantiere si scopre che a suo tempo il vicino aveva sconfinato ponendo i plinti di fondazione del suo edificio sotto la superficie del terreno attiguo.
Scattava allora lo stop alle operazioni. Ma il proprietario che voleva realizzare i lavori non aveva compiuto subito lo sforzo di diligenza necessario a superare il problema, benché avesse già ricevuto una proroga.
La denuncia di inizio attività in variante è arrivata troppo tardi perché il progetto potesse concludersi entro i tempi previsti.
E tuttavia è escluso che la responsabilità possa essere addebitata al comune: la denuncia dei cementi armati sarebbe dovuta avvenire prima (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
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8. Con il secondo motivo il ricorrente afferma che il diniego di proroga sarebbe illegittimo, poiché il Comune non avrebbe preso in considerazione l’insieme delle circostanze di fatto, indipendenti dalla volontà del proprietario, che avevano impedito al sig. Alberti di portare a termine i lavori entro il termine previsto.
Al riguardo, occorre tenere presente che
la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori costituisce un principio cardine dell’intero sistema della disciplina urbanistica. Si tratta, infatti, di una regola che risponde non solo all’esigenza di assicurare la realizzazione ordinata ed entro tempi certi delle trasformazioni assentite con il titolo edilizio, prevenendo situazioni di degrado legate alla presenza di costruzioni non ultimate, ma anche alla necessità di tutelare l’interesse pubblico a consentire quelle sole trasformazioni del territorio che corrispondono alle esigenze attuali della collettività, quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente. Esigenza, questa, che verrebbe irrimediabilmente frustrata dalla possibilità del protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta che le trasformazioni assentite siano ritenute non più rispondenti all’interesse pubblico.
In tale prospettiva,
la proroga del titolo edilizio presenta carattere derogatorio rispetto al sistema e, non a caso, può essere consentita nei soli casi previsti dall’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001. Disposizione, quest’ultima, che individua l’ambito applicativo dell’istituto contemplando una serie di fattispecie, accomunate dalla circostanza che la necessità di disporre di un tempo più lungo di quello ordinario per completare i lavori dipende, nelle diverse ipotesi tipizzate dal legislatore, da ragioni oggettive e non imputabili al titolare del permesso di costruire.
9. Nel caso oggetto del presente giudizio, il sig. Al. ha allegato, quale fatto ostativo al completamento dei lavori entro il termine di tre anni dall’avvio, la scoperta, sul proprio fondo, dei plinti di fondazione dell’edificio confinante.
Deve, però, evidenziarsi che tale situazione di fatto era già stata presa in considerazione dall’Amministrazione, che aveva concesso in ragione di ciò una prima proroga di un anno del titolo edilizio.
Le motivazioni addotte dal ricorrente al fine di ottenere, per quella stessa causa, una nuova proroga dei termini del medesimo permesso di costruire sono state convincentemente confutate dal Comune nelle motivazioni del diniego impugnato nel presente giudizio.
In particolare, il provvedimento ripercorre la cronologia degli eventi, mettendo in evidenza –in ultima analisi– che “dal dicembre 2011 sino a metà 2014, la proprietà non risulta aver posto in essere alcun concreto intervento per ovviare alle problematiche insorte allora giustificate per la sospensione dei lavori, interventi comunque non comunicati allo scrivente ufficio”.
In sostanza, il Comune ha evidenziato che, pure a fronte della difficoltà esecutiva determinata dalla scoperta dei plinti, il sig. Al. non ha assunto alcuna iniziativa idonea a risolvere il problema. E ciò almeno fino alla presentazione della denuncia di inizio attività in variante del giugno 2014.
Conseguentemente, sono stati ritenuti insussistenti i presupposti prescritti normativamente per la concessione di una nuova proroga del titolo edilizio.
