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AGGIORNAMENTO AL
20.09.2016 |
ã |
COME
VOLEVASI DIMOSTRARE:
senza la
preventiva adozione del nuovo regolamento, vigente
dal 19.08.2014 e sino al 18.04.2016,
l'incentivo alla
progettazione interna non spetta (oggi) retroattivamente. |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 13.10.2014
davamo conto che
dal 19.08.2014,
data di entrata in vigore delle modifiche apportate
dalla legge n. 114/2014 al d.l. n. 90/2014,
i comuni,
come tutte le altre pubbliche amministrazioni,
dovevano fare
riferimento, per la disciplina degli incentivi al
personale interno incaricato di attività tecniche
nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed
esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova
disciplina legislativa, con conseguente necessaria
adozione di un nuovo regolamento interno
che stabilisse la percentuale massima destinata a
tali compensi (art.
93, comma 7-bis, D.Lgs. n. 163/2006)
e un
nuovo accordo integrativo decentrato,
da recepire nel regolamento,
che statuisse i
criteri di ripartizione
(comma
7-ter). Entrambi dovevano adeguarsi alle
novità normative, fra le quali spiccava
l’esclusione, fra i soggetti beneficiari
dell’incentivo, del personale con qualifica
dirigenziale.
Sicché, dal
19.08.2014 se non si adottava
(alla svelta, dato che i provvedimenti
amministrativi non hanno efficacia retroattiva)
il nuovo
regolamento interno, previo nuovo accordo
decentrato, l'incentivo alla progettazione non si
sarebbe potuto riconoscere (liquidare)
... detto
altrimenti, le (eventuali) prestazioni svolte
sarebbero state rese a titolo gratuito
(con gli impliciti ringraziamenti
dell'Amministrazione di appartenenza).
Ebbene, ecco la conferma -di quanto preavvisato quasi
due anni or sono- da parte della Corte dei Conti nel
parere riportato a seguire: |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: E'
illegittimo il regolamento comunale che disciplini
l’erogazione dell'incentivo con effetto retroattivo poiché
si pone in contrasto con il principio di irretroattività, in
mancanza di un’espressa disposizione di legge derogatoria.
Il principio della irretroattività degli
atti, immanente all’ordinamento giuridico, costituisce
corollario dei più generali principi della necessaria
simultaneità tra fatto (atto) ed effetti dallo stesso
prodotti nonché del principio della certezza delle
situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento
legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la
retroattività sia prevista dalla legge (ordinaria, statale o
regionale, atteso che la copertura costituzionale della
irretroattività è prevista solo per la legge penale) o sia
una caratteristica “naturale” dell’atto (es.
annullamento che, de iure, produce effetto ex tunc).
D’altro canto, per gli atti
amministrativi a contenuto normativo –come appunto i
regolamenti– la regola dell’irretroattività è affermata dal
combinato disposto degli artt. 4 e 11 delle preleggi,
secondo i quali il regolamento non può contenere norme
contrarie alle disposizioni di legge e, nella specie, al
divieto di retroattività imposto dal successivo art. 11 per
gli atti normativi, derogabile solo attraverso una norma di
legge che abiliti l’atto a produrre un tale effetto
(ad esclusione della legge penale, per la quale la
costituzione pone un divieto assoluto).
Nella specie, in mancanza di una norma che
autorizzi l’amministrazione comunale ad attribuire al
regolamento in questione effetto retroattivo, il
regolamento, in ossequio all’art. 11 delle preleggi, non
potrà che disporre per l’avvenire.
---------------
La ripartizione tra i dipendenti dell’ente
deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in
sede di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque,
continua ad essere una condizione essenziale ai fini del
legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo.
Ciò, evidentemente, perché esso è destinato
ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione,
oltre alla percentuale, che comunque non può superare il
tetto massimo fissato dalla legge.
Non così per il semplice accantonamento
delle risorse, che, in attesa della disciplina
regolamentare, ben può essere disposto dall’ente, su un
capitolo o capitoli sui quali non è possibile assumere
impegni ed effettuare pagamenti, purché, ovviamente, entro i
limiti percentuali fissati dall’art. 113, 2° comma, cit.
Ove poi il regolamento successivamente adottato dall’ente
dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già
stabilita dall’ente, la parte dell’accantonamento non
utilizzata concorrerà alla determinazione del risultato di
amministrazione.
---------------
Il Sindaco del Comune di Rubano (PD) ha presentato
richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge 05.06.2003, n. 131, formulando il seguente quesito.
Posto che l’art. 93, comma 7-bis, del D.lgs. n. 163/2006,
nel testo che era stato introdotto dal D.L. n. 90/2014, conv.,
con modificazioni, dalla L. n. 114/2014, nel fissare un
tetto percentuale (non più del 2% degli importi posti a base
di gara di un’opera o di un lavoro) oltre il quale non è
possibile accantonare risorse finanziarie per la
progettazione e l’innovazione all’interno delle
amministrazioni pubbliche, aveva previsto che detta
percentuale dovesse essere stabilita “da un regolamento
adottato dall’amministrazione, in rapporto all’entità e alla
complessità dell’opera da realizzare”, l’ente chiede:
- se, nel caso in cui un’amministrazione –nella
specie il Comune di Rubano– nel periodo precedente
all’abrogazione del D.lgs. n. 163/2006 ad opera del D.lgs.
n. 50/2016 (in particolare, periodo dal 19.08.2014 al
18.04.2016) non aveva adottato alcun regolamento, sia
possibile adottarne uno con “valenza retroattiva”, al
fine di ripartire gli incentivi regolarmente accantonati in
bilancio e maturati dai dipendenti assegnati all’ufficio
tecnico per l’attività svolta in detto periodo;
- se, in assenza di un regolamento che determini la
percentuale ed i criteri di riparto, “sia possibile
accantonare prudenzialmente in bilancio la somma del 2%
dell’importo a base di gara, subordinando comunque la
liquidazione dei compensi all’approvazione del regolamento”.
...
Nel merito, il primo quesito ha ad oggetto la
possibilità giuridica di adottare un regolamento comunale,
diretto a disciplinare l’erogazione degli incentivi che
erano riconosciuti in favore del personale tecnico dell’ente
dal previgente art. 93, comma 7-bis, del D.lgs. n. 163/2006,
sotto il profilo, in particolare, della percentuale massima
di risorse da destinare allo scopo, con effetto retroattivo,
allo scopo di consentirne il riparto nel rispetto della
summenzionata normativa.
A tale quesito deve darsi risposta
negativa.
Esso,
da un canto, si inquadra nell’ambito
della problematica più ampia, della irretroattività dei
provvedimenti amministrativi.
Il principio della irretroattività degli
atti, immanente all’ordinamento giuridico, costituisce
corollario dei più generali principi della necessaria
simultaneità tra fatto (atto) ed effetti dallo stesso
prodotti nonché del principio della certezza delle
situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento
legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la
retroattività sia prevista dalla legge (ordinaria, statale o
regionale, atteso che la copertura costituzionale della
irretroattività è prevista solo per la legge penale) o sia
una caratteristica “naturale” dell’atto (es.
annullamento che, de iure, produce effetto ex tunc).
D’altro canto, per gli atti
amministrativi a contenuto normativo –come appunto i
regolamenti– la regola dell’irretroattività è affermata dal
combinato disposto degli artt. 4 e 11 delle preleggi,
secondo i quali il regolamento non può contenere norme
contrarie alle disposizioni di legge e, nella specie, al
divieto di retroattività imposto dal successivo art. 11 per
gli atti normativi, derogabile solo attraverso una norma di
legge che abiliti l’atto a produrre un tale effetto
(ad esclusione della legge penale, per la quale la
costituzione pone un divieto assoluto).
Nella specie, in mancanza di una norma che
autorizzi l’amministrazione comunale ad attribuire al
regolamento in questione effetto retroattivo, il
regolamento, in ossequio all’art. 11 delle preleggi, non
potrà che disporre per l’avvenire.
Con il secondo quesito, si chiede se, nelle more
della determinazione, nell’apposito regolamento, della
percentuale entro la quale destinare le risorse e dei
criteri di assegnazione, sia corretto accantonare le risorse
medesime in misura del 2% dell’importo a base di gara, senza
tuttavia provvedere alla ripartizione tra i beneficiari
prima di aver approvato il regolamento suddetto.
Deve premettersi che anche la disposizione che attualmente
regolamenta gli incentivi per le funzioni tecniche
svolte dai dipendenti pubblici –vale a dire per l’attività
di programmazione della spesa per investimenti, per la
verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di
controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento,
di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e
di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico– ovvero l’art. 113 del
D.lgs. n. 50/2016, ai commi 2, 3 e 4, prevede la
destinazione ad un fondo apposito, in misura non superiore
al 2%, delle risorse finanziarie stanziate per la
realizzazione dei singoli lavori, di cui l’80% da ripartire
tra il responsabile unico del procedimento ed i soggetti che
abbiamo svolto le summenzionate “funzioni tecniche”
ed i loro collaboratori, ed il restante 20% da impiegare per
l’acquisito di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali
al miglioramento e l’innovazione tecnologica.
La ripartizione tra i dipendenti dell’ente
deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in
sede di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque,
continua ad essere una condizione essenziale ai fini del
legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo.
Ciò, evidentemente, perché esso è destinato
ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione,
oltre alla percentuale, che comunque non può superare il
tetto massimo fissato dalla legge.
Non così per il semplice accantonamento
delle risorse, che, in attesa della disciplina
regolamentare, ben può essere disposto dall’ente, su un
capitolo o capitoli sui quali non è possibile assumere
impegni ed effettuare pagamenti, purché, ovviamente, entro i
limiti percentuali fissati dall’art. 113, 2° comma, cit.
Ove poi il regolamento successivamente adottato dall’ente
dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già
stabilita dall’ente, la parte dell’accantonamento non
utilizzata concorrerà alla determinazione del risultato di
amministrazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353). |
QUINDI?? |
Quindi, siccome già ricordato con l'AGGIORNAMENTO
AL 29.03.2016,
è giunta l'ora di
provvedere con urgenza alla ripetizione delle somme
(eventualmente) indebitamente erogate
a cura del Dirigente/P.O. -nei
confronti dei propri collaboratori- piuttosto che
dell'Ufficio Personale -nei confronti
della P.O.- o addirittura dello
stesso
Dirigente/P.O. -nei propri confronti, con
ulteriore profilo di illegittimità (controllore e
controllato: cfr.
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia,
sentenza 14.04.2015 n. 203)-
poiché, altrimenti, è scontato che la Procura
regionale contabile suonerà il citofono di casa
degli inadempienti colpevoli (con dolo e colpa
grave).
Al riguardo, giova qui ricordare altri soggetti
coinvolti e deputati al controllo quali:
il segretario
comunale, il ragioniere capo ed il
Revisore dei Conti
e le correlate personali responsabilità se non
svolgono il proprio dovere a' termini di legge (si
legga una variegata casistica raggruppata nell'apposito
dossier).
Tuttavia, siccome evidenziato (correttamente) dal Segretario Generale
Dott. Antonello Accadia nel proprio commento sul
sito www.moltocomuni.it, dalla lettura del parere di cui sopra
"non si
può non evidenziare una palese contraddizione tra il principio di irretroattività,
riaffermato dalla Corte in risposta al primo
quesito, e la possibilità riconosciuta, con la
risposta al secondo quesito,
di accantonare le risorse in bilancio a titolo di
incentivo, nelle more della determinazione, a mezzo
dell’emanando
regolamento, della percentuale entro la quale
destinare le risorse e dei criteri di assegnazione.
Non sembra coerente escludere che un regolamento
disciplini fatti accaduti in periodi precedenti alla
sua
emanazione e, poi, ammettere che si accantonino somme
nell'attesa di un’emananda disciplina regolamentare
concernente non solo la percentuale di risorse da
destinare agli incentivi ma anche i criteri e le
condizioni stesse di
riparto.
Invero, il principio di irretroattività dei regolamenti vale
sempre, a prescindere dalla normativa di
riferimento. Sicché, anche
nel secondo caso, non ha senso consigliare di
accantonare le somme in bilancio in assenza del
regolamento se, poi,
la decorrenza dell’aliquota e dei criteri stabiliti
con la disciplina regolamentare dovrà decorrere
dalla sua adozione".
20.09.2016 - LA SEGRETERIA PTPL |
LUTTO |
Ha lasciato questa terra il nostro Collega ed Amico
INFANTINO GEOM. BALDASSARE del Comune di Paladina (BG),
senza avere il tempo di godersi appieno la meritata pensione
dopo una vita di lavoro.
Caro BALDO, la Tua continua disponibilità per il bene
della comunità locale e le Tue tribolazioni di salute,
vissute con dignità esemplare, sono bastevoli perché di
lassù se ne abbia giusta memoria e ricompensa.
Per chi vorrà partecipare all'estremo saluto, le
esequie si terranno |
MARTEDI'
20.09.2016 ORE 15,00 |
nella
Parrocchiale di S. Lorenzo di
Capizzone (BG). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
rispetto, o meno, dei termini di 45 gg., 90 gg. e 180 gg. ex
art. 146 e art. 167 dlgs. 42/2004.
Qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni
stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il
paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale «continua
a sussistere … ma l’interessato può proporre ricorso al
giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale».
La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la
sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase
del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può
essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative
conseguenze)».
Quindi, «nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio
qualificato o significativo».
La giurisprudenza più recente di questa Sezione,
nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del
Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento
ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine
assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di
rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde
il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente
e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al
rilascio del titolo.
In conseguenza il superamento del sopra richiamato termine
di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso
il silenzio dell’amministrazione;
- non rende illegittimo il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso
dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine
fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei
beni culturali e del paesaggio.
---------------
... per la riforma della
sentenza
n. 2848 del 15.12.2010 del TAR per la Puglia,
Sezione Staccata di Lecce, Sez. I, resa tra le parti, concernente il diniego di
autorizzazione paesaggistica per la sanatoria di opere
edilizie.
...
6.- Passando al merito dell’appello, si deve ricordare che l’art. 146,
comma 4, del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, recante il
Codice dei beni culturali e del paesaggio, dopo aver
ricordato che l'autorizzazione paesaggistica costituisce
atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di
costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, stabilisce che al di fuori dei
limitati casi «di cui all'articolo 167, commi 4 e 5,
l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi».
6.1.- L’art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede
quindi il possibile accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica, secondo le procedure di cui al successivo
comma 5, solo nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380.
6.2.- Se le opere rientrano in una delle tipologie indicate,
il comma 5 dell’art. 167 prevede che «il proprietario,
possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o
dell'area interessati dagli interventi … presenta apposita
domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai
fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica
degli interventi medesimi. L'autorità competente si
pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di
centottanta giorni, previo parere vincolante della
soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di
novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità
paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una
somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato
e il profitto conseguito mediante la trasgressione».
7.- Con riferimento alla questione, oggetto della sentenza
di primo grado, riguardante il rispetto del termine
assegnato alle suindicate amministrazioni per l’esercizio
della funzioni loro assegnate ai fini della valutazione
della possibile compatibilità paesaggistica delle opere per
le quali è stata chiesta la sanatoria, questa Sezione ha
affermato che, qualora non sia rispettato il termine di
novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice
per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale
«continua a sussistere … ma l’interessato può proporre
ricorso al giudice amministrativo, per contestare
l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale»
(Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4656 del 18.09.2013).
La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la
sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase
del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può
essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative
conseguenze)». Quindi, «nel caso di superamento del medesimo
termine (e così come avviene nel caso di superamento del
termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art.
167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché
nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni,
fissato dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato
né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di
silenzio qualificato o significativo» (Consiglio di Stato,
Sez. VI, n. 4656 del 18.09.2013 cit.).
7.1.- La giurisprudenza più recente di questa Sezione,
nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del
Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento
ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine
assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di
rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde
il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente
e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al
rilascio del titolo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2136
del 27.04.2015).
7.2.- In conseguenza il superamento del sopra richiamato
termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso
il silenzio dell’amministrazione;
- non rende illegittimo il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso
dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine
fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei
beni culturali e del paesaggio.
8.- Facendo applicazione di tali principi l’appellata
sentenza del TAR di Lecce deve essere riformata (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1935 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sulla
responsabilità disciplinare dell'architetto per avere
firmato e presentato una segnalazione certificata di inizio
attività (SCIA) presso lo stesso Comune in cui era sindaco.
Tra i destinatari dell'obbligo di astensione
dall'esercitare attività professionale in materia di
edilizia
privata e pubblica nel territorio comunale rientrano non
solo
gli assessori cui siano state conferite deleghe nei settori
dell'urbanistica, dell'edilizia e dei lavori pubblici, ma
anche
lo stesso sindaco, sul quale, come organo responsabile
dell'amministrazione del Comune e presidente della giunta
comunale,
grava l'onere di sovrintendere su tutte le attività
del Comune, anche su quelle delegate.
---------------
Ritenuto in fatto
1. - Il Consiglio dell'ordine degli architetti,
pianificatori,
paesaggisti e conservatori di Novara ha irrogato
all'arch. Ca.Bi. la sanzione disciplinare della
sospensione
dall'esercizio della professione per tre mesi, per
violazione dell'art. 78 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267
(Testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), e
di disposizioni del codice deontologico degli architetti
italiani,
perché, quale sindaco del Comune di Gozzano, l'iscritta
aveva firmato e presentato una segnalazione certificata di
inizio
attività (SCIA) presso lo stesso Comune.
2. - Il Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori,
paesaggisti e conservatori, con decisione depositata il 15.06.2015, ha respinto l'impugnazione dell'incolpata.
Il Consiglio nazionale ha escluso l'eccezione di nullità
del procedimento per mancata astensione dell'arch. Paolo
Gattoni,
sia perché non risulta che costui abbia comunque partecipato
alla fase deliberativa, sia perché la sua posizione non
sembra configurare una ipotesi di conflitto di interessi.
Secondo il Consiglio nazionale, "il sindaco doveva astenersi
dal firmare una SCIA e a nulla rileva la delega agli
assessori
poiché tale delega riguarda semmai la determinazione
dell'ente locale su quella SCIA, non già la sua
presentazione
al Comune da parte di un libero professionista"; e l'art.
78,
coma 3, del d.lgs. n. 267 del 2000 "è norma applicabile al
caso di specie, non essendo dubbio che l'obbligo di astensione
ivi disciplinato riguardi anche il sindaco".
...
Considerato in diritto
1. - Con il primo motivo si deduce la nullità della
decisione
e del procedimento per mancata astensione dell'arch. Paolo
Gattoni, violazione degli artt. 24, 25 e 111, secondo comma,
Cost. per difetto di valida costituzione (d.P.R. 07.08.2012, n. 137, e regolamento di disciplina 16.11.2012),
terzietà ed imparzialità del giudice con lesione del diritto
di difesa, nonché violazione dell'art. 111, sesto comma,
Cost.
per violazione del dovere di motivazione.
Preliminarmente la
ricorrente deduce che la sanzione è stata a lei irrogata dal
Consiglio dell'ordine costituito in Commissione di
disciplina
ai sensi degli artt. 8, comma 10, del d.P.R. n. 137 del 2012
e
dell'art. 6, comma 1, del regolamento 16.11.2012,
quando,
secondo la normativa applicabile, l'Ordine era tenuto ad
istituire la Commissione di disciplina. Non averlo fatto -ed
avere utilizzato la disciplina transitoria- avrebbe
comportato
che la ricorrente è stata privata del suo giudice naturale
precostituito per legge.
La nullità del procedimento
deriverebbe
inoltre dal fatto che l'arch. Pa.Ga., pur non avendo
partecipato alla fase deliberativa, si è astenuto
tardivamente,
solo a seguito di eccezione dell'arch. Pi.Ga.,
primo difensore della ricorrente, ma intanto lo stesso
ha curato la documentazione fotografica posta a base
dell'esposto, ha partecipato all'elaborazione
dell'incolpazione ed è stato attivo protagonista
dell'istruttoria.
Atteso che il Collegio di disciplina è un
collegio perfetto, la presenza, nella maggior parte delle
attività
finalizzate alla decisione, dell'arch. Pa.Ga. e
la sua astensione, su eccezione di parte e solo in fase
deliberativa,
comprometterebbe la valida costituzione del giudice e la
regolarità del procedimento, quest'ultimo viziato da
quanto svolto dal membro del collegio solo successivamente
astenutosi.
Vi sarebbero gravi ragioni di convenienza che imponevano
l'astensione dell'arch. Ga., in ragione della
contrapposizione
politico-elettorale tra questo e la ricorrente.
La decisione impugnata non avrebbe svolto alcuna motivazione
per escludere l'esistenza di quel conflitto, provato
dall'avere l'arch. Ga. scattato la fotografia allegata
all'esposto dell'Associazione Er.Re..
Non avrebbe
tenuto conto il Consiglio nazionale della dichiarazione di
Sa.So., al quale l'arch. Ga. riferì che
era
sua ferma volontà di adoperarsi perché l'arch. Bi.
fosse
espulsa dall'Ordine: il che paleserebbe la sussistenza di
una
grave inimicizia.
1.1. - Il motivo è infondato, sotto entrambi i profili.
Quanto alla denuncia di invalida costituzione dell'organo
che ha irrogato la sanzione disciplinare (il Consiglio
territoriale
dell'ordine costituito in Commissione di disciplina),
occorre precisare che la legittimità della costituzione
dell'organo disciplinare deriva proprio dalla disposizione
regolamentare
-il d.P.R. n. 137 del 2012, recante riforma degli
ordinamenti professionali, a norma dell'art. 3, comma 5,
del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con
modificazioni,
dalla legge 14.09.2011, n. 148- di cui la
ricorrente lamenta l'avvenuta violazione.
Infatti, l'art. 8 del citato d.P.R. n. 137 del 2012, nel
dettare disposizioni sul procedimento disciplinare delle
professioni
regolamentate diverse da quelle sanitarie, ha sì previsto
l'istituzione presso i Consigli dell'ordine territoriali
di Consigli di disciplina territoriali cui sono affidati i
compiti di istruzione e decisione delle questioni
disciplinari
riguardanti gli iscritti all'albo, con l'incompatibilità tra
la carica di consigliere dell'ordine e la carica di
consigliere
del corrispondente consiglio di disciplina; ma ha anche
stabilito -al comma 10- che fino all'insediamento dei
nuovi
Consigli di disciplina territoriali, «le funzioni
disciplinari
restano interamente regolate dalle disposizioni vigenti».
Ne consegue che, in applicazione della prevista disciplina
transitoria, in attesa della istituzione del Consiglio di
disciplina
territoriale, le funzioni disciplinari legittimamente
sono state esercitate dal Consiglio dell'ordine costituito
in
Commissione di disciplina, secondo la disciplina vigente.
Quanto, poi, alla nullità procedimentale derivante dalla
partecipazione al procedimento dell'arch. Pa.Ga.,
componente
del Consiglio dell'ordine di Novara, ogni questione al
riguardo resta superata dal fatto che questi si è astenuto
nel
corso del procedimento e non ha partecipato alla
deliberazione
con cui, in esito al procedimento disciplinare, è stata
irrogata
la sanzione.
La validità di questa deliberazione finale -resa da un organo collegiale a composizione variabile che
non si presenta come un collegio perfetto (Cass., Sez. III,
14.04.2005, n. 7765), ed in esito ad un procedimento al quale
non si estendono in via analogica le disposizioni del codice
di procedura penale (Cass., Sez. Un., 07.05.1998, n.
4627;
Cass., Sez. III, 07.07.2006, n. 15523)- non è inficiata
dalla partecipazione del componente poi astenutosi alle
precedenti
attività di apertura del procedimento disciplinare e di
formalizzazione dell'incolpazione, né dal fatto che lo
stesso
fosse presente all'attività istruttoria svolta dal Consiglio
dell'ordine. D'altra parte, non si vede come ed in che
termini
l'avere l'arch. Pa.Ga. realizzato l'allegato
fotografico
della segnalazione iniziale abbia alterato il
contraddittorio
e le garanzie dell'interessata, che mai ha negato il fatto
storico, difendendosi esclusivamente in punto di diritto.
2. - Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 111
Cost. e 360, n. 4, cod. proc. civ. avuto riguardo alla
valida
contestazione dell'incolpazione, alla responsabilità
deontologica
e alla violazione del codice deontologico, violazione
dell'art. 111, secondo comma, Cost. per errata applicazione
del disposto dell'art. 78, comma 3, TUEL, e violazione
dell'art. 111, sesto comma, Cost. per omissione del dovere
di
motivazione.
La ricorrente sostiene che l'art. 78, comma 3, TUEL sarebbe
una norma di stretta interpretazione, sicché intanto
sussisterebbe
l'obbligo di astensione in quanto si sia in presenza di una
correlazione immediata e diretta tra contenuto
dell'atto e l'interesse dell'amministratore. Ma
questa
correlazione
nella specie difetterebbe, essendo l'arch. Bi.
sindaco e non assessore del Comune ed avendo provveduto a
delegare
le competenze in materia di urbanistica, edilizia e lavori
pubblici all'assessore.
In capo alla ricorrente quale
sindaco non sussisteva, con riguardo alla contestata
condotta
riguardante la sottoscrizione della pratica edilizia, alcuna
competenza, nemmeno mediata o di riferimento, in materia di
edilizia ed urbanistica, tale da obbligarla all'astensione
dall'attività professionale.
Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione
dell'art. 111, sesto coma, Cost., avuto riguardo alla omessa
motivazione in ordine alle contestate violazioni al codice
deontologico,
nonché violazione dell'art. 360, n. 5, cod. proc.
civ., in ordine all'omessa motivazione circa un fatto
decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti.
2.1. - Il secondo ed il terzo motivo -da esaminare
congiuntamente,
stante la stretta connessione- sono infondati.
Quanto alla partecipazione alla fase iniziale del
procedimento
disciplinare dell'arch. Pa.Ga. valgono le
considerazioni
espresse in sede di scrutinio del primo motivo di
ricorso.
In relazione all'altro profilo preliminare e formale (con
il quale si lamenta che l'incolpazione non sia stata
"riportata
e/o esplicitata in alcuna parte della decisione avversata"),
si tratta di una censura che non tiene conto del fatto
che la decisione del Consiglio nazionale indica con
chiarezza
l'addebito che è stato contestato all'arch. Bi., nelle
sue componenti sia fattuali che giuridiche.
Nel merito, l'art. 78, comma 3, del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs.
n. 267 del 2000, prevede che «[i] componenti la giunta
comunale
competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di
lavori
pubblici devono astenersi dall'esercitare attività
professionale
in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio
da essi amministrato».
La citata disposizione contempla un obbligo di astensione
dall'esercizio di attività professionali in materia di
edilizia
privata e pubblica nell'ambito del territorio amministrato,
essendo tali attività ritenute incompatibili con la carica
pubblica ricoperta.
Tale obbligo di astensione -diretto non solo ad evitare
che il professionista tragga vantaggio nella sua attività
professione
dal mandato pubblico rivestito, ma anche a precludere,
per ragioni di trasparenza e buon andamento
dell'amministrazione dell'ente territoriale, che l'esercizio
delle funzioni collegate a tale mandato sia sviato
dall'interesse personale dell'amministratore-
grava sui
«componenti
la giunta comunale competenti in materia di urbanistica,
di edilizia e di lavori pubblici».
Tra i destinatari dell'obbligo di astensione
dall'esercitare attività professionale in materia di
edilizia
privata e pubblica nel territorio comunale rientrano non
solo
gli assessori cui siano state conferite deleghe nei settori
dell'urbanistica, dell'edilizia e dei lavori pubblici, ma
anche
lo stesso sindaco, sul quale, come organo responsabile
dell'amministrazione del Comune e presidente della giunta
comunale,
grava l'onere di sovrintendere su tutte le attività
del Comune, anche su quelle delegate.
Tale interpretazione trova conferma nella stessa lettera
della disposizione dell'art. 78, comma 3, del testo unico,
il
quale, per indicare i destinatari dell'obbligo di
astensione,
impiega la locuzione «componenti la giunta comunale
competenti
in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori
pubblici»,
non quella di assessori all'urbanistica, all'edilizia e ai
lavori
pubblici.
Da un punto di vista sistematico, inoltre, occorre
considerare che, anche nelle ipotesi in cui si avvalga
della facoltà di delega, il sindaco conserva, in ogni caso,
la
titolarità delle competenze, mantenendo verso il delegato -l'assessore- i poteri di direttiva e di vigilanza, oltre a
quelli di nomina e di revoca.
Va pertanto escluso che, per il fatto di essersi avvalso
della facoltà di delega ad un assessore nella materia
urbanistica,
edilizia e lavori pubblici, il sindaco possa ritenersi
esonerato dall'osservanza dell'obbligo di astensione
dall'esercitare, nel territorio da lui amministrato,
attività
professionale di architetto in materia di edilizia privata e
pubblica.
Di questo principio ha fatto puntuale applicazione il
Consiglio
nazionale degli architetti, riconoscendo la responsabilità
disciplinare dell'arch. Bi. per avere firmato e
presentato
una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)
presso lo stesso Comune in cui era sindaco.
E correttamente il Consiglio nazionale ha ritenuto la
condotta
dell'iscritta in contrasto anche con le norme del codice
deontologico degli architetti, posto che l'architetto è
tenuto
a svolgere la sua attività con lealtà e correttezza,
rispettare
la legge nell'esercizio della professione e
nell'organizzazione della sua attività e, in particolare, a
curare che le modalità con cui svolge il proprio mandato
presso
le istituzioni siano improntate a non conseguire utilità di
qualsiasi natura per sé o per altri (artt. 3, 9 e 21 del
codice
deontologico ratione temporis applicabile)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.07.2016 n. 14764). |
QUESITI & PARERI |
INCARICHI PROGETTUALI:
I concorsi di idee.
DOMANDA:
Il comune intende bandire un concorso di idee ai sensi
dell’art. 156 del D.Lgs. 50/2016 al fine di acquisire,
mediante compenso a premi, idee per la futura progettazione
della riqualificazione di un’area strategica del paese.
A tali fini si richiede se il concorso debba essere
pubblicato con sistemi di evidenza pubblica al di fuori del
mercato elettronico, al fine di garantire la più ampia
partecipazione (anche dei giovani professionisti), o
all'interno del mercato elettronico in analogia alle
prestazioni di servizio.
RISPOSTA:
Va premesso che l’obbligo di far ricorso al mercato
elettronico trova tuttora fondamento nell'ambito delle
previsioni di cui all'art. 1, comma 450, della l. 296/2006,
il quale così dispone “Le amministrazioni statali
centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle
scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e
delle istituzioni universitarie, nonché gli enti nazionali
di previdenza e assistenza sociale pubblici e le agenzie
fiscali di cui al decreto legislativo 30.07.1999, n. 300,
per gli acquisti di beni e servizi di importo di importo
pari o superiore a 1.000 euro e al di sotto della soglia di
rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione di cui
all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto
del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del
presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
nonché le autorità indipendenti, per gli acquisti di beni e
servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e inferiore
alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare
ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici
istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al
sistema telematico messo a disposizione dalla centrale
regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative
procedure".
Ciò premesso si osserva che i concorsi di “idee”, pur
risultando assoggettati, in virtù dell’art. 156 del codice
dei contratti pubblici alle medesime disposizioni del capo
IV dettati per i concorsi di “progettazione”
(definiti dalla lett. ddd) dell’art. 3 del codice come “le
procedure intese a fornire alle stazioni appaltanti, nel
settore dell'architettura, dell'ingegneria, del restauro e
della tutela dei beni culturali e archeologici, della
pianificazione urbanistica e territoriale, paesaggistica,
naturalistica, geologica, del verde urbano e del paesaggio
forestale agronomico, nonché nel settore della messa in
sicurezza e della mitigazione degli impatti idrogeologici ed
idraulici e dell'elaborazione di dati, un piano o un
progetto, selezionato da una commissione giudicatrice in
base a una gara, con o senza assegnazione di premi”)
presentano natura del tutto diversa dai veri e propri “appalti”
di progettazione che sono qualificabili come “servizi”,
in quanto con i primi si tende ad acquisire non tanto un
bene o un servizio ma un’opera intellettuale dell’ingegno,
in genere tutelata dal diritto di autore (art. 2575 cod.
civ. e art. 1 l. diritto d’Autore).
In sostanza con il concorso di idee si acquisisce la
proprietà di una “idea progettuale” ritenuta la
migliore e frutto dell’ingegno della persona (non
necessariamente in possesso di determinati requisiti di
professionalità) mentre nel concorso di progettazione si
affida la realizzazione di un certo progetto come una vera e
propria prestazione professionale da eseguire a carico
dell’affidatario come obbligazione di risultato.
Il comma 4 del cit. art. 156 prevede infatti che il premio
venga dato “al soggetto o ai soggetti che hanno elaborato
le idee ritenute migliori” le quali “possono”, ma
quindi non necessariamente “debbono” essere poste a
base di un successivo concorso di progettazione o di un
appalto di servizi di progettazione al quale potrebbero
partecipare anche i soggetti premiati, se in possesso dei
requisiti soggettivi richiesti, mentre solo se previsto nel
bando il vincitore può anche divenire aggiudicatario di
eventuali livelli successivi di progettazione (v. commi 4, 5
e 6 art. 156 cit.).
Per queste ragioni si è dell’avviso che un concorso di idee,
salvo che non sia inserito nell’ambito di una procedura di
appalto di servizi, non sia assoggettabile agli obblighi del
mercato elettronico di cui al cit. comma 450 (art. 1 della
l. n. 296/2006) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarico di Direttore UTI.
Non si ritiene possibile affidare
l'incarico di Direttore dell'UTI a un dirigente a tempo
determinato ex art. 110 TUEL, atteso che l'art. 18 della
l.r. 26/2014 prevede il collocamento in aspettativa per
tutta la durata dell'incarico medesimo.
Il collocamento in aspettativa, come anche precisato
dall'art. 21 del CCRL Area Dirigenza del 29.02.2008,
riguarda esclusivamente il dirigente a tempo indeterminato;
tale istituto si porrebbe infatti in conflitto insanabile
con la prefissione di un termine apposto a un contratto
stipulato per esigenze temporanee.
---------------
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
affidare l'incarico di Direttore dell'UTI a un dirigente con
contratto a tempo determinato ex art. 110 del d.lgs.
267/2000, in applicazione di quanto disposto all'art. 18
della l.r. 26/2014.
Sentito il Servizio sistema integrato del pubblico impiego
regionale e locale, si esprime quanto segue.
Com'è noto, il richiamato articolo 18, al comma 3, prevede
che l'incarico di Direttore è conferito, previa selezione,
con contratto di lavoro a tempo determinato di diritto
privato a un dirigente dell'Unione o ad altro dirigente del
comparto unico del pubblico impiego regionale e locale o a
uno dei segretari comunali o provinciali in servizio presso
enti locali del territorio regionale.
Ai fini della soluzione alla questione sottoposta rileva in
particolare quanto ulteriormente specificato dalla norma in
esame.
Si stabilisce infatti che, qualora l'incarico sia conferito
a un dirigente dell'Unione o ad altro dirigente del comparto
unico del pubblico impiego regionale e locale, il medesimo
dirigente è collocato in aspettativa senza assegni per tutta
la durata dell'incarico.
A tal proposito si osserva che l'art. 21 del CCRL - Area
Dirigenza del comparto unico -stipulato in data 29.02.2008,
al comma 3, dispone espressamente che al dirigente a tempo
indeterminato, assunto presso altre pubbliche
amministrazioni dello stesso o di diverso comparto o in
organismi dei quali facciano parte la Regione ed altri enti
locali o in organismi della Unione Europea con rapporto di
lavoro o incarico a tempo determinato, l'aspettativa può
[1] essere
concessa per tutta la durata del contratto o incarico a
termine.
Pertanto, alla luce delle disposizioni riportate, emerge
come il collocamento in aspettativa senza assegni debba
esser riferito esclusivamente a dirigenti assunti con
contratto a tempo indeterminato, in servizio di ruolo quindi
presso le rispettive amministrazioni di appartenenza.
Per completezza, si informa che anche la Corte dei conti
[2], pur
con riferimento alla diversa fattispecie del collocamento in
aspettativa per mandato elettorale, ha enunciato un
rilevante principio di carattere generale, rimarcando che 'la
diversità ontologica tra il rapporto di lavoro a tempo
determinato e quello a tempo indeterminato esclude che il
dipendente assunto a tempo determinato abbia titolo a fruire
dell'aspettativa (...), considerato che il collocamento in
aspettativa si porrebbe in conflitto insanabile con la
prefissione di un termine, che è elemento essenziale del
rapporto, giacché la sospensione dell'efficacia verrebbe ad
incidere, prorogandola, sulla durata originariamente
programmata in ragione di esigenze temporanee'
[3].
Non si ritiene possibile, dunque, affidare l'incarico in
argomento a un dirigente a tempo determinato ex art. 110 del
TUEL [4].
---------------
[1] La
formulazione dell'art. 18 prevede peraltro il collocamento
obbligatorio e non facoltativo.
[2] Cfr. sez. giurisd. per la Regione Puglia, sentenza n.
414/2015.
[3] Cfr. Cass. civ., sez. I, sentenza n. 5162 del 2012.
[4] Si consideri inoltre che il medesimo dirigente a tempo
determinato potrebbe, se dipendente o dirigente di ruolo a
tempo indeterminato, essere già stato collocato in
aspettativa proprio per assumere tale incarico (12.09.2016
-
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TRIBUTI:
Applicazione imposta comunale pubblicità ONLUS.
Il D.Lgs. n. 507/1993 disciplina,
all'art. 5, il presupposto dell'imposta sulla pubblicità,
nonché, agli artt. 16 e 17, le ipotesi di riduzione ed
esenzione di tale tributo con particolare riferimento, tra
gli altri, agli organismi che non perseguono finalità di
lucro (tali sono le ONLUS).
In particolare, ai sensi dell'art. 5, D.Lgs. n. 507/1993,
presupposto di applicazione dell'imposta sulla pubblicità è
la diffusione di messaggi pubblicitari (comma 1): ai fini
dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi
nell'esercizio di una attività economica allo scopo di
promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati
a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato (comma
2).
Ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997, gli enti locali
possono prevedere in generale per le ONLUS l'esenzione dalla
suddetta imposta sulla pubblicità.
Il Comune riferisce di aver ricevuto richiesta di esenzione
permanente dal pagamento dell'imposta di pubblicità da parte
di una associazione locale di donatori di sangue, di cui ha
verificato la natura di ONLUS, e chiede se, avuto riguardo
alle previsioni del D.Lgs. n. 460/1997 e a quelle del
proprio regolamento in materia di pubblicità e pubbliche
affissioni [1],
possa essere disposta la riduzione o l'esenzione permanente
dal tributo.
Si precisa che l'attività di consulenza di questo Servizio è
finalizzata a fornire un supporto giuridico in generale agli
enti locali, nella materia posta, che questi possono
utilizzare per la soluzione dei casi concreti che si
presentano al loro operare, in relazione alle loro
specificità. In particolare, l'interpretazione e
applicazione di norme regolamentari emanate dai comuni,
nell'esercizio della loro potestà normativa, compete
unicamente agli enti medesimi. Per cui, solo in via
collaborativa, si esprimono le considerazioni che seguono.
L'art. 10, D.Lgs. n. 460/1997, precisa che sono
organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) le
associazioni, i comitati, le fondazioni, le società
cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o
senza personalità giuridica, ove ricorrano i presupposti e
le condizioni fissati dalla norma medesima.
Ai soggetti che, ai sensi dell'art. 10 richiamato, possono
qualificarsi ONLUS, il legislatore ha riconosciuto
particolari agevolazioni, soprattutto di carattere fiscale,
subordinati alla necessaria iscrizione all'Anagrafe delle
ONLUS (art. 11, D.Lgs. n. 460/1997).
Specificamente, in materia di tributi locali, l'art. 21,
D.Lgs. n. 460/1997, prevede che i comuni, possono deliberare
nei confronti delle ONLUS la riduzione o l'esenzione dal
pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi
adempimenti [2].
Per quanto concerne specificamente l'applicazione
dell'imposta comunale sulla pubblicità ai soggetti ONLUS, il
regolamento dell'Ente in materia di imposta di pubblicità e
pubbliche affissioni, nello stralcio riportato nel quesito,
relativo alla riduzione e all'esenzione dall'imposta,
prevede, tra i casi di riduzione, quello 'per la
pubblicità effettuata da comitati, associazioni, fondazioni
ed ogni altro ente che non abbia finalità di lucro'
[3], quali
le ONLUS. Mentre, per quanto concerne l'esenzione, il
regolamento comunale, così come riportato nel quesito, non
sembra contemplare alcune ipotesi di esenzione per gli enti
senza fini di lucro.
Sul piano dell'ordinamento statale, il D.Lgs. n. 507/1993
disciplina, agli artt. 16 e 17, le ipotesi, rispettivamente,
di riduzione e di esenzione dell'imposta di pubblicità. La
riduzione è prevista, tra l'altro, 'per la pubblicità
effettuata da comitati, associazioni, fondazioni ed ogni
altro ente che non abbia finalità di lucro' (art. 16).
Può trattarsi, invero, della pubblicità mediante insegne,
cartelli, locandine, targhe (Pubblicità ordinaria, di cui
all'art. 12), oppure della pubblicità a mezzo striscioni
(come riferito nel caso in esame), contemplata all'art. 15
(Pubblicità varia), assoggettata alla stessa tariffa
prevista dall'art. 12.
Per quanto concerne, invece, le ipotesi di esenzione
dall'imposta di cui si tratta, il D.Lgs. n. 507/1993 indica,
con riferimento ai soggetti non aventi finalità di lucro,
quella specifica per 'le insegne, le targhe e simili
apposte per l'individuazione delle sedi di comitati,
associazioni, fondazioni ed ogni altro ente che non persegua
scopo di lucro' (art. 17, comma 1, lett. h).
In generale, emerge dalle norme richiamate come i soggetti
non aventi fine di lucro possono essere destinatari della
riduzione o dell'esenzione dall'imposta di pubblicità. La
ricorrenza dei presupposti dell'una o dell'altra fattispecie
deve essere valutata dagli enti in relazione alle
particolarità dei casi concreti.
Con particolare riferimento al caso di specie, l'Ente
osserva, peraltro, che sugli striscioni esposti
dall'associazione locale (ONLUS) 'non viene pubblicizzata
alcuna attività economica né evento di raccolta fondi'.
Ne deriva la necessità che l'Ente valuti innanzitutto la
ricorrenza del presupposto di applicazione dell'imposta di
pubblicità, che, avuto riguardo al dettato normativo come
esplicitato dalla giurisprudenza, sembra poggiare sulla
natura economica dell'attività pubblicizzata. Ai sensi
dell'art. 5, D.Lgs. n. 507/1993, infatti, presupposto
dell'imposta sulla pubblicità è 'la diffusione di
messaggi pubblicitari' (comma 1), e ai fini
dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi
nell'esercizio di una attività economica allo scopo di
promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati
a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato (comma 2)
[4]. La
valutazione di un tanto, nel caso specifico, è rimessa
all'autonomia dell'Ente.
Rimane ferma, ovviamente, la possibilità per l'Ente di
prevedere in generale l'esenzione per le ONLUS espressamente
del tributo locale di cui si tratta, in via regolamentare,
ai sensi dell'art. 21, D.Lgs. n. 460/1997.
---------------
[1] Ai sensi dell'art. 3, D.Lgs. 15.11.1993, n. 507
(Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla
pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della
tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei
comuni e delle province nonché della tassa per lo
smaltimento dei rifiuti urbani a norma dell'art. 4 della
legge 23.10.1992, n. 421, concernente il riordino della
finanza territoriale), il comune è tenuto ad adottare
apposito regolamento per l'applicazione dell'imposta sulla
pubblicità e per l'effettuazione del servizio delle
pubbliche affissioni.
[2] La norma è espressione della potestà regolamentare
generale degli enti locali di cui all'art. 52 del D.Lgs. n.
446/1997, che riconosce ai Comuni e alle Province il potere
di disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche
tributarie, salvo per quanto attiene alla individuazione e
alla definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti
passivi e della aliquota massima dei singoli tributi, la cui
determinazione è riservata alla legge. Per quanto non
regolamentato si applicano le disposizioni di legge vigenti.
[3] Analogamente prevede la normativa statale, come
specificato subito nel prosieguo.
[4] Precisa la giurisprudenza che presupposto impositivo è
la 'pubblicità (economica)' attinente all'attività economica
di un soggetto imprenditoriale, distinta dalla legge nelle
due specie della 'propaganda (economica)', che consiste
nella trasmissione di conoscenza di prodotti e servizi
dell'impresa al fine di incrementarne la domanda, e
dell''attività di relazioni pubbliche', che consiste nella
trasmissione di conoscenza sul soggetto imprenditoriale allo
scopo di migliorarne l'immagine presso il pubblico dei
consumatori, che domandano i beni e i servizi di
quell'impresa. La prima è una pubblicità (economica) diretta
(dei beni e dei servizi); la seconda è una pubblicità
(economica) indiretta (degli stessi beni e degli stessi
servizi). Cfr. Cass. civ., Sez. V, 06.11.2009, n. 23573.
Conformi sul collegamento dei messaggi pubblicitari
all'esercizio di un'attività economica: Cass. civ., sez.
trib., 11.02.2015, n. 2629; Commissione tributaria
provinciale, Ascoli Piceno, sez. V, 21.09.2010, n. 219, che
ha escluso la sussistenza del presupposto impositivo nel
caso di esposizione di uno striscione senza alcun
collegamento con un'attività imprenditoriale.
In ordine al concetto di impresa, la Cassazione civile, sez.
trib., 16.07.2010, n. 16722, richiama la consolidata
giurisprudenza della Corte di giustizia, nell'ambito del
diritto alla concorrenza, secondo cui la nozione di impresa
abbraccia qualsiasi entità che eserciti un'attività
economica (Corte di giustizia UE, sez. VI, 23.04.1991, n. 41
e 11.12.1997, n. 55), e costituisce un'attività economica
qualsiasi attività consistente nell'offrire beni o servizi
su un determinato mercato (Corte di giustizia UE, sez. V,
18.06.1998, n. 35).
In questo senso, v.: Cass. civ., sez. I, 28.11.1995, n.
12319, secondo cui il messaggio pubblicitario, per essere
soggetto all'imposta in esame, deve avere il suo punto di
riferimento nella produzione o vendita di merci o nella
fornitura di servizi, e ciò anche se si ritiene non
essenziale che tale attività sia posta in essere da un
soggetto organizzato ad impresa; Cass. civ., sez. V,
27.06.2005, n. 13823, che ha ritenuto che le scritte sulle
fiancate delle navi recanti il nome e il logo della
compagnia navale non devono essere assoggettate all'imposta
sulla pubblicità, in quanto sprovviste dello scopo di
promuovere la domanda di beni e di servizi per la società di
appartenenza e di pubblicità, ma hanno lo scopo di
indirizzare i passeggeri che hanno già acquistato il
biglietto verso la nave su cui imbarcarsi (06.09.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo
schema di schema di regolamento redatto dall’Anac per il
rilascio dei pareri di precontenzioso ai sensi dell’art.
211, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
1. L’oggetto
Il regolamento in oggetto costituisce attuazione dell’art.
211 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante il
nuovo Codice dei contratti pubblici, il quale stabilisce
che: “Su iniziativa della stazione appaltante o di una o
più delle altre parti, l’ANAC esprime parere relativamente a
questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di
gara, entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta.
Il parere obbliga le parti che vi abbiano preventivamente
consentito ad attenersi a quanto in esso stabilito. Il
parere vincolante è impugnabile innanzi ai competenti organi
della giustizia amministrativa ai sensi dell’articolo 120
del codice del processo amministrativo. In caso di rigetto
del ricorso contro il parere vincolante, il giudice valuta
il comportamento della parte ricorrente ai sensi e per gli
effetti dell’articolo 26 del codice del processo
amministrativo.”
Il provvedimento sostituisce i regolamenti già approvati ai
sensi dell’art. 6, comma 6, lett. n), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, recante il vecchio Codice
dei contratti pubblici, secondo cui l’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture –poi assorbita dall’ANAC– “su iniziativa della
stazione appaltante e di una o più delle altre parti,
esprime parere non vincolante relativamente a questioni
insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara,
eventualmente formulando una ipotesi di soluzione; si
applica l’articolo 1, comma 67, terzo periodo, della legge
23.12.2005, n. 266”.
La principale novità introdotta dal regolamento in esame
risiede nella possibilità per le parti interessate di
manifestare la volontà di uniformarsi al parere, con la
conseguenza di renderlo vincolante, attraverso un duplice
alternativo meccanismo:
- su istanza singola, qualora le altre parti esprimano il
loro consenso entro dieci giorni dalla comunicazione
dell’istanza;
- su istanza congiunta, nella quale sia stata espressa la
volontà di attenersi al parere.
L’istruttoria dell’istanza è caratterizzata dalla massima
celerità e dal metodo scritto, affinché la procedura possa
concludersi entro trenta giorni dalla sua presentazione.
2. Le questioni generali
Molteplici e delicate, anche sul piano squisitamente
teorico, le questioni affrontate dal Consiglio di Stato.
a) Il rapporto tra primo e secondo comma dell’art. 211 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50.
Il comma 2 attribuisce all’ANAC un potere di invito nei
confronti delle stazioni appaltanti ad agire in autotutela.
Il potere di raccomandazione così introdotto è presidiato da
una sanzione pecuniaria nei confronti del dirigente
responsabile e dalla previsione della sua incidenza sulla
reputazione delle stazioni appaltanti. Il rapporto naturale
tra parere e raccomandazione è di alternatività, in guisa da
dar luogo ad un sistema di tutela pre-processuale completo,
attivabile su iniziativa di parte, o, in mancanza,
d’ufficio.
Tuttavia è possibile che le due procedure si intreccino,
come si evince dallo stesso regolamento, che sancisce
l’inammissibilità delle istanze di precontenzioso
interferenti con esposti di vigilanza e procedimenti
sanzionatori in corso di istruttoria presso l’Autorità. Né
può escludersi che l’ANAC usi il potere di raccomandazione a
seguito del precontenzioso.
Il Consiglio di Stato, pertanto, ha ravvisato la necessità
di una disciplina di regolamentazione della fattispecie, che
delimiti i presupposti di esercizio del potere e individui
le procedure su cui intervenire, anche alla luce del
considerando n. 122 della direttiva UE 24/2014.
b) Il fondamento del potere regolamentare dell’ANAC, in assenza di
un’espressa previsione di legge.
Dopo un excursus di carattere generale sul potere
regolamentare delle Autorità Indipendenti, in cui si
sottolinea l’importanza della fase istruttoria e, in
particolare, dell’intervento consultivo del Consiglio di
Stato, la Commissione ha affrontato il problema
dell’inquadramento del regolamento in esame, riconducendolo
alla categoria dei regolamenti di organizzazione, essendo
principalmente volto a disciplinare lo svolgimento della
funzione precontenziosa definita dalla fonte primaria.
Ciò implica, da un lato, che non occorre evocare la teoria
dei poteri impliciti per ravvisare una base legale al potere
regolamentare esercitato, la teoria dei poteri impliciti per
ravvisare una base legale al potere regolamentare
esercitato, esso trovando fondamento nel potere di
auto-organizzazione dell’ANAC, dall’altro, che il
regolamento incontra dei limiti legati alla sua incidenza
sulle posizioni giuridiche degli interessati.
Tuttavia, deve essere attentamente considerato il carattere
necessariamente subordinato della fonte regolamentare in
esame e la sua possibile incidenza sul diritto di difesa
delle parti che intendono attivare lo strumento di tutela.
c) La distinzione dalle linee guida.
Dopo aver richiamato le considerazioni già svolte in
precedenti pareri sulla natura delle linee-guida, la
Commissione ne evidenzia la tipica efficacia “esterna”,
come si conviene ad uno strumento di soft law, la cui
origine è nella comunità degli affari –cosmopolita e in
perenne movimento, bisognosa di regole transnazionali che
siano dotate al tempo stesso di flessibilità e effettività,
sovente originate dalle stesse pratiche commerciali che
intendono regolare– e promana da fonti (gli usi non
normativi, i codici di condotta, l’interpretazione e le
clausole generali, i principi, la lex mercatoria, le
regolamentazioni delle Associazioni di categoria, etc.) che
trovano fondamento nell’effetto pratico che le relative
disposizioni producono sui destinatari.
Per contro, il regolamento dell’ANAC resta ancorato al
sistema delle fonti di matrice kelseniana, costruito come
un’architettura geometrica, sulla base del valore formale
dell’atto, ed ha la funzione di dettare norme di azione per
la Pubblica Amministrazione, non già regole di condotta per
gli operatori.
d) La natura giuridica del precontenzioso.
Dopo aver agevolmente ricondotto il parere non vincolante
alla moral suasion, con un quid pluris che lo
avvicina ai responsa di romanistica memoria, la Commissione
ha affrontato la complessa questione della qualificazione
dogmatica del parere vincolante, o, più precisamente, della
procedura da cui esita, inquadrandolo nelle ADR (Alternative
Dispute Resolution), sia pure con indiscutibili tratti
di specialità, poiché la procedura riposa sulla volontà
delle parti, in base a un sistema binario, a seconda che vi
sia o meno l’assenso all’efficacia vincolante del parere, e
sfocia in un atto amministrativo che, quando ha efficacia
vincolante, può essere impugnato in sede giurisdizionale.
Su tale profilo, il problema della giustificazione teorica
dell’istituto all’interno del sistema amministrativo –dove
vige il principio di indisponibilità dell’interesse
legittimo e il conseguente divieto di arbitrato– si incrocia
con quello del modello ad efficacia soggettiva variabile
scelto dal regolamento, ed ancor prima dalla legge, per cui
il parere è vincolante solo nei confronti delle parti che
hanno aderito alla procedura.
La Commissione ha osservato che l’ancoraggio della
vincolatività del parere al consenso delle parti è
necessario se si vuole mantenere la distanza dai mezzi
processuali, essendo la caratteristica principale delle
tecniche di risoluzione alternativa delle controversie.
È ben vero che le ADR attengono a diritti disponibili, ma
tale principio appare insuperabile solo nell’ambito dei
mezzi non aggiudicativi, come la mediazione o la
negoziazione assistita, che hanno una connotazione
marcatamente privatistica, in attuazione del principio di
sussidiarietà orizzontale.
Nell’ipotesi in esame, invece, la procedura è svolta e
decisa da un organo pubblico, che appartiene al novero delle
Autorità indipendenti di settore, come AGCM, cui sono
riconosciute funzioni non lontane dalla giurisdizione. Il
pericolo, allora, è proprio quello di una
processualizzazione dell’istituto, contraria alla sua
ratio, che la Commissione suggerisce di evitare
indicando una serie di specifici correttivi.
e) Le residue criticità
La Commissione individua quattro aree di criticità della
procedura costruita dal regolamento, in larga misura
dipendenti dal modello previsto dalla fonte primaria.
In primo luogo, una volta sancita l’impugnabilità del
parere, non sembra più necessario subordinare l’efficacia
vincolante al previo consenso delle parti. Nell’ordinamento,
quando è previsto il ricorso (facoltativo) ad Autorità
indipendenti, l’efficacia vincolante della decisione non è
subordinata al previo consenso delle parti (si pensi al
ricorso al difensore civico o alla commissione per
l’accesso), ma tale soluzione non è perseguibile de iure
condito.
In secondo luogo, l’efficacia soggettiva variabile
compromette, se non l’effetto di deflazione, la linearità
del sistema. Si pensi al caso della stazione appaltante che,
sottoposta all’efficacia vincolante del parere, decida di
adeguarsi ad esso. La parte che non è sottoposta alla forza
vincolante del parere potrà limitarsi a dedurne
l’inefficacia nei suoi confronti, con la conseguenza che –se
sfavorevole– non sarà tenuta per tutelarsi a impugnarlo o a
partecipare al giudizio da altri instaurato. Tuttavia,
resterà pur sempre pregiudicata dal provvedimento adottato
sulla base di tale parere, ragion per cui dovrà impugnarlo,
ciò dando luogo a un problematico rapporto tra i due
giudizi.
In terzo luogo, il parallelismo con l’arbitrato evidenzia
un’aporia nella natura consensuale del meccanismo: in ambito
civilistico, la struttura contrattuale del compromesso e
dalla clausola compromissoria fa sì che non è revocabile
l’assenso; nell’istituto in esame, invece, il carattere
unilaterale del vincolo fa pensare alla possibilità di un
ripensamento della parte stessa.
In quarto luogo, si pone il problema di individuare la
disciplina applicabile al procedimento (termini, rapporti
con la tutela giurisdizionale, inammissibilità e
improcedibilità, revocazione, etc.) laddove non
espressamente prevista.
Su questi punti occorre un espresso intervento normativo,
anche in via legislativa.
3. Le questioni particolari
Diversi rilievi sono stati formulati al fine di migliorare
la procedura e garantire le parti interessate alla
decisione, per cui si dà conto dei più importanti.
In primo luogo è stato chiarito l’ambito di
applicazione dell’istituto, che riguarda “questioni”
e non “controversie” e si estende anche oltre la
stipulazione del contratto, sempre che abbia ad oggetto
situazioni relative alla procedura di gara, poiché in tal
senso milita la lettera della legge e non può escludersi
l’utilità di una soluzione precontenziosa anche in una fase
avanzata dell’appalto.
In secondo luogo si è suggerito di precisare che
l’istanza di parere precontenzioso, salva l’ipotesi in cui
sia stata proposta contestualmente da tutti i soggetti
coinvolti nella vicenda, venga comunicata a “tutti i
soggetti interessati alla soluzione della questione oggetto
della medesima”, dovendosi intendere nell’ampia dizione
di “interessati” anche quelli che nel processo
amministrativo sarebbero controinteressati, coerentemente al
significato che detto termine ha negli articoli in esame,
allorquando si usa l’espressione “parti interessate”
per designare tutti coloro la cui posizioni giuridiche sono
toccate dal parere.
Tale soluzione è apparsa preferibile, oltre che per ragioni
di coerenza sistematica, anche sul piano strettamente
lessicale: il termine controinteressato assume una diversa
valenza secondo che si riferisca al procedimento o al
processo, poiché nel primo il controinteressato è colui che
è, senza essere destinatario dell’atto, può riceverne
pregiudizio (cfr. art. 7 della legge n. 241 del 1990) e
perciò è legittimato ad impugnare il provvedimento finale,
nel secondo il controinteressato è colui che vanta un
interesse uguale e contrario a quello del ricorrente, quindi
nella posizione di resistere al ricorso. Impiegare il
termine “controinteressato” nel contesto della
procedura di precontenzioso, dunque, darebbe adito a dubbi
interpretativi.
In terzo luogo è apparso opportuno ripristinare
l’audizione delle parti dinanzi all’Autorità, almeno per le
controversie di maggior rilievo, collocandola dopo la
scadenza del termine per prestare l’eventuale assenso al
parere. La brevità del termine per concludere il
procedimento non costituisce un impedimento assoluto, sol
che si abbia l’accortezza di prevedere modalità di
convocazione rapide, ad esempio in forma telematica, e un
contraddittorio orale semplificato e senza formalità.
In quarto luogo è stata suggerita l’eliminazione
della disposizione relativa al riesame del parere
vincolante, foriera di ulteriori complicazioni, nell’ipotesi
–piuttosto probabile– di un’interferenza tra il procedimento
di riesame e il processo, attesa l’impugnabilità dei pareri
vincolanti dinanzi al giudice amministrativo.
Da ultimo, è stata integralmente riformulata la
disposizione relativa agli effetti del parere. La
Commissione ha distinto tre ipotesi.
La prima è l’obbligo di comunicazione all’ANAC della
stazione appaltante che abbia manifestato la volontà di
attenersi al parere, avente ad oggetto la eventuale
proposizione di ricorso giurisdizionale avverso il parere
ovvero le determinazioni adottate al fine di adeguarsi al
parere stesso.
La seconda è l’obbligo di comunicazione all’ANAC
delle parti diverse dalla stazione appaltante che abbiano
manifestato la volontà di attenersi al parere, avente ad
oggetto la eventuale proposizione di ricorso giurisdizionale
avverso il parere ovvero l’avvenuta acquiescenza al parere.
La terza è l’obbligo di comunicazione all’ANAC delle
parti che non hanno manifestato la volontà di attenersi al
parere, avente ad oggetto le proprie determinazioni
conseguenti al parere (Consiglio
di Stato, Commissione speciale,
parere 14.09.2016 n. 1920 -
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APPALTI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle
Linee guida relative a "Criteri di scelta dei commissari di
gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale
obbligatorio dei componenti delle commissioni
aggiudicatrici".
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle Linee guida
relative a “Criteri di scelta dei commissari di gara e di
iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio
dei componenti delle commissioni aggiudicatrici”
1. Oggetto.
Il parere è stato reso dal Consiglio di Stato sulle linee
guida che l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) ha
adottato, ai sensi degli artt. 77 e 78, d.lgs. 18.04.2016,
n. 50.
Si tratta delle regole operative che devono essere seguite
nella composizione delle commissioni giudicatrici e nella
gestione da parte dell’ANAC dell’Albo dei componenti la
commissione.
Il suddetto d.lgs. n. 50 del 2016, si sottolinea nel parere,
ha optato per un sistema di preferenza per i commissari
esterni rispetto a quelli interni alla stazione appaltante,
al fine di garantire una maggiore attuazione dei principi di
imparzialità e trasparenza.
L’Autorità ha scisso in due diversi momenti temporali
l’adozione delle prescrizioni attuative del Codice. Il
Consiglio di Stato ha auspicato che il secondo provvedimento
di completamento delle presenti linee guida venga adottato
in tempi celeri per consentire l’entrata in vigore del nuovo
sistema di composizione delle commissioni.
2. Questioni generali.
Nel parere sono state analizzate le seguenti questioni di
valenza generale.
2.1. Natura delle «determinazioni» dell’ANAC.
La prima questione trattata ha riguardato la natura delle
linee guida.
La Commissione speciale ha rilevato che esse, integrando il
precetto primario, hanno natura di linee guida vincolanti.
Ne consegue che si è in presenza di atti amministrativi
generali appartenenti al genus degli atti di
regolazione delle Autorità amministrative indipendenti, sia
pure connotati in modo peculiare.
2.2. La obbligatorietà dell’iscrizione
nell’Albo.
La seconda questione ha riguardato la portata dell’obbligo
di iscrizione nell’Albo.
Il Consiglio di Stato ha condiviso l’impostazione delle
linee guida che, a fronte di un dato normativo non del tutto
chiaro, hanno imposto l’obbligo di iscrizione nel predetto
Albo non soltanto per i commissari esterni ma anche per
quelli interni alla stazione appaltante.
2.3. Modalità di nomina e regole di
attività e responsabilità.
La terza questione esaminata ha avuto ad oggetto il sistema
di responsabilità delle stazioni appaltanti. La Commissione
speciale ha messo in rilievo che la natura esterna del
commissari non impedisce il funzionamento del sistema di
imputazione dell’attività alla stazione appaltante, con la
conseguente assenza, a seguito della riforma, di un rischio
di “deresponsabilizzazione” dell’amministrazione
aggiudicatrice.
3. Questioni specifiche.
3.1. Campo di applicazione.
Si è chiarito che l’obbligo della previa iscrizione all’Albo
gestito dall’ANAC, ai fini della nomina nelle commissioni
giudicatrici per i concorsi di progettazione, operi soltanto
in presenza di amministrazioni aggiudicatrici e non anche,
nei settori speciali, in presenza di enti aggiudicatori.
3.2. Composizione dell’Albo e modalità di
nomina dei commissari “esterni” ed “interni”.
In relazione a questa tematica la Commissione speciale ha
affermato quanto segue.
A) La previsione normativa, ripresa dalle linee guida, che consente
la nomina di commissari interni in presenza di appalti di
«particolare complessità» deve essere interpretata in modo
rigoroso, per evitare una possibile elusione dei principi di
garanzia sottesi alla preferenza legislativa per i
commissari esterni. La Commissione speciale ha, pertanto,
richiesto all’ANAC di compiere una elencazione puntuale
delle fattispecie che potrebbero rientrare nell’ambito della
suddetta eccezione.
B) La parte delle linee guida che prevedono che, nel caso in cui
ricorrono i presupposti per la nomina di una commissione
interna, il Presidente della commissione deve essere scelta
tra soggetti “esterni” alla commissione, deve essere
espunta dal testo perché si pone in contrasto con l’art. 77
del d.lgs. n. 50 del 2006, che non contempla tale obbligo.
3.3. Adempimenti delle stazioni appaltanti
e funzionalità delle commissioni giudicatrice.
In relazione a questa tematica la Commissione speciale ha
affermato quanto segue.
A) Le linee guida -nel disporre che la stazione appaltante possa
prevedere ulteriori adempimenti rispetto alla valutazione
delle offerte tecniche ed economiche, tra i quali la «valutazione
della congruità delle offerte tecniche, svolta in
collaborazione con il responsabile del procedimento»-
assegnano alla commissione funzioni non autorizzate dalla
legge.
B) Le linee guida -nella parte in cui dispongono che «La nomina
di commissari interni può essere effettuata solo quando
nell’Albo vi siano un numero di esperti della stazione
appaltante sufficiente a consentire il rispetto dei principi
di indeterminatezza del nominativo dei commissari di gara
prima della presentazione delle offerte e della rotazione
delle nomine»- hanno introdotto un presupposto non
contemplato dalla normativa primaria.
C) La nomina di “tutti” commissari, compresi quelli “interni”,
deve avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la
presentazione delle offerte.
D) E’ necessario integrare le linee guida al fine di chiarire in
quali casi le sedute devono essere pubbliche e in quali
riservate, con ulteriori prescrizioni esecutive, sulla
falsariga di quanto previsto dall’art. 12 del decreto-legge
07.05.2012, n. 52, convertito in legge 06.07.2012, n. 94.
E) E’ opportuni integrare le linee guida, da un lato, mediante
l’indicazione delle modalità di nomina di eventuali “sostituti”
se uno o più dei candidati designati dall’ANAC abbia un
impedimento soggettivo ovvero versi in una situazione
ostativa, dall’altro, mediante la previsione dell’obbligo,
per le stazioni appaltanti, di comunicare il compenso dei
singoli commissari e il costo complessivo, sostenuto
dall’amministrazione, connesso alla procedura di nomina.
4. Comprovata esperienza e professionalità.
In relazione a questa tematica la Commissione speciale ha
affermato quanto segue.
A) Ai fini della identificazione della categoria dei “dipendenti
pubblici” che possono essere nominati nella commissione,
non si deve avere riguardo alle amministrazioni di cui
all’art. 1, della legge 31.12.2009, n. 196 ma all’art. 1,
comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme
generale sull’ordinamento del lavoro alle dipendente delle
amministrazioni pubbliche).
B) E’ necessario chiarire a favore di quale soggetto operi
(stazione appaltante o terzi) l’obbligo previsto dalle linee
guida, per i commissari nominati, di possedere “una
copertura assicurativa obbligatoria”.
C) Occorre che le linee guida contengano requisiti omogenei, in
ordine all’assenza di sanzioni disciplinari, per tutti i
soggetti che possono essere nominati nelle commissioni
giudicatrici.
D) E’ necessario chiarire come debbano essere considerati i
requisiti di nomina posseduti nell’ambito di una categoria
nel caso di passaggio dell’esperto in categoria di soggetti
inclusi tra quelli suscettibili di nomina,
E) Nell’elenco degli affidamenti da considerarsi «particolarmente
complessi» devono essere inseriti anche i lavori
relativi al settore ambientale, con particolare riferimento,
ad esempio, alle attività di bonifica di siti inquinati
ovvero a quella di gestione di rifiuti soprattutto quelli
pericolosi.
3.4. Requisiti di moralità e compatibilità.
In relazione a questa tematica la Commissione speciale ha
affermato quanto segue.
A) Sarebbe opportuno che le linee guida considerino ostative alla
nomina dei commissari tutte le condanne per reati di cui
all’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016, anche al fine di
creare una sorta di “simmetria escludente” tra
requisiti dei partecipanti e dei giudicanti.
3.5. Modalità di iscrizione e di
aggiornamento dell’Albo.
In relazione a quest’ultima tematica la Commissione speciale
ha rilevato che l’ANAC deve procedere a verifica sui
requisiti di iscrizione nel momento in cui il soggetto viene
indicato nella lista di candidati fornita alla stazione
appaltante (Consiglio
di Stato, Commissione speciale,
parere 14.09.2016 n. 1919 -
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APPALTI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle
Linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC.)
in materia di procedure per l'affidamento dei contratti
pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza
comunitaria.
Le Linee guida su cui il Consiglio di Stato è stato chiamato
a fornire un parere facoltativo, elaborate dall’Autorità in
attuazione di quanto disposto dall’art. 36, comma 7, del
nuovo Codice dei contratti pubblici, intendono fornire
indicazioni, indicare le “migliori pratiche” e
stabilire, dunque, modalità di dettaglio per supportare le
stazioni appaltanti e migliorare la qualità delle procedure
in un settore di mercato, come quello degli appalti pubblici
sotto-soglia, di assoluto rilievo -anche in termini
percentuali- nel mondo produttivo nazionale.
Le Linee guida dell’ANAC seguono la forma discorsiva e la
natura non vincolante giustifica, in questo caso, un minore
rigore nell’enucleazione dell’indirizzo impartito
all’amministrazione. Il Consiglio, tuttavia, ha segnalato
come opportunamente, anche in questo caso, si sia optato per
una modalità di adozione preceduta dalla consultazione dei
soggetti interessati, per quanto la natura flessibile della
regolazione avrebbe potuto giustificare un’adozione
unilaterale. Il confronto dialettico con i possibili
destinatari degli atti di indirizzo, infatti, deve essere
considerato con favore, consentendo di migliorare la qualità
della regolazione stessa ed il raggiungimento degli scopi
prefissati di efficienza ed efficacia.
Ad avviso del Consiglio, l’Autorità, nell’operare le scelte
di fondo, si è impegnata significativamente, ed
efficacemente, nella non facile opera di bilanciamento tra
l’esigenza di semplificazione e razionalizzazione della
disciplina, in un settore che per tradizione gode di una
procedura “alleggerita”, e la necessità di osservare,
in ogni caso, i principi generalissimi che regolano
l’affidamento e l’esecuzione degli appalti pubblici, in
termini di trasparenza, pubblicità, proporzionalità,
concorrenza, non discriminazione e maggiore apertura al
mercato possibile, senza aggravare, però, gli operatori
economici di inutili oneri aggiuntivi.
In un mercato sempre più rilevante in termini percentuali
come quello del “sotto-soglia”, l’introduzione a
carico delle stazioni appaltanti di pregnanti vincoli di
motivazione, anche aggiuntivi rispetto a quanto previsto
dalla legge -che il Consiglio ha chiesto di dedicare
maggiormente, nel dettaglio, alle concrete procedure di
affidamento e di selezione dell’affidatario e più
sinteticamente alla scelta, a monte, della procedura da
seguire- risponde ad una logica volta a privilegiare anche
in questo caso, se possibile, le procedure ordinarie, che
maggiori garanzie danno, evidentemente, sotto i profili
della correttezza dei comportamenti e dell’anticorruzione.
La motivazione aggiuntiva imposta è opportuna, poiché la
stazione appaltante rende esplicite e verificabili (anche
dal giudice) percorsi decisionali che, data la frequenza del
sistema di offerte sotto soglia, resterebbero altrimenti
opachi e talora influenzabili da fenomeni corruttivi.
Nel contempo, il Consiglio ha chiesto che venga confinata
all’eccezionalità la possibilità di riaffidare in via
diretta l’appalto allo stesso operatore economico uscente,
ad esempio a fronte di riscontrata effettiva assenza di
alternative, non potendosi tralasciare il doveroso rispetto,
tra gli altri, del principio di rotazione, sancito
specificamente dalla legge, e considerando che, assai
spesso, è proprio negli affidamenti di importo non elevato
all’operatore uscente che il fenomeno corruttivo si annida
nella sua dimensione meno facilmente accertabile.
Da notare, infine, che le indicazioni di carattere
procedurale attinenti all’obbligo di motivazione, alla
predisposizione della determina a contrarre, alla
stipulazione del contratto, sono state opportunamente
differenziate dall’Autorità in ragione dell’oggetto e del
valore dell’affidamento (Coniglio
di Stato, Commissione speciale,
parere 13.09.2016 n. 1903 -
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URBANISTICA: Le
scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché
anche la destinazione data alle singole aree non necessita
di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti
nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al piano regolatore generale,
salvo che particolari situazioni non abbiano creato
aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui
posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
In sostanza le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali, sono date dal superamento degli standards minimi
di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
---------------
Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, le scelte
effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché
anche la destinazione data alle singole aree non necessita
di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti
nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al piano regolatore generale,
salvo che particolari situazioni non abbiano creato
aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui
posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni;
in sostanza le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali sono date dal superamento degli standards minimi di
cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo (in termini, ex multis, Consiglio di Stato
sez. IV 14.05.2015 n. 2453)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 08.09.2016 n. 4191 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
VAS, escludibile una piccola area purché non superi il 5%
della zona di competenza.
Secondo l'Avvocato generale della Corte Ue, non è
compatibile con la Direttiva VAS la norma che rimanda
soltanto alla superficie indicata nel piano per la
definizione di piani e programmi che «determinano l’uso di
piccole aree a livello locale».
Un piano o programma non determina più,
ai sensi della direttiva VAS, l’uso di una piccola area
qualora la zona interessata superi il parametro di
riferimento del 5% della superficie relativa alla zona di
competenza delle singole amministrazioni locali.
È quanto si legge nelle
conclusioni 08.09.2016 causa C-444/15
dell'Avvocato generale della Corte di giustizia europea
nella, avente ad oggetto una controversia su un intervento
edilizio nella laguna di Venezia.
Pur essendo stata svolta una valutazione dell’incidenza
conformemente alla direttiva Habitat, le autorità italiane
stabilivano, nel quadro di un esame preliminare, l’assenza
di necessità di una valutazione ambientale strategica a
norma della direttiva 2001/42/CE in materia di VAS
(Valutazione ambientale strategica), dal momento che il sito
interessato riguardava solamente una piccola area a livello
locale e l’intervento non avrebbe avuto possibili effetti
significativi sull’ambiente. In un caso siffatto, la
direttiva VAS non prevede l’obbligo di realizzare una
valutazione ambientale strategica.
Italia Nostra ha affermato che il fatto che l’articolo 3,
paragrafo 3, della direttiva VAS preveda l’esenzione da una
valutazione ambientale strategica per piani e programmi che
formano già oggetto di una valutazione dell’incidenza a
norma della direttiva Habitat, non corrisponde al livello di
tutela garantito.
L'Avvocato generale ha evidenziato che la qualifica di un
piano o programma come misura atta a determinare l’uso di
una piccola area a livello locale è soggetta a due
condizioni: da un lato, l’uso di una piccola area e,
dall’altro, la determinazione a livello locale.
Una norma,
la quale per la definizione di piani e programmi che «determinano
l’uso di piccole aree a livello locale», rimandi
soltanto alla superficie indicata nel piano, non risulta
compatibile con l’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva
VAS. Poiché la misura controversa nel procedimento
principale era stata emessa dalla città di Venezia, non si
deve però escludere che si tratti di una misura a livello
locale.
Il criterio per stabilire l’estensione dell’area può essere
esclusivamente costituito dalla superficie della zona
diretta interessata dal piano, a prescindere dagli effetti
del progetto sull’ambiente. Si pone quindi la questione fino
a quale estensione territoriale determinate aree debbano
essere intese come «piccole». Il legislatore
dell’Unione si è astenuto dal fissare una soglia specifica,
compito che rientra nel potere discrezionale degli Stati
membri. Detto potere è limitato soltanto dal confine estremo
di ciò che, secondo una prospettiva di vita naturale, può
essere ancora definita come «piccola» area.
Secondo l'Avvocato generale, quale parametro di riferimento
è possibile considerare sostanzialmente tre aree: l’intero
territorio dell’Unione, cosicché si possa determinare una «piccola»
superficie specifica, valida per tutti gli Stati membri; la
superficie dei singoli Stati membri e, infine, la superficie
rientrante nella sfera di competenza delle singole
amministrazioni locali.
In questo contesto emerge quale parametro di riferimento una
superficie pari a una percentuale massima del 5% della zona
di competenza delle singole amministrazioni locali come ciò
che, secondo una prospettiva di vita naturale, può essere
ancora intesa come «piccola» area. Tuttavia, nel caso
di enti locali con estensione territoriale particolarmente
grande, l’applicazione di questo parametro di riferimento
non è di norma ammissibile.
In conclusione, per l'Avvocato generale l’applicazione
dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42/CE
presuppone, accanto all’uso di una piccola area, che il
piano o il programma rientri nella sfera di competenza di
un’autorità locale. Tale disposizione osta quindi a una
norma che, nell’ambito della questione se un piano o un
programma determini l’uso di una piccola area a livello
locale, rimanda esclusivamente alla superficie della zona
interessata dal piano.
Infine, un piano o programma non determina più, ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42/CE,
l’uso di una piccola area qualora la zona interessata superi
il parametro di riferimento del 5% della superficie relativa
alla zona di competenza delle singole amministrazioni locali
(commento tratto da e link a www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Conclusione.
Suggerisco pertanto alla Corte di rispondere alla domanda di
pronuncia pregiudiziale nei seguenti termini:
1) L’esame della prima questione non ha
rivelato alcun elemento atto a porre in discussione la
validità dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva
2001/42/CE concernente la valutazione degli effetti di
determinati piani e programmi sull’ambiente.
2) L’applicazione dell’articolo 3, paragrafo 3, della
direttiva 2001/42 presuppone, accanto all’uso di una piccola
area, che il piano o il programma rientri nella sfera di
competenza di un’autorità locale. Tale disposizione osta
quindi a una norma che, nell’ambito della questione se un
piano o un programma determini l’uso di una piccola area a
livello locale, rimanda esclusivamente alla superficie della
zona interessata dal piano.
3) Un piano o programma non determina più, ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42, l’uso
di una piccola area qualora la zona interessata superi il
parametro di riferimento del 5 % della superficie relativa
alla zona di competenza delle singole amministrazioni
locali. |
APPALTI:
La Corte di Giustizia torna a pronunciarsi sul c.d. divieto
di rinegoziazione dell’offerta.
La Corte di Giustizia torna a pronunciarsi sul c.d. divieto
di rinegoziazione dell’offerta e ribadisce l’obbligo di gara
in caso di modifiche sostanziali apportate al contenuto di
un appalto pubblico, anche se a seguito di una transazione,
facendo salva l’ipotesi in cui la possibilità di adeguamenti
sostanziali, in presenza di appalti connotati da elementi
peculiari ed aleatori, sia stata prevista in sede di gara e
ne siano state predeterminate le modalità applicative.
---------------
Corte di giustizia UE, Sez. VIII,
sentenza 07.09.2016 n. C- 549/14.
Contratti pubblici – Appalto – Modifiche sostanziali
successivamente all’aggiudicazione – Ammissibilità - Limiti.
L’art. 2 della direttiva 2004/18/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004,
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
deve essere interpretato nel senso che, dopo
l’aggiudicazione di un appalto pubblico, a tale appalto non
può essere apportata una modifica sostanziale senza l’avvio
di una nuova procedura di aggiudicazione, anche qualora tale
modifica costituisca, obiettivamente, una modalità di
composizione transattiva comportante rinunce reciproche per
entrambe le parti, allo scopo di porre fine a una
controversia, dall’ esito incerto, sorta a causa delle
difficoltà incontrate nell’esecuzione di tale appalto.
La situazione sarebbe diversa soltanto nel caso in cui i
documenti relativi a detto appalto prevedessero la facoltà
di adeguare talune sue condizioni, anche importanti, dopo la
sua aggiudicazione e fissassero le modalità di applicazione
di tale facoltà. (1)
---------------
(1) Con la sentenza in epigrafe la Corte ribadisce un
principio consolidato in tema di estensione dell’obbligo di
gara conseguente al c.d. divieto di rinegoziazione
dell’offerta.
In linea generale si torna ad evidenziare che non può essere
apportata, in via di trattativa privata tra
l’amministrazione aggiudicatrice e l’aggiudicatario, una
modifica sostanziale di un appalto pubblico dopo la sua
aggiudicazione; in tal caso infatti, deve darsi luogo ad una
nuova procedura di aggiudicazione vertente sull’appalto così
modificato.
Sul punto, merita un richiamo specifico la sentenza della
Grande sezione della stessa Corte di giustizia 13.04.2010,
C-91/08, Stadt Frankfurt am Main, in Foro amm. CDS, 2010, 4,
715.
Tale principio prevale anche nel caso in cui le prospettate
modifiche derivino dalla volontà delle parti di trovare una
composizione transattiva a fronte di difficoltà oggettive
incontrate nell’esecuzione di detto appalto ovvero di
controversia insorta successivamente.
Una possibile eccezione è stata individuata dalla Corte alla
triplice condizione che:
a) si verta in materia di appalti aventi oggetti particolari ed
aleatori;
b) la possibilità di modifica sostanziale sia stata prevista dalla
legge di gara;
c) sia rispettata la parità di trattamento fra imprese attraverso
la predeterminazione delle modalità applicative di tali
adeguamenti.
Sul punto meritano un richiamo, anche la fine di evidenziare
la peculiarità della casistica forense, le sentenze della
stessa Corte giust. UE, sez. IV, 07.06.2012, n. 615,
Insinööritoimisto, in Foro amm. CDS, 2012, 6, 1464; sez. VI,
29.04.2004, n. 496, CAS Succhi Frutta, id., 2004, 985.
Sul divieto di rinegoziazione dell’offerta nella
giurisprudenza nazionale v. Cass. civ., sez. I, 18.12.2003,
n. 194333, in Cons. Stato, 2004, II, 819; Cons. St., sez. V,
09.10.2003, n. 6072, in Giust. amm., 2003, 1154; sez. V,
13.11.2002, n. 6281, in Urb. e app., 2003, 577; sez. VI,
16.11.2002, n. 6004, in Foro amm. CDS, 2002, 2945; Commiss.
spec., 12.10.2001, n. 1084/00, in Urb. e app., 2002, 445
(commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
timbratura del cartellino marcatempo in entrata ed in uscita
non corrispondente alla reale situazione di fatto
costituisce certamente una modalità fraudolenta giacché la
falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza
in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli
di presenza costituisce condotta fraudolenta oggettivamente
idonea ad indurre in errore l'amministrazione datore di
lavoro circa la presenza effettiva sul luogo di lavoro e
integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico
dipendente si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i
periodi di assenza, sempre che siano da considerare
economicamente apprezzabili.
---------------
Con l'ultimo motivo il ricorrente deduce violazione ed
erronea applicazione dell'art. 55-quater del dlgs n. 165 del 2001 e dell'art. 8, comma 11,
lett. a) e f), del CCNL del
personale della dirigenza medica e veterinaria del 06.05.2010.
Prospetta il ricorrente che nessuna delle ipotesi
contemplate dal richiamato art. 55-quater
del dlgs n. 165 del 2001, a differenza di quanto affermato
dalla Corte di Appello, è
configurabile nella fattispecie e la denunciata normativa
contrattuale presuppone
l'intenzionalità del comportamento.
La censura è infondata.
L'art. 55-quater del dlgs n. 165 del 2001, per quello che
interessa in questa sede,
dispone che: "1. Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta
causa o per giustificato motivo
e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo,
si applica comunque la sanzione disciplinar del licenziamento
nei seguenti casi:a) falsa attestazione della
presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza o
con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione
dell'assenza dal servizio
mediante una certificazione medica falsa o che attesta
falsamente uno stato di
malattia; b) assenza priva di valida giustificazione per un
numero di giorni, anche
non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o
comunque per più di sette
giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata
ripresa del servizio, in caso di
assenza ingiustificata, entro il termine fissato
dall'amministrazione; omissis.".
Al riguardo va rilevato che, per quanto riguarda la
timbratura del cartellino marcatempo,
correttamente la Corte del merito ha ritenuto ricorrente
nella specie l'ipotesi di falsa
attestazione della presenza in servizio con modalità
fraudolente, considerato che la
timbratura del cartellino marcatempo in entrata ed in uscita
non corrispondente alla reale
situazione di fatto costituisce certamente una modalità
fraudolenta giacché la falsa
attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in
ufficio riportata sui cartellini
marcatempo o nei fogli di presenza costituisce condotta
fraudolenta oggettivamente
idonea ad indurre in errore l'amministrazione datore di
lavoro circa la presenza effettiva
sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata
ove il pubblico dipendente si
allontani senza far risultare, mediante timbratura del
cartellino o della scheda magnetica, i
periodi di assenza, sempre che siano da considerare
economicamente apprezzabili (Cass.
pen. n. 8426 del 2014).
La rilevata estraneità del profilo della intenzionalità del
comportamento rende non
conferente la critica concernente la violazione della norma
contrattuale collettiva
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 06.09.2016 n. 17637). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Sebbene
l'art. 107 d.lgs. n. 267/2000 attribuisca l'attività di
gestione ai dirigenti, compete al sindaco l'emanazione
dell'ordinanza di rimozione, recupero e smaltimento dei
rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, in virtù del
carattere di specialità riconosciuto all'art. 192 d.lgs. n.
152/2006, da cui la stessa è disciplinata.
Altresì, nel caso di Unione di Comuni, deve ritenersi che i
Sindaci mantengano le competenze loro attribuite dalla norma
speciale, dal momento che dette Unioni operano
l’unificazione a livello degli uffici ovvero degli organi di
gestione amministrativa o tecnica-operativa, ma non
determinano alcun trasferimento di poteri degli organi di
indirizzo politico (v. art. 32 d.lgs. n. 267/2000).
---------------
- Visto l'art. 192 del codice dell'ambiente, ove dispone
che: "1. L'abbandono e il deposito incontrollati di
rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. E' altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi
genere, allo stato solido o liquido, nelle acque
superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione della sanzioni di cui agli
articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi
1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”;
- Visto l’art. 107, comma 4, T.U. enti locali ove precisa
che “le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del
principio di cui all’art. 1, co. 4, possono essere derogate
soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative”, ciò che è avvenuto a seguito dell’entrata
in vigore del citato art. 192, c. 3;
- Atteso che, alla luce delle disposizioni sopra richiamate
e conformemente alla giurisprudenza maggioritaria, condivisa
dal Collegio, "sebbene l'art. 107 d.lgs. n. 267/2000
attribuisca l'attività di gestione ai dirigenti, compete al
sindaco l'emanazione dell'ordinanza di rimozione, recupero e
smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei
luoghi, in virtù del carattere di specialità riconosciuto
all'art. 192 d.lgs. n. 152/2006, da cui la stessa è
disciplinata" (C.S., Sez. V, 29.08.2012, n. 4635; Sez.
V, 12.06.2009, n. 3765; Sez. V, 10.03.2009, n. 1296, Sez. V
25.08.2008, n. 4061, TAR Lazio, Sez. II, 01.02.2013 n. 1142;
TAR Campania, Salerno, Sez. I, 17.09.2012 n. 1644; TAR
Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.06.2011, n. 867; TAR Emilia
Romagna-Bologna - Sez. II, 26.01.2011, n. 61; Consiglio
Stato - Sez. V, 25.08.2008, n. 4061);
- Ritenuto, inoltre, che anche in caso di Unione di Comuni,
deve ritenersi che i Sindaci mantengano le competenze loro
attribuite dalla norma speciale, dal momento che dette
Unioni operano l’unificazione a livello degli uffici ovvero
degli organi di gestione amministrativa o tecnica-operativa,
ma non determinano alcun trasferimento di poteri degli
organi di indirizzo politico (v. art. 32 d.lgs. n.