10. Il Collegio ritiene, come detto, che le motivazioni diffusamente esposte dal Comune nel provvedimento impugnato e nella comunicazione delle ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza, in esso richiamata, siano idonee a sorreggere la determinazione negativa assunta dall’Amministrazione; determinazione che non è infirmata dalle opposte argomentazioni del ricorrente.
Deve infatti rilevarsi che
non risulta agli atti del giudizio alcuna evidenza dell’attività che il sig. Al. avrebbe svolto per la soluzione, con il proprio confinante, della questione relativa ai plinti. Al contrario, è ampiamente comprovata la circostanza che, nel periodo di efficacia del titolo edilizio, vi siano stati continui avvicendamenti nella direzione dei lavori (ben sei direttori dei lavori, secondo quanto rimarcato dalla difesa comunale), senza che fosse comunicata all’Amministrazione l’assunzione di iniziative idonee a risolvere la difficoltà esecutiva emersa.
Al riguardo, non coglie nel segno il rilievo del ricorrente, secondo il quale il provvedimento comunale sarebbe censurabile, nella parte in cui avrebbe preteso, al fine di comprovare la non imputabilità al sig. Al. del mancato completamento dei lavori, la dimostrazione dell’avvio di iniziative di tutela giurisdizionale contro il confinante.
E invero, il provvedimento comunale si è limitato a evidenziare che “non risulta in ogni caso alcun tentativo di accordo con il vicino, non essendo stato trasmesso all’Ufficio alcun atto in tale senso e/o comunque l’avvio di qualsivoglia procedura anche giurisdizionale con il medesimo per la risoluzione della controversia” (v. punto 4 della motivazione del provvedimento impugnato, in fine).
Nel medesimo atto, peraltro, il Comune ha evidenziato pure che “entro i termini concessi era comunque possibile valutare soluzioni operative concrete (...), soluzioni operative e tecniche che non sono mai state trasmesse all’Ufficio” (v. punto 3 della motivazione del provvedimento impugnato) e che “al di là dei tentativi di giungere all’accordo con il vicino”, il sig. Al. ha atteso il mese di giugno 2014 per sottoporre all’Amministrazione la soluzione progettuale che consentiva di superare il problema riscontrato (v. ancora il punto 4 della motivazione del provvedimento impugnato).
Il Comune ha quindi, correttamente, rilevato che –da un lato– non vi fosse alcuna dimostrazione che il ricorrente si fosse effettivamente attivato per superare il problema insorto con il vicino e che –dall’altro– sussistevano altre soluzioni, che però sono state prese in considerazione tardivamente.
E che la questione relativa ai plinti fosse superabile con uno sforzo di diligenza del proprietario è dimostrato dalla circostanza stessa che, nel giugno del 2014 –e quindi in prossimità della scadenza del termine, già prorogato, per ultimare i lavori– il sig. Al. sia stato effettivamente in grado di individuare una soluzione, formalizzata appunto con la denuncia di inizio di attività in variante.
11. Quanto a quest’ultimo profilo, va poi rimarcato che la circostanza che la denuncia di inizio di attività del giugno 2014 sia divenuta efficace soltanto il 05.08.2014, e che quindi sia rimasto a disposizione del sig. Al. un tempo molto ristretto per attuare quanto progettato, non è imputabile all’operato del Comune.
Come sopra detto, infatti, l’Amministrazione ha tempestivamente richiesto, il 07.07.2014, l’integrazione degli elaborati grafici, e a fronte delle produzioni documentali del 25.07.2014 ha disposto, il 05.08.2014, l’operatività della denuncia.
Dipende, invece, come detto, da una scelta del sig. Al. l’aver atteso il mese di giugno 2014 per presentare la variante.

VARIChi paga i danni causati da animali. Proprietario responsabile in prima istanza - Obbligo sugli enti locali per i cani randagi.
Diritto civile. A carico del possessore o sul custode temporaneo grava la presunzione legale di mancato o insufficiente controllo.

Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati, sia che si trovi sotto la sua custodia, sia che risulti smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito.
Lo prevede l’articolo 2052 del Codice civile che pone a carico della persona o dell’ente che abbia la facoltà, o l’obbligo, di esercitare il potere di controllo una vera e propria presunzione di responsabilità.
L’obbligo di rendere l’animale in condizione di non arrecare danni alle persone o alle cose è dunque di volta in volta attribuito al proprietario, oppure a chi abbia temporaneamente la custodia dell’animale, oppure anche agli enti pubblici che devono garantire l’incolumità della collettività da fatti legati al randagismo.
In due recenti sentenze, questo principio è stato ribadito a chiare lettere con la condanna del custode dell’animale al risarcimento dei danni causati.
Il controllo dell’animale
Il TRIBUNALE di Trento (Sez. civile, sentenza 02.05.2016 n. 465, giudice Barbato) ha condannato il custode di un cane che aveva arrecato lesioni gravi ad una passante mordendole la mano durante una passeggiata in un centro abitato.
La colpa nel caso specifico è stata legata tanto al potere di governo e controllo sull’animale che espone sempre il custode ad una responsabilità presunta (articolo 2052 del Codice civile), quanto per la violazione di generali norme di prudenza da parte del proprietario (per avere tenuto l’animale al guinzaglio lungo, circa tre o quattro metri e senza utilizzare la museruola).
Le responsabilità
La colpa per i danni causati da un animale può riguardare tanto le persone fisiche che ne abbiano il controllo, quanto enti ed istituzioni che siano tenuti a garantire l’incolumità pubblica verso fatti legati alla circolazione di animali privi di proprietario.
La violazione di tali oneri di protezione sociale posti a carico dell’amministrazione pubblica è stato affermato dalla Corte di appello di Lecce (sentenza 28.04.2016 n. 435, presidente Dell’Anna, estensore Palazzo) che ha condannato la Asl locale per non avere impedito che una muta di cani arrecasse danni patrimoniali ad un allevatore di bovini, che erano stati aggrediti a più riprese dagli animali randagi.
La Corte rileva che sulla base della legislazione regionale, la vigilanza sui cani randagi era stata trasferita dai Comuni alle aziende sanitarie locali e che a queste ultime era rimesso quindi l’onere di provvedere al recupero ed al trattamento igienico sanitario dei cani randagi.
Ai Comuni spetta invece l’onere di segnalare al servizio veterinario delle Asl la presenza di randagi e di predisporre canili e strutture ricettizie degli animali senza padrone.
Nel caso in esame, la Corte di appello di Lecce confermava la sentenza del tribunale che aveva condannato la sola Asl a risarcire all’allevatore il danno patrimoniale, sul presupposto che l’azienda sanitaria, pur allertata a più riprese dalla amministrazione comunale, non avesse svolto l’attività di recupero che le è demandata, intervenendo in seguito a numerosi eventi e con colpevole ritardo.
Danni a motoveicoli
Il principio di responsabilità legato, come detto all’articolo 2052 del Codice civile, è stato a più riprese confermato dalla giurisprudenza per la quale e in linea generale, la pubblica amministrazione è responsabile per i danni riconducibili all’omissione della attività di controllo e messa in sicurezza del territorio. Così ad esempio la Corte di cassazione (sentenza n. 17528/2011) ha condannato una amministrazione comunale per i danni subiti da un motociclista che era stato sbalzato da sella per l’aggressione improvvisa subita proprio da parte di un cane randagio
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2016).

TRIBUTILiti tributarie: vietate le notifiche via Pec. Processo. Dove non c’è sperimentazione.
È inammissibile l’appello tributario notificato a mezzo posta elettronica certificata in quanto la notifica a mezzo Pec, nel processo tributario, allo stato non è ancora operativa.
A dirlo è stata la Commissione tributaria regionale di Milano con sentenza 24.03.2016 n. 1711/34/2016 (presidente Sacchi, relatore Bonavolonta).