267/2000);
- Considerando, pertanto, fondata l’assorbente censura di
incompetenza con conseguente annullamento del provvedimento
impugnato e rimessione all’organo competente per gli
ulteriori provvedimenti
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 06.09.2016 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Terremoto, restauro parziale dell’edificio e
responsabilità del direttore dei lavori.
In tema di responsabilità penale per
violazione degli obblighi incombenti al progettista o
al direttore dei lavori, l’obbligo di garanzia non
può andare oltre l’oggetto del rapporto contrattuale, non
potendo concernere opere che non siano investite
dell’attività del progettista e/o direttore dei lavori.
Invero, ove si tratti di opere del tutto autonome rispetto
ad altre già esistenti in situ o in via di realizzazione non
può pretendersi dal tecnico delle prime che si faccia carico
della conformità e più genericamente della sicurezza di
opere rispetto alle quali non vi è norma di diritto privato
o di diritto pubblico che gli riconosca un potere di
intervento.
Con la
sentenza 01.09.2016 n. 36285, la IV Sez. penale
della Corte di Cassazione si è soffermata sulla
responsabilità per i reati di omicidio colposo (art. 589
c.p.), lesioni colpose (art. 590 c.p.) e crollo di
costruzioni colposo (art. 434, in relazione all’art. 449
c.p.) di un progettista e direttore dei lavori che aveva
provveduto ad alcune opere di manutenzione straordinaria
(incamiciatura di sei pilastri in calcestruzzo armato) nel
2002 in un condominio crollato in conseguenza del terremoto
dell’Aquila del 2009.
In particolare, oltre al dato temporale intercorrente tra
l’esecuzione dei lavori e il crollo dell’edificio, risulta
di peculiare interesse la circostanza che i lavori
commissionati all’imputato riguardassero esclusivamente
delle opere autonome rispetto al complesso strutturale dello
stabile.
La Cassazione, aderendo alla tesi della Corte d’Appello
dell’Aquila, ha riconosciuto la posizione di garanzia del
direttore dei lavori in quanto il suo intervento, pur
essendo limitato e autonomo, aveva carattere strutturale «sicché
egli aveva l’obbligo giuridico di osservare la normativa
antisismica all’epoca vigente, la quale implicava
l’accertamento della consistenza dei pilastri sui quali
eseguire l’intervento; dal che sarebbe derivata la
conoscenza dei difetti strutturali che viziavano i sei
pilastri».
Avendo poi il direttore dei lavori attestato la rispondenza
delle opere alle norme edilizie, urbanistiche e di sicurezza
vigenti, anche volendo considerare il suo intervento
esclusivamente migliorativo, avrebbe dovuto comunque
svolgere gli accertamenti di tipo statico che avrebbero
evidenziato le bias dell’edificio e quindi segnalarle
al committente, che avrebbe potuto predisporre un intervento
di adeguamento del condominio, mettendolo in sicurezza da
eventuali rischi sismici.
Tanto precisato e dopo aver rimarcato il profilo di
responsabilità soggettiva, la Cassazione, in accoglimento
del terzo motivo della difesa dell’imputato, ha annullato
con rinvio la condanna della Corte di Appello, in quanto non
sufficientemente motivato il nesso di causa tra i lavori
svolti dal progettista e il crollo del condominio,
verificatosi parecchi anni dopo.
Ad avviso degli Ermellini, difatti, a mero titolo di
esempio, «non è stato indagato quali
fossero i rimedi concretamente adottabili, se essi fossero
nella disponibilità del condominio, tanto per l’aspetto
economico, che per quello dispositivo; se vi fosse una
concreta possibilità di intervento dell’autorità pubblica, a
fronte di una eventuale inattività dei condomini (…); quali
fossero i tempi di adozione delle misure concretamente
adottabili».
Non sono state, infine, vagliate o anche solo prese in
considerazioni alternative ipotetiche ulteriori, quali la
possibile persistenza dell’uso delle abitazioni pur in
assenza di interventi di adeguamento sismico (commento
tratto da www.giurisprudenzapenale.com).
---------------
MASSIMA
4. Il ricorso è fondato, nei termini dì seguito precisati.
4.1. In ordine logico-giuridico si impone per prima la
trattazione del tema relativo alla esistenza di una
posizione di garanzia del Ci., nella qualità, posta in
dubbio con il secondo motivo di ricorso.
La Corte di appello ha rammentato al riguardo due arresti
giurisprudenziali (Cass. n. 34376/2005 e 18445/2008) che
attengono alla posizione del direttore dei lavori,
quale fu nella vicenda che occupa il Ci..
Con il primo si è affermato che, in
tema di costruzioni edilizie abusive, il direttore dei
lavori ha una posizione di garanzia circa la regolare
esecuzione dei lavori, con la conseguente responsabilità per
le ipotesi di reato configurate, dalla quale questi può
andare esente soltanto ottemperando agli obblighi di
comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29,
comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il recesso
dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia
intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia
evidenziato in via obiettiva, ovvero non appena avuta
conoscenza che le direttive impartite erano state disattese
o violate (Sez. 3,
n. 34376 del 10/05/2005 - dep. 27/09/2005, Scimone ed altri,
Rv. 232475).
Con il secondo che il direttore
dei lavori è responsabile a titolo di colpa del crollo
di costruzioni anche nell'ipotesi di sua assenza dal
cantiere, dovendo egli esercitare un'oculata attività di
vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed
in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni
d'ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria
posizione di garanzia da quella dell'assuntore dei lavori,
rinunciando all'incarico ricevuto
(Sez. 4, n. 18445 del 21/02/2008 - dep. 08/05/2008,
Strazzanti, Rv. 240157).
Occorre dare atto al ricorrente che la
puntualizzazione operata dalla corte distrettuale attraverso
il richiamo giurisprudenziale è opportuna ma non sufficiente
perché il tema è più esattamente quello della attribuzione
al tecnico che venga chiamato ad occuparsi di lavori che
incidono su una limitata porzione dell'edificio dell'obbligo
di garantire non solo la corretta esecuzione dei lavori
affidatagli, ma anche la complessiva sicurezza
dell'edificio.
Non sembra seriamente discutibile che il
progettista e direttore dei lavori sia tenuto a
garantire che gli stessi siano eseguiti a regola d'arte: lo
è sulla scorta del contratto che lo lega al committente,
tanto che la giurisprudenza civile afferma in termini
diversificati ma convergenti l'obbligo (in specie per il
direttore dei lavori) di garantire che l'esecuzione dei
lavori sia non solo conforme a quanto previsto dal
capitolato ma anche alle regole della tecnica
(Sez. 3, Sentenza n. 7370 del 13/04/2015, Rv. 635038; Sez.
2, Sentenza n. 10728 del 24/04/2008, Rv. 603056; argomenti
si ricavano anche da Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 12995
del 31/05/2006, Rv. 591371, che ritiene
sussistere, discendente dall'art. 1176 c.c., un obbligo di
diligenza particolarmente rigoroso dell'appaltatore che sia
anche progettista e direttore dei lavori, in forza del quale
egli è tenuto, in presenza di situazioni rivelatrici di
possibili fattori di rischio, ad eseguire gli opportuni
interventi per accertarne la causa ed apprestare i necessari
accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione
dell'opera senza difetti costruttivi).
Al contempo, è palese che l'obbligo di garanzia non può
andare oltre l'oggetto del rapporto contrattuale; e quindi
non può concernere opere che non siano investite
dell'attività del progettista e/o direttore dei lavori.
Ove si tratti di opere del tutto autonome
rispetto ad altre già esistenti in situ o in via di
realizzazione non può pretendersi dal tecnico delle prime
che si faccia carico della conformità e più genericamente
della sicurezza di opere rispetto alle quali non vi è norma
di diritto privato o di diritto pubblico che gli riconosca
un potere di intervento.
Si immagini il direttore dei lavori di una piscina che si
debba realizzare su un fondo ove già insiste un'abitazione,
senza che vi siano interferenze di sorta tra i due
manufatti. Non può ritenersi che sia elevabile nei confronti
di quel direttore dei lavori la pretesa -non si dice di
intervenire ma- anche solo di segnalare difetti strutturali,
pur evidenti, dell'abitazione; la posizione di garanzia,
espressione parafrastica dell'obbligo giuridico di impedire
l'evento menzionato dall'art. 40 cpv. cod. pen., va tenuta
ben distinta dalla possibilità materiale di agire così come
da un dovere morale.
Ma nella vicenda in esame la Corte di appello -ben
diversamente da quanto assume il ricorrente- non ha posto a
carico del Ci. l'obbligo di verificare la qualità statica
dell'intero edificio o anche solo di tutti i pilastri che lo
sostenevano. Piuttosto, come già il primo giudice, ha
affermato che il tipo di intervento affidato alle cure del
Ci. aveva carattere strutturale perché si trattava di lavori
di incamiciatura di sei pilastri, con effetti sullo stato
tensionale dei medesimi (oggetto dell'intervento a sue
cure).
Sicché egli aveva l'obbligo giuridico di osservare la
normativa antisismica all'epoca vigente, la quale implicava
l'accertamento della consistenza dei pilastri sui quali
eseguire l'intervento; dal che sarebbe derivata la
conoscenza dei difetti strutturali che viziavano i sei
pilastri.
Non si è affermato, quindi, un obbligo di intervento o di
segnalazione di difetti che attenevano a ulteriori e
differenti porzioni dell'edificio; ma di un obbligo
delimitato all'opera affidata alle cure del Ci.. E occorre
intendersi: non già di un obbligo di segnalazione ai
committenti ma di un obbligo di ben eseguire il mandato
conferito; il che avrebbe di per sé attivato una serie di
effetti a cascata senza alcun ulteriore intervento del Ci.,
poiché -per dire della più evidente delle conseguenza-
sarebbe stato compito del committente nominare il
collaudatore e questi sarebbe stato tenuto a riportare al
medesimo l'esito -che si può certamente ritenere negativo-
del collaudo.
Ne consegue che la Corte di appello ha esattamente
delimitato la posizione di garanzia assunta dal Ci. ed ha
rimproverato a questi nulla più della violazione degli
obblighi da quella posizione discendenti.
4.2. Quanto al primo motivo, esso pure è infondato.
La condotta colposa ascritta al Ci. è stata
ben identificata dalla Corte distrettuale: egli non ha
osservato le norme della legislazione antisismica, le quali
hanno per l'appunto la funzione di rendere l'edificato in
grado di resistere agli eventi tellurici caratteristici
dell'area dell'insediamento (non a caso esisteva al tempo
una classificazione della aree del territorio nazionale,
distinte per grado di rischio sismico, con effetti diretti
sulla tipologia costruttiva da adottare). Inoltre, egli ha
attestato che le opere erano rispondenti alle norme
edilizie, urbanistiche e di sicurezza vigenti.
Il ricorrente assume che, trattandosi di intervento
migliorativo, secondo la definizione datane dal d.m.
16.01.1996, punto C.9.1.2., non erano applicabili le
disposizioni che imponevano adempimenti concernenti la
sicurezza statica. Ma l'accertamento condotto nei gradi di
merito ha avuto un differente esito.
Come già il Tribunale, sulla scorta di una perizia che non è
stata investita da alcuna censura, anche la Corte di appello
ha affermato che i lavori di incamiciatura
dei sei pilastri -che contemplavano demolizioni di massetto
fino alle fondazioni, realizzazione di fori passanti nel
pilastro ogni 30-40 cm., realizzazione di fori profondi
15-20 cm. sulla fondazione, collegamento ad essa dei nuovi
ferri del pilastro- ebbero carattere di opera di risanamento
strutturale e funzionale, con implicazioni importanti di
natura statica, interessando essi parti strutturali in
cemento armato; sicché era prescritta la verifica prevista
dagli articoli 4, 6 e 7 della legge n. 1086/1971, dalla
legge n. 64/1974, dalla legge Regione Abruzzo n. 138/1996 e
dal d.m. 16.01.1996.
Si tratta di un accertamento di merito che questa Corte non
può mettere in discussione, atteso che esso risulta
sostenuto da motivazione non manifestamente illogica e che
non ne viene neppure posta in discussione la rispondenza
alle emergenze processuali.
Peraltro, non è inutile rilevare che, anche qualora si fosse
trattato di intervento di miglioramento, sul Ci. sarebbe
gravato comunque l'obbligo di svolgere le indagini
concernenti la sicurezza statica dei sei pilastri. Il punto
C.9.2.2. del d.m. 16.01.1996 prevedeva, infatti, che "nel
caso di interventi di miglioramento il progetto deve
contenere la documentazione prescritta per gli interventi di
adeguamento limitatamente alle opere interessate. Nella
relazione tecnica deve essere dimostrato che gli interventi
progettati non producano sostanziali modifiche nel
comportamento strutturale globale dell' edificio".
E, per gli interventi di adeguamento, il punto C. 9.2.1.
prescriveva che "gli interventi di adeguamento
antisismico di un edificio devono essere eseguiti sulla base
di un progetto esecutivo ... completo ed esauriente per
planimetria, piante, sezioni, particolari esecutivi,
relazione tecnica, relazione sulle fondazioni e fascicolo
dei calcoli per la verifica sismica. In particolare la
relazione tecnica deve riferirsi anche a quanto indicato nei
successivi punti C.9.2.3. e C.9.2.4.". Disposizioni,
queste ultime, che indicavano le operazioni e le scelte
progettuali richieste in funzione della sicurezza statica
dell'opera da realizzare.
Pertanto, la variazione degli adempimenti tra l'una e
l'altra tipologia di intervento non era tanto di carattere
qualitativo quanto di carattere quantitativo.
Ancora in relazione al contenuto della condotta colposa va
osservato che le disposizioni appena evocate recano regole
cautelari di tipo rigido; sicché il richiamo alla
prevedibilità ed evitabilità di un evento quale quello
verificatosi il 06.04.2009 a L'Aquila in chiave di
definizione di una regola cautelare 'generica' appare
non pertinente.
Va poi rilevato che l'asserita impossibilità di procedere
alla verifica sismica dei pilastri per la indisponibilità
dei dati, lungi dal costituire un fattore interpretabile a
favore del ricorrente, rappresenta circostanza che avrebbe
dovuto condurre ad una ancora maggior cura per gli aspetti
concernenti la sicurezza statica.
Del tutto improprio è il richiamo al principio di
affidamento, che qui si evoca a giustificazione delle
omissioni dei Ci., poiché questi era tenuto ad eseguire gli
adempimenti richiesti dalla normativa antisismica ex novo,
per la natura dell'intervento affidato alle sue cure, come
precisato al superiore punto 4.1. Quanto ai cenni alla
causalità della colpa (ovvero la pretesa irrilevanza causale
della condotta colposa ascritta al Ci.), essi manifestano
come non sia stato colto che -ben diversamente da quanto
affermato dal ricorrente- l'omissione colposa attribuita
all'odierno imputato -nei termini sin qui ribaditi e
non in quelli rimarcati dall'esponente- è stata ritenuta
causalmente efficiente.
4.3. Ma se non vi è alcun dubbio che sul Ci. gravava
l'obbligo di eseguire gli adempimenti funzionali alla
conformità alla normativa antisismica dell'opera alla quale
attendeva, e che la colpa in senso oggettivo è stata ben
definita, sicché la sentenza impugnata non risulta
censurabile su tali versanti, parimenti non v'è dubbio che
prima di concludere per la responsabilità dell'imputato in
parola per l'evento verificatosi nove anni dopo occorre
accertare l'esistenza della relazione causale tra questo e
l'omissione accertata.
Rimarcato che non è in discussione la prevedibilità del
sisma che si verificò il 06.04.2009 (la giurisprudenza di
questa Corte è sul punto ben consolidata; da ultimo, Sez. 4,
n. 2536 del 23/10/2015 - dep. 21/01/2016, P.C. in proc.
Bearzi e altro, Rv. 265794), i principi in materia sono
ormai talmente noti che è sufficiente rammentarli con una
delle più recenti formulazioni, avendo questa Corte ribadito
che nel reato colposo omissivo improprio,
il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può
ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di
probabilità statistica, ma deve essere verificato alla
stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua
volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di
deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche,
anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato
sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e
sulle particolarità del caso concreto
(Sez. 4, n. 22378 del 19/03/2015 - dep. 27/05/2015, Pg in
proc. Volcan e altri, Rv. 263494; Sez. U, n. 38343 del
24/04/2014 - dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri,
Rv. 261103).
Sotto tale profilo la sentenza impugnata appare del tutto
carente, limitandosi ad affermare che, accortosi dei deficit
strutturali, il Ci. "sarebbe stato in grado di far
presente al committente la situazione di pericolo in cui
versavano tutti coloro che abitavano nel palazzo ...";
ed ancora che "l'imputato avrebbe potuto far presente al
committente la necessità di un intervento generale
sull'intera struttura portante dell'edificio e ciò avrebbe
consentito di porre in essere gli opportuni rimedi per
rendere l'edificio più solido, così evitandone il crollo".
Né la lacuna è colmata dalla decisione di primo grado, nella
quale allo stesso modo non è descritta la sequenza che
dall'omissione degli adempimenti connessi alla normativa
antisismica avrebbe condotto, secondo quel criterio di alta
probabilità logica del quale si è scritto, all'adeguamento
statico o ad altra misura che, a sua volta, avrebbe avuto
l'effetto di evitare gli eventi illeciti per cui è processo.
In tal modo l'accertamento del nesso causale viene risolto
in un giudizio esclusivamente di tipo deduttivo, basato su
massime di esperienza (non rese esplicite dalla corte
territoriale, ma chiaramente identificabili dal lettore),
che tradisce la struttura bifasica di quell'accertamento,
poiché non vi è un solo dato processuale che venga
richiamato a sostegno della deduzione. Eppure non si
trattava di assumere misure di agevole reperimento ed
adozione.
Ben si comprende, proprio perché la corte distrettuale ha
fatto riferimento ad interventi sull'intero edificio, che
sarebbe stato necessario un notevole impegno di spesa. A
mero titolo di esempio si può rilevare che non è stato
indagato quali fossero i rimedi concretamente adottabili, se
essi fossero nella disponibilità del condominio tanto per
l'aspetto economico che per quello dispositivo; se vi fosse
la concreta possibilità di un intervento dell'autorità
pubblica, a fronte di una eventuale inattività dei
condomini, ciò nonostante permanenti nelle rispettive
abitazioni (anche solo perché confidenti nelle abitudine
autoprotettive che sono state in altro procedimento
accertate: Cass. Sez. 4, sent. n. 12478 del 19-20.11.2015,
P.G. in proc. Barberi ed altri, n.m.); quali fossero i tempi
di attuazione delle misure concretamente adottabili.
Ben possibili, poi, alternative ipotetiche ulteriori (una
delle quali si è già menzionata: la persistenza dell'uso
delle abitazioni pur in assenza di interventi di adeguamento
sismico), che aprono a percorsi ricostruttivi del nesso
causale invero del tutto peculiari, quali la causalità
psichica (a riguardo della quale, con precipua attinenza
alla vicenda aquilana, la già citata decisione in causa P.G.
c. Barberi ed altri).
E' quindi fondato il terzo motivo di ricorso e,
risultando non conforme alla previsione di legge in tema di
causalità nei reati omissivi impropri, la sentenza impugnata
deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di
Perugia per nuovo esame. Alla medesima corte va demandata la
regolamentazione tra le parti delle spese di questo
giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della decorrenza del temine per l’impugnativa di un
permesso di costruire rilasciato a terzi, l’effettiva
conoscenza dell’atto può dirsi conseguita quando la
costruzione realizzata riveli in modo certo ed univoco le
caratteristiche essenziali dell’opera e l’eventuale non
conformità della stessa al titolo o alla disciplina
urbanistica, sicché, in mancanza di altri inequivoci
elementi probatori, il termine decorre non con il mero
inizio dei lavori bensì con il loro completamento, a meno
che non si deduca l’inedificabilità assoluta dell’area o
analoghe censure, nel qual caso risulterebbe sufficiente la
conoscenza dell’iniziativa in corso.
Né la pubblicazione sull'albo pretorio determina la
decorrenza del termine per impugnare, dovendosi in ogni caso
avere riguardo al momento della piena ed effettiva
conoscenza del provvedimento lesivo o al momento in cui le
opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro
caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni
urbanistiche.
---------------
... per l'annullamento del permesso di costruire n. 40 del
2015 del Comune di Maddaloni;
...
FATTO
Le parti ricorrenti, comproprietarie di un edificio sito in
Maddaloni, in via ... n. .., dove risiedono, hanno
impugnato, con ricorso notificato il 06.11.2016, il Permesso
di Costruire n. 40 del 18/05/2015, rilasciato su un lotto
confinante a Ro. De Vi., per la ristrutturazione con
ampliamento della parte residenziale del fabbricato, la
realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica, l'abbassamento
del solaio di copertura, la demolizione della copertura
esistente, l'innalzamento delle pareti portanti, con
previsione dell'utilizzo del cemento armato per le strutture
di nuova edificazione.
...
DIRITTO
1) In via preliminare il Collegio rileva l’infondatezza
dell’eccezione di tardività formulata dalla parte
controinteressata.
L’eccezione in questione è basata sulla circostanza che il
ricorso è stato notificato il 06.11.2016, mentre il permesso
a costruire è stato rilasciato il 18.05.2015. La ricorrente
sarebbe stata a conoscenza dell’inizio dei lavori sin dal
maggio 2015.
Inoltre, il permesso di costruire è stato pubblicato
sull'Albo pretorio del Comune di Maddaloni dalla data del
19.05.2015 alla data del 03.06.2015 con n. 758.
Nel motivare l’eccezione di tardività la parte
controinteressata si richiama, altresì, al principio secondo
cui in caso di inedificabilità assoluta, ovverosia qualora
si assuma che l'attività edificatoria sia ex se
lesiva e non realizzabile a prescindere dal quomodo,
il termine per agire a tutela dell'interesse legittimo che
si ritiene leso decorre dalla mera conoscenza dell'inizio
dei lavori.
In tal caso, infatti, la lesività è immediatamente
percepibile all'atto dell'inizio delle attività di cantiere.
Tale ipotesi, sempre per la parte controinteressata, si
sarebbe verificata nel caso di specie, in quanto parte
ricorrente, dopo aver negato l’applicabilità della legge sul
piano casa, ha indicato gli interventi eseguiti come opere
di nuova costruzione, mentre il piano di recupero del Comune
di Maddaloni ammette in zona A solo interventi di
manutenzione straordinaria. La lesione dell’interesse
legittimo si sarebbe evidenziata sin dal momento dell’inizio
dei lavori e l’azione di annullamento non sarebbe stata
proposta tempestivamente.
Il Collegio rileva in proposito come l’onere della
dimostrazione della sussistenza delle circostanze della
tardività del ricorso è da ritenersi a carico di chi ha
formulato la relativa eccezione e, nel caso specifico, del
controinteressato.
Inoltre, ai fini della decorrenza del temine a quo
per l’impugnativa di un permesso di costruire rilasciato a
terzi, l’effettiva conoscenza dell’atto può dirsi conseguita
quando la costruzione realizzata riveli in modo certo ed
univoco le caratteristiche essenziali dell’opera e
l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla
disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri
inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il
mero inizio dei lavori bensì con il loro completamento, a
meno che non si deduca l’inedificabilità assoluta dell’area
o analoghe censure, nel qual caso risulterebbe sufficiente
la conoscenza dell’iniziativa in corso (Cons. Stato, Sez. IV,
08.07.2002, n. 3805; Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2009, n.
717).
Nel caso di specie, peraltro, il controinteressato ha
indicato genericamente nel ricorso il periodo di inizio
lavori, identificato nel maggio del 2015 (salvo poi
specificare che la comunicazione di inizio lavori sarebbe
stata inviata il 18.05.2015), ma non ha dato nessun
ragguaglio, né tantomeno alcun elemento dimostrativo, in
ordine alla fine degli stessi o al momento del
raggiungimento di un grado di sviluppo degli stessi tale da
evidenziare la lesione dell’interesse del ricorrente.
La medesima parte controinteressata ha fatto solo
riferimento all’intervenuto rilascio del permesso di
costruire datato 18.05.2015, indicando successivamente che
tale data è coincisa con quella di comunicazione di avvio
dei lavori, ma non ha allegato alcun elemento da cui poter
dedurre la data di loro conclusione o altra circostanza da
cui far decorrere in termine a quo per l’impugnativa del
permesso di costruire.
Non risulta, infatti, dagli atti che, in una data
antecedente ai sessanta giorni dalla notifica del ricorso,
parte ricorrente avesse avuto piena conoscenza del permesso
di costruire con la consapevolezza del contenuto specifico
di essa o del progetto edilizio ovvero che la costruzione
realizzata fosse terminata o, comunque, avesse raggiunto un
grado di sviluppo tale da rivelare in modo certo ed univoco
le essenziali caratteristiche dell'opera e la eventuale non
conformità della stessa alla disciplina urbanistica.
Né la pubblicazione sull'albo pretorio determina la
decorrenza del termine per impugnare, dovendosi in ogni caso
avere riguardo al momento della piena ed effettiva
conoscenza del provvedimento lesivo o al momento in cui le
opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro
caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni
urbanistiche (Cons. Stato Sez. IV, 18.06.2009, n. 4015; TAR
Lazio Latina Sez. I, 09.01.2013, n. 21; TAR Veneto Venezia
Sez. II, 19.05.2011, n. 845; TAR Abruzzo Pescara Sez. I,
28.07.2010, n. 938)
Priva di pregio è anche l’indicata deduzione secondo cui,
avendo il ricorso ad oggetto censure di inedificabilità, già
l’inizio delle opere era momento idoneo a fungere da termine
a quo per l’impugnativa.
Il Collegio rileva, in proposito, come le censure formulate
da parte ricorrente non riguardano profili di
inedificabilità assoluta, in quanto nelle stesse non viene
sostenuto che sull’area fosse preclusa ogni tipo di
edificazione, ma attengono solo alla violazione di specifici
parametri dettati dagli strumenti urbanistici e
all’inapplicabilità delle legge sul piano casa.
In particolare, infatti, le stesse si incentrano sulla
circostanza che sarebbero stati effettuati interventi
qualificabili come nuova costruzione, in una zona che
consentiva solo opere di manutenzione straordinaria.
Le censure sollevate non sono, quindi, legate all’inedificabilità
assoluta dell’area ma solo alla circostanza, non rilevabile
ab initio, che gli interventi posti in essere non
corrispondessero ai parametri posti dallo strumento
urbanistico vigente, rispetto alla tipologia di interventi
realizzabili.
Il decorso del termine a quo per il rilievo di tale
vizio presuppone, quindi, al pari del rilievo delle altre
difformità dagli strumenti urbanistici, che i lavori fossero
terminati o quanto meno pervenuti ad un grado di avanzamento
tale da rivelarne l’incompatibilità con la disciplina di
piano.
Il ricorso, inoltre, formula anche censure relative alla
violazione dei parametri urbanistici, come la violazione dei
limiti di altezza e distanze anch’essi non rilevabili al
momento dell’inizio lavori.
L’eccezione di tardività va, quindi, rigettata.
In difetto della dimostrazione, da parte della
controinteressata che ha eccepito la tardività del ricorso,
della data in cui i lavori hanno raggiunto un grado di
sviluppo tale da rendere percepibile la lesione, si deve
ritenere che il termine per impugnare decorra dalla data di
fine lavori; data che non è stata dedotta e, comunque, che
non rientra nella prospettazione dell’eccezione di tardività
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.08.2016 n. 4092 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Dal
geometra i mini-interventi. All'ingegnere i calcoli sul
cemento armato della casa. Progetti antisismici in aree a
rischio: il Tar Campania sulle competenze professionali.
Anche il geometra può firmare la ristrutturazione della casa
in zona sismica. Ma a condizione che i calcoli su cemento
armato siano eseguiti da un ingegnere e che comunque l'opera
da realizzare per l'abitazione risulti comunque di
dimensioni modeste.
È quanto emerge dalla
sentenza 23.08.2016 n. 4092, pubblicata dal TAR
Campania-Napoli - Sez. VIII, che aderisce all'orientamento
di giurisprudenza secondo cui in tali casi è ben possibile
dividere in due la progettazione lasciando le strutture
portanti al professionista abilitato e le opere di
tamponamento al geometra.
Forma e sostanza.
Nel caso di specie, il ricorso proposto dal vicino contro il
permesso di costruire è accolto, ma per motivi inerenti le
distanze fra edifici e l'indice volumetrico e non sulla
titolarità a firmare il progetto.
In effetti l'ingegnere ha depositato al genio civile gli
elaborati relativi alle strutture in cemento armato
nell'ambito di una ristrutturazione che prevede
l'ampliamento della parte abitata del fabbricato e
l'innalzamento delle pareti portanti.
Per i giudici, tuttavia, non è necessario ricorre a
un'interpretazione molto formale delle norme: quando nei
fatti l'opera è di dimensioni ridotte si possono separare le
due fasi con l'ingegnere che si assume la responsabilità dei
calcoli per i quali non è autorizzato il geometra, al quale
resta una progettazione di natura sostanzialmente
architettonica, perché si risolve in opere di tamponamento
interno ed esterno, un'attività che spesso è svolta dai
tecnici specializzati nei soli componenti d'arredo.
Il fatto
che i lavori si svolgano in zona sismica impone solo un
particolare rigore nella verifica della modestia dell'opera.
Estetica e struttura.
Sul riparto delle competenze fra professionisti per gli
interventi post-terremoto è intervenuta la giurisprudenza
amministrativa formatasi dopo il sisma in Emilia del 29.05.2012.
Lo studio di ingegneria, ad esempio, ben può aggiudicarsi i
lavori di risanamento anche se l'immobile che desta
preoccupazioni al Comune padano dopo la forte scossa
tellurica è un edificio di interesse storico-artistico.
Inutile per i concorrenti rivendicare la competenza
esclusiva degli architetti quando i lavori oggetto della
procedura pubblica sono interventi di risanamento che non
incidono sui profili estetici del fabbricato vincolato.
È quanto emerge dalla sentenza 36/2016, pubblicata dalla
prima sezione del Tar Bologna. Deve rassegnarsi,
l'architetto rimasto escluso dai lavori: stavolta non conta
che l'ingegnere non abbia lo stesso senso estetico nella
progettazione perché l'intervento che l'amministrazione
intende far realizzare punta al mero ripristino strutturale
della porzione delle strutture lesionate dal sisma; insomma:
si deve procedere ad attività di riparazione con
rafforzamento locale, tanto che le relative prestazioni da
erogare restano inquadrate nella sfera del risanamento e
della salvaguardia dell'immobile danneggiato.
Si tratta di intervenire sulla struttura dell'edificio per
ripararla e consolidarla: si rientra quindi nelle opere di
edilizia civile riconducibili alla «parte tecnica» di cui
all'articolo 52, comma 2, del regio decreto 2537/1925, nella
lettura ampia che ne ha dato la giurisprudenza, comprendendo
tutte le lavorazioni che non incidono sui profili estetici e
di rilievo culturale degli edifici vincolati.
Obbligo di comunicazione.
Sulle sanzioni penali previste per l'inosservanza della
legislazione antisismica è intervenuta la Cassazione poche
ore dopo la terribile scossa che ha distrutto Amatrice,
Accumoli, Arquata e gli altri Comuni al confine tra Lazio,
Marche e Umbria.
Il progettista e direttore dei lavori va condannato insieme
al titolare della ditta edile perché hanno costruito in zona
a rischio terremoto senza l'autorizzazione dell'ufficio
tecnico della regione. È quanto emerge dalla sentenza
35491/2016, pubblicata il 26 agosto dalla terza sezione penale
della Cassazione.
Non conta che l'opera realizzata scaturisca da un appalto
pubblico e il committente risulta il Comune: un altro dei
profili illeciti sanzionati è proprio il mancato deposito
del progetto presso lo sportello unico dell'edilizia
dell'ente locale, che pure ha approvato i lavori con
delibera.
Il punto è che gli articoli 93-95 del testo unico
dell'edilizia puntano proprio a scoraggiare la realizzazione
sul territorio di manufatti non conformi alle norme
tecniche. E ciò anche se la legge regionale stabilisce che a
essere obbligato alla denuncia è l'amministrazione
committente: l'ente territoriale, infatti, esercita in via
solo concorrente il potere legislativo sul governo del
territorio, mentre la materia della staticità degli edifici
in zona sismica resta di esclusiva competenza statale
(articolo ItaliaOggi Sette del
05.09.2016 - tratto d www.centrostudicni.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Sulla possibilità di “scindere”
la progettazione e affidare la parte relativa alle strutture
di cemento armato a un ingegnere abilitato e limitare in
capo al geometra quella relativa alle altre parti, sempre
nei limiti delle costruzioni per civile abitazione di
modeste dimensioni.
La competenza dei geometri è limitata
alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste
costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino
l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato.
Solo in via di eccezione, la competenza in ordine alla
progettazione da parte dei geometri si estende anche a
queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo
articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole
costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per la loro
destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è, comunque, esclusa
nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture
in cemento armato, la cui progettazione e direzione,
qualunque ne sia l'importanza è, pertanto, riservata solo
agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi
professionali.
---------------
Vi sono diversi
orientamenti sulla possibilità di “scindere” la
progettazione e affidare la parte relativa alle strutture di
cemento armato a un ingegnere abilitato e limitare in capo
al geometra quella relativa alle altre parti,
sempre nei limiti delle costruzioni per civile abitazione di
modeste dimensioni.
Un parte della giurisprudenza ritiene che, ai fini
dell’incompetenza del geometra ad assumersi la
progettazione, è irrilevante che l'incarico sia stato
conferito per le parti in cemento armato a un geometra a un
ingegnere o architetto, in quanto non è consentito neppure
al committente scindere dalla progettazione generale quella
relativa alle opere in cemento armato.
Non sarebbe, infatti, possibile enucleare e distinguere
un'autonoma attività, per la parte di tali opere,
riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, poiché chi
non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere
ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne
sorretto.
Secondo altro orientamento giurisprudenziale, che il
Collegio ritiene preferibile, sarebbe, invece, possibile
scindere le due parti della progettazione, essendo
consentito al geometra assumersi la progettazioni di modeste
civili costruzioni, qualora la parte progettuale relativa
alle strutture di cemento armato sia affidata a un ingegnere
o architetto abilitato.
In sostanza, secondo questo orientamento, la presenza di un
ingegnere progettista delle opere strutturali assorbe per
intero quella parte che poteva esorbitare dalla competenza
professionale del geometra.
Secondo quest‘ultimo orientamento giurisprudenziale,
infatti, è possibile, sulla base di comuni esperienze di
fatto, scindere dette attività progettuali, poiché definita
l'ossatura (o, meglio, la struttura portante di un edificio,
dimensionata per reggere tutte le sollecitazioni, statiche e
dinamiche, verticali e orizzontali, cui esso è o potrebbe
essere sottoposto) da parte del tecnico a ciò abilitato,
l'ulteriore attività progettuale si risolve nella
definizione di elementi di chiusura della stessa, mediante
opere di tamponamento interno ed esterno di natura
essenzialmente architettonica; opere volte a delimitare gli
spazi in cui si svolge l'attività umana e che non richiedono
il possesso di specifiche competenze strutturali (attività
che, spesso, viene svolta dai tecnici specializzati nei soli
componenti d'arredo).
In sostanza, per tale indirizzo, in caso di complessiva
modestia dell'opera, la circostanza che comunque i calcoli
relativi alle opere in cemento armato siano stati curati da
un professionista abilitato consente di considerare
legittimo il titolo abilitativo rilasciato su progetto
redatto da un geometra.
Il Collegio rileva, in proposito, come questo orientamento
meriti condivisione, tenendo presenti alcuni aspetti
espressi dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato nel
parere del 04.09.2015, n. 7477.
In base al principio generale della collaborazione tra
titolari di diverse competenze professionali, infatti, nulla
impedisce che la progettazione e direzione dei lavori
relativi alle opere in cemento armato sia affidata al
tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di
valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che
l’attività di progettazione e direzione dei lavori,
incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta”
costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra.
Non si tratta, tuttavia, di assicurare la mera presenza di
un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che
controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del
cemento armato, deve essere competente a progettare e ad
assumersi la responsabilità del segmento del progetto
complessivo riferito alle opere in cemento armato, nel senso
che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si
avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere
sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte
di sua competenza e sotto la sua responsabilità.
---------------
La circostanza che l’opera insista in zona sismica non è
sufficiente a escludere, di per sé, che la costruzione
civile possa ritenersi “modesta”, ai fini della competenza
del geometra alla sua progettazione, anche per le parti non
interessate dalle strutture di cemento armato.
Tale interpretazione, difatti, seppure ha trovato conferma
in un risalente precedente, appare troppo formalistica e non
suffragata da specifici elementi normativi.
Si deve, infatti, ritenere che, in caso di zona interessata
dal rischio sismico, il requisito della “modestia” della
costruzione civile debba essere valutato con maggiore rigore
ma non escluso automaticamente.
In sostanza, quindi, per gli interventi comportanti l’uso
del cemento armato, il grado di pericolo sismico della zona
su cui insiste la costruzione deve portare a una valutazione
di maggior rigore anche per quanto riguarda la competenza
del progettista dell’intervento relativo a “modeste”
costruzioni civili, nel senso appunto che la progettazione,
esecuzione e direzione dei lavori delle opere statiche dovrà
essere demandata alla responsabilità di un professionista
titolare di specifiche competenze tecniche all’effettuazione
dei calcoli necessari ed alla valutazione delle spinte,
controspinte e sollecitazioni, cui può essere sottoposta la
costruzione.
Ciò non esclude che, nel caso di specie, considerata la
tipologia e l’entità dell’intervento, quest’ultimo possa
considerarsi relativo a una modesta costruzione civile, ai
fini delle competenze nella progettazione, e che il progetto
redatto sia conforme alla normativa vigente, essendo stata
demandata a un ingegnere la parte relativa alle strutture in
cemento armato.
---------------
... per l'annullamento del permesso di costruire n. 40 del
2015 del Comune di Maddaloni;
...
FATTO
Le parti ricorrenti, comproprietarie di un edificio sito in
Maddaloni, in via ... n. .., dove risiedono, hanno
impugnato, con ricorso notificato il 06.11.2016, il Permesso
di Costruire n. 40 del 18/05/2015, rilasciato su un lotto
confinante a Ro. De Vi., per la ristrutturazione con
ampliamento della parte residenziale del fabbricato, la
realizzazione di un nuovo corpo di fabbrica, l'abbassamento
del solaio di copertura, la demolizione della copertura
esistente, l'innalzamento delle pareti portanti, con
previsione dell'utilizzo del cemento armato per le strutture
di nuova edificazione.
...
DIRITTO
3) Quanto al primo motivo di ricorso, le parti
ricorrenti sostengono che la progettazione dell’intervento è
stata effettuata da un geometra, ancorché le opere assentite
prevedano la ristrutturazione con ampliamento della parte
residenziale del fabbricato, la realizzazione di un nuovo
corpo di fabbrica, l'abbassamento del solaio di copertura,
la demolizione della copertura esistente, l'innalzamento
delle pareti portanti, con utilizzo del cemento armato per
tutte le strutture di nuova edificazione.
La progettazione di costruzioni civili, con strutture in
cemento armato, esulerebbe dalla competenza dei geometri,
trattandosi dì attività riservata ai soli ingegneri e
architetti, tanto più che l’immobile si trova in zona a
rischio sismico.
Replica il controinteressato che il motivo risulterebbe
infondato alla luce della circostanza che la figura
professionale del geometra è abilitata alla progettazione
architettonica di modeste abitazioni civili, come quella in
questione, e che, nel caso di specie, la parte relativa ai
calcoli strutturali del cemento armato è stata curata da un
ingegnere, mentre il geometra si è limitato alla
progettazione delle restanti parti architettoniche.
In particolare, la parte relativa ai calcoli strutturali del
cemento armato è stata curata dall’Ing. Pe., mentre il geom.
Pa. si è occupato esclusivamente della progettazione
architettonica.
Il motivo è infondato.
A norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274 e
dalle l. 05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974 n. 64, che hanno
rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato
cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla
l. 02.03.1949 n. 144 (recante la tariffa professionale), la
competenza dei geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con
esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche
parziale- di strutture in cemento armato.
Solo in via di eccezione, la competenza in ordine alla
progettazione da parte dei geometri si estende anche a
queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo
articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole
costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per la loro
destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è, comunque, esclusa
nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture
in cemento armato, la cui progettazione e direzione,
qualunque ne sia l'importanza è, pertanto, riservata solo
agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi
professionali (Cons. Stato Sez. V, 23.02.2015, n. 883; Cons.
Stato Sez. V, 28.04.2011, n. 2537; Cass. civ. Sez. II,
24.03.2016, n. 5871; Cass. civ., sez. II, 02.09.2011, n.
18038; Cass. 26.07.2006, n. 17028).
Quanto indicato appare pacifico in giurisprudenza, mentre
vi sono diversi orientamenti sulla possibilità di “scindere”
la progettazione e affidare la parte relativa alle strutture
di cemento armato a un ingegnere abilitato e limitare in
capo al geometra quella relativa alle altre parti,
sempre nei limiti delle costruzioni per civile abitazione di
modeste dimensioni.
Un parte della giurisprudenza ritiene che, ai fini
dell’incompetenza del geometra ad assumersi la
progettazione, è irrilevante che l'incarico sia stato
conferito per le parti in cemento armato a un geometra a un
ingegnere o architetto, in quanto non è consentito neppure
al committente scindere dalla progettazione generale quella
relativa alle opere in cemento armato.
Non sarebbe, infatti, possibile enucleare e distinguere
un'autonoma attività, per la parte di tali opere,
riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto, poiché chi
non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere
ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne
sorretto (Cons. Stato Sez. V, 28.04.2011, n. 2537).
Secondo altro orientamento giurisprudenziale, che il
Collegio ritiene preferibile, sarebbe, invece, possibile
scindere le due parti della progettazione, essendo
consentito al geometra assumersi la progettazioni di modeste
civili costruzioni, qualora la parte progettuale relativa
alle strutture di cemento armato sia affidata a un ingegnere
o architetto abilitato.
In sostanza, secondo questo orientamento, la presenza di un
ingegnere progettista delle opere strutturali assorbe per
intero quella parte che poteva esorbitare dalla competenza
professionale del geometra (TAR Marche Ancona Sez. I,
11/07/2013, n. 559, 13.03.2008 n. 194 e 23.11.2001 n. 1220).
Secondo quest‘ultimo orientamento giurisprudenziale,
infatti, è possibile, sulla base di comuni esperienze di
fatto, scindere dette attività progettuali, poiché definita
l'ossatura (o, meglio, la struttura portante di un edificio,
dimensionata per reggere tutte le sollecitazioni, statiche e
dinamiche, verticali e orizzontali, cui esso è o potrebbe
essere sottoposto) da parte del tecnico a ciò abilitato,
l'ulteriore attività progettuale si risolve nella
definizione di elementi di chiusura della stessa, mediante
opere di tamponamento interno ed esterno di natura
essenzialmente architettonica; opere volte a delimitare gli
spazi in cui si svolge l'attività umana e che non richiedono
il possesso di specifiche competenze strutturali (attività
che, spesso, viene svolta dai tecnici specializzati nei soli
componenti d'arredo).
In sostanza, per tale indirizzo, in caso di complessiva
modestia dell'opera, la circostanza che comunque i calcoli
relativi alle opere in cemento armato siano stati curati da
un professionista abilitato consente di considerare
legittimo il titolo abilitativo rilasciato su progetto
redatto da un geometra (Cons. Stato Sez. IV, 28.11.2012, n.
6036).
Il Collegio rileva, in proposito, come questo orientamento
meriti condivisione, tenendo presenti alcuni aspetti
espressi dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato nel
parere del 04.09.2015, n. 7477.
In base al principio generale della collaborazione tra
titolari di diverse competenze professionali, infatti, nulla
impedisce che la progettazione e direzione dei lavori
relativi alle opere in cemento armato sia affidata al
tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di
valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che
l’attività di progettazione e direzione dei lavori,
incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta”
costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra.
Non si tratta, tuttavia, di assicurare la mera presenza di
un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che
controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del
cemento armato, deve essere competente a progettare e ad
assumersi la responsabilità del segmento del progetto
complessivo riferito alle opere in cemento armato, nel senso
che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si
avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere
sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte
di sua competenza e sotto la sua responsabilità.
Nel caso di specie un ingegnere (l’Ing. Pe.) ha provveduto
all’effettuazione dei calcoli strutturali per le strutture
in cemento armato, depositando i relativi elaborati
progettuali presso il Genio Civile.
Si può pertanto ritenere che lo stesso abbia redatto il
segmento del progetto complessivo riferito alle opere in
cemento armato, assumendosene la responsabilità.
Né la circostanza che l’opera insista in zona sismica è
sufficiente a escludere, di per sé, che la costruzione
civile possa ritenersi “modesta”, ai fini della
competenza del geometra alla sua progettazione, anche per le
parti non interessate dalle strutture di cemento armato.
Tale interpretazione, difatti, seppure ha trovato conferma
in un risalente precedente (Cons. Stato, 08.06.1998, n.
779), appare troppo formalistica e non suffragata da
specifici elementi normativi.
Si deve, infatti, ritenere che, in caso di zona interessata
dal rischio sismico, il requisito della “modestia”
della costruzione civile debba essere valutato con maggiore
rigore ma non escluso automaticamente.
In sostanza, quindi, per gli interventi comportanti l’uso
del cemento armato, il grado di pericolo sismico della zona
su cui insiste la costruzione deve portare a una valutazione
di maggior rigore anche per quanto riguarda la competenza
del progettista dell’intervento relativo a “modeste”
costruzioni civili, nel senso appunto che la progettazione,
esecuzione e direzione dei lavori delle opere statiche dovrà
essere demandata alla responsabilità di un professionista
titolare di specifiche competenze tecniche all’effettuazione
dei calcoli necessari ed alla valutazione delle spinte,
controspinte e sollecitazioni, cui può essere sottoposta la
costruzione.
Ciò non esclude che, nel caso di specie, considerata la
tipologia e l’entità dell’intervento, quest’ultimo possa
considerarsi relativo a una modesta costruzione civile, ai
fini delle competenze nella progettazione, e che il progetto
redatto sia conforme alla normativa vigente, essendo stata
demandata a un ingegnere la parte relativa alle strutture in
cemento armato.
Il motivo di ricorso deve, quindi essere rigettato (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.08.2016 n. 4092 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Porto
d'armi delicato. Ampia
discrezionalità alla p.a..
L'Amministrazione nell'esercizio dei poteri connessi alla
disciplina della detenzione e del porto della armi gode di
un'ampia discrezionalità giustificata dalla delicatezza
degli interessi pubblici coinvolti.
A rimarcarlo sono stati i giudici della I Sez. del
TAR Emilia Romagna-Bologna con
sentenza
19.08.2016 n. 793.
I giudici hanno altresì osservato che è noto, per pacifica
giurisprudenza, che l'autorità amministrativa non debba
attendere l'esito delle vicende penali in cui sia coinvolto
il titolare di un'autorizzazione per adottare eventuali
provvedimenti di revoca, potendo autonomamente valutare
alcuni fatti noti ai fini del giudizio sulla persistente
affidabilità dell'autorizzato.
E quindi, secondo il Tar, «la latitudine di tale
discrezionalità non può, però, trasmodare nell'esercizio dei
poteri di revoca ogni qual volta l'autorizzato venga
denunciato, ma è necessario valutare le condotte poste in
essere e che hanno dato luogo alla segnalazione all'Autorità
giudiziaria per verificare se esse incidano con un giudizio
ovviamente prognostico sul requisito dell'affidabilità per
prevenire possibili abusi commessi grazie alla disponibilità
di armi».
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici bolognesi
vedeva la querela della moglie di Tizio per una condotta
molesta di controllo delle attività svolte dalla moglie
finalizzata a poter provare che la donna stava svolgendo dei
lavori onde poter richiedere una diminuzione dell'assegno di
mantenimento.
Non vi era, però, alcuna prova di condotte violente e
l'unico elemento valorizzabile nella prospettiva della
revoca sarebbe un'affermazione della moglie peraltro non
desunta dalla querela circa generiche minacce di lesioni per
lei e per il suo avvocato in caso di insistenza nella
richiesta di assegno di mantenimento.
Inoltre i carabinieri avrebbero raccolto le confidenze di un
vicino di casa circa il carattere scontroso e aggressivo di
Tizio.
Tizio impugnava il provvedimento di revoca della licenza di
porto d'armi ad uso caccia che era stata disposta nei suoi
confronti a seguito di questa denuncia querela. Secondo il
Tar non è sufficiente la mera presentazione di una querela
nell'ambito di un contenzioso matrimoniale, nel quale spesso
il ricorso all'Autorità giudiziaria ha carattere
strumentale, per far venir meno tale affidabilità
soprattutto se il contenuto della querela non evidenzia
comportamenti violenti
(articolo ItaliaOggi Sette del
05.09.2016). |
VARI: Commissione
solo al completo. Bocciatura all'orale nulla se manca un
componente. ESAME AVVOCATO/ Sentenza
del tribunale amministrativo regionale del Molise.
All'esame per l'abilitazione forense la commissione deve
essere al completo, infatti se manca un magistrato membro
della commissione, l'eventuale bocciatura all'orale di un
candidato sarà nulla.
È quanto evidenziato dai giudici della
I Sez. del TAR Molise con la
sentenza
17.08.2016 n. 335.
Con ricorso Tizio impugnava il provvedimento con il quale
era stato ritenuto, all'esito della prova orale, non idoneo
all'esercizio della professione di avvocato, chiedendone
l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia.
Tizio contestava la violazione dei criteri di composizione
della commissione, ritenendo che in base alla nuova
disciplina introdotta dalla legge n. 247/2012 tutte le
componenti previste all'art. 47 (avvocati, magistrati e
professori universitari) dovrebbero essere presenti in ogni
momento dello svolgimento dei lavori, essendo venuta meno la
previsione di cui all'art. 22, c. 5, del rd n. 1578/1933
secondo cui i membri supplenti potevano supplire qualunque
membro effettivo assente, a prescindere dalla categoria di
appartenenza.
Nella fattispecie tale criterio non sarebbe stato rispettato
perché alla sessione per l'esame dello svolgimento degli
orali non era presente nessun magistrato.
A parere dei giudici amministrativi è opportuno distinguere
tra le previsioni della nuova disciplina dell'ordinamento
forense che riguardano le modalità di svolgimento delle
prove da quelle che attengono ai criteri di composizione
della commissione.
La distinzione rileva perché la disciplina transitoria, che
prevede un rinvio di quattro anni dell'entrata in vigore
delle disposizioni sugli esami di avvocato, non riguarda le
disposizioni concernenti la composizione della commissione,
riferendosi solo alle prescrizioni relative alle «prove
scritte» e alle «prove orali» oltre che alle «modalità di
esame».
Per i giudici molisani a favore della tesi dell'immediata
applicabilità della nuova disciplina in tema di composizione
delle commissioni deponeva inoltre la circostanza che
l'amministrazione ha provveduto alla nomina della
sottocommissione nella composizione prevista dalla nuova
disciplina (tre avvocati, un magistrato e un professore o
ricercatore universitario), anziché in quella prevista dalla
disciplina previgente (si veda: Tar Lombardia, sez. III, 11.04.2016, n. 692).
La legge 247/2012, hanno osservato poi i giudici del Tar,
non riproduce la norma, contenuta nel previgente art. 22,
comma 5, del rd 27.11.1933, n. 1578, recante
Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore,
in base alla quale: «I supplenti intervengono nella
commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di
qualsiasi membro effettivo», su cui si fondava lo stabile
orientamento giurisprudenziale, formatosi nel vigore delle
previgenti disposizioni legislative, secondo cui i
componenti delle commissioni giudicatrici degli esami di
abilitazione all'esercizio della professione forense sono
fra loro pienamente fungibili (ex plurimis, Cons. stato,
sez. IV, 17.09.2004, n. 6155).
Pertanto proprio la mancata riproduzione costituisce un
forte indizio della necessaria presenza nelle singole sedute
della commissione di esame delle tre diverse realtà del
mondo giuridico (forense, magistratuale e accademica) nelle
proporzioni stabilite dalla legge, «sul presupposto che gli
esponenti di ciascuna delle tre predette categorie sia
portatrice di sensibilità giuridiche connotate da diversi
accenti e sfumature, che verosimilmente condurrà l'esponente
di ciascuna professionalità a valorizzare, in sede di
correzione degli elaborati, differenti aspetti delle prove
di esame, cosicché l'alterazione del peso delle componenti
interne alla commissione potrebbe determinare un diverso
esito dell'esame»
(articolo ItaliaOggi Sette del
05.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
effetto della dequotazione introdotta dall’articolo
21-octies della legge n. 241 del 1990, nei procedimenti
preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di
opere edilizie abusive l’asserita violazione dell’obbligo di
comunicazione dell'avvio dell'iter procedimentale non
produce l’annullamento del provvedimento, specie quando
emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del
procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che
è stato in concreto adottato.
---------------
2.c – Va condiviso quanto affermato sul punto dal giudice di
primo grado.
A tale riguardo, il Collegio si richiama a quanto più volte
rilevato da questo Consiglio di Stato (cfr., per tutte,
Cons. Stato, IV, 26.09.2008, n. 4659; Id., IV, 04.02.2013, n. 666; Id., IV, 25.06.2013, n. 3471)
secondo cui –per effetto della dequotazione introdotta
dall’articolo 21-octies della medesima legge n. 241 del 1990- nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze
di demolizione di opere edilizie abusive l’asserita
violazione dell’obbligo di comunicazione dell'avvio
dell'iter procedimentale non produce l’annullamento del
provvedimento (Cons. Stato, IV, 17.02.2014, n. 734),
specie quando, come nella vicenda in esame, emerga che il
contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in
concreto adottato (cfr., altresì, ex multis, Cons. Stato, VI,
23.10.2015, n. 4880)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.08.2016 n. 3620 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La pavimentazione di un'area già allo stato
naturale, e la destinazione della stessa a parcheggio di
autoveicoli, non può in alcun modo configurarsi come
intervento di manutenzione (ordinaria o straordinaria),
consolidamento statico o restauro conservativo, trattandosi
di opera edilizia nuova, e non già di intervento
trasformativo di manufatto già esistente.
---------------
L'intervento in argomento ricade in zona assoggettata a
vincolo paesaggistico sicché –tenuto conto dell’avvenuta
alterazione dell'aspetto esteriore dei luoghi– ciò comporta
che l'intervento in questione doveva ritenersi soggetto alla
previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, quale
titolo autonomo, “non conseguibile a sanatoria ex combinato
disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del
medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non
qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la
creazione di superfici utili o volumi”.
---------------
3. – Con altra
censura gli appellanti lamentano l’erroneità della sentenza
impugnata per aver ritenuto infondato il motivo concernente
l’avvenuta formazione per via di silenzio-assenso delle
autorizzazioni alla realizzazione del parcheggio.
3.a – A questo proposito la sentenza aveva osservato come “è
sufficiente una piana lettura del provvedimento impugnato
per rendersi conto che la realizzazione del parcheggio è
avvenuta previa sistemazione del piano di campagna dell'area
di interesse mediante stesura di detriti bituminosi”,
aggiungendo che l’intervento “risulta realizzato in area con
diversa destinazione urbanistica (agricola) e soggetta a
vincolo paesistico, giusta D.M. 12.01.1958”, e che di
conseguenza deve ritenersi esclusa l’assentibilità del
titolo per via di silenzio-assenso.
3.b – Con il motivo in esame i ricorrenti muovono
dall’assunto che -trattandosi di terreno “battuto”- gli
interventi siano stati realizzati senza l’esecuzione di
alcuna opera edilizia.
Di conseguenza, il titolo richiesto in data 02.04.1999 da
Di Sc.Vi. -con la domanda di autorizzazione
all’utilizzazione dell’area come parcheggio a pagamento,
senza custodia e senza l’esecuzione di opere edilizie-
dovrebbe ritenersi formato per via di silenzio-assenso.
A maggior ragione si sarebbe formato il titolo implicito –tenuto conto della normativa di favore prevista
dall’articolo 9 della legge 24.03.1989, n. 122, che
consente la realizzazione di parcheggi, anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi- sulla
domanda presentata in data 28.04.1999 da Di Sc.Gi. per la realizzazione di un parcheggio in un’area
“pertinenziale esterna” rispetto al fabbricato esistente.
3.c – La censura non è fondata.
I ricorrenti si limitano a contestare la natura edilizia
degli interventi –con richiamo ad altra giurisprudenza del
medesimo Tribunale amministrativo che avrebbe escluso la
necessità del permesso di costruire a fronte di interventi
di stesura di detriti bituminosi e di realizzazione di
parcheggi ai sensi del richiamato articolo 9 della legge n.
122 del 1989– insistendo sull’avvenuta formazione implicita
dei titoli.
Come correttamente osservato dal giudice di primo grado “non
può essere revocata in dubbio … la rilevanza edilizia
dell'opera … e ciò indipendentemente dall'apertura al
pubblico dell'area abusivamente destinata a parcheggio”.
Va condivisa in particolare l’affermazione secondo cui “la
pavimentazione di un'area già allo stato naturale, e la
destinazione della stessa a parcheggio di autoveicoli, non
può in alcun modo configurarsi come intervento di
manutenzione (ordinaria o straordinaria), consolidamento
statico o restauro conservativo, trattandosi di opera
edilizia nuova, e non già di intervento trasformativo di
manufatto già esistente”, a nulla rilevando, tenuto conto
della consistenza dell’intervento realizzato, che il
provvedimento impugnato in primo grado ne abbia ingiunto la
rimozione, anziché la demolizione.
Sicché, ad escludere la fondatezza dell’assunto secondo cui
sulla domanda presentata nel 1999 si sia formato il titolo
per via di silenzio-assenso, è sufficiente la considerazione
che –come sottolineato nella sentenza appellata–
“l'intervento in argomento ricade in zona assoggettata a
vicolo paesaggistico -giusta D.M. 12.01.1958- e, pertanto,
soggetta alle previsioni di cui al d.l.vo 22.01.2004,
n. 42”.
Questa circostanza –tenuto conto dell’avvenuta alterazione
dell'aspetto esteriore dei luoghi– comporta infatti che
l'intervento in questione doveva ritenersi soggetto alla
previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, quale
titolo autonomo, come rileva il giudice di primo grado, “non
conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146
e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che
esclude sanatorie per interventi non qualificabili come
manutentivi o che abbiano determinato la creazione di
superfici utili o volumi”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.08.2016 n. 3620 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittimo l’ordine di
demolizione indirizzato nei soli confronti del proprietario,
ove non siano immediatamente rinvenuti altri elementi utili
alla identificazione (anche) del (diverso) responsabile
dell'abuso, nel qual caso l'ingiunzione va indirizzata ad
entrambi, secondo quanto previsto dal dall'art. 31, comma 2,
del Testo unico delle disposizioni in materia edilizia,
approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Invero, la previsione del coinvolgimento del proprietario -a
prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito
edilizio- nel procedimento sanzionatorio seguito
all’accertamento di tale illecito, non presenta profili di
criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali
(in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle
disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel
nostro ordinamento, quali norme interposte, in base al
novellato art. 117 Cost.); e tanto per la dirimente ragione
che qui si parla di sanzioni in senso improprio, non aventi
carattere “personale” ma reale, essendo adottate in funzione
di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente
all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la
effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei
luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico
all’ordinato assetto del territorio.
Sicché, la circostanza che all’epoca dell’adozione del
provvedimento impugnato entrambi i ricorrenti in primo grado
non fossero (più) comproprietari dell’intera area oggetto
dell’intervento abusivo non rende automaticamente
inesigibile nei loro confronti l'ordine di riduzione in
pristino contenuto nel precitato provvedimento
ingiuntivo,“atteso che in via ordinaria (arg. ex art. 31 del
d.p.r. 380/2001) legittimati passivi di siffatto ordine sono
sia il proprietario dell'area che il responsabile
dell'abuso”.
---------------
Sul punto va
infatti condiviso il richiamo, da cui muove la sentenza
appellata, all’orientamento che ritiene legittimo l’ordine
di demolizione indirizzato nei soli confronti del
proprietario, ove non siano immediatamente rinvenuti altri
elementi utili alla identificazione (anche) del (diverso)
responsabile dell'abuso, nel qual caso l'ingiunzione va
indirizzata ad entrambi, secondo quanto previsto dal
dall'art. 31, comma 2, del Testo unico delle disposizioni in
materia edilizia, approvato con d.P.R. 06.06.2001, n.
380.
La giurisprudenza ha infatti affermato che la previsione del
coinvolgimento del proprietario -a prescindere da una sua
diretta responsabilità nell’illecito edilizio- nel
procedimento sanzionatorio seguito all’accertamento di tale
illecito, non presenta profili di criticità sul piano del
rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo
anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali
che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme
interposte, in base al novellato art. 117 Cost.); e tanto
per la dirimente ragione che qui si parla di sanzioni in
senso improprio, non aventi carattere “personale” ma reale,
essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza
rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di
assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di
ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del
prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del
territorio (cfr., sul punto, Cons. St., VI, 15.04.2015,
n. 1927).
Sicché, come correttamente affermato dalla sentenza
appellata, la circostanza che all’epoca dell’adozione del
provvedimento impugnato entrambi i ricorrenti in primo grado
non fossero (più) comproprietari dell’intera area oggetto
dell’intervento abusivo non rende automaticamente
inesigibile nei loro confronti l'ordine di riduzione in
pristino contenuto nel precitato provvedimento
ingiuntivo,“atteso che in via ordinaria (arg. ex art. 31 del
d.p.r. 380/2001) legittimati passivi di siffatto ordine sono
sia il proprietario dell'area che il responsabile
dell'abuso”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.08.2016 n. 3620 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROFESSIONALI: Legale
e geometra non si può. Compatibili solo commercialisti,
consulenti, revisori. Un'ordinanza
delle Sezioni unite civili della Cassazione cita
testualmente la legge.
Un avvocato non può svolgere la professione di geometra.
Le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione,
ordinanza 22.07.2016 n. 15208, hanno richiamato
con ordinanza l'art. 18, comma 1, lett. a), l. n. 247/2012,
circa l'incompatibilità della professione forense, citando
testualmente la legge che recita: «La professione di
avvocato è incompatibile: a) con qualsiasi altra attività di
lavoro autonomo svolta continuativamente o
professionalmente, escluse quelle di carattere scientifico,
letterario, artistico e culturale, e con l'esercizio
dell'attività di notaio. È consentita l'iscrizione nell'albo
dei dottori commercialisti e degli esperti contabili,
nell'elenco dei pubblicisti e nel registro dei revisori
contabili o nell'albo dei consulenti del lavoro».
Il Coa con deliberazione disponeva la cancellazione dell'Abogado
Caio dalla sezione speciale degli avvocati stabiliti per
incompatibilità, ai sensi dell'art. 18, comma 1, lettera a),
della legge n. 247 de12012, in quanto Caio risultava
contemporaneamente iscritto all'Albo dei geometri.
Con sentenza successiva il Consiglio nazionale forense
rigettava il ricorso proposto da Caio avverso tale decisione
e il Cnf, disattese alcune questioni procedimentali
sollevate dal ricorrente, contestava che l'art. 18, comma 1,
lettera a), della legge n. 247 del 2012, a differenza del
previgente art. 3 del rdl n. 1578 del 1933, disponesse
quanto detto sopra in tema di incompatibilità.
Secondo il Cnf, in presenza della iscrizione a un albo
professionale diverso da quello per i quali non è stabilita
incompatibilità, viene meno ogni necessità di accertare se
l'attività consentita dalla detta iscrizione sia
quantitativamente rilevante ovvero del tutto inesistente.
Avverso questa sentenza Caio proponeva ricorso sulla base di
tre motivi: con il primo motivo deduceva la violazione e
falsa applicazione dell'art. 18, punto 1, lettera a), della
legge n. 247 del 2012, sostenendo che da tale disposizione
deriverebbe l'ammissibilità della iscrizione dell'avvocato
ad altri albi, sempre che, come nella specie, difettino i
requisiti di continuità e di professionalità dell'altra
professione e non vi sia produzione di reddito.
Con il
secondo motivo deduceva violazione di legge ed eccesso di
potere per violazione del principio del giusto procedimento
e del diritto di difesa, rilevando che il Coa, prima, e il
Cnf, poi, non avrebbero svolto alcuna attività istruttoria
in ordine alle assenza dei requisiti che renderebbero
incompatibile l'iscrizione dell'avvocato per effetto della
iscrizione in un altro albo.
Con il terzo motivo Caio denunciava violazione e mancata
applicazione delle regole di concorrenza tra professionisti
di cui agli artt. 3, 4 e 41 Cost. e dei principi dell'Unione
Europea
(articolo ItaliaOggi Sette del
05.09.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Giova
richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte
in ordine alla
nozione di ultimazione delle opere che, ai soli fini del
condono edilizio, corrisponde alla realizzazione del rustico
completo di tamponature laterali e copertura mentre, ai fini
dell'individuazione del tempus commissi delicti, corrisponde
al completamento del manufatto, comprese le rifiniture
esterne e interne (di recente: "La permanenza del reato di
edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione
della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa
volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori
abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo
l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello
della emissione della sentenza di primo grado"; in
applicazione del principio, la Corte ha aggiunto che, ai
fini dell'individuazione del momento di cessazione dei
lavori, il completamento dell'opera con tutte le rifiniture
interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico,
che, se utile nella normalità dei casi, non consente di
escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia
terminata anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso
anzidetto, come ad esempio quando risulti l'ininterrotto
utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione
delle utenze necessarie).
Infatti, come disposto dall'art. 31, comma 2, l. n. 47 del
1985, si intendono come ultimati, ai fini della
condonabilità, "gli edifici nei quali sia stato eseguito il
rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere
interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate
alla residenza, quando esse siano state completate
funzionalmente".
Tale disposizione di favore, che non può trovare
applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività
assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, non
è estensibile, anche in quanto norma eccezionale, ad altre
fattispecie non previste, quale è l'ipotesi
dell'individuazione del tempus commissi delicti e della
cessazione della permanenza.
---------------
Del resto, come ammesso dallo stesso ricorrente, risulta la realizzazione
del solo "rustico" dell'opera.
Al riguardo, giova richiamare la costante giurisprudenza di
questa Corte
in ordine alla nozione di ultimazione delle opere che, ai
soli fini del condono
edilizio, corrisponde alla realizzazione del rustico
completo di tamponature
laterali e copertura (ex multis, Sez. 3, n. 28233 del
14/06/2011, Aprea, Rv.
250658), mentre, ai fini dell'individuazione del tempus
commissi delicti,
corrisponde al completamento del manufatto, comprese le
rifiniture esterne e
interne (di recente, sulla cessazione della permanenza, Sez.
3, n. 29974 del
06/05/2014, Sullo, Rv. 260498: "La permanenza del reato di
edificazione
abusiva termina, con conseguente consumazione della
fattispecie, o nel
momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta,
cessano o vengono
sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono
proseguiti anche dopo
l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello
della emissione della
sentenza di primo grado"; in applicazione del principio, la
Corte ha aggiunto
che, ai fini dell'individuazione del momento di cessazione
dei lavori, il
completamento dell'opera con tutte le rifiniture interne ed
esterne costituisce
solo un elemento sintomatico, che, se utile nella normalità
dei casi, non
consente di escludere ipotesi marginali in cui la permanenza
sia terminata
anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso anzidetto,
come ad esempio
quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene
comprovato dalla
attivazione delle utenze necessarie).
Infatti, come disposto dall'art. 31, comma 2, l. n. 47 del
1985, si
intendono come ultimati, ai fini della condonabilità, "gli
edifici nei quali sia
stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero,
quanto alle opere
interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate
alla residenza, quando
esse siano state completate funzionalmente". Tale
disposizione di favore, che
non può trovare applicazione al di fuori del limitato ambito
di operatività
assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, non
è estensibile,
anche in quanto norma eccezionale, ad altre fattispecie non
previste, quale è
l'ipotesi dell'individuazione del tempus commissi delicti
e della cessazione della permanenza
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26425 -
tratta da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati
urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad
estinguere il reato di cui
all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo
termini o condizioni,
deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e
può essere
conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni
espressamente indicate
dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia
conformità delle opere alla
disciplina urbanistica vigente sia al momento della
realizzazione del
manufatto, che al momento della presentazione della domanda
di sanatoria,
dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione
postuma di opere
originariamente abusive che, solo successivamente, in
applicazione della
cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria",
siano divenute
conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di
pianificazione urbanistica.
---------------
3. Il terzo
motivo è manifestamente infondato, oltre che meramente
ripropositivo della medesima deduzione presentata in
appello.
Al riguardo, richiamando l'elaborazione giurisprudenziale
del Consiglio di
Stato sulla c.d. "sanatoria impropria" (o
giurisprudenziale), viene invocata
l'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria
n. 28 del 2014,
rilasciato ex art. 36 d.P.R. 380 del 2001; il permesso,
seppur inidoneo ad
estinguere il reato, in quanto privo della c.d. doppia
conformità, sarebbe
idoneo almeno a paralizzare l'ordine di demolizione al cui
adempimento è
stata subordinata la concessione della sospensione
condizionale della pena.
3.1. Tale provvedimento viene denominato "sanatoria
giurisprudenziale",
evidentemente con riferimento alla c.d. sanatoria
giurisprudenziale o
impropria individuata, in passato, dalla giurisprudenza
amministrativa (v., ad
es., Cons. St., Sez. 5, n. 1796, 19.04.2005), in base
alla quale si ritengono
sanabili le opere che, non conformi alla disciplina
urbanistica ed alle previsioni
degli strumenti di pianificazione, lo siano divenute
successivamente e che
sarebbe insensato demolire quando, a demolizione avvenuta,
potrebbero
essere legittimamente assentite.
Si tratta, tuttavia, di un orientamento nettamente
minoritario che può
dirsi ormai definitivamente superato,
avendo la
giurisprudenza amministrativa
(v. Cons. St., Sez. 4, n. 4838, 17.09.2007)
successivamente escluso
l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale sul
rilievo che la sua
applicazione contrasterebbe con il principio di legalità,
dal momento che non
vi è stata alcuna espressa previsione di tale istituto
allorquando l'art. 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001 ha sostituito la corrispondente
disciplina della legge
urbanistica 47/1985, nonostante il favorevole parere del 29.03.2001 della
Adunanza generale del Consiglio di Stato, che ne aveva
sollecitato
l'introduzione al legislatore delegato il quale, tuttavia,
come evidenziato nella
Relazione illustrativa al testo Unico dell'edilizia, non ha
raccolto il
suggerimento, ponendo in evidenza l'esistenza di un
contrasto
giurisprudenziale che impediva la formazione di un diritto
vivente che avrebbe
consentito la modifica del dato testuale ed il parere
nettamente contrario
espresso dalla Camera.
La giurisprudenza amministrativa ha inoltre osservato,
successivamente,
che l'art. 36 citato, in quanto norma derogatoria al
principio per il quale i
lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle
prescritte misure ripristinatorie
e sanzionatorie, non è suscettibile di applicazione
analogica né di una
interpretazione riduttiva (Cons. St., Sez. 4, n. 6784, 02.11.2009) e che
la sanatoria giurisprudenziale non può ritenersi
applicabile, in quanto
introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di
fuori di qualsiasi
previsione normativa; effetti che non possono ritenere
ammessi
nell'ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità
dell'azione
amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dall'Amministrazione,
secondo il principio di nominatività, poteri che non possono
essere surrogati
dal giudice, pena la violazione del principio di separazione
dei poteri e
l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate
all'Amministrazione
(così Cons.
St., Sez. 5, n. 3220, 11.06.2013).
Recentemente, il Consiglio di Stato ha ulteriormente
confermato la
propria posizione in tema di sanatoria giurisprudenziale
(alla quale, peraltro,
risultano conformati anche i Tribunali Amministrativi
Regionali),
osservando
come il divieto legale di rilasciare un permesso in
sanatoria anche quando,
dopo la commissione dell'abuso, vi sia una modifica
favorevole dello
strumento urbanistico, sia giustificato della necessità di
"evitare che il potere
di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post
(e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)"
oltre che dall'esigenza di
"disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione
di commettere un
abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che
deve comunque
disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una
modifica
favorevole dello strumento urbanistico"
(Cons. Stato, Sez.
5, 17.03.2014,
n. 1324; conf. Sez. 5, 27.05.2014, n. 2755).
3.2. L'attuale consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa ha trovato peraltro conferma in una recente
decisione della
Corte Costituzionale (sentenza 27.02.2013 n. 101),
che, nel giudizio di
legittimità costituzionale della L.R. Toscana 31.01.2012, n. 4, art. 5,
commi 1, 2 e 3 e artt. 6 e 7 (Modifiche alla L.R. 03.01.2005, n. 1 "Norme
per il governo del territorio" e della L.R. 16.10.2009,
n. 58 "Norme in
materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico"), ha
affermato che
il
principio della "doppia conformità" risulta finalizzato a
"garantire l'assoluto
rispetto della "disciplina urbanistica ed edilizia" durante
tutto l'arco temporale
compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione
dell'istanza volta
ad ottenere l'accertamento di conformità", aggiungendo, e
richiamando la
giurisprudenza amministrativa, che la sanatoria, che si
distingue dal condono vero e proprio, "è stata
deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli
abusi "formali", ossia dovuti alla carenza del titolo
abilitativo, rendendo così
palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria
in esame, "anche di
natura preventiva e deterrente", finalizzata a frenare
l'abusivismo edilizio, in
modo da escludere letture "sostanzialiste" della norma che
consentano la
possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la
disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con
essa conformi
solo al momento della presentazione dell'istanza per
l'accertamento di
conformità".
3.3. Va a questo punto rammentato come la giurisprudenza di
questa
Corte abbia, in passato, preso atto delle diverse posizioni
del giudice
amministrativo aderendo, in un primo tempo, a quella che
riconosceva
efficacia alla sanatoria giurisprudenziale, escludendone
comunque ogni effetto
estintivo dei reati urbanistici, e precisando che detto
titolo abilitativo sanante
avrebbe dovuto essere conforme alla disciplina urbanistica
vigente al
momento del rilascio, escludendo, peraltro, la possibilità
di procedere ad una
diversa qualificazione giuridica dell'intervento edilizio
per consentirne la
regolarizzazione, parcellizzando le opere (Sez. 3, n. 286 e
291, del
09/01/2004, non massimate sul punto).
In altre occasioni, confermando che la sanatoria impropria
sarebbe
comunque improduttiva di effetti estintivi dei reati
urbanistici, si è presa in
considerazione la sua rilevanza con riferimento specifico
all'ordine di
demolizione, rilevando, previo richiamo ai principi generali
di buon andamento
e di economia dell'azione amministrativa invocato dalla
giurisprudenza
amministrativa favorevole, che l'eventuale suo rilascio
renderebbe
inapplicabile l'ordine di demolizione, osservando,
sostanzialmente, che
sarebbe insensato procedere alla demolizione di ciò che può
poi essere
legittimamente ricostruito (v. Sez. 3, n. 14329, 07.04.2008; Sez. 3, n.
40969, 11.11.2005; Sez. 3, n. 1492, 09.02.1998;
Sez. 3, n. 3082,
21.01.2008, non massimata; Sez. 3, n. 24451, 21.06.2007). Veniva
comunque dato atto anche dell'orientamento difforme del
giudice
amministrativo (Sez. 3, n. 21208, 28.05.2008, non massimata).
3.4. La più recente ed approfondita disamina della questione
concernente
l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale o
impropria da parte del
giudice amministrativo e l'autorevole richiamo a tale
giurisprudenza operata
dalla Corte Costituzionale
consentono di ritenere ormai
superate le
argomentazioni sviluppate nelle decisioni di questa Corte
appena ricordate, in
quanto fondate, prevalentemente, sul mero richiamo di un
orientamento, già minoritario, che può dirsi ormai
completamente abbandonato dagli stessi
giudici amministrativi che lo avevano in passato elaborato.
Le argomentazioni sviluppate a sostegno dell'attuale
indirizzo
interpretativo appaiono, ad avviso del Collegio, del tutto
condivisibili, poiché
tengono conto della formulazione letterale della norma e
della sua genesi, e
risultano pienamente conformi al richiamato principio di
legalità cui deve
necessariamente conformarsi l'azione amministrativa, perché,
come osservato
in dottrina, non può esservi rispetto del principio di buon
andamento della
pubblica amministrazione se non vi è, al tempo stesso,
rispetto del principio di
legalità.
La espressa previsione, nell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001,
del requisito
della doppia conformità delle opere da sanare, e la
deliberata scelta del
legislatore di non inserire nel Testo Unico dell'edilizia la
sanatoria
giurisprudenziale, nonostante le indicazioni in tal senso
ricevute dall'Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, rendono evidente la volontà
di limitare la
possibilità di sanatoria ai soli abusi formali.
Altrettanto significative appaiono, poi, le considerazioni
della più recente
giurisprudenza amministrativa riguardanti la negativa
incidenza sull'effetto
deterrente dell'ordine di demolizione -che il legislatore
ha evidentemente
perseguito- che sarebbe determinata dalla previsione di una
sanatoria
conseguente ad una conformità dell'opera sopravvenuta alla
sua realizzazione,
creando l'aspettativa di una futura possibile
regolarizzazione anche in
presenza di condizioni inizialmente ostative alla esecuzione
dell'intervento
edilizio.
Va pertanto ribadito il principio di diritto secondo il
quale
in tema di reati
urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad
estinguere il reato di cui
all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo
termini o condizioni,
deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e
può essere
conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni
espressamente indicate
dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia
conformità delle opere alla
disciplina urbanistica vigente sia al momento della
realizzazione del
manufatto, che al momento della presentazione della domanda
di sanatoria,
dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione
postuma di opere
originariamente abusive che, solo successivamente, in
applicazione della
cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria",
siano divenute
conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di
pianificazione urbanistica
(Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260973; in
senso analogo,
Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, Micolucci, Rv. 236912).
3.5. Tanto premesso, la sentenza impugnata ha correttamente
escluso
qualsivoglia rilievo al permesso in sanatoria rilasciato nel
2014, in quanto
privo del requisito della c.d. doppia conformità, atteso che
è condizionato
all'asservimento di un'area ulteriore, con conseguente
aumento della
volumetria, ed è subordinato a prescrizioni.
Al riguardo, va aggiunto che
l'ordine di demolizione del
manufatto
abusivo, impartito con la sentenza di condanna, non è caducato in modo
automatico dal rilascio del permesso di costruire in
sanatoria, dovendo il
giudice controllare la legittimità dell'atto concessorio
sotto il duplice profilo
della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione (e
quindi, nella
specie, della doppia conformità, non sussistente) e dei
requisiti di forma e
sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del
potere di rilascio
(ex
multis, Sez. 3, n. 40475 del 28/09/2010, Ventrici, Rv.
249306)
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26425 -
tratta da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questione che sarà trattata dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato all’udienza del 05.10.2016
Il prossimo 5 ottobre l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato tratterà la questione se una volta
costituita, ai sensi dell’art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(t.u. edilizia), una garanzia per il pagamento del
contributo per il rilascio del permesso di costruire, il
comune, avendo omesso di escutere la garanzia, possa, oltre
che chiedere il pagamento del dovuto al debitore principale,
infliggere comunque la sanzione pecuniaria (nella misura
massima) prevista dalla disciplina regionale e comunale per
i casi di mancato versamento del contributo.
La questione è stata rimessa dalla Sez. IV con l’ordinanza
22.06.2016 n. 2766 essendosi sul punto formati
tre diversi orientamenti.
Secondo il primo orientamento
giurisprudenziale,
minoritario, occorre fare applicazione dei principi
civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti quello
che impone al creditore in buona fede di collaborare con il
debitore ai fini del puntuale adempimento dell’obbligazione.
A supporto di tale tesi è il rilievo che l’ente locale, ove
il suo credito sia assistito da garanzia incondizionata, ha
uno specifico dovere, ai sensi degli artt. 1175, 1375 e
1227, comma 2, cod. civ., di richiedere quanto dovutogli al
garante, con la conseguenza che l’ente stesso –omettendo
tale ben esigibile adempimento- viola appunto l’obbligo per
il creditore di non aggravare inutilmente la posizione del
debitore.
Parallelamente, sul piano funzionale, si rileva che la
previsione legislativa delle sanzioni per il mancato
pagamento degli oneri concessori trova ragione nella
necessità per l'amministrazione di disporre tempestivamente
delle somme dovute dai privati onde poter procedere alla
realizzazione delle necessarie infrastrutture di
urbanizzazione: in tale contesto, un ente locale che sceglie
di non incamerare subito la fideiussione non persegue la
finalità di interesse pubblico per cui la sanzione è appunto
predisposta (assicurare la tempestiva disponibilità delle
somme per l’urbanizzazione), bensì altro scopo, ossia far
lievitare la somma dovuta dal privato anche a rischio di un
consistente differimento nell’incasso.
Il secondo orientamento
giurisprudenziale,
maggioritario, al quale l’ordinanza di rimessione aderisce,
inquadra la fattispecie in una prospettiva pubblicistica,
significativamente caratterizzata dalla presenza di
strumenti –le sanzioni e la riscossione coattiva– tipici di
un procedimento autoritativo e non paritetico.
In questa prospettiva la fideiussione –che il comune è
facoltizzato a richiedere in caso di rateizzazione del
versamento- non ha affatto la finalità di agevolare
l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì
costituisce una garanzia personale prestata unicamente
nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe
alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che
il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di
diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione
del soggetto tenuto al pagamento, né attenua le conseguenze
previste nel caso di un eventuale suo inadempimento,
conseguenze appunto riconducibili all’applicazione delle
sanzioni e alla riscossione coattiva dell’intera somma
dovuta.
Né sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227, comma 2,
cod. civ. -che riguarda l'esonero di responsabilità per i
danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l'ordinaria diligenza– in primo luogo perché
l'obbligazione relativa alle sanzioni pecuniarie ex art. 3,
l. 28.02.1985 n. 47 non ha, certo, natura risarcitoria
configurandosi come obbligazione legale, con finalità
chiaramente e univocamente "sanzionatorie".
In secondo luogo, l'onere di diligenza che l’art.
1227, comma 2, cod. civ. fa gravare sul creditore non si
estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio
credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono
da imputare esclusivamente alla condotta del debitore,
tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (v.
Corte cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione delle
sanzioni amministrative per ritardato pagamento).
Un terzo orientamento giurisprudenziale,
pur tenendo conto della cogenza della previsione legale
relativa all’applicazione delle sanzioni in caso di
ritardato pagamento, ritiene però illegittima l’applicazione
delle sanzioni in misura massima.
E’ stato infatti rilevato -valorizzando il principio di
leale collaborazione tra cittadino e comune, che ha valenza
pubblicistica e rientra nell'ambito dei principi di
imparzialità di cui all'art. 97 Cost.- che il ritardo con
cui l’ente locale procede alla richiesta di pagamento e
l'assenza di qualsivoglia tentativo di escussione della
fideiussione, comportano, all'evidenza, una violazione del
dovere di correttezza che dovrebbe improntare il
comportamento dell'Amministrazione comunale, in
considerazione del fatto che l'Amministrazione non è un
soggetto che agisce per massimizzare il suo profitto ma è un
soggetto che agisce per realizzare nel modo migliore
possibile un interesse pubblico che le è stato affidato
dalla legge e che consiste, appunto, nella celere
realizzazione delle opere di urbanizzazione (e, quindi,
nella pronta disponibilità delle somme ad esse relative).
Pertanto, secondo il richiamato indirizzo, il ritardo con
cui il comune agisce per riscuotere le somme a titolo di
oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del
tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il loro
carattere automatico, scaturente dal disposto di legge,
impedisce tuttavia l'applicazione delle sanzioni massime.
Ne consegue che l’ente locale –una volta decorsi 120 giorni
dallo scadere del termine originario di pagamento– deve
valersi della garanzia (per riscuotere quanto dovuto per
oneri) e contestualmente irrogare al debitore inadempiente
la sanzione minima normativamente prevista (commento tratto
da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
principio pacifico, in tema di rilascio di titoli ad
aedificandum, quello per cui il calcolo degli oneri
concessori (a cui le schede parametriche sono
strumentalmente indirizzate) rappresenta un compito
assegnato dalla legge all'Ente competente al rilascio del
titolo abilitativo, il quale non può assolutamente
riversarlo sul richiedente.
Del resto, è noto che l'unica conseguenza discendente dal
mancato pagamento degli oneri de quibus potrebbe essere
quella delle esazione coattiva della pretesa creditizia e
delle irrogazione delle sanzioni pecuniarie di cui all'art.
42 del D.P.R. 380/2001, e non certamente, in ogni caso, la
sospensione dell'efficacia del permesso di costruire.
---------------
L'apposizione di condizioni al rilascio del titolo edilizio
è ammissibile solo quando si vada ad incidere su aspetti
legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo, sia
dal punto di vista tecnico che strutturale e ciò trovi
fondamento in una norma di legge o di regolamento: e ciò in
quanto il rilascio del permesso di costruire concreta
un'attività amministrativa vincolata, come tale subordinata
al solo accertamento della corrispondenza delle opere e dei
relativi elaborati progettuali alle prescrizioni
urbanistiche di legge e di piano.
---------------
... per l'annullamento:
a) del provvedimento prot. n. 10222 del 18.02.2015,
notificato ai ricorrenti in data 19.02.2015, del Comune di
Vallo della Lucania — Settore Urbanistica ed Edilizia, nella
parte in cui condiziona l'efficacia del Permesso di
Costruire di cui alla pratica edilizia n. 101/1998 alla
"presentazione di scheda parametrica riportante i dati della
superficie utile ai fini della determinazione del costo di
costruzione, del volume vuoto per pieno ai fini della
determinazione degli oneri di urbanizzazione";
b) del provvedimento prot. n. 579 del 19.01.2015 della Città
di Edilizia, con il quale il Comune subordina il rilascio
della concessione edilizia pratica n. 101/98 al deposito
delle "schede parametriche, precisando che "decorso trenta
giorni dalla notifica della presente la pratica verrà
archiviata";
c) del provvedimento prot. n. 13870 del 18.11.2014,
notificato ai ricorrenti in data 01.12.2014, del Comune di
Vallo della Lucania —Settore 6 — Urbanistica ed Edilizia —
Servizio Edilizia, con il quale il Comune resistente, oltre
a sospendere l'istruttoria della pratica edilizia n. 101 del
1998, comunica che in caso di mancata acquisizione delle
schede parametriche "l'istruttoria della pratica rimarrà
sospesa e, con l'inutile decorso di 30 gg. dal ricevimento
della presente, le SS.LL. saranno considerate rinunciatarie
con conseguente archiviazione della pratica";
...
1.- Il ricorso, così come articolato, è fondato e merita di
essere accolto.
Costituisce, invero, principio pacifico, in tema di rilascio
di titoli ad aedificandum, quello per cui il calcolo degli
oneri concessori (a cui le schede parametriche sono
strumentalmente indirizzate) rappresenta un compito
assegnato dalla legge all'Ente competente al rilascio del
titolo abilitativo, il quale non può assolutamente
riversarlo sul richiedente (ex multis, cfr. TAR Campania-Napoli, sez. III, n. 941 del 2015).
Del resto, è noto che l'unica conseguenza discendente dal
mancato pagamento degli oneri de quibus potrebbe essere
quella delle esazione coattiva della pretesa creditizia e
delle irrogazione delle sanzioni pecuniarie di cui all'art.
42 del D.P.R. 380/2001, e non certamente, in ogni caso, la
sospensione dell'efficacia del permesso di costruire (cfr.,
ancora di ultimo, TAR Napoli, sez. VII, 16.07.2013 n.
3708).
Sotto distinto e concorrente profilo, l'apposizione di
condizioni al rilascio del titolo edilizio è ammissibile
solo quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell'intervento costruttivo, sia dal punto di
vista tecnico che strutturale e ciò trovi fondamento in una
norma di legge o di regolamento: e ciò in quanto il rilascio
del permesso di costruire concreta un'attività
amministrativa vincolata, come tale subordinata al solo
accertamento della corrispondenza delle opere e dei relativi
elaborati progettuali alle prescrizioni urbanistiche di
legge e di piano (v. da ultimo TAR Piemonte, Sez. I, 22.05.2013, n. 617).
2.- Non essendosi l’Amministrazione intimata attenuta al
riassunti principi, il ricorso deve essere accolto per
quanto di ragione, con conseguente annullamento in parte qua
del permesso di costruire per cui è causa, nella parte in
cui subordinava all’adempimento delle obbligazioni
contributive ed alla allegazione della relativa
documentazione a corredo l’efficacia del permesso di
costruire rilasciato.
Sussistono, avuto riguardo al particolare andamento della
fase procedimentale, giustificate ragioni per disporre, tra
le parti costituite, compensazione
(TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza
17.06.2016 n. 1503
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Seminterrato-autorimessa
in condominio: l'abitabilità salva la Dia.
I lavori in condominio sono salvi anche se il Comune ha
scoperto che il seminterrato utilizzato come autorimessa non
è compatibile con i titoli abilitativi a suo tempo
rilasciati per l'edificio. E ciò perché nel frattempo
l'amministrazione ha rilasciato vari certificati, in primis
quello di abitabilità, in cui mostra di essere a conoscenza
dell'esistenza dell'opera e finisce per assentirla, sia pure
in modo implicito: ingenera infatti un legittimo affidamento
da parte del condominio. Risultato? È annullato lo stop alla
Dia dell'ente di gestione, che punta a spostare la porta
d'accesso al garage condominiale.
È quanto emerge dalla
sentenza
04.04.2016 n. 4038, pubblicata dalla
Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Scarsa diligenza.
Sbaglia l'ente locale che prima sospende e
poi boccia le denuncia di inizio lavori, fra l'altro
intervenendo dopo che è scaduto il termine di legge di
trenta giorni. Il fatto che sia previsto un locale posto
sotto il livello della strada utilizzato come autorimessa
non emerge soltanto dal collaudo statico vistato dalla
prefettura: la destinazione a garage è rilevata tanto dal
certificato sanitario di abitabilità quanto da quello d'uso
d'immobile, rilasciati dallo stesso Comune e regolarmente
accatastati.
È escluso che le attestazioni dell'ente locale
accertino soltanto la sussistenza dei requisiti igienici
degli immobili: fanno invece fede anche sulla conformità
edilizia e urbanistica. Insomma, l'ufficio doveva essere più
accurato nell'esaminare la pratica. E non solo perché
l'attività dell'amministrazione deve essere ispirata da
criteri di diligenza: la trasformazione richiesta riguarda
infatti un parcheggio, che in base alla legge Tognoli
richiede soltanto la Dia.
Autotutela necessaria.
Molto sentita in giurisprudenza è la
necessità di tutelare le aspettative formatesi nel tempo
anche rispetto alle opere non conformi alla normativa.
Per il Comune la serra realizzata sul terrazzo è abusiva e
deve essere abbattuta. Ma resta dov'è, almeno per ora,
perché l'amministrazione ha emesso l'ordine di demolizione
senza prima rimuovere il titolo che si è formato nel
frattempo grazie alla segnalazione certificata d'inizio
attività.
È quanto emerge dalla sentenza 2557/2014, pubblicata dalla
seconda sezione del Tar Lombardia.
Accolto il ricorso del proprietario dell'immobile. Sbaglia
l'amministrazione che con i suoi atti difensivi cerca di
dimostrare che vi sarebbe contrasto fra le opere realizzate
e la Scia, oltre che irregolarità progettuali.
Nella specie l'atto di sospensione dei lavori e l'ordine di
abbattere la serra non indica in maniera chiara e puntuale
dove sta il contrasto fra opere effettivamente realizzate
dal ricorrente e opere assentite. Insomma: manca la prova
che il manufatto incriminato non sia conforme al titolo.
E dunque il Comune non può esercitare il potere
sanzionatorio, cioè adottare l'ordine di demolizione, a meno
che non provveda a «rimangiarsi» il titolo edilizio
esercitando i suoi poteri di autotutela
(articolo ItaliaOggi Sette del
05.09.2016).
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MASSIMA
2.2. Al riguardo, è opportuno ricordare che:
- come più volte affermato anche in giurisprudenza,
sussiste un nesso di dipendenza tra il rilascio dei
certificati di cui si discute e l’accertamento della
regolarità edilizia delle opere, nel senso che il rilascio
di tali certificati non può prescindere dalla conformità del
fabbricato “ai parametri normativi e regolamentari
urbanistici ed edilizi” ed, anzi, la presuppone, nel
pieno rispetto –del resto– del principio di ragionevolezza
dell’azione amministrativa (secondo cui non è, tra l’altro,
possibile “consentire che si determini una situazione che
poi dovrà per altri versi essere repressa, in aperto
contrasto con il principio di buona amministrazione”
– cfr. C.d.S., Sez. V, 12.07.2014, n. 3793; TAR Lazio, Roma,
Sez. II-bis, 02.09.2014, n. 9289);
- in particolare, è stato in più occasioni ribadito che
il rilascio del certificato di agibilità non è affatto
subordinato al mero accertamento dei soli requisiti
igienico-sanitari, bensì presuppone anche la conformità
urbanistica ed edilizia dell’opera
(C.d.S., Sez. V, 16.05.2013, n. 2665; TAR Sicilia, Palermo,
Sez. II, 24.05.2012, n. 1055).
2.3. Ciò detto, il Collegio ravvisa validi elementi per
convenire con il ricorrente circa l’impossibilità per il
Comune di Subiaco di pronunciarsi negativamente sulla DIA
astenendosi del tutto dal prendere in considerazione la
situazione complessiva del fabbricato, ovvero trascurando
completamente i certificati su richiamati e, precipuamente,
quanto in essi riportato in relazione all’esistenza del
locali ad uso “posti macchina”, tanto più ove si
consideri che si trattava di certificati rilasciati in esito
a specifici accertamenti eseguiti dalla stessa
Amministrazione.
Pur nella piena consapevolezza del carattere permanente che
connota gli abusi edilizi eventualmente commessi e, ancora,
nella piena consapevolezza che, secondo un noto orientamento
della giurisprudenza, l’abuso edilizio -proprio in ragione
di tale carattere– sarebbe sempre rilevabile e, dunque,
sanzionabile, oltre che del rilievo che ogni trasformazione
edilizia di un edificio preesistente non può prescindere
dalla regolarità di quest’ultimo (cfr., ex multis,
C.d.S., Sez. VI, n. 5972 del 2015; TAR Lazio, Sez. II-bis,
n. 10420 del 2015), il Collegio ritiene, infatti, che le
peculiarità del caso di cui si discute, poste adeguatamente
in evidenza dal ricorrente, avrebbero inequivocabilmente
richiesto una diversa e più accurata valutazione della
fattispecie, non solo
in osservanza degli ordinari criteri di diligenza che devono
presiedere, tra l’altro, l’attività amministrativa ma anche
per la salvaguardia degli stati di legittimo affidamento dei
privati ingenerati –più che dal lungo tempo trascorso
dall’epoca di realizzazione delle opere- dalla specifica
adozione da parte dell’Amministrazione di atti idonei a
dimostrare –oltre che la piena conoscenza dell’avvenuto
compimento delle stesse opere– una sorta di assentimento di
quest’ultime,
aggiungendo, ancora, che le considerazioni che precedono non
possono non assumere una più spessa rilevanza ove si tenga
conto che le opere di cui il Comune di Subiaco adduce la
realizzazione in assenza dei “necessari titoli
abilitativi” consistono essenzialmente in un “parcheggio”,
ossia in una trasformazione edilizia che, secondo le
prescrizioni di legge e, in particolare, l’art. 9 della
legge 24.03.1989, n. 122 (c.d. Legge Tognoli), possono
essere realizzate “anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”, previo
inoltro, tra l’altro, di una mera “denuncia
di inizio attività”. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il Comune rimborsa le spese legali al dipendente.
Solo in caso di assoluzione per mancanza di responsabilità
la spesa per la parcella dell’avvocato viene rimborsata
dall’ente locale.
Le spese legali sostenute dal dipendente
di un ente locale (ad esempio il Comune) per difendersi in
un procedimento penale devono essere rimborsate
dall’amministrazione se l’imputato risulta non essere
responsabile delle accuse.
È quanto chiarito dal Giudice di Pace di Taranto con la
sentenza 13.10.2015 n. 3183.
Il contratto collettivo nazionale della dirigenza stabilisce
che: “L’ente, anche a tutela dei propri diritti ed
interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di
responsabilità civile o penale nei confronti di un suo
dipendente per fatti o atti direttamente connessi
all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti
d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non
sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin
dall’apertura del procedimento facendo assistere il
dipendente da un legale di comune gradimento“.
Pertanto, il Comune o qualsiasi altro ente locale è tenuto a
rimborsare al proprio dipendente le spese sostenute per
pagare il proprio avvocato difensore solo se sussistono le
seguenti condizioni:
– la necessità di tutelare gli interessi e i diritti facenti
dell’ente pubblico;
– la stretta connessione tra il procedimento penale e
l’esercizio delle funzioni del dipendente pubblico;
– l’assenza di conflitto di interessi tra gli atti compiuti
dal dipendente sottoposto a procedimento penale e l’ente di
appartenenza;
– l’assoluzione dell’imputato con formula piena (non quindi,
ad esempio, per prescrizione). In pratica il giudice penale
deve accertare che il dipendente pubblico non deve aver
avuto alcun dolo o colga grave nel fatto che ha dato origine
al procedimento penale.
Già il Consiglio di Stato, in passato, ha precisato che "la
possibilità di rimborsare le spese legali al dipendente di
un ente pubblico coinvolto in un procedimento penale si
limita ai soli casi in cui sia incontestabilmente accertata
l’assenza di responsabilità penale dell’imputato;
presupposto di rimborsabilità delle spese legali sostenute
dall’amministratore è il positivo e definitivo accertamento
della mancanza di responsabilità, indipendentemente dalla
formula assolutoria utilizzata dal giudice penale (…)”
(link a www.laleggepertutti.it).
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MASSIMA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione, l’avv. D. conveniva in giudizio
innanzi al Giudice di Pace l’Arch. N.C. al fine di ottenere
da questi il pagamento del compenso professionale, nella
misura di euro 1.500,00, per l’attività svolta nel
procedimento penale n. 5030/08-3960/08 R.G.n.r. Procura
della Repubblica di Taranto, in cui l’Arch. N. assumeva la
veste di imputato.
Premetteva e sosteneva parte attrice:
– che l’Arch. C.N., nella sua qualità di dipendente del
Comune di P.. (responsabile dell’ufficio tecnico di tale
Comune), veniva indagato nei procedimenti penali n. 5030/08
– 3960/08 R.G. n.r. Procura della Repubblica di Taranto,
unitamente ad altro dipendente per i reati di cui agli artt.
110 c.p.- 54 e 1161 Cod. Nav. “per avere nella qualità di R.U.P. Responsabile Unico del Procedimento dato corso a
pubblici lavori di edificazione di una pista ciclabile con
occupazione di spazi del demanio marittimo senza avere
richiesto, così come previsto nella conferenza di servizi in
data 19.09.2007, alcuna autorizzazione. Accertato in “Torre
0110” - Torricella il 18.04.2008”; nonché dei reati di cui agli
artt. 110 c.p. e 1161 Cod. Nav. “per avere, in unione e
concorso tra loro il N., quale responsabile del procedimento
e il D. quale Direttore dei Lavori, avviato i lavori per la
realizzazione di una pista ciclabile, sulla Strada
Provinciale n. 122 “Litoranea Salentina” in località “Torre
Ovo” rientranti nel progetto area pubblica P.L.S. n. 12
entro i trenta metri dal confine demaniale marittimo (fl.
Mappa 23 p.lla 1370) in assenza della Autorità Marittima.
Acc. in Torricella – località Torre Ovo l’08.05.2008″;
- che per tali procedimenti penali sin dalla fase delle
indagini preliminari veniva nominato difensore di fiducia
I’Avv. D.D. del foro di Trani, il quale assunta la
difesa dell’Arch. C.N. si prodigava in un accurato e
approfondito esame e studio della questione sostenendo
all’uopo molteplici sessioni con il cliente e con il P.M.:
– che tale approfondito studio della questione giuridica,
particolarmente complessa attesa la peculiarità dei reati
contestati e l’iter amministrativo che aveva portato
all’autorizzazione dell’opera pubblica in questione,
continuava in occasione dell’emissione dell’avviso di
conclusione delle indagini preliminari, della
predisposizione dell’istanza di oblazione e nell’esame del
decreto di citazione a giudizio;
– che in data 23.02.201L, stante il totale disinteresse del
convenuto nonostante i numerosi solleciti telefonici posti
in essere dall’Avv. D. e dai suoi collaboratori di studio e
nell’impossibilità di stabilire adeguatamente la linea
difensiva da adottare nel corso del processo suddetto, la
cui prima udienza era fissata in data 07.03.2011,l’odierno
attore provvedeva ad inviare, anticipandola via fax,
rinuncia al mandato difensivo allegando relativa parcella
inerente l’attività difensiva già espletata;
– che la predetta comunicazione non sortiva gli effetti
auspicati difatti, il credito avanzato dall’Avv. D. risulta
ancora insoddisfatto;
– che in data 16.05.2011, il processo penale in questione,
celebrato dinanzi al Giudice Monocratico presso il Tribunale
di Taranto, Dott.ssa V.L., terminava con
l’assoluzione dell’imputato dai reati ascrittigli “perché il
fatto non costituisce reato“;
– che a seguito di tanto con comunicazione del 14.06.201l, il
convenuto inviava la richiesta di rimborso delle spese
legali indirizzata al Comune di P.. - sett. Urbanistica-edilizia-LL.PP. - Demanio
Marittimo-Patrimonio -Ecologia Ambiente, con la quale
richiedeva all’amministrazione di appartenenza il rimborso
delle spese legali relative all’attività difensivaespletata
dall’Avv. D;
- che ciò nonostante ad oggi tale credito non è mai stato
onorato dall’odierno convenuto. risultando la richiesta di
pagamento inoltrata dall’Avv. D. per l’attività difensiva
espletata ancora inevasa;
- che ai sensi dell’art. 1176 del cod. civile “Nell’adempiere
l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon
padre di famiglia”;
- che la buona fede e diligenza richiesta dalla norma e stata
completamente disattesa dal convenuto, dal momento che
quest’ultimo rendendosi inadempiente dell’obbligazione
assunta non ha mai versato il corrispettivo dovuto per
l’attività professionale diligentemente prestata dall’Avv.
D. in esecuzione del mandato dallo stesso conferito;
– che l’art. 1453 cod. civ. espressamente prevede ”Nei
contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei due
contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a
sua volta chiedere I’adempimento o la risoluzione del
contratto, salvo in ogni caso il risarcimento del danno”;
- che ai sensi dell’art. l2l8 del cod. civile ”esattamente
la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se
non prova che l’inadempimento e il ritardo è stato
determinato da impossibilità della prestazione derivante a
causa a lui non imputabile”;
- che a causa dell’inerzia tenuta dal convenuto si è resa
necessaria la presente controversia.
Tanto premesso e considerato l’Avv. D.D., così come
sopra meglio rappresentato e difeso, concludeva con la
richiesta di cui in epigrafe.
Si costituiva in giudizio il convenuto citato Arch. C.N.,
il quale impugnava e contestava tutto quanto ex adverso
dedotto, richiesto e concluso e rilevava quanto segue:
1) Egli era stato dipendente del Comune di P.., responsabile
dell’Ufficio Tecnico.
2) In tale qualità, veniva indagato nei procedimenti penali
n. 5030/08, 3960/08 R.G.N.R. Procura della Repubblica di
Taranto per i reati di cui agli artt. 110 c.p., 54 e 1161
cod. nav. “per avere nella qualità di R.U.P. Responsabile
Unico del Procedimento dato corso a pubblici lavori di
edificazione di una pista ciclabile con occupazione di spazi
del demanio marittimo senza aver richiesto, così come
previsto nella conferenza di servizi in data 19.09.07 alcuna
autorizzazione".
Accertato in Torre Ovo Torricella il
18.04.2008 nonché dei reati di cui agli artt. 110 c.p. 1161
cod. nav. “per avere in unione e concorso tra loro il N.,
quale responsabile del procedimento e il D. quale Direttore
dei Lavori, avviato i lavori per la realizzazione di una
pista ciclabile, sulla Strada Provinciale n. 122 “ Litoranea Salentina” in località “Torre Ovo” rientranti nel
progetto area pubblica P.I.S. n. 12 entro i trenta metri dal
confine demaniale marittimo in assenza della Autorità
Marittima Torre Ovo 08.05.2008”.
3) Con sentenza n. 1065/2011, l’Arch. N. veniva assolto
“perché il fatto non costituisce reato”.
4) La richiesta avanzata dall’odierno attore nell’atto
introduttivo del presente giudizio appare sfornita di
qualsivoglia supporto giustificativo, e si basa
esclusivamente su una semplice nota spese redatta dal
professionista, priva di certificazione di congruità
rilasciata dal Consiglio dell’Ordine Forense o da sentenza.
5) Ad ogni buon conto, poiché l’arch. N., all’epoca dei
fatti, era dipendente del comune di P.., si rende necessario
chiamare in causa il predetto Ente, ai sensi dell’art. 269,
2° comma, c.p.c..
6) All’uopo chiedeva lo spostamento della data della prima
udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo, nel
rispetto dei termini di cui all’art. 318, 2° comma, c.p.c. a
cura del comparente.
Autorizzata la chiamata in causa del Comune di P.., lo
stesso ritualmente chiamato in causa, rimaneva contumace.
Istruita la causa con documentazione depositata dalle parti,
fallito ogni tentativo di componimento bonario, all’udienza
del 09.10.2015 la causa era riservata per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La presente sentenza viene redatta con l’esposizione dello
svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa e
delle ragioni giuridiche della decisione, anche con
riferimento a precedenti conformi, cosi come previsto dagli
art. 132 nr 4 e 118 disp. att. c.p.c. nel testo introdotto
rispettivamente dagli art. 45 e 52 della legge nr. 69 del
18.06.2009, trattandosi di disposizioni applicabili anche ai
procedimenti pendenti in primo grado alla data di entrata in
vigore della legge (ossia 04.07.2009),ai sensi dell’art. 58,
2° comma, della legge citata.
In via preliminare, si osserva che la nuova formulazione
dell’art. 115 c.p.c, intervenuta a partire dal 04.07.2009
consente di ritenere per ammesse le deduzioni delle parti,
qualora le stesse non siano specificatamente contrastate.
Detto principio di non contestazione è stato recentemente
rivisitato dalla Corte di Cassazione che nel confermare il
dovere a carico del giudice di porre a fondamento della
decisione anche i fatti non specificatamente contestati
dalle parti costituite, subordina tale operatività alla
precisa e dettagliata allegazione dei fatti ad opera della
parte che invoca la non contestazione (Cassazione civile ,
sez. III, sentenza 24.03.2015 n. 5482).
Ancora in via preliminare, si ritiene di riportare di
seguito alcune considerazioni ritenute condivisibili
riportate negli scritti delle parti ed adeguate secondo il
convincimento di questo GDP. E ciò conformemente al
principio recente della Corte di Cassazione a Sezioni Unite
che ha stabilito: “Non è nulla la sentenza motivata
richiamando integralmente atti di parte, depositati nel
processo" (Cassaz. SS. UU. 16.01.2015 n. 642).
Nel caso di specie, superato qualsiasi dubbio
sull’espletamento della limitata attività difensiva da parte
dell’Avv. Di Te. a favore dell’Arch. C.N., in qualità
all’epoca di dirigente del Comune di P., occorre ora
verificare i presupposti del riconoscimento dell’assunzione
del costo della difesa penale da parte dello stesso Comune e
ciò si può fare in riferimento all’esito finale del
procedimento proseguito con l’attività difensiva di altro
avvocato, estraneo al presente giudizio.
Anzitutto si richiama brevemente la fonte del rimborso da
parte degli enti locali delle spese legali sostenute da
propri dipendenti per procedimenti penali promossi nei loro
confronti, che attualmente è regolata dall’art. 28 del
C.C.N.L. per il personale del comparto delle Regioni e delle
Autonomie locali del 14.09.2000, disciplina applicabile anche
al personale di qualifica dirigenziale degli enti locali
(all’epoca rivestita l’Ing. Ce., presso l’UTC), in
virtù dell’articolo 12 del C.C.N.L. della dirigenza per il
biennio 2000–2001.
Orbene, l’art. 28 del CCNL del 14.09.2000, dispone
che: “L’ente, anche a tutela dei propri diritti ed
interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di
responsabilità civile o penale nei confronti di un suo
dipendente per fatti o atti direttamente connessi
all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti
d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non
sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin
dall’apertura del procedimento facendo assistere il
dipendente da un legale di comune gradimento“.
Di conseguenza,
l’assunzione a carico dell’ente locale
dell’onere relativo all’assistenza legale al dipendente
consegue solo al verificarsi di una serie di presupposti
(oltretutto richiamati all’interno della comparsa di
costituzione e risposta in favore dell’Arch. N.).
Tali presupposti consistono nei seguenti requisiti:
1) l’esistenza di esigenze di tutela di interessi e diritti
facenti capo all’ente pubblico;
2) la stretta inerenza del procedimento penale a fatti
verificatisi nell’esercizio ed a causa della funzione
esercitata o dell’ufficio rivestito dal
dipendente/funzionario pubblico;
3) l’assenza di conflitto di interessi tra gli atti compiuti
dal soggetto sottoposto a procedimento penale, conclusosi
con il proscioglimento, e l’ente di appartenenza;
4) la conclusione del procedimento con una sentenza
definitiva di assoluzione con formula piena o cd.
liberatoria, con cui sia stabilita l’insussistenza
dell’elemento psicologico del dolo e della colpa grave e da
cui emerga l’assenza di pregiudizio per gli interessi
dell’Amministrazione.
La formula assolutoria “perché il fatto non costituisce
reato” deve essere considerata sufficiente, atteso che è
stata dimostrata l’estraneità dell’Arch. N. da qualsiasi
responsabilità penale.
Il Giudice penale ha assolto l’Arch. N., assistito da altro
difensore di fiducia, avv. R., “perché il fatto non
costituisce reato”, escludendo implicitamente lo stesso da
qualsiasi responsabilità erariale.
Nella Relazione illustrativa del Decreto Ministero della
Giustizia, 20.07.2012, n. 140, con riferimento alle
tariffe penali è riportato che “Per l’attività giudiziale
penale è stato seguito il medesimo metodo (del giudizio
civile)".
L’attività in parola è consistita nella redazione di
un’istanza di ammissione all’oblazione, ex art. 162-bis Cod. Pen, rigettata dal GIP in data 24.09.2008, per cui si
ritiene che possono essere riconosciuti per l’attività
svolta la somma complessiva di € 500,00 oltre CAP.
Si osserva come la sentenza di assoluzione in favore di N.
abbia da un lato affermato l’insussistenza dell’elemento
psicologico del dolo e della colpa grave, dall’altro abbia
fatto emergere l’assenza di qualsivoglia pregiudizio per gli
interessi dell’amministrazione.
A tal proposito il Consiglio di Stato, sez. V n. 2242 del 14.04.2000 ha ritenuto ragionevole circoscrivere “l’eccezionale possibilità di rimborso delle spese ai soli
casi in cui sia incontestabilmente accertata l’assenza di
responsabilità penale degli imputati; presupposto di
rimborsabilità delle spese legali sostenute
dall’amministratore è il positivo e definitivo accertamento
della mancanza di responsabilità, indipendentemente dalla
formula assolutoria utilizzata dal giudice
penale…..Pertanto, per la rimborsabilità delle spese legali,
occorre una espressa valutazione positiva del comportamento,
tale da ritenere il persistere del rapporto organico”.
Ritenendo assorbiti gli altri motivi dedotti dalle parti, si
ritiene di accogliere per quanto di ragione la domanda di
parte attrice con la condanna del Comune di P.., salvo
rivalsa da parte di quest’ultimo a carico di chi di dovere.
Relativamente alle spese di giudizio, non é superfluo
rammentare che l’istituzione del Giudice di Pace ha come
compito principale quello di dirimere bonariamente le
controversie tra le parti, proprio per evitare ulteriori
fasi del giudizio che inflazionano gli Organi superiori
della Giustizia (Tribunale, Cassazione, ecc.), né il GDP è
tenuto a rispondere in ogni punto alle deduzioni avanzate
dalle parti, specialmente se del tutto ovviamente infondate
ed inconferenti.
Pertanto, le spese di giudizio seguono la soccombenza e
vengono determinate, come in dispositivo, atteso che parte
attrice poteva anche costituirsi in proprio.
PER QUESTI MOTIVI
Il Giudice DI PACE dott. Ma.Gi., definitivamente
pronunciandosi sulla domanda proposta dall’Avv. Do. Di Te. con atto di citazione notificato contro l’ Arch. N.C. ed il Comune di P.., ogni altra istanza e deduzione,
eccezione respinta, o ritenuta assorbita, così
PROVVEDE
1) Accerta e dichiara che il Comune di P.. è tenuto a
manlevare e tenere indenne il convenuto N. dalla pretesa
della parte attrice;
2) Accerta e dichiara che il Comune di P.. è di conseguenza
debitore nei confronti dell’avv. D. della somma di euro
500,00 per tutte le causali innanzi dette;
3) per l’effetto condanna il convenuto Comune di P.. in
p.l.r.p.t. al pagamento della detta somma in favore di parte
attrice oltre interessi ed accessori di legge a partire
dalla data della sentenza;
4) Condanna il Comune diP.. in p.l.r.p.t. al pagamento delle
spese del presente giudizio in favore dei procuratori Avv.
Michele C. e dell’Avv. Claudio, dichiaratisi antistatari e
che si liquidano a ciascuno degli stessi in complessivi ed
onnicomprensivi € 330,00 ( ivi comprese le spese) per
competenze legali, in considerazione della non difficile
attività processuale espletata, compensando il resto.
Così deciso a Taranto il 12.10.2015 |
AGGIORNAMENTO AL 07.09.2016 |
ã |
AAA: cercasi Giudice Amministrativo di buona
volontà:
così, non è più possibile andare avanti, nel disbrigo
degli affari correnti, da parte del Tecnico
Comunale cui è stata affidata (d'imperio) la
missione di "tuttologo" ... un giorno sul fico, un
giorno sul pero!! |
Sono parecchi anni che in materia paesaggistica (D.Lgs.
n. 42/2004) e, segnatamente, sull'interpretazione
della portata applicativa sia dell'art. 146 che
dell'art. 167 questo o quell'altro TAR, piuttosto
che il CdS, interviene con pronunciamenti
dissonanti, mettendo letteralmente in crisi il
Tecnico Comunale, abbandonato a sé stesso anche dalle
varie spending review degli ultimi tempi, il
quale non sa
più che pesci pigliare.
Veniamo al sodo della questione:
possibile che non ci
sia un giudice (Collegio giudicante) che abbia la sensibilità
(voglia!) di rimettere questioni alquanto delicate al
giudizio dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato sicché, una volta per tutte, si possano avere
certezze sul corretto modus procedendi??
Alcuni esempi di interpretazione controversa:
1) sul termine di 45 gg., ex art. 146, e di 90 gg.,
ex art. 167, a disposizione della Soprintendenza per
esprimere il proprio parere:
se non viene
rispettato cosa succede?? in che termini è
obbligatorio e vincolante tale parere??
2) sulle fattispecie abusive passibili di
compatibilità paesaggistica ex art. 167, comma 4:
la
circolare MIBAC n. 33 del 26.06.2009 e la
risposta (nota
13.09.2010 n. 16721 di prot.) del Ministero per
i Beni e le attività culturali (MIBAC), al
quesito 14.12.2009 n. 421 di prot. posto tramite
ANCI nazionale, bisogna tenerne conto in fase
istruttoria dell'UTC o no??
Intanto,
leggete le novità riportate a seguire ...
07.09.2016 - LA SEGRETERIA PTPL |
|
Sul carattere non
(più) vincolante del “parere tardivo” reso
dalla Soprintendenza.
Ben può il suddetto parere essere emesso
tardivamente, anche in considerazione della
rilevanza dei valori alla cui tutela la
Soprintendenza è preposta.
L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è
quello della prescindibilità dello stesso parere,
con la conseguenza che la decisione viene rimessa
alla esclusiva responsabilità dell’Ente
territoriale. |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
carattere non (più) vincolante del “parere tardivo”
reso dalla Soprintendenza.
Sul carattere non (più)
vincolante del “parere tardivo” reso dalla Soprintendenza, con l’effetto che il Comune non può negare
l’autorizzazione paesaggistica limitandosi a una “pedissequa
presa d’atto del parere ministeriale” priva di una sua
propria motivazione, autonoma e indispensabile, il Collegio,
diversamente da quanto affermato in sentenza circa la “piena
permanenza”, in capo alla Soprintendenza, del potere di
esprimere un parere tardivo di carattere comunque vincolante, non ha che da fare richiamo, tra gli altri
condivisibili precedenti della Sezione, alla recentissima
decisione, sempre di questa Sezione, n. 3179 del 2016, con
la quale è stato ribadito in
particolare che “l’evoluzione normativa, la quale ha
trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di
cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del
termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo
potere può e deve essere adottato”, osservando che
“nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello
pregresso basato su una relazione di controllo e quello
attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del
vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato
punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di
assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo
costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il
riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di
annullamento e in seguito quello di rendere un parere
conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di
rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la
certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo
che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta
la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo
stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto,
ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il
parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo
dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di
valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro,
che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout
court l’espressione, affermando che “un siffatto parere
possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato”.
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra
l’altro, le seguenti considerazioni. “Depone in tal senso il
primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146
secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo
periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso
il prescritto parere, l’amministrazione competente può
indire una conferenza di servizi, alla quale il
Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a
seguito del decorso del più volte richiamato termine per
l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da
parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in
assoluto privato della possibilità di rendere un parere;
tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio
valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i
richiamati principi, relativi alla possibilità per
l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il
termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo
carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per
l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di
operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche
per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso
in materia di accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica. Invero, anche in tale fattispecie (art. 167
del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di
cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio
dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione
procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da
rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle
considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere
condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale
ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di
celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la
perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici
interessi da parte degli enti o organi specifici è
costituito, quindi, dalla permanenza del potere del
Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il
termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di
tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il
termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs.
n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale
amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non
poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il
parere negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo
era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla
legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato
difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale
il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di
accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime
semplicemente la doverosità del diniego a seguito del
carattere vincolante del parere e non anche una autonoma
valutazione dello stesso anche in termini di condivisione…".
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA
- SEZ. STACCATA DI BRESCIA - SEZ. I,
10.11.2015 n. 1470, resa tra le parti,
con la quale è stato respinto il ricorso proposto da
Co.Im. s.r.l. avverso
- a) il parere negativo di compatibilita'
paesaggistica per progetto edificatorio reso dalla
Soprintendenza in data 20.06.2014 e
- b) i provvedimenti del Comune in data 08.07.2014 e
07.11.2014, concernenti diniego di autorizzazione
paesaggistica;
...
2. Ciò posto è fondato e va accolto il motivo di appello
basato sull’asserzione per la quale deve considerarsi
illegittimo il diniego di rilascio di un'autorizzazione
paesaggistica, con il quale l'Amministrazione comunale si
uniformi in modo pedissequo al parere negativo dato dalla
Soprintendenza oltre il termine di 45 giorni previsto
dall'art. 146, comma 8, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42,
nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall'art.
25, comma 3, d. l. 12.09.2014 n. 133 (conv. dalla l.
11.11.2014 n. 164), siccome erroneamente ritenuto
vincolante, posto che, qualora sia trascorso inutilmente il
termine sopra indicato l'organo statale non è privato del
potere di esprimere comunque un parere, ma il parere in tal
modo dato perde il proprio carattere di vincolatività sicché
lo stesso deve essere autonomamente e motivatamente valutato
dall'amministrazione procedente in relazione a tutte le
circostanze rilevanti del caso concreto.
3. Preliminarmente, in relazione all’accoglimento del primo
motivo di appello e, per l’effetto e in riforma della
sentenza impugnata, ai fini dell’accoglimento del ricorso di
primo grado con conseguente caducazione (esclusivamente)
degli atti comunali in epigrafe, concernenti diniego di
autorizzazione paesaggistica, non appare ostativa
l’eccezione di inammissibilità del ricorso al Tar sollevata
dall’Amministrazione statale con la memoria difensiva del 14.07.2016, e ciò sia perché la sentenza impugnata ha
respinto espressamente le eccezioni d’inammissibilità mosse
in primo grado dal Mibact sicché, ove l’appellata avesse
voluto contestare le statuizioni preliminari suindicate,
avrebbe dovuto proporre ricorso in via incidentale, il che
non è stato fatto; e sia perché, in ogni caso, i profili di
inammissibilità dedotti dal Ministero nella recente memoria
si riferiscono ad aspetti diversi ed estranei rispetto al
motivo d’appello concernente “motivazione insufficiente” e
“violazione dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004”,
basato, come detto, “sul superamento del termine dei 45
giorni” da parte della Soprintendenza.
4. Nel merito, sul carattere non (più) vincolante del
“parere tardivo” reso dalla Soprintendenza –e che, nella
fattispecie, il parere sia tardivo non è circostanza
contestata-, con l’effetto che il Comune non può negare
l’autorizzazione paesaggistica limitandosi a una “pedissequa
presa d’atto del parere ministeriale” priva di una sua
propria motivazione, autonoma e indispensabile, il Collegio,
diversamente da quanto affermato in sentenza circa la “piena
permanenza”, in capo alla Soprintendenza, del potere di
esprimere un parere tardivo di carattere comunque vincolante
(cfr. la seconda opzione interpretativa enunciata in
sentenza), non ha che da fare richiamo, tra gli altri,
condivisibili precedenti della Sezione (v. sentenze Cons.
Stato, sez. VI, nn. 4927 e 2136 del 2015), alla recentissima
decisione, sempre di questa Sezione, n. 3179 del 2016, con
la quale, in relazione a una controversia analoga, sotto
svariati profili, a quella odierna, è stato ribadito in
particolare che “l’evoluzione normativa, la quale ha
trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di
cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del
termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo
potere può e deve essere adottato”, osservando che
“nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello
pregresso basato su una relazione di controllo e quello
attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del
vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato
punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di
assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo
costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il
riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di
annullamento e in seguito quello di rendere un parere
conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di
rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la
certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo
che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta
la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo
stesso tempo certo e non superabile”.
Si è, pertanto,
ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il
parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo
dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di
valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro,
che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout
court l’espressione, affermando che “un siffatto parere
possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra
l’altro, le seguenti considerazioni. “Depone in tal senso il
primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146
secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo
periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso
il prescritto parere, l’amministrazione competente può
indire una conferenza di servizi, alla quale il
Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a
seguito del decorso del più volte richiamato termine per
l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da
parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in
assoluto privato della possibilità di rendere un parere;
tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio
valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i
richiamati principi, relativi alla possibilità per
l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il
termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo
carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per
l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di
operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche
per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso
in materia di accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica. Invero, anche in tale fattispecie (art. 167
del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di
cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio
dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione
procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da
rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle
considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere
condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale
ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di
celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la
perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici
interessi da parte degli enti o organi specifici è
costituito, quindi, dalla permanenza del potere del
Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il
termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di
tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il
termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs.
n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale
amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non
poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il
parere negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo
era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla
legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato
difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale
il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di
accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime
semplicemente la doverosità del diniego a seguito del
carattere vincolante del parere e non anche una autonoma
valutazione dello stesso anche in termini di condivisione…"
(così, testualmente, Cons. Stato, VI, n. 3179 del 2016
cit.).
Ritornando alla controversia odierna, poiché il Comune, con
gli atti conclusivi dell’8 luglio e del 07.11.2014,
risulta essersi limitato a richiamare in modo “pedissequo”
il parere negativo –e tardivo- della Soprintendenza, senza
alcuna motivazione specifica e autonoma, il diniego finale,
alla luce dei precedenti giurisprudenziali rammentati sopra,
va per ciò solo annullato, non potendo il Comune ricusare la
chiesta autorizzazione paesaggistica mediante il mero
richiamo al parere negativo della Soprintendenza.
5. In relazione al secondo profilo del primo motivo di
appello va soggiunto che le considerazioni svolte sopra
accrescono il rilievo da riconoscere alla dedotta
contraddittorietà tra il diniego finale del Comune e il
precedente parere favorevole di compatibilità paesaggistica
dato dal Comune stesso il 01.04.2014, posto che la
soluzione favorevole alla società faceva seguito a
un’istruttoria approfondita, all’esito della quale organi
dell’Amministrazione comunale avevano espresso
considerazioni opposte a quelle ministeriali, sicché in modo
condivisibile si osserva con l’appello che il Comune avrebbe
quantomeno dovuto motivare in modo adeguato il proprio
mutamento di opinione.
6. Poiché l’appellante sembra avere graduato la domanda
giudiziale assegnando priorità all’esame, “in via
assorbente”, del primo motivo di appello (cfr. Cons. Stato,
Ad. Plen., n. 5 del 2015), il gravame va per ciò solo
accolto e, per l’effetto, assorbita ogni altra censura non
esplicitamente esaminata, in riforma della decisione
impugnata e in accoglimento del ricorso di primo grado, per
le ragioni ed entro i termini sopra specificati, va
annullato il provvedimento comunale di diniego di
autorizzazione paesaggistica, salvi gli atti ulteriori della P.A..
7. Pare il caso di aggiungere, tuttavia, in modo conforme a
quanto puntualizzato dall’appellante,
e in vista del riesercizio del potere amministrativo, che
devono considerarsi coperte dal giudicato le statuizioni
della sentenza, non impugnate dal Ministero, con le quali il
Tar, con riferimento al giudizio di (in)compatibilità
paesaggistica, ha considerato “alcune affermazioni contenute
nell’impugnato diniego … in effetti generiche e strumentali:
a) l’affermazione che il progetto “non risulta finalizzato
ad un miglioramento della qualità paesaggistica complessiva
dei luoghi”, appare del tutto inconferente, dal momento che
appare effettivamente molto difficile che un progetto di
edificazione possa avere la funzione di migliorare l’aspetto
paesaggistico dell’ambiente. Si tratta, semmai, di inserirvi
un’edificazione senza incidere sullo stesso in modo non
conforme alla legge;
b) secondo la Soprintendenza
l’edificazione delle ville “si configura come sostanziale
modifica dei caratteri strutturali del terreno agricolo”:
tale effetto appare, invero, ineliminabile rispetto a
qualsiasi intervento di edificazione in un’area
precedentemente agricola e poi trasformata in edificabile.
Anche il passaggio del ricorso in cui si sottolinea, con
riferimento al modus operandi della Soprintendenza che:
“Dopo aver bocciato il progetto sul piano e sul crinale,
viene bocciato quello sul “versante”. Dopo aver bocciato il
progetto in area erbosa, viene bocciato quello in area
alberata. Bocciato il progetto con gli interrati, viene
bocciato anche i progetto senza interrati.” (così il
ricorso, al primo capoverso di pag. 16) non può non attirare
l’attenzione di questo Tribunale.
Inoltre, è incontestabile
che nella parte iniziale e nella parte finale, il
provvedimento impugnato indulge in considerazioni generali
sulle caratteristiche dell’area che sarebbero pertinenti se
si stesse discutendo dell’edificabilità dell’area. Non a
caso, infatti, la Soprintendenza dedica l’intera pagina 1
del proprio provvedimento a richiami alla DGR 9/2727 del 22.12.2011, contenente indicazioni che dovrebbero essere
considerate e valutate, nonché rispettate, proprio in sede
di pianificazione e cioè sono destinate ad orientare le
scelte sull’utilizzazione del territorio compiute dal
pianificatore.
A parere del Collegio, infatti, il richiamo,
contenuto nel parere impugnato, alle regole che escludono
e/o limitano l’edificazione sui versanti e a quelle che
garantiscono il rispetto dei terrazzamenti (terrazze e
ciglioni) che caratterizzano il paesaggio agrario lombardo
collinare, integrano più un’inammissibile censura della
scelta urbanistica, che una critica alle soluzioni
progettuali sottoposte all’attenzione della Soprintendenza.
Nel caso di specie, invece, lo strumento urbanistico ha
operato una precisa scelta in ordine all’edificabilità
dell’area, che non può, come già più volte affermato dalla
giurisprudenza, essere vanificata dal rigetto di ogni
possibile soluzione costruttiva da parte dell’ente
competente ad esprimere l’obbligatorio parere di
compatibilità paesistica. Se il parere si limitasse a ciò,
dunque, risulterebbe superato il limite della potestà
attribuita all’autorità preposta a verificare il rispetto
dei vincoli di tutela del paesaggio (che deve tendere, data
l’edificabilità dell’area, all’individuazione della
soluzione progettuale di minor impatto con l’ambiente,
prendendo le mosse dal punto fisso che non può esistere
l’opzione zero, dal momento che l’edificazione modificherà
sempre il paesaggio, in specie in una zona particolarmente
delicata come quella in questione), così come sostenuto da
parte ricorrente…”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.08.2016 n. 3561 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
mero decorso dei termini stabiliti dall’art. 167, comma 5,
del D.Lgs. n. 42/2004 non ha l’effetto di consumare il
potere amministrativo delle Autorità competenti, dal momento
che la citata disposizione non fa discendere dall’inerzia la
formazione di un silenzio-assenso.
Tanto più considerando il fatto che l’istituto del
silenzio-assenso, per espressa previsione di legge (artt.
16, comma 3, 17, comma 2, e 20 della L. n. 241/1990), non
poteva trovare applicazione con riferimento ai procedimenti
che riguardano il patrimonio paesaggistico.
Come sostenuto da giurisprudenza ormai consolidata, è
necessario che il parere della Soprintendenza sia formulato
espressamente, atteso che l’apparente antinomìa che viene a
crearsi tra la previsione di cui all’art. 167, comma 5, del
D.Lgs. n. 42/2004 in tema di termini perentori per le
determinazioni sull’autorizzazione ambientale e quella
contenuta negli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, della L.
n. 241/1990 che esclude, in subiecta materia, la formazione
dell’assenso per effetto dell’inerzia dell’Amministrazione,
deve risolversi privilegiando l’operatività delle ultime
disposizioni, in quanto norme dotate di valenza speciale ed
esaustiva.
---------------
La più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
ha riconosciuto che, nel caso di superamento del termine di
quarantacinque giorni fissato dall’art. 146 del D.Lgs. n.
42/2004 per l’espressione del parere sulla compatibilità
paesaggistica da parte della Soprintendenza, non si
determina né la perdita del relativo potere, né alcuna
ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Ben può, pertanto, il suddetto parere essere emesso
tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei
valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta.
L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello
della prescindibilità dello stesso parere, con la
conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva
responsabilità dell’Ente territoriale.
Ed invero, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli
atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art.
146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce che
“l’amministrazione competente provvede comunque sulla
domanda di autorizzazione”.
L’Amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a
concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza
non si è espressa, poiché la perentorietà del termine
riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del
parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il
procedimento.
Il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la
propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum,
dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio
tempore concluso dall’Ente territoriale competente.
---------------
In materia di autorizzazioni paesaggistiche, la
Soprintendenza adotta il proprio parere sulla base di
valutazioni di natura tecnico-discrezionale volte ad
accertare la compatibilità dell’opera rispetto alle
caratteristiche paesaggistico-ambientali tipiche dei luoghi
sottoposti al vincolo.
In quanto tali, le suddette valutazioni possono essere
oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo
entro limiti ristretti, qualora siano effettivamente
ravvisabili profili di illogicità manifesta e travisamento
dei fatti –ossia sotto il profilo dell’eccesso di potere,
sub specie delle figure sintomatiche dell’arbitrarietà,
dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità e dell’errore
nella corretta percezione degli elementi che connotano la
fattispecie– che, tuttavia, nel caso di specie non si
ritengono sussistenti.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici,
dal canto suo, è tenuta, ai fini dell’espressione del
relativo parere, a prendere in considerazione tutti gli
elementi fattuali della vicenda dal punto di vista
paesaggistico, e, ove si esprima negativamente in relazione
alla sanatoria di un’opera vincolata, ad evidenziare le
ragioni che ostano al mantenimento di quanto realizzato
perché in grado di compromettere gli interessi che il
vincolo gravante sull’area considerate mira a tutelare,
esplicitando chiaramente il motivo per il quale le opere
oggetto della domanda di sanatoria sono incompatibili con il
suddetto vincolo.
---------------
Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce
della infondatezza delle censure dedotte.
Va, preliminarmente, rilevato che, a differenza di quanto
sostenuto dalla ricorrente, il mero decorso dei termini
stabiliti dall’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 non
ha l’effetto di consumare il potere amministrativo delle
Autorità competenti, dal momento che la citata disposizione
non fa discendere dall’inerzia la formazione di un
silenzio-assenso. Tanto più considerando il fatto che
l’istituto del silenzio-assenso, per espressa previsione di
legge (artt. 16, comma 3, 17, comma 2, e 20 della L. n.
241/1990), non poteva trovare applicazione con riferimento
ai procedimenti che riguardano il patrimonio paesaggistico.
Come sostenuto da giurisprudenza ormai consolidata, è
necessario che il parere della Soprintendenza sia formulato
espressamente, atteso che l’apparente antinomìa che viene a
crearsi tra la previsione di cui all’art. 167, comma 5, del
D.Lgs. n. 42/2004 in tema di termini perentori per le
determinazioni sull’autorizzazione ambientale e quella
contenuta negli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, della L.
n. 241/1990 che esclude, in subiecta materia, la
formazione dell’assenso per effetto dell’inerzia
dell’Amministrazione, deve risolversi privilegiando
l’operatività delle ultime disposizioni, in quanto norme
dotate di valenza speciale ed esaustiva.
Ciò posto, è necessario evidenziare che le censure dedotte
dalla ricorrente in relazione alla violazione dell’art. 167,
comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 per mancato rispetto del
termine ivi previsto ai fini dell’emissione del parere di
competenza della Soprintendenza, non appaiono pertinenti.
Ed invero, il suddetto parere è stato reso nell’ambito della
procedura di cui all’art. 146 dello stesso D.Lgs. n.
42/2004, innestata sulla pratica di sanatoria di cui alla L.
n. 724/1994. Erroneamente si è ritenuto applicabile l’art.
167 del D.Lgs. n. 42/2004 che, a ben vedere, opera solo con
riferimento alle tipologie di intervento previste dal comma
4 del medesimo articolo, tra le quali non rientrano gli
interventi di creazione di superfici utili o volumi e
aumento di quelli già legittimamente realizzati.
Ciò posto, pur volendo superare, per esigenze di giustizia
sostanziale, il dato letterale e ritenere la censura
relativa alla tardività del parere, mossa dalla ricorrente,
riferibile ai termini di cui all’art. 146 del D.Lgs. n.
42/2004, questa non potrebbe ritenersi fondata per le
ragioni che di seguito si espongono.
La più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
ha riconosciuto che, nel caso di superamento del termine di
quarantacinque giorni fissato dall’art. 146 del D.Lgs. n.
42/2004 per l’espressione del parere sulla compatibilità
paesaggistica da parte della Soprintendenza, non si
determina né la perdita del relativo potere, né alcuna
ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Ben può, pertanto, il suddetto parere essere emesso
tardivamente, anche in considerazione della rilevanza dei
valori alla cui tutela la Soprintendenza è preposta.
L’effetto che, in siffatta ipotesi, si produce è quello
della prescindibilità dello stesso parere, con la
conseguenza che la decisione viene rimessa alla esclusiva
responsabilità dell’Ente territoriale.
Ed invero, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli
atti e in mancanza di parere della Soprintendenza, l’art.
146, comma 9, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce che “l’amministrazione
competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”.
L’Amministrazione è, dunque, tenuta in ogni caso a
concludere in proprio il procedimento se la Soprintendenza
non si è espressa, poiché la perentorietà del termine
riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del
parere, bensì l’obbligo, appunto, di concludere il
procedimento.
Il parere pronunciato tardivamente, pur conservando la
propria legittimità, deve considerarsi inutiliter datum,
dunque, solo nel caso in cui il procedimento sia stato medio
tempore concluso dall’Ente territoriale competente.
Parimenti infondata è la censura relativa al difetto di
motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui
si esprime in senso sfavorevole alla sanatoria della
tettoia.
Sul punto, è necessario, in primo luogo, considerare che, in
materia di autorizzazioni paesaggistiche, la Soprintendenza
adotta il proprio parere sulla base di valutazioni di natura
tecnico-discrezionale volte ad accertare la compatibilità
dell’opera rispetto alle caratteristiche
paesaggistico-ambientali tipiche dei luoghi sottoposti al
vincolo. In quanto tali, le suddette valutazioni possono
essere oggetto di sindacato da parte del giudice
amministrativo entro limiti ristretti, qualora siano
effettivamente ravvisabili profili di illogicità manifesta e
travisamento dei fatti –ossia sotto il profilo dell’eccesso
di potere, sub specie delle figure sintomatiche
dell’arbitrarietà, dell’irragionevolezza, dell’irrazionalità
e dell’errore nella corretta percezione degli elementi che
connotano la fattispecie– che, tuttavia, nel caso di specie
non si ritengono sussistenti.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici,
dal canto suo, è tenuta, ai fini dell’espressione del
relativo parere, a prendere in considerazione tutti gli
elementi fattuali della vicenda dal punto di vista
paesaggistico, e, ove si esprima negativamente in relazione
alla sanatoria di un’opera vincolata, ad evidenziare le
ragioni che ostano al mantenimento di quanto realizzato
perché in grado di compromettere gli interessi che il
vincolo gravante sull’area considerate mira a tutelare,
esplicitando chiaramente il motivo per il quale le opere
oggetto della domanda di sanatoria sono incompatibili con il
suddetto vincolo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 09.08.2016 n. 1794 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non vincolante il parere fuori termine.
Consiglio di Stato. La Soprintendenza può autorizzare
interventi in aree vincolate pure dopo i 90 giorni.
Nell’ambito
dell’autorizzazione per interventi edilizi su immobili e
aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge, la
Soprintendenza può rilasciare il parere di compatibilità in
sanatoria anche dopo i 90 giorni stabiliti dal Codice dei
beni culturali (comma 5, articolo 167, Dlgs 42/2004). Però
in questo caso la Pa che deve dare il via libera non può più
essere obbligata a rispettarlo, ma solo a motivare
adeguatamente la decisione, sia se ne discosta sia se lo
condivide.
Con questa novità interpretativa, il Consiglio di
Stato -sentenza 18.07.2016 n. 3179,
VI Sez.- ha
bocciato il ricorso del ministero per i Beni e le attività
culturali (Mibac) per cui anche nelle procedure non
ordinarie il parere della Soprintendenza è sempre
vincolante, anche se emesso dopo il termine perentorio di
legge.
Ciò poiché lo stesso Consiglio di Stato in altri casi
(sentenze 4656 e 4914/2013) ha ritenuto che la perentorietà
non riguarda la sussistenza del potere dell'ente
ministeriale o la legittimità dell'atto, ma solo l'obbligo
di chiudere la procedura amministrativa (“sì” finale entro
180 giorni). In più, perché le stesse norme (comma 9,
articolo 146), in caso di inerzia dell'organo nazionale,
consentono all’ente locale di “richiamarlo” con una
conferenza di servizi.
In questo caso era contestata la tesi opposta con cui il Tar
aveva annullato lo stop di un Comune alla realizzazione di
ripari temporanei di un bar su suolo pubblico (ordini di
rimozione inclusi) poiché si richiamava semplicemente a un
parere negativo della Soprintendenza, non più obbligatorio e
vincolante poiché adottato dopo oltre cinque mesi, e senza
alcuna valutazione dell’ente anche conforme.
I giudici, in linea col primo grado, hanno ritenuto
applicabile anche per le pratiche di compatibilità ex-post
il più recente orientamento giurisprudenziale della stessa
Sezione valido per quelle ordinarie –da ultimo la sentenza
4927/2015- che ha chiarito come il legislatore, per
bilanciare la tutela del paesaggio e la certezza dei
rapporti giuridici, ha imposto che i poteri degli enti
interessati «debbano essere esercitati in tutta la loro
ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso
tempo certo e non superabile».
Trascorsi quindi i 90 giorni, anche nelle “sanatorie” il
parere della Soprintendenza è «privo dell’efficacia
attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza
obbligatoria e vincolante», anche se poi nulla vieta
l’organo statale a rilasciarlo comunque, ma in tal caso
l’atto va «autonomamente valutato» dalla pubblica
amministrazione procedente. Nell’attuale quadro di
«cogestione del vincolo», il Comune era dunque “libero”
dall’obbligo di bloccare l’intervento proposto, ma doveva
motivare la decisione in modo adeguato anche se condivideva
il no del Mibac.
Questo principio resta «il punto di mediazione fra le
esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate
con la perentorietà del termine, e di valutazione degli
specifici interessi da parte degli enti o organi specifici»,
in realtà nella tempistica per l’autorizzazione
paesaggistica –commi 8, 9, e 10, articolo 146– vi è «un
ordito normativo volto a configurare…una sorta di
atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità
per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione
del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria» (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Tutti
i termini del procedimento sono ordinatori, salvo
che la legge non preveda una espressa sanzione per
il loro superamento, sanzione non prevista nel caso
di specie.
Segnatamente, il fatto che il termine di cui
all’articolo 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 non sia
collegato ad alcuna decadenza trova conferma nel fatto che
la stessa disposizione prevede, in caso di parere negativo,
che la Soprintendenza sia tenuta a comunicare agli
interessati il preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Invero, si è affermato
che, in caso di mancato rispetto di cui agli artt. 146,
comma 5, e 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il potere
della Soprintendenza continua a sussistere, mantenendo la
sua natura vincolante, in quanto la perentorietà del termine
riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del
parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
---------------
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione
normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha
inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto
di esercizio del relativo potere può e deve essere
adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli
normativi (quello pregresso basato su una relazione di
controllo e quello attuale basato su un modello di
sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha
inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
-
(da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a
un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza
–parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in
massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti
giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere
esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine
certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non
superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto
dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito
della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi
privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo
di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi,
peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca
comunque tout court l’espressione, affermando che “un
siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato”.
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha
espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni:
“Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
Soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l’amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco
indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più
volte richiamato termine per l’espressione del parere
vincolante (rectius, conforme) da parte della
Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto
privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il
parere in tal modo espresso perderà il proprio valore
vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
---------------
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati
principi, relativi alla possibilità per
l’amministrazione statale di rendere il parere pur
dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita
del suo carattere di vincolatività, con conseguente
obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio
del titolo di operarne una autonoma e motivata
valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie
del parere soprintendentizio reso in materia di
accertamento postumo della compatibilità
paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del
d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di
cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio
dell’autorizzazione (postuma) da parte
dell’amministrazione procedente, previo parere
vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un
termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve,
pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice
di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto
di mediazione fra le esigenze di celerità
dell’azione amministrativa, tutelate con la
perentorietà del termine, e di valutazione degli
specifici interessi da parte degli enti o organi
specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del
potere del Soprintendente di fornire il proprio
apporto anche oltre il termine perentorio e dal
dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza
tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre
il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167
del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il
Tribunale amministrativo ha affermato che
“l’amministrazione non poteva denegare
l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere
negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere
tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia
attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza
obbligatoria e vincolante”.
---------------
...per la riforma della sentenza breve del TAR
PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZ. I -
18.09.2014 n. 2375, resa tra le parti,
concernente parere negativo di compatibilità
paesaggistica in sanatoria per la realizzazione di
opere edilizie.
...
Con unico ed articolato motivo di appello il Ministero
censura la sentenza del Tribunale Amministrativo nella parte
in cui ha ritenuto che il parere della Soprintendenza
sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, in quanto
tardivo, avesse perso la sua natura vincolante, con la
conseguenza che l’Amministrazione avrebbe dovuto rendere
motivazione in ordine alla eventuale condivisione del
medesimo.
Rileva in primo luogo che tutti i termini del procedimento
sono ordinatori, salvo che la legge non preveda una espressa
sanzione per il loro superamento, sanzione non prevista nel
caso di specie.
Evidenzia ancora che il fatto che il termine di cui
all’articolo 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 non sia
collegato ad alcuna decadenza trova conferma nel fatto che
la stessa disposizione prevede, in caso di parere negativo,
che la Soprintendenza sia tenuta a comunicare agli
interessati il preavviso di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Richiama in proposito le sentenze di questo Consiglio (sez.
VI, n. 4914/2013 e n. 4656/2013) nelle quali si è affermato
che, in caso di mancato rispetto di cui agli artt. 146,
comma 5, e 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il potere
della Soprintendenza continua a sussistere, mantenendo la
sua natura vincolante, in quanto la perentorietà del termine
riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del
parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
Il Ministero appellante deduce ancora, a sostegno della tesi
della persistente natura vincolante del parere, la
circostanza che il comma 9 dello stesso articolo 146,
prevede che, in caso di inerzia dell’organo statale,
l’amministrazione territoriale può procedere all’indizione
di una conferenza di servizi. Di conseguenza, anche
nell’ipotesi in cui il parere dovesse intervenire prima
della pronuncia del Comune, anche dopo la scadenza del
termine, esso continuerebbe a mantenere la sua natura
vincolante, non potendo il mancato rispetto di esso incidere
sui caratteri del provvedimento tardivamente adottato,
rendendoli diversi rispetto a quelli previsti dalla norma
attributiva del potere.
L’appello non è meritevole di favorevole considerazione alla
luce della più recente giurisprudenza della Sezione, che è
condivisa dal Collegio (cfr. Cons. Stato, VI, 15.03.2013, n.
1561; sez. VI, 28.10.2015, n. 4927).
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione
normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha
inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto
di esercizio del relativo potere può e deve essere
adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli
normativi (quello pregresso basato su una relazione di
controllo e quello attuale basato su un modello di
sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha
inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
-
(da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a
un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza
–parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in
massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti
giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere
esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine
certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non
superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto
dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito
della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi
privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo
di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi,
peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca
comunque tout court l’espressione, affermando che “un
siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha
espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni:
“Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
Soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l’amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”. Sussiste, quindi, un univoco
indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più
volte richiamato termine per l’espressione del parere
vincolante (rectius, conforme) da parte della
Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto
privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il
parere in tal modo espresso perderà il proprio valore
vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi,
relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di
rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge
ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con
conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al
rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata
valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del
parere soprintendentizio reso in materia di accertamento
postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n.
42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del
vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione
(postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo
parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un
termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve,
pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo
grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra
le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate
con la perentorietà del termine, e di valutazione degli
specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è
costituito, quindi, dalla permanenza del potere del
Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il
termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di
tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il
termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs.
n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale
amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non
poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il
parere negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo
era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla
legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato
difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale
il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di
accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime
semplicemente la doverosità del diniego a seguito del
carattere vincolante del parere e non anche una autonoma
valutazione dello stesso anche in termini di condivisione (l’atto di diniego n. 3/2014 del
04.04.2014 così recita:
“Ritenuto di non provvedere al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, atteso che il parere della
stessa Soprintendenza è vincolante per la definizione della
proposta in questione”).
In conclusione, pertanto, l’appello proposto dal Ministero
deve essere rigettato, con conseguente conferma della
sentenza appellata.
L’avvenuta reiezione dell’appello principale determina
l’assorbimento dell’esame dell’appello incidentale
presentato dalla società St., in quanto, per espressa e
palesata volontà di questa, il gravame viene condizionato
all’accoglimento di quello principale del Ministero.
Nell’atto di appello incidentale si legge, infatti, che
questo è “condizionato” ed è proposto “per la denegata
ipotesi in cui l’appello del MiBAC fosse ritenuto fondato”.
Ritiene, infine, la Sezione di precisare che alcuna valenza
assumono, ai fini della definizione del presente giudizio,
le circostanze rappresentate dall’amministrazione e relative
alla presentazione, da parte della società appellata, di un
nuovo progetto di sistemazione degli spazi esterni del
locale dalla stessa gestito, trattandosi di opere diverse
rispetto a quelle oggetto di causa e di differente e nuovo
procedimento amministrativo.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione
civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più
recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono
stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione
di tipo diverso.
La novità dell’orientamento giurisprudenziale assunto dalla
sezione sulla questione costituisce motivo per l’integrale
compensazione tra le parti costituite delle spese del grado
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.07.2016 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Consiglio di Stato esprime il parere sul
decreto in materia di interventi paesaggistici.
Il Consiglio di Stato, Sez. consultiva,
parere 01.09.2016 n. 1824, ha espresso avviso
favorevole, con alcune osservazioni e proposte di
correttivi, sullo schema di decreto proposto dal Ministero
per i beni culturali riguardante l’individuazione degli
interventi che sono esclusi dall’autorizzazione
paesaggistica o sono sottoposti a procedura autorizzatoria
semplificata (Schema di decreto del Presidente della
Repubblica recante “individuazione degli interventi
esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’art. 12
del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con
modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come
modificato dall’art. 25 del decreto-legge 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164”).
Il decreto si pone l’obiettivo di snellire il peso
burocratico sulle iniziative dei privati, cittadini e
imprese, e di restituire efficienza ed efficacia all’azione
amministrativa in un ambito, quale quello della tutela
paesaggistica, particolarmente delicato per la rilevanza
costituzionale degli interessi pubblici coinvolti.
Il Consiglio di Stato, tra le osservazioni formulate, ha
precisato che qualora occorrano sia un’autorizzazione
paesaggistica che un permesso di costruzione e c'è
disaccordo tra le amministrazioni rispettivamente
competenti, è convocata una conferenza di servizi; e che in
ogni caso è fatta salva, ove occorrente, la distinta
autorizzazione da rilasciare a tutela dei beni di interesse
storico, artistico o archeologico.
Infine il Consiglio di Stato ha osservato che anche per gli
interventi “liberalizzati”, le disposizioni del
decreto hanno immediata applicazione per le regioni a
statuto ordinario, laddove le regioni a statuto speciale e
le province autonome di Trento e Bolzano hanno l’obbligo di
darvi attuazione con proprie disposizioni, secondo i
principi statutari (tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al
riguardo, si legga anche: Intesa sullo schema di decreto
del Presidente della Repubblica recante regolamento,
proposto dal Ministro dei beni e delle attività culturali e
del turismo, relativo all’individuazione degli interventi
esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi
dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla
legge 11.11.2014, n. 164 (Conferenza Unificata,
repertorio atti n. 90/CU del 07/07/2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costruire in zona sismica obbligatorio ok della regione.
L'appaltatore che realizza in zona sismica un'opera pubblica
senza l'autorizzazione della regione rischia un'ammenda. Il
costruttore, infatti, è sempre tenuto al deposito del
progetto, indipendentemente dal fatto che sia l'ente stesso
il committente dell'opera.
A stabilirlo la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con
la
sentenza 26.08.2016 n. 35491,
con la quale gli appaltatori sono stati ritenuti
responsabili dei reati previsti agli art. 93, 94 e 95 del
dpr 380/2001 e condannati ad una ammenda di 1.000 euro
ciascuno.
Nel dettaglio i soggetti interessati sono stati ritenuti
responsabili di aver realizzato una struttura, su
indicazione del comune, in una zona ad alta sismicità, senza
preavviso al comune stesso e senza la preventiva
autorizzazione dell'Ufficio tecnico regionale.
In particolare omettendo il deposito dei progetti e
procedendo ugualmente alla realizzazione dell'opera. A nulla
è, quindi, valsa la motivazione dei ricorrenti in merito al
fatto che, in realtà, l'opera fosse di proprietà del comune
committente.
A tal proposito, infatti, la Cassazione ha precisato che «il
reato in oggetto può essere commesso da chiunque violi o
concorra a violare l'obbligo imposto del preavviso e del
deposito dei progetti e degli allegati tecnici e della
richiesta al competente ufficio regionale»
(articolo ItaliaOggi del 27.08.2016).
---------------
MASSIMA
1. Con sentenza in data 18.12.2014, il Tribunale di
Salerno ha condannato Ma.Fr.An., Le.Do. e Gi.Vi., alla pena
di € 1.000 di ammenda ciascuno in relazione ai reati di cui
agli artt. 93-94 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, previa
riqualificazione giuridica dell'originaria imputazione di
cui all'art. 328 cod. pen. contestata al Gi., concesse le
circostanze attenuanti generiche e aumentata la pena per la
continuazione.
I ricorrenti sono stati ritenuti responsabili di aver
realizzato una struttura di contenimento in gabbioni
metallici a sei file soprapposte, opere assentite con
delibera del Comune di Riciliano, comune classificato ad
alta sismicità, senza preavviso allo sportello unico del
Comune, omettendo il contestuale deposito dei progetti
presso quest'ultimo ufficio, ed eseguito le opere senza la
preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della Regione Campagna; Ma.Fr.An. quale titolare
della ditta Se.Co., esecutrice dei lavori appaltati dal
Comune suddetto, Le.Do. quale direttore dei lavori e
comunque progettista e rilevatore architettonico e Gi.Vi.
quale funzionario del Comune e responsabile del procedimento
relativo alle opere in oggetto.
...
4. Il ricorso di Ma.Fr.An. è infondato.
4.1. E' infondato il primo motivo di ricorso con cui si
deduce la violazione dell'art. 522, comma 2, cod. proc. pen.
La contestazione di aver dato corso ai lavori senza la
preventiva autorizzazione del competente ufficio tecnico
regionale, integrante la contravvenzione di cui all'art. 94
cit., è stata contestata nel corpo della contestazione come
è facilmente evincibile dalla lettura del capo a), essendo
solamente omessa l'indicazione dell'articolo di legge
violato, è stato garantito il diritto di difesa, sicché non
ricorre la violazione di cui all'art. 522, comma 2, cod.
proc. pen.
Non integra la nullità di cui all'art. 522 cod. proc. pen.
l'omessa indicazione della norma di legge violata, non
essendo necessaria la sua specifica indicazione in presenza
di una chiara e precisa enunciazione "in fatto" e
quando l'imputato abbia avuto piena cognizione degli
elementi dì fatto che la integrano (Sez. 6, n. 40283 del
28/09/2012, P.G. in proc. Diaji, Rv. 253776).
4.2. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso con
cui il ricorrente deduce la violazione della legge penale in
relazione agli artt. 5 cod. pen. e 93 e 94 d.P.R. 380 del
2001, sotto un duplice profilo: l'assenza in capo al
medesimo, legale rappresentante della ditta esecutrice di
un'opera pubblica conferita con appalto pubblico dal Comune
di Riciliano, degli obblighi previsti dalla normativa
antisismica sul rilievo che l'ente, che doveva ricevere la
comunicazione prevista dall'art. 93 cit. e a cui competeva
richiedere l'autorizzazione al competente ufficio regionale,
era il medesimo che aveva conferito l'appalto ed era dunque
il committente dell'opera, in secondo luogo difetterebbe
l'elemento soggettivo del reato ai sensi dell'art. 5 cod.
pen. avendo fatto affidamento sulla legge regionale che
prevede, nel caso di appalto pubblico, che gli obblighi
informativi spettino al titolare del potere di spesa e cioè
al Comune.
Con riferimento al primo profilo questa Corte ha
ripetutamente affermato che
il soggetto attivo del reato di cui all'art. 95 del d.P.R.
380/2001 è anche il titolare della ditta chiamata ad
eseguire opere edilizie in zone sismiche, in quanto
destinatario diretto del divieto di esecuzione dei lavori in
assenza dell'autorizzazione e senza preventiva
autorizzazione scritta del competente ufficio regionale
(Sez. 3, n. 6675 del 20/12/2011, Lo Presti, Rv. 252021; Sez.
F, n. 35298 del 24/07/2008, Sparviero, Rv. 240665; Sez, 3,
n. 35387 del 24/05/2007, Trozzo, Rv. 237537; Sez. 3, n. 887
del 10/12/1999, Scardellato Rv. 215602).
Dunque
la contravvenzione in oggetto può essere commessa da
chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto del
preavviso e del deposito dei progetti e degli allegati
tecnici e della richiesta al compente ufficio tecnico
regionale, sicché, pur non trattandosi di un reato proprio
del proprietario, la configurazione giuridica dello stesso
può esser inquadrata in quelli a soggettività ristretta,
giacché, oltre che da questi, può esser commesso dal
committente, dal titolare della concessione edilizia ed, in
genere, da chi ha la disponibilità dell'immobile o dell'area
su cui esso sorge, nonché da quei soggetti che esplicano
attività tecnica ed hanno iniziato la costruzione senza
accertarsi degli intervenuti adempimenti e, come tale, non è
esonerato automaticamente da responsabilità per la presenza
di un direttore dei lavori.
Tali principi devono essere ritenuti applicabili anche nel
caso in esame, posto che il ricorrente ha assunto la
qualifica di soggetto "esecutore delle opere",
affidate dall'ente pubblico con appalto pubblico
(contratto rep. n. 30/2010 del 28.09.2010).
La circostanza che egli fosse esecutore di un'opera
pubblica, conferita con contratto di appalto pubblico dal
Comune
di Riciliano,
non lo esonera dagli obblighi che gravano sul medesimo, per
la considerazione che nel contratto di appalto, anche
pubblico, l'appaltatore si impegna ad eseguire l'opera a
regola d'arte con mezzi propri e sotto la sua responsabilità
in piena autonomia anche nel caso in cui l'amministrazione
pubblica abbia predisposto il progetto e le indicazioni
(Cass. Civ. sez. 1, n. 15784, del 02/07/2010, Rv 613928).
Dunque, come correttamente ritenuto nella sentenza impugnata
(pag. 10),
l'esecutore di opere pubbliche è costruttore/esecutore delle
opere, sicché non si può escludersi la responsabilità per
violazione agli obblighi derivanti dalla legge, obblighi che
non possono venir meno per il fatto che l'ente appaltante
sia lo stesso che doveva ricevere la comunicazioni. E ciò in
forza della ratio delle disposizioni dettate in tema
di vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, che
prevedendo un complesso sistema di cautele rivolto ad
impedire l'esecuzione di opere non conformi alle norme
tecniche, ed impongono a tutti i soggetti esecutori delle
opere (proprietari, committenti, direttore dei lavori) ad
osservare le cautele a cui sono connessi gli obblighi, che
sono sanzionati con le contravvenzioni in parola.
Deve pertanto ribadirsi il principio secondo cui
il reato di cui all'art. 95 cit., potendo essere commesso da
chiunque violi o concorra a violare l'obbligo di deposito
del progetto delle opere realizzate in zona sismica, e senza
autorizzazione del competente ufficio regionale, può essere
realizzato dal proprietario, dall'esecutore di
un'opera pubblica, che abbia esplicato attività tecnica ed
iniziato la costruzione, senza il doveroso controllo del
rispetto degli adempimenti di legge.
Consegue che non possa ravvisarsi alcun errore di diritto
scusabile quando l'attività professionale del soggetto, come
nel caso di specie, presupponga la conoscenza della
normativa di settore e il suo comportamento sia sintomatico
della inosservanza dell'obbligo di adeguata informazione per
conseguire la conoscenza della legislazione vigente in
materia
(Sez. 3, n. 11045 del 18/02/2015, De Santis, Rv. 263288).
Inoltre, priva di pregio è la tesi difensiva secondo cui il
comportamento antidoveroso era conseguente ad un errore di
diritto sulla legge extrapenale scusabile.
Il comportamento antidoveroso di aver dato inizio ai lavori
senza autorizzazione ex art. 94 cit., non può essere escluso
dalla circostanza che la legge regionale della Campania
9/1983 succ. mod. 19/2012 e 1/2012 e Reg. 23/2010,
stabilisce che l'obbligato alla presentazione della denunzia
è, in caso di committenza pubblica, il committente
individuato nel titolare del potere decisionale e di spesa
ai sensi del art. 2, comma 3, DPGR 23/2010, e ciò in quanto,
come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, la
legislazione in materia di governo del territorio non è
esercitata, ai sensi dell'art. 117 Cost., in via esclusiva
nella regione Campania, bensì concorrente e non può
investire la materia della sicurezza staticità degli edifici
in zona sismica che rimane di esclusiva competenza statale
(Sez. 3, n. 37375 del 20/06/2013, P.M. in proc. Serpicelli,
Rv 257594; Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013, Crisafulli, Rv
241287), sicché la legge regionale non esonera da quanto
previsto dalla legge statale in termini di precauzione
antisismiche e, considera la natura professionale del
soggetto agente, non vale ad escludere il dolo del reato
invocando l'art. 5 cod. pen..
5. Infondato è, anche, il ricorso di Do.Le..
In primo luogo la qualità di direttore dei lavori non
richiede incarico formale, peraltro deve rilevarsi che la
sentenza motiva sulla circostanza che egli era direttore dei
lavori, con incarico formale per la realizzazione dell'opera
principale (opere per la realizzazione delle rete di
adduzione per la metanizzazione) e che, con riguardo alle
opere in oggetto (gabbioni metallici di contenimento di un
muro, opere connesse a quella principale), il Le. aveva
redatto la perizia di variante e il progetto sottoposto alla
Giunta Comunale, a cui era seguita la sottoscrizione del
verbale ripresa lavori in data 25.01.2010, sicché anche
privo di fondamento è il vizio di travisamento della prova.
Il Tribunale ha correttamente argomentato la qualifica di
progettista e direttore dei lavori assunta con incarico
formale (determina n. 154 del 16/07/20109) ed avendo di
fatto e in concreto operato, in tale veste, anche con
riferimento alle opere in oggetto. La motivazione è priva di
censure di illogicità e dunque non sussiste il lamentato
vizio di travisamento della prova.
5.1. Con riferimento al secondo motivo è sufficiente
richiamare quanto esposto al par. 4.2. e con riguardo alla
qualifica ricoperta dal Le., deve ricordarsi che,
in materia di costruzioni in zone sismiche, il direttore dei
lavori risponde del reato previsto dall'art. 95 d.P.R. n.
380 del 2001, per l'esecuzione di interventi edilizi in
assenza del previo deposito del progetto presso il Genio
Civile, in virtù della posizione di controllo affidatagli su
costruzioni potenzialmente lesive della pubblica incolumità
e del conseguente obbligo di verificare il rispetto degli
adempimenti prescritti dalla normativa in materia
(Sez. 3, n. 7775 del 05/12/2013, Damiano, Rv. 258854). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di accertata compatibilità paesaggistica (art. 167 dlgs
42/2004), il "profitto conseguito" è l’oggettivo
incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le
regole che tutelano il bene vincolato.
Secondo la ricorrente, il profitto
derivante dall’abuso edilizio sanato dovrebbe essere
calcolato non solo come differenza tra il valore
attuale di mercato degli edifici commerciali nella zona in
questione (2.000 €/mq) ed il valore del porticato originario
(460 €/mq) ma anche detraendo il costo delle opere
realizzate (nello specifico € 20.491,81, come da computo
metrico).
A sostegno, viene richiamato il DM 26.09.1997
(Determinazione dei parametri e delle modalità per la
qualificazione della indennità risarcitoria per le opere
abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo).
La tesi della ricorrente non appare condivisibile.
La disciplina del DM 26.09.1997 aveva come presupposto la
perfetta equivalenza tra la sanzione ripristinatoria e la
sanzione pecuniaria, secondo un giudizio discrezionale
rimesso all’autorità incaricata della tutela del vincolo.
Nel regime dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004,
invece, la sostituibilità della rimessione in pristino con
il pagamento di una somma è un’eccezione al divieto di
autorizzazione paesistica in sanatoria.
Il profitto, nel nuovo contesto normativo, non può più avere
come riferimento l’autore dell’abuso (per il quale rileva la
differenza tra il valore dell'opera realizzata e i costi di
esecuzione della stessa), ma si confronta direttamente con
l’interesse paesistico.
Il prezzo chiesto all’autore dell’abuso è quindi l’oggettivo
incremento di ricchezza immobiliare ottenuto violando le
regole che tutelano il bene vincolato.
Se nel violare queste regole l’autore dell’abuso ha speso
più di quanto il mercato sia disposto a riconoscere per il
passaggio di proprietà, il rischio rimane a carico del
privato. Lo stesso vale, a maggior ragione, se le spese sono
inferiori al prezzo attuale di vendita.
In altri termini, la collettività non può essere chiamata a
garantire l’economicità della violazione paesistica
attraverso una riduzione della pretesa sanzionatoria, né in
relazione alle condizioni soggettive dell’autore dell’abuso,
né con riguardo alla situazione del mercato immobiliare.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione
Territorio del 05.01.2016, con il quale è stato dichiarato
l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167,
comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, ed è stato imposto il
pagamento di una sanzione pecuniaria pari a € 27.997,20;
...
Considerato a un sommario esame:
1. La società ricorrente ha realizzato, a partire dal 2009,
un intervento di ristrutturazione di un edificio situato nel
Comune di Lovere, in via Marconi. L’immobile è sottoposto a
vincolo paesistico ex art. 136, comma 1-c, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42.
2. In difformità dall’autorizzazione paesistica, la
ricorrente ha annesso al fabbricato principale un porticato
avente superficie pari a 18,18 mq, attribuendo a questa
struttura accessoria la medesima destinazione commerciale
del resto dell’immobile.
3. Il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area
Gestione Territorio del 05.01.2016, ha dichiarato
l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167,
comma 5, del Dlgs. 42/2004, e ha imposto il pagamento di una
sanzione pecuniaria pari a € 27.997,20 a titolo di profitto
conseguito mediante la trasgressione.
Il calcolo è stato effettuato sulla base del valore attuale
di mercato degli edifici commerciali nella zona in questione
(2.000 €/mq), detraendo il valore del porticato originario
(460 €/mq). Non è stato preso in considerazione il parametro
del danno ambientale (alternativo al parametro del
profitto), in quanto la chiusura del porticato ha in realtà
un effetto migliorativo sul paesaggio (v. perizia di stima
del 05.10.2015).
4. Secondo la ricorrente, il profitto derivante dall’abuso
edilizio sanato dovrebbe essere calcolato detraendo anche il
costo delle opere realizzate (nello specifico € 20.491,81,
come da computo metrico). A sostegno, viene richiamato il DM
26.09.1997 (Determinazione dei parametri e delle modalità
per la qualificazione della indennità risarcitoria per le
opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo).
5. La tesi della ricorrente non appare condivisibile.
La disciplina del DM 26.09.1997 aveva come presupposto la
perfetta equivalenza tra la sanzione ripristinatoria e la
sanzione pecuniaria, secondo un giudizio discrezionale
rimesso all’autorità incaricata della tutela del vincolo.
Nel regime dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004,
invece, la sostituibilità della rimessione in pristino con
il pagamento di una somma è un’eccezione al divieto di
autorizzazione paesistica in sanatoria. Il profitto, nel
nuovo contesto normativo, non può più avere come riferimento
l’autore dell’abuso (per il quale rileva la differenza tra
il valore dell'opera realizzata e i costi di esecuzione
della stessa), ma si confronta direttamente con l’interesse
paesistico.
6. Il prezzo chiesto all’autore dell’abuso è quindi
l’oggettivo incremento di ricchezza immobiliare ottenuto
violando le regole che tutelano il bene vincolato.
Se nel violare queste regole l’autore dell’abuso ha speso
più di quanto il mercato sia disposto a riconoscere per il
passaggio di proprietà, il rischio rimane a carico del
privato. Lo stesso vale, a maggior ragione, se le spese sono
inferiori al prezzo attuale di vendita.
In altri termini, la collettività non può essere chiamata a
garantire l’economicità della violazione paesistica
attraverso una riduzione della pretesa sanzionatoria, né in
relazione alle condizioni soggettive dell’autore dell’abuso,
né con riguardo alla situazione del mercato immobiliare.
7. Non sussistono pertanto i presupposti per concedere una
misura cautelare sospensiva o propulsiva
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 23.05.2016 n. 376 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Atti p.a. ad accesso sbarrato. Possono rimanere
segreti se non si ha titolo a svelarli. Il Consiglio di
stato mette all'angolo le disposizioni del Freedom of
information act.
Atti e dati della pubblica amministrazione possono rimanere
sotto chiave, se chi chiede di vederli non dimostra di avere
titolo alla discovery. Il Consiglio di stato stende così un
velo sull'«accesso civico 2.0».
Questo anche a costo di mettere in un angolo le disposizioni
del Freedom of information act (Foia) all'italiana,
alias dlgs 97/2016, che ha corretto il precedente dlgs 33/2013.
La norma (quella del 2016) sul riformato accesso civico dice
che «chiunque» può avere atti e documenti della p.a.; i
giudici di Palazzo Spada (sentenza
12.08.2016 n. 3631) restringono l'accesso,
consentendolo solo a chi può dimostrare una posizione
legittimante (e quindi non a «chiunque»). Si attendono, ora,
lumi dall'Autorità anticorruzione, che deve stendere linee
guida per gli enti pubblici.
La questione sembra di lana caprina, aggrappata com'è a
terminologie giuridiche; invece è un problema molto
concreto, soprattutto per i riflessi economici.
Partiamo da zero.
Il dlgs 97/2016 riscrive l'articolo 5 del dlgs 33/2013, e le
parole usate, per descrivere l'accesso civico, sembrano
chiare e limpide.
Chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti
detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto
a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (comma 2):
dunque, anche se una p.a. non ha l'obbligo di leggere
diffondere sul sito un singolo documento o un dato, queste
informazioni sono, comunque, a disposizione di chiunque le
richieda.
Inoltre l'esercizio del diritto di accesso civico non è
sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione
soggettiva del richiedente (comma 3): e cioè non bisogna
dimostrare un particolare stato (come la titolarità di un
diritto o di un interesse specifico) per poter chiedere
copia di documenti e dati.
Infine l'istanza di accesso civico deve identificare i dati,
le informazioni o i documenti richiesti, ma non richiede
motivazione (comma 3): e, quindi, la richiesta deve far
capire alla PA ciò che si chiede, ma non bisogna dichiarare
quale uso ci si proponga di fare, perché è accettabile anche
una richiesta senza motivazione.
Non è escluso, pertanto, che se ne possa fare un uso per
attività economiche, basate sulle potenzialità
tendenzialmente infinite dei dati detenuti dal settore
pubblico.
Questo quadro disegna un'apertura totale a dati e documenti
della p.a..
La norma, tuttavia, seppure con molte ambiguità lessicali,
individua limiti all'accesso civico sia relativi a interessi
pubblici sia a interessi privati (articolo 5-bis). Per gli
interessi pubblici, la loro sussistenza dovrebbe essere a
priori tale da escludere l'accesso civico: tuttavia, stando
alla lettera, se non c'è uno degli interessi pubblici
elencati, non c'è bisogno di accertare legittimazione attiva
e motivazione del richiedente.
Per gli interessi privati, si è già osservato (si veda
ItaliaOggi Sette del 20.06.2016) che proprio l'assenza della
necessità di riscontrare la posizione legittimante e di
dichiarare la motivazione della richiesta di accesso civico
finiscono per svuotare la possibilità di far prevalere la
privacy e, appunto, gli altri interessi privati.
A questo punto interviene la sentenza del Consiglio di stato
in commento, che ribalta i termini della questione e
opacizza i vetri della casa della p.a.; anche se, per
arrivare a questo risultato, i supremi giudici
amministrativi forzano la lettera del decreto 97/2016.
Vediamo in che modo. Nella pronuncia si legge, prima, che il
decreto legislativo n. 97 del 2016 «svincola il diritto di
accesso da una posizione legittimante differenziata» (art. 5
del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato); poi, però,
aggiunge che «al contempo, sottopone l'accesso ai limiti
previsti dall'articolo 5-bis» (sempre del novellato dlgs
33/2013): «in tal caso, la p.a. intimata dovrà in concreto
valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in
concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di
proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi
ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta
valutazione, anche le peculiarità della posizione
legittimante del richiedente».
Siamo al precario equilibrio di parole, che cercano di
tenere insieme due concetti opposti: è esclusa una
particolare posizione legittimante, ma si deve valutare la
posizione legittimante.
Se si deve valutare la posizione di chi chiede l'accesso
civico, allora il richiedente dovrebbe dichiarare quale
interesse persegue e quale sia lo scopo della richiesta.
Solo così la p.a. può fare il bilanciamento tra trasparenza
e interessi pubblici o privati. Ma l'articolo 5, stando alla
lettera, esclude la necessità di dichiarare la propria
legittimazione e la motivazione.
A parte il fatto che il cerino di questa difficile
valutazione rimarrebbe nelle mani dei singoli funzionari
pubblici, chiamati a decidere sulla richiesta di accesso
(con esiti magari diversi e anche contraddittori da ente a
ente), in ogni caso qualsiasi valutazione di questo tipo
presuppone una interpretazione abrogante dell'articolo 5
sopra citato (accesso disponibile a chiunque, senza
motivazione e senza dimostrare di una posizione
legittimante).
In sostanza, la sentenza del Consiglio di stato amputa la
portata innovativa del nuovo accesso civico a documenti e
dati della p.a. e le potenzialità del Foia vengono svilite.
Ma non è detta l'ultima parola. Si attendono, infatti, le
linee guida dell'Autorità nazionale anticorruzione ai fini
della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso
civico (articolo 5-bis, comma 6)
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per i giornalisti l’accesso agli atti non è automatico.
Consiglio di Stato. Il caso derivati del Tesoro.
Resta difficile il
diritto di accesso agli atti per i giornalisti.
Secondo la
sentenza 12.08.2016 n. 3631 del Consiglio di Stato,
Sez. VI, non basta al redattore di una testata
specializzata, invocare il diritto di cronaca per ottenere
dal ministero dell’Economia copia dei contratti derivati
stipulati dallo Stato con 19 istituti di credito stranieri.
O, quanto meno, non basta al giornalista invocare la legge
241/1990 e il generico diritto di accesso ivi previsto.
Rimangono così riservati i contratti sottoscritti (per oltre
150 miliardi) dallo Stato per proteggersi dalle oscillazioni
di valute e tassi d’interesse. Secondo i giudici, non esiste
un rapporto tra diritto d’accesso (legge 241/1990) e libertà
di informare. Se il giornalista adopera lo strumento del
diritto di accesso previsto dalla legge 241 (articoli 22 e
seguenti) invocando la sua «libertà di informarsi per
informare», deve rispettare le regole di tale legge e quindi
i limiti che essa pone alle richieste di dati.