La Ctp di Milano ha dichiarato inammissibili tre ricorsi poi riuniti perché notificati a mezzo posta prioritaria e non con raccomandata con ricevuta di ritorno, non consentendo, in questo modo, ai giudici di valutare la tempestività nella proposizione degli stessi.
Avverso la sentenza ha proposto appello il contribuente notificando -e trasmettendoli all’agenzia delle Entrate di Milano a mezzo Pec in data 27.07.2015- tre separati ricorsi, uno per ciascun anno di imposta.
La Ctr di Milano ha dichiarato inammissibile l’appello poiché notificato in modo difforme da quanto stabilito dal combinato disposto degli articoli 53, comma 2 e 20, commi 1 e 2 del Dlgs 546/1992 in quanto la notifica a mezzo Pec, allo stato non è ancora operativa, per cui l’appello doveva essere notificato all’ufficio ai sensi della normativa vigente ratione temporis.
Vale la pena evidenziare che il Mef, con la circolare 2/DF dell’11.05.2016, ha emanato le linee guida che forniscono spiegazioni sul Sistema informativo della giustizia tributaria (Sigit) e forniscono indicazioni sulle modalità di accesso ed utilizzi dei servizi del Processo tributario telematico (Ptt). Ed infatti, dal 01.12.2015, nelle Commissioni tributarie delle Regioni Toscana e dell’Umbria, è consentito alle parti, previa registrazione al Sigit, di utilizzare la posta elettronica certificata (Pec) per la notifica dei ricorsi e degli appelli e di poter effettuare il successivo deposito in via telematica nella Commissione tributaria competente utilizzando l’applicativo Ptt.
Giova tuttavia precisare che in questa prima fase attuativa del processo tributario telematico vige il principio della facoltatività del deposito telematico rispetto a quello tradizionale cartaceo e della graduale estensione sul territorio nazionale delle nuove modalità di deposito degli atti processuali (entro il 2016 sarà esteso ad Abruzzo, Molise, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna e Veneto). In base a questo principio. ciascuna delle parti può scegliere di notificare e depositare gli atti processuali con le modalità tradizionali, ovvero con quelle telematiche presso le Commissioni tributarie ove risultino attive tali modalità.
In buona sostanza, fermo restando il principio di facoltatività appena descritto, in base alle disposizioni contenute nel regolamento 163/2013, qualora sia la parte ricorrente che resistente si avvalga delle modalità telematiche nel procedimento di primo grado è obbligata successivamente ad utilizzare le medesime modalità anche nel giudizio d’appello. Tale obbligo si estende anche al deposito degli atti successivi alla costituzione in giudizio, in base agli articoli 10 e 11 del regolamento
 (articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAFogne, allaccio senza permessi. Tar Campania. Non serve l’autorizzazione del condominio.
L’ente locale non deve acquisire l’assenso del condominio o degli altri condòmini, se l’opera che il singolo vuole realizzare riguarda parti comuni dell’edificio strettamente pertinenziali alla propria unità immobiliare. Tali opere, del resto, rientrano negli interventi che il condòmino, titolare del provvedimento abilitativo, ha piena facoltà di eseguire.
Lo puntualizza il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la sentenza 26.02.2016 n. 1077.
Apre il caso, il proprietario di un appartamento che –comunicata al Comune l’intenzione di voler effettuare interventi di ordinaria manutenzione relativi alla ritinteggiatura, sostituzione e riparazione dei rivestimenti di cucina e bagno, con sostituzione degli igienici– collegava, in realtà, l’impianto igienico-sanitario al sottoservizio fognario nel cortile condominiale. Di qui, il provvedimento comunale di sospensione dei lavori e ripristino dello stato dei luoghi, seguito dall’ordine di sgombero.
Provvedimenti impugnati dal condòmino in quanto l’intervento consiste nella posa di una tubatura in Pvc per collegare un impianto igienico alla rete fognaria preesistente senza l’esecuzione di opere murarie, e in quanto tale non è soggetto al regime della Dia, rientrando nell’attività libera edilizia che non necessita di alcun titolo abilitativo.