La Costituzione (articolo 21) configura la libertà di
cronaca e quella d’informare, la libertà di opinione e
quella di stampa, ma il Consiglio di Stato distingue due
profili: attivo e passivo. Il primo coincide con la libertà
d’informare (comunicare e diffondere idee e notizie); il
diritto di stampa e di opinione, nell’aspetto passivo,
attiene invece ai destinatari dell’informazione e consiste
nelle libertà di esser informati. Ma un conto è la libertà
d’informare, altro è quella di accedere alle informazioni.
La libertà d’informazione, come libertà di informarsi per
informare, consiste nell’interesse a ricevere le notizie in
circolazione e non coperte da segreto o da riservatezza e a
monte ha l’interesse a ricercare le notizie. C’è quindi una
relazione giuridica tra chi informa e chi viene informato,
ma il diritto a essere informati non può accrescere il
diritto di accesso di chi informa, né nei contenuti né nel
risultato.
I giudici ritengono quindi insufficiente il
richiamo a legge 241 ed esercizio dell’attività
giornalistica. Ma la sentenza sottolinea che è in corso
un’evoluzione normativa sulla trasparenza: la direttiva
2003/98/Ce sull’informazione nel settore pubblico, il
decreto legislativo 33/2013 (sull’accesso civico) con
obbligo di pubblicazione sull’uso delle risorse pubbliche e
il decreto legislativo 97/2016 (detto Foia, Freedom of
information act) con un sito denominato «Soldi pubblici»
sono forme diffuse di controllo. E la direttiva 2014/24
sugli appalti amplia la legittimazione dei cittadini in
qualità di contribuenti a un corretto svolgimento
dell’attività amministrativa.
Del resto, pochi giorni fa il
Tar Lazio (sentenza 8755/2016, si veda il Sole 24 Ore del 9
agosto) ha ammesso l’accesso su atti del protocollo
diplomatico per la vicenda dei Rolex arabi e il Tar Veneto
(sentenza 09.08.2016, n. 952) ha consentito la verifica
dei contributi concessi per una tromba d’aria
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.08.2016).
---------------
MASSIMA
4. – L’appello è fondato limitatamente alla statuizione
sulle spese del giudizio, per il resto non potendo esser
condiviso, anche se la sentenza del Tribunale amministrativo
merita, in punto di motivazione, le precisazioni che si
esporranno.
4.1 In primo luogo, occorre sgomberare il campo da
argomentazioni che, ad avviso del Collegio, non riguardano
in maniera decisiva il thema decidendum.
Per quanto riguarda le controdeduzioni dell’Amministrazione
appellata, si rammenti che, nel caso in esame, l’odierno
appellante ha agito a seguito del silenzio serbato dalla
P.A. sulla sua istanza d’accesso. Sicché non dura fatica il
Collegio a reputare l’assunto della difesa erariale, sullo
scopo dell’accesso per svolgere un controllo generalizzato
dell’azione amministrativa e sull’effetto pregiudizievole
dell’eventuale ostensione dei richiesti contratti in
derivati sul mercato relativo, nulla più che un argomento
difensionale. Ma ciò si risolve nella inammissibile –secondo
ricevuti princìpi- sostituzione d’un concreto provvedimento
di diniego, mai emanato, con uno scritto difensivo che,
volto a surrogare una inespressa volontà della P.A., che
potrebbe pure avere opinioni più articolate al riguardo.
Per altro verso, con riguardo a quanto deduce l’appellante,
è ben noto al Collegio, ma altrettanto non pertinente ai
presenti fini, l’arresto di questo Consiglio (cfr. Cons.
St., V, 17.03.2015 n. 1370), secondo cui «… il diritto di
accesso … è collegato a una riforma di fondo dell’Amministrazione, ispirata ai principi di democrazia
partecipativa, della pubblicità e trasparenza dell’azione
amministrativa desumibili dall’art. 97 Cost., che
s’inserisce a livello comunitario nel più generale diritto
all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e
alla attività… amministrativa quale strumento di prevenzione
e contrasto sociale ad abusi e illegalità…», poiché
nella specie si controverte non sulla ratio generale
dell’accesso, ma della sua utilizzabilità da parte
dell’appellante nella concreta situazione per cui è causa e
nel contesto normativo della legge n. 241, invocato
dall’appellante medesimo.
Invero,
il punto centrale della presente controversia è e
resta, avendo voluto l’appellante adoperare proprio lo
strumento ex artt. 22 e ss. della l. 07.08.1990 n. 241
deducendo la propria libertà di informarsi per informare,
la
soggezione del diritto di accesso, come ivi delineato, alle
stringenti regole colà previste e, quindi, la legittimazione
dell’appellante al loro uso e, di conseguenza, ai rimedi che
l’ordinamento appresta a garanzia di questo.
Di ciò il TAR ha dato buona contezza, laddove ha precisato
che, se fosse «… sufficiente l’esercizio dell’attività
giornalistica ed il fine di svolgere un’inchiesta… su una
determinata tematica per ritenere, per ciò solo, il
richiedente autorizzato ad accedere a documenti in possesso…
(della P.A.) …, sol perché genericamente riconducibili
all’oggetto di detta “inchiesta”, si finirebbe per
introdurre una sorta di inammissibile azione popolare sulla
trasparenza dell’azione amministrativa che la normativa
sull’accesso non conosce…».
4.2 In altri termini, l’istanza di accesso proposta in via
amministrativa dall’appellante e la conseguente domanda
giudiziale vanno valutate, per saggiare la legittimità del
diniego (rectius: silenzio) opposto
dall’Amministrazione alla luce dell’invocato disposto
normativo, senza poter prendere in considerazione la
successiva evoluzione della disciplina normativa in materia
di trasparenza delle pubbliche amministrazioni e di
conoscenza dei relativi atti.
Non sfugge al Collegio come dottrina e giurisprudenza
abbiano svolto un'opera di ridefinizione della formula
dell'art. 21 Cost., giungendo a configurare una libertà di
cronaca ed una più ampia libertà d’informare. Ciò ha
comportato da tempo il consolidamento dell'autonomia della
libertà di informazione, in sé e rispetto alla libertà di
opinione e di stampa, ma soprattutto la maturazione della
differenza tra profilo attivo e profilo passivo della
libertà stessa.
In particolare, per quel che qui concerne,
il primo profilo si sostanzia nella libertà d’informare
(cioè di comunicare e diffondere idee e notizie), il
secondo, che attiene ai destinatari dell’informazione, si
specifica nella libertà di esser informati, ma, si badi,
come mero risvolto passivo della libertà d’informare, oltre
che nella libertà di accedere alle informazioni.
L'elaborazione più significativa, cui ha dato luogo
l'interpretazione evolutiva dell'art. 21 Cost., si rinviene
senz'altro sul profilo passivo della libertà d’informazione.
Al riguardo, l’attenzione s’è incentrata anzitutto sulle
posizioni soggettive inerenti alla libertà di informarsi,
con particolare riguardo sia all'interesse a ricevere le
notizie in circolazione e non coperte da segreto o da
riservatezza, sia all'interesse a ricercare le notizie.
Tralasciando il primo interesse, poiché esula dall’oggetto
del presente giudizio, più complessa è la fisionomia
dell'interesse a ricercare le notizie, che l’appellante in
sostanza ha azionato in questa sede. V’è, per vero, una
stretta interdipendenza tra quell'interesse e l'attività di
chi divulga le informazioni, tant’è che la giurisprudenza,
anche antica, di questa Sezione si è espressa (cfr. Cons.
St., IV, 06.05.1996 n. 570; cfr., più di recente, id., 22.09.2014 n. 4748)
sulla posizione qualificata e
differenziata degli organi di stampa (e, quindi, dei
giornalisti) circa la conoscenza (del contenuto) degli atti
detenuti dalla P.A. Si richiama, da ultimo, anche il nuovo
approdo «… dell’ordinamento comunitario in subjecta materia
circa una compiuta evoluzione verso una società dell’
informazione e della conoscenza (cfr. Direttiva 2003/98/CE)
…».
4.3 Tuttavia, se è vera la relazione giuridica tra chi
informa e chi viene informato, non solo non si può
legittimamente predicare l’esistenza d’un diritto soggettivo
in capo ai destinatari tale addirittura da condizionare la
posizione di chi informa pure nei contenuti e nel risultato,
ma non si ravvisa, nel corpo dello stesso art. 21 Cost., il
fondamento di un generale diritto di accesso alle fonti notiziali, al di là del concreto regime normativo che, di
volta in volta e nell’equilibrio dei molteplici e talvolta
non conciliabili interessi in gioco, regolano tal accesso.
In altre parole, occorre evitare ogni generalizzazione sul
rapporto tra diritto d’accesso e libertà di informare. Il
nesso di strumentalità tra le due figure, che pure esiste,
si sostanzia non già reputando, come fa l’appellante, il
diritto di accesso qual presupposto necessario della libertà
d’informare, ma nel suo esatto opposto. È il riconoscimento
giuridico di questa che, in base alla concreta regolazione
del primo, diviene il presupposto di fatto affinché si
realizzi la libertà d’informarsi.
Sicché, come ha a suo tempo detto la Sezione,
è pur vero che
«… in linea di principio non si può equiparare la posizione
di una testata giornalistica o di un operatore della stampa
a quella di un qualunque soggetto giuridico per quanto
attiene al diritto di accesso ai documenti amministrativi…».
Tuttavia, «… occorre… pur sempre tener presente l’ambito
soggettivo e quello oggettivo prescritti dalla legge entro i
quali va riconosciuta la tutela sottesa all’accesso,
presupponendo… un interesse personale e concreto,
strumentale all’accesso…». Pertanto «… non è consentito
dilatare l’ambito applicativo della normativa garantista di
cui al citato art. 22 della legge n. 241…».
Ciò non significa che v’è un diniego generale al diritto di
accesso alle fonti per l’informazione, né che il diritto ad
essere informati si esaurisca nella libertà d’informarsi
come mero risvolto fattuale della libertà d’informare.
Vuol dire piuttosto che va condotta un'indagine circa la
consistenza della situazione legittimante all’accesso e che
la relativa valutazione va articolata a seconda della
disciplina normativa di riferimento, che varia in
significative parti sia con riguardo ai caratteri della
posizione legittimante (l’interesse “diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata” di cui alla legge n. 241), sia dei vari presidi
che la legge pone verso l’accesso generalizzato (non
collegato, cioè, ad un interesse qualificato e differenziato
o comunque volto a un controllo diffuso sull’attività dei
pubblici poteri).
In particolare sul versante dei rapporti
con i pubblici poteri, il legislatore non sconta limiti
generali nel prevedere in favore dei cittadini una serie più
o meno ampia di diritti ad essere informati, come avviene,
per esempio, con le regole di pubblicità ex art. 29 del Dlgs.
14.03.2013 n. 33.
E’ fondamentale sottolineare, al riguardo, che
l'evoluzione
della legislazione in materia, che pure è via via sempre più
aperta alle esigenze di trasparenza dell'azione pubblica, ha
portato a configurare le diverse forme di accesso più che a
guisa di un unico e globale diritto soggettivo di accesso
agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri, come
un insieme di sistemi di garanzia per la trasparenza, tra
loro diversificati pur con inevitabili sovrapposizioni.
Sicché s’avrà una maggiore o minore estensione della
legittimazione soggettiva, a seconda della più o meno
diretta strumentalità della conoscenza, incorporata negli
atti e documenti oggetto d’accesso, rispetto ad un interesse
protetto e differenziato, diverso dalla mera curiosità del
dato, di colui che esprime sì il bisogno di accedere, ma con
le modalità previste dalla specifica disciplina normativa
invocata.
In altri termini, è da considerare che il sistema nel suo
complesso dà luogo a vari tipi d’accesso, con diverse
finalità e metodi d’approccio alla conoscenza ed altrettanti
livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza dei pubblici
poteri. Tali livelli, nel sistema della legge n. 241 –che
costituisce il parametro normativo di riferimento nel
presente giudizio- saranno più ampi quando riguardano la
partecipazione di un soggetto ad un procedimento
amministrativo (art. 7, c. 1; art. 8, c. 2, lett. b; art.
10, lett. a) della l. 241/1990) o ad un processo
amministrativo già in atto (art. 116, c. 2, c.p.a.: cfr., p.
es., Cons. St., III, 14.03.2013 n. 1533), oppure quando
l’accesso riguardi «… documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici…» (art. 24, c. 7 della legge
n. 241); ma richiederanno pur sempre, nel sistema della
legge n. 241, una posizione legittimante nei termini
richiesti da quella disciplina.
È allora ben chiaro che il
diritto d’accesso ex legge n. 241 agli atti amministrativi
non è connotato da caratteri di assolutezza e soggiace,
oltre che ai limiti di cui all’art. 24 della l. 241/1990,
alla rigorosa disamina della posizione legittimante del
richiedente, il quale deve dimostrare un proprio e personale
interesse (non di terzi, non della collettività
indifferenziata) a conoscere gli atti e i documenti
richiesti. Come si è detto, il diritto di cronaca è
presupposto fattuale del diritto ad esser informati ma non è
di per sé solo la posizione che legittima l’appellante
all’accesso invocato ai sensi della legge n. 241.
Né sembri tutto ciò in contrasto con la c.d. “società
dell’informazione” cui a livello europeo tende (cfr.
considerando n. 2) la dir. n. 2003/98/CE, poiché, al di là
dell’enfasi così manifestata, tale fonte comunque non
esclude, nei ben noti ed ovvi limiti di ragionevolezza e
proporzionalità, regimi nazionali che possano delimitare
l’accesso anche con riferimento alla titolarità di una
posizione legittimante).
Diversi sono i presupposti che connotano i casi di c.d. “accesso
civico” ex art. 5 del Dlgs 33/2013 (anche nel testo
previgente alla novella del 2016), che tuttavia
presuppongono la sussistenza di un obbligo di pubblicazione
(cfr. funditus Cons. St., VI, 20.11.2013 n. 5515).
E ancora diversi sono i presupposti che disciplinano
l’accesso ai sensi del decreto legislativo n. 97 del 2016,
che svincola il diritto di accesso da una posizione
legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del
2013 nel testo novellato) e, al contempo, sottopone
l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5-bis. In tal
caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i
limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto
sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e
ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e
non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche
le peculiairtà della posizione legittimante del richiedente.
In conclusione, l’appello è da respingere per la non
dimostrata sussistenza, nel caso di specie, da parte
dell’appellante di una posizione legittimante ai sensi e nei
termini di cui alla legge n. 241. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI LOCALI - VARI:
OGGETTO: Esibizione del certificato di assicurazione ai
sensi dell'art. 180, comma 1, lettera d), del Codice della
Strada. Provvedimento IVASS n. 41 del 22.12.2015
(Ministero dell'Interno,
nota
01.09.2016 n. 300/A/5931/16/106/15 di prot.). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Indirizzi operativi per la redazione di
specifiche procedure per la scalata, l'accesso, lo
spostamento, il posizionamento, nonché per il recupero del
lavoratore non più autosufficiente: prevenzione del rischio
di caduta dall'alto nelle attività non configurabili come
lavori sotto tensione su elettrodotti aerei (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali,
circolare 30.08.2016 n. 28). |
APPALTI SERVIZI:
Oggetto: Comuni non metanizzati. Chiarimento
(Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 09.08.2016). |
ENTI LOCALI:
Oggetto: Attività di controllo accensione fuochi
artificiali (Prefettura di Avellino,
nota 14.07.2016 n. 16829 di prot.). |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Attività di controllo e ispezione presso
fabbriche e depositi di fuochi d'artificio. Linee guida per
le Commissioni tecniche territoriali e attività di
sorveglianza del mercato (Ministero dell'Interno,
nota 05.07.2016 n. 557/PAS/U/010964/XV.H.MASS(77)SM di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 06.09.2016 n. 208 "Regolamento recante la disciplina
delle modalità e delle norme tecniche per le operazioni di
dragaggio nei siti di interesse nazionale, ai sensi
dell’articolo 5-bis, comma 6, della legge 28.01.1994, n. 84"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
decreto 15.07.2016 n. 172). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI:
G.U. 01.09.2016 n. 204 "Delega al Governo per il
recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri
atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2015" (Legge
12.08.2016 n. 170). |
APPALTI: G.U.
31.08.2016 n. 203 "Composizione e modalità di
funzionamento della Cabina di regia" (D.P.C.M.
10.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 31.08.2016 N. 203 "Misure urgenti per la definizione
del contenzioso presso la Corte di cassazione, per
l’efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la
giustizia amministrativa" (D.L.
31.08.2016 n. 168). |
ENTI LOCALI: G.U.
29.08.2016 n. 201 "Modifiche alla legge 24.12.2012, n.
243, in materia di equilibrio dei bilanci delle regioni e
degli enti locali" (Legge
12.08.2016 n. 164). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
ESPROPRIAZIONE - PATRIMONIO:
G.U. 10.08.2016 n. 186 "Deleghe al Governo e ulteriori
disposizioni in materia di semplificazione,
razionalizzazione e competitività dei settori agricolo e
agroalimentare, nonché sanzioni in materia di pesca illegale" (Legge
28.07.2016 n. 154).
-----------------
Di interesse, si leggano:
● Art. 3. -
Disposizioni in materia di servitù
● Art. 5. - Delega al Governo
per il riordino e la semplificazione della normativa in
materia di agricoltura, silvicoltura e filiere forestali
● Art. 9. - Disposizioni in materia di indennità
espropriative giacenti
● Art. 11. - Iscrizione ai consorzi e ai sistemi per la
raccolta dei rifiuti previsti dal decreto legislativo
03.04.2006, n. 152
● Art. 12. - Esercizio dell’attività di manutenzione del
verde
● Art. 16. - Istituzione della
Banca delle terre agricole
● Art. 41. - Modifica
all’articolo 185 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152,
in materia di esclusione dalla gestione dei rifiuti |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E.
02.08.2016 n. L 208 "RACCOMANDAZIONE
(UE) 2016/1318 DELLA COMMISSIONE del 29.07.2016
recante orientamenti per la promozione degli edifici a
energia quasi zero e delle migliori pratiche per assicurare
che, entro il 2020, tutti gli edifici di nuova costruzione
siano a energia quasi zero". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità: gli errori ricostruttivi del Consiglio di stato.
Si tratta di vera e propria nuova assunzione (06.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Saitta,
Permesso di
costruire in sanatoria: in Sicilia non è più necessaria la
«doppia conformità» (prime considerazioni a margine
dell’art. 14, comma 1, della legge regionale siciliana n. 16
del 2016) (04.09.2016 - link a
www.lexitalia.it).
---------------
Sommario: 1. La sanatoria nella legge Bucalossi:
brevi cenni. – 2. La sanatoria ai sensi dell’art. 13 della
legge n. 47 del 1985 e la «doppia conformità». – 3. La c.d.
«sanatoria giurisprudenziale» alla luce dell’art. 36 del
testo unico dell’edilizia. – 4. L’art. 14, comma 1, della
legge regionale siciliana n. 16 del 2016. |
APPALTI:
Appalti: le acquisizioni in economia non esistono più con
buona pace dell’Anac (04.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Ribasso e offerta economicamente più vantaggiosa? Non si
applicano se si realizzano affidamenti diretti (02.09.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma della dirigenza: proposte de iure condendo
(02.09.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Berti Suman,
Il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni
(art. 17-bis, legge n. 241/1990): dovere di istruttoria e
potere di autotutela - Commento al parere n.
1620/2016 del Consiglio di Stato su alcuni problemi
applicativi dell’articolo 17-bis della legge 07.08.1990, n.
241, introdotto dall’articolo 3 della legge 07.08.2015, n.
124 (01.09.2016 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’art. 17-bis: “nuovo
paradigma” nei rapporti tra pubbliche amministrazioni – 3.
Il rapporto con gli articoli 16 e 17 della legge n. 241/1990
– 4. Silenzio-assenso ed interessi sensibili: giurisprudenza
costituzionale e europea – 4.1. (segue) un caso recente:
l’Adunanza Plenaria sulla perdurante vigenza del meccanismo
del silenzio-assenso nel procedimento relativo al nulla osta
dell’Ente Parco – 5. Il difetto di istruttoria (e di
motivazione) nella formazione del silenzio-assenso – 6. Il
potere di autotutela – 7. Brevi considerazioni conclusive. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma della dirigenza pubblica. I dirigenti "squillo", al
servizio della politica (27.08.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il Foia de noantri. Diritto di accesso per tutti? Ma dai, si
scherzava! (22.08.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Palazzi,
L'Agenzia delle Entrate torna all'attacco e fa la voce
grossa con i Comuni (15.08.2016 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).
---------------
A Ottobre del 2013 avevo già espresso alcune perplessità
sul protocollo d'intesa che l'Agenzia delle Entrate aveva
inviato a tutti i Comuni Lombardi ai fini della sua
sottoscrizione e con il quale ci si impegnava a versare fino
al 50% degli importi introiettati sul bilancio comunale come
sanzioni ai sensi degli articoli 31-37 del D.P.R. 380/2001.
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Palazzi,
Normativa sismica in Lombardia: facciamo il punto per le
zone in classe 3... e speriamo bene (31.07.2016
- link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).
--------------
In riferimento al trasferimento di funzioni della
normativa sismica di cui alla Parte II, Capo IV del D.P.R.
380/2001 si erano già espresse notevoli perplessità e
preoccupazioni fin già dal mese di ottobre 2014, con
l'uscita della prima D.G.R. n. 2129 del 11/10/2014 che, per
quanto barcollante, nata zoppa e poi stampellata alla bella
meglio, lasciava già chiaramente trapelare il desiderio di
trasferire ad altri enti (sempre i soliti) i propri oneri e
responsabilità in materia sismica, non a caso a seguito del
terremoto dell'Emilia che ha avuto effetti fino alla Bassa
Lombardia. (...continua). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni sbloccate in Toscana, Basilicata, Piemonte e
Sardegna. Enti locali. Dopo le ricollocazioni.
Si sbloccano
ulteriormente le assunzioni degli enti locali.
Con la
nota 11.08.2016 n. 42335 di prot. il Dipartimento della Funzione
Pubblica ha svincolato dall’obbligo di riassorbimento dei
dipendenti di area vasta altri enti territoriali presenti in
alcune regioni. A macchia di leopardo procede, quindi,
quanto previsto all’articolo 1, comma 234, della legge
208/2015, ovvero il ripristino delle ordinarie capacità assunzionali laddove le regioni dimostrino di aver
completato il processo di ricollocazione dei lavoratori in
esubero delle province e delle città metropolitane.
La Funzione Pubblica è già intervenuta con le note n. 10669
del 29 febbraio e n. 37870 del 18 luglio. Con il documento
in esame, ecco il quadro generale delle regioni in cui sono
ripristinate le ordinarie capacità assunzionali, le quali,
nel frattempo, con la legge di conversione del Dl 113/2016,
sono aumentate negli enti al di sotto dei 10mila abitanti,
fino ad arrivare, teoricamente, al 75% della spesa dei
cessati nell’anno precedente.
Come noto, vanno tenute suddivise le assunzioni nelle
funzioni di polizia locale, rispetto alle altre funzioni.
Possono assumere per le funzioni di polizia senza rispettare
l’articolo 5 del Dl 78/2015 i comuni e gli enti locali della
regioni Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Molise,
Piemonte, Puglia, Veneto e Toscana. Quest’ultima è stata
proprio aggiunta dalla nota 42335/2016.
Una precisazione è
d’obbligo: in questi contesti territoriali, quindi, non
opera più la disposizione che prevedeva un tempo massimo di
5 mesi di stagionalità per le assunzioni a tempo determinato
o con altre forme di lavoro flessibile. Rimane fermo quanto
previsto dall’articolo 36, comma 2, del Dlgs 165/2001 e
dall’articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010 (limite di quanto
speso nel 2009).
Per quanto riguarda le funzioni diverse dalla polizia
locale, la nota in esame aggiunge gli enti locali della
Basilicata, Piemonte e Sardegna tra quelli a cui sono
ripristinate le ordinarie capacità assunzionali. Le regioni
in cui si può assumere a tempo indeterminato senza riservare
la capacità assunzionale 2015 e 2016 ai dipendenti di area
vasta sono quindi le seguenti: Emilia Romagna, Lazio,
Marche, Veneto, Basilicata, Piemonte e Sardegna.
In questo
ambito, quindi, si potrà assumere anche dall’esterno
utilizzando la capacità assunzionale dell’anno 2016 (come
eventualmente rideterminata per opera della legge di
conversione del Dl 113/2016) e di quella risultante da
eventuali residui della capacità assunzionale del trienni
precedente, ovvero degli anni 2013, 2014 e 2015.
Tutte e tre le note della Funzione Pubblica ricordano, però,
che le disponibilità (offerta di mobilità) già inserite nel
portale da tutte le amministrazioni per qualsiasi funzione e
di qualsiasi territorio, continuano ad essere destinate al
processo di ricollocazione del personale interessato,
secondo quanto previsto dal Dm del 14.09.2015.
Rimangono due importanti precisazioni. Anzitutto, quando si
parla di «ripristino di ordinarie capacità assunzionali»,
vanno incluse anche le procedure di mobilità di cui
all’articolo 30 del Dlgs 165/2001. Infine, per le sole
assunzioni del personale insegnante ed educativo, trova
applicazione la normativa speciale di cui all’articolo 17
del Dl 113/2016 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.08.2016). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Pa, doppia verifica sugli incarichi.
Legge Severino. Le istruzioni dell’Anac sui controlli
relativi a inconferibilità e incompatibilità.
Sulle
incompatibilità e le inconferibilità previste dai decreti
attuativi della legge Severino si applica una doppia
vigilanza. La responsabilità di accertare che l’incarico sia
conferito senza violare le norme che provano a prevenire i
conflitti d’interesse tocca al responsabile anticorruzione
dell’ente.
L’Autorità nazionale guidata da Raffaele Cantone
mette in campo però un “secondo livello” di controllo, per
garantire che il responsabile anticorruzione sia fedele alla
legge ma anche per tutelarne l’indipendenza nei confronti
dei vertici amministrativi del suo ente: tema, quest’ultimo,
particolarmente delicato, perché il responsabile
anticorruzione si trova a dover decidere sulla legittimità
di incarichi decisi dagli organi politici o da dirigenti
apicali, e a far scattare sanzioni a loro carico.
A fissare le istruzioni per le verifiche è la stessa Anac,
nella
determinazione
03.08.2016 n. 833 (Linee guida in materia di
accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità
degli incarichi amministrativi da parte del responsabile
della prevenzione della corruzione. Attività di vigilanza e
poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi
inconferibili e incompatibili).
L’obiettivo è un’applicazione
il più possibile sicura delle regole scritte nel decreto
legislativo 39 del 2013, che vietano una serie di incarichi
dirigenziali o di amministratori a chi ha subito condanne
per reati contro la Pa oppure ha svolto nel periodo
immediatamente precedente ruoli da amministratore o
consulente che lo rendono incompatibile.
Le sanzioni riguardano sia chi ottiene un incarico
illegittimo, e decade quando il problema è accertato, sia
chi lo conferisce, e per tre mesi viene bloccato nella
possibilità di assegnare altri incarichi se si accerta che
ha agito pur conoscendo l’ostacolo (anche se non si
configura il «dolo» o la «colpa grave»). Su tutto questo
deve vigilare il responsabile anticorruzione dell’ente: per
facilitargli il compito, l’Anac chiede che la dichiarazione
sull’assenza di cause di inconferibilità o incompatibilità
presentata dall’aspirante sia corredata da tutti gli
incarichi ricoperti, e dalle eventuali condanne subite.
Questa dichiarazione dettagliata, che dovrebbe quindi
cancellare la prassi dell’autodichiarazione generica,
renderebbe evidenti i casi in cui i vertici amministrativi
decidono di assegnare l’incarico con una violazione
consapevole delle regole, e aumenterebbe la
responsabilizzazione del candidato: chi rilascia
dichiarazioni false incappa infatti in responsabilità penali
(come prevede l’articolo 76 del Dpr 445/2000) e si vede
bloccato per 5 anni l’accesso a nuovi incarichi.
L’Anac, come accennato, affianca in modo «collaborativo» il
responsabile anticorruzione, ma può anche intervenire
direttamente a sospendere il conferimento o a negare il via
libera concesso dal responsabile dell’ente (articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2016). |
APPALTI: Appalti, sul nuovo codice pareri dell’Anac più mirati.
Cantone: nuova disciplina anche sui pareri di precontenzioso.
Autorità Anticorruzione. Dal 20 agosto in vigore il
regolamento sull’attività consultiva.
Orientare le
stazioni appaltanti nella corretta applicazione delle norme
sugli appalti pubblici e di quelle sull’anticorruzione e la
trasparenza.
È questo lo scopo del nuovo
regolamento 20.07.2016 (Regolamento per
l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità
nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 06.11.2012, n.
190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui
all’art. 211 del decreto stesso)
sull’attività consultiva varato dall’Autorità anticorruzione
guidata da Raffaele Cantone, in vigore dal 20 agosto scorso.
Le nuove regole, che sostituiscono quelle del gennaio 2015,
sono più stringenti circa l’argomento sul quale si chiede un
parere all’Anac. Una lista dettagliata individua tutti i
casi di inammissibilità della richiesta, allo scopo di
evitare domande generiche, fuori tema o, peggio ancora,
strumentali.
In questo modo, l’Anac conta di raggiungere due obiettivi.
Il primo è quello di eliminare all’origine le richieste
inutili che ingolfano il servizio Precontenzioso e Affari
giuridici (nel 2015 sono arrivate 1.166 richieste di parere,
cui però sono seguiti solo 290 pareri effettivamente
pertinenti e ammissibili). Ma soprattutto si liberano tempo
e risorse per l’attività consultiva che il nuovo codice
assegna all’Anac nell’architettura della soft law.
«Questo
regolamento -spiega Raffaele Cantone- è espressione
dell’idea che sta sempre più diventando tipica dell’Autorità
di una logica collaborativa con le amministrazioni e con gli
interlocutori anche non pubblici ma che hanno un
collegamento diretto con le amministrazioni».
Cantone ricorda anche che su questa funzione dell’Authority,
nel nuovo codice c’è «un fondamento più forte dal punto di
vista normativo perché l’articolo 213 prevede espressamente
una attività generica, innominata, direi, di ausilio alle
stazioni appaltanti nell’ottica del rispetto delle regole».
«Noi riteniamo -aggiunte Cantone- che questa attività si
possa sviluppare oltre che con indicazioni di carattere
generale anche con indicazioni di carattere più specifico».
Novità in arrivo anche sui pareri di precontenzioso, cioè
quei pareri dell’Anac -vincolanti- sulle controversie
sorte durante la fase di gara. Il testo è ora al vaglio del
Consiglio di Stato. Cantone anticipa che questo regolamento
non tocca il delicato tema della cosiddetta
“raccomandazione”, cioè l’obbligo per la stazione appaltante
di ritirare il bando che presenti vizi di legittimità.
«Pur
essendo stabilita quella ipotesi accanto al precontenzioso -spiega Cantone- noi la regoleremo nell’ambito dell’attività
di vigilanza». E aggiunge: «Questo potere di raccomandazione
vincolante, che prevede anche una sanzione a carico dei
pubblici dipendenti, è una questione oggetto di molte
critiche» (articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2016). |
APPALTI: Pronto,
risponde Cantone. In g.u. regolamento sull'attività
consultiva dell'Anac.
Pronto, risponde Cantone. L'Autorità nazionale
anticorruzione, presieduta appunto da Raffaele Cantone,
mette nero su bianco le regole per lo svolgimento della
funzione consultiva.
Lo fa con il
regolamento 20.07.2016 (Regolamento per
l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità
nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 06.11.2012, n.
190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui
all’art. 211 del decreto stesso), pubblicato ieri sulla
Gazzetta Ufficiale n. 192.
In base al provvedimento, l'Autorità svolge attività
consultiva finalizzata a fornire orientamenti in ordine a
particolari problematiche interpretative e applicative poste
dalla legge 06.11.2012, n. 190 e dai suoi decreti
attuativi, nonché indirizzi al mercato vigilato sulla
corretta interpretazione e applicazione della normativa in
materia di contratti pubblici con riferimento a fattispecie
concrete.
L'attività consultiva è esercitata: quando la
questione di diritto oggetto della richiesta ha carattere di
novità; quando la soluzione alla problematica giuridica
sollevata può trovare applicazione a casi analoghi; quando
la disposizione normativa oggetto della richiesta presenta
una particolare complessità; quando la richiesta sottoposta
all'Autorità presenta una particolare rilevanza sotto il
profilo dell'impatto socio-economico; quando i profili
problematici individuati nella richiesta per l'esercizio
dell'attività di vigilanza e/o in relazione agli obiettivi
generali di trasparenza e prevenzione della corruzione
perseguiti dall'Autorità, appaiono particolarmente
significativi.
Possono rivolgersi all'Anac le pubbliche
amministrazioni, gli enti di diritto privato che svolgono
attività di pubblico interesse nonché le stazioni
appaltanti, i soggetti privati o portatori di interessi
collettivi costituiti in associazioni o comitati, gli
operatori economici che partecipano a gare per l'affidamento
di contratti pubblici. La richiesta di parere va fatta
preferibilmente mediante utilizzo di posta elettronica (un
modulo è allegato al Regolamento).
Al bando richieste che
non riguardano fattispecie specifiche, o interferenti con
esposti di vigilanza, atti di regolazione a valenza
generale, comunque denominati, e procedimenti sanzionatori
in corso di istruttoria presso l'Autorità, o che hanno
contenuto generico. I pareri sono pubblicati sul sito
internet dell'Autorità
(articolo ItaliaOggi del 19.08.201). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Se
c'è utile per il privato deve esserci una gara.
Delibera Anac sull'applicazione dell'art. 20
del nuovo codice.
La realizzazione di un'opera pubblica a spese di un privato
è possibile soltanto se manca qualsiasi utilità a favore del
privato stesso e se quindi si configura come atto di
liberalità e gratuità, senza oneri pubblici.
Lo afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il
parere sulla normativa n. 763 del 16.07.2016 - rif. AG
25/2016/AP che affronta alcuni
interessanti profili interpretativi e applicativi
dell'articolo 20 del nuovo codice dei contratti pubblici.
Il
caso oggetto della delibera riguardava la realizzazione di
un intervento sulla viabilità nel comune di Segrate, a
servizio della realizzazione di un centro commerciale;
l'opera pubblica che il privato (realizzatore del centro
commerciale) intendeva prendersi in carico aveva un valore
di oltre 160 milioni, da cui andavano esclusi circa 20
milioni concernenti gli oneri per l'acquisto delle aree.
A fronte della proposta dell'operatore privato la regione ha
chiesto all'Autorità se la procedure (che poggiava
sull'articolo 20 del codice dei contratti pubblici) potesse
essere ritenuta legittima anche in riferimento al fatto che
si trattava di un'opera ricadente nella legge obiettivo e
approvata con delibera Cipe del 2013.
L'Autorità risponde nettamente: «L'istituto contemplato
dall'articolo 20 del Codice non può trovare applicazione nel
caso in cui la convenzione stipulata tra amministrazione e
privato abbia a oggetto la realizzazione di opere pubbliche
da parte di quest'ultimo in cambio del riconoscimento in suo
favore di una utilità, con conseguente carattere oneroso
della convenzione stessa».
In sostanza, dice la delibera, è
la presenza della controprestazione a favore del privato che
fa sì che si finisca nella categoria dell'appalto pubblico e
quindi nella necessità di affidamento tramite procedura di
gara. E la presenza di un'utilità «deve ritenersi sussistere
in qualunque caso in cui, a fronte di una prestazione, vi
sia il riconoscimento di un corrispettivo che può essere, a
titolo esemplificativo, in denaro, ovvero nel riconoscimento
del diritto di sfruttamento dell'opera (concessione) o
ancora mediante la cessione in proprietà o in godimento di
beni. In tal caso la convenzione ha natura contrattuale».
La conseguenza dell'obbligo di gara dipende quindi dalla
presenza, nell'accordo negoziale fra amministrazione e
privato, nell'attribuzione a quest'ultimo di una
autorizzazione all'apertura di una attività commerciale che
si estrinseca nel «riconoscimento di diritti suscettibili
di valutazione economica» a loro volta qualificabile
come corrispettivo.
Da ciò la necessità di ricondurre la fattispecie specifica «nella
categoria dell'appalto pubblico di lavori, da ciò derivando,
come necessario corollario, il rispetto delle procedure ad
evidenza pubblica previste nel Codice» e quindi
l'impossibilità di applicare l'articolo 20 del decreto
50/2016 sulla realizzazione di un'opera pubblica a spese del
privato che invece si caratterizza come atto di pura «liberalità
e di gratuità».
Anche richiamando il parere del Consiglio di stato sullo
schema di decreto legislativo (che poi è divenuto il decreto
50/2016) l'Autorità chiarisce che comunque va rispettato il
principio per cui il privato deve procedere all'affidamento
dei lavori a terzi e, in particolare, a un soggetto
qualificato all'esecuzione di lavori pubblici
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2016). |
APPALTI: Gare,
ammissioni a ostacoli. Il 78% delle sanzioni riguarda
irregolarità sui requisiti. Il dato
reso noto dell'Authority anticorruzione. Procedimenti in
aumento del 35%.
Il 78% delle sanzioni irrogate dall'Anac a imprese e
professionisti partecipanti ad affidamenti pubblici riguarda
le dichiarazioni sul possesso dei requisiti di ammissione
alla gara, rispetto all'anno precedente i procedimenti sono
aumentati del 35%.
È questo il dato che segnala l'Autorità nazionale
anticorruzione nella
relazione presentata al Parlamento
il 14.07.2016 e relativa all'anno 2015.
Il riferimento è ai procedimenti sanzionatori irrogati a
seguito della vigilanza concernete lo svolgimento delle
procedure di affidamento di contratti pubblici per la quale
il numero di procedimenti sanzionatori definiti
dall'Autorità nell'anno 2015 è stato pari a 772 (+35%
rispetto ai 571 dell'anno 2014).
Nella maggior parte dei
casi (74,2%), il procedimento è derivato da violazioni
dell'art. 38 del Codice dei contratti pubblici (oggi
articolo 80 del decreto legislativo 50/2016, il nuovo codice
dei contratti pubblici) per falsa dichiarazione sul possesso
dei requisiti di ordine generale; mentre solo il 10,5% ha
riguardato procedimenti di controllo sul possesso dei
requisiti di ordine speciali in base al sorteggio sul 10%
degli offerenti e sull'aggiudicatario e secondo classificato
(art. 48 del «Codice De Lise», decreto 163/2006) per falsa
dichiarazione e il 13,5% gli inadempimenti agli obblighi
informativi nei confronti dell'Autorità, di cui all'art. 6,
commi 9 e 11, sempre del «Codice De Lise».
L'importo
complessivo delle sanzioni irrogate nell'anno 2015 è stato
pari a 513.000 euro, con una media delle sanzioni, dei
procedimenti ex art. 38, di circa 1.800 euro, di entità
inferiore rispetto a quello di 2.500 euro per i procedimenti
ex art. 48). Valori molto più contenuti delle sanzioni sono
stati irrogati per le violazioni degli adempimenti
informativi nei confronti dell'Autorità (mediamente 250
euro).
Questa rilevante differenza concernente l' entità
delle sanzioni si spiega –dice l'Anac– con la
considerazione che le violazioni agli obblighi informativi
nei confronti delle stazioni appaltanti, nella prevalenza
dei casi, sono state commesse da funzionari o dirigenti
pubblici nelle vesti di Rup (Responsabili unici del
procedimento), mentre quelle di importo maggiore hanno
invece riguardato soggetti che hanno partecipato alle gare e
che sono destinatari, in applicazione dell'articolo 6, comma
8, del vecchio Codice, di una sanziona che rimane sempre
commisurata al valore del contratto pubblico cui la
violazione si riferisce.
I procedimenti sanzionatori
determinati da carenze sui requisiti di ordine generale sono
stati caratterizzati mediamente da sanzioni di minori
importo e periodo (1.800 euro e 1,5 mesi) in cui opera
l'interdizione, rispetto a quelli ex art. 48 (2.500 euro e
2,5 mesi).
L'Anac segnala anche che, per effetto di una
carente capacità tecnica e/o economico-finanziaria, i
partecipanti alle gare «hanno minori attenuanti da invocare
per motivare la falsa dichiarazione resa, risultando ben
circoscritto il perimetro oggettivo di quanto oggetto di
dimostrazione, e suscettibile esclusivamente di difficoltà
interpretative causate dall'equivocità delle clausole del
bando di gara nella determinazione e nella quantificazione
dei parametri di prova delle capacità tecniche richieste ai
concorrenti».
È invece del tutto diverso il quadro delle
sanzioni inerenti le carenze dei requisiti di ordine
generale, per i quali sono molteplici i motivi che attenuano
l'entità della colpa nel rilascio della mendace
dichiarazione (difficoltà interpretative della norma,
carenti previsioni di bando nel formulare la relativa
dichiarazione sostitutiva, evoluzioni normative, complessità
delle materie trattate)
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
a contratto con limiti. Non basta la conoscenza personale
per ottenere il lavoro. Per la Corte
dei conti ci devono essere motivazioni oggettive nella
scelta del candidato.
Costituisce danno erariale affidare incarichi a contratto di
direzione degli uffici comunali previsti dall'articolo 110
del dlgs 267/2000 senza alcuna motivazione di carattere
oggettivo sulla scelta del destinatario.
La Corte dei
Conti, Sez. giurisdizionale della Calabria, con la
sentenza 04.08.2016 n. 193,
fornisce chiarimenti estremamente utili per comprendere i
limiti di applicazione degli incarichi a contratto negli
enti locali, smentendo in maniera netta l'idea che allo
scopo sia sufficiente la conoscenza personale tra
amministratori ed incaricato.
Nel caso di specie, la Corte dei conti ha censurato un
incarico non di qualifica dirigenziale per la direzione del
settore ragioneria di un ente, assegnato allo scopo di
coprire la vacanza d'organico determinata dalla concessione
della mobilità al precedente responsabile.
I giudici contabili hanno stigmatizzato l'urgenza di coprire
il posto vacante mediante l'incarico a contratto,
evidenziando che detta esigenza è stata causata direttamente
dalla scelta di far trasferire il precedente responsabile
verso altra sede.
Soprattutto, comunque, la censura colpisce il sistema di
reclutamento dell'interessato, basatosi esclusivamente sulla
fiducia e la conoscenza personale, senza attivare nemmeno
una minima procedura pubblica.
La Corte dei conti riconosce che l'articolo 110, specie nel
testo antecedente alla riforma operata col dl 90/2014,
prevede limitati spazi alla fiduciarietà, ma sottolinea che
«nell'individuazione dei soggetti cui conferire un
incarico ai sensi di tale articolo di legge siano
insuperabili i fondamentali canoni di legittimità,
imparzialità e buon andamento, ai sensi dell'articolo 97
della Costituzione, in ragione dei quali, pur essendo insiti
in tali procedure il carattere della discrezionalità e un
margine più o meno ampio di fiduciarietà, è indispensabile
che le amministrazioni assumano la relativa determinazione
con una trasparente e oggettiva valutazione della
professionalità del soggetto affidatario che non può basarsi
su valutazioni meramente soggettive (per esempio, conoscenza
diretta), ma deve essere ancorata quanto più possibile a
circostanze oggettive».
La sentenza richiama anche fondamentali pronunce della Corte
costituzionale (sentenze n. 103 e 104 del 2007 e sentenza n.
161 del 2008), evidenziando che la giurisprudenza della
Consulta esclude in modo pacifico l'esistenza di una «dirigenza
di fiducia», ritenendo, quindi, impossibile interpretare
la normativa vigente «nel senso di ammettere la scelta
discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all'ente
cui conferire gli incarichi». Conseguentemente, secondo
la Corte dei conti, l'individuazione del soggetto cui
conferire incarichi a contratto deve rispettare la necessità
di preventive forme di pubblicità per assicurare la
trasparenza, insieme con procedure comparative che possono
anche non essere «concorsuali», ma tali da garantire
una procedimentalizzazione dell'iter da seguire per
reclutare l'incaricato a contratto.
Il tutto, quindi, impone di ancorare scelte discrezionali «a
parametri quanto più possibili oggettivi e riscontrabili»:
allo scopo la magistratura contabile ritiene opportuno che
le amministrazioni si dotino preventivamente di un sistema
di criteri generali per l'affidamento, il mutamento e la
revoca degli incarichi, sempre allo scopo di assicurare
trasparenza e riduzione del contenzioso.
L'incarico, invece, è stato assegnato in spregio alle
indicazioni oggi per altro meglio specificate nell'articolo
110, comma 1, del Tuel, che impone espressamente una
selezione pubblica. Da qui la colpa grave riconosciuta in
capo agli amministratori, dovuta anche alla circostanza
dell'assenza di una previa indagine sull'impossibilità di
far fronte al fabbisogno mediante le professionalità
interne.
La sentenza si segnala, ancora, perché chiarisce la
differenza tra incarichi a contratto entro la dotazione
organica, previsti dal comma 1 dell'articolo 110, e quelli
extra dotazione, regolati dal comma 2. Richiamando pronunce
delle sezioni riunite della Corte dei conti (delibere 12 e
13 del 2011) la sezione Calabria precisa che il comma 2 è
finalizzato solo «a sopperire ad esigenze gestionali
straordinarie che, sole, determinano l'opportunità di
affidare funzioni, anche dirigenziali, extra ordinem e
quindi al di là delle previsioni della pianta organica
dell'ente locale»
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2016).
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MASSIMA
1. La Corte è chiamata a pronunciarsi in merito ad un’ipotesi
di danno erariale perpetrato nei confronti del Comune di Molochio da parte del Sindaco, del Vice Sindaco, degli
amministratori Mi. e Ca. e del dott. Mu.An.
per il conferimento dell’incarico di “istruttore direttivo
categoria responsabile dell’Area Finanziaria”, con contratto
individuale di diritto pubblico a tempo parziale e
determinato al predetto dott. Mu., dal settembre 2012 e
sino al 31.12.2012, prorogato negli anni 2013 e 2014 e sino
al 30.06.2015, con decreti sindacali, e dal conferimento con
deliberazione G.M. n. 71 del 17.09.2012 dell’incarico esterno
per “elaborazione stipendi ai dipendenti” per il periodo
settembre–dicembre 2012, con la conseguente corresponsione
al predetto degli emolumenti previsti dall’art. 2 del
contratto individuale di lavoro a tempo parziale determinato
del 17.09.2012, nonché del compenso di € 2.000 oltre IVA e
CAP, per l’incarico di consulente esterno, incarichi
conferiti senza l’espletamento di procedure selettive o
comparative.
Il danno, quantificato dalla Procura Regionale in euro
60.365,31, corrispondenti agli oneri a carico del bilancio
del Comune di Molochio per la retribuzione del dott. Mu.
dalla costituzione del rapporto di lavoro fino alla sua
cessazione avvenuta il 30.06.2015, è così ripartito: €
40.276,31 quale emolumenti stipendiali a carico del Sindaco
Be.Al. e del vice sindaco Mi.Fr., €
18.879 al dott. Mu., per rimborso spese di viaggio; €
1.210 a carico di Ca.Ga. e Mi.Fr., cui
va aggiunta la somma di € 7.859,63 di cui 1.166,20 a titolo
di rimborso spese ed € 6.693,43, per emolumenti stipendiali
erogati al Mu. nel 2015.
2. Tanto precisato, va affrontata preliminarmente l’eccezione
di carenza di giurisdizione di questo giudicante.
Secondo la difesa del Mu., la Corte dei Conti non
sarebbe dovuta intervenire nella valutazione di un
“contratto di diritto privato” di tipo
fiduciario –formalmente valido ed efficace- essendo precluso
alla Corte un sindacato di legittimità degli atti adottati
dagli organi degli enti in base alla normativa vigente in
materia di conferimento di incarichi ad esterni, sul quale
il giudice penale è pure intervenuto con il provvedimento di
archiviazione nei confronti degli odierni convenuti.
Tali asserzioni non sono condivisibili, rientrando la
responsabilità contabile tra quelle in cui astrattamente può
incorrere il pubblico dipendente nell’esercizio delle
pubbliche funzioni, con le quali quindi può concorrere, non
sussistendo alcuna interferenza tra il giudizio della Corte
dei Conti e quello penale che possono procedere
parallelamente sin dalla verificazione del fatto pluri-illecito, non rinvenendosi alcuna pregiudiziale penale
all’azione giuscontabile, salvo i limiti stabiliti dagli
artt. 651-653 c.p.c..
In materia di pubblico impiego, la generale applicabilità
dell’attuale regime di responsabilità
amministrativo-contabile a tutti i dipendenti pubblici, non
solo statali, anche dopo l’intervenuta “privatizzazione” del
rapporto di impiego pubblico, è confermata da settoriali
previsioni, tra cui l’art. 55 del d.lgs. 30.03.2001 n.
165 (per i dipendenti di cui all’art. 2, comma 2, resta ferma
la disciplina attualmente vigente in materia di
responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile
per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), l’art. 93
del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (per gli amministratori e
per il personale degli enti locali si osservano le
disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli
impiegati civili dello stato).
Per quanto concerne la tematica del conferimento degli
incarichi a soggetti esterni alle pubbliche amministrazioni,
la disciplina a partire dagli anni 2000 si è arricchita con
interventi settoriali nell’intento da parte del legislatore
di assicurare che il ricorso alle collaborazioni esterne
avvenisse esclusivamente ove necessario (art. 380 del DPR
10.01.1957 n. 3 e per gli enti locali nell’art. 51, comma 7,
della legge 08.06.1990 n. 142; d.lgs. 165/2001; art. 110 TUEL
267/2000; legge 244/2007; art. 46 dl n.11272008 conv. L.
133/2008; L. 150/2009; L. 190/2014; CCNL).
Al riguardo le sezioni riunite della Corte con la delibera
15.02.2005 n. 6 contenente “Le linee di indirizzo e d i
criteri interpretativi sulle disposizioni della legge
n. 266/2005" hanno precisato la differenza tra le varie
tipologie di incarico, distinguendo anche l’articolazione
della Corte dei conti competente, l’oggetto e la tipologia
dell’incarico.
Sul piano procedurale, hanno poi precisato
che “l’affidamento dell’incarico deve essere preceduto da
una accertamento reale, che coinvolge la responsabilità del
dirigente competente, sull’assenza dei servizi o di
professionalità interne all’ente, che siano in grado di
adempiere l’incarico". A siffatto adempimento deve seguire
un atto di affidamento dell’incarico in cui siano
adeguatamente precisati “i contenuti, ed i criteri per lo
svolgimento dell’incarico, la durata dello stesso, una
proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e
l’utilità conseguita dall’amministrazione".
L’art. 3, comma 57, della legge 244/2007 colloca inoltre il
regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi
quale parametro normativo ove disciplinare il conferimento
degli incarichi. Tale disposizione, inoltre, assegna alla
Corte dei conti l’esame, a monte dello stesso regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, in parte qua
nonché a valle, l’esame inerente la conformità
dell’affidamento dell’incarico.
La Sez. Autonomie (del. Del 24.04.2008) ha precisato
“…In relazione alla natura dell’atto, il controllo della
Corte, secondo l’orientamento della Corte Costituzionale, è
ascrivibile alla categoria del riesame di legalità e
regolarità, in una prospettiva non più statica ma dinamica,
volto a finalizzare il confronto tra la fattispecie e
parametro normativo all’adozione di effettive misure
correttive….Al parametro delle disposizioni regolamentari
vanno altresì assunti i limiti normativi di settore ed in
particolare l’art. 7 del d.lgs. 165/2001 e (l’art. 88
Titolo IV Organizzazione e Personale contenente l'esplicito
richiamo alla normativa in materia di pubblico impiego)
l’art. 110 del d.lgs. n. 267/2000. Va ricordato che le norme
da ultimo richiamate hanno un particolare valore per avere positivizzato principi affermati da una giurisprudenza ormai
univoca, quali presupposti essenziali per il ricorso agli
incarichi esterni; essi costituiscono regole di
organizzazione, non derogabili da disposizioni
regolamentari ed, in gran parte, neppure da norme di rango
superiore, in quanto trovano fondamento in principi
costituzionali…”.
L’esame della Corte in merito al
conferimento degli incarichi esterni ha trovato inoltre
elaborazione in occasione dei pareri richiesti dagli enti
locali ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131 del
2003.
In questo contesto la Corte ha avuto occasione di
affermare che per “l’assegnazione degli incarichi esterni va
prevista una procedura comparativa per la valutazione dei curricula con criteri predeterminati, certi e trasparenti,
in applicazione dei principi di buon andamento e
imparzialità dell’amministrazione sanciti dall’art. 97 Cost.
e pertanto l’assegnazione diretta deve rappresentare
un’eccezione, da motivarsi, di volta in volta, nella singola
determinazione d’incarico, con riferimento all’ipotesi in
concreto realizzatasi e può considerarsi legittima solo ove
ricorra il requisito della “particolare urgenza” connessa
alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico,
oppure quando l’amministrazione dimostra di avere necessità
di prestazioni professionali tali da non consentire forme di
comparazione con riguardo alla natura dell’incarico,
all’oggetto della prestazione, ovvero alle
abilità/conoscenza/qualificazioni dell’incaricato” (Corte
conti sez. Trentino A.A. 19.04.2010; Corte conti sez.
Lombardi 04.04.2012 n. 123).
In tale contesto normativo e giurisprudenziale, appare del
tutto ultroneo il richiamo della difesa alla natura
dell’atto di conferimento (contratto di diritto pubblico o
contratto di diritto privato) per inferirne l’assenza o meno
della giurisdizione della Corte dei Conti.
Infatti, la tesi si colloca sulle orme di indirizzi
dottrinali e giurisprudenziali secondo cui la stipulazione
di un contratto di diritto pubblico implica l’applicazione
delle norme di diritto pubblico per le modalità di
reclutamento del dirigente, quanto per la disciplina del
rapporto di lavoro. Se il rapporto fosse di diritto privato,
ciò stava a significare che i l rapporto di lavoro dovesse
essere disciplinato esclusivamente dal codice civile e dal
contratto individuale. Nel caso di assunzione con contratto
di diritto pubblico (peraltro espressamente richiamato negli
atti contestati), esso doveva avvenire soltanto per concorso
pubblico; mentre gli enti locali qualora avessero inteso
assumere un dirigente con contratto di diritto privato,
l’ente locale avrebbe potuto ricorrere a forme di
reclutamento diverse, all’interno della propria capacità
negoziale di diritto privato.
Tale tesi è infondata, in quanto l’art. 2, comma 2, primo
periodo del d.lgs. 165/2001 prevede che “i rapporti di
lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono
disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del
libro V del codice civile e dalle leggi sul rapporto di
lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse
disposizioni contenute nel presente decreto, che
costituiscono disposizioni di carattere imperativo" e il
primo periodo del successivo comma 3 del medesimo articolo: ”I rapporti individuali di lavoro di cui al comma 2 sono
regolati contrattualmente”.
Così come previsto dall’art. 3 del TUPI e con la sola
eccezione di alcuni rapporti di lavoro, tutti gli altri sono
regolati da un contratto e sono pertanto tutti contratti di
“diritto privato”, in quanto la loro fonte di costituzione e
di regolazione è privatistica e non pubblicistica.
Ora tale
dicotomia (contratti di diritto pubblico / diritto privato)
è superata dal nuovo art. 110 del TUEL che, anche in
relazione alla sostanziale privatizzazione del rapporto
degli enti locali, non fa più riferimento al contratto di
diritto pubblico, prevedendo al comma 1 solo che “…la
copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli
uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo
determinato…”.
Occorre pertanto una previsione statutaria
assieme al vincolo del regolamento sull’ordinamento degli
uffici e dei servizi per coprire i posti dei responsabili
degli uffici e dei servizi. Infatti il soggetto da
incaricare attraverso contratto come dirigente deve essere
in possesso dei requisiti richiesti per la qualifica da
ricoprire e va individuato ricorrendo a selezione pubblica,
"volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il
possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica
professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
Negli enti locali in cui non è prevista la dirigenza, il
regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi
dovrà stabilire i limiti i criteri e le modalità in cui
possono essere stipulati, al di fuori della dotazione
organica, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte
specializzazioni o funzionari dell’area direttiva, fermi
restando i requisiti richiesti per la qualifica da
ricoprire, ma “solo in assenza di professionalità analoghe
presenti all’interno dell’ente”.
Su tali principi e regole converge anche la giurisprudenza
amministrativa la quale, con riferimento alla questione se
la selezione pubblica ex art. 110, comma 1, del TUEL “volta ad
accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di
comprovata esperienza pluriennale e specifica
professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”, pur
non avendo natura concorsuale, è ugualmente sottoposta ai
principi di parzialità, trasparenza e par condicio, ritenuti
inderogabili nella fattispecie, in quanto derivanti da norme
costituzionali (art. 97, commi 2 e 4 Cost.) e dai principi
generali dell’ordinamento (art. 1, comma 1, L. 241/1990), ha
affermato che “pur ribadendo la natura privatistica degli
atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, è stato
evidenziato che, le norme contenute nell’art. 19, comma 1, d.lgs.
n.165/2001, obbligano l’Amministrazione datrice di
lavoro al rispetto di criteri di massima in esse indicati,
anche per il tramite delle clausole generali di correttezza
e di buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla
stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di
cui all’art. 97 Cost., tali norme obbligano la p.a. a
valutazioni anche comparative, all’adozione di adeguate
forme di partecipazione ai processi decisionali e ad
esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove
pertanto, l’Amministrazione non abbia fornito nessun
elemento circa i criteri e le motivazioni seguite nella
scelta dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli
incarichi da conferire, è configurabile inadempimento
contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile"
(TAR Umbria Sez. I, n. 192 del 30.4.2015; Corte cass.
N. 9814/2008; Cass. N. 2874/2008; Cass. Sez. Lav.
N. 7495/2015).
Sempre in materia, secondo la giurisprudenza amministrativa,
l’art. 110 TUEL nel consentire agli enti locali incarichi di
responsabilità dirigenziale con contratti a tempo
determinato, non li esonera dallo svolgere procedure
concorsuali (TAR Campania Sez. V n. 7887/2002; TAR Toscana
Sez. I, n. 6578/2010; TAR Piemonte Sez. II n. 362/2012; TAR
Sicilia Sez. II n. 2465/2012).
Diversamente opinando, ovvero qualificando la selezione di
cui all’art. 110, comma 1, TUEL quale scelta “intuitu personae”, risulterebbe dubbia la compatibilità
costituzionale della norme in riferimento all’art. 97, commi
2 e 4 Cost., dal momento che il conferimento degli incarichi
dirigenziali ad esterni all’Amministrazione comporterebbe,
in quanto costitutivo di un rapporto di pubblico impiego,
una aperta deroga al principio costituzionale dell’accesso
tramite pubblico concorso, valevole anche per le assunzioni
a tempo determinato (Cost. n. 73/2013; C.d.S VI
n. 543172014) non sorretta da esigenze di buon andamento e
straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a
giustificarla (ex multis Corte cost. n.137/2013; id n.
205/2006; nn. 297,363 e 448 del 2006 etc.).
L’eccezione va pertanto disattesa.
3. Nel merito, la domanda è fondata, provata e merita
accoglimento.
Ai fini del corretto inquadramento della vicenda in esame,
occorre richiamare l’art. 110, commi 1, 2 e 3 del TUEL, D.lgs.
n. 267/2000 –nel testo precedente le modifiche
apportate dal D.L. 24.06.2014, n. 90– che disciplina i
cd “incarichi a contratto”: "1. Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di
responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche
dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire
mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico
o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto
privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla
qualifica da ricoprire;
2. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza,
stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della dotazione organica,
contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte
specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per
la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in
misura complessivamente non superiore al 5 per cento del
totale della dotazione organica della dirigenza e dell’area
direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti,
il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi
stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo
in assenza di professionalità analoghe presenti all’interno
dell’ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte
specializzazioni o funzionari dell’area direttiva, fermi
restando i requisiti richiesti per la qualifica da
ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura
complessivamente non superiore al 5 per cento della
dotazione organica dell’ente arrotondando il prodotto
all’unità superiore, o ad una unità negli enti con una
dotazione organica inferiore alle 20 unità;
3. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere
durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del
presidente della provincia in carica. Il trattamento
economico, equivalente a quello previsto dai vigenti
contratti collettivi nazionali e decentrati per il personale
degli enti locali, può essere integrato, con provvedimento
motivato della giunta, da una indennità ad personam,
commisurata alla specifica qualificazione professionale e
culturale, anche in considerazione della temporaneità del
rapporto e delle condizioni di mercato relative alle
specifiche competenze professionali. Il trattamento
economico e l’eventuale indennità ad personam sono definiti
in stretta correlazione con il bilancio”.
La norma precedente (109) nel disciplinare il conferimento
degli incarichi per l’attribuzione di funzioni direttive in
capo ai dipendenti già appartenenti all’ente, stabilisce che
questi sono affidati a tempo determinato con provvedimento
motivato e che “L’attribuzione degli incarichi può
prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di
direzione a seguito di concorsi”. Inoltre nei comuni privi
di personale con qualifica dirigenziale, le funzioni
“direttive” possono essere attribuite, con provvedimento del
Sindaco, “ai responsabili degli uffici e dei servizi
indipendentemente dalla loro qualifica funzionale”.
Alla luce del riportato testo normativo, appare ora
necessario esaminare le due distinte previsioni di cui al
primo ed al secondo comma del citato art. 110.
Il diverso ambito di applicazione delle due ipotesi, oltre a
risultare evidente dal dato letterale, riferendosi un caso
di copertura di posti di responsabile di area
economico-finanziaria “già in organico”, l’altro ai
contratti a tempo determinato stipulati “al di fuori della
dotazione organica”, è chiarito anche dalle SS.RR. di questa
Corte che in sede di controllo (Del. nn. 12 e 13 del 2011)
si sono pronunciate in ordine alla diretta applicabilità
agli enti territoriali, limitatamente al conferimento degli
incarichi dirigenziali a contratto previsti dall’art. 110,
comma 1 TUEL, delle disposizioni contenute nell’art. 19,
commi 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2011 ed hanno avuto modo di
definire quella al comma 2 come “una fattispecie del tutto
diversa da quella disciplinata dal comma precedente, in
quanto volta a sopperire ad esigenze gestionali
straordinarie che, sole, determinano l’opportunità di
affidare funzioni, anche dirigenziali, extra ordinem e
quindi al di là delle previsioni della pianta organica
dell’Ente locale”.
Tanto precisato, il caso in esame risulta più correttamente
riconducibile al comma 1 dell’art. 110, riferendosi
all’affidamento di un posto di funzioni già previsto in
pianta organica.
Infatti, la riconducibilità del caso di specie all’ipotesi
disciplinata al comma 1 dell’art. 110 del TUEL è peraltro
affermata –contraddittoriamente con le motivazioni dei
decreti sopra richiamati e con le prospettazioni difensive
opposte nell’odierno giudizio– nello stesso iniziale
decreto sindacale del 17.09.2012 di conferimento
dell’incarico al dott. An.Mu. ove si legge “premesso che con decorrenza dal
01.12.2011 per
trasferimento in mobilità del dipendente Sc.Se.,
inquadrato in categoria D, si è reso vacante il posto di
Istruttore direttivo area finanziaria responsabile del
servizio, previsto nella pianta organica vigente per come
rideterminata con delibera della Giunta Municipale n. 28 del
26.02.2009; …Ritenuta la necessità di coprire
immediatamente il posto rimasto vacante onde garantire la
continuità del fondamentale servizio finanziario e gli
adempimenti propri del servizio medesimo, il cui tempestivo
adempimento è indispensabile per ogni attività
amministrativa dell’Ente; Considerato che per conoscenza
diretta o per altre informazioni assunte lo stesso a dott. An.Mu.……..risulta essere in possesso dei requisiti
richiesti dalla qualifica di Istruttore Direttivo Contabile
categoria D….”.
Tali motivazioni si rinvengono nei successivi decreti
sindacali di rinnovo dell’incarico al dott. Mu., negli
anni 2013, 2014 e 2015 (giugno).
Pertanto, rientrando la fattispecie in esame nell’ambito di
applicazione del comma 1 dell’art. 110 TUEL, molteplici
appaiono i profili di illegittimità che hanno caratterizzato
la condotta dei convenuti.
Comunque, anche prescindendo dal fatto che si applichi al
caso di specie il comma 1 e non il comma 2 dell’art. 110 del
TUEL, è indubbio che nell’individuazione dei soggetti cui
conferire un incarico ai sensi di tale articolo di legge
siano insuperabili i fondamentali canoni di legittimità,
imparzialità e buon andamento, ai sensi dell’articolo 97
della Costituzione, in ragione dei quali, pur essendo insiti
in tali procedure il carattere della discrezionalità ed un
margine più o meno ampio di fiduciarietà, è indispensabile
che le amministrazioni assumano la relativa determinazione
con una trasparente ed oggettiva valutazione della
professionalità del soggetto affidatario che non può basarsi
su valutazioni meramente soggettive (es. conoscenza diretta),
ma deve essere ancorata quanto più possibile a circostanze
oggettive.
L’esigenza di operare scelte discrezionali, ancorate a
parametri quanto più possibili oggettivi e riscontrabili,
evidenzia l’opportunità che le amministrazioni si dotino
preventivamente di un sistema di criteri generali per
l’affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi. Ciò
al fine di consolidare anche in questo ambito la trasparenza
e ridurre le possibilità di contenzioso.
Tale convincimento si fonda anche su costante giurisprudenza
della Corte Costituzionale (sentenze n. 103 e 104 del 2007 e
sentenza n. 161 del 2008) che ha espresso un
chiaro
orientamento volto ad escludere l’esistenza di una “dirigenza
di fiducia” e dunque la possibilità di un’interpretazione
della normativa vigente nel senso di ammettere la scelta
discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all’ente
cui conferire gli incarichi, nonché la necessità di forme di
pubblicità che assicurino la trasparenza, procedure
comparative anche non concorsuali, richiedendo quindi una procedimentalizzazione dell’iter da seguire.
Con riferimento al caso di specie gli odierni convenuti,
ciascuno secondo il ruolo ricoperto nell’adozione dei
decreti di incarico hanno, invece, determinato il
conferimento diretto dell’incarico ad personam al Mu.,
senza avere preventivamente fissato i criteri per la
selezione e valutazione dei curricula dei potenziali
aspiranti né adottato misure di pubblicità, ma effettuando
tale scelta sulla base di una valutazione personale
ampiamente discrezionale.
Appare dunque, in assenza di idonea motivazione, del tutto
irragionevole, quasi al limite della contraddittorietà, la
scelta operata dal Sindaco, di affidare ad un soggetto
estraneo all’Amministrazione le funzioni di Responsabile
dell’Area Economico-Finanziaria del Comune di Molochio.
L’illegittimità si coglie a piene mani considerando che –come si evince dalle premesse degli stessi decreti sindacali-
la scelta del ricorso all’esterno
dell’organizzazione comunale è stata determinata
dall’adozione di due provvedimenti amministrativi: il
trasferimento per mobilità del responsabile dell’Area
Finanziaria e la rideterminazione della pianta organica.
L’art. 34-bis (Disposizioni in materia di mobilità di
personale) –richiamato dalla procura- prevede che “Le
amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 comma 2 (…),
prima di avviare le procedure di assunzione di personale,
sono tenute a comunicare ai soggetti di cui all’art. 34
commi 2 e 3, l’area, il livello e la sede di destinazione
per i quali si intende bandire il concorso nonché, se
necessario, le funzioni e le eventuali specifiche idoneità
richieste” al fine di agevolare l’assunzione di personale
(già) collocato in disponibilità, prescrivendo al successivo
comma 5 che “Le assunzioni effettuate in violazione del
presente articolo sono nulle di diritto”.
Nel caso di specie, nulla risulta al riguardo.
Nel provvedimento è richiamata la deliberazione della G.M.
n. 28 del 26.02.2009 di approvazione della pianta
organica dell’Ente per l’individuazione del posto in
organico da conferire al soggetto estraneo all’ente; invero,
con deliberazione n. 68 della G.M. del 05.09.2012 di poco
precedente l’incarico de quo, con determinazione n. 68 del
05.09.2012 la G.M. aveva ridisegnato l’assegnazione del
personale alle strutture amministrative comunali, allocando
tutto il personale presente nel settore amministrativo e
lasciando sprovvisto il settore Finanziario –privandolo
del supporto organizzativo indispensabile per l’espletamento
delle stesse funzioni– così determinando quella situazione
di “vacanza” di posti addotta a fondamento del successivo
conferimento dell’incarico a soggetto estraneo stante la
necessità di coprire immediatamente il posto rimasto vacante
onde garantire la continuità del fondamentale servizio
finanziario e gli adempimenti propri del servizio medesimo,
il cui tempestivo adempimento è indispensabile per ogni
attività amministrativa dell’Ente.
Dalla attenta disamina dei provvedimenti censurati
dall’organo requirente, non può non rilevarsi un ulteriore
profilo di illegittimità oltre che di contraddittorietà dei
provvedimenti di incarico nei quali viene espressamente
richiamato l’art. 17, comma 1, lettera a), del Regolamento
degli uffici e dei servizi, approvato con delibera della
G.M. n. 82 del 24.12.2004, mentre dal 2011 era vigente
un nuovo Regolamento degli Uffici e dei Servizi che non
prevedeva e non prevede la possibilità di coprire posti in
organico mediante contratti a tempo determinato, privi del
requisito della pubblica selezione.
Tale mancata previsione
è pure coerente con il Regolamento per l’accesso all’impiego
(adottato nel 2013 e quindi applicabile in sede di rinnovo
dell’incarico), che all’art. 1 recita “Il presente
regolamento disciplina le modalità di selezione per
l’accesso all’esterno alle posizioni di lavoro della
dotazione organica, con rapporto di lavoro a tempo
indeterminato e determinato ed a tempo pieno e parziale, in
applicazione degli artt. 35 e 36 del d.lgs. 30.03.2001
n. 165”.
Passando all’incarico affidato allo stesso Mu. con
deliberazione della G.M. n. 71 del 07.09.2012, consistente
nella “elaborazione di stipendi del personale del Comune”,
è
sufficiente richiamare gli stessi motivi di illegittimità e
contraddittorietà riscontrati nel conferimento del primo
incarico, aggravati dalla violazione dell’art. 7 TUPI nella
parte in cui “…impone lo svolgimento di procedure
comparative per l’affidamento di ogni incarico…” e
relativamente “…alla durata dell’incarico e al contenuto
delle mansioni affidate esternamente”.
E difatti, al dott. Mu., per il periodo dal settembre al
dicembre 2012, è stato conferito un incarico di
collaborazione/consulenza per l’elaborazione di stipendi dei
dipendenti per lo stesso periodo di espletamento delle
mansioni di dipendente “istruttore direttivo D1-responsabile
del servizio finanziario”, nel quale dette funzioni sono
normalmente ricomprese secondo la declinatoria di detto
profilo mansionale, apparendo quindi, prive dei requisiti
dell’alta specializzazione richiesta per gli incarichi
disciplinati dall’art. 110, comma 2, del TUEL, cui sarebbe
ontologicamente riconducibile l’incarico conferito al
Mu. dalla G.M. con delibera n. 71/12.
Inoltre l’affidamento è stato posto in violazione dell’art.
42 del regolamento degli Uffici, senza alcun rispetto
dell’istruttoria necessaria né del principio di pubblica
selezione, né di verifica di analoghe professionalità
all’interno dell’Ente (considerato che la vacanza in
organico era conseguenza della rimodulazione della pianta
organica con spostamento del responsabile dell’area
finanziaria all’area amministrativa), apparendo anche sotto
il profilo motivazionale privo dei necessari requisiti di
legge.
In definitiva, nel caso di specie, "non è dato riscontrare il
presupposto di eccezionalità, in quanto la necessità di un
dipendente con professionalità tecniche per l’ente locale
rappresenta una esigenza organizzativa che si configura come
permanente. Ne consegue che l’ente locale conferente non può
far ricorso all’affidamento di incarichi a soggetti estranei
per lo svolgimento di funzioni ordinarie, attribuibili a
personale che dovrebbe essere previsto in organico,
altrimenti questa esternalizzazione si tradurrebbe in una
forma atipica di assunzione, con conseguente elusione delle
disposizioni in materia di accesso all’impiego nelle
Pubbliche amministrazioni, nonché di contenimento della
spesa di personale” (cfr. deliberazioni Sez. Regionale
Controllo Lombardia n. 83/2014 e n. 84/2014).
Vanno pertanto disattese tutte le argomentazioni difensive
dei convenuti circa la durata temporanea degli incarichi, la
fiduciarietà, l’esclusione di tali rapporti da procedure di
“stabilizzazione” e la loro cessazione in caso di “dissesto”
dell’ente, dirette ad escludere la responsabilità
amministrativa-contabile per i danni cagionati all’Ente
locale.
Passando al profilo di danno da “rimborso spese di viaggio
al dott. Mu.”, cui il predetto ha provveduto con atti di
liquidazione adottati nella veste di responsabile del
servizio finanziario, il Collegio non può che dissentire
dalle argomentazioni difensive, secondo cui detto rimborso
era previsto nel contratto individuale stipulato con l’ente
pubblico (art. 6).
La fondatezza della domanda attrice si basa proprio
sull’assenza, in fatto, di una documentazione che dia conto
delle finalità istituzionali dei viaggi eseguiti dal
predetto con il mezzo proprio, oggetto dei conseguiti
rimborsi chilometrici. Manca finanche un’autodichiarazione
dell’interessato che illustri: a) le predette finalità, b)
l’effettività del viaggio stesso, c) l’impossibilità di
compierlo con mezzi pubblici.
Le argomentazioni difensive
non aiutano a superare tale grave lacuna e anzi giustificano
i rimborsi per difficoltà logistiche di trasporto dalla sede
di residenza alla sede di lavoro, circostanza che
escluderebbe ab origine la dimostrazione delle sue finalità
istituzionali, tant’ è che parte attrice ha escluso la dovutezza dei rimborsi legati al trasferimento giornaliero
(escluse missioni) dell’incaricato.
Invero, il convenuto avrebbe dovuto fornire la prova
positiva (mediante documentazione giustificativa)
dell’effettività del viaggio e della sua correlabilità ai
fini istituzionali.
Occorre ora valutare se le condotte finora descritte siano
frutto di comportamenti gravemente colposi che hanno
prodotto danno all’erario comunale.
In proposito, si ritiene che il comportamento tenuto da
tutti i convenuti nell’odierno giudizio sia particolarmente
inescusabile e connotato da colpa grave, alla luce dell’inequivoca
normativa di riferimento e della costante giurisprudenza
della Corte costituzionale e di questa Corte formatasi in
materia di conferimento di incarichi a soggetti estranei
all’Amministrazione.
Risulta di immediata percezione, infatti, che
il carattere
indubbiamente fiduciario delle nomine non può debordare
nell’arbitrio ma deve comunque corrispondere a dei canoni
(sindacabili in questa sede) di ragionevolezza e buona
amministrazione.
Pertanto, anche ammettendo l’impossibilità, indimostrata
nell’odierno giudizio, di far fronte al fabbisogno con
professionalità interne, ipotizzate non idonee,
l’acquisizione dall’esterno di tali figure doveva avvenire
previa verifica delle professionalità disponibili, condotta
anche a seguito di idonea pubblicità e previa selezione di
curricula presentati dagli eventuali aspiranti al posto
pubblico da coprirsi con soggetti estranei all’ente.
4. In relazione alla sussistenza del danno e alla sua
quantificazione, la Procura ha indicato la somma di €
60.365,31 (al lordo degli oneri), a titolo di emolumenti
stipendiali erogati al dott. Mu., per effetto del
conferimento dell’incarico a tempo determinato di
responsabile del servizio finanziario e successive proroghe.
Da tale somma vanno detratti gli oneri e le ritenute di
legge per cui l’importo netto erogato ammonta a €
45.885,42, a cui va aggiunta la somma residua di € 6.693,43
(al netto degli oneri) corrispondente agli emolumenti
maturati nel periodo gennaio-giugno 2015, così in totale
€ 52.578,85.
Tale importo va ripartito, in considerazione dell’apporto
causale, tra il vice sindaco Mi. (decreto n. 4852/12) per
gli emolumenti (netti) erogati nei mesi di ottobre-novembre-dicembre 2012 ammontanti ad € 6.706,3 e il
Sindaco Al.Be. per la restante somma di €
45.872,55, per gli emolumenti erogati dal gennaio 2013 e
sino a giugno 2015 (decreti di proroga).
Per quanto concerne l’incarico di collaboratore affidato con
delibera della G.M., la residua somma di € 1.210 va
ripartita in parti eguali tra l’assessore Mi. e Ca.Ga. (contumace), al netto dell’importo di € 1.210
(già) versato dall’assessore Ce.Gi. e dal segretario
comunale Co.Gi..
La somma di € 18.878,00 (rimborso spese), cui va aggiunta
la somma di € 1.166,20, va imputata interamente al dott. Mu. avendo provveduto colposamente alla liquidazione
della stessa senza alcuna documentazione giustificativa del
diritto al rimborso dei viaggi dallo stesso effettuati per
recarsi presso la sede comunale.
5. Le modalità e le circostanze che hanno determinato
l’affidamento degli incarichi in palese violazione di norme
di legge e di regolamento non consentono al Collegio di
accogliere la richiesta delle difese dei convenuti circa una
riduzione del danno, detratta l’utilitas comunque conseguita
dall’Amministrazione in esecuzione degli incarichi in esame.
6. La condanna alle spese segue la soccombenza anche per la
convenuta dichiarata contumace, sulla base del consolidato
principio della Corte di Cassazione secondo cui
“l’individuazione del soccombente si fa in base al principio
di causalità, con la conseguenza che parte obbligata a
rimborsare alle altre le spese che hanno anticipato nel
processo, è quella che, col comportamento tenuto fuori del
processo, ovvero col darvi inizio o resistervi in forme e
con argomenti non rispondenti al diritto, ha dato causa al
processo o al suo protrarsi” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n.
7182 del 30/05/2000 e recentemente Cass. Civ. Sez. VI
Ordinanza n. 373 del 13.01.2015).
P.Q. M.
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione
Calabria, definitivamente pronunciando, reiette ogni istanza
eccezione e deduzione contraria,
ACCOGLIE
la domanda attrice e per l’effetto condanna:
– Mi.Fr. al pagamento di €. 6.706,30 e di €. 605,00
per un totale di € 7.311,30;
– Al.Be. al pagamento di € 45.872,55;
- Ca.Ga. al pagamento di € 605,00;
- Mu.An. al pagamento di € 20.044,42
(Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Calabria,
sentenza
04.08.2016 n. 193). |
APPALTI SERVIZI:
Acquisti informatici con Consip. Niente appalti
autonomi anche sotto i 1.000 euro.
Corte conti Umbria: gli enti sono tenuti ad applicare le
norme della legge di Stabilità 2016.
Niente appalti autonomi anche sotto i 1.000 euro per
l'acquisizione di beni e servizi attinenti l'informatica.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per
l'Umbria, col
parere 28.04.2016 n. 52, ha espresso
l'ennesimo parere molto restrittivo su norme vincolistiche
dell'ordinamento, specificamente rivolto all'articolo 1,
comma 512, della legge 208/2015, in risposta ad un quesito
riguardante la possibilità di acquistare beni e servizi
informatici, di valore inferiore alla soglia dei 1.000 euro,
evitando il tramite di Consip spa e degli altri soggetti
indicati dal medesimo comma 512.
Secondo la Corte dei conti anche per acquisizioni di beni e
servizi informatici di modico valore e di importo inferiore
ai 1000 euro le amministrazioni sono comunque tenute alla
complessa disciplina specificamente prevista dalla legge di
Stabilità per il 2016.
Agli acquisti informatici, infatti, non si estende la
previsione dell'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006,
come modificato dall'articolo1, comma 502, sempre della
legge 208/2015: tale disposizione permette alle
amministrazioni di procedere direttamente ad acquisizioni di
beni e servizi di importo fino a 1.000 euro senza passare né
dalla Consip o altri soggetti aggregatori, né da centrali di
committenza.
A giudizio della magistratura contabile questo non vale per
l'acquisto di beni e servizi informatici, anche di importo
inferiore ai 1.000 euro.
La ragione consiste nella natura speciale dell'articolo 1,
comma 512, della legge 508/2015, tale da renderlo inidoneo
all'estensione analogica della disciplina generale del comma
502.
Il parere della sezione Umbria evidenzia che il quadro
normativo derivante dalla legge di stabilità 2016 comporta
l'esonero degli enti locali dell'obbligo di ricorrere al
mercato elettronico della pubblica amministrazione solamente
per gli acquisti di beni e servizi di carattere generico
fino al valore di 1.000 euro. Nei casi, invece, degli
acquisti di beni e servizi informatici e di connettività
vige invece un diverso regime, «in quanto la recente
normativa, considerandoli una speciale categoria
merceologica cui vengono destinate specifiche disposizioni
di legge, impone, senza alcuna distinzione di valore, il
ricorso alle convenzioni Consip o dei soggetti aggregatori».
Questo è quanto suggerisce l'interpretazione letterale della
norma ai sensi della quale è consentito l'approvvigionamento
di tali beni «esclusivamente» tramite i soggetti indicati
dal legislatore: il che elimina altre modalità di acquisto
autonomo.
Però, anche l'interpretazione sistematica secondo la Corte
dei conti conduce allo stesso esito. Infatti, possibilità di
approvvigionamento al di fuori delle modalità previste dal
citato comma 512 è ammessa solamente per beni non
disponibili o idonei o nei casi di necessità e urgenza e nel
rispetto di una precisa ed onerosa procedura che richiede
l'autorizzazione preventiva motivata dell'organo di vertice
amministrativo, e la successiva comunicazione all'Anac e
all'Agid
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Istituire
il capo di gabinetto non è danno erariale.
Sentenza della corte conti umbra. Non rileva il
mancato conferimento di funzioni di direzione.
Non costituisce danno erariale attivare la figura del capo
di gabinetto in un ente locale con qualifica dirigenziale,
anche se non gli sono demandate funzioni di direzione ed
amministrative.
La
sentenza 17.03.2016 n. 23
della Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale dell'Umbria,
aiuta in qualche modo a far luce sulla controversa questione
del ruolo e dell'utilità del capo di gabinetto negli enti
locali, di particolare attualità a seguito delle polemiche
per la retribuzione molto alta riconosciuta al capo di
gabinetto a Roma.
Quanto deciso dai giudici contabili, se per un verso
evidenzia che le norme vigenti forniscono basi di
legittimità alla creazione dell'ufficio di gabinetto, per
altro verso, al contrario, paiono confermare l'alquanto
dubbia utilità concreta di tale figura, specie se connotata
da qualifica dirigenziale o se, comunque, compensata con
emolumenti parametrati agli stipendi dei dirigenti.
La sentenza ha mandato assolto il presidente della provincia
di Terni dall'aver assunto un capo di gabinetto con
qualifica dirigenziale evidenziando che, contrariamente a
quanto rilevato dalla procura contabile, le funzioni svolte
dal capo di gabinetto non erano in contrasto con gli assetti
organizzativi e i principi generali che governano la
gestione.
Infatti, spiega il collegio giudicante, «le funzioni su
cui la procura ha manifestato le proprie valutazioni
critiche sono espressione dell'attività di «indirizzo
politico-amministrativo», ex art. 4 del dlgs n. 165/2001»,
tanto che l'incaricato non ha avuto l'incombenza di adottare
atti amministrativi di carattere gestionale, bensì di
compiere «atti ed interventi a carattere
politico/amministrativo», senza svolgere il «coordinamento
sulla dirigenza dell'ente, ma di «realizzare un concreto
raccordo tra la direzione politica e la dirigenza»,
tanto che il capo di gabinetto nel caso di specie non ha mai
adottato atti amministrativi o altrimenti esercitato
funzioni gestionali, proprie dei dirigenti.
Per questa ragione, la sentenza ha mandato assolti i
convenuti: la situazione evidenziata non contrasta con gli
assetti organizzativi, ben specificati dalla novella
apportata nel 2014 all'articolo 90 del dlgs 267/2000, il cui
comma 3-bis pone in modo chiaro il «divieto di
effettuazione di attività gestionale».
Se, tuttavia, la magistratura contabile esclude
responsabilità per l'attivazione dell'ufficio del capo di
gabinetto proprio perché detto ufficio non svolge attività
gestionale, né di coordinamento dei dirigenti, occorre
chiedersi a cosa serva questa figura.
La sezione Umbria dà indirettamente una risposta non
soddisfacente: svolgere le funzioni di indirizzo politico.
Ma, queste funzioni, in applicazione del principio di
separazione tra politica e gestione, spettano agli organi di
governo, mentre alla dirigenza compete la concreta
attuazione.
Negli enti locali, la funzione di indirizzo politico è
assegnata alla competenza diretta del sindaco o del
presidente della provincia, allo scopo coadiuvato dal
principale organo di coordinamento e trasmissione con la
dirigenza, cioè la giunta comunale. Per altro, i singoli
assessori dispongono di un esplicito potere di direttiva,
proprio per specificare gli indirizzi amministrativi; tanto
che ai sensi dell'articolo 109, comma 1, del dlgs 267/2000
gli incarichi dirigenziali possono essere revocati per
violazione di tali direttive.
Sul piano tecnico, poi, l'articolo 97, comma 4, del dlgs
267/2000 assegna al segretario comunale il coordinamento
dell'attività dei dirigenti.
Il capo di gabinetto, alla luce di queste norme, appare una
figura spuria di dubbia efficacia e opportunità. Infatti,
viene connotato di funzioni di indirizzo politico che non
potrebbe svolgere, a meno di considerarlo come una sorta di
organo politico che si aggiunge agli assessori; nello stesso
tempo, però, è spesso qualificato come dirigente (o,
comunque, è destinatario di stipendi parametrati a quelli
dirigenziali), ma senza poter adottare atti amministrativi e
gestionali.
Di certo, le funzioni che la labile e confusa normativa
vigente (integrata in molti enti da disposizioni
regolamentari non meno laconiche e fumose) consentono di
attribuire al capo di gabinetto appaiono comunque già di
pertinenza di altri soggetti, sia sul piano politico, sia su
quello tecnico.
Sicché, non si comprende appieno perché un capo di gabinetto
possa ricevere un trattamento economico di molto maggiore di
quello degli assessori, dei quali sostanzialmente espleta le
funzioni, o, nello stesso tempo, perché possa il suo
trattamento essere parametrato a quello della dirigenza, dal
momento che deve mancare necessariamente l'assunzione delle
responsabilità gestionali che, pure, sono fondamento delle
retribuzioni dirigenziali
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2016).
---------------
MASSIMA
9) – Tutto ciò premesso, nel merito,
la pretesa della
Procura Regionale è infondata.
10) – Il Collegio rileva in proposito che l’addebito mosso
ai convenuti si incentra sulla illegittima attribuzione al
dott. Gr. della qualifica dirigenziale, per
l’espletamento dell’incarico di Capo di Gabinetto del
Presidente della Provincia di Terni, ex deliberazione
giuntale n. 139/2009.
10.1) – I convenuti, infatti, sono stati individuati in base
a tale deliberazione (v. pag. 15 della citazione in
giudizio) e sempre in base a tale deliberazione sono stati
valutati i profili della loro colpa grave e quelli
etiologici del danno (v. pag. 13 della citazione in
giudizio).
Il danno, del resto, è costituito dal saldo tra le maggiori
somme percepite dal dott. Gr. per la qualifica
dirigenziale conferita con la ripetuta deliberazione di
Giunta, non spettante secondo la Procura, e quella di
livello “D1”, che invece si sarebbe dovuta attribuire con la
deliberazione stessa, secondo la Procura medesima (v. pagg.
13-15 della ridetta citazione).
10.2) – Secondo parte attrice, le funzioni di Capo di
Gabinetto del Sindaco, o –come nel caso– del Presidente
della Provincia (ex art. 90 TUEL), non comportano mai
l’espletamento di compiti gestionali, riservate ai
dirigenti, ex art. 107 e 110 TUEL (v. pagg. 6-10 della
citazione in giudizio), così che la qualifica di dirigente
non spetta mai al Capo di Gabinetto.
La censurata deliberazione n. 139/2009, pertanto, avrebbe
illegittimamente attribuito la qualifica dirigenziale al
dott. Gr., al quale avrebbe affidato altrettanto
illegittimamente anche l’espletamento di compiti gestionali,
in palese violazione dei principi affermati da questa Corte
(di qui anche la colpa grave dei convenuti), che escludono
“qualunque sovrapposizione” tra le funzioni politiche,
proprie degli organi di staff, e quelle gestionali, proprie
dei dirigenti, ex Sez. Contr. Piemonte delib. n.
312-Par./2013, Sez. Contr. Lombardia delib. n. 43-Par./2007 e
Sez. I Centr. App. sent. n. 785-A/2012 (v. pagg. 8-15 della
citazione in giudizio).
10.3) – Nelle tesi dell’accusa, in sostanza, la qualifica
dirigenziale non può mai, già in astratto, essere conferita
per le attività di staff, propria degli organi di supporto
delle funzioni di indirizzo e controllo politico del Sindaco
e del Presidente della Provincia, ex art. 90 TUEL, mentre
nel caso sarebbero stati attribuiti anche funzioni
gestionali.
10.3.1) – Nel contesto dell’atto introduttivo della causa,
il punto centrale dell’accusa si compendia nell’alternativa
secondo cui: “o la deliberazione n. 139/2009 ha attribuito
funzioni dirigenziali”, così da violare le disposizioni
degli artt. 90, 107 e 110 TUEL che vietano una simile
attribuzione, “oppure [simili funzioni] non sono state
attribuite, prevedendo comunque l’attribuzione della
qualifica dirigenziale” ed una corrispondente retribuzione,
ed allora sono state violate le regole sinallagmatiche delle
prestazioni a confronto, lavorative e retributive (v. pag.
12 della citazione in giudizio).
11) – Nella ricostruzione dell’accusa manca ogni riferimento
all’art. 15 del “Regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi della Provincia di Terni”, approvato con
delibera n. 156/2003 (allegata alla memoria di costituzione
in giudizio del dott. Ag.), nella quale espressamente si
prevede che: “con deliberazione della Giunta Provinciale,
possono essere costituiti Uffici di Collaborazione, ai sensi
dell’art. 90, anche di livello dirigenziale”.
In aula, il P.M., si è limitato a considerare tale articolo
per sostenere che i convenuti lo avrebbero dovuto
“disapplicare”, in rapporto alle prevalenti disposizioni
degli artt. 90, 107 e 110 del TUEL.
11.1) – Il Collegio ritiene che, con la censurata
deliberazione n. 139/2009, i convenuti abbiano inteso
costituire proprio un ufficio del genere di quello indicato
nel precitato art. 15 (pure richiamato nelle premesse della
delibera stessa), ossia un “ufficio di supporto agli organi
di direzione politica”, ex art. 90 TUEL, “di livello
dirigenziale”.
Con la medesima deliberazione, inoltre, al dott. Gr. è
stato attribuito “il compito di gestire relazioni interne ed
esterne di natura negoziale complessa, [nonché] di
predisporre atti ed interventi a carattere
politico/amministrativo [e] di realizzare un concreto
raccordo tra la direzione politica e la dirigenza”.
11.2) – Le indicate attribuzioni, secondo il Collegio, non
“debordano” in astratto dai compiti di supporto alla
direzione politica, né risulta che in concreto il dott. Gr. abbia espletato compiti dirigenziali, contrariamente
a quanto sostenuto dalla Procura Regionale (v. pag. 3 della
citazione).
11.3) – Come correttamente evidenziato dalle difese dei
convenuti, le funzioni su cui la Procura ha manifestato le
proprie valutazioni critiche sono espressione dell’attività
di “indirizzo politico-amministrativo”, ex art. 4 del d.lgs.
n. 165/2001.
Con la censurata deliberazione, infatti, il dott. Gr.
non ha ricevuto il compito di porre in essere atti
amministrativi, ma “atti ed interventi a carattere
politico/amministrativo”, né ha ricevuto il compito di
coordinamento sulla dirigenza dell’Ente, ma di “realizzare
un concreto raccordo tra la direzione politica e la
dirigenza”.
11.4) – Né, come pure rilevato dalle difese dei convenuti,
risulta che il dott. Gr. abbia in concreto adottato atti
amministrati, o abbia altrimenti esercitato funzioni
gestionali, proprie dei dirigenti.
In particolare, è stato correttamente evidenziato dalle
predette difese che:
a) quanto all’adozione di atti amministrativi, la Procura
non ha offerto alcuna indicazione in proposito;
b) quanto al possibile espletamento in concreto di funzioni
dirigenziali, invece, le uniche prove addotte sono le
intercettazioni ambientali versate dalla Procura (v.
allegati al documento n. 2 della nota di deposito atti n. 1),
che tuttavia appaiono talmente generiche e frammentarie da
non raggiungere alcuna valida e consistente base
dimostrativa (v. pag. 11 della memoria di costituzione in
giudizio dell’avv. Ga. e, in senso analogo le memorie
degli altri difensori).
11.5) – Né, secondo il Collegio, è enucleabile –con la
sicurezza che la materia della responsabilità erariale
impone– una qualche attribuzione di funzioni dirigenziali
al dott. Gr. dal contesto complessivo delle
deliberazioni n. 160/2009, n. 231 del 2009 e n. 304/2010,
pure richiamate dalla Procura Regionale.
Come evidenziato dalle difese dei convenuti, infatti, nella
deliberazione n. 231/2009 è espressamente precisato che:
“alla struttura GABINETTO DEL PRESIDENTE […] non sono
assegnate funzioni gestionali di struttura relative
all’attività amministrativa dell’Ente” (v. pag. 3 della
menzionata deliberazione di Giunta n. 231/2009, in atti).
11.6) – In relazione a quanto sopra, dunque,
è da escludere
che i convenuti abbiano mai attribuito funzioni gestionali,
propri dei dirigenti, al dott. Gr., nella veste di Capo
di Gabinetto del Presidente della Provincia di Terni.
12) – Una simile conclusione, tuttavia, non comporta
automaticamente un danno per l’Amministrazione Provinciale
di Terni, come ha mostrato di ritenere la Procura Regionale,
articolando la riferita alternativa tra l’illecito
conferimento di funzioni dirigenziali ed il mancato
conferimento delle stesse, ex precedente paragrafo 8.3).
12.1) – L’astratta possibilità di costituire “uffici di
collaborazione [per l’esercizio delle funzioni politiche]
anche di livello dirigenziale”, prevista dall’art. 15 del
“Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei Servizi”
della Provincia di Terni, avrebbe infatti imposto una
ulteriore ipotesi di verifica, qualora si fosse data
attuazione alla riferita previsione normativa dell’“ufficio
di livello dirigenziale”, com’è avvenuto con la
deliberazione n. 139/2009. Avrebbe, cioè, imposto di
valutare la consistenza dei compiti assegnati ed il concreto
impegno per il loro esercizio, al fine di accertarne la
congruenza e proporzione con la qualifica e –soprattutto–
con la retribuzione dirigenziale attribuita.
Solo in ipotesi di incongrua organizzazione dell’ufficio di
Gabinetto, rispetto alla predetta qualifica e retribuzione,
si sarebbe potuto enucleare un danno, sotto il profilo della
lesione sinallagmatica delle prestazioni, lavorativa e
retributiva, a confronto.
12.2) – In questa ottica, è bene ricordare che la stessa
deliberazione della Sezione Regionale di Controllo per la
Lombardia n. 43-Par./2007, richiamata dalla Procura
Regionale nella citazione in giudizio (v. pag. 3 e pag. 9),
pone l’accento sul carattere discrezionale del potere degli
Amministratori di costituire gli uffici di collaborazione
(ex art. 90 TUEL) e sottolinea che essi dovranno scegliere
“lo schema organizzatorio più adatto alle esigenze della
comunità, in modo che sia assicurato il necessario
equilibrio fra le funzioni gestionali e operative e quelle
di indirizzo e controllo [politico], sulla base dei principi
di sana gestione e di adeguatezza, tenendo conto delle
dimensioni del Comune”, o della Provincia, “e della
compatibilità dei conseguenti oneri finanziari ed
economici”.
12.3) – Una verifica del genere è tuttavia mancata, in
quanto la Procura Regionale ha pregiudizialmente collegato
la qualifica dirigenziale, conferita con la deliberazione n.
139/2009, alle funzioni gestionali dei dirigenti
amministrativi, non considerando che il più volte menzionato
art. 15 del Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei
Servizi della Provincia di Terni comunque consentiva
l’istituzione di “uffici di collaborazione anche di livello
dirigenziale”.
Né, secondo l’andamento ordinario delle cose, ovvero secondo
“l’id quod plerumquem accidit”, era esigibile la
disapplicazione del citato articolo da parte dei convenuti
(come sostenuto in aula dal P.M.), tenuto anche conto del
fatto che il cennato regolamento è stato adottato dopo
l’entrata in vigore del TUEL (nel 2003), secondo una
presumibile valutazione di compatibilità con le disposizioni
del medesimo TUEL alla quale i convenuti medesimi non hanno
partecipato e che invece hanno –ragionevolmente– dato per
scontato (v. intervento in aula dei difensori dei
convenuti).
12.4) – In rapporto alla ricordata previsione regolamentare,
le sopravvenute disposizioni dell’art. 11, comma 4, del d.l.
n. 90/2014 (convertito in l. n. 114/2014), avrebbero avuto
valore puramente formale, qualora si fosse accertato che la
preposizione del dott. Gr. all’ufficio istituito con la
deliberazione n. 139/2009, con la qualifica ed il
trattamento dirigenziale, rispetta “il necessario equilibrio
fra le funzioni gestionali e operative e quelle di indirizzo
e controllo politico [tenuto] conto delle dimensioni dell’[Ente] e della compatibilità dei conseguenti oneri
finanziari ed economici” (ex precitata deliberazione della
Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia n.
43-Par./2007), tenuto anche conto delle indicazioni diramate
in proposito con la nota interpretativa ANCI-UPI sugli
“Uffici di supporto agli organi di direzione politica”, a
seguito delle sopravvenute disposizioni del precitato art.
11, richiamata dall’avv. Be. a pag. 9 della relativa
memoria di costituzione in giudizio.
12.5) – Del resto, e con ciò si chiude sul punto, la
relazione tecnica di accompagnamento all’art. 11, comma 4,
del d.l. n. 90/2014 ha chiarito che “il riferimento all’inquadramento dirigenziale, ove consentito nel regolamento
degli uffici e dei servizi anche in deroga ai requisiti di
accesso alla qualifica […] è da intendere in termini di mera
parametrazione retributiva”.
13) – Per quanto finora esposto e considerato, dunque,
i
convenuti vanno assolti dalla domanda attrice, con
assorbimento di ogni altra eccezione e deduzione.
14) – Ai difensori dei convenuti vanno liquidate le spese
legali (ex art. 3, comma 2-bis, della l. n. 639/1996 e
s.m.i.), che il Collegio fissa nei seguenti importi, oltre
IVA e CAP, tenuto essenzialmente conto dell’ammontare della
controversia per ciascuno di essi, della materia trattata,
del numero degli atti posti in essere, della sostanziale
identicità delle memorie difensive dell’avv. Ra. e
dell’avv. Pa., della parziale prescrizione del diritto
risarcitorio (ex SS.RR. n. 3-QM/2008) e degli altri criteri
indicati dagli artt. 4 e 11 del d.m. n. 140/2012, applicabile
in fattispecie, ai sensi degli artt. 41 e 42 del medesimo
decreto:
a) € 2.000 (Euro duemila), per l’avv. Fe.Pa.;
b) € 3.500 (Euro tremilacinquecento), per l’avv. Ma.Ra.;
c) € 3.000 (Euro tremila), per l’avv. Ro.Ga.;
d) € 1.500 (Euro millecinquecento) per l’avv. Pa.Be..
15) – Dato l’esito del giudizio non è luogo a pronuncia
sulle spese di giustizia.
Visti gli artt. 82 del r.d. n.2440/1923, 52 del r.d. n.
1214/1934, 43 e ss. del r.d. n. 1038/1933, 18 del d.P.R. n.
3/1957, 1 della l. n. 20/1994 e s.m.i., 5 della l. n.
19/1994 e s.m.i. e 93 del d.lgs. n. 267/2000.
P. Q. M.
La Corte dei conti Sezione giurisdizionale per l’Umbria
ASSOLVE
Dalla domanda attrice i convenuti.
Liquida a favore dei loro difensori le spese legali, nei
termini di cui in parte motiva.
Non è luogo a pronuncia sulle spese di giustizia
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria,
sentenza 17.03.2016 n. 23). |
QUESITI & PARERI |
INCARICHI PROFESSIONALI
Gli incarichi esterni.
DOMANDA:
Il quesito è inerente a due diversi aspetti della stessa
problematica, ovvero i corretti adempimenti da operare e
connessi alla cd. "amministrazione trasparente".
1^ Problematica - Incarichi a consulenti e collaboratori
esterni: Premesso che il Comune inserisce ed aggiorna
sull'apposito sito PERLA.Pa ogni informazione relativa a
consulenze e/o incarichi di natura onerosa, si chiede se le
stesse informazioni debbano obbligatoriamente essere
inserite anche sul sito "trasparenza" di questo Ente;
2^ Problematica - Attività di consulenza: questo
Comune ha affidato direttamente servizio consulenziale a
società che si avvale di esperto per risposta a quesiti in
tema di personale, controllo atti predisposti dall'Ente,
aggiornamento sulla normativa del settore e su
deliberazioni, pareri, sentenze della Corte dei Conti, nelle
sue varie sezioni.
Detto incarico deve essere inserito sul sito PERLA.Pa e sul
sito trasparenza dell'Ente?
RISPOSTA:
Il D.Lgs. n. 33/2013, emanato in attuazione dell’art. 1,
comma 35 della legge 190/2012, nell’ambito del riordino
della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni, ha modificato, all’art. 15, le
disposizioni in merito agli Obblighi di pubblicazione
relativi agli incarichi di collaborazione e consulenza
conferiti a soggetti esterni all’Amministrazione.
L’art. 15 cit. prevede l’obbligo di pubblicazione, sul sito
istituzionale dell’ente, nella sezione Amministrazione
trasparente, degli estremi degli atti di conferimento di
collaborazione o di consulenza a soggetti esterni per i
quali è previsto un compenso, completi di indicazione dei
soggetti percettori, del curriculum vitae, della
ragione dell'incarico e dell'ammontare erogato, nonché la
comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica,
effettuata esclusivamente per via telematica, tramite il
sito www.perlapa.gov.it., dei relativi dati ai sensi
dell'articolo 53, comma 14, secondo periodo, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165.
In caso di omessa pubblicazione, il contratto è nullo ed
inefficace e l’eventuale pagamento del corrispettivo
determina la responsabilità del dirigente che l'ha disposto,
e il pagamento di una sanzione pari alla somma corrisposta,
fatto salvo il risarcimento del danno del destinatario ove
ne ricorrano le condizioni. La pubblicazione deve essere
effettuata entro tre mesi dal conferimento dell’incarico e
per i tre anni successivi alla cessazione dell’incarico;
invece la comunicazione al Dipartimento della funzione
pubblica è semestrale.
La pubblicità delle attività di prestazione di servizi
consulenziali, svolte da persona giuridica, non è invece
regolata dall’articolo 15, bensì dall’articolo 37 del D.Lgs.
33/2013 (come modificato dall’art. 31 del D.Lgs. 97/2016).
Le stazioni appaltanti hanno l’obbligo di pubblicare sul
sito istituzionale dell’ente, nella sezione Amministrazione
trasparente, tutti gli atti e documenti relativi alla
procedura di affidamento (oggetto del bando, elenco degli
operatori invitati a presentare offerte, aggiudicatario,
importo di aggiudicazione, ecc…). Ogni qualvolta
l’amministrazione per l’affidamento di lavori, servizi e
forniture proceda in assenza di gara pubblica, è tenuta a
pubblicare la delibera a contrattare (articolo 37, comma 2,
del D.Lgs. 33/2013).
Resta salvo quanto previsto dall'articolo 9-bis in materia
di pubblicazione delle banche dati, gli obblighi di
pubblicità legale, e gli obblighi di pubblicazione previsti
dal decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La distanza minima tra edifici.
DOMANDA:
Il quesito riguarda l’intervento per la realizzazione di una
muratura di tamponamento del piano primo (attualmente
totalmente privo di muro verso il cortile) del fronte di un
rustico-fienile costituto attualmente da box al piano terra
e locale aperto al piano primo, accessibile solo
dall'esterno, con affaccio su cortile comune.
Il progetto prevede la realizzazione di una scala interna
che dal box dia accesso al piano primo, e la formazione del
muro di chiusura del fienile (verso il cortile) con
l’inserimento di una porta-finestra affacciante come detto
su cortile comune. La destinazione d’uso del piano primo
sarà sgombero-magazzino, senza permanenza di persone. La
previsione di inserire una apertura è funzionale unicamente
per l’eventuale movimentazione di oggetti voluminosi
dall’esterno anziché attraverso le strette scale interne
previste dal progetto.
L’immobile prospiciente al fabbricato oggetto d’intervento è
posto a metri 5.60 e presenta una finestra a piano terra
posta frontalmente alla basculante del box esistente a piano
terra e la casa prospiciente presenta anche una finestra al
piano primo, posta a circa 8 metri di distanza dal
fabbricato oggetto di intervento.
Il dubbio dello scrivente è in relazione all'assenza della
distanza pari a ml 10 fra il nuovo muro di chiusura del
rustico/fienile a piano primo con creazione di porta
finestra rispetto al fabbricato posto di fronte allo stesso
a circa ml 8, seppur, quest’ultimo, risulta già dotato di
finestra.
RISPOSTA:
La distanza minima di 10 ml fra edifici dotati di pareti
finestrate risulta prevista al n. 2 dell’art. 9 del DM n.
1444/1968 se si tratta di fabbricati ricadenti in “altre
zone” territoriali omogenee diverse dalla “A” (vedi le
altre disposizioni contenute nella stesso articolo per tale
zona “A” e per la zona “C”). Tale distanza va considerata
inderogabile perché di ordine pubblico come ribadito più
volte dalla giurisprudenza la quale ha anche precisato che
non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano
finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di
esse.
In particolare è stato affermato (Cass. civ. Sez. II,
20.06.2011, n. 13547): “la norma dell´art. 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati
-che, siccome emanata in attuazione dell´art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765, non può essere derogata dalle
disposizioni regolamentari locali- va interpretata nel senso
che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel
caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia
finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella
del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente,
essendo sufficiente, per l´applicazione di tale distanza,
che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di
essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne
consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è
dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi
di finestre” (vedasi anche Cass. civ. Sez. II,
28.09.2007, n. 20574).
Analogamente il Consiglio di Stato (Sez. IV, 05.12.2005, n.
6909) ha rilevato che: “la distanza di dieci metri, che
deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte
le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza
che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o
dell´edificio preesistente, o della progettata
sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o
a diversa altezza rispetto all'altra”.
In ogni caso è stato chiarito che, per "pareti finestrate",
ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti
quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano,
devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute",
ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l´esterno, quali porte, balconi,
finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle
due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR
Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR
Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano,
sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Sulla base di tali consolidati indirizzi e principi generali
non pare dubbio che anche nel caso di specie si debbano
rispettare le citate distanze anche considerando che la
tamponatura in muratura che determina, come tale un nuovo
volume, riveste la natura di un nuovo intervento
costruttivo.
Si ricorda al riguardo che “ai fini dell'osservanza delle
norme sulle distanze legali di origine codicistica o
prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione
integrativa della disciplina privatistica, la nozione di
costruzione non si identifica con quella di edificio ma si
estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato
che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed
immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio,
incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica
preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente
dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (cfr.
Cons. Stato sez. IV, 17/05/2012, n. 2847 (conferma TAR
Basilicata-Potenza, sez. I, n. 849/2009) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Vicesindaco. Compatibilità attività presso Associazione.
A norma dell'art. 63, comma 1, n. 3, del
d.lgs. 267/2000, non può ricoprire la carica di
amministratore locale il consulente legale, amministrativo e
tecnico che presta opera in modo continuativo in favore
delle imprese di cui ai numeri 1) e 2) del medesimo comma.
Per consulenza deve intendersi una tipologia di attività
professionale altamente qualificata a carattere
tecnico/specialistico, nell'ambito di specifiche competenze.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al sussistere di
un'eventuale incompatibilità, riferita alla figura del
vicesindaco, in relazione all'attività prestata dal medesimo
nel collaborare con una associazione che cura i centri
estivi comunali per ragazzi. Nello specifico l'interessato
svolge una funzione di 'Responsabile di zona' per i
ragazzi che svolgono l'anno di Servizio Civile Solidale, che
comporta l'esercizio di 'una funzione di supporto globale
alle attività del centro estivo e soprattutto di
affiancamento ai vari coordinatori che si susseguono'.
Si precisa che, dovendo sostenere l'interessato con proprio
mezzo privato varie trasferte, riceve dall'associazione a
tale titolo una somma forfettaria a carattere di rimborso
spese (importo che, per la sua modesta entità, non rileva
nemmeno ai fini della dichiarazione dei redditi).
Innanzitutto va rammentato che la valutazione della
sussistenza delle cause di ineleggibilità o di
incompatibilità dei componenti di un organo elettivo
amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo
[1]. È,
infatti, principio di carattere generale del nostro
ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano
esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti
(art. 41 del d.lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio
comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti
dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio
delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga
successivamente attivato il procedimento di contestazione di
una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, spetta al consiglio
medesimo, al fine di valutare la sussistenza di detta causa,
esaminare le osservazioni difensive formulate
dall'amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti
ritenuti necessari.
Ciò premesso, la situazione prospettata va esaminata con
riferimento alla vigente disciplina in materia di
incompatibilità per gli amministratori degli enti locali,
dettata dal d.lgs. 267/2000.
Preliminarmente è da notare che le disposizioni che
definiscono ipotesi di incompatibilità si sostanziano in una
limitazione al diritto di elettorato passivo,
costituzionalmente garantito e, pertanto, non sono
suscettibili di interpretazione analogica.
In linea generale, si osserva che le preclusioni contemplate
all'art. 63 del citato decreto sono ascrivibili al novero
delle c.d incompatibilità di interessi: esse hanno infatti
la precipua finalità di impedire che possano concorrere
all'esercizio delle pubbliche funzioni comunali soggetti
portatori di interessi confliggenti con quelli del comune
medesimo o che si trovino comunque in condizioni tali da
compromettere l'esercizio imparziale della carica elettiva.
Con riferimento alle prescrizioni imposte dall'art. 63,
comma 1, n. 2, del d.lgs. 267/2000, si evince che non può
ricoprire la carica di amministratore locale colui che, come
titolare, amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o
indirettamente, in servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune,
ovvero in società ed imprese volte al profitto di privati,
sovvenzionate dal comune in modo continuativo, quando le
sovvenzioni non siano dovute in forza di una legge dello
Stato o della Regione.
Come rilevato dal Ministero dell'Interno
[2], la situazione
di incompatibilità, in detta fattispecie, è ravvisabile
'in presenza di un duplice presupposto: il primo di natura
soggettiva ed il secondo di natura oggettiva. Sul piano
soggettivo, è necessario che l'interessato rivesta la
qualità di titolare (ad esempio, di impresa individuale) o
di amministratore' (ad esempio, di società di persone o
di capitali) 'ovvero di dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento quale può essere, a titolo
esemplificativo, l'institore o il procuratore di un'impresa
commerciale o il direttore generale di una società per
azioni'.
Il Ministero rileva come l'amministratore locale può
considerarsi incompatibile qualora, ad esempio, rivestendo
uno dei ruoli sopra indicati, abbia parte in appalti
nell'interesse del comune, venendo in tal caso a
configurarsi una situazione di potenziale conflitto rispetto
all'esercizio imparziale della carica elettiva.
Parimenti la citata norma è finalizzata ad evitare che la
medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di
amministratore di un comune e la qualità di amministratore o
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento
di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici
economicamente rilevanti con l'ente locale, caratterizzati
da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo
interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare
l'insorgere di un conflitto di interessi.
In relazione al preciso contenuto della norma richiamata,
preso atto della tipologia e delle modalità di svolgimento
della collaborazione prestata dal vicesindaco a favore
dell'Associazione alla quale è affidata la gestione del
centro estivo, non sembrano emergere elementi tali da far
ritenere sussistente la causa di incompatibilità indicata
espressamente al richiamato art. 63, comma 1, n. 2, del
d.lgs. 267/2000, atteso che, secondo quanto prospettato,
l'interessato non riveste all'interno dell'Associazione né
il ruolo di amministratore, né quello di dipendente con
poteri di rappresentanza o di coordinamento.
Per le medesime ragioni (mancanza del presupposto
soggettivo) non pare comunque [3]
potersi configurare nemmeno la causa di incompatibilità di
cui all'art. 63, comma 1, n. 1, del citato decreto, il quale
prevede che non può ricoprire la carica di amministratore
comunale l'amministratore o il dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o
azienda soggetti a vigilanza in cui vi sia almeno il 20 per
cento di partecipazione rispettivamente da parte del comune
o che dallo stesso riceva, in via continuativa, una
sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte
facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale
delle entrate dell'ente.
Secondo quanto riferito, l'attività svolta dall'interessato
non sembrerebbe configurarsi nemmeno quale incarico
professionale di consulenza menzionato all'art. 63, comma 1,
n. 3 del d.lgs. 267/2000, il quale stabilisce che non può
ricoprire la carica di amministratore locale 'il
consulente legale, amministrativo e tecnico che presta opera
in modo continuativo in favore delle imprese di cui ai
numeri 1) e 2)' del medesimo comma.
Considerato che, in genere, per consulenza si intende una
tipologia di attività professionale [4]
altamente qualificata, a carattere tecnico/specialistico,
nell'ambito di specifiche competenze [5],
si suggerisce comunque all'Ente di valutare in modo
specifico se la collaborazione prestata dall'amministratore
in oggetto a favore dell'Associazione possa eventualmente,
sulla base di ulteriori elementi di fatto, essere
riconducibile alla fattispecie della consulenza.
---------------
[1] Si precisa che nella fattispecie prospettata il
vicesindaco è anche consigliere comunale.
[2] Cfr. parere del 30.12.2014.
[3] Anche nell'eventualità che sussistano gli altri
requisiti richiesti ai fini dell'incompatibilità.
[4] Cfr. Mariani, Menaldi & Associati, Incandidabilità,
ineleggibilità e incompatibilità negli enti locali, Nuova
Giuridica, 2012, pag. 70.
[5] Cfr., ex multis, Corte dei conti, sez. reg. di controllo
per il Piemonte, deliberazione n. 34/2016 (29.08.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso, divieti cedevoli.
Nessun diniego al consigliere comunale. Ostensibile
documentazione generalmente coperta da riservatezza.
L'amministrazione comunale può rendere ostensibili i
documenti concernenti il rilascio di titoli abilitativi,
studi di fattibilità, documenti del Suap e dell'Ufficio
edilizia privata-urbanistica richiesti dai consiglieri
comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000?
L'ente può negare l'accesso ai documenti rientranti in tale
elenco in ragione delle eventuali pretese risarcitorie dei
soggetti privati coinvolti, eventualmente danneggiati dalla
diffusione delle notizie in possesso della amministrazione?
L'art. 43, comma 2, riconosce al consigliere comunale un
diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai
documenti amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del comune di residenza, ai sensi dell'art. 10 del
decreto legislativo n. 267/2000 sia, più in generale, nei
confronti della pubblica amministrazione, come disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
con parere espresso nella seduta del 28.02.2012, ha
affermato che «il diritto di accesso riconosciuto ai
consiglieri degli organi elettorali locali ex art. 43
decreto legislativo n. 267/2000 è strettamente funzionale
all'esercizio del proprio mandato, alla verifica e al
controllo del comportamento degli organi istituzionali
decisionali dell'ente territoriale, ai fini della tutela
degli interessi pubblici, e si configura come peculiare
espressione del principio democratico dell'autonomia locale
e della rappresentanza esponenziale della collettività
(Cons. stato sez. V, 08.11.2011, n. 5895). In tale ottica,
al consigliere comunale non può essere opposto alcun
diniego, altrimenti gli organi di governo dell'ente
sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'estensione del
controllo sul proprio operato».
La giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel
senso di ritenere che l'ampia prerogativa a ottenere
informazioni è riconosciuta ai consiglieri comunali senza
che possano essere opposti profili di riservatezza, restando
fermi, tuttavia, gli obblighi di tutela del segreto e i
divieti di divulgazione di dati personali, nei casi
specificamente determinati dalla legge, come peraltro
previsto dal citato art. 43.
Anche il Tar Lombardia–Milano, con sentenza n. 2363 del
23/09/2014, ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri
comunali ad accedere agli atti del Comune in quanto «non
è in dubbio che possa essere ostensibile anche
documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe
ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il
consigliere tenuto al segreto d'ufficio»
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Composizione gruppi consiliari.
La materia dei gruppi consiliari, ai
sensi dell'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, è disciplinata dal regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale 'nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto', essendo riconosciuta ai
consigli piena autonomia funzionale e organizzativa.
Pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate
alla stregua delle specifiche norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente si è dotato.
Il Consigliere comunale, che riveste tale carica in qualità
di candidato sindaco risultato non eletto, chiede un parere
in merito al proprio inserimento nell'ambito di un gruppo
consiliare, alla luce della normativa vigente in materia,
atteso che lo stesso è stato sostenuto da tre liste, in
ciascuna delle quali è stato eletto un consigliere comunale.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si osserva che l'esistenza dei gruppi
consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si
desume implicitamente da quelle disposizioni normative che
contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai
capigruppo [1].
La materia dei gruppi consiliari, ai sensi dell'articolo 38,
comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è
disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale 'nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto',
essendo riconosciuta ai consigli piena autonomia funzionale
e organizzativa. Pertanto, le problematiche relative alla
costituzione e funzionamento dei gruppi consiliari devono
essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato.
Nel caso di specie, l'articolo 21 dello statuto comunale
stabilisce che '1. I consiglieri possono costituirsi in
gruppi, secondo quanto previsto nel regolamento del
Consiglio comunale e ne danno comunicazione al Sindaco e al
Segretario comunale unitamente all'indicazione del nome del
capogruppo. Qualora non si eserciti tale facoltà o nelle
more della designazione, i gruppi sono individuati nelle
liste che si sono presentate alle elezioni e i relativi
capigruppo nei consiglieri, non appartenenti alla Giunta,
che abbiano riportato il maggior numero di preferenze. 2. I
consiglieri comunali possono costituire gruppi non
corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono stati
eletti purché tali gruppi risultino composti da almeno due
membri. (omissis)'.
A sua volta, il regolamento del consiglio comunale (artt. 6
e ss.) ribadisce che i gruppi consiliari sono di norma
costituiti dai consiglieri eletti nella medesima lista, a
prescindere dal numero, e disciplina le modalità di
costituzione degli stessi e di eventuale adesione ad un
diverso gruppo.
Premesso che l'interpretazione dello statuto e del
regolamento del consiglio comunale spetta unicamente
all'organo che li ha approvati, in via collaborativa si
rileva che, con riferimento alla necessaria appartenenza di
ciascun consigliere ad un gruppo consiliare, le fonti
normative comunali nulla contemplano in ordine alla
situazione del consigliere già candidato alla carica di
sindaco e risultato non eletto [2],
che nel corso della competizione elettorale sia stato
collegato ad una o più liste, né disciplinano la
costituzione del gruppo misto.
In relazione a quest'ultimo aspetto, si osserva che il
gruppo misto è un gruppo consiliare con carattere residuale,
nel quale confluiscono i consiglieri, anche di diverso
orientamento, che non si riconoscono negli altri gruppi
costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo
per mancanza delle condizioni previste dallo statuto o dal
regolamento per il funzionamento del consiglio, e la cui
costituzione non può logicamente essere subordinata alla
presenza di un numero minimo di componenti.
I principi posti alla base della necessaria esistenza del
gruppo misto, a prescindere dalla sussistenza di un'espressa
previsione statutaria o regolamentare, derivano dal
contemperamento di due esigenze fondamentali: da un lato, la
necessità che ogni componente del consiglio appartenga ad un
gruppo consiliare [3],
dall'altra l'impossibilità di obbligare l'amministratore a
fare parte di un gruppo già esistente, pena la frustrazione
della sua libertà di autodeterminazione ed in ossequio al
principio del divieto di mandato imperativo.
Tale gruppo, pertanto, potrebbe essere costituito anche da
un solo componente, che risulterebbe, altrimenti,
penalizzato dalla mancata incardinazione in un gruppo
consiliare; in tal caso, fino a quando il gruppo misto è
composto da un solo membro, lo stesso assume automaticamente
la veste di capogruppo.
Alla luce delle considerazioni suesposte, nella fattispecie
prospettata il consigliere, attesa l'impossibilità di
costituire da solo un nuovo gruppo, e qualora non intenda
aderire ad alcuno dei gruppi esistenti, potrà confluire nel
gruppo misto, che può essere formato anche da un unico
componente, con conseguente acquisizione del ruolo di
capogruppo.
---------------
[1] Nel decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 si vedano
gli articoli 38, comma 3, ultimo capoverso ('Con il
regolamento di cui al comma 2 i consigli disciplinano la
gestione di tutte le risorse attribuite per il proprio
funzionamento e per quello dei gruppi consiliari
regolarmente costituiti'), 39, comma 4 ('Il presidente del
consiglio comunale o provinciale assicura una adeguata e
preventiva informazione ai gruppi consiliari ed ai singoli
consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio.') e 125
('Contestualmente all'affissione all'albo le deliberazioni
adottate dalla giunta sono trasmesse in elenco ai capigruppo
consiliari; i relativi testi sono messi a disposizione dei
consiglieri nelle forme stabilite dallo statuto o dal
regolamento').
[2] L'art. 13, comma 4, della legge regionale 05.12.2013, n.
19 stabilisce che 'Determinato, ai sensi del comma 2, il
numero dei seggi spettanti a ciascuna lista e a ciascun
gruppo di liste, sono in primo luogo proclamati eletti alla
carica di consigliere i candidati alla carica di sindaco
risultati non eletti, collegati a liste che hanno ottenuto
almeno un seggio. In caso di collegamento di più liste al
medesimo candidato alla carica di sindaco risultato non
eletto, il seggio spettante a quest'ultimo è detratto dai
seggi spettanti complessivamente al gruppo di liste'
[3] Si veda la nota n. 1 (18.08.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 17. Affidamento di servizi
legali.
Il decreto legislativo 18.04.2016, n.
50, nell'innovare la disciplina dell'affidamento degli
incarichi legali, li definisce come appalti di servizi ed
opera una classificazione individuando sostanzialmente due
categorie di servizi legali, differenziate in base alla loro
natura:
1) i servizi elencati all'art. 17, comma 1, lett. d), (per
lo più connessi alla gestione del contenzioso) che
soggiacciono alla disciplina codicistica soltanto per il
rispetto dei principi generali delineati all'art. 4;
2) le prestazioni legali diverse da quelle lì individuate,
che rientrano invece nei servizi di cui all'allegato IX, per
il cui affidamento è necessario applicare il Codice dei
contratti (con alcune differenziazioni in tema di
pubblicità).
Il Comune chiede un parere con riferimento alla procedura da
seguire per l'affidamento dei servizi legali di cui all'art.
17 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, nell'ambito
delle previsioni contenute nel nuovo Codice degli appalti,
che ha apportato significative modifiche alla disciplina di
tale settore.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Preliminarmente pare utile ricordare che in base alla
normativa previgente, rinvenibile nel decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, i servizi legali (non meglio
specificati) erano ricompresi nei servizi elencati
all'allegato II B; di conseguenza a tali affidamenti,
considerati parzialmente esclusi, si applicavano soltanto
alcune norme del D.Lgs. 163/2006 [1].
Al riguardo, la giurisprudenza [2]
e l'AVCP [3]
distinguevano il conferimento del singolo incarico di
patrocinio legale, che configurava un contratto d'opera
intellettuale sottratto alla disciplina del codice, dalla
attività di assistenza e consulenza giuridica a carattere
complesso, che costituiva invece un appalto di servizi.
Con il nuovo Codice dei contratti il legislatore ha
innanzitutto definito i servizi legali come appalti di
servizi (art. 17, comma 1), ed ha quindi operato una sorta
di classificazione di tali servizi legali, determinando il
superamento della distinzione in base alla funzione degli
affidamenti (prestazioni complesse e strutturate o incarichi
di patrocinio/difesa legale, collegati a necessità
contingenti).
L'art. 17, comma 1, lettera d), elenca una serie di servizi
legali che non soggiacciono all'applicazione delle
disposizioni del Codice (fatto salvo il rispetto, come si
dirà nel prosieguo, dei principi di cui all'art. 4); tutti
gli altri servizi legali lì non individuati rientrano invece
nei servizi di cui all'allegato IX, per i quali trova
applicazione il Codice, con alcune differenziazioni in tema
di pubblicità.
Nel dettaglio, non sottostanno alla disciplina codicistica i
servizi di:
'1) rappresentanza legale di un cliente da parte di un
avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n.
31, e successive modificazioni:
1.1) in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato
membro dell'Unione europea, un Paese terzo o dinanzi a
un'istanza arbitrale o conciliativa internazionale;
1.2) in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o
autorità pubbliche di uno Stato membro dell'Unione europea o
un Paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o
istituzioni internazionali;
2) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei
procedimenti di cui al punto 1.1), o qualora vi sia un
indizio concreto e una probabilità elevata che la questione
su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento,
sempre che la consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi
dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e successive
modificazioni;
3) servizi di certificazione e autenticazione di documenti
che devono essere prestati da notai;
4) servizi legali prestati da fiduciari o tutori designati o
altri servizi legali i cui fornitori sono designati da un
organo giurisdizionale dello Stato o sono designati per
legge per svolgere specifici compiti sotto la vigilanza di
detti organi giurisdizionali;
5) altri servizi legali che sono connessi, anche
occasionalmente, all'esercizio dei pubblici poteri; (...)'.
Tutti gli altri servizi legali non indicati all'articolo
citato, e riferibili sostanzialmente alle prestazioni di un
avvocato non connesse al contenzioso, vengono invece
ricompresi, come anticipato, nei servizi di cui all'allegato
IX, per i quali è previsto l'affidamento con l'applicazione
quasi integrale del Codice.
Infatti l'art.35, comma 1, lett. d), del D.Lgs. 50/2016
prevede l'applicazione ai servizi indicati all'allegato IX
delle norme del nuovo Codice al superamento della soglia
prevista di 750.000 euro e introduce un regime differenziato
soltanto per quanto concerne la pubblicazione degli avvisi
(art. 142). [4]
Per quanto riguarda invece le procedure di affidamento dei
contratti sotto soglia, compresi quelli relativi ai servizi
specifici elencati all'allegato IX per i quali, come detto,
la soglia prevista è di 750.000 euro, si rinvia alle Linee
guida fornite dall'ANAC, approvate dal Consiglio
dell'Autorità nell'adunanza del 28.06.2016.
Per contro, con riferimento ai servizi legali elencati
all'art. 17, comma 1, lett. d), è opportuno tenere presente
che l'affidamento dei contratti esclusi (in tutto o in
parte) deve comunque avvenire nel rispetto dei principi di 'economicità,
efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità pubblicità (...)' richiamati dall'art.
4.
Ne deriva che le amministrazioni sono tenute a definire le
procedure di affidamento dei servizi legali di gestione del
contenzioso garantendo adeguate forme di pubblicità e di
tutela della concorrenza. [5]
---------------
[1] L'art. 20, comma 1, del D.Lgs. 163/2006 così
recitava: 'L'aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto
i servizi elencati nell'allegato II B è disciplinata
esclusivamente dall'articolo 68 (specifiche tecniche),
dall'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di
affidamento), dall'articolo 225 (avvisi relativi agli
appalti aggiudicati).' Parimenti, agli affidamenti di
contratti aventi ad oggetto servizi esclusi, in tutto od in
parte, dall'ambito di applicazione del Codice, si applicava
anche l'art. 27, il cui comma 1 disponeva il rispetto dei
principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza e proporzionalità.
[2] Nella sentenza n. 2730 dell'11.05.2012, la Quinta
Sezione del Consiglio di Stato rimarcava l'esistenza di una
'differenza ontologica che, ai fini della qualificazione
giuridica delle fattispecie e delle ricadute ad essa
conseguenti in materia di soggezione alla disciplina recata
dal codice dei contratti pubblici, connota l'espletamento
del singolo incarico di patrocinio legale, occasionato da
puntuali esigenze di difesa dell'ente locale, rispetto
all'attività di assistenza e consulenza giuridica,
caratterizzata dalla sussistenza di una specifica
organizzazione, dalla complessità dell'oggetto e dalla
predeterminazione della durata. Tali elementi di
differenziazione consentono, infatti, di concludere che,
diversamente dall'incarico di consulenza e di assistenza a
contenuto complesso, inserito in un quadro articolato di
attività professionali organizzate sulla base dei bisogni
dell'ente, il conferimento del singolo incarico episodico,
legato alla necessità contingente, non costituisca appalto
di servizi legali ma integri un contatto d'opera
intellettuale che esula dalla disciplina codicistica in
materia di procedure di evidenza pubblica'.
[3] L'AVCP (ora ANAC), nella determinazione n. 4 del
07.07.2011, affermava che 'il patrocinio legale, cioè il
contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno
di difesa giudiziale del cliente, sia inquadrabile
nell'ambito della prestazione d'opera intellettuale, in base
alla considerazione per cui il servizio legale, per essere
oggetto di appalto, richieda qualcosa in più, 'un quid
pluris per prestazione o modalità organizzativa' (cfr. Corte
dei Conti, sezione regionale di controllo per la Basilicata,
deliberazione n. 19/2009/PAR)'.
[4] Si veda ANAC, FAQ sul D.Lgs. 50/2016 nel periodo
transitorio, allegate al Comunicato del Presidente
dell'08.06.2016, con riferimento ai servizi sociali
rientranti nell'allegato IX.
[5] Si vedano, in dottrina, A. BARBIERO, 'Appalti: per gli
incarichi agli avvocati serve la «mini-gara» pubblica' su Il
Sole 24 Ore di lunedì 16.05.2016; L. OLIVERI, 'Servizi
legali, il nuovo codice dei contratti chiarisce che sono
appalti - no intuitu personae' su luigioliveri.blogspot.it;
G. PISANO, 'L'affidamento dei servizi legali. Prime
considerazioni alla luce del nuovo codice degli appalti
(d.lgs. 19.04.2016, n 50)' su www.gianlucapisano.it (10.08.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
TRIBUTI:
Pertinenza dell'abitazione principale.
Ai fini all'imposta municipale propria,
la nozione di pertinenza dell'abitazione principale si
rinviene nell'art. 817, primo comma, del codice civile
(«Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a
servizio o ad ornamento di un'altra cosa.»).
La giurisprudenza individua i presupposti e delinea i
caratteri della pertinenza, precisando che, in materia
fiscale, la prova dell'asservimento pertinenziale, che grava
sul contribuente, deve essere valutata con maggior rigore
rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico, giacché la scelta pertinenziale potrebbe non
avere valenza tributaria, se volta unicamente a ridurre il
prelievo fiscale, disattendendo il dettame che prescrive la
tassazione 'in considerazione dell'effettiva natura del
cespite'.
Il Comune richiede un parere in merito alla correttezza, o
meno, dell'accettazione -ai fini dell'imposta municipale
propria- della dichiarazione di pertinenzialità
[1],
rispetto all'abitazione principale, di due fabbricati,
effettivamente adibiti a stalla [2],
ancorché diversamente accatastati nelle categorie C/2 e C/6,
atteso che la Cassazione civile afferma che «Se la scelta
pertinenziale non è giustificata da reali esigenze
(economiche, estetiche, o di altro tipo), non può avere
valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che
impone la tassazione in ragione della reale natura del
cespite» [3].
Occorre, anzitutto, chiarire che, in relazione alla
problematica rappresentata, questo Ufficio non può che
limitarsi a fornire, in via meramente collaborativa,
elementi utili ad individuare la nozione ed i caratteri
della pertinenza, considerato che la materia oggetto di
quesito ricade nell'ambito della competenza dell'Agenzia
delle entrate, alla quale il Comune deve rivolgersi
direttamente per acquisire il relativo parere
[4].
L'art. 13, comma 2, del decreto-legge 06.12.2011, n. 201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n.
214, dispone -per quanto qui rileva- che l'imposta
municipale propria «non si applica al possesso
dell'abitazione principale e delle pertinenze della stessa,
ad eccezione di quelle classificate nelle categorie
catastali A/1, A/8 e A/9» e stabilisce che per
pertinenze dell'abitazione principale «si intendono
esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali
C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità
pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali
indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità
ad uso abitativo».
La disciplina dell'imposta municipale propria (così come era
avvenuto per quella riguardante la previgente imposta
comunale sugli immobili) non fornisce la nozione di
pertinenza, cosicché questa va necessariamente rinvenuta
nell'art. 817, primo comma, del codice civile, in base al
quale «Sono pertinenze le cose destinate in modo
durevole a servizio o ad ornamento di un'altra cosa.». Il
secondo comma dello stesso articolo dispone, poi, che «La
destinazione può essere effettuata dal proprietario della
cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima.».
La predetta nozione civilistica consente, dunque, di
affermare che le pertinenze sono costituite da
un'aggregazione di cose mobili o immobili in cui l'una,
secondaria, è subordinata al servizio o all'ornamento
dell'altra, principale, in un 'rapporto di
complementarità funzionale', che lascia inalterate
l'individualità e l'autonomia giuridica dei singoli beni,
che vengono uniti dal trattamento giuridico.
[5]
In via generale, la giurisprudenza afferma che:
- l'insorgenza del vincolo pertinenziale richiede la
contemporanea presenza di due presupposti, consistenti nel
collegamento funzionale tra la cosa accessoria e la cosa
principale (elemento oggettivo) e nell'effettiva volontà
dell'avente diritto di destinare una cosa a servizio o ad
ornamento dell'altra (elemento soggettivo);
[6]
- il vincolo funzionale che lega tra loro la cosa principale
e la pertinenza non può avere un contenuto qualsiasi ad
libitum del titolare, ma deve realizzare effettivamente un
miglior sfruttamento o una maggiore utilizzazione della cosa
principale, di cui deve fornire un riscontro effettivo e
attuale. [7]
Con riferimento all'applicazione dell'istituto in ambito
tributario, la Cassazione civile sancisce che:
- l'attribuzione della qualità di pertinenza si fonda sul
criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e
concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra;
[8]
- per l'art. 817 del codice civile 'le cose' si
considerano 'pertinenze' di 'un'altra cosa'
non semplicemente perché poste a 'servizio o ad ornamento'
della stessa ma solo se tale destinazione sia
(soggettivamente ed oggettivamente) 'durevole',
ovverosia presenti segni concreti esteriori dimostrativi
della volontà del titolare di imporre a quelle cose uno
degli scopi considerati dalla norma civilistica;
[9]
- in materia fiscale, stante l'indisponibilità del rapporto
tributario, la prova dell'asservimento pertinenziale, che
grava sul contribuente, deve essere valutata con maggior
rigore rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico, giacché la scelta pertinenziale potrebbe non
avere valenza tributaria, se volta unicamente a ridurre il
prelievo fiscale, disattendendo il dettame che prescrive la
tassazione 'in considerazione dell'effettiva natura del
cespite'; [10]
- la 'simulazione' di un vincolo di pertinenza, ai
sensi dell'art. 817 del codice civile, al fine di ottenere
un risparmio fiscale, va inquadrata nella più ampia
categoria dell'abuso di diritto. [11]
Parte delle predette indicazioni sono ribadite, in sede
interpretativa, dalla circolare n. 3/DF dd. 18.05.2012
[12] del
Ministero dell'economia e delle finanze.
---------------
[1] Dichiarazione prodotta di recente ed in virtù della
quale il contribuente richiede il rimborso dell'imposta
versata negli anni 2012 e 2013.
[2] L'Ente segnala che il contribuente, persona fisica, non
svolge alcuna attività di tipo agricolo-imprenditoriale e
che nel 2014 egli ha concesso in locazione ad un'azienda
agricola le pertinenze in questione, relativamente alle
quali l'Agenzia delle entrate ha riconosciuto il carattere
di ruralità.
[3] Sez. trib., 30.11.2009, n. 25127 e 29.10.2010, n. 22128.
[4] In www.agenziaentrate.gov.it sono riportate le
istruzioni concernenti il ricorso all'istituto
dell'interpello ed è precisata la differenza tra questo e
l'attività di consulenza giuridica svolta dall'Agenzia delle
entrate.
[5] V. Consiglio di Stato - Sez. V, sent. 17.11.2014, n.
5615.
[6] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 5615/2014, cit..
[7] V. Consiglio di Stato - Sez. V, n. 5615/2014, cit., il
quale soggiunge che il vincolo pertinenziale «non può,
quindi, consistere in una semplice dichiarazione di volontà
[...], ma deve estrinsecarsi in un comportamento
riconoscibile da terzi».
[8] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., 10.11.2010, n. 22844 e
30.12.2015, n. 26077; Sez. VI, 17.02.2015, n. 3148.
[9] Sez. trib., n. 22128/2010, cit. e 08.11.2013, n. 25170.
[10] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., n. 22128/2010, cit. e
n. 25170/2013, cit..
[11] Sez. trib., n. 25127/2009, cit., n. 22128/2010, cit. e
n. 25170/2013, cit., che richiamano la pronuncia delle SS.UU.
23.12.2008, n. 30055, nel cui ambito è stato, tra l'altro,
affermato che «non può non ritenersi insito
nell'ordinamento, come diretta derivazione delle norme
costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non
può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto,
pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione,
di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili
che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quel risparmio fiscale».
[12] «Imposta municipale propria (IMU). Anticipazione
sperimentale. Art. 13 del D.L. 06.12.2011, n. 201,
convertito dalla legge 22.12.2011, n. 214. Chiarimenti». V.
il paragrafo 6 (08.08.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Pronta
la «patente» antisismica. Sprint sulle linee guida per la
classificazione degli edifici - Si attende il parere del Mit.
In arrivo sei
classi, dalla A alla F, per mappare gli edifici esistenti.
Con uno schema che ricorda molto quello che attualmente
viene utilizzato per la certificazione energetica. Per
fotografare in maniera immediata il livello di sicurezza di
un edificio.
È questo, in estrema sintesi, il contenuto delle linee guida
per la classificazione sismica che il ministero delle
Infrastrutture utilizzerà come base per due partite
strategiche del prossimo futuro: la mappatura degli edifici
esistenti e la nuova versione potenziata dei bonus fiscali
per la messa in sicurezza dei fabbricati, da rifinire con la
prossima legge di Stabilità.
Il documento che contiene questa nuova classificazione, per
la verità, è già in larga parte pronto da qualche mese. Alla
sua definizione aveva lavorato, su mandato del ministro, una
commissione di esperti, guidata dal provveditore alle Opere
pubbliche di Lombardia ed Emilia Romagna, Pietro Baratono.
Dopo un periodo di rallentamento, adesso il dossier è stato
messo su una corsia preferenziale, con l’obiettivo di
completare il lavoro in vista della Stabilità. Per questo,
la commissione sta aggiornando il documento mentre, in
contemporanea, il testo è stato inviato all’organo
consultivo del Mit, il Consiglio superiore dei lavori
pubblici, che avrà il compito di dare un suo parere.
La classificazione è un prontuario tecnico che consentirà di
operare una valutazione degli investimenti da fare. Quindi,
uno strumento di pianificazione. Tutto ruota attorno a sei
classi, dalla A alla F, che diranno quando un edificio ha un
rischio sismico più elevato, in funzione della sua capacità
di non danneggiarsi troppo nel corso di un terremoto.
Il principio guida è il concetto di “expected annual loss”,
il costo medio annuo da sostenere per riparare i danni e
coprire le perdite causate da eventi sismici: in una
struttura efficiente questo costo è trascurabile, nelle
strutture più vecchie tende a salire, fino al momento in cui
può essere più conveniente demolire e ricostruire.
In attesa che il lavoro dei tecnici venga completato, resta
da fare una valutazione politica.
Le linee guida, infatti,
si prestano a una mappatura del patrimonio esistente che
possa dire su quali edifici è più urgente intervenire. E,
allo stesso tempo, possono essere utilizzate da supporto ai
nuovi bonus fiscali per la messa in sicurezza: ad esempio,
sarebbe possibile concedere una premialità solo a chi riesce
a guadagnare almeno una classe o fare uno sconto maggiore a
chi ne guadagna due. Sul punto si concentrerà l’attenzione
del Mit nei prossimi giorni.
Sul fronte dell’emergenza, continua invece l’attività dei
soccorsi nelle zone più colpite. La Protezione civile ha
appena avviato il monitoraggio sulle scuole danneggiate e la
prossima settimana partiranno le verifiche di agibilità per
le case private. Ieri è stato individuato il luogo per la
ricostruzione della scuola di Amatrice, affidata alla
Provincia di Trento, che sarà composta di moduli
prefabbricati e avrà una copertura in legno. Il ministero
dell’Ambiente, intanto, sta lavorando al decreto per lo
smaltimento delle macerie. «Mi sono dato quindici giorni di
tempo ma potrebbe essere approvato anche prima. Prima
rimuoviamo le macerie, meglio è», spiega Gian?Luca Galletti.
La Protezione civile assicura che non ci sono ancora le
condizioni per stilare un censimento della popolazione, un
conteggio dei danni o una valutazione esatta del fabbisogno
abitativo. Anche per questo non è stata ancora fatta alcuna
gara per la fornitura di moduli abitativi. La conta dei
danni è necessaria per attivare la richiesta a Bruxelles del
fondo per le emergenze, il dossier deve essere inviato
necessariamente entro 12 settimane dall’evento.
Per l’approvvigionamento è già attiva l’apposita piattaforma
Consip dedicata all’emergency procurement, con convenzioni
tipo per container, bagni chimici, moduli abitativi e
servizi di trasporto.
Tra gli strumenti utili per le fasi post sisma c’è poi da
ricordare anche il plafond "eventi calamitosi" per 1,5
miliardi istituito da Cdp a maggio (ma non ancora operativo)
per prestiti agevolati a famiglie e imprese (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Crolli, i pm indagano sugli abusi edilizi.
Mattarella ai funerali: non temete, non vi abbandoniamo -
Renzi: ricostruiremo qui pezzo per pezzo.
Abitazioni private: ipotesi di cubature e documenti
illegittimi - Edifici pubblici sequestrati, verifiche Anac
su gare per la scuola di Amatrice.
Un brutto
pasticcio nell’edilizia di Amatrice e Accumoli. Aumenti di
cubature illegittimi di abitazioni private senza il relativo
adeguamento sismico. Divergenze tra i progetti di
ristrutturazione presentati al Genio Civile rispetto a
quelli finiti negli archivi dei comuni. Schede di
valutazione della vulnerabilità degli stabili pubblici,
compreso l’hotel Roma, che potrebbero risultare falsate.
Il fronte investigativo della Procura di Rieti si apre a
molteplici scenari. Perché un dato, stando agli inquirenti,
sembra ormai acquisito: l’abusivismo edilizio privato può
essere una delle cause della distruzione degli immobili dopo
il sisma del 24 agosto, 6.0 di magnitudo.
I
finanziamenti pubblici -pari a 79 milioni 420mila 393 euro
per il post sisma del 1997 in Umbria più altri 5 milioni
stanziati dalla Regione Lazio dopo il terremoto del 2009 a
L’Aquila- hanno avuto l’unico scopo di mettere in sicurezza
tutte quelle strutture, private e pubbliche, che avevano
subito danni.
Denaro, nella maggior parte dei casi, gestito
(su delega del sub-commissario al sisma del 1997)
direttamente dai comuni, che hanno affidato i lavori a
trattativa privata. Nessun adeguamento antisismico, come
previsto dalla legge, ma solo «ripristini» e «miglioramenti»
che hanno sostanzialmente tamponato un problema in un’area,
quella della provincia di Rieti, ad alto rischio terremoti.
Documenti al genio civile
Per questo il procuratore capo Giuseppe Saieva e un pool di
quattro sostituti procuratori ha delegato la polizia
giudiziaria a compiere una serie di acquisizioni documentali
alla Provincia di Rieti e al Genio Civile. Gli inquirenti
cercano tutte quelle documentazioni amministrative che
potrebbero sciogliere il nodo dei vasti e diffusi crolli.
Un
faro è puntato sui progetti di ristrutturazione edilizia
presentati al Genio Civile, documenti che illustrerebbero lo
svolgimento di alcuni lavori su strutture private. Tuttavia
sembra ci siano dei contrasti tra i progetti finiti al Genio
e quelli, poi, depositati al Comune di riferimento, in
particolare ad Amatrice.
Aumenti di cubature
Il nodo da sciogliere riguarda i progettisti ma anche e
soprattutto i geometri, che rappresentano la spina dorsale
dell’edilizia privata nei piccoli centri della provincia.
Per questo si ipotizza che siano stati svolti degli aumenti
di cubatura oltre determinate percentuali e senza aver
compiuto il dovuto adeguamento antisismico. Un’eventualità,
qualora riscontrata dai magistrati, che potrebbe confermare
che l’abusivismo edilizio è tra le principali cause della
devastazione.
D’altronde negli atti della Regione Lazio
risulta un’accurata analisi del contesto edilizio di
Amatrice, in cui si afferma che «la tipologia costruttiva
(muratura portante in pietrame locale) influenza in maniera
determinante la vulnerabilità degli edifici esistenti con
potenziali rischi per la popolazione».
In questo capitolo
dell’inchiesta rientra anche il vice sindaco di Amatrice,
Gianluca Carloni, che col fratello Ivo gestisce uno studio
professionale di geometri. Stando a informazioni giunte alla
Procura della Repubblica di Rieti, sarebbero tra i
principali professionisti che hanno compiuto svariati lavori
ad Amatrice.
Valutazioni di vulnerabilità
Tra i documenti che i magistrati stanno cercando ci sono le
valutazioni di vulnerabilità delle infrastrutture pubbliche.
Si tratta di atti rilasciati dal Comune che rappresentano
una sorta di libretto dell’immobile, in cui è illustrato il
grado di stabilità e se questo possa supportare la forza
sismica. Ai magistrati interessa soprattutto la valutazione
di Vulnerabilità della scuola Romolo Capranica (istituto che
è stato posto sotto sequestro dagli inquirenti, insieme ad
altri edifici pubblici, al fine di conservare lo stato dei
luoghi prima di una perizia che sarà compiuta a breve da un
consulente della Procura) e l’hotel Roma (anche se privata,
rientra fra le strutture strategiche e rilevanti).
Il timore
è che in queste valutazioni di Vulnerabilità -comunque non
vincolanti ai fini dell’adeguamento antisismico- siano
stati inseriti valori sbagliati così da celare il reale
rischio di un crollo in caso di sisma. Questo anche se nella
stessa relazione della Regione Lazio si afferma che «il
Comune di Amatrice è storicamente un territorio
frequentemente interessato da eventi sismici».
L’ordinanza del Viminale
L’acquisizione documentale ha riguardato anche l’ordinanza
del ministero dell’Interno n. 2741 del 30.01.1998,
concernente «lo stato di emergenza nei territori delle
province di Rieti e di Arezzo». Si tratta di un documento
che ha consentito l’erogazione degli oltre 79 milioni di
euro di investimento (solo per la provincia di Rieti) per
compiere «ripristini» e «miglioramenti» delle infrastrutture
pubbliche e private colpite dal sisma del 1997 in Umbria.
Il
deputato del Partito democratico, Fabio Melilli, ex
subcomissario per la ricostruzione delle province del Centro
Italia dopo il terremoto dell’Umbria, spiega che «la maggior
parte degli appalti sono stati gestiti dai comuni. Gran
parte dei fondi sono stati spesi dalle amministrazioni
locali con appalti di valore sotto una determinata soglia,
dunque a trattativa privata».
I progetti a rilento ad Amatrice
Dopo il sisma del 1997 fu stilato un elenco in cui si
prevedeva una ventina di interventi di miglioramento
anti-sismico per Amatrice e Accumoli (su un totale di circa
140 per tutti i paesi dell’area). L’importo venne stanziato
dalla Regione (passando per la Provincia) per varie
attività: si va, ad esempio, dai 100mila euro per la Torre
civica di Accumoli ai 200mila per la Chiesa di Santa Maria
Liberatrice; dai 150mila per la caserma dei Carabinieri di
Accumoli ai 260mila per la Chiesa di Sant’Angelo di
Amatrice; dai 125mila euro per il complesso parrocchiale di
San Pietro e Lorenzo di Accumoli fino ai 105mila per il
complesso parrocchiale di Amatrice.
Si parla, sommando le opere ipotizzate per entrambi i paesi,
di 1,8 milioni circa. Una piccola entità, dunque,
sufficiente a sistemare gli edifici e non certo a
organizzare un vero e proprio adeguamento anti-sismico.
Tuttavia nemmeno questi investimenti sono stati portati a
termine dagli enti locali.
Valutando la situazione nel
dettaglio a maggio 2016, quasi 10 anni dopo la decisione del
commissario delegato del sisma del 1997, si vede che su 19
interventi sulla carta, 9 hanno subito uno stop: alcuni definanziati, altri appaltati da poco, altri ancora con
lavori ancora in corso e, nella migliore delle situazioni,
ancora da collaudare.
La situazione è simile, in
proporzione, a quella di tutto il territorio di Rieti.
Complessivamente dal 1997 ad oggi sono stati stanziati 46,4
milioni per l’area (79,4 milioni se si considerano anche i
33 del piano precedente) (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI:
Un pareggio di bilancio soft. Unico obiettivo,
l'equilibrio fra entrate e spese finali. ENTI LOCALI/ In
Gazzetta Ufficiale la legge che manda in soffitta il patto
di Stabilità.
Dal 2017, il pareggio di bilancio imposto a regioni ed enti
locali sarà «meno stupido».
A semplificare i vincoli finanziari che sindaci, presidenti
di provincia e governatori devono rispettare, mandando
definitivamente in soffitta il vecchio patto di Stabilità, è
la legge 164/2012, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.
201 di ieri.
Il provvedimento modifica la legge 243/2012 e prevede un
unico obiettivo costituito dall'equilibrio fra entrate e
spese finali in termini di sola competenza, l'inclusione del
fondo pluriennale vincolato nel saldo e l'introduzione di un
doppio mercato, a livello regionale e nazionale, per il
finanziamento delle spese in conto capitale mediante debito
e avanzo di amministrazione. Inoltre, arrivano sanzioni più
intelligenti per chi sfora.
La legge 243 fu approvata ai tempi del Governo Monti per «fare
i compiti a casa» che l'Unione europea aveva imposto nel
nome del rigore finanziario. Fra le richieste di Bruxelles,
vi era anche quella di rafforzare i principi di
sostenibilità dei bilanci pubblici, introducendoli nella
Costituzione. A tal fine, venne varata la legge cost.
1/2012, di cui la 243 detta le disposizioni attuative.
Ben presto, però, il complesso di vincoli imposti da questa
disciplina si è rivelata una gabbia in grado di soffocare i
timidi segnali di ripresa che si sono registrati in questi
mesi. Basti pensare che agli enti territoriali veniva
imposto il rispetto di ben quattro saldi di bilancio a
preventivo e altrettanti a rendiconto, vincolando sia la
competenza (e quindi le nuove spese) che la cassa (ossia i
pagamenti per gli impegni già assunti).
In teoria, la 243 avrebbe dovuto entrare in vigore da
quest'anno, ma con una lettura un po' forzata la si è
rinviata al 01.01.2017. Da tale data, però, senza modifiche,
essa avrebbe spiegato appieno i suoi effetti recessivi.
Questa eventualità è stata scongiurata dalla legge
pubblicata ieri, che alleggerisce tale complesso di «lacci
e lacciuoli» prima ancora che diventino pienamente
vincolanti, dando copertura piena all'ultima legge di
Stabilità (legge 208/2015), che ha cancellato il patto di
Stabilità interno sostituendolo con un meccanismo di
pareggio di bilancio ispirato alla filosofia della 243 ma
decisamente più light (in quanto imperniato solo sulla
competenza e non sulla cassa).
Anche nei prossimi anni, quindi, gli enti territoriali
avranno come unico obiettivo quello di garantire il pareggio
fra quanto accertato in entrata (al netto del debito e
dell'applicazione dell'avanzo di amministrazione) e quanto
impegnato per spese correnti ed in conto capitale.
La legge affronta anche la questione del fondo pluriennale
vincolato, ossia della copertura degli investimenti già
finanziati che richiedono più anni per essere portati a
compimento. Attualmente, il fpv vale ai fini del pareggio
solo per il 2016, complicando la vita a tutte le
amministrazioni che hanno programmato interventi più a lungo
termine. Il testo pubblicato ieri, invece, lo ingloba nel
saldo, in modo stabile a partire dal 2020, anche se
limitatamente alla quota finanziata da entrate finali
(quindi al netto del debito e dell'avanzo), mentre per il
prossimo triennio sarà la legge di bilancio a definire la
sua rilevanza compatibilmente con lo stato dei conti
pubblici.
Tuttavia, come anticipato da ItaliaOggi del 30/06/2016, un
accordo fra governo ed enti territoriali garantisce anche
per i prossimi tre anni una copertura annuale al fpv almeno
pari a quella del 2016: si tratta di 660 milioni, per un
totale di circa 2 miliardi.
Importante anche l'ulteriore correttivo che affianca al
meccanismo di solidarietà su base regionale per consentire
il ricorso al debito e (altra novità) l'applicazione
dell'avanzo di amministrazione per gli investimenti, un
analogo meccanismo di livello nazionale.
Infine, vengono alleggerite le sanzioni, che dovranno essere
proporzionate alle violazioni e utilizzate per finanziare
gli incentivi agli enti virtuosi.
Ovviamente, non mancano i punti critici, che però dovranno
essere risolti in sede attuativa: la 243, infatti, è una
legge rinforzata ed una sua ulteriore modifica richiederebbe
nuovamente la maggioranza assoluta sia alla Camera che al
Senato
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2016). |
APPALTI: Antiriciclaggio,
controlli a 360°. Rispetto della normativa per partecipare
alle gare. La bozza di decreto legislativo sulla IV
direttiva arruola le pubbliche amministrazioni.
Controlli antiriciclaggio anche per partecipare agli
appalti. Le pubbliche amministrazioni vigileranno sul
possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità da
parte delle imprese in gara, prima di rilasciare loro
autorizzazioni, licenze e titoli abilitativi. Di più.
Stesse regole anche per la scelta del contraente per
l'affidamento di lavori secondo le procedure del codice
appalti. La nozione di pubblica amministrazione è
amplissima: rientrano anche le società partecipate,
Equitalia e gli altri soggetti preposti alla riscossione dei
tributi nell'ambito della fiscalità locale, quale che ne sia
la forma giuridica. Ovvero soggetti per i quali spesso è
molto alto il rischio di riciclaggio.
Sono queste alcune delle novità che impattano sulle
pubbliche amministrazione contenute nella bozza di decreto
legislativo che recepisce la IV direttiva antiriciclaggio e
che ItaliaOggi è in grado di anticipare.
Pubbliche amministrazioni sentinelle antiriciclaggio.
Un
intervento capillare nell'azione della pubblica
amministrazione a tutela e vigilanza sui fenomeni di
riciclaggio ma anche di terrorismo.
Le misure antiriciclaggio dovranno essere seguite per
qualunque attività della pubblica amministrazione su cui la
stessa effettua i controlli di competenza: dall'attribuzione
dei vantaggi economici alla concessione di contributi e
sussidi, dalla autorizzazione alla scelta del contraente per
l'affidamento di lavori, forniture e servizi.
Il comitato di sicurezza finanziaria avrà il compito di
elaborare delle linee guida per la mappatura e la
valutazione dei rischi, cui le «pubbliche amministrazioni»,
si legge nel testo, «sono esposte nell'esercizio della
propria attività istituzionale».
Una volta predisposte queste linee guida, sempre le
pubbliche amministrazioni dovranno dotarsi di procedure
interne, proporzionate alle proprie dimensioni organizzative
e operative idonee, e dovranno adottare una sorta di modello
organizzativo antiriciclaggio per la propria struttura
operativa.
Sarà compito delle pubbliche amministrazioni, come
attualmente è, comunicare all'Uif dati e informazioni
concernenti la propria attività per consentire
l'effettuazione di analisi mirate a far emergere fenomeni di
riciclaggio e di finanziamento del terrorismo.
Le p.a., inoltre, anche con appositi protocolli di intesa,
stipulati con l'Uif, e sotto il cappello del comitato di
sicurezza finanziaria, adottano misure di adeguata
formazione delle risorse umane per assicurare la
predisposizione di efficaci procedure di valutazione del
rischio, di individuazione delle misure necessarie a
mitigarlo e del riconoscimento delle fattispecie meritevoli
di essere comunicate.
Le comunicazioni antiriciclaggio all'Uif delle pubbliche
amministrazioni.
Le amministrazioni sono ancora fanalino di coda nel numero
di segnalazioni che arrivano annualmente all'Unità di
informazione finanziaria.
Nel 2015 (ultimi dati disponibili) a fronte di 82.428, oltre
10 mila in più rispetto al 2014 sono solo 21 quelle che
arrivano dalle p.a. E in questo ambito Milano è un caso
pilota essendo da sola la mittente di dieci segnalazioni.
L'andamento minimo è stato oggetto di riflessione da parte
dello stesso direttore dell'Uif Claudio Clemente, proprio
durante la presentazione della relazione annuale della task force antiriciclaggio della banca di Italia.
«Resta ancora aperto il fronte della collaborazione degli
uffici della Pubblica amministrazione, su cui ho richiamato
l'attenzione anche nella Relazione dello scorso anno.
Nonostante», riflette Clemente, «l'emanazione, a
settembre 2015, da parte del Ministero dell'interno di
specifici indicatori di anomalia e criteri organizzativi
volti ad agevolare l'intercettazione delle operazioni
sospette da parte di tali enti, i segnali di attivazione
risultano ancora assolutamente sporadici. Le poche
segnalazioni pervenute (21 nell'intero 2015 e solo 7 nel
primo semestre 2016) confermano che gli uffici della
Pubblica amministrazione possono costituire un osservatorio
privilegiato per cogliere sospetti di riciclaggio fondati,
di grande interesse e non duplicativi di quanto può essere
rilevato dagli operatori privati. In un contesto di sempre
maggiore attenzione ai profili della prevenzione, dell'etica
e dell'integrità, costituisce motivo di forte perplessità il
fatto che l'opportunità della collaborazione, più ancora che
il dovere, non sia stata finora colta», conclude
Clemente
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Enti, dirigente apicale obbligatorio (solo a
metà).
Dirigente apicale obbligatorio solo a metà, negli enti
locali. Il
decreto legislativo attuativo della riforma Madia della
dirigenza approvato in prima lettura dal Consiglio dei
ministri (Schema di decreto legislativo
recante disciplina della dirigenza della Repubblica -
Atto del Governo n. 328) mira all'abolizione definitiva di oltre 100 anni di
storia di una figura determinante per la corretta
amministrazione dei comuni, qual è il segretario comunale,
per sostituirla col «dirigente apicale».
L'esito effettivo della riforma consiste nell'aprire per i
sindaci la possibilità di selezionare il dirigente di più
stretta collaborazione come meglio crede, senza doversi più
necessariamente rivolgere alla selezionata cerchia dei
segretari comunali.
Il «dirigente apicale» infatti, sarà scelto nel più
vasto ambito dei ruoli unici della dirigenza, cioè in
ipotesi tra tutti i 36 mila dirigenti circa che confluiranno
nei ruoli.
Ma, non basta. Per quanto sia la legge 124/2015, sia lo
schema di decreto stabiliscano l'obbligatorietà della figura
del dirigente apicale, chiamato a svolgere compiti di
attuazione dell'indirizzo politico, coordinamento
dell'attività amministrativa, controllo della legalità
dell'azione amministrativa ed esercizio della funzione
rogante, in realtà tale figura obbligatoria non lo è
affatto, né può considerarsi pienamente operante la riserva
triennale di nomina in tale ruolo riconosciuta ai segretari
comunali dalla legge delega.
Nei comuni con almeno 100 mila abitanti e nelle città
metropolitane, in primo luogo, sarà possibile fare a meno
del «dirigente apicale», sostituendolo col direttore
generale, reclutato anche fuori dai ruoli unici della
dirigenza (e in questo caso, sarà un dirigente dei ruoli
unici a svolgere le funzioni connesse al controllo di
legalità e al rogito dei contratti).
Anche nei piccoli comuni gli spazi per l'attribuzione delle
funzioni del dirigente apicale di restringono. Infatti,
negli enti locali privi di posizioni dirigenziali nella
dotazione organica la funzione di dirigenza apicale deve
essere svolta obbligatoriamente in forma associata: il che
riduce ovviamente in modo significativo il numero dei
dirigenti apicali e, quindi, la possibilità che i segretari
comunali possano effettivamente contare, almeno per il primo
triennio successivo alla vigenza della riforma, su un
congruo numero di possibilità di essere chiamati a svolgere
funzioni coerenti con la propria formazione e preparazione.
Nelle disposizioni finali, lo schema di decreto per i comuni
nella cui dotazione non siano previste figure dirigenziali
fa, inoltre, «salva la possibilità di attribuire le
funzioni dirigenziali ai responsabili degli uffici e dei
servizi ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del decreto
legislativo n. 267 del 2000».
Una norma di complessa interpretazione, che potrebbe indurre
a ritenere che la funzione di «dirigente apicale»
possa anche essere assegnata non a un dirigente appartenente
ai ruoli unici costituiti dalla riforma, ma a funzionari
incaricati di funzioni dirigenziali.
Se questa chiave di lettura fosse corretta, migliaia di
comuni (la grandissima parte dei circa 8.100 enti locali non
hanno la dirigenza), potrebbero, dunque, affidare la
funzione apicale a un funzionario: non a un dirigente di
ruolo, né agli ex segretari.
Si tratterebbe, tuttavia, di una conseguenza fin troppo in
contrasto con la delega legislativa contenuta nella legge
124/2015, perché si consentirebbe di far svolgere funzioni
dirigenziali apicali, riservate agli iscritti ai ruoli della
dirigenza e, in particolare, al ruolo della dirigenza
locale, a persone non iscritte al ruolo e non in possesso
della qualifica dirigenziale.
Più correttamente, dunque, la disposizione lascia ferma la
facoltà di attribuire funzioni dirigenziali ai funzionari ai
sensi dell'articolo 109, comma 2, allo scopo non di far
coprire a funzionari la dirigenza apicale, bensì di
continuare a consentire agli enti locali privi di dirigenza
di far svolgere le funzioni dirigenziali ai funzionari di
vertice, senza istituire necessariamente posti di dirigente
in dotazione organica e senza gravare il dirigente apicale
di tutte le funzioni dirigenziali dell'ente
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La nuova «Pa» al giro di boa dell’attuazione.
Provvedimenti da completare entro febbraio.
La riforma della pubblica amministrazione targata Marianna
Madia ha effettuato il primo giro di boa. Ieri è, infatti,
scaduto il termine per esercitare la prima parte della
delega concessa al Governo dalla legge 124 del 2015 di
riassetto complessivo dell’universo pubblico, riforma
entrata in vigore il 28 agosto dell’anno scorso. Restano ora
altri sei mesi per mettere a punto i restanti decreti
legislativi, che dovranno arrivare entro fine febbraio.
La prima tranche
Seppure in zona Cesarini, il lavoro della prima fase di
disegno del nuovo volto della pubblica amministrazione può
dirsi compiuto. Il Consiglio dei ministri di giovedì scorso
ha approvato gli ultimi tre decreti del pacchetto in
scadenza il 28 agosto, data entro la quale il Governo doveva
esercitare la delega.
Si è trattato del sofferto
provvedimento sulla dirigenza pubblica -annunciato già al
Consiglio dei ministri del 10 agosto e considerato dalla
Funzione pubblica propedeutico anche al rinnovo dei
contratti del pubblico impiego- e di quello altrettanto
elaborato e contrattato di taglio e riorganizzazione delle
Camere di commercio, che dovrebbero passare da 105 a 60. In
questo caso la soluzione scelta è di affidare direttamente a
Unioncamere il compito di ridisegnare la geografia delle
proprie sedi sul territorio.
L’ultimo decreto, dei tre in
scadenza, ad aver ricevuto il via libera giovedì è quello
relativo alla semplificazione delle attività degli enti
pubblici di ricerca.
C’è stato, inoltre, un quarto provvedimento su cui il
Consiglio dei ministri si è espresso: si tratta dello
scorporo del comitato italiano paralimpico dal Coni e la sua
trasformazione in ente autonomo di diritto pubblico. Questo
decreto, però, non era “urgente” come gli altri tre, perché
fa parte della seconda fase di attuazione. Rientra, cioè,
tra quei provvedimenti per approntare i quali il Governo può
esercitare la delega entro il 28 febbraio prossimo.
Non si tratta dell’unico decreto ascrivibile alla seconda
fase e già arrivato al traguardo. Ci sono, infatti, anche
quello sull’accorpamento deli Forestali ai Carabinieri e
l’altro di riorganizzazione delle Autorità portuali: questi
ultimi -a differenza di quello sul comitato paralimpico,
che è stato approvato da Palazzo Chigi in via preliminare-
hanno anzi già compiuto tutti i passaggi e aspettano
l’arrivo sulla «Gazzetta Ufficiale».
Dunque, il giro di boa del primo anno si compie senza
lasciarsi quasi niente alle spalle: l’unico provvedimento
che manca all’appello è quello sulla razionalizzazione delle
spese per le intercettazioni, al quale avrebbe dovuto
provvedere il ministero della Giustizia entro il 28 aprile e
per il quale la delega è scaduta.
La seconda fase
Questo non vuol dire che la riforma sia ora in uno stato di
quasi compiutezza. Più semplicemente significa -per quanto
non sia certo da sottovalutare- che i decreti attuativi
previsti per la prima fase sono arrivati in porto. Non solo,
la gran parte ha già completato l’iter - doppia
approvazione, preliminare e definitiva, del Consiglio dei
ministri, parere del Consiglio di Stato (dove per snellire
le procedure è stata istituita una commissione ad hoc per
l’esame dei provvedimenti della riforma), valutazione delle
commissioni parlamentari.
Cinque di questi decreti sono già
approdati in Gazzetta e gli altri sono in procinto di farlo.
A inizio corsa ci sono -oltre ai decreti ancora in fase di
predisposizione- solo i quattro provvedimenti approvati dal
Governo giovedì.
Per completare l’opera occorre esercitare le altre deleghe
in scadenza a febbraio. La prima dovrebbe tradursi in
pratica già nelle prossime settimane: si tratta del decreto
che riordina l’Aci e il Pra. A quel punto mancheranno
all’appello provvedimenti di peso e sui quali c’è da
attendersi un serrato lavoro di messa a punto. Si tratta del
testo unico sul pubblico impiego, di quello (o quelli) sulla
riorganizzazione di Palazzo Chigi, dei ministeri, delle
agenzie governative e degli enti pubblici non economici e
dell’ultimo sul taglio e riassetto delle prefetture.
Reazione a catena
L’esercizio delle deleghe in genere si traduce in un
percorso a cascata: norme che richiamano altre norme. Anche
la riforma della Pa non si sottrae all’effetto matrioska.
Come le bamboline russe incastonate una dentro l’altra, pure
alcuni dei decreti legislativi sulla nuova Pa giunti al
traguardo per essere tradotti in pratica rimandano ad altri
provvedimenti.
Il caso più eclatante è l’accorpamento della
Forestale ai Carabinieri: perché il processo di unificazione
si completi saranno necessari anni e serviranno altri 22
atti. Meno numerosi gli ulteriori passaggi richiesti per
dare corpo alle modifiche del Cad, al riassetto delle
Autorità portuali e al taglio delle partecipate: per
completare l’opera “basteranno” altri 9 provvedimenti per
ciascun decreto (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Partecipate alla prova trasparenza.
Obbligatorio indicare in dettaglio ambito di attività e
prospettive.
Il nuovo Testo unico/1. Gli adempimenti per la costituzione
di società e per l’acquisizione di quote.
La
costituzione di una società o la semplice acquisizione di
una partecipazione societaria devono essere analiticamente
motivate dall’ente locale socio, con specifico riferimento
alla necessità della società per il perseguimento delle
finalità istituzionali della stessa amministrazione.
Il nuovo Testo unico sulle società partecipate
(Atto
del Governo n. 297 - Schema di decreto
legislativo recante testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica)
definisce un
percorso molto articolato e con una serie di passaggi
obbligatori, che vale sia quando la scelta
dell’amministrazione ricada su un organismo in house sia
quando si riferisca a una società mista.
Oltre all’indispensabilità rispetto alle finalità
istituzionali dell’ente socio, infatti, la deliberazione
costitutiva (di competenza consiliare, in base a quanto
dettato da specifica previsione dello stesso testo unico,
raccordata con l’articolo 42 del Tuel) deve esplicitare le
ragioni e le finalità che giustificano la particolare
scelta, anche sul piano della convenienza economica e della
sostenibilità finanziaria, nonché, in considerazione della
possibilità di destinazione alternativa delle risorse
pubbliche impegnate, deve evidenziare anche le ragioni della
gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato.
La motivazione deve anche dare conto della compatibilità
della scelta con i princìpi di efficienza, di efficacia e di
economicità dell’azione amministrativa.
L’amministrazione ha quindi l’obbligo di adottare la sua
decisione in merito alla costituzione o alla partecipazione
a una società (diretta o indiretta) sulla base di elementi
dettagliati, che devono illustrare in modo particolareggiato
l’ambito di attività e le prospettive dell’organismo (quindi
rapportandosi a un piano industriale completo, comprensivo
di proiezioni sul breve e medio periodo, collegate al
servizio da affidare) e dimostrare l’equilibrio
economico-finanziario del modulo gestionale prescelto
(quindi evidenziando le risultanze dell’analisi riportata in
uno specifico piano economico-finanziario).
L’importanza delle dinamiche economiche è chiarita anche
dall’obbligo della deliberazione costitutiva di dare atto
della compatibilità dell’intervento finanziario dell’ente
socio con le norme comunitarie in materia di aiuti di Stato
alle imprese, dovendo quindi tener conto delle regole
derivanti dalle decisioni e dalle raccomandazioni del 2011,
nonché del regolamento sulla coerenza dei contributi con la
disciplina del “de minimis”.
L’aspetto più rilevante di questa operazione è la necessaria
definizione in termini specifici del sistema di
remunerazione delle attività affidate alla società,
nell’ambito del quale devono essere evidenziate le eventuali
compensazioni per obblighi di servizio pubblico, al fine di
dimostrare la loro coerenza con i parametri comunitari
(fissati dalla sentenza Altmark e ripresi nelle decisioni
del 2011).
Il testo unico sulle società partecipate si collega, per
quelle in house, alle previsioni contenute nell’articolo 192
del codice dei contratti pubblici, che già aveva stabilito
per le amministrazioni parametri più rigorosi nel processo
di affidamento dei servizi pubblici e strumentali, mentre
per le società miste pone precisi vincoli, tra cui, in
particolare, la correlazione necessaria tra la durata della
partecipazione del privato alla società e quella della
concessione.
Al fine di garantire massima omogeneità nei contenuti, il
Testo unico prevede anche una disposizione che specifica gli
elementi essenziali della deliberazione costitutiva: l’atto
deve quindi essere inviato alla sezione regionale della
Corte dei conti e all’Agcm, che può far valere il proprio
potere di attivare un ricorso in caso di violazione della
normativa sulla tutela della concorrenza.
L’obbligo di illustrare in termini dettagliati il processo
di esternalizzazione e la relativa scelta di costituire una
società o di parteciparvi a tal fine è peraltro rafforzato
dalle previsioni del recente piano nazionale anticorruzione,
adottato dall’Anac con la deliberazione n. 831 del 3 agosto
e recentemente pubblicato in «Gazzetta Ufficiale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi,
il merito non basta. La rotazione deve diventare comunque
fisiologica. DIRIGENZA PUBBLICA/
Analisi del decreto approvato in prima lettura dal governo.
Il merito non è elemento rilevante per la rotazione degli
incarichi e per la stessa riforma della dirigenza.
Nonostante il governo enunci in maniera convinta che la
riforma dell'ordinamento dei dirigenti pubblici approvata
giovedì scorso «in via preliminare» dal Consiglio dei
ministri (si veda ItaliaOggi di ieri - Schema di
decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della
Repubblica -
Atto del Governo n. 328) sia fondata sulla
valorizzazione della professionalità e del «merito», il
sistema è in modo esplicito ed evidente estraneo, invece, a
questi elementi.
Una dimostrazione inconfutabile si reperisce nel testo
definitivo del Piano nazionale anticorruzione (Pna),
recentemente approdato in Gazzetta Ufficiale.
A proposito della «rotazione» dei dirigenti, il documento
elaborato dall'Anac insiste molto nel considerarla come uno
strumento ordinario e non punitivo di organizzazione del
personale, in particolare dei dirigenti. E nel testo si
scrive senza equivoci: «Negli uffici individuati come a più
elevato rischio di corruzione, sarebbe preferibile che la
durata dell'incarico fosse fissata al limite minimo legale.
Alla scadenza, la responsabilità dell'ufficio o del servizio
dovrebbe essere di regola affidata ad altro dirigente, a
prescindere dall'esito della valutazione riportata dal
dirigente uscente. Invero, l'istituto della rotazione
dirigenziale, specie in determinate aree a rischio, dovrebbe
essere una prassi «fisiologica», mai assumendo carattere
punitivo e/o sanzionatorio».
Come si nota, secondo l'Anac in ogni caso quando scada un
incarico dirigenziale sarebbe necessario far subentrare un
altro dirigente, anche se il precedente abbia ottenuto una
valutazione positiva.
In fondo, questo è il medesimo pensiero degli estensori del
decreto legislativo attuativo della riforma Madia. Infatti,
la regola generale impostata è che alla scadenza del
quadriennio di durata degli incarichi dirigenziali,
l'eventuale «rinnovo» di due anni (che, in realtà, è una
proroga) senza passare per le procedure «comparative»
ordinariamente previste, è solo una facoltà, sottoposta a
due condizioni: che il dirigente abbia ottenuto valutazioni
positive (si immagina nel corso del quadriennio) e che vi
sia una specifica motivazione.
Di fatto, quindi, il «merito», cioè la capacità dimostrata
da valutazioni positive dell'operato, nella logica sia del Pna, sia della riforma, non ha quasi rilevanza sulla
prosecuzione dell'attività dei dirigenti che abbiano
ricevuto valutazioni positive. In gergo sportivo, si
potrebbe parafrasare il proverbio ed affermare che «squadra
che vince, si cambia». Pna e riforma, infatti, spingono
perché comunque e a prescindere dalle valutazioni i
dirigenti continuino a cambiare incarichi.