Ricorso accolto. Il provvedimento gravato –afferma il Tribunale– è illegittimo. La posa in opera della conduttura in Pvc per il collegamento di un impianto igienico alla rete fognante rientra nell’ambito dell’attività libera di cui all’articolo 6 del Dpr 380/2001.
E dato che ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera b), della stessa norma si trattava di manutenzione straordinaria, che non aveva inciso su parti strutturali dell’edificio, né comportato l’aumento delle unità immobiliari o l’incremento dei parametri urbanistici, l’opera non necessitava di Dia.
Irrilevante, anche la critica mossa dal Comune circa l’assenza di previa autorizzazione degli altri condòmini. Consenso che, concludono i giudici amministrativi, non occorreva: «esclusa la necessità di un titolo abilitativo edilizio, l’indispensabilità del consenso dei condòmini per la realizzazione dell’opera diviene una questione relativa all’esercizio del diritto di proprietà o, comunque, inerente ai rapporti civilistici tra condòmini»
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).
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MASSIMA
La posa in opera della conduttura in PVC per il collegamento di un impianto igienico alla rete fognante rientra nell’ambito dell’attività libera ex art. 6 D.P.R. n. 380/2001.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b), di quest’ultimo D.P.R., sono ricomprese nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria “
le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
L’opera posta in essere rientra in quest’ultima categoria. La stessa è, infatti, volta a realizzare o integrare i servizi igienico-sanitari e non ha alterato volumi o superfici.
Il citato art. 6 del D.P.R. n. 380/2001, nel testo vigente ratione temporis, prevedeva che potessero essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo “gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici”.
Nel caso di specie l’intervento non riguarda parti strutturali dell'edificio, né comporta aumento del numero delle unità immobiliari o incremento dei parametri urbanistici.
L’opera in esame non necessitava, pertanto, della D.I.A., e risulta, pertanto, illegittima la sanzione comminata ex art. 37 D.P.R. n. 380/2001, riservata all’omissione di tale titolo edilizio.
Inoltre, il Collegio rileva per completezza come, in ogni caso, l’omissione della D.I.A. avrebbe potuto comportare l’applicazione della sanzione pecuniaria ma non di quella ripristinatoria adottata invece dal Comune, peraltro sommandola a quella pecuniaria.
Fermo quanto indicato,
si rileva ancora come da accogliere risulti anche la censura relativa alla mancanza della necessità del consenso di tutti i condomini per l’esecuzione dell’opera.
Ciò in primo luogo perché, una volta esclusa la necessità di un titolo abilitativo edilizio,
l’indispensabilità del consenso dei condomini per la realizzazione dell’opera diviene una questione relativa all’esercizio del diritto di proprietà o, comunque, inerente ai rapporti civilistici tra condomini.
L’eventuale necessità del consenso, e la pretesa alla stessa connessa, sarà quindi nel caso tutelabile ad opera degli interessati dinanzi alla competente autorità giudiziaria ordinaria, ma non riguarderà l’esercizio del potere autorizzatorio o sanzionatorio del Comune in materia di governo del territorio e, in particolare, in materia urbanistica ed edilizia.
Il Collegio, inoltre, ritiene di poter applicare quella giurisprudenza amministrativa secondo cui,
in caso di realizzazione di un'opera da parte di un singolo sulle parti comuni dell'edificio, ma strettamente pertinenziale alla propria unità immobiliare, l'ente locale non è tenuto a richiedere il previo assenso del condominio interessato, ovvero degli altri condomini (TAR Campania-Salerno, Sez. II, Sent., 28.02.2011, n. 367), assumendosi che il singolo condomino ha facoltà di eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere il provvedimento abilitativo e che il mancato assenso del condominio concerne esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'amministrazione (Cons. Stato Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
Il suddetto principio costituisce evidentemente applicazione della norma contenuta nell'articolo 1102 c.c., in base al quale "
ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto".
Il ricorso principale va quindi accolto.

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