Gli effetti operativi di questo atteggiamento non appaiono
certo semplici. Di fatto, l'applicazione delle indicazioni
di Anac e governo si pongono in palese contrasto con la
giurisprudenza della Corte costituzionale che a partire
dalle sentenze 103 e 104 del 2007 hanno considerato sistemi
di decadenza automatica degli incarichi dirigenziali (quali
a ben vedere sono quelli previsti dal Pna e dalla riforma)
lesivi del principio costituzionale della «continuità
amministrativa».
In effetti, le pubbliche amministrazioni si
vedrebbero costrette periodicamente a una modifica profonda
degli assetti dei vertici amministrativi, in contrasto con
qualsiasi buona regola organizzativa che assicuri la
continuità operativa.
Il tutto, poi, crea una forte precarizzazione della
dirigenza, indotta, a prescindere dalla valutazione positiva
ottenuta, a ritrovarsi ogni 4 anni a rischio di restare in
disponibilità dei ruoli, con lo stipendio falcidiato. Il
che, indubbiamente spingerà i dirigenti, superato il secondo
biennio degli incarichi, a concentrare la loro attenzione
alla partecipazione agli avvisi pubblici per ottenere nuovi
incarichi. Il che contribuirà ad un caos operativo notevole.
L'estensore del decreto attuativo della riforma Madia, per
altro, è consapevole di questi rischi: infatti ha previsto
che negli avvisi pubblici per attivare le procedure
comparative finalizzate ad assegnare nuovi incarichi, le
amministrazioni si avvalgano della facoltà di tenere
«bloccati» i dirigenti incaricati per almeno 3 anni,
riservandosi il diritto di prestare il consenso al dirigente
che abbia partecipato a una procedura, superandola, a
prendere servizio presso la nuova amministrazione
---------------
Precarizzazione, primo effetto della
riforma.
La precarizzazione della dirigenza è uno degli effetti più
evidenti della riforma Madia. Nonostante molti osservatori
ed esponenti dell'esecutivo affermino che il decreto
attuativo intenda valorizzare la dirigenza, la riforma
finisce per indebolirla moltissimo e legare eccessivamente
il destino lavorativo dei manager pubblici all'appoggio
politico.
Gli strumenti per precarizzare la dirigenza pubblica,
nonostante sia «di ruolo», dunque assunta a tempo
indeterminato mediante concorsi, sono molteplici. Il
principale, consiste nella possibilità di licenziare il
dirigente che sia rimasto privo di incarico per sei anni,
non per demerito circostanziato da valutazioni negative, ma
per la circostanza fortuita che, scaduto l'incarico, al
termine delle procedure comparative per l'assegnazione di
incarichi, pur se il suo curriculum sia selezionato dalle
Commissioni nazionali competenti a gestire le procedure, non
sarà poi scelto dagli organi di governo, i quali avranno
spazi apertissimi fino quasi all'arbitrio per decidere a chi
conferire o meno l'incarico.
Ovviamente, il rimedio da
ultima spiaggia del demansionamento a funzionario non
attenua, per certi versi aggrava, la precarizzazione.
L'altro elemento probabilmente ancor più rilevante consiste
nella mera facoltà delle amministrazioni di assegnare gli
incarichi dirigenziali ai dirigenti di ruolo. Infatti, la
riforma, in linea con la legge delega 124/2015, prevede solo
la «possibilità» di incaricare i dirigenti iscritti nei
ruoli unici. In altre parole, quindi, i dirigenti, pur
selezionati per concorso, non hanno alcuna posizione
privilegiata per assumere incarichi dirigenziali e, quindi,
continuare a svolgere il proprio lavoro, anche quando
ricevano valutazioni positive.
Tanto è vero che il decreto
legislativo conferma la possibilità già oggi data alle PA
dall'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, di conferire
incarichi dirigenziali a persone non appartenenti ai ruoli
unici della dirigenza. Dunque, i ruoli sono «unici», ma non
saranno l'unica fonte di provenienza degli incarichi, poiché
saranno possibili ancora cooptazioni dirette da parte della
politica di dirigenti esterni, nelle stesse misure
percentuali oggi esistenti: l'8% per i dirigenti generali
dello Stato, il 10% per gli altri dirigenti statali e ben il
30% per i dirigenti locali.
C'è, poi, lo strumento della «decadenza da
riorganizzazione». Qualsiasi amministrazione può decidere
autonomamente di riorganizzarsi e, in conseguenza di ciò,
ridurre anche le strutture dirigenziali: un sistema perfetto
per realizzare (come in passato è spesso avvenuto)
riorganizzazioni «ad personam», finalizzate proprio a
lasciar decadere gli incarichi di dirigenti considerati
scomodi.
Su questo tipo di decadenze, le Commissioni
competenti alle procedure selettive saranno chiamate a
fornire un parere, per evitare che siano appunto create a
scopi punitivi, ma si tratta di un parere non vincolante,
che, per altro, se non espresso entro 30 giorni si intende
acquisito (in senso favorevole)
(articolo ItaliaOggi del 27.08.2016). |
ENTI LOCALI: Le
Cdc diventeranno 60. Il diritto annuale si dimezza.
Riduzione a 60 camere di commercio, con almeno una Cdc per
regione, riduzione al 50% dei diritti camerali; ma anche
definizione delle indennità spettanti ai revisori dei conti
e dei criteri di rimborso per i componenti di tutti gli
organi, come pure dei limiti al trattamento economico dei
vertici amministrativi, compresi quelli delle aziende
speciali.
Sono questi alcuni dei punti contenuti nello schema di dlgs
di riforma delle camere di commercio (Atto
del Governo n. 327 - Schema di decreto
legislativo recante riordino delle funzioni e del
finanziamento delle camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura), attuativo della
riforma Madia (si veda ItaliaOggi del 24/08/2016).
Riduzione costi.
In particolare, il citato decreto che dovrà adesso essere
sottoposto al parere delle commissioni parlamentari e della
Sezione consultiva del Consiglio di stato, prevede la
ridefinizione delle circoscrizioni territoriali, con
conseguente riduzione del numero delle Camere di commercio
entro il limite di 60.
L'obiettivo è quello di ridurre i
costi di gestione consentendo in tal modo la riduzione dei
cosiddetti diritti camerali. In sede amministrativa è stata
già disposta la riduzione del 35% e del 40% del diritto
annuale, rispettivamente, per l'anno 2015 e per l'anno 2016;
ora è espressamente confermata quella del 50% a decorrere
dal 2017.
Funzioni istituzionali.
Lo schema di decreto prevede la ridefinizione dei compiti e
delle funzioni assegnati alle camere di commercio,
eliminando duplicazioni di funzioni con altre
amministrazioni ed enti pubblici. E ciò, anche con
riferimento alle partecipazioni societarie che sono a loro
volta limitate a quelle strettamente funzionali.
Con
riferimento a tale aspetto, va rilevato il fatto che con lo
schema di decreto SCIA2, e il cui iter di approvazione è in
corso è stata mantenuta, in capo agli enti camerali, la
competenza in diversi settori tra cui commercio
all'ingrosso, facchinaggio, pulizie. E ciò nonostante la
previsione di uno «sportello unico».
Le unioni regionali.
Il Governo ha previsto anche che l'unione regionale potrà
essere costituita soltanto nelle regioni in cui sono
presenti almeno tre camere di commercio e nel solo caso in
cui tutte le camere aderiscono alla medesima associazione.
Peraltro, l'individuazione o il mantenimento di unioni
regionali sarà in ogni caso possibile solo previa
approvazione del ministero dello sviluppo economico al quale
dovrà essere dimostrata l'economicità della struttura e gli
effetti di risparmio rispetto ad altre possibili soluzioni
di svolgimento delle relative attività.
Il giudice delle imprese.
Una ulteriore novità è quella che il giudice del registro è
nominato non più dal presidente del tribunale del capoluogo
di provincia ma dal presidente del tribunale delle imprese
competente per il territorio dove ha sede la camera di
commercio.
Sarà previsto, inoltre, che gli uffici del registro delle
imprese su cui avrà competenza il tribunale delle imprese
saranno retti da un unico conservatore nominato dal Mise su
proposta di Unioncamere, sentiti i presidenti delle camere
di commercio operanti nell'ambito della stessa
circoscrizione
(articolo ItaliaOggi del 27.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Corte dei conti morde a vuoto. Le sentenze
restano lettera morta in un caso su tre.
Lo si legge nella relazione al dlgs sulla
giustizia contabile. Che tenta di porre rimedio.
Le sentenze delle Corte dei conti rimangono lettera morta in
due casi su tre. Nella migliore delle ipotesi. Altre stime
quantificano, addirittura, a mala pena, nel 10% del dovuto
il recupero dei crediti accertati nei confronti dei
responsabili di danno erariale. Il nuovo codice della
giustizia contabile cerca di metterci una pezza, rivisitando
le fasi dell'esecuzione, ma non in modo incisivo.
Sono gli stessi lavori parlamentari a sottolinearlo: anche
se il pubblico ministero contabile sarà chiamato a
supportare le p.a. danneggiate dal funzionario infedele,
infatti, non si tratta di un obbligo cogente, ma solo di una
facoltà.
Il decreto legislativo relativo al Codice di giustizia
contabile, adottato ai sensi dell'articolo 20 della legge n.
124/2015, approvato in via definitiva dal consiglio dei
ministri del 10.08.2016, riscrive per intero le disposizioni
processuali di tutti i tipi di giudizi che si svolgono
davanti alla Corte dei conti.
Il codice, tuttavia, deve confrontarsi con le difficoltà
strutturali del processo contabile sulla responsabilità
erariale, che stenta a raggiungere i suoi obiettivi: il
bilancio dell'attività di recupero vede perdente lo stato.
La relazione tecnica allo schema del provvedimento, sul
punto, pagina 1, è chiara e impietosa: il dato dei recuperi
nel quinquennio 2011-2015 è stato stimato in 213 milioni di
euro, a fronte di 646 milioni di importi di condanna, il che
conduce ad una percentuale di introiti sulle condanne di
circa il 33%.
Ancora più imbarazzante è il dato riferito dalla relazione
illustrativa (pag. 37): tolleranze, ritardi, inerzie e
omissioni hanno fatto registrare un tasso di riscossione
inferiore al 10% annuo. L'analisi della cause di questa
situazione allinea sia difficoltà organizzative sia scarsa
incisività delle disposizioni processuali.
Vediamo i rimedi studiati dal codice in commento per far
riguadagnare terreno all'erario pubblico. Il primo gruppo di
interventi fa leva su sconti di sanzione promessi a chi
accetta un rito alternativo.
Ecco, dunque, che chi sceglie il rito abbreviato può
definire la sua posizione con il pagamento di una somma non
superiore al 50% della pretesa risarcitoria prevista
nell'atto di citazione. L'istanza può anche essere
presentata in appello, ma la somma da pagare lievita e non
può essere inferiore al 70 per cento. Insomma: pochi ma
sicuri.
Un secondo gruppo di rimedi riguarda direttamente la fase
delle esecuzioni delle sentenze della Corte dei conti.
Siamo, dunque, arrivati a una pronuncia che condanna un
funzionario a pagare una somma di denaro all'amministrazione
danneggiata. La regola, che rimane anche nel nuovo codice, è
che il recupero deve essere eseguito dalla stessa
amministrazione che ha subito il danno.
Ma, come si è visto, disorganizzazione, incapacità
gestionali e procedure macchinose non fanno brillare gli
enti per efficienza e l'attività esecutiva non è per nulla
proficua.
In questo quadro, il codice introduce una novità: vengono
potenziate le attività di vigilanza e monitoraggio costante
da parte del pubblico ministero contabile. In particolare,
il pubblico ministero potrà supportare l'azione delle
singole amministrazione coinvolte (ad esempio un piccolo
comune), attraverso accertamenti patrimoniali e altre
istruzioni impartibili a richiesta.
Ci si chiede se ciò sarà sufficiente. Un certo scetticismo è
apertamente dichiarato nel parere del Senato allo schema di
decreto legislativo: si prevede, infatti, solo la facoltà (e
non l'obbligo sistematico) per il pubblico ministero di
indirizzare istruzioni sullo svolgimento dell'azione di
recupero.
Peraltro le singole amministrazioni faranno bene a farsi
aiutare dalle procure contabili. A queste andranno rivolte
le richieste di accertamenti patrimoniali finalizzati alla
verifica di solvibilità del debitore e di buon fine della
procedura di recupero. A proposito delle procedure di
recupero, il codice cita espressamente le compensazioni in
via amministrativa, le esecuzioni forzate regolate dal
codice di procedura civile e l'iscrizione a ruolo. Peraltro
deve ammettersi anche il recupero mediante l'ingiunzione
regolata dal regio decreto 639/1910 (articolo ItaliaOggi del 27.08.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenza
pubblica a tempo. Incarichi di 4 anni (+2). A casa chi sta
fermo un anno. Il consiglio dei ministri ha approvato lo
schema di dlgs attuativo della riforma Madia.
Gli incarichi dirigenziali nella p.a. dureranno quattro anni
e saranno prorogabili solo una volta, per altri due anni.
Ogni volta che scade un incarico, i dirigenti subiranno la
messa in disponibilità, fino al conferimento di un nuovo
incarico. I dirigenti potranno restare in disponibilità nei
ruoli solo per un anno, decorso il quale senza ottenere
nuovi incarichi saranno licenziati.
In alternativa potranno rimanere ma accettando un
demansionamento a funzionari.
Lo prevede il
decreto legislativo attuativo del riordino
della dirigenza pubblica approvato ieri in prima lettura
in attuazione della legge 07.08.2015, n. 124 (Riforma
Madia), dal consiglio dei ministri (Schema di
decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della
Repubblica -
Atto del Governo n. 328).
Accesso alla dirigenza.
I canali saranno due: il corso-concorso e il concorso. Col
primo, però, i vincitori non saranno assunti come dirigenti,
bensì come funzionari in prova per tre anni. Non risulta
chiaro il meccanismo di assegnazione. Si intuisce che i
funzionari saranno assegnati agli enti che hanno chiesto
l'assunzione dei dirigenti: il che lascia perdurare per tre
anni, però, la carenza della figura dirigenziale.
Al termine
dei tre anni di prova, l'amministrazione cui è stato
assegnato l'aspirante dirigente se formula una valutazione
positiva potrà assumerlo come dirigente e assegnargli
l'incarico direttamente, senza le procedure selettive
previste. Chi non supera la prova potrà rimanere un altro
anno in servizio ed ottenere una nuova valutazione. I
vincitori del concorso, invece, saranno assunti direttamente
come dirigenti, ma con contratto a termine di quattro anni
al massimo.
Potranno essere confermati se supereranno, a
conclusione del lavoro a termine un esame di conferma. In
caso contrario, manterranno l'incarico dirigenziale fino al
successivo esame di conferma, non superato il quale decadono
da dirigenti. La bozza impone alle amministrazioni di
provenienza di riassumerli come funzionari.
Incarichi: dirigenti generali dello Stato.
Niente procedura comparativa con avviso pubblico, nelle
amministrazioni statali, per gli incarichi di segretario
generale della presidenza del consiglio dei ministri e dei
ministeri, per quelli di direzione di strutture articolate
al loro interno in uffici dirigenziali generali, per quelli
di livello equivalente, e quelli conferiti presso gli uffici
di diretta collaborazione dei ministri.
In ogni caso, nelle
amministrazioni statali quando partiranno le procedure
comparative per l'assegnazione degli incarichi avranno
diritto di preferenza per gli incarichi dirigenziali
generali i dirigenti di prima fascia in servizio alla data
di entrata in vigore del presente decreto presso
l'amministrazione che conferisce l'incarico, fino ad
esaurimento.
Incarichi: conferimento e durata.
Gli incarichi saranno conferiti a seguito di procedure
comparative, svolte da Commissioni composte da nove membri,
ciascuna per ciascun ruolo unico (Stato, regioni ed enti
locali), anche se la scelta finale sarà degli organi di
governo. Inizialmente, gli incarichi dureranno quattro anni
e sono prorogabili solo una volta, in caso di valutazione
positiva, per altri due anni.
Per evitare un tourbillon di
dirigenti, sarà possibile prevedere negli avvisi pubblici
che attivano le procedure comparative un periodo minimo di
permanenza nell'incarico, non superiore a tre anni, durante
il quale l'assunzione di un successivo incarico da parte di
dirigente che partecipi a successivi avvisi sarà subordinata
al consenso dell'amministrazione che ha conferito il
precedente incarico.
Sarà possibile prorogare l'incarico per
il periodo strettamente necessario al completamento delle
procedure per il conferimento del nuovo incarico, comunque
non superiore a novanta giorni. I dirigenti risulteranno
assunti dalle amministrazioni che attribuiscono loro gli
incarichi. Ogni volta che acquisiranno un incarico presso
un'amministrazione differente vi sarà la cessione del
contratto di lavoro.
Scadenza.
Ogni volta che scada un incarico, i dirigenti subiranno
necessariamente la messa in disponibilità nei ruoli, fino al
conferimento di un nuovo incarico dirigenziale. I dirigenti
privi di incarico hanno l'obbligo di partecipare nel corso
di ciascun anno ad almeno cinque procedure comparative di
avviso pubblico, per le quali abbiano i requisiti.
La
collocazione in disponibilità costerà cara all'ultima
amministrazione presso la quale i dirigenti hanno lavorato:
infatti, questa dovrà assicurare per il primo anno il
trattamento economico fondamentale (senza retribuzione di
posizione e risultato). Per ciascuno dei tre anni
successivi, le parti fisse o i valori minimi di retribuzione
di posizione eventualmente riconosciuti nell'ambito del
trattamento fondamentale sono progressivamente ridotti di un
terzo del loro ammontare.
Il testo della bozza non prevede
più il licenziamento come conseguenza della permanenza in
disponibilità e, anzi, prevede che l'anzianità nella
condizione di disponibilità sia titolo preferenziale nelle
procedure. I dirigenti, comunque, in qualsiasi momento
potranno scegliere di demansionarsi a funzionari.
Valutazione negativa. La bozza mira ad un sistema unico di
valutazione, che ampia di molto le ipotesi di responsabilità
cui collegare la decadenza anticipata dell'incarico per
valutazione negativa. In questi casi, i dirigenti, ferma
rimanendo la possibilità di demansionamento, potranno
restare in disponibilità nei ruoli solo per un anno, decorso
il quale senza ottenere nuovi incarichi saranno licenziati
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ferie
finite per i giudici.
Il 1° di settembre riparte il calendario dei termini
giudiziari. Riprendono, quindi, le procedure e il conteggio
dei giorni per depositare gli atti e i documenti. In materia
tributaria la sospensione c'è stata sia per proporre il
ricorso sia per proporre l'appello (il conteggio dei 60
giorni è stato sospeso il 31 luglio e ricomincerà il 1° di
settembre).
Nel dettaglio, per tutti i procedimenti i termini riprendono
a decorrere da dopo la pausa estiva. Nel caso in cui il
conteggio dei giorni fosse dovuto cominciare durante
l'intervallo estivo, l'inizio dello stesso è slittato al 1°
di settembre. Ciò significa che, nel caso in cui si sarebbe
dovuto presentare un ricorso contro atti impositivi (il
termine, pena l'inammissibilità, di 60 giorni dalla data
della notifica) con scadenza nell'intervallo di tempo che va
dal 1° al 31 di agosto, i 31 giorni passati, si devono
andare ad aggiungere ai 60 che sono a disposizione per
impugnare l'atto.
Quindi, se per esempio l'atto è stato notificato il
07.07.2016, l'ultimo giorno per proporre il ricorso sarebbe
il 6 ottobre. Questo perché, seguendo il ragionamento fatto
sopra: dall'8 al 31 luglio sono 24 giorni, ai quali si
devono aggiungere i 36 che vanno dal 1° di settembre al 6 di
ottobre. Nel caso in cui, invece, la notifica sia avvenuta
in agosto, allora il conteggio dei 60 giorni inizia
automaticamente dal 1° di settembre e quindi l'ultimo giorno
utile per impugnare l'atto è il 30 di ottobre.
Attenzione perché per presentare appello contro una
sentenza, i giorni del periodo feriale sono esclusi dal
conteggio del termine ordinario anche se la sentenza
riguarda giudizi iniziati prima del 04.07.2009 (termine di
un anno) e per tutti quelli che sono stati avviati dopo
questa data e per cui il termine è di sei mesi.
Il periodo di ferie vale, invece, per tutte le mediazioni
tributarie. Non solo per quanto riguarda i termini per
notificare il ricorso e quello per il suo deposito in
segreteria, ma anche per quanto riguarda il termine previsto
per la conclusione del procedimento della mediazione
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Atti,
le notifiche Pec a rischio. Divergenze sulla validità della
posta elettronica. Il confronto di prassi e giurisprudenza
sulle regole valide per il processo tributario.
Notifiche degli atti (ricorsi e appelli) nell'ambito delle
liti tributarie con posta elettronica certificata (Pec) a
rischio.
Ciò emerge dalla combinata lettura degli articoli 20, commi
1 e 2 e 53, comma 2, del dlgs 546/1992, dalla circolare 2/DF
del 12.05.2016 e di alcune recenti sentenze della
giurisprudenza di merito (Ctr Milano n. 1711/34/2016, Ctr
Benevento, n. 365/2013, Ctr Roma, n. 54/10/2010 e,
soprattutto, Ctr Bologna, n. 2065/2015).
Con il documento di prassi indicato (circ. 2/DF/2016), il
dipartimento delle finanze aveva evidenziato, innanzitutto,
che il legislatore ha incentivato l'utilizzo della posta
elettronica certificata (Pec) nell'ambito del processo
tributario telematico (Ptt).
Nella medesima circolare (§ 2 e 6), il ministero ha
ricordato che la procedura si rende applicabile «agli atti
processuali relativi ai ricorsi notificati a partire dal
primo giorno del mese successivo al decorso del termine di
novanta giorni dalla data di pubblicazione del presente
decreto, da depositare presso le Commissioni tributarie
provinciali e regionali dell'Umbria e della Toscana»; di
conseguenza, le disposizioni sul processo tributario
telematico si rendono applicabili nelle due regioni
indicate, per i ricorsi e gli appelli notificati a partire
dall'01/12/2015, previa registrazione al Sistema informativo
della giustizia tributaria (in sigla, Sigit).
Si ricorda che l'indirizzo di posta elettronica, se indicato
nel ricorso introduttivo o nell'istanza di reclamo e
mediazione, equivale a elezione di domicilio digitale,
dovendo ritenere risolti i vizi di notifica, ma dovendo
rilevare che, ai fini della domiciliazione digitale, devono
ritenersi validi i soli indirizzi Pec le cui credenziali di
accesso siano state rilasciate previa identificazione del
titolare.
Inoltre, in caso di notifica del ricorso (o dell'atto di
appello) effettuata mediante Pec, affinché la comunicazione
possa ritenersi valida, è necessario che il notificante
stampi l'atto notificato in formato Pdf con firma digitale,
se si tratta di allegato, depositi le ricevute di
accettazione e consegna completa della Pec, presenti il
certificato di firma digitale del notificante e il
certificato di firma del gestore della Pec e indichi tutte
le ulteriori informazioni richieste.
Infatti, «è elemento indispensabile, ai fini della corretta
notificazione ( ), la firma digitale, che deve riferirsi in
maniera univoca a un solo soggetto e al documento o
all'insieme dei documenti cui è apposta o associata» in
quanto «l'apposizione della firma digitale integra e
sostituisce l'apposizione di sigilli, punzoni, timbri,
contrassegni e marchi di qualsiasi genere a ogni fine
previsto dalla normativa vigente» giacché «l'apposizione
della firma digitale da parte del pubblico ufficiale ha,
inoltre, l'efficacia di cui all'articolo 24, comma 2, dlgs.
82/2005» (Ctp Avellino, sentenza 556/2014, Tar Lazio-Roma
decreto n. 23921/2013, Tar Campania-Napoli sentenza n.
1756/2013).
Come indicato dalla giurisprudenza inizialmente citata (tra
le altre, Ctr Bologna, sentenza 2065/2015), la situazione,
invece, è stata chiarita dal comma 2, dell'articolo 46, dl
90/2014, «dal quale è dato evincere come sia da escludere
l'ammissibilità delle notificazioni a mezzo Pec nel processo
tributario», giacché «per la ricordata norma, infatti,
all'articolo 16-quater del dl 18.10.2012, n. 179,
convertito con modificazioni, dalla legge 17.12.2012,
n. 221, dopo il comma 3, è aggiunto, in fine, il seguente:
«3-bis. Le disposizioni dei commi 2 e 3 non si applicano
alla giustizia amministrativa» .
Pertanto, si dovrebbe concludere, che «a seguito
dell'entrata in vigore (19/08/2014) dell'art. 46, comma 2,
dl 90/2014, le notifiche ex art. 3-bis ( ) sono da
considerarsi escluse dal rito tributario, come conseguenza
dell'esclusione delle medesime da quello amministrativo»,
con la conseguenza che la commissione adita deve
necessariamente verificare la correttezza della notifica ed,
eventualmente, rilevare d'ufficio l'illegittimità e
tardività dell'atto depositato
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Addio
ai segretari comunali. Albo soppresso. E al loro posto il
dirigente apicale. Lo prevede il dlgs attuativo della
riforma Madia approvato dal consiglio dei ministri.
Addio ai segretari comunali. Quando sarà costituito e
funzionante il Ruolo dei dirigenti locali, introdotto dal
decreto legislativo attuativo della riforma Madia della
dirigenza, approvato ieri in prima lettura dal consiglio dei
ministri (Atto del Governo n. 328
- Schema di
decreto legislativo recante disciplina della dirigenza della
Repubblica), la figura del segretario comunale e provinciale
sarà abolita, con la conseguenza della soppressione del
relativo albo.
Al posto del segretario comunale, gli enti
locali incaricheranno (come figura obbligatoria) il
«dirigente apicale», selezionandolo con le ordinarie
procedure per l'incarico dei dirigenti appartenenti ai
ruoli.
Si chiuderà così una storia centenaria di servitori dello
stato, dotati di una qualificatissima e specifica competenza
nella gestione amministrativa degli enti locali. Alcune
delle funzioni tipiche del segretario comunale passeranno
«in eredità» al dirigente apicale: i compiti di attuazione
dell'indirizzo politico, il coordinamento dell'attività
amministrativa e controllo della legalità dell'azione
amministrativa. Ma, lo statuto o i regolamenti degli enti
locali potranno incaricare il dirigente apicale di svolgere
«ogni altra funzione».
Nel Ruolo dei dirigenti locali, una volta istituito,
confluiranno i segretari comunali e provinciali già iscritti
nell'albo nazionale, e collocati nelle fasce professionali A
e B e saranno assunti dalle amministrazioni che conferiscono
loro incarichi dirigenziali, nei limiti delle dotazioni
organiche. I segretari di fascia C e i vincitori dei
concorsi da segretario saranno inseriti in servizio per due
anni come funzionari. Gli enti presso i quali nei successivi
due anni sarà disponibile un ufficio dirigenziale, potranno
chiedere alla Commissione che gestirà il Ruolo unico dei
dirigenti locali, la loro, presentando un progetto
professionale e formativo di inserimento.
Anche i piccoli
comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, o a 3.000
abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità
montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide
integralmente con quello di una o più isole, e il comune di
Campione d'Italia, avranno l'obbligo di dotarsi del
dirigente apicale, ma dovranno gestire la funzione in forma
associata, mediante una convenzione che stabilisce le
modalità di espletamento del servizio, individua le
competenze per la nomina e la revoca del dirigente apicale,
e determina la ripartizione degli oneri finanziari per la
retribuzione.
Nei grandi comuni con popolazione di almeno 100.000 abitanti
e nelle città metropolitane sarà ancora possibile incaricare
un direttore generale, in alternativa al dirigente apicale.
In questo caso la funzione di controllo della legalità
dell'azione amministrativa e la funzione rogante saranno
assegnate a un dirigente appartenente a uno dei Ruoli della
dirigenza, in possesso dei requisiti prescritti. Da notare
che nelle province non sarà più possibile avere direttori
generali. Gli incarichi di dirigente apicale cessano laddove
non siano rinnovati entro 90 giorni dalla data di
insediamento degli organi esecutivi.
Dunque, si prevede una
forma anomala di rinnovo: i dirigenti apicali potranno
essere rinnovati non per due anni, come gli altri dirigenti,
ma per un intero mandato amministrativo, senza passare dalle
procedure comparative. Per quanto riguarda i segretari
comunali che si ritroveranno privi di incarico alla data di
entrata in vigore del decreto legislativo attuativo della
riforma e che confluiranno nel ruolo unico dei dirigenti
degli enti locali, avranno quattro anni di tempo per
ottenere un incarico dirigenziale (o di dirigente apicale),
decorso il quale senza ottenerne, cessano dal Ruolo della
dirigenza, e il loro rapporto di lavoro si risolve.
In ogni caso, in sede di prima applicazione, e per un
periodo non superiore a tre anni dalla data di entrata in
vigore del decreto attuativo, gli enti locali privi di un
direttore generale potranno conferire l'incarico di
direzione apicale solo agli ex segretari comunali, senza
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (il che vuol
dire che il trattamento economico per almeno tre anni
resterà quello proprio dei segretari comunali).
Se l'incarico sarà attribuito a un segretario di fascia C o
a un vincitore dei concorsi di accesso alla carriera dei
segretari, sarà iscritto nel ruolo dei dirigenti degli enti
locali dopo aver ricoperto tale incarico per una durata
complessiva non inferiore a diciotto mesi
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
ENTI LOCALI: Srl
pubblica, sindaci o revisori. Nelle spa diventa obbligatoria
la revisione esterna. Le novità in tema di amministrazione e
controlli previste dal decreto sulle partecipate.
In tutte le srl a controllo pubblico dovrà essere nominato
un sindaco unico o un collegio sindacale o un revisore.
Nelle società per azioni, oltre al collegio sindacale dovrà
essere sempre nominato un revisore esterno. Nelle stesse
società sarà sempre ammissibile, per ciascuna
amministrazione pubblica, richiedere il controllo
giudiziario della società anche qualora la stessa operi in
forma di srl.
La richiesta di tale controllo diverrà doverosa nei casi in
cui l'organo amministrativo non adotti i provvedimenti
necessari a prevenire l'aggravamento della crisi. Gli organi
di amministrazione e controllo della società partecipata,
oltre alla responsabilità tipica di cui al codice civile,
saranno sottoposti anche al vaglio della Corte dei conti per
eventuali danni erariali.
Sono alcuni dei principali aspetti che riguardano
l'amministrazione ed il controllo delle società a
partecipazione pubblica nel dlgs definitivamente approvato
mercoledì 10 agosto (Atto
del Governo n. 297 - Schema di decreto
legislativo recante testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica)
dal consiglio dei ministri.
La composizione del cda
Di norma, tutte le società a controllo pubblico dovranno
essere gestite da un amministratore unico. Con apposito dpcm,
su proposta del Mef, entro i prossimi sei mesi saranno
definiti i criteri in base ai quali, per specifiche ragioni
di adeguatezza amministrativa (quindi nelle società
presumibilmente grandi e complesse ndr), l'assemblea delle
società può deliberare che il cda sia costituito da tre o
cinque membri. La stessa può altresì optare, nelle spa, per
il sistema monistico o dualistico.
In questi casi, il numero
dei componenti complessivo del consiglio di amministrazione
e comitato per il controllo di gestione nel monistico e del
consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza nel
dualistico, non può eccedere il numero massimo di cinque
membri. Nella scelta dei componenti degli organi pluripersonali andranno salvaguardati gli equilibri di
genere per almeno 1/3 dei componenti.
Nelle srl a controllo pubblico non è ammessa, nel caso di
organo gestionale pluripersonale, l'amministrazione
disgiuntiva o congiuntiva.
I compensi
L'art. 11 del decreto prevede che con dpcm, da adottarsi su
proposta del Mef, di concerto con altri ministeri, entro 6
mesi dalla entrata in vigore delle nuove disposizioni, le
società a controllo pubblico saranno suddivise in fasce
(fino a cinque) sulla base di una serie di indicatori
dimensionali quantitativi e qualitativi.
Per ciascuna fascia di società, proporzionalmente saranno
determinati dei limiti specifici per i compensi massimi da
attribuire ai componenti del consiglio di amministrazione e
ai componenti degli organi di controllo, nonché ai dirigenti
e ai dipendenti.
Il compenso massimo attribuibile individualmente
(comprensivo dei contributi previdenziali e assistenziali
nonché degli oneri fiscali a carico del beneficiario) non
potrà in alcun caso superare i 240 mila euro. Lo stesso
limite non sarà superabile anche qualora al soggetto siano
attributi compensi da altre pubbliche amministrazioni o da
altre società sottoposte a controllo pubblico.
Responsabilità
Sia i componenti degli organi di amministrazione
rappresentanti degli enti pubblici o comunque chi ha il
potere di decidere, inoltre, sono sottoposti a un duplice
ordine di responsabilità. A quella civilistica, propria
delle società di capitali, e quella dell'art. 12, che
prevede il rischio del «Danno erariale» patrimoniale o non
patrimoniale.
In pratica, cristallizzando in legge un ormai
consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema
corte (si veda, Infra Multis Cass. Ss.uu. 26806/2009; Cass.
15/01/2010, nn. 519/520/521 e 522), si prevede la
giurisdizione della Corte dei conti qualora, i componenti
degli organi decisionali con i loro comportamenti dolosi o
colposi abbiano pregiudicato il valore della partecipazione
dell'ente.
I controlli
Vanno distinti i controlli delle spa da quelli delle srl.
Nelle prime resta obbligatoria, nel sistema classico, la
nomina di un collegio sindacale, delegato ai controlli sulla
corretta amministrazione ex art. 2403, c.c. ma viene resa
doverosa anche la nomina di un revisore esterno (persona
fisica o società di revisione) delegato a svolgere le
funzioni di revisione legale dei conti.
Nelle srl, di contro, viene prevista, in linea con le
disposizioni di cui all'art. 2477 c.c., la nomina di un
organo di controllo (monocratico o collegiale) o di un
revisore. La differenza, rispetto alle previsioni
dell'articolo in commento è che nelle società a controllo
pubblico la nomina dell'organo di controllo o di revisione è
obbligatoria a prescindere da ciascun limite dimensionale.
Restano validi i poteri ispettivi esercitati dal
Dipartimento della funzione pubblica e dal Dipartimento
della Ragioneria generale dello stato, sulle società a
partecipazione pubblica, ai sensi dell'art. 6, comma 3, della
legge 07/08/2012 n. 135
Il controllo giudiziario
Due rilevanti novità, rispetto al diritto societario,
vengono previste nell'art. 13 in merito al controllo
giudiziario a cui sottoporre gli amministratori (ed
eventualmente i sindaci) rei di aver commesso gravi
irregolarità nella gestione (o di non avere esercitato
correttamente i controlli).
In primo luogo, in tutte le società sottoposte a controllo
pubblico viene escluso che per poter effettuare la denuncia
al tribunale i soci debbano rappresentare almeno il 10% del
capitale, come stabilito dal comma 1 dell'art. 2409 c.c.
nelle spa ordinarie. Infatti, viene previsto che sia
legittimata a presentare denuncia di gravi irregolarità al
tribunale ciascuna amministrazione pubblica socia, a
prescindere dall'entità della quota partecipativa.
Inoltre, a differenza delle ordinarie società commerciali,
viene estesa la possibilità di ricorrere al controllo
giudiziario anche ai soci delle srl .
Crisi d'impresa
Del tutto innovative le disposizioni di cui all'art. 14
sulla crisi d'impresa delle società a partecipazione
pubblica, che risolvono un dibattito giurisprudenziale in
auge da decenni. Anche allo scopo di evitare una indebita
concorrenza fra società ordinarie e società pubbliche
operanti sullo stesso mercato (in tal senso, fra l'altro
Cass. Ss.uu. 27.09.2013 n. 22209), viene previsto che
anche dette società soggiacciano alle procedure fallimentari
e al concordato preventivo.
L'organo amministrativo è tenuto
ad adottare specifici provvedimenti (che non possono
consistere in una mera ricapitalizzazione da parte delle
amministrazioni pubbliche socie) finalizzati a prevenire
l'aggravamento della crisi, correggerne gli effetti ed
eliminarne le cause.
Ciò dovrà, infatti, essere effettuato
attraverso un idoneo piano di risanamento. La mancata
esecuzione dello stesso da parte degli amministratori
determinerà la sottoposizione della società al controllo
giudiziario ex art. 2409 c.c.
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
APPALTI:
Centro di coordinamento per appalti e
concessioni. Cabina di regia a
Palazzo Chigi in rapporto con Anac e Ue.
Una cabina di regia per monitorare il nuovo codice degli
appalti; sarà costituita presso la presidenza del consiglio
anche per segnalare ad Anac anomalie e criticità applicative
e per relazionare all'Unione europea.
È quanto prevede uno schema di dpcm in fase di elaborazione
che regolerà il funzionamento dell'organo la cui esigenza è
sorta in ambito europeo con le direttive del 2014 per avere
un centro di coordinamento della politica legislativa in
materia di contratti pubblici e che si è concretizzato
nell'articolo 212, comma 1, del nuovo codice dei contratti
pubblici.
La norma ha istituito, presso la presidenza del consiglio
dei ministri, una specifica cabina di regia al fine di
assicurare il raccordo tra i diversi attori coinvolti nel
settore dei contratti pubblici e di fornire un indirizzo
unitario sulle politiche degli appalti pubblici e
concessioni.
Compiti specifici della cabina di regia saranno
l'attuazione e la ricognizione dello stato di attuazione del
nuovo codice ai vari livelli istituzionali e l'attuazione,
oltre alla proposta di modifiche; la promozione di un piano
nazionale in tema di procedure telematiche di acquisto e di
accordi per agevolare la bancabilità delle opere pubbliche;
la segnalazione di eventuali violazioni o problemi sistemici
all'Anac.
Lo schema di dpcm attua il comma 5 dell'articolo 212 e
provvede alla definizione della disciplina relativa alla
composizione e alle modalità di funzionamento della cabina
di regia che sarà presieduta dal capo del dipartimento per
gli affari giuridici e legislativi della presidenza del
consiglio e coinvolgerà i diversi ambiti di competenza, a
livello centrale, regionale e locale (ne faranno parte: il
capo dell'ufficio legislativo del Mit un rappresentante
dell'Agenzia per la coesione territoriale; un rappresentante
del dipartimento delle politiche europee; due rappresentanti
del Mef, un rappresentante dell'Anac, uno delle regioni, due
delle autonomie locali; un rappresentante dell'Agid e uno
della Consip). Possibile la nomina di fino a dieci esperti
competenti in materia di appalti pubblici e concessioni, di
procedure telematiche di acquisto, di bancabilità delle
opere.
Ai componenti, delegati, partecipanti e agli esperti non
spetta alcun compenso.
Si prevedono riunioni periodiche: entro il 31.03.2017 e,
successivamente ogni 3 anni, per approvare la relazione di
controllo da inviare alla Commissione europea. Farle materie
oggetto di attenzione ci saranno gli appalti telematici, gli
elenchi dei soggetti certificatori, il contenzioso, le
relazioni uniche sulle procedure di aggiudicazione. La
cabina potrà svolgere audizioni e consultazioni di soggetti
operanti nei settori di riferimento e potrà stipulare
convenzioni e protocolli con soggetti pubblici, senza nuovi
o maggiori oneri per lo stato.
Le comunicazioni alla commissione europea saranno effettuate
per il tramite del dipartimento delle politiche europee. Il
supporto logistico, organizzativo ed informatico è svolto da
un'apposita segreteria istituita presso il dipartimento per
gli affari giuridici e legislativi
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
ENTI LOCALI:
Piccoli enti fuori dagli schemi. Biglio: lotta di
libertà contro l'associazionismo imposto.
La presidente Anpci anticipa i temi
dell'assemblea nazionale che si terrà in settembre.
Una battaglia di libertà contro il pensiero unico dominante
in materia di associazionismo. Libertà di scelta nella
gestione dei servizi e delle funzioni nel rispetto dei
fabbisogni standard. Libertà di gestione delle risorse
derivanti dalla tassazione locale. Libertà dai vincoli del
pareggio di bilancio e dalla burocrazia inutile per i comuni
di piccole dimensioni. Ma per uscire vittoriosi dal
confronto con il neocentralismo patrocinato da governo,
regioni e grandi comuni, i mini-enti dovranno soprattutto
crescere in consapevolezza.
«Perché a furia di sentirci dire
che costiamo troppo e che l'associazionismo è la panacea di
tutti i mali ci stiamo quasi credendo, e invece dobbiamo
affrontare a testa alta la sfida che questo governo ha
lanciato al mondo delle autonomie». Franca Biglio,
presidente e anima dell'Anpci, anticipa a ItaliaOggi i temi
della XVII assemblea nazionale dei piccoli comuni che,
assieme alla XII festa nazionale, si svolgerà dal 9 all'11
settembre a Chies d'Alpago (Belluno).
Domanda. Presidente, il 2016 è stato un anno difficile per i
piccoli comuni e il futuro non sembra presagire nulla di
buono, con gli obblighi di associazionismo destinati a
essere riproposti su base provinciale. Con che spirito
continuate a portare avanti le vostre battaglie?
Risposta. Con lo spirito di sempre, convinti di essere nel
giusto. Quest'anno i piccoli comuni si sono dovuti
confrontare con il pareggio di bilancio, con 60 nuovi
adempimenti per lo più inutili, con il codice degli appalti
che consta di 220 articoli e necessita di 50 decreti
attuativi, con l'incertezza dei trasferimenti compensativi
di Imu e Tasi, ma soprattutto con varie proposte di
accorpamento obbligatorio palesemente incostituzionali.
D. Il riferimento è ovviamente alla proposta di legge
Lodolini sulla fusione obbligatoria dei centri sotto i 5.000
abitanti, un'idea da cui, va detto, il governo ha di recente
(con il viceministro all'economia Enrico Morando) preso le
distanze. Chi spinge per le fusioni, sostiene tuttavia che
voi non siate in grado di sostenervi da soli e che solo
attraverso le aggregazioni, più o meno spontanee, si possano
generare risparmi. È così?
R. Niente di più falso. La stragrande maggioranza dei 5.575
comuni sotto i 5.000 abitanti è virtuosa. Non lo diciamo
noi, ma il Mef. Il problema è che i risparmi ottenuti non
sono rimasti sul territorio, ma sono stati dirottati al
centro. Dal 2010 al 2015 sono state tagliate agli enti sotto
i 5.000 abitanti risorse per 2 circa miliardi di euro (204
euro per abitante), ma più della metà di questi soldi è
andata a finanziare le 530 unioni e le 46 fusioni oggi
esistenti, sottraendole ai singoli comuni.
D. C'è quindi secondo lei una strategia ben precisa per
farvi scomparire?
R. Certo, ed è una strategia frutto della miopia politica
che, a dir la verità, ha accomunato tutti i governi
alternatisi al potere negli ultimi dieci anni. Il governo Renzi ha deciso solo di sferrare l'attacco finale.
Basterebbe avere una strategia lungimirante su ciò che
possono rappresentare i piccoli comuni per il bene del Paese
e allora si capirebbe come la prospettiva di penalizzarli e
costringerli a unirsi sia profondamente errata, irrazionale
e controproducente.
D. C'è qualcuno da cui vi sentite traditi?
R. C'è chi predica bene e razzola male, come l'Uncem che a
Ferragosto ha giustamente invitato i turisti che hanno
scelto la montagna per le loro vacanze a fare acquisti nelle
botteghe dei piccoli comuni per farle rivivere. Ma va
ricordato che il presidente dell'Uncem e deputato Pd, Enrico
Borghi, ha votato tutte le leggi che in questi mesi hanno
messo più in difficoltà i piccoli comuni, dal codice appalti
alla legge di stabilità 2016. Ma l'elenco dei tradimenti è
lungo. L'ultima delusione in ordine di tempo è arrivata
dalle regioni.
D. Cosa è successo?
R. Il 3 agosto scorso il ministro per gli affari regionali,
Enrico Costa, da sempre amico dei piccoli comuni, ha
proposto in Conferenza unificata un'intesa per il
riconoscimento di maggiori spazi finanziari agli enti sotto
i 1.000 abitanti, ma i governatori regionali hanno detto no,
nel silenzio della stampa, ItaliaOggi esclusa, ovviamente, e
nell'indifferenza generale dei soggetti istituzionali
deputati a rappresentare le autonomie, Anci in primis.
D. A proposito di Anci, a ottobre l'Associazione eleggerà a
Bari il nuovo presidente. Confidate che questo possa
rappresentare un cambio di passo?
R. Sarebbe bello se il successore di Piero Fassino fosse il
sindaco di un piccolo o medio comune. C'è già una
candidatura in tal senso e ci dichiariamo sin d'ora
disponibili a un proficuo confronto sui temi programmatici
che da anni l'Anpci porta avanti
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Prendersela con i funzionari è riduttivo.
Stato (ed effetti) di una legislazione
impazzita.
Negli ultimi tre anni, mentre da un lato i governi centrali
tagliavano risorse ai piccoli comuni virtuosi per
trasferirle a fantomatiche unioni e fusioni comuni spreconi,
dall'altro lato emanavano più di 60 provvedimenti che
trasferiscono ai piccoli comuni nuove funzioni, competenze
ed adempimenti per la maggior parte di infima o assoluta
inutilità: dal Dup ai piani anticorruzione, ai piani
trasparenza, performance e chi più ne ha più ne metta.
Ma nel primo semestre l'attuale governo si è superato in
questa mania spasmodica di disposizioni inutili e spesso
dannose, basta ricordare:
1) il pareggio di competenza che non consente ai comuni di
utilizzare i loro avanzi di amministrazione (frutto di
politiche sane) per opere pubbliche (non si possono
asfaltare le strade, ma se un cittadino cade in una buca è
il sindaco a rispondere del danno). Con il dl 113 e con la
riforma della legge 243/2012, si è rimediato a questo
vulnus, ma sette mesi fa l'Anpci aveva segnalato e ammonito,
proponendo emendamenti, che la legge di stabilità 2016
sarebbe stata un de profundis per i comuni, ma nessuno ci ha
ascoltato;
2) il codice degli appalti composto di 220 articoli avrà
bisogno di 50 decreti attuativi. Risultato: lavori pubblici
bloccati per 520 milioni di euro, caos assoluto nei comuni e
in tutti gli enti pubblici, creazione di centrali di
committenza i cui costi di funzionamento non saranno
indifferenti, divieto ai tecnici interni di progettare senza
abilitazione, dopo che da decenni progettano. Sabato 16
luglio è comparso sulla gazzetta un provvedimento che
elimina dal codice 170 refusi su 220 articoli. Ogni commento
è superfluo;
3) i decreti sui criteri minimi ambientali anche per i
semplici tagli d'erba di scarpate. Per quanto riguarda il
taglio dell'erba, è richiesto un piano degli sfalci che
preveda tecniche a basso impatto. Ad esempio è richiesto il
taglio frequente con sminuzzamento dell'erba per evitare
l'asporto dell'erba tagliata, ma in questo caso aumentano i
consumi di energia e carburante per l'uso delle
attrezzature. È tutto questo vantaggioso, soprattutto dal
punto di vista ambientale?
Il personale deve essere formato
sulle pratiche di giardinaggio ecocompatibili in merito alle
tecniche di prevenzione dei danni provocati da parassiti,
malattie e infestanti, sulle nozioni relative ai prodotti
fitosanitari, caratteristiche e indicazione di quelli
autorizzati per essere impiegati nella produzione biologica,
nozioni sull'uso di prodotti basati su materie prime
rinnovabili, sul maneggiamento, la gestione di prodotti
chimici e dei loro contenitori, sull'uso legale ed in
sicurezza di pesticidi, di erbicidi, e tecniche per evitare
fenomeni di resistenza indotta dei parassiti alle sostanze
chimiche usate, sull'uso e le caratteristiche del compost;
pratiche di risparmio idrico ed energetico; gestione e
raccolta differenziata dei rifiuti. Insomma, dovremo
assumere ingegneri ambientali al posto dei cantonieri.
Ma l'elenco degli adempimenti che rischiano di strozzare gli
enti, soprattutto quelli più piccoli, non finisce qui.
L'entrata in vigore delle nuove regole sul diritto di
accesso dettate dal decreto legislativo 97/2016 sul Freedom
of information act senza un adeguato supporto organizzativo
rimarrà sulla carta, dato che l'aumento della trasparenza
dell'attività delle amministrazioni pubbliche è stato
disposto senza aver valutato a fondo l'impatto che
l'applicazione delle nuove regole determina
sull'organizzazione delle Pa. In questo quadro il dettato
finale del decreto, cioè che la sua realizzazione deve
avvenire a costo zero, sembra una presa in giro per le
amministrazioni comunali. Come fa il legislatore a parlare
di invarianza di spesa?
Con il nuovo decreto le singole amministrazioni, compresi i
comuni più piccoli, devono darsi delle strutture e formare
il personale, che deve essere in possesso di un'adeguata
preparazione di base, cioè la laurea. Ed ancora, è
inevitabile che si dovranno realizzare adeguati investimenti
per potenziare la possibilità di utilizzare gli strumenti
informatici per semplificare gli iter procedurali.
E mentre ai piccoli comuni si chiedono sacrifici e si
assegnano nuove funzioni, si limitano e si complicano le
procedure per gli acquisti sopra i 1.000 euro,
tranquillamente due giorni prima del ballottaggio, il
commissario di Roma riconosceva debiti fuori bilancio per 10
milioni di euro.
La responsabilità di questa follia e ipertrofia legislativa
sarà anche dei dirigenti ma va addebitata soprattutto ai
politici (Graziano Delrio, ministro delle infrastrutture e
padre politico del codice appalti, ha sempre sostenuto che
sarebbe stata una legge di semplificazione) che spesso sotto
la spinta anche di qualche giornalista (il disastro delle
province generato dalla legge Delrio, sì sempre lui, in
parte è figlio anche dell'attacco a testa bassa che certa
stampa ha sferrato sulle province senza valutarne costi e
disfunzioni).
Concludo con uno spot pubblicitario che gira per radio in
questi giorni: Quanti adempimenti dobbiamo adempiere per non
essere inadempienti? (articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Alberghi, misure antincendio parametrate al rischio.
Strutture ricettive. Le norme tecniche «alternative» -
Strutture classificate a seconda del numero dei posti letto.
Per alberghi e
villaggi vacanze cambiano (in parte) le regole antincendio:
con il decreto del 09.08.2016 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale 196 del 23 agosto) il ministero dell’Interno è
intervenuto sul precedente Dm del 03.08.2015, aggiungendo
alla sezione V (regole tecniche verticali) il capitolo V.5,
dedicato alle attività ricettive turistico-alberghiere.
Queste norme tecniche (da cui sono comunque escluse le
strutture turistico-ricettive all’aria aperta e i rifugi
alpini) si possono applicare in alternativa alle specifiche
disposizioni di prevenzione incendi previste dai decreti
dell’Interno del 30.11.1983, 31.03.2003, 03.11.2004, 15.03.2005, 15.09.2005, 16.02.2007,
09.03.2007 e 20.12.2012.
Queste disposizioni “alternative”, infatti, non riguardano
tutte le attività ma solo alcune e questo tassello delle
attività alberghiere non è certo l’ultimo. Il decreto e il
relativo allegato 1 (che è la «regola tecnica verticale») è
quindi applicabile alle attività con oltre 25 posti letto:
alberghi, pensioni, motel, villaggi albergo, residenze turistico-alberghiere, studentati, alloggi agrituristici,
ostelli per la gioventù, bed & breakfast, dormitori e case
per ferie.
La regola, che va comunque inserita all’interno delle
«Norme tecniche di prevenzione incendi» di cui al Dm
dell’Interno del 03.08.2015, prevede anzitutto una serie
di classificazioni in relazione al numero di posti letto
complessivi e alla quota dei piani, per poi individuare le
varie aree di attività; dalla categoria TA (spazi a uso del
personale dove la maggior parte degli occupanti è sveglio e
conosce l’edificio) sino al TO (locali con affollamento
oltre 100 occupanti come sale conferenza o ristorazione), TM
e TK (con carico di incendio specifico superiore
rispettivamente a qf>600 e 1.200 MJ al metro quadrato, TT
(locali tecnici e dove siamo presente molte apparecchiature
elettroniche) e TZ (altri spazi).
Nelle aree destinate a «spazi di riposo» (cioè le camere) i
mobili imbottiti e i tendaggi devono appartenere al gruppo
di materiali classificati GM2.
Le camere e gli appartamenti con affollamento non superiore
a 10 occupanti sono esclusi dai limiti minimi previsti per
le larghezze delle vie di fuga.
Le aree devono essere dotate di sistemi di rivelazione e
allarme, a seconda dei livelli di prestazione. E dove siano
installati apparecchi a fiamma libera (caminetti e stufe)
occorrono anche rivelatori di monossido di carbonio.
Per quanto riguarda, infine, i vani degli ascensori, se
l’impianto non sia inserito all’interno di vani scala di
tipo protetto e a prova di fumo, e ve ne sia la necessità,
il vano dovrà essere di tipo SB (antincendio) (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2016). |
VARI: Rinnovo
patente solo con la visita del medico ad hoc. Ministero
trasporti.
Solo i sanitari specificamente individuati dall'art. 119 del
codice stradale possono rilasciare la certificazione medica
necessaria al conseguimento e al rinnovo della patente di
guida. Non possono quindi occuparsene i medici ausiliari e
di fiducia dell'autista e neppure i sanitari con contratti a
tempo determinato.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la circolare
24.06.2016 n. 14586 di prot..
Alcuni uffici della motorizzazione hanno richiesto di
chiarire se la normativa consente, ai medici incaricati o
fiduciari, di provvedere alle pratiche di rinnovo o rilascio
delle patenti di guida.
A parere dell'organo tecnico
centrale non può riconoscersi capacità certificativa in
materia di patenti e licenze di guida a sanitari diversi da
quelli individuati dall'art. 119 del codice.
Quindi restano fuori gioco i medici ausiliari, quelli
fiduciari e gli altri sanitari che con gli enti preposti
hanno contratti di lavoro solo a tempo determinato
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2016). |
ENTI LOCALI: Variazioni
di bilancio, inammissibile il parere dell'organo di
revisione. L'analisi.
Per le deliberazioni di variazione di bilancio approvate
dalla giunta ai sensi dell'art. 175, c. 4, del Tuel, è
inammissibile il parere dell'organo di revisione nella
successiva fase della ratifica.
Poiché, tuttavia, diversi enti locali procedono in tal modo,
vanno analizzati i punti della normativa che dimostrano
l'illegittimità del relativo procedimento.
Ai sensi dell'art. 42, c. 2, lett. b), del dlgs 267/2000,
l'organo competente all'approvazione del bilancio, e delle
relative variazioni, è il consiglio comunale.
Nondimeno, il successivo art. 175 individua, ai commi 5-bis
e 5-quater, per finalità di semplificazione dell'attività
amministrativa, fattispecie per le quali, in considerazione
della natura non discrezionale dei relativi atti, la
competenza è attribuita alla giunta e/o ai responsabili di
spesa.
In ordine al precedente comma 4, invece, la competenza è del
consiglio, operando la giunta in via non ordinaria, ma per
necessità di urgenza.
La ratio del comma 4 dell'art. 175 del dlgs 267/2000 è,
quindi, quella di consentire, per esigenze di funzionamento,
l'adozione di atti illegittimi per vizio di incompetenza
relativa, che siano poi sanati a mezzo di ratifica.
A ogni modo, il comma 2 non lascia spazio ad affermazioni
contrarie, precisando che le variazioni di bilancio sono di
competenza del consiglio, salvo quelle previste dai commi 5-bis e 5-quater.
È, pertanto, obbligatorio il parere dell'organo di revisione
contabile sulle proposte relative alle deliberazioni di
variazione di bilancio sottoposte alla giunta in
applicazione del comma 4 dell'art. 175.
Il successivo art. 239, c. 1, lett. b), pt. 2, riguarda,
infatti, anche le proposte relative alle deliberazioni
ricadenti nel suddetto comma 4, trattandosi, come dicevamo,
di atti di competenza del consiglio attribuiti, in via
temporanea e derogatoria, alla giunta.
La mancanza di parere sulla proposta determina, pertanto,
l'illegittimità dell'atto finale (della deliberazione di
giunta) per violazione di legge.
Ne deriva che, in caso di mancata ratifica da parte del
consiglio, gli effetti già prodotti dall'atto ricadranno
nella formale responsabilità di tutti i soggetti coinvolti
nel procedimento.
La questione è rilevante anche per la giuridica invalidità
del parere dell'organo di revisione, eventualmente acquisito
in fase di ratifica.
Una deliberazione di variazione di bilancio sottoposta a
ratifica del consiglio è, infatti, un atto illegittimo (per
incompetenza relativa) autorizzato dall'art. 175, comma 4,
in considerazione di possibili situazioni di urgenza.
La modalità di sanatoria di tale atto illegittimo (la
ratifica) che è richiamata nel suddetto comma, essendo
propria dei soli atti viziati da incompetenza relativa, non
può di fatto estendersi ad altri vizi di legittimità, come,
nel caso specifico, la violazione di legge da omesso parere
dell'organo di revisione sulla proposta dell'atto poi
deliberato dalla giunta ai sensi del suddetto comma 4
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: Investimenti
contabilizzati. Arconet chiarisce il bilancio comunale.
Nella contabilità economico-patrimoniale, i comuni devono
contabilizzare gli oneri di urbanizzazione destinati a spese
di investimento come riserve di patrimonio netto,
effettuando nella relazione al rendiconto la riconciliazione
della variazione di quest'ultimo con il risultato del conto
economico.
Il
chiarimento 20.07.2016 arriva dalla commissione Arconet (l'organismo
che sovrintende all'applicazione del bilancio armonizzato
agli enti territoriali), che, in risposta ad un quesito
posto dall'Ordine dei dottori commercialisti, si è
soffermata su una delle tante questioni poste dal nuovo
regime di contabilità economico patrimoniale, da quest'anno
applicabile a tutte le amministrazioni (e non più solo a
quelle sperimentatrici).
Esso prevede che i proventi dei permessi di costruire vadano
contabilizzati come ricavi solo quando vanno a finanziare la
spesa corrente (per esempio, le manutenzioni ordinarie,
allocate a titolo I), mentre devono essere contabilizzati
come riserve di patrimonio netto quando vanno a finanziare
il conto capitale (per esempio, le manutenzioni
straordinarie, allocate a titolo II).
In questo secondo caso, non si verifica più, come in
passato, la sterilizzazione del provento pluriennale (che in
sostanza stornava in parte o tutto l'ammortamento del bene).
Tuttavia, in questo modo, a fine anno si registra un
incremento del patrimonio netto la cui variazione non
coincide con il risultato del conto economico. In termini
più generali, la variazione del patrimonio netto non
coinciderà più con l'utile (variazione positiva) o con la
perdita (variazione negativa).
I comuni, però, dovranno evidenziare nella relazione al
rendiconto tale discrasia ed effettuare la riconciliazione
della variazione del patrimonio netto con il risultato del
conto economico, dimostrando l'incidenza degli oneri di
urbanizzazione sul risultato
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Case a energia zero, per il 2020. Entro 4 anni
bisognerà costruire solo edifici ecosostenibili.
Raccomandazione della Commissione Ue. Gli
immobili devono prodursi l'energia rinnovabile.
Entro il 2020 tutti gli edifici di nuova costruzione
dovranno essere realizzati a energia quasi zero. Gli stati
membri entro tale data dovranno elaborare piani nazionali
per aumentare il numero di edifici a energia quasi zero.
Questi alcuni suggerimenti della Commissione europea
pubblicati nella
raccomandazione 2016/1318 del 29.07.2016
(pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Ue del 02.08.2016 n.
L 208/46) rubricata: «Orientamenti per la promozione degli
edifici a energia quasi zero e delle migliori pratiche per
assicurare che, entro il 2020, tutti gli edifici di nuova
costruzione siano a energia quasi zero».
Nel concetto di edificio a energia quasi zero è quindi
racchiusa la nozione di sinergia degli interventi sul fronte
dell'energia da fonti rinnovabili e su quello
dell'efficienza energetica. La produzione nell'edificio
stesso di energia da fonti rinnovabili ridurrà la quantità
di energia netta fornita. In molti casi, l'energia da fonti
rinnovabili prodotta in loco non sarà sufficiente a quasi
azzerare il fabbisogno energetico senza ulteriori misure di
efficienza energetica o una riduzione significativa dei
fattori di energia primaria dell'energia prodotta da fonti
rinnovabili non in loco.
Pertanto, l'introduzione di requisiti di prestazione più
elevati e stringenti intesi a rendere gli edifici altamente
efficienti e quasi azzerarne il consumo energetico
stimoleranno anche un maggiore utilizzo dell'energia da
fonti rinnovabili in loco e dovrebbero comportare
l'adeguamento dei fattori di energia primaria per i vettori
energetici extra loco, tenendo conto del loro contenuto di
energia da fonti rinnovabili.
Gli stati membri dovrebbero valutare il più rapidamente
possibile l'opportunità di adeguare le pratiche esistenti e
definire il meccanismo da utilizzare per controllare il
conseguimento degli obiettivi in materia di edifici a
energia quasi zero e considerare la possibilità di
introdurre sanzioni differenziate per gli edifici di nuova
costruzione dopo l'entrata in vigore dei requisiti relativi
agli edifici a energia quasi zero (articolo ItaliaOggi del 25.08.2016). |
ENTI LOCALI: Camere
di commercio, la svolta. Riduzione da oltre 100 a 60.
Diritti camerali dimezzati. Dopo la
pausa atteso in Consiglio dei ministri il decreto che attua
la riforma Madia.
Rideterminazione degli ambiti territoriali di competenza al
fine di perseguire obiettivi di economicità ed efficienza;
ma anche rideterminazione delle funzioni con esclusione di
qualsiasi adempimento connesso all'avvio dell'attività.
È una vera e propria svolta per gli enti rappresentativi del
tessuto economico quella disegnata dal governo che va a
modificare la legge 580/1993, di riordino delle camere di
commercio e che soltanto un paio di anni fa era stata già
oggetto di modifica con il dlgs 23/2010.
La proposta di
schema di decreto legislativo che sarà posto all'esame del
Consiglio dei ministri in una delle sue prossime riunioni,
ed emanato in attuazione della legge Madia (124/2015)
prevede, in particolare, la ridefinizione delle
circoscrizioni territoriali, con conseguente riduzione del
numero delle camere di commercio entro il limite di 60, la
limitazione degli ambiti di svolgimento della funzione di
promozione del territorio e dell'economia locale, la
riduzione del numero dei componenti degli organi e, salvo
che per i revisori, l'eliminazione dei relativi compensi.
Inoltre, lo schema di decreto (Atto
del Governo n. 327 - Schema di decreto
legislativo recante riordino delle funzioni e del
finanziamento delle camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura) prevede la riduzione al 50%
dei diritti camerali ma anche l'eliminazione delle
duplicazioni di compiti e funzioni rispetto ad altre
amministrazioni pubbliche. È stata, infatti, prevista la
sostituzione dell'intero comma 2 dell'art. 2 della legge
580/1993 che elencava, in via esemplificativa, le funzioni
che potevano essere esercitate dagli enti.
Funzioni specifiche istituzionali.
Oggi vengono indicate, invece, le precise funzioni di
competenza delle Cciaa che vanno dalla pubblicità legale
generale e di settore mediante la tenuta del registro delle
imprese, del Repertorio economico amministrativo e degli
altri registri e albi attribuiti dalla legge alla formazione
e gestione del fascicolo informatico di impresa in cui sono
raccolti dati relativi alla costituzione, all'avvio e
all'esercizio delle attività dell'impresa.
Inoltre, le camere di commercio potranno svolgere anche
funzioni di punto unico di accesso telematico (il
riferimento è ai Suap) in relazione alle vicende
amministrative riguardanti l'attività d'impresa; ma soltanto
se a ciò delegate su base legale o convenzionale.
L'esclusione di ogni funzione connessa all'avvio di impresa,
comunque, è in contrasto con quanto stabilito dal governo,
seppur in via preliminare, nello schema di decreto
legislativo Scia2.
Nella tabella A che fa parte integrante del decreto,
infatti, è stato espressamente previsto che per diverse
attività, quali ad esempio il commercio all'ingrosso, di
facchinaggio, di pulizie, la Scia che legittima l'esercizio
dell'attività va presentata alla Camera di commercio
territorialmente competente, anziché al Suap.
Tutela del consumatore.
Le camere di commercio continueranno, peraltro, a svolgere
le funzioni a tutela del consumatore e della fede pubblica,
vigilanza e controllo sulla sicurezza e conformità dei
prodotti e sugli strumenti soggetti alla disciplina della
metrologia legale (pesi e misure), rilevazione dei prezzi e
delle tariffe, rilascio dei certificati di origine delle
merci e documenti per l'esportazione.
Internazionalizzazione.
Escluse le attività promozionali all'estero, alle camere di
commercio è affidata l'attività di informazione, formazione,
supporto organizzativo e assistenza alle piccole e medie
imprese per la preparazione ai mercati internazionali.
Scuola-lavoro.
Rilevante il ruolo affidato agli enti camerali in materia di
lavoro. Il decreto legislativo prevede, infatti, il supporto
all'incontro domanda-offerta, attraverso servizi informativi
anche a carattere previsionale volti a favorire
l'inserimento occupazionale e a facilitare l'accesso delle
imprese ai servizi dei Centri per l'impiego, in raccordo con
l'Anpal; nonché il sostegno alla transizione dalla scuola e
dall'università al lavoro, attraverso l'orientamento e lo
sviluppo di servizi, in particolare telematici, a supporto
dei processi di placement svolti dalle Università (articolo
ItaliaOggi del 24.08.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Stop ai guardoni fiscali. Vietati gli accessi ai
dati di politici e vip. Nota
dell'Agenzia delle entrate ricorda le regole ai dipendenti.
Vietato fare i guardoni fiscali con i dati dei contribuenti.
Soprattutto se si tratta dei vertici dell'agenzia, di
politici e vip.
L'Agenzia delle entrate invia una nota interna ai propri
uffici per ribadire le regole sulla sicurezza dei dati
tributari presenti nelle banche dati dell'anagrafe
tributaria. «L'attività di monitoraggio e controllo finora
effettuata», scrivono dall'amministrazione, «ha fatto
emergere abusi dagli utilizzatori della banca dati che
evidenziano una insufficiente consapevolezza sulla
delicatezza delle informazioni in essa contenute e sulla
necessità di adottare comportamenti rispettosi della
normativa e delle direttive».
Ecco dunque che l'Agenzia torna sull'argomento del
trattamento dei dati conservati nei propri archivi e tira le
orecchie ai quei funzionari che fanno gli accessi per
«curiosità» sia nei confronti dei vertici dell'Agenzia o di
colleghi d'ufficio sia nei confronti di politici, sportivi o
personaggi dello spettacolo in genere.
L'Agenzia dunque ricorda che l'accesso alle banche dati e
l'utilizzo alle informazioni in essa contenute può avvenire
esclusivamente per lo svolgimento dei compiti d'ufficio a
cui ciascun dipendente è stato assegnato. Compiti, ribadisce
l'Agenzia, legati alle finalità istituzionali dell'Agenzia
stessa.
Nella nota l'amministrazione guidata da Rossella Orlandi
elenca le misure messe a disposizione per la tutela della
privacy dei contribuenti e su come si attivano gli alert in
caso di accessi non autorizzati.
L'Agenzia ha previsto un sistema di abilitazione per la
gestione delle credenziali degli accessi. Inoltre gli
accessi sono tracciati, con le indicazioni delle operazioni
e del soggetto che le ha effettuate nonché dei dettagli
sulle informazioni accedute.
Inoltre nella nota si ricorda che gli accessi fuori dal
luogo di lavoro e fuori dall'orario di lavoro se non
autorizzati, sono considerati segnali di alert per far
scattare la procedura di controllo sugli accessi irregolari.
Le attività di monitoraggio sono affidate all'ufficio audit.
Proprio sul punto l'Agenzia specifica che i controlli sono
strumenti di verifica dell'attività lavorativa del
dipendente ma servono a impedire usi impropri della banca
dati e nei casi più gravi reati.
Per l'Agenzia questo meccanismo ha un efficace livello di
dissuasione proprio per la possibilità di ricostruire le
attività di accesso.
Ogni volta poi che un dipendente accede alle informazioni
presenti nell'anagrafe tributaria una finestra informativa
ricorda gli obblighi di legge e la tutela dei dati presenti
nonché il rischio connesso a responsabilità anche di natura
penale oltre che disciplinare per gli accessi riscontrati
come illegittimi, non autorizzati o considerati indebiti.
Secondo le Entrate, nel momento in cui il dipendente
persiste con l'accesso non autorizzato, dopo la comparsa
della nota informativa, porta a evidenziare una «componente
volitiva» dell'accesso per cui devono essere comminate
sanzioni molto elevate. In buona sostanza, dipendente
avvisato...
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2016). |
ENTI LOCALI - VARI: Multe
scontate con la trappola. La tempestività non basta. Occhio
agli avvisi sui verbali.
Dal calcolo dei termini alla presentazione della patente:
gli elementi da non trascurare.
Al rientro dalle ferie sarà meglio controllare se nella buca
lettere ci sono multe in giacenza da ritirare presso
l'ufficio postale. E in questo caso sarà opportuno
recuperare tempestivamente i verbali per poter tentare di
accedere ancora al beneficio del pagamento con lo sconto,
facendo sempre attenzione alle intimazioni di presentazione
dei documenti scritte in piccolo, per evitare ulteriori
sorprese e verbali.
Da tre anni esatti la somma da pagare
per le multe stradali è ridotta del 30% se il pagamento è
effettuato subito dall'automobilista, entro cinque giorni
dalla contestazione.
La riduzione non si applica alle infrazioni per cui non è
ammesso il pagamento in misura ridotta, alle violazioni per
cui è prevista la sanzione accessoria della confisca del
veicolo o della sospensione della patente di guida e alle
violazioni stradali non incluse nel codice della strada.
L'espressa indicazione dell'importo scontato del 30% dovrà
essere riportata su tutti i verbali utilizzati dalle
pattuglie della polizia, vigili e carabinieri.
I
trasgressori dovranno fare attenzione all'uso dei bollettini
di c.c.p. allegati ai verbali ma anche alla compilazione
degli stessi e a agli importi esatti da versare. Se il
pagamento risulterà insufficiente la differenza costituirà,
infatti, acconto in sede di riscossione mediante iscrizione
a ruolo.
Ovvero partirà una trafila formale costosa e complessa che è
decisamente meglio evitare.
Interessanti le precisazioni del Ministero dell'interno sul
computo dei termini per effettuare il pagamento con lo
sconto.
Il termine di cinque giorni va calcolato a decorrere
dal giorno successivo alla contestazione su strada; se il
termine ultimo cade in giorno festivo, si scorre al giorno
feriale successivo. Per esemplificare, se il verbale è stato
contestato subito al conducente il 21 agosto, il termine
utile di pagamento con la riduzione del 30% è il 26 agosto.
Da qualche mese il trasgressore che paga la multa con
strumenti elettronici può però confidare in due giorni di
tolleranza per legge. Ma spetta sempre all'automobilista
verificare che il pagamento tempestivo del verbale sia
sincronizzato con la data ora più flessibile dell'effettiva
valuta. Non basterà dunque aver effettuato il bonifico entro
cinque giorni. Occorrerà sempre verificare la data della
valuta per non correre il rischio di vedersi recapitare a
casa, a distanza di qualche tempo, una salata richiesta di
integrazione. Stesso discorso in caso di pagamento ridotto
normale del verbale, entro 60 giorni.
In buona sostanza alla
pubblica amministrazione in questo caso non interessa solo
se l'automobilista ha effettuato il pagamento liberatorio in
tempo. Serve che lo stesso controlli attentamente anche la
data dell'accredito perché solo quel dato mette al riparo
l'ignaro trasgressore da inaspettate richieste di
conguaglio. Con la novella entrata in vigore in primavera è
ora disponibile una tolleranza temporale di due giorni per i
tradizionali bonifici online.
Attenzione però per chi ritira
la multa in posta. Con l'emissione della comunicazione di
avvenuto deposito il termine per lo sconto decorre
dall'undicesimo giorno dalla data di spedizione del Cad,
salvo che l'interessato ritiri l'atto prima del termine di
dieci giorni del deposito. In caso di notificazione tramite
esposizione presso la casa comunale, i giorni previsti per
il pagamento con la riduzione del 30% decorrono dopo dieci
giorni dalla spedizione della raccomandata di avviso, o
dalla data di ritiro del plico se anteriore, quando il
verbale è depositato ai sensi dell'art. 140 cpc, ovvero dopo
20 giorni se depositato ai sensi dell'art. 143 cpc. Ma non è
finita.
Prima di archiviare la multa con la quietanza di
pagamento meglio assicurarsi di aver anche assolto
all'obbligo di eventuale presentazione della patente per la
decurtazione di punteggio. Chi trascura questa comunicazione
da effettuare entro 60 giorni a distanza di qualche mese si
vedrà recapitare un'ulteriore pesante sanzione di 286 euro.
Ma spesso quest'obbligo viene reso impraticabile dagli
uffici che scrivono troppo in piccolo sul verbale che il
trasgressore deve esibire anche la sua patente di guida per
non incorrere in ulteriori problemi.
E il conducente crede
di aver esaurito il suo compito con il pagamento tempestivo
della multa. Specialmente nel caso di una infrazione
semaforica o di un modesto eccesso di velocità. L'unico
risultato positivo in caso di mancata presentazione
tempestiva della licenza di guida sarà che nessuno perderà
punti patente. Poca cosa per chi non ha problemi di crediti
residui, specialmente se si tratta di una decurtazione di
pochi punti patente
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
VARI: Assicurazioni,
meglio non abbandonare i documenti cartacei.
Per non incorre in multe o discussioni con gli organi di
polizia in caso di controllo stradale circa la regolare
copertura assicurativa del veicolo meglio avere ancora al
seguito più carta possibile. Diversamente con le banche dati
che non sono ancora completamente allineate e le compagnie
che prorogano le coperture oltre al giorno di scadenza
aumenta il rischio di incorrere in sanzioni e in imbrogli
burocratici.
Lo ha evidenziato l'Istituto per la vigilanza delle
assicurazioni (IVASS) con la
nota 01.06.2016 n. 111471
di prot..
La cessazione dell'obbligo di esposizione del contrassegno
assicurativo, entrata in vigore nell'ottobre scorso, ha
avviato una serie di riflessioni operative tra le forze
dell'ordine che hanno inevitabili ricadute anche sui
comportamenti degli automobilisti.
Se da una parte l'utente stradale ha il beneficio di non
dover più esporre sul parabrezza il contrassegno, dall'altro
sono aumentati i rischi di essere trovati in difetto e
spesso per motivazioni assolutamente indipendenti dalla
volontà dell'automobilista. Questo perché innanzitutto le
banche dati che attestano la regolarità della copertura
assicurativa non sono ancora completamente aggiornate.
Poi perché alcune compagnie consentono una estensione della
copertura assicurativa per periodi di tempo superiori alle
due settimane di rito. Per cercare di rimettere un po' di
ordine nel settore, anche l'organo di coordinamento dei
servizi di polizia stradale ha diramato istruzioni operative
che di fatto evidenziano la necessità di avere sempre al
seguito documenti cartacei. Perché rispetto alle indicazioni
del ced i documenti risulteranno sempre prevalenti.
Se il
certificato risulterà scaduto mentre il Ced indicherà attiva
la copertura scatterà un invito formale a esibire il
documento aggiornato. Viceversa se il Ced evidenzierà un
dato negativo mentre la documentazione esibita sarà
positiva, farà fede l'attestazione cartacea. Senza
applicazione di alcuna sanzione o invito a esibire documenti
ulteriori
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Emissioni,
in arrivo la stretta. Agli impianti medi imposti
autorizzazione e monitoraggi. La legge di delegazione
europea avvia il recepimento della direttiva sulla tutela
dell'aria.
Stretta in arrivo sulle emissioni degli impianti di
combustione medi, largo novero che abbraccia installazioni a
uso domestico, agricolo e industriale tra cui quelle
deputate a raffreddamento o riscaldamento così come alla
produzione di energia.
Con l'approvazione definitiva, avvenuta lo scorso
28/07/2016, della Legge di delegazione europea 2015 si
avvicina, infatti, l'allineamento dell'Italia alle
prescrizioni comunitarie dettate dalla direttiva
2015/2193/Ue. Prescrizioni che impongono una autorizzazione
o registrazione preventiva per l'attivazione degli impianti,
il rispetto di specifici valori limite così come il
monitoraggio delle emissioni durante l'esercizio.
Gli impianti interessati.
Le regole Ue da recepire entro il 17/12/2017 si
applicheranno agli impianti di combustione con potenza
termica nominale tra 1 e 50 Mw (megawatt), indipendentemente
dal tipo di combustione. Resteranno fuori dalla portata
delle nuove regole i soli impianti di combustione e quelli
di incenerimento rifiuti disciplinati direttamente dalla
direttiva 2010/75/Ue (sull'Ippc, Integrated pollution
prevention and control, ovvero controllo e prevenzione
integrata dell'inquinamento) e le installazioni già oggetto
di specifica altra normativa.
La stretta burocratica.
In base alla direttiva 2015/2193/Ue l'attivazione degli
impianti dovrà essere subordinata al rilascio di specifica
autorizzazione o di preventiva registrazione, e questo
secondo un regime che dovrà interessare fin da subito le
nuove installazioni e progressivamente (dal 2024 in poi)
quelle esistenti.
I valori limite.
Nuovi e specifici valori limite saranno da rispettare per le
specifiche emissioni di anidride solforosa, ossidi di azoto
e particolato. Anche questo secondo un calendario di
adeguamento che la direttiva 2015/2193/Ue declina in base
alla potenza degli impianti interessati: i nuovi limiti
dovranno essere rispettati dal 2025 dalle strutture comprese
tra 5 e 50 Mw, dal 2030 per quelli tra 1 e 5 Mw.
Sarà però
onere per gli Stati membri introdurre limiti più restrittivi
per le zone interessate da livelli di inquinamento
particolarmente elevati. Così come sarà facoltà degli stessi
stati sancire deroghe momentanee (solo fino al 2030) per
l'allineamento di alcune strutture, come le reti di
riscaldamento a distanza, gli impianti di combustione a
biomassa, quelli collegati al sistema nazionale di trasporto
gas, gli impianti territorialmente isolati.
Gli impianti
rientranti nel campo di applicazione della disciplina Ippc
(tradotta come Aia, autorizzazione integrata ambientale, nel
dlgs 152/2006) e da essa non esclusi dalle nuove regole Ue
dovranno comunque rispettare anche tutte le relative
prescrizioni in materia previste.
Le regole di esercizio.
Ai gestori saranno imposti monitoraggio degli impianti così
come registrazione, elaborazione e conservazione dei
relativi risultati. In caso di emissioni oltre soglia,
scatterà inoltre l'obbligo di adottare immediate misure di
ripristino, salva l'eventuale sospensione dell'esercizio
degli impianti imposta dalle Autorità pubbliche. Queste
ultime altresì adottare a titolo preventivo un nuovo sistema
ad hoc di ispezioni ambientali.
Il restyling del Codice ambientale.
Secondo gli specifici criteri dettati della nuova Legge
europea 2015, l'attuazione della direttiva 2015/2193/Ue
arriverà con un provvedimento di modifica del dlgs 152/2006.
E questo con un ampio restyling della Parte V del Codice
ambientale dedicata alla tutela dell'aria e al controllo
delle emissioni in atmosfera.
Nella riformulazione del dlgs
152/2006 troverà posto la razionalizzazione delle relative
procedure autorizzatorie, anche per coordinarle con le
parallele regole in materia di «autorizzazione unica
ambientale». L'istituto in parola, meglio noto come «Aua» e
disciplinato dal dpr 59/2013, prevede infatti per le imprese
non soggette alla citata Aia la riunione sotto un'unica
autorizzazione dei plurimi e necessari titoli abilitativi
ambientali.
Con particolare riferimento alle emissioni in
atmosfera, si ricorda che rientrano nell'Aua sia
l'autorizzazione ordinaria che quella semplificata per
l'inquinamento scarsamente rilevante (ex articoli 269 e 272
del dlgs 152/2006), oltre agli ulteriori titoli
eventualmente aggiunti dalle legislazioni di regioni e
province autonome.
Con la rivisitazione del Codice
ambientale arriverà anche la citata stretta sui valori
limite di emissione che sarà modulata (come prevede la Legge
di delega) sulle migliori tecnologie disponibili, ossia
sulle più efficienti e avanzate norme tecniche messe a punto
dall'Ue per singoli comparti produttivi al fine ridurre
l'inquinamento.
Il tutto con l'aggiornamento, infine, del relativo sistema
sanzionatorio del Codice ambientale
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nuova Ape, costa caro non allegare il libretto di
impianto. Le integrazioni alle faq, pubblicate dal Mise con
il supporto tecnico di Enea e Cti.
In pista i nuovi chiarimenti per l'Ape.
Il ministero dello sviluppo economico ha pubblicato una
serie di integrazioni alle faq già diffuse lo scorso autunno
a beneficio degli operatori del settore.
Come è noto,
infatti, dall'01.10.2015 sono in vigore le nuove regole sui
requisiti minimi di prestazione energetica degli edifici e
per la redazione del relativo attestato. Il ministero, con
il supporto tecnico dell'Enea e del Cti (Comitato
termotecnico italiano) e previo confronto con le principali
associazioni di categoria, ha quindi fornito risposta a
oltre 70 delle domande più frequentemente poste in relazione
ai nuovi adempimenti.
Vediamo allora di analizzare i punti
principali del documento, consultabile integralmente sul
sito internet www.sviluppoeconomico.gov.it.
Il nuovo attestato di prestazione
energetica. La
nuova Ape, disciplinata da due decreti ministeriali del
giugno 2015, ha mantenuto la sua validità massima decennale,
presenta una metodologia di calcolo più omogenea e ha
portato a 10 le classi energetiche (delle quali la classe A4
rappresenta quella più efficiente). È previsto che
l'attestato sia aggiornato in caso di interventi di
ristrutturazione e riqualificazione che modifichino la
classe energetica dell'immobile. Nella faq viene quindi
chiarito come detto aggiornamento sia però necessario
soltanto nei casi previsti dall'art. 6 del dlgs n. 192/2005
(compravendita, nuova locazione ecc.).
La validità temporale massima resta comunque subordinata al
rispetto delle prescrizioni per le operazioni di controllo
di efficienza energetica degli impianti tecnici
dell'edificio, in particolare per gli impianti termici. Nel
caso di mancato rispetto di queste disposizioni, infatti,
l'Ape decade il 31 dicembre dell'anno successivo a quello in
cui è prevista la prima scadenza non rispettata per le
predette operazioni di controllo di efficienza energetica. A
tale scopo, all'attestazione devono essere allegati i
libretti di impianto in originale, in formato cartaceo o
elettronico.
Ci si è però chiesti cosa occorra fare quando un impianto
sia sprovvisto di libretto e/o non ci sia un rapporto di
controllo di efficienza energetica ancora valido: è
possibile in questi casi emettere un Ape sprovvisto dei
predetti supporti documentali? A questo proposito nelle faq
si evidenzia come emettere un Ape senza allegare il libretto
di impianto comprensivo dei relativi allegati, tra i quali
anche un valido rapporto di controllo di efficienza
energetica, corrisponda a dichiarare il fatto che l'impianto
sia esercitato dal responsabile in violazione di legge, con
conseguente applicazione della sanzione amministrativa
prevista dall'art. 15 del dlgs n. 192/2005.
Nell'attestato,
tra l'altro, nei casi in cui è istituito il catasto
regionale degli impianti termici, occorre indicare nella
quarta pagina il relativo codice, circostanza che implica la
regolare registrazione e dotazione del libretto di impianto
e dei relativi allegati. All'atto dell'emissione dell'Ape,
se necessario, occorre quindi far redigere il libretto di
impianto e dotarlo degli allegati richiesti, ivi compreso un
valido rapporto di controllo di efficienza energetica.
Solo
nel caso in cui l'impianto sia distaccato dalla rete del gas
o dichiarato dismesso o disattivato è ammissibile che manchi
il rapporto di controllo di efficienza energetica in corso
di validità. La decadenza dell'Ape in caso di non rispetto
della periodicità dei controlli di efficienza energetica,
come chiarito dal ministero, si riferisce quindi a un evento
successivo alla data di emissione dell'attestato.
Una delle novità più importanti introdotte dai decreti
ministeriali dello scorso autunno è del resto l'indicazione
del contenuto minimo che l'Ape deve possedere a pena di
invalidità. Risulta quindi particolarmente importante
verificare con cura le informazioni riportate
nell'attestato, perché in caso contrario il proprietario
dell'immobile rischia di incappare nelle pesanti sanzioni
previste dal dlgs n. 192/2005. Anche per questo motivo è
stato previsto come obbligatorio che il soggetto incaricato
di redigere l'attestato abbia effettuato almeno un
sopralluogo presso l'immobile interessato.
I chiarimenti sul decreto 26.06.2015, c.d. decreto requisiti
minimi. Il primo dei due decreti emanati dal ministero dello
sviluppo economico nel 2015, di concerto con i ministeri
dell'ambiente e delle infrastrutture, ha riguardato le
modalità di applicazione della metodologia di calcolo delle
prestazioni energetiche degli edifici, ivi incluso
l'utilizzo delle fonti rinnovabili, nonché le prescrizioni e
i requisiti minimi in materia di prestazioni energetiche.
Le faq individuate dal ministero ed elaborate unitamente
all'Enea e al Cti riguardano numerosi e specifici aspetti
tecnici (si veda la relativa tabella). Viene per esempio
affrontato il tema della regolamentazione della modifica
della destinazione d'uso dell'immobile.
Premesso che il dm e
i suoi allegati prevedono che la classificazione
dell'edificio avvenga in base alla sua destinazione d'uso,
viene chiarito che qualora la modifica avvenga senza
interventi che ricadano nelle casistiche del decreto
ministeriale non vi sono requisiti da rispettare, laddove
invece andranno osservati i requisiti previsti, a seconda
del livello di intervento messo in campo, nel caso opposto
in cui quest'ultimo comporti una nuova destinazione d'uso
che ricada nelle casistiche regolamentari.
Si fa poi notare
che, ove il cambio di destinazione d'uso avvenga
contestualmente all'annessione a un'unità immobiliare
esistente, tale situazione si configuri come ampliamento di
quest'ultima e comporti quindi il rispetto dei relativi
requisiti, a seconda del tipo di ampliamento.
Viene poi
chiarito cosa si intenda per ristrutturazione di un impianto
termico che, secondo il dlgs n. 192/2005, costituisce un
insieme di opere che comportano la modifica sostanziale sia
dei sistemi di produzione che dei sistemi di distribuzione
ed emissione del calore. Rientrano in questa categoria anche
la trasformazione di un impianto termico da centralizzato a
impianti termici individuali, nonché la risistemazione
impiantistica nelle singole unità immobiliari o in alcune
parti dell'edificio, in caso di installazione di un impianto
termico individuale previo distacco dall'impianto termico
centralizzato.
Per modifica sostanziale di un impianto
termico si intende sia la sostituzione contemporanea di
tutti i sottosistemi (generazione, distribuzione ed
emissione) sia la sostituzione combinata della tipologia del
sottosistema di generazione, anche con eventuale cambio di
vettore energetico, e dei sottosistemi di distribuzione e/o
emissione.
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Attestati, diritto di privacy salvo.
Attestati di prestazione energetica a prova di privacy. I
certificatori comunicheranno al catasto regionale tutti i
propri dati personali, ivi compresi il proprio numero di
telefono e il proprio indirizzo email, ma questi ultimi
saranno riportati sull'Ape soltanto nel caso in cui lo
stesso abbia fornito il proprio consenso al trattamento dei
dati. Questo uno dei chiarimenti contenuti nelle risposte
alle faq elaborate dal ministero dello sviluppo economico in
relazione al c.d. decreto linee guida Ape, il secondo dei
regolamenti licenziati dal dicastero la scorsa estate.
Un'altra indicazione di tipo operativo relativamente alla
compilazione del format Ape riguarda poi il campo
«sopralluogo», nel quale si potrebbe scegliere fra un sì e
un no, facendo quindi sorgere il dubbio che il sopralluogo
del certificatore presso l'immobile da certificare possa
essere soltanto eventuale. In realtà, come già detto, la
verifica diretta dell'unità immobiliare per la quale si deve
compilare l'attestato è stata prevista come obbligatoria dal
decreto ministeriale. Di conseguenza, come indicato nella
risposta alla relativa faq elaborata dal ministero, nel
campo in questione dovrà essere semplicemente riportata la
data del sopralluogo, senza alcuna possibilità di fare a
meno del predetto accesso all'immobile.
Per la compilazione dei campi sulle efficienze medie
stagionali degli impianti si deve avere cura di indicare il
rapporto tra il fabbisogno di energia termica utile per quel
servizio dell'edificio reale e il corrispondente fabbisogno
di energia primaria totale. Come potenza dell'impianto nel
caso di illuminazione occorre invece indicare la somma delle
potenze per l'illuminazione interna degli ambienti, mentre
per la potenza dell'impianto nel caso di ventilazione
meccanica bisogna fare riferimento alla potenza totale
espressa dai ventilatori presenti nell'immobile.
Per la compilazione del campo «comune» occorre utilizzare
l'apposito menù a tendina presente nel software di redazione
dell'attestato, il quale comprende l'elenco dei comuni
italiani secondo l'ultima rilevazione Istat. I campi «codice
identificativo» e «data» dell'Ape vengono redatti
direttamente dal sistema informativo regionale. L'attestato
ufficiale dovrebbe infatti essere stampato dal sistema
informativo regionale. In tale modo non ci può essere
disallineamento tra l'Ape depositato e quello consegnato al
committente. Tuttavia, per quelle regioni che non hanno
istituito un proprio catasto energetico, il codice
identificativo e la data dell'attestato andranno ancora
compilate a cura del certificatore.
Quanto al dubbio se sia possibile inserire più motivazioni
contemporaneamente nel medesimo Ape, nelle faq si legge che
la motivazione da scegliere a cura del certificatore tra
quelle indicate alternativamente dal modello ufficiale è
quella che risulta essere determinante nel momento in cui
viene redatto l'attestato. È tuttavia possibile, oltre alla
motivazione indicata, inserire un'ulteriore motivazione alla
voce «altro».
Si precisa infatti che, poiché un Ape ha validità di dieci
anni, successivamente lo stesso potrà essere utilizzato per
altri scopi. Per esempio, un attestato redatto per una nuova
costruzione riporterà come selezionata la voce «nuova
costruzione» nelle motivazioni. Ma lo stesso Ape potrebbe
essere utilizzato negli anni successivi per rimettere in
vendita o in affitto lo stesso immobile
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
SICUREZZA LAVORO: Più tutele sui campi elettromagnetici.
Salute e sicurezza. Recepita una direttiva europea che
incrementa la protezione per i lavoratori
L’Italia si
adegua all’Europa ed emana più rigorose disposizioni a
protezione dei lavoratori esposti ai campi elettromagnetici.
Il decreto legislativo 159/2016, pubblicato sulla Gazzetta
ufficiale del 18 agosto e in vigore dal prossimo 2
settembre, recepisce la direttiva 2013/35/Ue con l’obiettivo
di garantire una maggiore protezione dei lavoratori, durante
le loro attività professionali, dai campi elettromagnetici
nocivi, per quanto tale esposizione sia un rischio complesso
e interessi trasversalmente una molteplicità di attività.
Infatti i campi elettromagnetici possono riguardare, per
esempio, le motrici ferroviarie, le industrie elettroniche,
l’incollaggio del legno e dei manufatti di plastica, il
trattamento dei materiali metallici, le apparecchiature
biomediche presso le strutture sanitarie (magnetoterapia,
marconiterapia radarterapia, elettrobisturi, tomografia,
risonanza magnetica), i varchi magnetici per il controllo
degli accessi e i metal detector e altro ancora.
Il decreto legislativo sostituisce interamente il Capo IV
del Titolo VIII (che tratta delle protezioni da agenti
fisici) del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro), nonché il corrispondente
allegato XXXVI.
Le sostanziali novità riguardano: l’indicazione delle
grandezze fisiche contenute nel citato allegato, l’obbligo
del datore di lavoro di assicurare che l’esposizione degli
addetti ai campi elettromagnetici non superi i valori
indicati nell’allegato, l’obbligo di adottare specifiche
misure al fine di normalizzare la situazione, qualora uno
dei valori sia superato. Verificandosi tale ultima
circostanza, il datore di lavoro ha altresì l’obbligo di
darne comunicazione all’organo di vigilanza competente,
mediante una specifica relazione tecnica-protezionistica.
Ulteriori novità riguardano la procedura di valutazione dei
rischi. In particolare, il datore di lavoro ha l’obbligo di
misurare e calcolare i livelli dei campi elettromagnetici
tenendo conto anche delle linee guida, delle buone prassi e
delle informazioni emanate da specifici enti del settore,
nonché dagli stessi fabbricanti e distributori delle
attrezzature comportanti il rischio in questione.
Viene
altresì stabilito l’obbligo, da parte del datore di lavoro,
di prestare particolare attenzione, sempre nell’ambito della
valutazione dei rischi, alla frequenza, al livello, alla
durata e al tipo di esposizione, inclusa la distribuzione
sul corpo del lavoratore e al volume del luogo di lavoro,
tenendo anche conto delle misure riferite a specifici gruppi
di dipendenti (per esempio chi porta dispositivi medici).
Sono previsti, inoltre, una apposita segnaletica e l’uso di
specifici dispositivi di protezione individuale.
In relazione al risultato della valutazione dei rischi il
datore di lavoro dovrà informare e formare i dipendenti sui
pericoli propri dei campi elettromagnetici. Valutazione e
misure di prevenzione saranno aggiornate nel caso in cui il
lavoratore riferisca la comparsa di sintomi transitori.
Con un apposito decreto ministeriale, da emanarsi entro 120
giorni dall’entrata in vigore del decreto, potrà essere
prevista la facoltà, per il datore di lavoro, di derogare,
in presenza di motivate circostanze, al rispetto dei valori
limite di esposizione (articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2016). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Controlli stradali seriali al buio. Mancano
strumenti omologati per assicurazioni e revisioni. La
prefettura di Bergamo: la presenza degli agenti è
imprescindibile per fermare i trasgressori.
Non si possono ancora attivare i controlli seriali della
mancata copertura assicurativa dei veicoli e della revisione
perché mancano gli strumenti omologati. Quindi la presenza
degli agenti resta necessaria per fermare i trasgressori. Ma
per chi passa davanti alla pattuglia la speranza di farla
franca diventa sempre più remota.
Lo ha ribadito la
Prefettura di Bergamo con la
circolare 12.08.2016 n.
42744 di prot. (Oggetto: violazioni a norme
del C.d.S. - Modifiche normative).
Tra le numerose ipotesi previste dal codice stradale circa
il controllo automatico della circolazione l'art. 201, comma
1-bis prevede ora espressamente anche la violazione degli
articoli 80 e 193 cds. Ovvero la mancata revisione periodica
e la mancata copertura assicurativa dei veicoli. Ma solo se
i dispositivi, in uso alla polizia stradale, sono stati
specificamente omologati per questo impiego.
Fuori dai
centri abitati, inoltre, occorre anche l'autorizzazione del
prefetto, specifica la nota. Attualmente nessun dispositivo
risulta omologato per questo impiego quindi non si possono
ancora effettuare controlli automatici. A parere del
rappresentante governativo queste infrazioni dovrebbero
essere contestate immediatamente dagli organi di vigilanza
per evitare duplicazioni e omissioni. La violazione
dell'art. 80, in particolare, impone infatti all'agente di
annotare subito sul libretto la sospensione del veicolo
dalla circolazione.
Ma è anche vero che le cause che
legittimano la mancata contestazione immediata sono tante.
Se la pattuglia infatti è impegnata con un trasgressore e il
sistema evidenzia il passaggio di un altro veicolo non
regolare la multa dovrà per forza essere spedita per posta.
Stesso discorso nel caso di un accertamento effettuato su un
veicolo in sosta, senza la presenza del conducente al
momento del controllo.
Oppure nell'ipotesi molto diffusa di un agente che presidia
il traffico a fianco di uno strumento elettronico che non è
in grado di fornire una risposta così tempestiva da
agevolare il fermo immediato del veicolo nei tempi e modi
regolamentari. Ovvero senza creare ulteriore pericolo alla
circolazione già sufficientemente messa in discussione dagli
automobilisti senza assicurazione o con la revisione scaduta
(articolo ItaliaOggi del 20.08.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Cartelle, i benefici fanno il bis. Da oggi 60 giorni per le
istanze di pagamento agevolato. Approda in Gazzetta Ufficiale n. 194 la legge 160/2016 di
conversione del dl enti locali.
Scattano da oggi i 60 giorni per la presentazione delle
istanze di riammissione ai piani di pagamento agevolato
delle cartelle di Equitalia e degli accertamenti delle
Entrate.
A far scattare il count-down sarà la pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale di oggi della legge di conversione
del dl 113/2016 «enti locali» (legge 7 agosto n. 160, G.U.
del 20/08/2016 n. 194). I contribuenti decaduti avranno due
mesi di tempo per presentare un'apposita richiesta di
riammissione al beneficio.
In realtà il provvedimento era stato varato principalmente
per dare una mano a sindaci, presidenti di provincia e
governatori, ma si è successivamente arricchito di molti
contenuti estranei a tale finalità originaria. Oltre a
Equitalia, spiccano il rinnovo delle concessioni balneari e
gli indennizzi alle vittime dello scontro ferroviario di
Andria-Corato.
Per quanto concerne gli enti locali, di particolare
rilevanza sono le misure per alleggerire i limiti al
turnover nei municipi. A beneficiare dell'allentamento sono,
innanzitutto, i comuni medio-piccoli: fino alla soglia dei
10.000 abitanti, gli enti che nell'anno precedente hanno
registrato un rapporto dipendenti-popolazione inferiore a
quello individuato per gli enti in dissesto potranno
assumere fino al 75% (a fronte del 25% fissato dall'ultima
legge di Stabilità) della spesa dei cessati nell'anno
precedente. Resta fermo il limite del 100% per gli enti che
fino allo scorso anno erano esenti dal Patto, per le unioni
e per i comuni istituiti mediante fusione.
A questi ultimi,
inoltre, spettano le deroghe alle limitazioni assunzionali
per i primi cinque anni dalla fusione introdotte dalla legge
di stabilità 2015 anche se presentano un rapporto tra spesa
di personale e spesa corrente superiore al 30%.
In secondo
luogo, il decreto convertito cancella l'obbligo di contenere
l'incidenza delle spese di personale sulle spese correnti
entro la media fatta registrare dal medesimo rapporto nel
triennio 2011-2013. In tal modo, viene meno il divieto di
assumere per molti comuni al di sopra dei 1.000 abitanti
che, a causa della forte riduzione delle spese correnti
causata dalle ripetute ondate di spending review, si
trovavano nell'impossibilità di rispettare il parametro.
Da
notare che, secondo l'Anci, la rimozione della sanzione ha
effetto retroattivo e quindi vale anche per le
amministrazioni che sono andate fuori carreggiata nel 2015,
quando la norma abrogata era in vigore. Infine, vengono
riattivate le procedure di mobilità volontaria per i comuni
e le città metropolitane situati nelle regioni ove sia stato
ricollocato almeno il 90% del personale soprannumerario
delle province.
Tale previsione si collega a quella inserita
nella legge di Stabilità 2016, che dispone il ripristino
delle ordinarie facoltà di assunzione negli enti
territoriali situati nelle regioni nelle quali si è
completata la ricollocazione degli ex provinciali. Al
momento, sono quattro le regioni in questa situazione
(Veneto, Emilia-Romagna, Lazio e Marche. Più ad ampio
raggio, invece, lo sblocco per il personale della polizia
municipale, che interessa Basilicata, Marche, Emilia
Romagna, Lazio, Molise, Piemonte, Puglia e Veneto).
Tornando al decreto, esso contiene anche numerose altre
misure di interesse per gli enti locali (si veda tabella in
pagina). Fra queste, spicca il condono parziale delle
sanzioni per la violazione del Patto 2015. In aggiunta alla
cancellazione delle penalità economiche già previsto per gli
enti di area vasta, è stato introdotto uno sconto anche a
favore dei comuni, che subiranno un taglio pari al 30%
(anziché al 100%) dello sforamento.
La medesima penalità
verrà ridotta di un importo pari alla spesa per edilizia
scolastica sostenuta negli scorsi 12 mesi, purché non già
oggetto di altre fattispecie di esclusione, sulla base dei
dati che i comuni interessati dovranno comunicare alla
Ragioneria generale dello Stato entro i prossimi 30 giorni.
È stato anche stanziato un contributo statale (per
complessivi 14 milioni per il 2016 e 48 milioni di euro per
ciascuno degli anni 2017 e 2018) al fine di consentire
l'erogazione di contributi per l'estinzione anticipata,
totale o parziale, di mutui e prestiti obbligazionari da
parte dei comuni. Le richieste vanno trasmesse per
quest'anno entro il 31 ottobre e dal prossimo entro il 31
marzo.
Qualche buona notizia anche per le province, che per il 2016
spuntano un bonus da 48 milioni per il finanziamento delle
proprie funzioni fondamentali. Altri 100 milioni in
precedenza assegnati all'Anas vengono dirottati nelle casse
provinciali per l'attività di manutenzione straordinaria
della relativa rete viaria. Siccome tali somme non
basteranno a risolvere la ormai cronica crisi finanziaria
delle amministrazioni provinciali, il decreto estende loro
le norme a favore degli enti in crisi finanziaria
(articolo ItaliaOggi del 20.08.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Società agricole fatte in 60 giorni. Gli scarti vegetali
esclusi dal regime dei rifiuti generici.
Il collegato agricolo in Gazzetta taglia i tempi di
costituzione delle imprese e facilita i consorzi.
Riduzione dei tempi (da 180 a 60 giorni) per aprire una
società agricola. Con il taglio dei termini del silenzio
assenso entro i quali l'amministrazione pubblica deve
adottare il provvedimento finale dal ricevimento della
richiesta presentata dal centro di assistenza agricola (Caa).
Spazio alla formazione aziendale per favorire l'ingresso dei
giovani alla guida delle imprese. Meno burocrazia nella
produzione dell'olio con l'eliminazione del fascicolo
aziendale per i produttori la cui produzione è inferiore ai
350 kg.
Queste alcune delle novità contenute nelle legge 28.07.2016 n. 154 (cosiddetto collegato in agricoltura
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 10.08.2016 n.
186; si veda da ultimo ItaliaOggi dell'11 e del 17 agosto
scorso) con il quale sono state dettate le disposizioni in
materia di semplificazione, razionalizzazione e
competitività dei settori agricolo e agroalimentare, nonché
sanzioni in materia di pesca illegale.
Esclusione dei rifiuti vegetali dal regime rifiuti. Dal 25
agosto i rifiuti vegetali sono esclusi dal regime dei
rifiuti. Sono esclusi infatti dalla disciplina dei rifiuti
la paglia, gli sfalci e le potature, nonché ogni altro
materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso
destinati alle normali pratiche agricole e zootecniche o
utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la
produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori
del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi,
mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né
mettono in pericolo la salute umana. Viene istituita, presso
Imea, la banca delle terre agricole con l'obiettivo di
creare un inventario dei terreni agricoli disponibili a
causa dell'abbandono dell'attività agricola e di
prepensionamenti.
Ricambio generazionale. Al fine di favorire processi di
affiancamento economico e gestionale nell'attività d'impresa
agricola nonché lo sviluppo dell'imprenditoria giovanile in
agricoltura, il governo è delegato a adottare, nel rispetto
della normativa europea in materia di aiuti di stato, un
decreto legislativo per la disciplina delle forme di
affiancamento tra agricoltori ultra sessantacinquenni o
pensionati e giovani, non proprietari di terreni agricoli,
di età compresa tra i diciotto e i quarant'anni, anche
organizzati in forma associata, allo scopo del graduale
passaggio della gestione dell'attività d'impresa agricola ai
giovani.
Birra artigianale, pomodoro e riso.
Per la prima volta nell'ordinamento italiano viene
introdotta la definizione di birra artigianale come «birra
prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta,
durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione
e di microfiltrazione». La norma prevede anche l'obiettivo
di favorire lo sviluppo della filiera del luppolo in Italia.
Per tutelare e promuovere la qualità delle produzioni di
pomodori vengono previste disposizioni specifiche sulla
definizione dei prodotti derivati dalla trasformazione del
pomodoro, sui relativi requisiti, sull'etichettatura e sul
confezionamento, nonché sulle sanzioni.
Sostegno del settore del riso attraverso la tutela delle
varietà tipiche italiane e sostegno al miglioramento
genetico delle nuove; valorizzazione della produzione come
espressione del valore culturale paesaggistico e ambientale
di un territorio; tutela del consumatore; istituzione di un
registro per la classificazione delle nuove varietà;
disciplina dell'apparato sanzionatorio e individuazione
dell'autorità competente in materia.
Vengono promossi
sistemi volontari di tracciabilità del riso attraverso
strumenti innovativi che possano dare maggiori informazioni
ai consumatori sull'origine del prodotto
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016). |
SICUREZZA LAVORO: Più sicurezza per i campi magnetici.
Dlgs in g.u..
Più sicurezza per chi opera a stretto contatto con campi
elettromagnetici, per esempio nel settore sanitario o
militare.
Queste le novità del dlgs n. 159 del 01.08.2016, di recepimento della direttiva 2013/35/Ue (si veda ItaliaOggi del 29/07/2016), pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 192 del 18/08/2016.
Disciplina che andrà a
modificare il Testo unico sulla sicurezza, il dlgs 81/2008,
per fornire prescrizioni minime di sicurezza e salute.
Nessuna incidenza invece per le attività informatiche.
La
relazione tecnica del decreto, infatti, al fine di escludere
maggiori oneri per la p.a., rilevava in sede di approvazione
che le comuni attività non comportano rischi di esposizione.
Ciò in quanto le attrezzature elettriche ed elettroniche più
utilizzate nel lavoro d'ufficio quali pc, stampanti,
attrezzature informatiche, centri di calcolo, sistemi wi-fi,
metal detector, lettori magnetici ecc., risultano conformi
ai requisiti di protezione della direttiva 2013/35/Ue sulla
base delle norme del mercato interno Ue e della marcatura Ce
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Dal
27 agosto via alle domande per gli incentivi al riciclo dei
Raee. In Gazzetta il decreto del
ministero dell'ambiente. Interessati privati ed enti
pubblici.
Dal 27 agosto è possibile richiedere al ministero
dell'ambiente gli incentivi per promuovere lo sviluppo di
nuove tecnologie per il trattamento e il riciclaggio dei
rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche
(cosiddetto Raee). Possono partecipare all'accesso ai
contributi i soggetti pubblici e privati, singoli o
associati, operanti nella filiera di gestione dei Raee e
istituti universitari e di ricerca.
È con il decreto del 25.07.2016 (pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 12.08.2016 n. 188) che vengono
disciplinate dal ministero dell'ambiente le misure volte a
promuovere lo sviluppo di nuove tecnologie per il
trattamento e il riciclaggio dei rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche.
Con avviso pubblico vengono
definiti i criteri, le modalità, le procedure per l'accesso
ai contributi economici e le risorse stanziate annualmente
dalla direzione generale per i rifiuti e l'inquinamento del
ministero dell'ambiente. I contributi economici sono
definiti nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio
del ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e
del mare e attribuiti previo avviso pubblico con cadenza
annuale.
Alla procedura di selezione degli interventi
provvede la direzione generale per i rifiuti e
l'inquinamento del ministero dell'ambiente. Gli interventi
per i quali è possibile richiedere i contributi economici
sono finalizzati alla massimizzazione della quantità di
materia recuperabile o riciclabile in uscita dagli impianti
di recupero, riciclaggio e trattamento dei Raee,
all'ottimizzazione del consumo energetico dei processi di
recupero, riciclaggio e trattamento dei Raee, alla riduzione
dei tempi e del numero delle fasi dei processi di recupero,
riciclaggio e trattamento dei Raee e alla riduzione dei
rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Gli
interventi di recupero, riciclaggio e trattamento devono
comportare un effettivo incremento del livello tecnologico
degli impianti rispetto alle migliori pratiche disponibili
allo stato dell'arte del settore. Tali impianti devono
essere sono conformi alle disposizioni di cui all'art. 18
del decreto legislativo n. 49 del 2014. Tra gli interventi
non sono contemplate le innovazioni tecnologiche riguardanti
le attività preliminari al recupero, tra cui la cernita e il
deposito
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016). |
APPALTI: In arrivo l’Albo delle stazioni appaltanti.
Il ministero accelera sulla fase attuativa Cantone vara le
linee-guida.
Dieci decreti
per dare il via alla fase due della riforma degli appalti.
Ruota attorno a questi numeri il lavoro che, in queste
settimane estive, gli uffici tecnici del ministero delle
Infrastrutture stanno conducendo, con l’obiettivo di
piazzare una robusta accelerazione nella tabella di marcia
del Dlgs 50/2016.
Lo sprint è iniziato a luglio, quando il Mit ha iniziato a
chiudere le prime bozze. Da allora è scattato il valzer dei
pareri, dei concerti degli altri dicasteri, degli invii al
Consiglio di Stato o alla Conferenza Stato-Regioni, a
seconda delle diverse procedure. La sostanza, tecnicalità a
parte, è che il ministero sta per assestare una riforma
diluita in diverse puntate, ma dall’impatto comunque
notevole.
Idealmente, il Mit ha raccolto il testimone dell’attuazione
dall’Anac che, dopo avere varato le sue prime sette linee
guida, ha optato per una pausa di riflessione: i tre
provvedimenti che restano da approvare, già passati dalla
consultazione (Ppp, motivi di esclusione e rating di
impresa), arriveranno al traguardo dopo la pausa estiva.
Il dicastero di Porta Pia, guardando ai compiti che gli
attribuisce il codice, ha invece già mandato in Gazzetta, a
fine luglio, il nuovo decreto sui parametri da porre a base
delle gare di progettazione: servirà a definire i compensi
per tutti i servizi di ingegneria affidati con una procedura
pubblica. E non sarà l’ultimo provvedimento dedicato a
questo tema.
La novità pesante di questa fase due della riforma è però la
qualificazione delle stazioni appaltanti. Un provvedimento
molto atteso dalle amministrazioni e su cui si gioca la
possibilità degli enti di poter continuare a gestire in
autonomia i propri acquisti. L’iscrizione all’albo sarà
necessaria per gestire i lavori di importo superiore a
150mila euro e forniture e servizi oltre i 40mila euro. Il
sistema sarà articolato in quattro livelli sulla base del
valore degli appalti che le Pa potranno gestire in base al
grado di competenza e organizzazione dimostrata. Il primo
gradino (il “livello minimo”) permetterà di gestire gare di
manutenzione fino a un massimo di un milione di euro.
All’ultimo piano (il “livello alto”) si attesteranno le
stazioni appaltanti di maggiori dimensioni in grado di
seguire interventi superiori ai 20 milioni.
Oltre ai requisiti di organico - con personale tecnico
dedicato, in possesso di laurea e abilitazione - le stazioni
appaltanti dovranno dimostrare il possesso di diversi altri
requisiti per accedere al sistema. Tra questi la formazione
obbligatoria del personale per un minimo di 30 ore annuali.
Ma saranno valutati anche il grado di soccombenza nei
contenziosi, il rispetto dei tempi di pagamento e di
esecuzione delle opere oltre che l’eventuale aumento dei
costi: la percentuale di scostamento tra il prezzo finale e
il valore fissato al momento dell’aggiudicazione della gara
non potrà superare il 30 per cento. Una volta ottenuta, la
qualificazione durerà cinque anni. Ma il nuovo sistema non
entrerà in vigore da subito. Per rendere operativo l’albo
serve infatti un provvedimento attuativo dell’Autorità
anticorruzione, che poi gestirà materialmente l’inter
sistema.
Si è invece insediata a fine luglio la commissione del
ministero che lavorerà all’introduzione del Bim (Building
information modeling): si tratta di una particolare modalità
di progettazione che consente, tramite l’ausilio di
software, di anticipare già in fase di redazione degli
elaborati tutto lo sviluppo dell’opera in cantiere,
calcolando ogni dettaglio dei lavori, come le quantità di
materiali o i loro prezzi. La commissione è presieduta da
Pietro Baratono, provveditore per la Lombardia e
l’Emilia-Romagna, e ha il compito di definire una “road map”
che porti all’utilizzo di questo strumento su larga scala
nelle stazioni appaltanti italiane.
A completare il pacchetto dedicato a questo tema
arriveranno, poi, il decreto sui tre livelli di
progettazione e quello sui requisiti per l’affidamento dei
servizi di architettura e ingegneria. In questo
provvedimento, in particolare, sarà finalmente sciolto il
nodo del contributo integrativo delle società di ingegneria:
una partita che, per il solo bilancio di Inarcassa, vale
circa 50 milioni di euro all’anno.
In base a una
formulazione infelice del codice appalti, infatti, questa
parte della contribuzione rischiava di saltare. Così,
l’articolo 9 del nuovo decreto dedica un passaggio alla
regolarità contributiva. E spiega che alle società tra
professionisti e alle società di ingegneria «si applica il
contributo integrativo qualora previsto dalle norme
legislative che regolano la cassa di previdenza di categoria
cui ciascun firmatario del progetto fa riferimento in forza
della iscrizione obbligatoria al relativo albo
professionale».
Del pacchetto di provvedimenti necessari a far entrare nel
vivo la fase di attuazione della riforma fanno parte anche
la circolare sul Documento di gara unico europeo (vedi
articolo in basso) e il decreto destinato a chiarire i
confini in cui potranno muoversi in cantiere le imprese
abilitate a eseguire le opere super-specialistiche.
A chiudere il cerchio, infine, arriverà la costituzione
della cabina di regia, la struttura che sarà istituita
presso Palazzo Chigi e che servirà, di fatto, ad equilibrare
le competenze dell’Autorità anticorruzione, coinvolgendo
anche la Presidenza del Consiglio nella regolazione dei
contratti pubblici. A guidarla sarà il capo dell’ufficio
legislativo della Palazzo Chigi, Antonella Manzione, mentre
Elisa Grande, capo del legislativo del Mit, le farà da vice.
Alla “cabina” sarà affidata, soprattutto, una competenza
chiave: il monitoraggio della situazione del mercato, per
individuare su quali passaggi sono necessarie correzioni e
modifiche, in vista del correttivo del 2017.
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I LIVELLI DI PROGETTAZIONE.
Nel progetto di fattibilità tutte le indagini, anche
ambientali.
Tutte
le indagini sulle opere pubbliche passano dal definitivo
alla fattibilità. Analisi sismiche, topografiche,
urbanistiche, storiche, geologiche, geognostiche andranno
realizzate nel quadro del primo livello di progettazione.
Insomma, finisce l’era dei preliminari di poche pagine,
regolarmente smentiti dagli elaborati successivi.
Il
ministero delle Infrastrutture, acquisito il parere del
Consiglio superiore dei lavori pubblici, ha completato il
lavoro tecnico sul decreto in materia di livelli di
progettazione regolato dal Codice appalti. Dopo una
gestazione rapidissima il testo, composto da 36 articoli, si
avvia a grandi passi verso l’ok finale. Manca solo il disco
verde dei Beni culturali e dell’Ambiente, che devono dare il
loro concerto.
Il decreto è previsto dall’articolo 23 del Dlgs 50/2016 e,
almeno in una prima versione, è appena stato completato dal
Mit. Nei 36 articoli del Dm viene definito un sistema che si
articolerà su tre livelli: progetto di fattibilità tecnica
ed economica, progetto definitivo e progetto esecutivo.
L’innovazione più grande sarà costituita dal primo livello,
che sostituirà il preliminare e che sarà rafforzato in modo
consistente: l’idea è mettere a disposizione di stazioni
appaltanti e imprese un dato tecnico ed economico che resti
fisso e non venga modificato nelle fasi successive.
Quindi, il progetto di fattibilità, secondo quanto spiega
l’articolo 6 del provvedimento, sarà «finalizzato a definire
gli obiettivi e le caratteristiche dell’intervento da
realizzare, attraverso l’individuazione e l’analisi di tutte
le possibili soluzioni progettuali alternative». Questo vuol
dire che questo progetto sarà più ricco del vecchio
preliminare e conterrà una serie di indagini che venivano
solo accennate in passato.
Spiega, ancora, il decreto: «Il
progetto di fattibilità tecnica ed economica è redatto sulla
base dell’avvenuto svolgimento di rilievi topografici, di
indagini geologiche, idrologiche, idrauliche, geotecniche,
sismiche, finalizzate alla progettazione dell’intervento, di
indagini trasportistiche ove necessarie», nonché «della
verifica preventiva dell’interesse archeologico e dello
studio preliminare ambientale».
Questa revisione del primo
livello porta, a cascata, conseguenze sui due livelli
successivi. Soprattutto, sarà il progetto definitivo ad
essere rivisto in maniera più sostanziosa. Il perimetro del
secondo livello, cioè, risulterà complessivamente più
ridotto, dal momento che una parte della progettazione
transiterà sul primo. Il terzo livello di progettazione,
invece, terrà conto della «manutenzione dell’opera e delle
sue parti, in relazione al ciclo di vita dell’opera stessa».
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LA COMPILAZIONE DEL DGUE.
Dichiarazioni semplificate nel nuovo Documento di gara.
Il modello di
formulario allegato al comunicato del Mit del 22.07.2016, con le linee guida necessarie a supportare le stazioni
appaltanti e, soprattutto, gli operatori economici nella
compilazione del Documento di gara unico europeo (Dgue),
contiene importanti indicazioni per il superamento delle
incertezze derivanti dal non perfetto allineamento tra il
modello standard europeo con l’ordinamento nazionale, anche
alla luce del nuovo codice appalti.
Le modifiche e le integrazioni indicate dal Mit si
concentrano, in particolare, nella parte III del documento,
quella dedicata alle cause di esclusione e alle relative
dichiarazioni. Tra queste, sicuramente significativa è la
specificazione del contenuto delle dichiarazioni che
l’operatore economico dovrà rendere, nel caso in cui i
soggetti indicati dal comma 3 dell’articolo 80 (a seconda
del tipo di operatore economico interessato), siano incorsi
in una sentenza definitiva di condanna (o decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile o applicazione della pena su
richiesta) per uno dei reati indicati al comma 1 del
medesimo articolo 80.
Con il Dgue viene definitivamente
superata la logica per cui erano i soggetti elencati dalla
norma a dover rendere personalmente le dichiarazioni in
ordine alla mancata sussistenza di condanne a loro carico,
problematica che si era posta in passato soprattutto per i
soggetti ormai cessati dalla carica che, dunque, non
avrebbero avuto alcun interesse a collaborare con
l’operatore economico, per consentirgli di partecipazione
alla gara. Il Dgue approvato dalla Commissione europea non
conteneva alcun campo, nella parte terza, che fosse
specificamente relazionato con gli oneri dichiarativi
relativi ai soggetti sensibili e a quelli cessati, sicché
era sorto il dubbio in ordine a chi e con quali modalità
dovesse rendere le dichiarazioni.
Nel nuovo Dgue targato Mit appare chiaro che deve essere
l’operatore economico a dichiarare se i soggetti “sensibili”
-cioè quelli indicati dal comma terzo dell’articolo 80–
abbiano o meno riportato condanne nel periodo rilevante (o
nel quinquennio antecedente, a meno che la condanna non
avesse previsto un periodo di esclusione maggiore),
specificando i dati identificativi delle persone condannate
e le misure di self-cleaning adottate.
Al punto 5 della
sezione A della parte III del modello di Dgue allegato alle
linee guida, viene richiesto all’operatore economico di
specificare, nel caso in cui le pronunce abbiano riguardato
soggetti cessati, le misure adottate che dimostrino la
completa ed effettiva dissociazione dalla condotta tenuta,
mentre nessun cenno viene fatto all’obbligo di acquisizione
della dichiarazione personale degli interessati.
Un passo in più sulla via della semplificazione che,
comunque, resta ancora decisamente lunga da percorrere.
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PROJECT FINANCING.
Lavori finanziati dai privati in gara se c’è un aiuto della
Pa.
Anche
le opere pubbliche completamente pagate dai privati non
possono evitare le gare, se il privato che si propone di
eseguire l’intervento a sue spese riceve un qualunque
“aiuto” dalla Pa.
È questo il principio con cui il
presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, prova a circoscrive
gli effetti di una delle tante innovazioni nascoste tra le
pieghe del nuovo Codice appalti. In ballo ci sono i lavori
finanziati dai privati, disciplinati in modo a dire il vero
piuttosto generico, dall’articolo 20 del Dlgs 50/2016.
Il punto è la possibilità di aggirare le gare, assegnando la
realizzazione degli appalti senza applicare le procedure
formali previste dal Codice, a fronte del pagamento delle
spese da parte dei privati. L’occasione per dettare gli
indirizzi di applicazione della norma -quasi una linea
guida sull’attuazione di questo nuovo istituto- è offerta
all’Anac da un parere richiesto dalla Regione Lombardia. In
ballo c’è la realizzazione della cosiddetta «Cessanese-bis»,
vale a dire la viabilità speciale di Segrate, in appoggio
alla realizzazione di un nuovo centro commerciale di 99mila
mq (15mila per il settore alimentare e il resto non
alimentare).
Un progetto in ballo da anni per un’opera dal
valore complessivo di circa 160 milioni. Westfield Milan
Spa, promotore del nuovo centro commerciale, propone di
realizzarla a spese proprie (esclusi 20 milioni per i costi
di acquisto delle aree), a fronte dell’autorizzazione ad
aprire lo shopping center. La strada sarebbe proprio quella
offerta dall’articolo 20 del nuovo Codice. La Regione
Lombardia chiede se è davvero percorribile.
Con il parere arriva l’alt di Cantone. Per il presidente
dell’Anticorruzione non c’è spazio per evitare le gare, se
il privato che realizza le opere ottiene
dall’amministrazione una qualunque forma di
controprestazione: non solo un prezzo, ma anche un’altra
forma di corsia preferenziale, incluse le autorizzazioni. In
questo caso, infatti, si rientra in un contratto che prevede
l’applicazione del Codice.
«L’istituto contemplato
dall’articolo 20 del Codice -si legge nel parere messo nero
su bianco nella delibera 763- non può trovare applicazione
nel caso in cui la convenzione stipulata tra amministrazione
e privato abbia ad oggetto la realizzazione di opere
pubbliche da parte di quest’ultimo, in cambio del
riconoscimento in suo favore di una utilità, con conseguente
carattere oneroso della convenzione stessa».
Il carattere
oneroso della convenzione, chiarisce il documento, «deve
ritenersi sussistere in qualunque caso in cui, a fronte di
una prestazione, vi sia il riconoscimento di un
corrispettivo che può essere, a titolo esemplificativo, in
denaro, ovvero nel riconoscimento del diritto di
sfruttamento dell’opera (concessione), o ancora mediante la
cessione in proprietà o in godimento di beni. In tal caso la
convenzione ha natura contrattuale». La conseguenza è
l’obbligo di gara. «Simili fattispecie -specifica infatti
il parere- sono da ricondurre nella categoria dell’appalto
pubblico di lavori, da ciò derivando, come necessario
corollario, il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica
previste nel Codice».
Il parere contiene altri chiarimenti importanti
sull’applicazione dell’articolo 20. Il primo è che il nuovo
istituto non può avere efficacia retroattiva, ma può
«trovare applicazione esclusivamente alle convenzioni
stipulate successivamente all’entrata in vigore del Codice
stesso». Il secondo chiarimento riguarda l’obbligo, per
l’operatore privato che ottiene l’ok, a realizzare le opere
senza gara «di affidare i lavori a terzi».
Il terzo punto
riguarda i requisiti che le imprese impegnate in cantiere
devono dimostrare. Anche se la norma tace sul punto
specifico, per Cantone «il soggetto esecutore dell’opera
“pubblica”» deve comunque essere «in possesso di adeguati
requisiti di qualificazione, quale principio di carattere
generale, sancito nell’articolo 84 del Dlgs 50/2016, ai
sensi del quale i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di
lavori pubblici devono essere in possesso di adeguata
qualificazione».
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L’APPROFONDIMENTO.
Project financing, regole più severe.
Le norme del
nuovo Codice appalti in materia di concessioni e Ppp
(Partenariato pubblico privato) rivelano un obiettivo
chiaro: evitare, come spesso accaduto in Italia negli ultimi
dieci anni, che vengano lanciati progetti di opere pubbliche
in project financing poco studiati, poco trasparenti e nel
lungo periodo svantaggiosi per la Pa.
In parte si tratta di
una severità derivante dalla direttiva europea 2014/23/Ue
sulle concessioni: in particolare l’obbligo di trasferimento
al privato del rischio operativo, e cioè, il fatto che nel
contratto non ci siano clausole o garanzie che proteggano il
concessionario dal rischio effettivo di non recuperare gli
investimenti effettuati, o i costi sostenuti per la
gestione, vuoi perché gli introiti da mercato sono meno del
previsto (rischio legato alla domanda), vuoi perché la
qualità della gestione non rispetta i parametri concordati
(rischio legato all’offerta).
Nel nuovo Codice (articoli 164-191) ci sono poi una serie di
vincoli aggiuntivi: un tetto massimo per i contributi
pubblici, fissato al 30% dell’investimento (era al 50% nella
legge Merloni 1994, tetto poi eliminato dal 2002); limiti
alla cessione in permuta di beni pubblici (con retromarcia
rispetto alle norme Monti 2012 più flessibili); obbligo di
fare il closing con le banche (contratto di finanziamento)
entro 12 mesi dalla firma della concessione (con il vecchio
Codice era «entro 24 mesi» dall’ok al progetto definitivo);
revisione dell’equilibrio del Pef (piano
economico-finanziario) che non è mai un diritto del
concessionario, come invece era fino a ieri in caso di
variazioni apportate da Pa o leggi. Per le concessioni
autostradali, inoltre, il rischio da trasferire al privato
deve sempre comprendere il rischio traffico.
Insomma: più chiarezza di rapporti tra Pa e privati, meno
rischio di dover continuamente aggiustare i piani
finanziari, meno progetti che si bloccano in corso d’opera.
«Mai più effetto bancomat nel Pf», ha più volte dichiarato
il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio,
riferendosi a concessioni che, grazie a contratti poco
chiari e una normativa poco severa, consentivano ai
concessionari privati di chiedere negli anni continui
aggiustamenti all’equilibrio economico, a carico delle casse
pubbliche.
Alcune operazioni di project financing considerate un
modello dieci anni fa, si sono poi rivelate mal concepite e
fonte di continui aggiustamenti. Pensiamo alle autostrade
Tem Milano e Brebemi, salvate con i finanziamenti statali
rispettivamente del Dl 69/2013 e della legge di Stabilità
2015; alla Pedemontana Veneta, finanziata con il Dl 69 ma
ancora una volta, oggi, sull’orlo del fallimento (a cantieri
i corso) e la Pedemontana Lombarda, in situazione simile a
quella veneta (e con cantieri bloccati). O all’ospedale di
Mestre, che negli anni ha rivelato un canone annuale molto
svantaggioso per l’azienda sanitaria, ma difficilissimo da
modificare.
E pensiamo poi a molti degli ospedali lombardi
in concessione, avviati come project financing e poi
riclassificati nel 2014 dall’Istat (sulla base delle regole
Eurostat) on balance, cioè nel debito pubblico, perché le
clausole contrattuali coprivano di fatto i privati da rischi
effettivi. La severità del nuovo Codice (che si riferisce
solo alle nuove operazioni messe a gara dal 19.04.2016),
dovrebbe dunque contribuire a modernizzare il mercato
italiano del project financing, premiando solo le imprese
più efficienti e innovative.
Tuttavia i nuovi vincoli,
gettati a freddo su un mercato già in difficoltà e su
amministrazioni non sempre pronte a gestire il nuovo ruolo
di severi selettori di proposte di Pf, potrebbero produrre
la paralisi. Anche perché, nonostante l’ipotesi comparisse
nelle prime bozze del nuovo Codice, non è poi stata prevista
nessuna struttura nazionale di supporto o di
centralizzazione delle operazioni di Ppp, come ad esempio
esiste nel Regno unito.
La cabina di regia di monitoraggio sul Codice, che avvierà i
suoi lavori a settembre dopo il Dpcm del governo, ha tra i
suoi compiti quello di promuovere accordi e convenzioni con
enti e associazioni private per favorire la bancabilità dei
progetti; ma non è la stessa cosa di una struttura
permanente di assistenza. Applicare il concetto di rischio
operativo è infatti complesso, non è solo una prescrizione
giuridica, ma implica valutazioni economico-finanziarie
sulla gestione dell’opera, valutazioni che nel dubbio
potrebbero frenare i responsabili degli uffici gare.
In teoria giusto, poi, il tetto ai contributi pubblici (al
massimo il 30% del costo dell’investimento), ma è più rigido
di quello fissato da Eurostat, pari al 50%, per classificare
le concessioni on balance (articolo Il Sole 24 Ore del 12.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: A scuola dall’agricoltore per subentrare dopo tre anni.
Collegato agricolo. L’affiancamento per le nuove leve.
Pubblicato in
Gazzetta Ufficiale (la 186 del 10.08.2016) il «collegato
agricolo». La legge 154 del 28.07.2016 entrerà in vigore
il 25 agosto: esaminiamola nel dettaglio.
L’apprendistato
L’articolo 6 introduce una sorta di apprendistato innovativo
per favorire il ricambio generazionale. In questo caso la
norma ha il carattere di delega e rimanda a un Dlgs, da
emanare entro un anno, che dovrà passare al vaglio delle
commissioni parlamentari: tuttavia il nuovo istituto è già
ben delineato.
L’affiancamento deve avvenire tra un agricoltore pensionato
che abbia compiuto i 65 anni e un giovane di età compresa
tra i 18 e 40 anni, non proprietario di terreni agricoli.
Non è vietato un vincolo di parentela e l’affiancamento deve
avvenire per un periodo massimo di tre anni. Le agevolazioni
e gli sgravi fiscali vigenti saranno applicati
prioritariamente a favore dei soggetti che intraprendono
questo percorso.
Le attuali agevolazioni fiscali come
l’acquisto di terreni applicando l’imposta fissa di registro
ed ipotecaria, non conoscono priorità, ma solo requisiti che
chiunque può possedere: il legislatore, quindi, dovrebbe
introdurre nuove agevolazioni per i soggetti che
intraprendono l’affiancamento in agricoltura.
Dopo l’apprendistato
La norma pensa anche alla fase successiva, per favorire il
trasferimento dell’impresa agricola al giovane che abbia
superato l’apprendistato. È previsto un contratto di
conduzione che dovrebbe trovare la sua collocazione
giuridica nell’affitto di fondo rustico (legge 203/1982) e
la cessione o donazione di azienda agricola. Tali istituti
sono già ben presenti nel nostro ordinamento giuridico e si
tratterà di agevolarli sotto il profilo della forma e della
tassazione. Il giovane dovrà presentare un progetto
imprenditoriale sottoscritto anche dall’agricoltore anziano,
che definisca i reciproci obblighi.
Il Dlgs dovrà stabilire le forme di compartecipazione agli
utili: la fattispecie ricade nella conduzione associata
(articolo 33 del Dpr 633/1972) e prevede che il reddito
agrario sia imputato agli associati in base alle percentuali
risultanti da un atto scritto. Al giovane agricoltore viene
inoltre riconosciuto il diritto di prelazione nella vendita
del terreno oggetto di conduzione nell’ambito
dell’affiancamento.
La norma stabilisce, infine, la copertura infortunistica, il
diritto del giovane all’utilizzo delle macchine agricole ed
un ristoro per gli eventuali miglioramenti fondiari.
Prelazione agraria
L’articolo 1 della legge introduce il diritto di prelazione
a favore dell’imprenditore agricolo professionale(Iap)
iscritto nella previdenza agricola, relativamente ai terreni
agricoli confinanti con il proprio, qualora il terreno posto
in vendita non sia utilizzato da affittuari coltivatori
diretti. A nostro parere, se l’affittuario coltivatore
diretto del fondo rinuncia all’acquisto, il confinante Iap
dovrebbe acquisire il diritto di prelazione come avviene
tuttora per i confinanti coltivatori diretti.
L’Ismea
L’articolo 20 della legge prevede che l’Ismea (Ente del
ministero delle Politiche agricole) effettui interventi
finanziari a condizioni agevolate, o a condizioni di
mercato, in società sia cooperative a mutualità prevalente,
che con scopo di lucro, a condizione che siano
economicamente e finanziariamente sane.
Le società partecipate devono operare nei settori della
trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli,
nonché della pesca e della acquacoltura, ovvero nell’ambito
delle attività agricole connesse. L’Ismea opera soltanto
come socio di minoranza, o mediante prestiti obbligazionari.
Qualora l’Ente acquisisca le partecipazioni, stipula con gli
altri soci un diritto di vendita ad una determinata scadenza
e al prezzo di mercato. In alternativa l’Ismea può concedere
mutui (articolo Il Sole 24 Ore del 12.08.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni sbloccate a partire dal 2015. Ifel: il
dl 113 ha abolito il blocco con decorrenza immediata.
Gli enti locali che nel 2015 hanno sforato il limite del
rapporto fra spese di personale e spese correnti possono
effettuare nuove assunzioni.
Lo afferma l'Ifel, l'Istituto per la finanza locale dell'Anci,
nella
propria nota
05.08.2016 di commento al recente dl 113/2016.
L'art. 16 del provvedimento ha abrogato la lettera a)
dell'art. 1, comma 557, della legge 296/2006, che secondo la
Corte dei conti (si vedano, in particolare, le deliberazioni
della sezione delle autonomie nn. 16/20216 e 27/2015)
imponeva agli enti già soggetti al Patto (ossia tutti quelli
dai 5.000 abitanti in su) di ridurre l'incidenza della spesa
di personale sulla spesa corrente rispetto al valore medio
registrato negli anni 2011-2013.
Tale lettura ha posto numerose e rilevanti criticità: ad
esempio, se negli anni benchmark si sono sostenute spese di
natura eccezionale o non ricorrente e poi le uscite sono
tornate al loro livello fisiologico, rispettare l'obiettivo
può essere complicato.
E la stessa cosa accade se un ente decide (magari per
migliorare efficacia ed efficienza) di esternalizzare un
servizio prima svolto in forma diretta. In altri termini,
poiché negli scorsi anni il denominatore del rapporto si è
spesso ridotto più del numeratore, tale previsione
rappresentava un forte ostacolo alle politiche di
reclutamento, dato che chi non era in regola incappava nel
divieto assoluto di assumere. Gli stessi giudici contabili
avevano stigmatizzato tali distonie, ma per correggerle
occorreva un intervento del legislatore, che adesso è
finalmente arrivato.
Tuttavia, secondo la tesi più rigorosa (si veda ItaliaOggi
del 22 luglio), l'abrogazione del parametro normativo su cui
si basava la lettura restrittiva della Corte, conformemente
ai principi generali, vale solo pro futuro, per cui nel
2015, a rigore, il vincolo rimarrebbe cogente. Da qui, in
caso di sforamento, l'applicabilità delle sanzione prevista
dal comma 557-ter mediante rinvio all'art. 76, comma 4, del
decreto legge n. 112/2008, che vieta di assumere nell'anno
successivo alla violazione.
Di diverso avviso l'Ifel, secondo cui il citato art. 16 «ha
abolito con decorrenza immediata il presupposto sul quale
poggiava l'applicazione della sanzione del divieto assunzionale di cui al comma 557-ter della stessa legge 296,
formalmente non abrogato e che continua ad essere
applicabile agli enti che non abbiano assicurato il
contenimento in valore assoluto delle spese di personale con
riferimento al valore medio del triennio 2011-2013 (ai sensi
del combinato disposto tra il comma 557 e il comma
557-quater della medesima legge)».
Ifel ritiene, pertanto, «che le amministrazioni che nel
2015 non hanno registrato la riduzione del rapporto fra
spese di personale e spese correnti di cui alla norma
abrogata non sono soggette al divieto assunzionale
richiamato dal citato comma 557-ter».
Si tratta di una tesi che sarebbe decisamente più favorevole
agli enti, ma che necessita di una conferma da parte della
Corte dei conti
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2016). |
ENTI LOCALI: Via 5mila partecipate, lista esuberi entro 6 mesi.
Sì definitivo del Consiglio dei ministri - Alta tensione sul
decreto dirigenti Pa, slittamento a fine agosto.
La riforma
delle partecipate (Schema di
decreto legislativo recante testo unico in materia di
società a partecipazione pubblica -
Atto del Governo n. 297) arriva al traguardo dell’adozione
definitiva senza modifiche di sostanza ai parametri scritti
per dividere le società pubbliche che possono continuare a
operare da quelle destinate invece a chiusura,
privatizzazione o aggregazione.
Sul tavolo del Cdm, invece,
non arriva la riforma dei dirigenti, ancora al centro delle
discussioni all’interno del governo e dell’alta burocrazia
ministeriale soprattutto dopo che il testo aveva perso la
clausola di salvaguardia per i direttori generali (si veda
Il Sole 24 Ore di ieri).
Lo slittamento trascina con sé
anche gli altri decreti alla prima lettura, su camere di
commercio ed enti di ricerca: se ne riparlerà il 25 agosto.
Nel capitolo dei rinvii va inserito in realtà anche un
decreto approvato ieri in via definitiva, quello che riforma
il Codice dell’amministrazione digitale: il suo primo
effetto concreto è infatti quello di cancellare nei fatti la
scadenza di domani, data a partire dalla quale anche gli
enti locali avrebbero dovuto abbandonare la carta nella
creazione dei propri atti, e di rimandare il tutto a data da
destinarsi, quando saranno pronte le nuove regole tecniche.
Nel frattempo, quindi, l’amministrazione digitale può
attendere.
È il taglia-partecipate, comunque, a dominare per il suo
peso specifico i lavori del governo di ieri, con l’obiettivo
di cancellare in prima battuta almeno 5mila partecipazioni
locali. Nonostante le molte resistenze incontrate anche da
questo provvedimento, il testo definitivo conferma
l’impianto complessivo della riforma, che chiede agli enti
proprietari di scrivere entro sei mesi un piano di
razionalizzazione prevedendo obbligatoriamente l’abbandono
delle partecipazioni in aziende che non rispondono a un
doppio piano di requisiti.
Il primo è quello degli ambiti di
attività: le pubbliche amministrazioni potranno essere socie
solo di spa, srl (anche in forma cooperativa, come precisato
nell’ultimo testo) e società consortili che producono
servizi di interesse generale, compresa la realizzazione di
reti e impianti, opere pubbliche, beni strumentali o
attività di supporto agli enti non profit.
All’interno di questo ventaglio di opzioni, che esclude i
tanti settori di mercato, dai servizi professionali al
commercio all’ingrosso e al dettaglio, in cui oggi sono
attive le società pubbliche, le partecipate dovranno
rispettare il secondo gruppo di criteri: rimane il fatturato
minimo da un milione, nonostante le richieste parlamentari
di abbassare l’asticella a 500mila euro, e l’addio alle
società con più dipendenti che amministratori, alle aziende
doppione (attive cioè in settori simili o uguali a quelli
già coperti da altre partecipate) e, fuori dai servizi di
interesse generale, alle aziende che hanno chiuso in rosso
quattro degli ultimi cinque bilanci.
Su questi punti il
piano di razionalizzazione, da adottare entro sei mesi per
non incorrere in una sanzione amministrativa fino a 500mila
euro, non ha possibilità di scelta, ma deve limitarsi a
censire le partecipate che entro un anno vanno chiuse,
privatizzate oppure aggregate per superare i parametri
minimi di fatturato e organici. Entro sei mesi, anche le
società pubbliche “in regola” con i nuovi parametri dovranno
effettuare una revisione straordinaria del personale per
individuare gli esuberi.
Una novità importante spunta nel testo esaminato ieri dal
consiglio dei ministri per le assunzioni di nuovo
personale: alle società controllate viene esteso l’obbligo,
previsto fin dal 2008 per le aziende di servizi pubblici
locali, di definire con provvedimenti autonomi il rispetto
dei principi di trasparenza e selezione pubblica nel
reclutamento del personale, ma in caso di mancata adozione
dei regolamenti si applicheranno direttamente i cardini del
concorso pubblico previsti per le Pa dal testo unico del
pubblico impiego (articolo 35, comma 3, del Dlgs 165/2001).
Trovano poi una nuova definizione gli affidamenti senza gara
alle società in house: serve il «controllo analogo»,
ovviamente, e l’eventuale presenza di soci privati deve
essere limitata a quella eventualmente imposta da normative
di settore, a patto che comunque i privati non abbiano
un’«influenza dominante».
Chiude il quadro dei provvedimenti attuati ieri la riforma
della Corte dei conti, che dà nuovi poteri al pm per
vigilare sull’esecuzione delle sentenze senza però
affidargli la responsabilità diretta.
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Tetti ad amministratori e manager, nuovi criteri per l’in
house.
I provvedimenti attuativi della legge Madia. Per i compensi
saranno individuati limiti differenti per ciascuna delle
cinque fasce di società definite in base alle dimensioni
aziendali - Resta il tetto generale di 240mila euro.
Via libera
definitivo del Consiglio dei ministri a tre decreti che
ridisegnano tre aspetti importanti della galassia della
pubblica amministrazione: il “taglia partecipate”, il nuovo
Codice dell’amministrazione digitale e il Testo unico sul
processo contabile. «Riduzione delle società partecipate e
cittadinanza digitale approvate definitivamente oggi. La
riforma della Pa continua», ha scritto ieri via Twitter la
ministra Marianna Madia. Ora manca solo la pubblicazione in
Gazzetta ufficiale dopo di che i nuovi decreti entreranno in
vigore.
Il provvedimento per la razionalizzazione delle partecipate
è molto articolato: si va dai paletti per costituire nuove
società, al piano straordinario per varare le dismissioni,
alla gestione degli esuberi, passando per i nuovi tetti per
i compensi degli amministratori, per finire con le nuove
norme che chiariscono la materia fallimentare. La prima
tappa è il decreto sui nuovi tetti per i manager e i
dipendenti delle società pubbliche, si passa da tre a cinque
fasce. Tra sei mesi invece la prima “black list” delle
aziende da tagliare, con relativo elenco di esuberi.
Il nuovo Codice dell’amministrazione digitale spiana invece
la strada al Pin unico, il cosiddetto Spid, per accedere ai
servizi della Pa e soprattutto dà il via al domicilio
elettronico, «l’indirizzo online» al quale il cittadino
potrà essere raggiunto dalle pubbliche amministrazioni,
spiega il comunicato di Palazzo Chigi.
Arriva poi il restyling del processo contabile, «fin qui
disciplinato da norme risalenti molte addirittura agli anni
'30», ha ricordato la presidenza del Consiglio. Ora diventa
più veloce e le garanzie della difesa vengono rafforzate.
Per il Governo quindi «obiettivo raggiunto senza perdere di
vista l’interesse pubblico al ristoro del danno erariale e
al contrasto agli sprechi e alla corruzione» (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
P.a., rinviata la digitalizzazione. A data da
destinarsi lo stop alla carta (previsto domani). CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Approvate ieri in via definitiva le modifiche
al Codice.
L'addio definitivo alla carta da parte della p.a. può
attendere. L'obbligo di dematerializzare i provvedimenti (e
i procedimenti) amministrativi, che sarebbe dovuto entrare
in vigore domani, slitta in attesa di un decreto della
Funzione pubblica che dovrà riscrivere le regole tecniche.
Fino a quel momento l'obbligo per gli enti pubblici di
adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei
documenti sarà sospeso. Ma chi lo vorrà potrà adeguarsi
prima.
Lo slittamento è contenuto nel
decreto legislativo sul
Codice dell'amministrazione digitale approvato in via
definitiva dal consiglio dei ministri di ieri e attuativo
della riforma Madia (Atto
del Governo n. 307
- Schema di decreto legislativo recante modifiche e
integrazioni al codice dell'amministrazione digitale di cui
al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82), di cui, peraltro, costituisce l'incipit
a riprova, come sottolinea la relazione illustrativa, “della
centralità che il parlamento ha inteso riconoscere alle
tecnologie dell'informazione nei rapporti tra cittadini,
imprese e pubblica amministrazione”.
Il debutto della
gestione informatica dei procedimenti p.a. che, come detto,
sarebbe dovuto partire il 12.08.2016 (18 mesi dal dpcm
13.11.2014 che lo ha previsto) viene rinviato, ma non
alle calende greche. La tempistica è definita perché
dall'entrata in vigore del dlgs, il dicastero di palazzo
Vidoni avrà quattro mesi di tempo per approvare il decreto
ministeriale con le nuove istruzioni tecniche. Anche se,
come spesso accade, si tratta di termini ordinatori che la
p.a. può rispettare con una certa flessibilità.
Vediamo
tutte le novità introdotte dal decreto legislativo che
riscrive a oltre dieci anni di distanza il Codice
dell'amministrazione digitale del 2005 (dlgs 82).
Domicilio digitale e Spid.
Per i cittadini sono in arrivo
molte novità. Arriva il “domicilio digitale” che permetterà
di ricevere sulla propria casella di posta elettronica
certificata notifiche e comunicazioni. I cittadini potranno
indicare la propria casella al comune di residenza per
facilitare le comunicazioni con le p.a. L'accesso sarà
attraverso il pin unico (il sistema Spid), in collegamento
con l'Anagrafe nazionale della popolazione residente.
E
sempre attraverso Spid si potrà accedere ai servizi pubblici
con un unico nome utente e un'unica password. Prenotare
visite mediche, pagare tributi, iscrivere i propri figli a
scuola saranno pratiche a portata di click, senza la
necessità di dover memorizzare e conservare decine di
password. Le pubbliche amministrazioni saranno obbligate ad
accettare pagamenti attraverso i sistemi elettronici,
inclusi gli strumenti di micro pagamento e il credito
telefonico.
Gli enti che non si adegueranno alla rivoluzione
digitale rischieranno di subire azioni collettive, vere e
proprie class action, da parte dei cittadini. Le azioni
collettive saranno attivabili non solo in caso di mancata
erogazione dei servizi online, ma anche qualora gli standard
dei servizi siano inferiori a quelli previsti dalla legge.
Banda larga negli uffici pubblici.
Le amministrazioni
dovranno rendere disponibili agli utenti la connessione
internet wifi presso i propri uffici. Quando gli uffici sono
chiusi, la connessione sarà a disposizione di tutti i
cittadini che potranno accedervi senza bisogno di
particolari sistemi di autenticazione. Il governo è infatti
tornato sui propri passi rispetto all'idea di rendere il
servizio accessibile solo agli utenti Spid perché una scelta
del genere avrebbe tagliato fuori i turisti, il cui accesso
alla rete, invece, va incentivato.
Validità dei documenti informatici.
Se sottoscritti con
firma elettronica avanzata, qualificata o digitale e formati
nel rispetto delle regole tecniche previste dal decreto, i
documenti informatici faranno piena prova fino a querela di
falso.
Società a controllo pubblico e società quotate.
Il dlgs
estende l'ambito di applicazione del Codice
dell'amministrazione digitale alle società a controllo
pubblico. Sono invece escluse le società quotate. In quanto
soggette al Cad, anche le società a controllo pubblico
saranno obbligate ad accettare i pagamenti elettronici in
qualsiasi forma, incluso l'utilizzo dei micro-pagamenti e
del credito telefonico.
Ufficio per il digitale.
La responsabilità della transizione al digitale sarà
affidata a un unico ufficio dirigenziale assegnato a un
responsabile dotato di adeguate competenze tecnologiche e
manageriali
(articolo ItaliaOggi dell'11.08.2016). |
ENTI LOCALI: Partecipate,
scatta la stretta. Da alienare entro un anno 5 mila quote
fuori legge. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ L'ok definitivo al
decreto che attua la riforma Madia.
Scatta la stretta sulle partecipate pubbliche (Schema di
decreto legislativo recante testo unico in materia di
società a partecipazione pubblica -
Atto del Governo n. 297).
Il governo,
infatti, ha approvato ieri in via definitiva il
decreto
legislativo che, in attuazione della legge «Madia»,
ridefinisce in modo più restrittivo le regole che
disciplinano la costituzione di società, nonché l'acquisto,
il mantenimento e la gestione di partecipazioni, da parte
delle pp.aa.
La riforma prevede un doppio meccanismo
attuativo: dapprima (entro sei mesi) scatterà una revisione
straordinaria, che dovrà portare nel giro di un anno alla
alienazione delle partecipazioni «fuori legge», che si
stimano essere almeno 5.000. Dal 2018, invece, scatteranno
gli obblighi di razionalizzazione periodica, in modo da
evitare che i carrozzoni usciti dalla porta rientrino dalla
finestra.
In linea generale, alle pubbliche amministrazioni è fatto
divieto di costituire o mantenere partecipazioni (anche
indirette) in società aventi per oggetto attività di
produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per
il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. Non
si tratta di una novità, ma finora non è bastato a contenere
l'esuberanza degli amministratori.
Ecco perché il decreto varato ieri introduce ulteriori
limiti, definendo in modo rigido i settori nei quali le
partecipazioni rimangono consentite, ovvero: produzione di
un servizio di interesse generale (ivi inclusa la
realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti
funzionali ai servizi medesimi), progettazione,
realizzazione e gestione di opere pubbliche, autoproduzione
di beni o servizi strumentali, servizi di committenza.
I
vari adattamenti che ha subito il testo nei suoi vari
passaggi hanno introdotto ulteriori deroghe, che riguardano,
per esempio, le finanziarie regionali, le società aventi per
oggetto sociale prevalente la gestione di spazi fieristici e
l'organizzazione di eventi fieristici, nonché la
realizzazione e la gestione di impianti di trasporto a fune
per la mobilità turistico sportiva eserciti in aree montane.
Escluse dalla riforma anche alcune partecipate statali come
Anas, Invitalia, Coni servizi, Invimit, Sogin e il
Poligrafico.
Il terzo ordine di paletti riguarda i requisiti che anche le
società che rientrano nei settori ammessi devono rispettare
per poter sopravvivere. Nel mirino, finiscono le realtà che
risultino prive di dipendenti o abbiano un numero di
amministratori superiore a quello dei dipendenti, quelle che
svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da
altre società partecipate o da enti pubblici strumentali e
quelle che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un
fatturato medio non superiore a un milione di euro (il
parlamento aveva chiesto di dimezzare tale soglia, ma
l'esecutivo ha tenuto duro). Per le società diverse da
quelle costituite per la gestione di servizi d'interesse
generale, scatta l'obbligo di dismissione in presenza di un
risultato negativo per quattro dei cinque esercizi
precedenti.
Entro il prossimo mese di febbraio (ossia entro sei mesi
dall'entrata in vigore del decreto), le pp.aa. dovranno
redigere un piano che individui le società da dismettere
entro l'anno successivo. In mancanza, vedranno congelati i
propri diritti sociali e la partecipazione dovrà essere
liquidata in denaro. Dal 2018, questa sorta di «spending
review» applicata alle partecipate dovrà essere effettuata
con cadenza annuale.
Il decreto affronta anche il nodo occupazionale. Entro sei
mesi, le società a controllo pubblico dovranno effettuare
una ricognizione del personale in servizio, per individuare
eventuali eccedenze, che saranno gestite da regioni e
Funzione pubblica con una procedura simile a quella che ha
consentito la ricollocazione degli esuberi delle province.
In pratica, verrà formato un elenco dei lavoratori
dichiarati eccedenti, che saranno coinvolti in processi di
mobilità in ambito regionale.
La stretta, ovviamente, non risparmia neppure i cda. In
generale, il decreto prevede che l'organo amministrativo
delle società a controllo pubblico è costituito da un
amministratore unico. Sarà un dpcm ad individuare i casi in
cui, «per specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa»,
l'assemblea della società potrà prevedere un consiglio di
amministrazione composto da tre o cinque membri, ovvero i
sistemi alternativi (monistico e dualistico) previsti dal
codice civile.
Infine, immancabile, la sforbiciata sui compensi: saranno
definiti «indicatori dimensionali quantitativi e
qualitativi» al fine di individuare fino a cinque fasce
per la classificazione delle società, cui corrisponderanno
limiti massimi agli emolumenti, che comunque non potranno
eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui. Stop,
infine, a premi e bonus in caso di risultati negativi
attribuibili alla responsabilità dell'amministratore (articolo ItaliaOggi dell'11.08.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Riforma Pa, il governo accelera ma è alta tensione sulla
dirigenza.
L’attuazione della «Madia». Atteso oggi in Consiglio dei
ministri un «pacchetto» di decreti legislativi, dal via
libera al riordino delle partecipate al primo esame delle
norme sulle camere di commercio.
Dopo un
serrato confronto all’interno del Governo e dell’alta
burocrazia ministeriale, prende una forma definita il nuovo
pacchetto di decreti attuativi della riforma della Pubblica
amministrazione atteso oggi pomeriggio alle 17 in consiglio
dei ministri: un pacchetto che, a partire dal decreto sulla
dirigenza e dall’adozione finale del taglia-partecipate,
entra nel vivo dei temi più delicati per le strutture e per
i dipendenti dell’amministrazione pubblica.
Proprio il testo
sui dirigenti, che introduce la regola degli incarichi a
tempo e il rischio di tagli di stipendio fino al
licenziamento per chi rimane senza posto, rappresenta uno
dei passaggi più critici dell’intera riforma e su cui il
confronto è ancora aperto in queste ore tanto che oggi ci
potrebbe essere soltanto un primo via libera “salvo intese”
per rivedersi il 25 agosto.
Nelle settimane scorse si era
addirittura fatta largo la tentazione di accantonare il
tema, viste le resistenze probabili (e ufficiosamente già
annunciate) da parte di molte strutture, al punto che era
intervenuto lo stesso premier Matteo Renzi per spiegare che
la linea del governo è quella di non far scadere senza
attuazione nessun capitolo della delega. Di qui l’accelerata
del decreto verso l’ultimo consiglio dei ministri utile
prima della pausa estiva che, a quanto si apprende, potrebbe
riservare qualche sgradita sorpresa per i direttori
generali: nel testo che sarà esaminato oggi, infatti,
dovrebbe essere saltata all’ultimo la clausola di
salvaguardia che li escludeva dal meccanismo del ruolo
unico.
Anche loro dovrebbero quindi rientrare nel sistema generale
disegnato dalla riforma, in base alla quale le
amministrazioni sceglieranno i propri dirigenti all’interno
dei ruoli (dedicati rispettivamente a Stato, regioni ed enti
locali, a cui si dovrebbe affiancare un quarto elenco per le
autorità indipendenti) per affidare gli incarichi
quadriennali, rinnovabili una sola volta ed esclusivamente
nei casi in cui l’incaricato abbia ottenuto una valutazione
positiva della performance individuale.
I nuovi dirigenti
accederanno invece ai ruoli tramite un concorso o un
corso-concorso, a seconda del curriculum, banditi ogni anno
per sostituire i pensionati dell’anno prima (ma la Funzione
pubblica potrà allargare un po’, fino al 20%, i posti messi
a bando). I vincitori (non ci saranno idonei) dovranno poi
affrontare una prova sul campo di tre anni, riducibili a uno
per chi ha un curriculum particolarmente brillante.
Tutto il
meccanismo si baserà come accennato sul sistema degli
incarichi quadriennali, e chi resterà senza incarico dovrà
accontentarsi dello stipendio base, che vale tra il 30 e il
50% della busta paga complessiva, fatta anche di
retribuzione di posizione e di risultato e dovrà partecipare
a un numero minimo di bandi per non rischiare il
licenziamento. Per provare a centrare l’obiettivo dichiarato
dal governo di una vera “meritocrazia” ai vertici della Pa,
il nuovo sistema dovrà essere arricchito da meccanismi di
valutazione solidi e in grado di resistere al contenzioso,
perché la riforma promette di diversificare i premi di
risultato tagliandoli drasticamente, anche dell’80%, per i
dirigenti che «colpevolmente» non vigilano sugli standard
qualitativi e quantitativi necessari all’attività dei propri
uffici.
Per la riforma delle partecipate, invece, quello di oggi è
l’ultimo passaggio per un testo già finito due volte in Cdm
e Parlamento. Il decreto, che dà sei mesi di tempo per
scrivere i piani di razionalizzazione e poi un anno per
attuarli, punta a cancellare almeno 5mila società, vietando
le partecipazioni in aziende che operano in settori di
mercato e in quelle che non raggiungono requisiti minimi di
organico, fatturato e risultati di bilancio. Proprio su
questi parametri si sono accese le discussioni più animate,
ma salvo sorprese il Governo dovrebbe tirare dritto sulla
richiesta di un fatturato minimo di almeno un milione,
magari con qualche esclusione settoriale in più oltre a
quelle già previste per fiere e funivie (si discute ad
esempio del fotovoltaico e dei servizi alla persona).
Anche
sul versante delle società, i temi più delicati sono quelli
del personale, e in particolare degli esuberi che saranno
prodotti dalla chiusura delle società fuori regola (le
alternative sono la privatizzazione o le aggregazioni) e
dalla revisione degli organici nelle aziende che sopravviveranno: le società pubbliche, infatti, saranno
chiamate a monitorare le proprie strutture indicando la
presenza di esuberi, che dovranno essere gestiti in prima
battuta dalle regioni, con una sorta di ruolo di regia nella
mobilità territoriale, e poi dall’Agenzia nazionale per il
lavoro.
Un robusto alleggerimento dovrebbe poi riguardare
presidenti e consiglieri: la riforma introduce infatti la
regola dell’amministratore unico, confinando la presenza dei cda ai casi in cui saranno indispensabili per ragioni di
adeguatezza organizzativa, in base a parametri che palazzo
Chigi dovrà individuare con decreto. Entro 30 giorni
dall’entrata in vigore, poi, dovrebbero finalmente essere
attuate le cinque fasce che limitano i compensi di
amministratori e dirigenti sulla base delle dimensioni
dell’azienda. A queste indicazioni dovrebbero
tendenzialmente adeguarsi anche le società miste, a cui gli
enti pubblici dovranno fornire atti di indirizzo che
chiedano regole su compensi e amministratori analoghe a
quelle fissate per le aziende pubbliche.
Il terzo provvedimento che interessa da vicino gli organici
della Pubblica amministrazione è quello sulle Camere di
commercio, il cui primo approdo in consiglio dei ministri è
stato preceduto da un dibattito vivace con tanto di
assemblee pubbliche. L’orizzonte, già definito nella delega,
è quello di ridurre del 40% le Camere di commercio, passando
a 60 enti: Unioncamere sarà chiamata a definire entro sei
mesi un piano di razionalizzazione del personale, in cui
però non dovrebbero trovar spazio le percentuali minime di
riduzione (15% degli organici, 25% degli uffici di staff)
scritti nelle prime bozze.
Anche in questo caso, gli
obblighi di alleggerimento si estendono agli organismi di
amministrazione, con una revisione delle tre fasce
dimensionali (saranno solo due sopra o sotto le 80mila
imprese)e del numero di consiglieri previsti in ogni fascia:
passeranno da 3.000 a 1.600, mentre i componenti di giunta
scenderanno complessivamente da 1.000 a 300.
Completano il quadro il codice dell’amministrazione
digitale, gli enti di ricerca (si veda Il Sole 24 di
domenica scorsa) e il comitato paraolimpico.
Tra le novità in
arrivo con il Cad l’ampliamento dei diritti di cittadinanza
digitale e il diritto per ogni cittadino del domicilio
elettronico accessibile con un pin unico collegato
all’Anagrafe nazionale della popolazione residente.
Scompare, inoltre, il termine del 12.08.2016 entro cui
le amministrazioni avrebbero dovuto adottare le regole
tecniche per i documenti elettronici. La norma rinvia a un
futuro Dm della Funzione pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 10.08.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato afferma la possibilità, anche nel
silenzio del bando, di disporre il pagamento della cauzione
ex art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 del concorrente che ha
vinto la gara ma non ha stipulato il contratto.
...
Pubblica amministrazione – Contratti della p.a. –
Aggiudicatario - Rifiuto a stipulare il contratto - Art. 93,
d.lgs. n. 50 del 2016 - Applicabilità anche nel silenzio del
bando di gara
Ai sensi dell’art. 93 d.lgs.
18.04.2016, n. 50 per la partecipazione alle gare pubbliche
è obbligatoria la presentazione di «garanzie a prima
richiesta», commisurate in percentuale fissa al prezzo di
gara e aventi anch’esse una funzione di garanzia, che
attribuiscono alla stazione appaltante una ‘tutela
rafforzata’, cioè il potere di disporre l’escussione
dell’importo previsto, per il caso in cui l’aggiudicatario
non intenda stipulare il contratto; la stazione appaltante
può chiedere al giudice di disporre la condanna dell’autore
del fatto illecito, anche se il bando non prevede tali forme
di tutela “rafforzata”.
---------------
9.2. Ciò posto, risulta infondato il primo profilo delle censure con cui
l’appellante incidentale ha ritenuto insussistente la
giurisdizione amministrativa esclusiva.
Va premesso che per la consolidata giurisprudenza
amministrativa in sede di giurisdizione amministrativa
esclusiva l’Amministrazione pubblica ben può agire con un
ricorso, a tutela di un proprio diritto soggettivo (per
tutte, Cons. Stato, Ad. Plen., 20.07.2012, n. 28; Sez. IV, 25.06.2010, n. 4107, sulla proponibilità dell’azione
ex art. 2932 c.c.).
Sul punto, si è poi pronunciata la Corte Costituzionale, che
ha affermato principi aventi un rilievo generale sui casi
nei quali il ricorso al giudice amministrativo può essere
proposto nei confronti di un soggetto privato.
Con la sentenza n. 179 del 2016 (§ 3.1.), la Corte
Costituzionale ha evidenziato che, «sebbene gli artt. 103 e
113 Cost. siano formulati con riferimento alla tutela
riconosciuta al privato nelle diverse giurisdizioni, da ciò
non deriva affatto che tali giurisdizioni siano
esclusivamente attivabili dallo stesso privato, né che la
giustizia amministrativa non possa essere attivata dalla
pubblica amministrazione; tanto più che essa storicamente e
istituzionalmente è finalizzata non solo alla tutela degli
interessi legittimi (ed in caso di giurisdizione esclusiva
degli stessi diritti), ma anche alla tutela dell’interesse
pubblico, così come definito dalla legge»: ai fini della
compatibilità costituzionale delle norme di legge devolutive
di controversie alla giurisdizione esclusiva, rileva il
fatto «che vi siano coinvolte situazioni giuridiche di
diritto soggettivo e di interesse legittimo strettamente
connesse».
Risulta dunque infondata la tesi dell’appellante
incidentale, secondo la quale non potrebbe sussistere la
giurisdizione esclusiva, quando il ricorso sia proposto al
TAR da una Amministrazione pubblica (o da un soggetto ad
essa equiparato, come l’organismo di diritto pubblico, nel
settore dei contratti pubblici).
Risulta altresì infondata l’altra tesi dell’appellante
incidentale, secondo cui il TAR avrebbe incongruamente
richiamato il principio di concentrazione delle tutele: la
medesima sentenza n. 179 del 2016 della Corte
Costituzionale, al § 3.2., ha evidenziato che «l’ordinamento
non conosce materie ‘a giurisdizione frazionata’, in
funzione della differente soggettività dei contendenti.
Elementari ragioni di coerenza e di parità di trattamento
esigono, infatti, che l’amministrazione possa avvalersi
della concentrazione delle tutele che è propria della
giurisdizione esclusiva e che quindi le sia riconosciuta la
legittimazione attiva per convenire la parte privata avanti
il giudice amministrativo».
9.3. Per un duplice ordine di considerazioni, risulta
altresì infondato il secondo profilo in base al quale
l’appellante incidentale ha dedotto che non sussisterebbe la
giurisdizione amministrativa esclusiva, in ragione della
tipologia del contratto rispetto al quale è stata bandita la
gara.
9.3.1. Come ha evidenziato l’appellante principale, sotto il
profilo sostanziale l’allegato II A del codice dei contratti
pubblici, approvato con il decreto legislativo n. 163 del
2006, ha previsto che il contratto di mutuo rientra tra gli
appalti di servizi ivi elencati, sicché si applica l’art.
20, comma 2, del medesimo codice.
Infatti, la voce 6 del citato allegato II A include tra gli
appalti di servizi i «servizi bancari e finanziari», con
l’eccezione «dei contratti dei servizi finanziari relativi
all’emissione, all’acquisto, alla vendita e al trasferimento
di titoli e di altri strumenti finanziari, nonché dei
servizi forniti da banche centrali».
9.3.2. Inoltre, per la consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio, rilevano le disposizioni dell’art. 27 del
medesimo codice dei contratti pubblici (applicabile ratione
temporis), il quale –estendendo in materia i relativi
doveri delle Amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad
essi equiparati, come gli organismi di diritto pubblico- ha
disposto l’applicazione dei principi del Trattato anche ai
contratti esclusi (per ragioni di soglia o di oggetto),
imponendo il rispetto delle ‘regole minimali’ della evidenza
pubblica (Sez. VI,
04.10.2013, n. 4902; Sez. V, 24.04.2013, n. 2282; Sez. VI, 03.02.2011, n. 775; Ad. Plen.,
01.08.2011, n. 16).
Ciò comporta che, contrariamente a quanto ha dedotto
l’appellante incidentale, la s.p.a. Ospedale di Sassuolo ha
doverosamente indetto la procedura ad evidenza pubblica, che
ha condotto alla controversia in esame.
10. Così riaffermata la sussistenza della giurisdizione
amministrativa esclusiva, si deve esaminare la censura della
s.p.a. Banca Carige, la quale ha lamentato che il TAR non
avrebbe esaminato la sua eccezione, formulata in primo
grado, secondo cui sarebbe inconfigurabile una propria
responsabilità, poiché la domanda risarcitoria ha riguardato
«una fase anteriore rispetto all’aggiudicazione in suo
favore (che, nella fattispecie, non è pacificamente mai
stata disposta)».
11. Ritiene la Sezione che tale censura sia infondata e vada
respinta.
Il richiamo al fatto che non vi è stata la stipula del
contratto, più che fondare una eccezione in senso tecnico,
ha riguardato una ‘linea difensiva’ della s.p.a. Banca
Carige, volta a rappresentare l’insussistenza di profili di
una propria responsabilità.
Dall’esame della complessiva ratio decidendi della sentenza
impugnata, si evince che il TAR ha ricostruito compiutamente
i fatti accaduti, ha evidenziato che tra le parti non vi è
mai stata la stipula del contratto (prendendo così in
considerazione la ‘linea difensiva’ della s.p.a. Banca
Carige) ed ha qualificato in linea di principio la domanda
della s.p.a. Ospedale di Sassuolo come riconducibile ad una
pretesa risarcitoria per responsabilità precontrattuale (pur
se ha poi respinto la domanda, per l’assenza di danni
giuridicamente risarcibili).
12. A questo punto, si deve passare all’esame del merito
delle questioni controverse tra le parti.
13. Per ragioni di ordine logico, va innanzitutto esaminata
la questione se la s.p.a. Banca Carige abbia commesso un
fatto illecito, nel rifiutare la stipula del contratto, dopo
aver saputo che la sua offerta era stata collocata al primo
posto nella graduatoria, nel verbale del 28.11.2006.
Infatti, ove si dovesse escludere la sussistenza di un
illecito, diventerebbe del tutto irrilevante verificare se
sia stato cagionato un danno risarcibile.
14. Ritiene la Sezione che vadano condivise le deduzioni
della s.p.a. Ospedale di Sassuolo, già ritenute fondate dal
TAR, sulla sussistenza di un fatto illecito della s.p.a.
Banca Carige (sicché risultano infondate le deduzioni
dell’appello incidentale).
E’ decisivo considerare che l’offerta economica della Banca
(trasmessa il 16.11.2006: v. il doc. 9, depositato in
allegato al ricorso di primo grado) non ha operato alcun
richiamo alla necessità o alla eventualità della
approvazione di suoi organi deliberanti ed ha indicato la
sua incondizionata disponibilità a stipulare il mutuo (nel
caso di esito favorevole della procedura di evidenza
pubblica), precisando che «l’offerta resterà valida 60
giorni decorrenti da quello di scadenza per la presentazione
dei documenti di gara».
Il testo di tale dichiarazione è univoco nell’evidenziare l’impegnatività
di tale offerta: non solo esso non ha fatto riferimento ad
una condizione sospensiva o risolutiva, ma ha inoltre fatto
riferimento ai «60 giorni decorrenti da quello di scadenza
per la presentazione dei documenti di gara», così
evidenziando che -decorso tale termine– non sarebbe stata
rilevante una eventuale determinazione della s.p.a. Ospedale
di Sassuolo di concludere il contratto con la medesima Banca
offerente.
Contrariamente a quanto ha dedotto la s.p.a. Banca Carige,
tale dichiarazione è univoca, anche se nella stessa data 16.11.2006 vi era stata la trasmissione di un’altra
dichiarazione, che precisava come l’approvazione fosse stata
presentata «nelle more dell’approvazione della relativa
pratica di affidamento da parte dei competenti organi
deliberanti».
Poiché l’offerta è stata presentata senza l’apposizione di
alcuna condizione e a firma del legale rappresentante della
Banca, questa ulteriore dichiarazione sul piano obiettivo
non può essere che intesa come l’impegno di attivare e di
far concludere positivamente la «pratica» da parte degli
«organi deliberanti».
Va pertanto confermata la statuizione del TAR, che ha
considerato ingiustificato il «rifiuto di stipulazione del
contratto, a seguito della presentazione della migliore
offerta da parte di Banca Carige s.p.a.».
15. Si deve ora passare all’esame della censura proposta con
l’appello principale, secondo cui sarebbe in concreto
risarcibile il danno cagionato dalla s.p.a. Banca Carige,
consistente nel maggiore importo da corrispondere
complessivamente per la stipula del mutuo con la Banca
Popolare dell’Emilia Romagna (e quantificato nella memoria
conclusiva di primo grado in euro 122.729,24, tenuto conto
della differenza del meno favorevole spread offerto da tale
Banca).
16. Osserva al riguardo la Sezione che l’ordinamento ha
tradizionalmente disciplinato il caso in cui
l’aggiudicatario di una gara d’appalto poi si rifiuti di
stipulare il contratto con l’Amministrazione che abbia
emanato il bando.
16.1. Nel sistema della legge sulla contabilità di Stato (v.
il regio decreto 18.11.1923, n. 2440, e successive
modificazioni), era previsto il sistema del versamento di
una «cauzione provvisoria», per la partecipazione alla gara.
Come era evidenziato dalla pacifica giurisprudenza,
la
«cauzione provvisoria» aveva «natura di garanzia» e non
poteva essere considerata una «caparra penitenziale» (la
quale presuppone che le parti si siano riservate il diritto
di recesso dal contratto): nel caso di mancata stipula del
contratto da parte dell’aggiudicatario, l’Amministrazione
poteva incamerare la cauzione provvisoria, salva la sua
possibilità di ottenere il risarcimento del maggior danno
effettivo (per tutte, Cass.,
05.04.1976, n. 1220; Cass.,
Sez. Un., 16.05.1977, n. 1962).
Pertanto, già nel vigore della legge sulla contabilità di
Stato si è consolidato nella giurisprudenza un principio
generale, per il quale –quando l’aggiudicatario di una gara
pubblica senza giustificazione non stipula il contratto–
non rilevano le discussioni concernenti la natura della sua
responsabilità: il danno risarcibile è quello conseguente
alle spese di indizione di una nuova gara (se non vi sono
stati altri partecipanti), ovvero quello conseguente ai
maggiori esborsi di denaro, conseguenti alla aggiudicazione
disposta in base allo ‘scorrimento’.
16.2. In attuazione del Trattato di Roma del 1957 e delle
direttive comunitarie (ed all’esigenza di evitare la perdita
di liquidità delle imprese), dapprima la legge n. 348 del
1982 (poi trasfusa nella legge n. 109 del 94) aveva
consentito ai partecipanti alle gare di non depositare somme
a titolo di cauzione, ma di produrre «polizze fideiussorie».
Successivamente, per la partecipazione alle gare l’art. 75
del codice n. 163 del 2006 e l’art. 93 del codice n. 50 del
2016 hanno disposto la presentazione di «garanzie a prima
richiesta» (commisurate in percentuale fissa al prezzo di
gara e aventi anch’esse una funzione di garanzia), che
attribuiscono alla stazione appaltante una ‘tutela
rafforzata’, cioè il potere di disporre l’escussione
dell’importo previsto, per il caso in cui l’aggiudicatario
non intenda stipulare il contratto.
Ab antiquo, le leggi hanno dunque previsto che l’impresa per
partecipare alla gara debba previamente consentire alla
stazione appaltante la più rapida soddisfazione nel caso di
mancata stipula del contratto, mediante:
- l’incameramento della cauzione, nel sistema della legge di
contabilità di Stato;
- la richiesta di pagamento «a prima richiesta» al garante,
nel sistema a base dei codici del 2006 e del 2016.
Tuttavia, anche se il bando non prevede tali forme di tutela
‘rafforzata’ della stazione appaltante, essa ben può
chiedere al giudice di disporre la condanna dell’autore del
fatto illecito.
16.3. Le leggi sopra indicate –sull’onere per i
partecipanti di versare la cauzione provvisoria, ovvero di
presentare la «polizza fideiussoria»- si sono basate sul
principio indiscusso –basato anche sul buon senso- della
risarcibilità del danno prodotto dal partecipante che
rifiuti senza motivo di stipulare il contratto.
Mentre nel diritto privato il codice civile del 1942 ha
previsto regole per i casi di responsabilità
precontrattuale, nel diritto pubblico la normativa sulla
contabilità di Stato ed i codici sui contratti pubblici
hanno posto regole specifiche sullo specifico caso in cui
l’aggiudicatario violi i principi di buona fede e di
correttezza.
Il principio sopra rilevato –sulla risarcibilità del danno
cagionato– rende irrilevante in questa sede la questione
della natura della responsabilità dell’aggiudicatario (che
si porrebbe, ad es., in tema di prescrizione dell’azione
risarcitoria).
16.4. Anche in considerazione di tale normativa di settore,
in giurisprudenza si è infatti consolidato il principio per
il quale la stazione appaltante può ottenere il risarcimento
del danno effettivo per il caso di mancata stipula
dell’aggiudicatario, pur se esso ecceda l’importo della
cauzione provvisoria (v. anche Cass., Sez. Un.,
04.02.2009, n. 2634; Cons. Stato, Sez. IV, 22.12.2014, n.
6302; citate dall’appellante principale).
17. Nel caso di specie, il bando indetto dalla s.p.a. Banca
di Sassuolo non ha previsto –ai fini della partecipazione
alla gara- né il versamento di una cauzione provvisoria, né
la presentazione di una «garanzia a prima richiesta».
Tuttavia, malgrado tale mancata previsione del bando, la
s.p.a. Ospedale di Sassuolo ha ben potuto chiedere il
risarcimento dei danni conseguenti alla mancata stipula del
contratto da parte dell’aggiudicatario: il principio
generale sulla risarcibilità del danno si applica pur se il
bando non abbia richiesto il versamento della cauzione
provvisoria o la presentazione della polizza fideiussoria.
Se una tale previsione vi fosse stata, non ci sarebbe stato
bisogno verosimilmente della domanda di liquidazione in sede
giurisdizionale, se non per la quantificazione del danno
effettivo, ma anche in sua assenza la stazione appaltante
può agire per ottenere dal giudice l’accertamento della
responsabilità e la liquidazione del danno risarcibile.
18. Contrariamente a quanto ha ritenuto la sentenza
appellata, risulta dunque fondata la pretesa della s.p.a.
Ospedale di Sassuolo ad ottenere il risarcimento del danno,
conseguente ai maggiori oneri da essa sopportati a seguito
della stipula del contratto di mutuo con la Banca Popolare
dell’Emilia Romagna.
Tali maggiori oneri risultano anche qualificabili come
‘perdita’ in termini di danno emergente, come è stato
dedotto dall’appellante principale (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 31.08.2016 n. 3755 - massima tratta da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittimo il
regolamento Comunale per la tutela e la salvaguardia dei
centri storici nella parte in cui impone, per gli infissi
esterni degli edifici, il divieto di utilizzare materiali
non lignei.
La norma de qua è, invero, ad avviso del
Collegio, illegittima, giusta le formulate ragioni di
doglianza, nella parte in cui vieta, in modo assoluto, per
gli infissi esterni dei fabbricati, l'utilizzo di materiali
non lignei, senza, tenere conto del fatto che esistono
notoriamente in commercio e ben possono essere adoperati
anche materiali diversi che non sono facilmente
distinguibili dal legno e che garantiscono ugualmente il
rispetto delle esigenze di decoro e di tutela del centro
storico.
Appare in effetti illogico –e, in definitiva, violativo del
primario canone di proporzionalità, che guida la complessiva
razionalità teleologica dell’azione amministrativa nei
doverosi sensi della incidenza compressiva degli interessi
privati non oltre i limiti di uno scrutinio di stretta
necessità– imporre al privato l'utilizzo esclusivo di un
certo tipo di materiale (legno) per una determinata
tipologia di opere, laddove, invece, pur assicurandosi il
medesimo risultato estetico, è possibile utilizzare anche
altri materiali (alluminio "tipo legno"), maggiormente
adatti alle caratteristiche climatiche e/o ambientali dei
luoghi.
È noto, in effetti, che il ridetto principio –da riguardarsi
quale immanente nell’ordinamento, essendo desumibile dalla
congiunta valorizzazione dei principi di buon andamento, di
pari trattamento e di libertà di cui agli artt. 97, 13, 41 e
42 Cost.– impone la triplice e cadenzata verifica che le
misure limitative della sfera di libertà privata adottate in
prospettiva potestativa siano: a) necessarie alla
salvaguardia o alla valorizzazione di meritevoli interessi
pubblici; b) adeguate rispetto allo scopo; c) proporzionate.
Con la conseguenza che, laddove esistano possibilità
parimenti idonee al risultato, ma meno incisive o
condizionanti della sfera privata, esse devono essere
preferite, rendendo eccessive (anche nella tradizionale
logica dell’eccesso di potere) le misure sproporzionate.
Il che deve, appunto, ritenersi nel caso di specie, in cui
è, anzitutto, di immediata percezione che gli infissi
esterni, in una zona posta a ridosso del mare, sono soggetti
ad una rapida e continua usura, dovuta alle infiltrazioni
dell'acqua e della salsedine: con il che l'utilizzo di
infissi di alluminio "tipo legno", che pur sono
difficilmente distinguibili dagli infissi in legno,
garantisce una migliore tenuta nel tempo ed evita continui
interventi di manutenzione e/o di periodica sostituzione.
Del resto, la finalità di garantire il decoro urbano viene
garantita in forma equipollente, tenendo conto degli
sviluppi della tecnologia, che consentono di garantire un
impatto estetico equivalente, con materiali tecnicamente più
avanzati ed evoluti.
Al riguardo, anche in giurisprudenza si trova affermato che
«l'utilizzo degli infissi in legno è fungibile con l'impiego
di materiali che producono un'immagine visiva equivalente,
ma che sono tecnologicamente migliorativi e più vantaggiosi»
e che «gli infissi in alluminio verniciato tipo legno ben
difficilmente possono essere distinti, anche da occhio
esperto, dagli infissi in legno».
D'altra parte, «anche la tutela di beni sottoposti a vincolo
paesaggistico ed ambientale, di rilevanza costituzionale,
deve essere contemperata con altri diritti pure
costituzionalmente garantiti, tra i quali rientra il diritto
di proprietà, del quale la facoltà di utilizzare materiali e
tecnologie più o meno innovativi, più o meno economici, più
o meno adatti alle condizioni climatiche, più o meno
funzionali ed esteticamente graditi, costituisce una delle
estrinsecazioni».
---------------
...
per l'annullamento:
a) dell'ordinanza del Responsabile dell'U.T.C. del Comune di
Pollica n. 14/2006 del 16.03.2006, successivamente
notificata, con la quale, ai sensi dell'art. 37, comma 2,
D.P.R. n. 380/2001 e dell'art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, si è
ordinato alla Sig.ra An.Pi. di provvedere, entro il
termine di 90 giorni dalla notifica del provvedimento, alla
rimozione di presunte opere edilizie abusive e al ripristino
dello stato dei luoghi e, segnatamente, alla rimozione di
infissi in alluminio e alla posa in opera di infissi in
legno sul fabbricato di proprietà, sito alla Via ...
della frazione ... e catastalmente individuato al
foglio di mappa 21, particella 410;
b) della relazione dell'U.T.C. prot. n. 694 del 26.01.2006,
con la quale si è evidenziato che, sul fabbricato di
proprietà, in presunta difformità alla D.I.A. n. 5954 del
04.08.2003, sarebbero stati posti in opera infissi in
alluminio anziché in legno;
c) della relazione del Comando di Polizia Municipale n. 695
del 26.01.2006;
d) ove e per quanto occorra e nei limiti di interesse, del
Regolamento Comunale per la tutela e la salvaguardia dei
centri storici, approvato con deliberazione del Consiglio
Comunale di Pollica n. 42 del 18.05.2002, nella parte in cui,
all'articolo 11, ha imposto, per gli infissi esterni degli
edifici, il divieto di utilizzare materiali non lignei;
e) ove e per quanto occorra, dell'ordinanza del Responsabile
dell'U.T.C. del Comune di Pollica n. 04/06 del 25.01.2006,
con la quale erano stati cautelativamente sospesi i lavori
sul fabbricato di proprietà;
...
FATTO
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito,
Ni. ed An.Pi., come in atti rappresentati e difesi,
premettevano di essere proprietari di un fabbricato adibito
a civile abitazione sito alla frazione Acciaroli del Comune
di Pollica (SA), individuato nel N.C.E.U. al foglio 21,
particella 410.
Necessitando il proprio immobile di lavori di manutenzione
straordinaria, anche per ovviare ai danni causati da
infiltrazioni d'acqua e dalla salsedine marina, An.Pi.
aveva presentato al Comune una denuncia di inizio di
attività (prot. n. 5954 del 04.08.2003) per la realizzazione
di modesti interventi edilizi, non comportanti alterazione
dei volumi e delle superfici o modifica delle destinazioni
d'uso (nei sensi imposti dall'art. 3, comma 1, lettera b),
D.P.R. n. 380/2001), né ancora alcuna alterazione dello
stato dei luoghi e dell'aspetto esteriore dell'edificio
(come prescritto dall'art. 149, comma 1, lettera a), D.Lgs.
n. 42/2004).
Successivamente, la Sig.ra Pi. presentava una variante
alla D.I.A. (prot. n. 8495 del 18.11.2005), per poter
riadattare un piccolo locale da adibire a w.c. al piano
terra, invece che al primo piano come originariamente
previsto.
Per il resto, anche la nuova denuncia di inizio di attività,
così come la precedente, aveva avuto sostanzialmente ad
oggetto l'esecuzione dei lavori di rifacimento della
pavimentazione e dell'intonaco interno, di rifazione degli
impianti elettrico ed idrico in conformità alla normativa
vigente e dei servizi igienico-sanitari, nonché di
sostituzione degli infissi.
Osservavano i ricorrenti che, pur non essendovi tenuto, con
nota prot. n. 9227 del 13.12.2005, il tecnico istruttore,
incaricato dall'Amministrazione, aveva espresso parere
favorevole all'intervento di cui alla richiesta presentata
in data 18.11.2005 prot. n. 8495, in quanto rientrante nella
fattispecie di cui all'art. 3, comma 1, lettera b), D.P.R.
n. 380/2001 (manutenzione straordinaria).
Lamentavano, peraltro, che, del tutto inopinatamente, con
ordinanza n. 04/06 del
25.01.2006, il Responsabile dell'U.T.C. del Comune di Pollica,
sulla base delle risultanze di un accertamento tecnico dal
quale sarebbe emersa l'esecuzione di lavori in difformità
alla D.I.A. presentata in data 18.11.2005 prot. n. 8495 (ma
senza specificare quali fossero le presunte opere eseguite
in difformità), aveva sospeso cautelativamente i lavori in
corso sul fabbricato.
Di seguito, con il provvedimento indicato in epigrafe, il
Responsabile dell'U.T.C., dopo aver chiarito che le opere in
difformità avrebbero dovuto essere individuate "nella posa
in opera di infissi in alluminio anziché in legno", ciò che
sarebbe risultato in contrasto con la previsione dell'art.
11 del Regolamento Comunale per la tutela e salvaguardia dei
centri storici, aveva ordinato alla ricorrente, Sig.ra An.Pi., di provvedere, nel termine di 90 giorni, alla loro
rimozione e al ripristino dello stato dei luoghi.
...
DIRITTO
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
Deve, all’uopo, preliminarmente essere disattesa l’eccezione
di inammissibilità, formulata dal Comune resistente
sull’assunto della tardiva impugnazione della (violata)
previsione del regolamento edilizio comunale (nella parte in
cui, all’art. 11, precludeva la praticabilità della
sostituzione, in prospettiva manutentiva, degli infissi in
legno con quelli in alluminio), assunta a fondante ed
assorbente presupposto del provvedimento impugnato.
Di là da ogni altro profilo, invero –ed in disparte il
rilievo che le disposizioni di natura regolamentare, ove
contrastanti con il paradigma primario di riferimento,
appaiono suscettibili di disapplicazione, senza necessità di
espressa e formale impugnazione– deve osservarsi che i
ricorrenti hanno, in effetti, lamentato anche, nel corpo del
ricorso, l’illegittimità della ridetta disposizione
regolamentare, censurandola –come appare lecito, alla luce
dei principi generali– unitamente all’atto applicativo, che
ne ha concretizzato, in loro danno, la astratta portata
lesiva.
Non è esatto, cioè, che i ricorrenti, avendola conosciuta o,
dovendo come che sia conoscerla, avrebbero avuto l’onere di
tempestiva impugnazione della ridetta disposizione
regolamentare: noto essendo che l’onere di immediata
impugnazione vale, giusta i principi ricevuti, nei soli casi
in cui la disposizione formalmente regolamentare, palesi, di
fatto, concreta portata provvedimentale, come tale
suscettiva di immediata incidenza lesiva nella sfera degli
individuati destinatari. Il che non può ritenersi,
all’evidenza, nel caso di specie, trattandosi di previsione
genericamente conformativa del generale esercizio delle
facoltà dominicali inerenti lo jus aedificandi.
2.- Sulle esposte considerazioni, appare logicamente (se non
giuridicamente) prioritaria, nell’ordine delle questioni
rimesse al Collegio, la valutazione della legittimità della
ridetta disposizione regolamentare, assunta ad (unico)
presupposto dei provvedimenti inibitori e ripristinatori
adottati dall’Amministrazione in danno dei ricorrenti.
2.1.- La norma de qua è, invero, ad avviso del Collegio,
illegittima, giusta le formulate ragioni di doglianza, nella
parte in cui vieta, in modo assoluto, per gli infissi
esterni dei fabbricati, l'utilizzo di materiali non lignei,
senza, tenere conto del fatto che esistono notoriamente in
commercio e ben possono essere adoperati anche materiali
diversi che non sono facilmente distinguibili dal legno e
che garantiscono ugualmente il rispetto delle esigenze di
decoro e di tutela del centro storico.
Appare in effetti illogico –e, in definitiva, violativo del
primario canone di proporzionalità, che guida la complessiva
razionalità teleologica dell’azione amministrativa nei
doverosi sensi della incidenza compressiva degli interessi
privati non oltre i limiti di uno scrutinio di stretta
necessità– imporre al privato l'utilizzo esclusivo di un
certo tipo di materiale (legno) per una determinata
tipologia di opere, laddove, invece, pur assicurandosi il
medesimo risultato estetico, è possibile utilizzare anche
altri materiali (alluminio "tipo legno"), maggiormente
adatti alle caratteristiche climatiche e/o ambientali dei
luoghi.
È noto, in effetti, che il ridetto principio –da
riguardarsi quale immanente nell’ordinamento, essendo
desumibile dalla congiunta valorizzazione dei principi di
buon andamento, di pari trattamento e di libertà di cui agli
artt. 97, 13, 41 e 42 Cost.– impone la triplice e cadenzata
verifica che le misure limitative della sfera di libertà
privata adottate in prospettiva potestativa siano: a)
necessarie alla salvaguardia o alla valorizzazione di
meritevoli interessi pubblici; b) adeguate rispetto allo
scopo; c) proporzionate.
Con la conseguenza che, laddove
esistano possibilità parimenti idonee al risultato, ma meno
incisive o condizionanti della sfera privata, esse devono
essere preferite, rendendo eccessive (anche nella
tradizionale logica dell’eccesso di potere) le misure
sproporzionate.
Il che deve, appunto, ritenersi nel caso di specie, in cui
è, anzitutto, di immediata percezione che gli infissi
esterni, in una zona posta a ridosso del mare, sono soggetti
ad una rapida e continua usura, dovuta alle infiltrazioni
dell'acqua e della salsedine: con il che l'utilizzo di
infissi di alluminio "tipo legno", che pur sono
difficilmente distinguibili dagli infissi in legno,
garantisce una migliore tenuta nel tempo ed evita continui
interventi di manutenzione e/o di periodica sostituzione.
Del resto, la finalità di garantire il decoro urbano viene
garantita in forma equipollente, tenendo conto degli
sviluppi della tecnologia, che consentono di garantire un
impatto estetico equivalente, con materiali tecnicamente più
avanzati ed evoluti.
Al riguardo, anche in giurisprudenza si trova affermato che
«l'utilizzo degli infissi in legno è fungibile con l'impiego
di materiali che producono un'immagine visiva equivalente,
ma che sono tecnologicamente migliorativi e più vantaggiosi»
e che «gli infissi in alluminio verniciato tipo legno ben
difficilmente possono essere distinti, anche da occhio
esperto, dagli infissi in legno» (si cfr. TAR Sicilia-Catania, I, 30.05.2005 n. 950).
D'altra parte, «anche la tutela di beni sottoposti a vincolo
paesaggistico ed ambientale, di rilevanza costituzionale,
deve essere contemperata con altri diritti pure
costituzionalmente garantiti, tra i quali rientra il diritto
di proprietà, del quale la facoltà di utilizzare materiali e
tecnologie più o meno innovativi, più o meno economici, più
o meno adatti alle condizioni climatiche, più o meno
funzionali ed esteticamente graditi, costituisce una delle
estrinsecazioni».
3.- Alla luce delle esposte premesse –che finiscono per
assorbire ogni altro dei dedotti profili di criticità– la
disposizione regolamentare assunta a fondamento dei
provvedimenti impugnati deve ritenersi illegittima:
discendendone, per ciò solo, l’accoglimento del gravame
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 31.08.2016 n. 2037 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Se è pur vero che “Nel caso in cui il ricorrente
impugni dinanzi al giudice uno strumento urbanistico, anche
particolareggiato, o una variante e, in generale, un atto
preordinato alla definizione di un corretto assetto del
territorio, la dimostrazione circa i danni patrimoniali
subiti e, in generale, circa il deterioramento delle
condizioni di vita risulta necessaria e l'obbligatoria
allegazione dei pregiudizi subiti è, in tal caso,
giustificata dalla necessità di evitare che il ricorso si
fondi sulla generica lesione all'ordinato assetto del
territorio da parte di uno qualunque dei residenti o di enti
esponenziali: infatti, la pianificazione territoriale
rientra nell'alveo della discrezionalità amministrativa e
non può incontrare limiti in situazioni di mero fatto non
tutelate specificamente dall'ordinamento", tale principio è
a torto invocato nella fattispecie in esame, avendo i
ricorrenti evidenziato come l’area interessata dalla
variante risulti confinante con la propria abitazione e che
-per effetto della suddetta variante- un’area a consolidata
destinazione a verde pubblico (non solo programmatica ma
concretamente in atto da decenni) venga resa edificabile,
con perdita di pregio ambientale e danno alle
caratteristiche della zona.
In tale contesto deve ritenersi sia stata fornita la prova
che la nuova destinazione urbanistica dell’area contermine
incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato
dell'area viciniore o comunque su interessi propri e
specifici dei ricorrenti.
---------------
Abilmente la difesa del Comune rileva che l’obbligazione
(convenzionale di P.L.) risultava prescritta per decorso del termine di adempimento
(10+10 anni), ma tale circostanza non può avere rilevanza
dirimente.
Un conto è l’impossibilità di ottenere oggi la cessione
dell’area in forza della convenzione del 1957/1964 altra
questione è quella –che sola qui viene in rilievo– della
possibilità di accogliere una osservazione infondata in
punto di fatto e di diritto.
In punto di fatto, perché le controinteressate hanno taciuto
al Comune che l’area era rimasta in loro proprietà
nonostante la convenzione di lottizzazione del 1964 ne
prevedesse espressamente la cessione al Comune.
In punto di diritto, perché hanno affermato, nel proporre
l’osservazione alla variante del PRG, che l’area era
stata gravata da vincolo espropriativo da tempo decaduto
mentre veniva in rilievo una destinazione a verde pubblico
avente caratteristiche di vincolo a carattere non già
espropriativo ma conformativo.
Non v’è motivo per non credere alla tesi della buona fede
dei tecnici comunali (anche se la mancata acquisizione
connota di negligenza e inefficienza l’agere complessivo
dell’Amministrazione comunale negli anni decorsi). Peraltro
va osservato che si era in presenza di area avente de iure e
de facto destinazione di verde attrezzato. Né vale sostenere
che analoghe richieste sono state accolte.
I ricorrenti hanno affermato che sull’area in questione sono
state poste dal Comune attrezzature sportive, porte per il
calcio e recinzione, circostanza non smentita dalla
Amministrazione comunale da ritenersi quindi comprovato ex
art. 64, c. 2 c.p.a..
In tale contesto l’affermazione della difesa comunale
secondo cui “Ben lungi dall'essere viziato da sviamento di
potere, il comportamento del Comune è invece del
tutto rispondente al pubblico interesse ed ai principi di
equità che devono informare l'agire della Pubblica
Amministrazione”, in quanto “il diritto a pretendere la
cessione si era ormai da decenni prescritto e non
sussisteva, pertanto, alcuna ragione per trattare
diversamente i proprietari di quell'area destinata a verde
dai proprietari delle altre aree, situate nella stessa zona,
che sono state riclassificate in cambio della cessione del
50% della superficie”, astrattamente condivisibile si
infrange contro la sussistenza -nella fattispecie- di un
obbligo di cessione non eseguito e del concreto e duraturo
utilizzo –senza alcuna opposizione delle formali
proprietarie- dell’uso pubblico dell’area a verde
attrezzato.
Del resto non vi è affatto analogia fra un area
astrattamente classificata a verde ma rimasta in possesso
dei proprietari e quella qui in contestazione che
era oggetto di pattuizione di cessione e che è da lustri
dedicata all’uso pubblico.
Va soggiunto che, ove fosse stata posta in
essere la ripubblicazione del piano dopo l’accoglimento
dell’osservazione, i diretti interessati (gli attuali
ricorrenti così come i cittadini utenti del parco ai quali è
riferimento a pag. 6 della memoria del Comune) avrebbero
potuto proporre osservazioni al riguardo. In tal modo
l’amministrazione sarebbe venuta a conoscenza della reale
situazione dell’area ed avrebbe potuto assumere a ragion
veduto e non su un falso presupposto le proprie
determinazioni pianificatorie.
In ogni caso il Comune ben avrebbe potuto instaurare un
giudizio per fare valere comunque l’usucapione a seguito del
possesso ultraventennale dell’area. Non va esclusa neppure
la possibilità del verificarsi della fattispecie della c.d.
dicatio ad patriam, che, quale modo di costituzione di una
servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del
proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar
vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con
carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un
proprio bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare
un'esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”,
indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento
venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo
anima.
---------------
Con il ricorso all’esame Gi.Pa. e Mo.Gi.
–proprietari di un’area sita al largo ... nn. ...,
ove hanno realizzato le loro abitazioni e lo studio
professionale- propongono impugnazione avverso la delibera
di Consiglio comunale di Parma n. 71 del 20.07.2010 recante
l’approvazione della variante al Regolamento Urbanistico
nella parte in cui ha parzialmente accolto l'osservazione
(rubricata al numero 535) proposta dalle proprietarie
dell’area contermine alla loro proprietà, classificandola
per una metà come edificabile (ZB5- Zona di completamento
residenziale, disciplinata dall'art. 3.2.37 del RUE), così
capovolgendo quanto statuito in sede di adozione della
variante, nella quale era stata confermata la destinazione a
verde Parco Urbano e Sub-Urbano che l’area già aveva in
precedenza.
Preliminarmente va disaminata le eccezione di
inammissibilità del ricorso -per carenza d’interesse-
sollevata dalla controinteressata nella memoria del 09.06.2016
e dal Comune con la memoria di replica, sostenendosi che la
variante impugnata non riguarda in alcun modo l’area dei
ricorrenti e non ne modifica l’azzonamento e la relativa
disciplina, soggiungendo che, in tema di atti pianificatori,
non basterebbe la mera vicinitas per radicare l’interesse al
ricorso, in assenza della dimostrazione del concreto
pregiudizio derivante dall’atto impugnato.
L’eccezione non risulta fondata.
Se è pur vero che “Nel caso in cui il ricorrente impugni
dinanzi al giudice uno strumento urbanistico, anche
particolareggiato, o una variante e, in generale, un atto
preordinato alla definizione di un corretto assetto del
territorio, la dimostrazione circa i danni patrimoniali
subiti e, in generale, circa il deterioramento delle
condizioni di vita risulta necessaria e l'obbligatoria
allegazione dei pregiudizi subiti è, in tal caso,
giustificata dalla necessità di evitare che il ricorso si
fondi sulla generica lesione all'ordinato assetto del
territorio da parte di uno qualunque dei residenti o di enti
esponenziali: infatti, la pianificazione territoriale
rientra nell'alveo della discrezionalità amministrativa e
non può incontrare limiti in situazioni di mero fatto non
tutelate specificamente dall'ordinamento" (cfr. ex multis
Cons. St. Sez. IV, 22/02/2016, n. 719), tale principio è a
torto invocato nella fattispecie in esame, avendo i
ricorrenti evidenziato come l’area interessata dalla
variante risulti confinante con la propria abitazione e che
-per effetto della suddetta variante- un’area a
consolidata destinazione a verde pubblico (non solo
programmatica ma concretamente in atto da decenni) venga
resa edificabile, con perdita di pregio ambientale e danno
alle caratteristiche della zona.
In tale contesto deve
ritenersi sia stata fornita la prova che la nuova
destinazione urbanistica dell’area contermine incida
direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area
viciniore o comunque su interessi propri e specifici dei
ricorrenti (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 6016 del 2011;
sez. IV, n. 3137 del 2012 e n. 3180 del 2015).
Va quindi esaminata l’istanza istruttoria avanzata dai
ricorrenti con la memoria finale, volta ad acquisire dal
Comune copia della domanda di rilascio del permesso di
costruire convenzionato presentata nel 2014 dalle
controinteressate, della quale si fa cenno in atti
depositati dal Comune in vista della pubblica udienza, con
riserva di presentazione di motivi aggiunti.
La richiesta, contrastata dalla difesa del Comune di Parma,
non può essere accolta.
Invero, una volta affermato che il ricorrente ha interesse
all’annullamento della variante nella parte in cui modifica
la destinazione d’uso -da verde pubblico a parzialmente
edificabile– dell’area contermine, deve trovare
applicazione il principio di ragionevole durata del processo
di cui all’art. 2, c. 2 del c.p.a., con la necessità che il
presente ricorso vada a sentenza. Del resto la difesa del
Comune ha rilevato che sulla domanda di rilascio del
permesso a costruire l’Amministrazione procederà ad assumere
le proprie determinazioni solo all’esito del presente
giudizio, sicché in assenza di titolo edificatorio non vi è
atto da impugnare con motivi aggiunti.
In ogni caso, la vicenda relativa ad un futuro permesso di
costruire è del tutto scissa da quella che qui si pone che
si colloca a monte della stessa, risultandone la risoluzione
pregiudiziale rispetto a detto ipotetico giudizio.
Nel merito il ricorso risulta fondato.
Ai fini di una più compiuta comprensione dei motivi di
censura è opportuno premettere una analitica ricostruzione
degli antefatti, come risultante dalla documentazione
versata in atti dalle parti.
Va premesso che l’area di cui qui si fa questione faceva
parte del territorio del preesistente Comune di Vigatto, che
nel 1962 venne unito con Parma.
Con delibera di consiglio n. 58 del 06.11.1957 (doc. n. 1 del
Comune di Parma), il Comune di Vigatto aveva approvato il
<<disciplinare di zona per la lottizzazione del podere "Rii
o Carmelitani" in frazione Antognan>>, nell’ambito del
suddetto PL –proposto da Po.Fe. e Vi.Ro.- era prevista la cessione dell’area oggi in contestazione
(v. art. 18 e 19 del all. 2 del disciplinare prodotto come
doc. 4 dai ricorrenti).
A seguito dell’aggregazione del territorio di Vigatto a
Parma, questo è subentrato nelle posizioni giuridiche del
Comune di Vigatto ed il territorio del Comune soppresso è
stato assoggettato al Piano Regolatore Generale e alle Norme
Tecniche di Attuazione del Comune di Parma.
Con delibera n. 380 del 02.10.1964 (doc. 2 del Comune) il
consiglio comunale di Parma la accettava la proposta
irrevocabile presentata dai lottizzanti Po. e Vi.,
con la quale essi si impegnavano a cedere al Comune di Parma
un'area di 4.613 mq. all'interno della lottizzazione (ora
denominata "Cinghio").
Una volta completata la lottizzazione, con le edificazioni e
l’esecuzione della rete stradale, della fognatura e della
pubblica illuminazione, con delibera di Consiglio Comunale
n. 817 del 10.10.1966 (doc. n. 3 del Comune), venne
approvato il certificato di regolare esecuzione delle opere,
che il Comune prese in carico, assumendone gli oneri di
manutenzione, svincolando i depositi cauzionali istituiti a
garanzia degli obblighi e degli oneri inerenti alla
lottizzazione, mentre non venne invece mai pretesa la
effettiva cessione delle aree destinate a verde, che sono
pertanto rimaste di proprietà dei lottizzanti.
In tutti gli strumenti urbanistici che si sono succeduti,
l'area che avrebbe dovuto essere ceduta al Comune di Parma
(e che era invece rimasta di proprietà di Po. e Vi.)
rimase classificata con destinazione verde pubblico e nel
POC da ultimo approvato come "verde pubblico attrezzato".
Nel 2009, il Comune di Panna adottò una variante al
Regolamento Urbanistico Edilizio, per adeguarlo alla
normativa urbanistica regionale nel frattempo entrata in
vigore.
Nella variante adottata, per l'area controversa, veniva
conservata la precedente classificazione.
Con osservazione n. 535 le attuali proprietarie dell’area
chiesero la riclassificazione dell'intera area destinata a
verde, al fine di vederla trasformata in zona di
completamento residenziale — ZB3.
Nell'osservazione si sottolineava come l'area fosse
destinata a verde pubblico fin dal 1989/1992 e si sosteneva
che il comportamento tenuto dal Comune integrasse la
fattispecie della reiterazione di un vincolo espropriativo
senza motivazione e senza indennizzo.
Si sosteneva, conseguentemente, la illegittimità del vincolo
stesso e si chiedeva pertanto la riclassificazione
dell'intera area.
In sede di esame delle osservazioni l’Amministrazione
espresse parere parzialmente favorevole, sicché con la
delibera di Consiglio Comunale n. 71 del 20.07.2010 di
approvazione del RUE l'area venne riclassificata come
Permesso di Costruire Convenzionato n. 62, con contributo
alla città pubblica, confermando la classificazione a verde
pubblico attrezzato della metà dell'area stessa.
Con il primo motivo i ricorrenti -in relazione alla
circostanza che l’area in questione avrebbe dovuto essere
ceduta dai proprietari al Comune in forza del P.L. del 1957-
rilevano che del tutto illegittimamente ad una mancata
acquisizione del terreno da parte dell’Amministrazione si è
aggiunta la trasformazione dell'area edificabile, sostenendo
che l’Amministrazione comunale quindi si è privata di beni
che ben potrebbe pretendere e che comunque sino ad ora ha
usato a beneficio della collettività.
La censura è fondata.
La difesa dell’Amministrazione ha evidenziato come, a causa
del gran tempo trascorso, nessuno dei tecnici comunali era a
conoscenza del fatto che l'area era stata in passato
promessa in cessione al Comune, sicché trattarono
l'osservazione presentata dalle sigg.re Po. come tutte
quelle di analogo tenore: accolsero parzialmente
l'osservazione, riclassificando solo la metà dell'area come
ZB5 e pretendendo in cambio la cessione della restante metà.
Abilmente la difesa del Comune rileva che l’obbligazione
risultava prescritta per decorso del termine di adempimento
(10+10 anni), ma tale circostanza non può avere rilevanza
dirimente.
Un conto è l’impossibilità di ottenere oggi la cessione
dell’area in forza della convenzione del 1957/1964 altra
questione è quella –che sola qui viene in rilievo– della
possibilità di accogliere una osservazione infondata in
punto di fatto e di diritto.
In punto di fatto, perché le controinteressate hanno taciuto
al Comune che l’area era rimasta in loro proprietà
nonostante la convenzione di lottizzazione del 1964 ne
prevedesse espressamente la cessione al Comune.
In punto di diritto, perché hanno affermato, nel proporre
l’osservazione (v. doc. n. 7 del Comune), che l’area era
stata gravata da vincolo espropriativo da tempo decaduto
mentre veniva in rilievo una destinazione a verde pubblico
avente caratteristiche di vincolo a carattere non già
espropriativo ma conformativo (cfr. l’univo indirizzo della
giurisprudenza sul punto: ex multis di recente Consiglio di
Stato, sez. IV, 09.12.2015, n. 5582: La destinazione ad
attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data
dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non
comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo
espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è
funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla
zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che
definisce i caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale).
Non v’è motivo per non credere alla tesi della buona fede
dei tecnici comunali (anche se la mancata acquisizione
connota di negligenza e inefficienza l’agere complessivo
dell’Amministrazione comunale negli anni decorsi). Peraltro
va osservato che si era in presenza di area avente de iure e
de facto destinazione di verde attrezzato. Né vale sostenere
che analoghe richieste sono state accolte.
I ricorrenti hanno affermato (allegato fotografie (doc. n. 6
del deposito del 20.12.2010) che sull’area in questione sono
state poste dal Comune attrezzature sportive, porte per il
calcio e recinzione, circostanza non smentita dalla
Amministrazione comunale da ritenersi quindi comprovato ex
art. 64, c. 2 c.p.a..
In tale contesto l’affermazione della difesa comunale
secondo cui “Ben lungi dall'essere viziato da sviamento di
potere, il comportamento del Comune di Panna è invece del
tutto rispondente al pubblico interesse ed ai principi di
equità che devono informare l'agire della Pubblica
Amministrazione”, in quanto “il diritto a pretendere la
cessione si era ormai da decenni prescritto e non
sussisteva, pertanto, alcuna ragione per trattare
diversamente i proprietari di quell'area destinata a verde
dai proprietari delle altre aree, situate nella stessa zona,
che sono state riclassificate in cambio della cessione del
50% della superficie”, astrattamente condivisibile si
infrange contro la sussistenza -nella fattispecie- di un
obbligo di cessione non eseguito e del concreto e duraturo
utilizzo –senza alcuna opposizione delle formali
proprietarie- dell’uso pubblico dell’area a verde
attrezzato.
Del resto non vi è affatto analogia fra un area
astrattamente classificata a verde ma rimasta in possesso
dei proprietari (quale deve ritenersi, in mancanza di alcuna
prova fornita dall’amministrazione al riguardo quella di cui
all’osservazione n. 527), e quella qui in contestazione che
era oggetto di pattuizione di cessione e che è da lustri
dedicata all’uso pubblico.
Va soggiunto –anticipando quanto si verrà ad esporre
trattando del secondo motivo- che, ove fosse stata posta in
essere la ripubblicazione del piano dopo l’accoglimento
dell’osservazione, i diretti interessati (gli attuali
ricorrenti così come i cittadini utenti del parco ai quali è
riferimento a pag. 6 della memoria del Comune) avrebbero
potuto proporre osservazioni al riguardo. In tal modo
l’amministrazione sarebbe venuta a conoscenza della reale
situazione dell’area ed avrebbe potuto assumere a ragion
veduto e non su un falso presupposto le proprie
determinazioni pianificatorie.
In ogni caso il Comune ben avrebbe potuto instaurare un
giudizio per fare valere comunque l’usucapione a seguito del
possesso ultraventennale dell’area. Non va esclusa neppure
la possibilità del verificarsi della fattispecie della c.d.
dicatio ad patriam, che, quale modo di costituzione di una
servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del
proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar
vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con
carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un
proprio bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare
un'esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”,
indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento
venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo
anima (cfr. ex multis Cassazione civile, sez. I,
11/03/2016, n. 4851) (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 26.08.2016 n. 250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In base alla originaria legislazione nazionale
(art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150), lo strumento
urbanistico deve essere ripubblicato solo laddove tra la
fase dell'adozione e quella dell'approvazione siano state
introdotte modifiche sostanziali.
Va ricordato che in detta l. n. 1150/1942 lo schema
procedimentale era il seguente: adozione del piano da parte
del Comune, presentazione delle osservazioni da parte dei
privati, controdeduzioni del Comune alle osservazioni
presentate mediante delibera del Consiglio, trasmissione
degli atti per approvazione alla Regione.
Con riguardo al suddetto schema procedimentale è stato
affermato che “In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle
osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda
deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si
fa discendere una modifica immediata del testo del piano
stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova
pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori
osservazioni".
In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni
può non implicare volontà di modifica immediata del piano
regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta
di modifiche d'ufficio rivolta alla regione; per cui non
occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il
testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello
adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad
essere modificato.
Viceversa, se il comune, controdeducendo alle proposte di
modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano
adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova
adozione che necessita di pubblicazione.
---------------
Per effetto della legislazione regionale concorrente, il
suddetto schema in molte Regioni è stato modificato
prevedendosi l’approvazione del piano regolatore da parte
dello stesso Comune con delibera del Consiglio comunale.
E’ evidente che in tale differente quadro, in cui tutte le
scelte sono ricondotte al solo livello comunale, la suddetta
impostazione giurisprudenziale deve essere letta ed
applicata con maggiore rigore, soprattutto nella tutela
delle posizioni giuridiche dei soggetti destinatari di
consistenti modifiche della posizione della loro proprietà
per l’effetto di accoglimento di osservazioni di soggetti
terzi.
In tale contesto, appare condivisibile l’indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale l'accoglimento di
un'osservazione ad un P.R.G. in itinere che sia stata
presentata da un soggetto diverso dal proprietario dell'area
interessata e che possa arrecare a questo un nocumento esige
la ripubblicazione del piano stesso, onde consentire alla
proprietà di formulare le proprie osservazioni.
Invero, le osservazioni presentate dai privati nei confronti
di un piano regolatore in itinere sono finalizzate a
consentire che il punto di vista del soggetto potenzialmente
leso assuma rilevanza e venga adeguatamente considerato, in
modo che l'amministrazione si determini correttamente e
compiutamente in omaggio ai principi di imparzialità e di
buon andamento (art. 97 Cost.) che devono presiedere
all'esercizio dell'azione amministrativa.
Sulla base della valorizzazione della finalità partecipativa
assicurata dalla ripubblicazione, che serve proprio a
consentire ai soggetti interessati di concorrere e di
collaborare, con le loro proposte od osservazioni, alla
formazione del piano, si deve, infatti, ritenere che, nelle
ipotesi in cui il progetto iniziale risulti sostanzialmente
modificato, nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto
essenziale, nel corso del procedimento finalizzato alla sua
approvazione, si renda necessaria la riapertura della fase
istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e
della conseguente riattivazione dell'interlocuzione con i
soggetti interessati.
Il Collegio ritiene che -ampliando ulteriormente detto
principio, portandolo alle sue massime conseguenze- debba
riconoscersi la necessità della ripubblicazione anche
nell’ipotesi all’esame, nella quale è pur vero che
l’osservazione risulta proposta dai formali proprietari
delle aree, ma gli effetti della radicale trasformazione
della destinazione d’uso, da verde ad uso pubblico ad
edificabile, riversano indiscutibili effetti sulla posizione
giuridica di soggetti terzi (sia i confinanti sia gli
abitanti del quartiere che usufruivano dello spazio a
verde), che altrimenti non ne avrebbero contezza.
Che il mutamento di destinazione d’uso costituisca modifica
sostanziale non può essere messo in dubbio (cfr. al riguardo
Cons. St., n. 3497/2011, ove si osserva: “se importante è
senza dubbio la destinazione di zona (non oggetto di
modifica), altrettanto non può dirsi delle singole
prescrizioni previste dalle NTA per la specifica
utilizzazione dell’area, costituendo esse, senza alcun
dubbio, una disciplina di dettaglio, nell’ambito di una più
generale precisione di zonizzazione, la cui eventuale
modifica non può certo comportare obbligo di ripubblicazione
dello strumento urbanistico.”).
---------------
Non convince la tesi secondo cui la riclassificazione
di una modesta porzione di terreno in una zona determina una
modifica puntuale e del tutto marginale che non può
integrare una stravolgimento delle previsioni del PSC (che
classifica un vasto ambito nella quale la stessa è
ricompresa come Parco urbano e suburbano).
Infatti, se si tiene conto che uno strumento urbanistico (o
una sua variante) contiene una serie di previsioni, per ogni
singola proprietà, che risultano unite in un disegno
programmatorio armonico e funzionale al raggiungimento di
determinati obiettivi, va rilevato che non è alla grandezza
o piccolezza dell’area che deve farsi riferimento ma alla
congruenza o meno della modificazione della disciplina del
singolo ambito proprietario rispetto ai criteri generali.
In altri termini, se il piano persegue l’obiettivo della
riduzione del consumo di suolo o di mantenimento delle aree
a verde il mutamento radicale (da inedificabile ad
edificabile) costituisce una modifica radicale, sovvertendo
completamente il tipo di utilizzo dell’area.
---------------
Con il secondo motivo si lamenta la mancata ripubblicazione
della variante a seguito dell’accoglimento dell’osservazione
n. 535, che ha comportato la modifica di destinazione
dell'area, così eliminando la fase di partecipazione dei
cittadini interessati.
Inoltre i ricorrenti stigmatizzano la
prassi di introdurre –mediante la proposizione delle
osservazioni- vere e proprie richieste/proposte del
privato, che non abbiano attinenza con le scelte effettuate
dall'amministrazione in sede di adozione del piano, che
produce l'effetto di eliminare completamente ogni
trasparenza nella assunzione delle decisioni di
pianificazione.
La censura è fondata.
La resistente e la controinteressata richiamano il
consolidato orientamento giurisprudenziale in forza del
quale “sono ammissibili modifiche di strumenti adottati a
seguito della presentazione di osservazioni, senza bisogno
di procedere alla nuova pubblicazione del progetto, purché
le modifiche apportate non comportino sostanziali
innovazioni o deviazioni dei criteri connotanti il piano
adottato", sostenendo che la modifica di classificazione di
un'area di dimensioni assai modeste, con la restante parte
conservata alla destinazione originaria (e con la cessione
al Comune di tale restante parte, ad ulteriore garanzia che
l'area rimarrà verde pubblico attrezzato) non configura
affatto una sostanziale innovazione o deviazione dai criteri
che connotano il piano.
La fattispecie in esame non è però configurabile in detti
termini.
In via generale va –con un maggiore approfondimento
rispetto alla stringata massima di cui sopra– va rilevato
quanto segue.
In base alla originaria legislazione nazionale (art. 10
della legge 17.08.1942, n. 1150), lo strumento
urbanistico deve essere ripubblicato solo laddove tra la
fase dell'adozione e quella dell'approvazione siano state
introdotte modifiche sostanziali.
Va ricordato che in detta l. n. 1150/1942 lo schema
procedimentale era il seguente: adozione del piano da parte
del Comune, presentazione delle osservazioni da parte dei
privati, controdeduzioni del Comune alle osservazioni
presentate mediante delibera del Consiglio, trasmissione
degli atti per approvazione alla Regione.
Con riguardo al suddetto schema procedimentale è stato
affermato (cfr. Cons. St., Sez. IV, 26.04.2006, n. 2297)
che “In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle
osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda
deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si
fa discendere una modifica immediata del testo del piano
stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova
pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori
osservazioni" (cfr. ex plurimis, Consiglio di stato, sez. IV,
n. 4980 del 05.09.2003; sez. IV, 20.11.2000, n.
6178).
In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni
può non implicare volontà di modifica immediata del piano
regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta
di modifiche d'ufficio rivolta alla regione; per cui non
occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il
testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello
adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad
essere modificato (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 20.02.1998, n. 301).
Viceversa, se il comune, controdeducendo alle proposte di
modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano
adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova
adozione che necessita di pubblicazione (cfr. Consiglio di
stato, sez. IV, n. 4980 del 05.09.2003; sez. IV, 20.11.2000, n. 6178; sez. IV, 20.02.1998, n. 301
cit.; 27.03.1995, n. 206).
Va posto in luce che, per effetto della legislazione
regionale concorrente, il suddetto schema in molte Regioni è
stato modificato prevedendosi l’approvazione del piano
regolatore da parte dello stesso Comune con delibera del
Consiglio comunale. Tale è la situazione nella Regione
Emilia Romagna per effetto della disciplina introdotta con
la legge regionale 24.03.2000 n. 20 (per il RUE si veda l’
art. 33).
E’ evidente che in tale differente quadro, in cui tutte le
scelte sono ricondotte al solo livello comunale, la suddetta
impostazione giurisprudenziale deve essere letta ed
applicata con maggiore rigore, soprattutto nella tutela
delle posizioni giuridiche dei soggetti destinatari di
consistenti modifiche della posizione della loro proprietà
per l’effetto di accoglimento di osservazioni di soggetti
terzi.
In tale contesto, appare condivisibile l’indirizzo
giurisprudenziale (cfr. TRGA Trento 24.07.2008 n. 191,
28.02.2008, n. 53, 05.03.2004, n. 91 e 12.07.2005, n. 204,
TAR Sicilia, Catania, sez. I, 06.12.2007, n. 1395, TAR
Toscana, sez. I, 03.10.2005, n. 4614, TAR Lombardia-Brescia
03.06.2003, n. 826; Consiglio di Stato, Sez. IV,
20.12.2000, n. 6178; Sez. IV, 26.09.2001, n. 5038; Sez. IV,
04.03.2002, n. 1197; Sez. IV, 05.09.2003, n. 4977) secondo il
quale l'accoglimento di un'osservazione ad un P.R.G. in
itinere che sia stata presentata da un soggetto diverso dal
proprietario dell'area interessata e che possa arrecare a
questo un nocumento esige la ripubblicazione del piano
stesso, onde consentire alla proprietà di formulare le
proprie osservazioni.
Invero, (cfr. TAR Catania, I, 30.01.2007, n. 179), le
osservazioni presentate dai privati nei confronti di un
piano regolatore in itinere sono finalizzate a consentire
che il punto di vista del soggetto potenzialmente leso
assuma rilevanza e venga adeguatamente considerato, in modo
che l'amministrazione si determini correttamente e
compiutamente in omaggio ai principi di imparzialità e di
buon andamento (art. 97 Cost.) che devono presiedere
all'esercizio dell'azione amministrativa.
Sulla base della valorizzazione della finalità partecipativa
assicurata dalla ripubblicazione, che serve proprio a
consentire ai soggetti interessati di concorrere e di
collaborare, con le loro proposte od osservazioni, alla
formazione del piano, si deve, infatti, ritenere che, nelle
ipotesi in cui il progetto iniziale risulti sostanzialmente
modificato, nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto
essenziale, nel corso del procedimento finalizzato alla sua
approvazione, si renda necessaria la riapertura della fase
istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e
della conseguente riattivazione dell'interlocuzione con i
soggetti interessati.
Il Collegio ritiene che -ampliando ulteriormente detto
principio, portandolo alle sue massime conseguenze- debba
riconoscersi la necessità della ripubblicazione anche
nell’ipotesi all’esame, nella quale è pur vero che
l’osservazione risulta proposta dai formali proprietari
delle aree, ma gli effetti della radicale trasformazione
della destinazione d’uso, da verde ad uso pubblico ad
edificabile, riversano indiscutibili effetti sulla posizione
giuridica di soggetti terzi (sia i confinanti sia gli
abitanti del quartiere che usufruivano dello spazio a
verde), che altrimenti non ne avrebbero contezza.
Che il
mutamento di destinazione d’uso costituisca modifica
sostanziale non può essere messo in dubbio (cfr. al riguardo Cons. St., Sez. IV,
08.06.2011 n. 3497, ove si osserva: “se
importante è senza dubbio la destinazione di zona (non
oggetto di modifica), altrettanto non può dirsi delle
singole prescrizioni previste dalle NTA per la specifica
utilizzazione dell’area, costituendo esse, senza alcun
dubbio, una disciplina di dettaglio, nell’ambito di una più
generale precisione di zonizzazione, la cui eventuale
modifica non può certo comportare obbligo di ripubblicazione
dello strumento urbanistico.”).
Nella memoria di replica la difesa comunale sostiene che la
riclassificazione di una modesta porzione di terreno in una
zona determina una modifica puntuale e del tutto marginale
che non può integrare una stravolgimento delle previsioni
del PSC (che classifica un vasto ambito nella quale la
stessa è ricompresa come Parco urbano e suburbano).
L’argomentazione non convince.
Infatti, se si tiene conto che uno strumento urbanistico (o
una sua variante) contiene una serie di previsioni, per ogni
singola proprietà, che risultano unite in un disegno
programmatorio armonico e funzionale al raggiungimento di
determinati obiettivi, va rilevato che non è alla grandezza
o piccolezza dell’area che deve farsi riferimento ma alla
congruenza o meno della modificazione della disciplina del
singolo ambito proprietario rispetto ai criteri generali.
In altri termini, se il piano persegue l’obiettivo della
riduzione del consumo di suolo o di mantenimento delle aree
a verde il mutamento radicale (da inedificabile ad
edificabile) costituisce una modifica radicale, sovvertendo
completamente il tipo di utilizzo dell’area.
L’accoglimento delle prime due doglianze riveste carattere
assorbente sicché il Collegio è dispensato dalla disamina
delle ulteriori censure (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 26.08.2016 n. 250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Malattia
da comunicare. L'assenza va resa nota tempestivamente. La
Cassazione sul licenziamento disciplinare dei dipendenti
pubblici.
Legittimo il licenziamento disciplinare dei dipendenti
pubblici che omettano o ritardino la comunicazione della
loro assenza per malattia.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 25.08.2016 n. 17335.
La Suprema corte, riformando la sentenza della Corte
d'appello di Catanzaro, ha chiarito la portata esatta delle
previsioni contenute nell'art. 55-quater, comma 1, lettera
b), del dlgs 165/2001, che commina la sanzione del
licenziamento disciplinare nel caso di assenza priva di
valida giustificazione per un numero di giorni, anche non
continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o
comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi
dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di
assenza ingiustificata, entro il termine fissato
dall'amministrazione.
Questa previsione è da leggere e coordinare con l'art.
55-septies, comma 1, ai sensi del quale «nell'ipotesi di
assenza per malattia protratta per un periodo superiore a
dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di
malattia nell'anno solare l'assenza viene giustificata
esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da
una struttura sanitaria pubblica o da un medico
convenzionato con il Servizio sanitario nazionale».
Per questa ragione, secondo la Cassazione, per escludere la
responsabilità disciplinare non bastava dimostrare che
effettivamente il dipendente fosse malato. Ma occorreva,
invece, che l'assenza fosse stata effettivamente comunicata
nei termini e con le forme imposte dalla normativa citata
prima. In mancanza di ciò, il licenziamento disciplinare
risulta inevitabile e legittimo
(articolo ItaliaOggi del 27.08.2016).
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MASSIMA
13. Il secondo ed il quarto motivo, da trattarsi
congiuntamente, sono fondati.
14. L'art. 55-quater, c. 1, dispone che, "ferma la disciplina
in tema di licenziamento
per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori
ipotesi previste dal contratto
collettivo, si applica comunque la sanzione del
licenziamento del licenziamento
disciplinare, tra gli altri casi, nell'ipotesi, prevista
dalla lettera b) della citata
disposizione di assenza priva di valida giustificazione per
un numero di giorni, anche
non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o
comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi
dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di
assenza ingiustificata, entro il termine fissato
dall'amministrazione".
15. L'art. 55-septies del D.Lgs. 161 del 2001, che
disciplina i "controlli sulle
assenze' del lavoratore pubblico dipendente, dispone che "1.
Nell'ipotesi di assenza
per malattia protratta per un periodo superiore a dieci
giorni, e, in ogni caso, dopo il
secondo evento di malattia nell'anno solare l'assenza viene
giustificata esclusivamente
mediante certificazione medica rilasciata da una struttura
sanitaria pubblica o da un
medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale.
2.
In tutti i casi di assenza
per malattia la certificazione medica è inviata per via
telematica, direttamente dal
medico o dalla struttura sanitaria che la rilascia,
all'Istituto nazionale della previdenza
sociale, secondo le modalità stabilite per la trasmissione
telematica dei certificati
medici nel settore privato dalla normativa vigente, e in
particolare dal decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri previsto dall'articolo
50, comma 5-bis, del
decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.11.2003, n. 36, introdotto dall'articolo 1, comma 810,
della legge 27.12.2006, n. 296, e dal predetto Istituto è immediatamente
inoltrata, con le medesime
modalità, all'amministrazione interessata.
3. L'Istituto
nazionale della previdenza
sociale, gli enti del servizio sanitario nazionale e le
altre amministrazioni interessate
svolgono le attività di cui al comma 2 con le risorse
finanziarie, strumentali e umane
disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza
pubblica".
16. La disposizione (c. 4) qualifica come illecito
disciplinare l'inosservanza degli
obblighi di trasmissione per via telematica della
certificazione medica concernente
assenze di lavoratori per malattia e prevede, in caso di
reiterazione, l'applicazione
della sanzione del licenziamento ovvero, per i medici in
rapporto convenzionale con le
aziende sanitarie locali, della decadenza dalla convenzione,
in modo inderogabile dai
contratti o accordi collettivi.
17. E' inoltre previsto (c. 5) che l'Amministrazione dispone
il controllo in ordine alla
sussistenza della malattia del dipendente anche nel caso di
assenza di un solo giorno,
tenuto conto delle esigenze funzionali e organizzative e che
(c. 6) il responsabile della
struttura in cui il dipendente lavora nonché il dirigente
eventualmente preposto
all'amministrazione generale del personale, secondo le
rispettive competenze, curano
l'osservanza delle disposizioni del presente articolo, in
particolare al fine di prevenire o
contrastare, nell'interesse della funzionalità dell'ufficio,
le condotte assenteistiche, con richiamo, quanto alle
conseguenze, delle disposizioni degli articoli 21 e
55-sexies,
comma 3.
18. Il dato testuale contenuto nella lettera b) dell'art. 55-quater, che qualifica come
illecito disciplinare punibile con il licenziamento
"l'assenza priva di valida
giustificazione" e il dato sistematico, costituito dalla
disciplina, contenuta nel
richiamato art. 55-septies, del controllo delle assenze,
inducono a ritenere che
l'assenza per malattia è priva di rilievo disciplinare non
quando è solo "esistente", né
quando è (anche) comunicata ma quando è "giustificata" nelle
forme, inderogabili,
previste dall'art. 55-septies, c. 1, e cioè quando è stata
attestata da certificazione
medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da
un medico convenzionato
con il Servizio Sanitario nazionale, il quale è tenuto ad
inviarla con la modalità
telematica all'Inps che provvede all'inoltro, sempre per via
telematica,
all'Amministrazione datrice di lavoro.
19. Deve, in conclusione affermarsi il principio di diritto
secondo cui "Ai sensi
dell'art. 55-quater, lett. b), del D.Lgs. 165/2001 l'assenza
per malattia è priva di rilievo
disciplinare non quando è solo "esistente", né quando è
(anche) comunicata ma
quando è "giustificata" nelle forme, inderogabili, previste
dall'art. 55-septies, c. 1, e
pertanto quando sia stata attestata da certificazione medica
rilasciata da una struttura
sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il
Servizio Sanitario nazionale".
20. Ha errato, pertanto, la Corte territoriale nell'escludere che il ritardo della
comunicazione della assenza e dell'invio della
certificazione medica non rientrino
nell'ambito della fattispecie di cui all'art. 55-quater,
lett. b).
21. L'accoglimento del secondo e del quarto motivo non
comporta la cassazione
della sentenza impugnata, ma solo la sua correzione, in
parte qua, ai sensi dell'art.
384, c. 4 c.p.c., perché il dispositivo è conforme a diritto,
sulla scorta delle
considerazioni che sono svolte di seguito nell'esame del
terzo motivo.
22. Il terzo motivo è infondato.
23. Come più volte affermato da questa Corte (ex plurimis
Cass. 10842/2016,
1315/2016, 24796/2010, 26329/2008) ed anche dalla Corte
Costituzionale (cfr. C.
Cost. 971/1988, 239/1996, 286/1999),
deve escludersi la
configurabilità in astratto di
qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni
disciplinari, specie laddove
queste consistano nella massima sanzione, permanendo il
sindacato giurisdizionale
sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto
addebitato.
24.
La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto
ai fatti commessi è, infatti,
regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni
penali, amministrative ex art. 11, l.
n. 689 dei 1981, etc.), e risulta trasfusa per l'illecito
disciplinare nell'art. 2106 c.c.,
con conseguente possibilità per il giudice di annullamento
della sanzione "eccessiva",
proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non
essendo, in definitiva, possibile
introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari
automaticamente
conseguenziali ad illeciti disciplinari.
25. I principi sopra richiamati sono stati affermati anche
con riguardo all'art. 55-quater da questa Corte, che, nella decisione n. 1351/2016,
ha rilevato che
l'art. 2106
c.c. risulta oggetto di implicito richiamo da parte dell'art.
55-quater, c. 2, e che ed alla
giusta causa ed al giustificato motivo fa riferimento il c.
1 comma della medesima
disposizione, con la conseguenza per la quale nessun
"automatismo" è predicabile
anche con riguardo alla citata più recente disposizione .
26. Questa Corte, inoltre, ha affermato che
l'art. 2119 c.c.
configura una norma
elastica, in quanto costituisce una disposizione di
contenuto precettivo ampio e
polivalente destinato ad essere progressivamente precisato,
nell'estrinsecarsi della
funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla
formazione del diritto
vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed
astratto, precisando che
l'operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito
nell'applicare clausole generali
come quella dell'art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica
in sede di giudizio di
legittimità
(Cass. 1351/2016, 12069/2015, 6501/2013,
18247/2009),
poiché
l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve
rispettare criteri e principi
desumibili dall'ordinamento.
27.
La relativa valutazione deve essere operata con
riferimento agli aspetti concreti
afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto,
alla posizione delle parti, al
grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del
dipendente, al nocumento
eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti
stessi, ossia alle circostanze
del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità
dell'elemento intenzionale o di quello
colposo
(Cass. 1977/2016, 1351/2016, 12059/2015 25608/2014
del 2014).
28. Ciò precisato, deve rilevarsi che
nella specie, seppur
erroneamente escludendo
la "ingiustificatezza" della assenza,
la Corte territoriale
ha adeguatamente motivato
circa la insussistenza nel caso esaminato di tale
proporzionalità ed ha escluso che la
sanzione risolutiva fosse proporzionata agli addebiti,
avendo considerato che il ritardo
nella comunicazione della malattia si era protratto per due
soli giorni (le giornate del 13 e del 14 febbraio cadevano,
rispettivamente, di sabato e di domenica), che la
malattia era risultata effettivamente sussistente in sede di
visita di controllo e che le
condizioni di salute del Pu., invalido al 100%, erano
gravissime (patologia
oncologica con disturbi minzionali) e certamente incidenti
sulla stessa percezione dei
propri doveri. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Depenalizzazione esclusa se l’azienda disturba di notte.
Immissioni sonore. Oltre la tollerabilità.
Chi fa un
eccessivo rumore nello svolgere la sua attività produttiva,
disturbando di notte il sonno delle persone non può invocare
la depenalizzazione. In tal caso scatta anzi il concorso
formale tra le due ipotesi previste dal primo e dal secondo
comma dell’articolo 659 del Codice penale. Il primo comma
punisce con il carcere fino a tre mesi o con l’ammenda fino
a 309 euro chi con schiamazzi e rumori disturba le
occupazioni e il risposo di chi abita nelle vicinanze,
mentre il secondo, che prevede l’ammenda da 103 a 516 euro
scatta quando un mestiere o una professione rumorosa viene
svolta «contro le disposizioni di legge e le prescrizioni
dell’autorità».
Nel caso esaminato, la Corte di Cassazione, Sez. III penale
con la
sentenza 24.08.2016 n. 35422,
considera integrate entrambe le ipotesi: sia la violazione
delle prescrizioni amministrative (nello specifico quelle
sull’orario) sia il superamento dei valori soglia fissati in
materia di immissioni rumorose. La Suprema corte afferma il
concorso formale tra i due reati e nega la possibilità di
applicare, alla condotta indicata nel secondo comma
dell’articolo 659, la depenalizzazione prevista dalla legge
447/1995 .
L’articolo 10 della legge quadro sull’inquinamento acustico,
invocato dai ricorrenti, è stato modificato per effetto
della depenalizzazione (legge 205/1999) e prevede, infatti,
la possibilità di punire con la sola sanzione amministrativa
«chiunque, nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente
fissa o mobile di emissioni sonore, supera i valori limite
di emissione o di immissione».
La Cassazione ricorda che in tema di disturbo alle
occupazioni e al riposo delle persone, l’esercizio di
un’attività o di un mestiere rumoroso integra l’illecito
amministrativo, indicato dall’articolo 10, quando si
verifica esclusivamente il semplice superamento dei limiti
di emissione del rumore fissati dalle disposizioni in
materia. Mentre resta un reato (comma secondo dell’articolo
659 del Codice penale) la violazione delle specifiche
disposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che
regolano l’esercizio del mestiere, diverse da quelle
relative ai valori limite di emissione.
La Corte conferma poi anche che i due commi dell’articolo
659 costituiscono due titoli autonomi di reato rendendo
possibile l’affermazione del concorso formale. Un tipico
esempio di violazione delle disposizioni della legge è lo
svolgimento dell’attività rumorosa in orari diversi da
quelli previsti, mentre l’abuso che si concretizza quando le
emissioni superano la normale tollerabilità si configura
indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale il rumore
proviene e quindi scatta anche nel caso di un uso smodato
dei mezzi tipici della professione o del mestiere.
Nello specifico c’erano entrambe le circostanze e
correttamente i giudici di merito hanno affermato il
concorso formale ed escluso la depenalizzazione per la
violazione delle diposizioni di legge (secondo comma)
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2016).
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MASSIMA
2. Con il primo motivo i ricorrenti si dolgono di
violazione di legge per la
ritenuta applicazione concorrente di entrambe le norme incriminatrici di cui
all'art. 659, primo e secondo comma, cod. pen. nonché per la
mancata
considerazione della avvenuta depenalizzazione ex art. 10,
L. 447/1995 di
quella, che si asserisce unicamente applicabile, di cui al
secondo comma di tale
disposizione codicistica.
La censura è manifestamente infondata.
Il Collegio intende anzitutto ribadire l'orientamento
prevalente della
giurisprudenza di questa Corte secondo il quale «In tema di
disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone,
l'esercizio di una attività o di un mestiere
rumoroso, integra: A) l'illecito amministrativo di cui
all'art. 10, comma secondo,
della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si verifichi
esclusivamente il mero
superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle
disposizioni
normative in materia;
B) il reato di cui al comma primo
dell'art. 659, cod. pen.,
qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo
dalle normali modalità
di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a
turbare la pubblica
quiete;
C) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659
cod. pen., qualora siano
violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni
della Autorità che regolano
l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle
relativa ai valori limite
di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di
cui alla legge n. 447 del
1995» (tra le molte, da ultimo, Sez. 3, n. 5735 del
21/01/2015, Giuffrè, Rv.
261885).
Va poi anche confermato un altro principio di diritto
espresso nella
giurisprudenza di legittimità secondo il quale «In tema di
disturbo delle
occupazioni o del riposo delle persone, le due ipotesi
dell'art. 659 cod. pen.
costituiscono distinti titoli di reato, con conseguente
ammissibilità del concorso
formale tra le due norme.
In particolare, l'abuso previsto
dal secondo comma è
solo quello costituito da una violazione delle disposizioni
della legge o delle
prescrizioni dell'autorità che disciplinano l'esercizio
della professione o del
mestiere: un tipico esempio di abuso rientrante in questa
previsione è costituito
dallo svolgimento dell'attività rumorosa in orari diversi da
quelli previsti dalla
legge o dai regolamenti che disciplinano l'esercizio della
specifica attività; invece
l'abuso che si concretizza nella emissione di rumori
eccedenti la normale
tollerabilità ed idonei a disturbare le occupazioni o il
riposo delle persone, rientra
nella previsione del primo comma dell'art. 659 cod. pen.,
indipendentemente
dalla fonte sonora dalla quale i rumori provengono, quindi
anche nel caso in cui
l'abuso si concretizzi in un uso smodato dei mezzi tipici di
esercizio della
professione o del mestiere rumoroso» (in questo senso, Sez.
1, n. 382 del
19/11/1999, Piccioni, Rv. 215139). |
PUBBLICO IMPIEGO: Lo
scritto salva la domanda. Concorsi.
La domanda di concorso senza firma non «mette alla porta» il
candidato che abbia partecipato alle prove scritte.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 24.08.2016 n. 3685, che apre la strada
anche alla regolarizzazione postuma dell'istanza,
indicandone le modalità temporali.
In punto di diritto Palazzo Spada condivide il principio
secondo cui nei concorsi pubblici «la necessità di
presentare la domanda di partecipazione con sottoscrizione
in originale non è solo il frutto di una regola destinata a
tutelare la parità tra i concorrenti alla selezione ma è
anche coerente col principio di auto responsabilità.
Tuttavia il Consesso giudicante precisa che “la ratio del
principio”, non è quella di “punire” una
distrazione (non firmare la domanda di partecipazione), ma
piuttosto quella di “assicurare l'Amministrazione sulla
provenienza dell'atto, e sulla riferibilità della domanda a
chi ne appare l'autore”».
Quindi, prosegue la sentenza, la sanzione espulsiva potrebbe
essere evitata se il candidato, accortosi dell'errore circa
l'omessa sottoscrizione, con un nuovo atto ne «riconosca»
la riferibilità a se medesimo, prima dell'esclusione dal
concorso. In tal modo viene pertanto ammessa la
regolarizzazione postuma (su iniziativa dell'autore, prima
che l'Amministrazione si determini, e senza che ciò possa
costituire un «diritto» dell'istante) in quanto
l'interesse tutelato è solo quello di certezza dei rapporti
giuridici.
I giudici amministrativi hanno poi dato ragione alla
ricorrente, la quale era stata ammessa alle prove e vi aveva
partecipato. In tal caso quindi: «a) non v'era alcun
dubbio sulla identità della medesima; b) non v'era alcun
dubbio sulla coincidenza tra il soggetto autore della
domanda ed il soggetto che partecipò alle prove; c) non
v'era alcun dubbio sulla persistenza della volontà della
autrice della domanda di partecipare alle prove».
Resta ferma la giurisprudenza restrittiva in caso di domanda
non firmata tout court (senza partecipazione o superamento
delle prove scritte), mentre l'odierna apertura in appello
riecheggia precedenti risalenti (ad esempio Tar Catania
13.11.2001 n. 1928 e 18.07.2000 n. 1472, nonché Tar
Catanzaro 17.10.2001 n. 1558)
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
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MASSIMA
1. L’appello è fondato e va accolto, con conseguente
riforma della impugnata sentenza, accoglimento del ricorso
di primo grado, ed annullamento degli atti impugnati.
2. Il Collegio conosce e condivide, sotto il profilo
generale, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui (cfr.
TAR Puglia, Lecce, sez. II, 29.06.2015, n. 2179) “nei
pubblici concorsi la necessità di presentare la domanda di
partecipazione con sottoscrizione in originale non è solo
frutto di una regola destinata a tutelare la parità tra i
concorrenti alla selezione ma è anche coerente, in termini
più generali, con il principio di autoresponsabilità atteso
che in forza di detto principio, le conseguenze della non
conformità della dichiarazione al modello fissato a pena di
esclusione dall’Amministrazione ricadono inevitabilmente sul
dichiarante; né in questo caso può invocarsi il soccorso
istruttorio trattandosi di istituto che può operare solo in
presenza di profili di incompletezza o di lacunosità della
documentazione sanabili con l’attività, per così dire, di
supplenza del responsabile del procedimento, ai sensi
dell’art. 6, l. 07.08.1990 n. 241”.
Ed è altresì noto che, quale corollario del
generale principio su richiamato, si è affermato che deve
quindi ritenersi che la partecipazione ad una procedura
selettiva per mezzo di una domanda inoltrata in fotocopia è
inficiata da irregolarità radicale e non rimediabile per
mezzo del soccorso istruttorio trattandosi di deficit che
autorizza a dubitare di trovarsi al cospetto di una
dichiarazione di partecipazione ad una procedura selettiva
della sua autenticità; in un caso del genere, ammettere la
possibilità del soccorso istruttorio significa introdurre
surrettiziamente la possibilità di eludere il termine
perentorio di presentazione delle domande di partecipazione
alla procedura selettiva con conseguenze scongiurabili sotto
il profilo della imparzialità e della trasparenza
dell’attività amministrativa.
2.1. Ritiene però che detto generale orientamento non sia
applicabile al caso di specie, in ragione della singolarità
e particolarità della fattispecie concreta.
2.2. La ratio del principio prima
enunciato, invero, non è quella di “punire” una
distrazione (che tale è quella di chi dimentica di apporre
una sottoscrizione alla domanda di partecipazione
compilata); la ratio è invece quella di assicurare
l’Amministrazione sulla provenienza dell’atto, e sulla
riferibilità della domanda a chi ne appare l’autore (al fine
di evitare il progredire di una procedura di selezione
concorsuale certamente inutile, laddove la domanda non sia
stata effettivamente compilata dall’apparente autore).
2.3. Se così è, la sanzione espulsiva ben
potrebbe essere evitata laddove il soggetto che presentò la
domanda, ad esempio, accortosi dell’errore riposante nella
omessa sottoscrizione, con un nuovo atto ne “riconosca”
la riferibilità a se medesimo, prima che l’Amministrazione
ne disponga l’esclusione dal concorso.
2.3.1 Ammessa la regolarizzazione postuma
(su iniziativa dell’autore, prima che l’Amministrazione si
determini, e senza che ciò possa costituire un “diritto”
dell’istante), è evidente che l’interesse tutelato dal
principio de quo, è solo quello di certezza dei rapporti
giuridici, e che esula da esso qualsivoglia finalità
sanzionatoria.
2.4. Nel caso di specie, sulla scorta della domanda non
sottoscritta, l’odierna appellante venne ammessa alle prove,
vi partecipò, e pertanto:
a) non v’era alcun dubbio sulla identità della medesima;
b) non v’era alcun dubbio sulla coincidenza tra il soggetto
autore della domanda ed il soggetto che partecipò alle
prove;
c) non v’era alcun dubbio sulla persistenza della volontà
della autrice della domanda di partecipare alle prove.
2.5. In conclusione, tutte le esigenze generali individuate
dal Tar (riferibilità della domanda al concorrente;
responsabilizzazione sulla serietà della partecipazione;
autodichiarazione e responsabilizzazione sulla veridicità
dei contenuti della domanda di partecipazione stessa)
risultavano pienamente soddisfatte.
2.6. In tale quadro, non assume rilievo preclusivo la
disposizione del bando, che all’evidenza “sposta” in
avanti i termini del controllo dei requisiti, ma non esclude
che ciò potesse avvenire prima, e soprattutto non è
direttamente e specificamente riferibile alla fattispecie in
esame, per cui il ricorso di primo grado era ammissibile, ed
alla stregua delle superiori considerazioni è anche fondato.
3. Conclusivamente, alla stregua delle superiori,
assorbenti, precisazioni l’appello va accolto e per
l’effetto, in riforma della impugnata decisione, va accolto
il ricorso di primo grado con annullamento degli atti
impugnati.
3.1. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 cod. proc. civ., in
aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza
costante: cfr. ex plurimis, per le affermazioni più
risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260 e, per
quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n.
7663). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
centro può essere inibito ai fuochi d'artificio.
È valida e deve essere rispettata da tutti l'ordinanza
comunale che vieta l'utilizzo degli artifici pirici
all'interno del centro abitato. In questo caso dunque niente
fuochi d'artificio, scoppi di petardi, mortaretti e razzi,
anche se di libera vendita.
Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la
sentenza 24.08.2016 n. 970.
Il sindaco del comune di Bussolengo ha adottato una
coraggiosa ordinanza finalizzata a limitare i tradizionali
spari di fine anno che danneggiano la tranquillità ed il
benessere anche degli amici a quattro zampe. Contro questa
disposizione, confermata da un successivo regolamento di
polizia urbana, alcuni imprenditori interessati al commercio
dei materiali pirotecnici hanno proposto censure al collegio
ma senza successo.
La limitazione locale, specifica la sentenza, innanzitutto
non viola la disciplina europea in materia di libera vendita
del materiale pirotecnico perché vieta l'uso dei petardi e
dei fuochi solo all'interno del centro abitato, non anche
sull'intero territorio comunale. La sussistenza di una
oggettiva situazione di pericolo per la sicurezza urbana,
prosegue il collegio, è insita «nell'obiettiva
pericolosità connessa allo sparo di fuochi di artificio in
area densamente popolata quale il centro abitato, e ciò a
prescindere dai controlli che sul materiale pirotecnico in
genere vengono effettuati ai sensi del dlgs n. 58/2010».
Inoltre l'ordinanza è limitata temporalmente e
territorialmente, specifica il Tar. Il conseguente
regolamento limitativo comunale sulla polizia urbana infine
non è in contrasto con la disciplina nazionale sui prodotti
pirici laddove la stessa prevede l'adozione di specifiche
misure locali idonee a rafforzare la prevenzione. Lo stesso
regolamento non è in contrasto neppure con l'ordinanza
urgente adottata del sindaco, trattandosi di due strumenti
complementari ma ben differenziati dall'ordinamento.
Il materiale pirotecnico può pertanto continuare ad essere
venduto anche in libera vendita ma non può essere utilizzato
all'interno del centro abitato del comune di Bussolengo che
ha adottato misure limitative per gli spari, conclude la
sentenza
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
---------------
MASSIMA
Considerato nel merito che:
- deve essere rigettato il primo motivo a mezzo del quale si
sostiene che l’ordinanza impugnata si porrebbe in contrasto
con la disciplina europea in tema di libera vendita e
circolazione di materiale pirotecnico all’interno del
mercato comune, atteso che il provvedimento
in questione vieta per motivi di sicurezza l’utilizzo di
materiale pirotecnico limitatamente “all’interno del
centro abitato” e non anche sull’intero territorio
comunale, risultando pertanto coerente con la ratio
di cui all’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 58/2010, recante
disposizioni di “Attuazione della direttiva 2007/23/CE
relativa all’immissione sul mercato di prodotti pirotecnici”,
la cui disciplina non osta “all’adozione di misure di
pubblica sicurezza idonee a rafforzare la prevenzione”
nell’impiego di articoli pirotecnici;
- né è possibile ritenere che detta ordinanza si ponga in
contrasto con gli artt. 14, 15 e 16 del medesimo d.lgs. n.
58/2010, in tema di poteri spettanti al Dipartimento di
Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno di
sorveglianza sul mercato, d’inibizione di specifici articoli
pirotecnici e di poteri speciali prefettizi,
non risultando, dal tenore del provvedimento
impugnato, che il Sindaco del Comune resistente abbia invaso
i descritti ambiti di competenza statale;
- deve, parimenti, essere rigettato il secondo motivo con il
quale si lamenta che il provvedimento in esame sarebbe stato
adottato in assenza dei presupposti di cui all’art. 54,
comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 in tema di provvedimenti
contingibili e urgenti adottati dal Sindaco, atteso che
la sussistenza di una oggettiva situazione di
pericolo per la sicurezza urbana è insita nell’obiettiva
pericolosità connessa allo sparo di fuochi di artificio in
area densamente popolata quale il centro abitato, e ciò a
prescindere dai controlli che sul materiale pirotecnico in
genere vengono effettuati ai sensi del d.lgs. n. 58/2010;
- sempre per il rigetto, deve concludersi in ordine
all’asserito difetto di motivazione,
risultando invero le ragioni per le quali è stato introdotto
il divieto in contestazione adeguatamente esplicitate nel
provvedimento impugnato, oltreché coerenti con le esigenze
di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica poste a
base dello stesso;
- deve, nondimeno, esser respinto il terzo motivo con il
quale si sostiene che detto provvedimento sarebbe viziato da
incompetenza assoluta e/o difetto di attribuzione e assunto
in contrasto con il principio di legalità sostanziale,
atteso che, contrariamente a quanto dedotto da parte
ricorrente, il divieto in questione non si
atteggia a regola generale ed astratta sull’uso dei fuochi
pirotecnici in genere, essendo al contrario la sua
operatività specificatamente limitata sia dal punto di vista
temporale (festività ed eventi particolari) che spaziale
(all’interno del centro abitato);
- deve, nondimeno, essere rigettata la prima doglianza per
motivi aggiunti, con la quale si lamenta l’incompetenza del
Consiglio comunale a recepire nel Regolamento di polizia
urbana i divieti introdotti con l’ordinanza impugnata con il
ricorso originario, atteso che le prescrizioni in questione
sono limitatamente connesse, si ribadisce, all’uso improprio
e non confacente dei fuochi di artificio nelle circostante
normalmente adibite al loro utilizzo (festività ed eventi
particolari) e non possono pertanto ritenersi invasive della
competenza legislativa statale in materia di “armi
munizioni ed esplosivi” ex art. 117 della Cost., né,
tantomeno, in contrasto con la disposizione di cui all’art.
57 del T.U.L.P.S., riguardante specificatamente la licenza
di pubblica sicurezza allo sparo ed accensione di materiale
esplodente anche pirotecnico;
- deve, parimenti, essere rigettata la censura con la quale
si sostiene che il Regolamento in questione si sarebbe
indebitamente sovrapposto alla normativa statale di cui al
d.lgs. n. 58/2010, atteso che, come peraltro rappresentato
in relazione al ricorso introduttivo, è la
stessa normativa statale che non osta “all’adozione di
misure di pubblica sicurezza idonee a rafforzare la
prevenzione” nell’impiego di articoli pirotecnici (cfr.,
art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 58/2010, come recentemente
sostituito dal d.lgs. n. 123/2015);
- né è possibile ritenere che nel trasporre in sede
regolamentare i divieti precedentemente introdotti in via
provvedimentale, il Consiglio comunale abbia leso le
competenze riservate al Sindaco ai sensi dell’art. 54 del
d.lgs. n. 267/2000, posto che detta
disposizione fa esclusivo riferimento a situazioni
temporanee di necessità ed urgenza e non può pertanto
confliggere in alcun modo con la potestà regolamentare
riservata al predetto organo consiliare nel dettare
prescrizioni generali anche in tema di materiale pirotecnico
nei soli limiti e termini dianzi rappresentati;
- deve, da ultimo, essere respinto il secondo motivo per
motivi aggiunti con il quale si assume che detta normativa
regolamentare si porrebbe in contrasto con il principio di
legalità sostanziale in quanto incidente sulle libertà
individuali di autodeterminazione, di iniziativa economica
individuale e di libera circolazione anche di matrice
comunitaria, atteso che, si ribadisce
ulteriormente, le disposizioni ivi contenute riguardano
specificatamente l’uso improprio dei fuochi d’artificio in
determinate circostanze e non incidono in alcun modo sulla
vendita di materiale pirotecnico in genere né, tantomeno,
sul suo normale utilizzo al di fuori dei limiti prescritti;
- per quanto precede, le domande di annullamento dei
provvedimenti impugnati con il ricorso introduttivo e
dell’atto impugnato con motivi aggiunti devono essere
respinte siccome infondate;
- deve, conseguentemente, essere respinta la domanda di
risarcimento del danno formulata nel ricorso introduttivo,
datane la natura accessoria rispetto alla respinta domanda
caducatoria;
- in definitiva, il ricorso deve essere rigettato siccome
infondato. |
PUBBLICO IMPIEGO: Fuori» chi altera il registro presenze.
Pubblico impiego.
È legittimo il licenziamento del dipendente scolastico che
altera il registro online delle presenze facendo figurare di
aver lavorato un giorno in cui l’istituto era chiuso.
Così hanno stabilito i giudici della Corte di Cassazione,
Sez. lavoro, con la
sentenza
23.08.2016 n. 17259, rigettando il ricorso presentato
dall’interessato.
Quest’ultimo, il 23 dicembre aveva espresso l’intenzione di
lavorare alla vigilia di Natale e aveva criticato la
decisione di concedere le ferie a tutto il personale per il
giorno successivo. Il 24 dicembre si è presentato davanti
all’istituto scolastico, ma non vi è potuto entrare in
quanto chiuso e il personale addetto all’apertura in ferie.
Nei giorni successivi è però entrato nel sistema informatico
di registrazione delle presenze per far risultare come
lavorato il 24 dicembre.
Il dipendente ha sostenuto che, sulla base dell’articolo 2,
comma 2, del Dlgs 165/2001, «non ha solo il dovere di
rendere la prestazione lavorativa ma anche il diritto di
lavorare» e di conseguenza «l’offerta della sua prestazione
lavorativa, nel giorno in cui l’edificio scolastico era
chiuso, escluderebbe la rilevanza disciplinare della sua
condotta e la illegittimità delle registrazioni effettuate,
perché volte al pagamento della retribuzione».
Secondo i giudici, invece, l’alterazione del registro
presenze ha «raggiunto lo scopo di ottenere la retribuzione
di una giornata di lavoro non prestato» e, indipendentemente
dalla motivazione, tale comportamento non è giustificabile
«non potendo il lavoratore farsi ragione da sé».
Ne consegue
la validità del licenziamento per falsa attestazione della
presenza in servizio, come previsto dall’articolo 55-quater,
lettera a del Dlgs 265/2011
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.08.2016).
----------------
MASSIMA
14. Con il secondo motivo il Br. denuncia, ai sensi
dell'art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.,
violazione e/o falsa applicazione dell'art. 55-quater, v. 1,
lett. a), del D.Lgs 165/2001,
lamentando erronea sussunzione della fattispecie concreta
nell'ipotesi astratta
prevista da questa disposizione.
Deduce che la registrazione
dell'orario di lavoro del
giorno 24.12.2009 non era ideologicamente falso né ispirato
da intento fraudolento in
quanto esso ricorrente si era presentato davanti
all'ingresso dell'ufficio scolastico per
accedervi, così manifestando la volontà di adempiere il
proprio dovere.
15. Il motivo è infondato.
16. Ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 55-quater,
lett. a) -applicabile nella
specie-
tra i casi in cui si applica la sanzione
disciplinare del licenziamento rientra anche quello della
"falsa attestazione della presenza in servizio, mediante
l'alterazione
dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre
modalità fraudolente, ovvero
giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una
certificazione medica falsa o che
attesta falsamente uno stato di malattia assenza priva di
valida giustificazione per un
numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre
nell'arco di un biennio".
17. Non è mai stato contestato che il giorno 24.12.2009 il
Br. non era presente
in ufficio, pur avendo diritto a non esserci, perché
l'edificio era chiuso e che lo stesso
non aveva potuto accedervi per la mancanza del personale di
servizio adibito alla
apertura ed alla chiusura della Scuola. Nemmeno è contestato
li fatto che nei giorni
successivi il ricorrente, attestò, attraverso annotazioni
nel sistema informatico di
rilevamento della presenza, la sua presenza in servizio in
detta giornata.
18. Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi sul fatto che,
dal
punto di vista oggettivo,
il comportamento contestato al ricorrente è sussumibile
entro la fattispecie astratta
prevista dalla disposizione sopra richiamata, nella parte in
cui, appunto) punisce con il
licenziamento la "falsa attestazione della presenza in
servizio, mediante l'alterazione
dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre
modalità fraudolente", posto che
effettivamente quelle annotazioni attestarono una
circostanza non vera e cioè la
presenza in servizio
del Br..
19. Le deduzioni svolte in merito alla assenza di volontà
fraudolenta sono prive di
pregio ed esulano dal perimetro del vizio, di sussunzione,
denunciato, perché
attengono non alla ricostruzione della fattispecie oggettiva
ma alla rilevanza
dell'elemento soggettivo.
20. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi
dell'art. 360, c. 1, n. 3 c.p.c.,
violazione e/o falsa applicazione dell'art. 55-quater, c. 1,
lett. a), 4 e 36 Cost. 2094 e
2099, 1206, 1207, 1217, 2103 cc e 44, c. 4, 46, 47, c. 1, lett.
a), del CCNL computo
scuola, quadriennio 2006-2009 e biennio economico 2006-2007, e delle tabelle A, C
allegate al CCNL, nel loro combinato disposto.
21. Sostiene che l'interpretazione della Corte territoriale
dell'art. 55-quater, c. 1, lett.
a), D.Lgs 165/2001, postulerebbe l'illiceità della
registrazione ogni volta che il
lavoratore non abbia potuto rendere la prestazione,
indipendentemente dalle ragioni e
dal contesto e sostiene che la norma in questione mirerebbe
ad espellere dal mondo
del lavoro gli "assenteisti" e non chi, come esso
ricorrente, voleva lavorare nella
giornata del 24 dicembre.
22. Richiama i lavori preparatori del Senato, la
giurisprudenza di questa Corte
penale sulla differenza tra falsa attestazione della
presenza e falso ideologico in atto
pubblico, per affermare che non potrebbe essere affermata
l'irrilevanza della
fraudolenza nel caso di sussistenza del diritto alla
retribuzione.
23. Lamenta che la sentenza avrebbe violato il c. 2
dell'art. 2 del D.Lgs 165/2001
che richiama, quanto alla disciplina del rapporto di lavoro
dei pubblici dipendenti, il
codice civile e le disposizioni della contrattazione
collettiva. Assume che il lavoratore
non ha solo il dovere di rendere la prestazione lavorativa
ma anche il diritto di
lavorare e assume che l'offerta della sua prestazione
lavorativa, nel giorno in cui
l'edificio scolastico era chiuso, escluderebbe la rilevanza
disciplinare della sua condotta
e la illegittimità delle registrazioni effettuate, perché
volte al pagamento della
retribuzione. Deduce che tra le sue mansioni non rientrava,
per previsione di CCNL,
quella di procedere all'apertura della scuola.
24. Con il quarto motivo il Br. denuncia, ai sensi
dell'art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., il
combinato disposto degli artt. 2, c. 2, e 55, commi 1 e 2, del D.Lgs. 165/2001 e 2119
c.c. 4 e 36 Cost., lamentando che la Corte territoriale non
avrebbe valutato
adeguatamente la proporzionalità della sanzione espulsiva
alla condotta addebitata ,
in contrasto con quanto previsto dall'art. 2119 c.c..
25. Il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi
congiuntamente, sono infondati.
26. Come più volte affermato da questa Corte (ex plurimis
Cass. 10842/2016,
1315/2016, 24796/2010, 26329/2008) ed anche dalla Corte
Costituzionale (cfr. C.
Cost. 971/1988, 239/1996, 286/1999),
deve escludersi la
configurabilità in astratto di
qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni
disciplinari, specie laddove
queste consistano nella massima sanzione, permanendo il
sindacato giurisdizionale
sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto
addebitato.
27.
La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto
ai fatti commessi è, infatti,
regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni
penali, amministrative ex art. 11, l.
n. 689 dei 1981, etc.), e risulta trasfusa per l'illecito disciplinare nell'art. 2106 c.c.,
con conseguente possibilità per il giudice di annullamento
della sanzione "eccessiva",
proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non
essendo, in definitiva, possibile
introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari
automaticamente
conseguenziali ad illeciti disciplinari.
28. I principi sopra richiamati sono stati affermati anche
con riguardo all'art. 55-quater da questa Corte, che nella decisione n. 1351/2016 ha
rilevato che l'art. 2106
c.c. risulta oggetto di implicito richiamo da parte dell'art
55-quater, c. 2 e che ed alla
giusta causa ed al giustificato motivo fa riferimento il c.
1 comma della medesima
disposizione.
29. Va anche considerato che, in tema di giusta causa di
licenziamento, questa
Corte ha affermato che l'art. 2119 c.c. configura una norma
elastica, in quanto
costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e
polivalente destinato ad
essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della
funzione nomofilattica della
Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto
vivente mediante puntualizzazioni,
di carattere generale ed astratto. A tale processo non
partecipa tuttavia la soluzione
del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia
possibile estrarre una
puntualizzazione della norma mediante una massima di
giurisprudenza.
30. Ne consegue che l'operazione valutativa compiuta dal
giudice di merito
nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119
c.c., non sfugge ad una
verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass.
1351/2016, 12069/2015, 6501/2013,
18247/2009), poiché l'operatività in concreto di norme di
tale tipo deve rispettare
criteri e principi desumibili dall'ordinamento.
La relativa
valutazione deve essere
operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla
natura e alla utilità del
singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di
affidamento richiesto dalle
specifiche mansioni del dipendente, al nocumento
eventualmente arrecato, alla
portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze
del loro verificarsi, ai motivi e
all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello
colposo.
31. Pertanto,
va valutato il comportamento del lavoratore
non solo nel suo
contenuto oggettivo -ossia con riguardo alla natura e alla
qualità del rapporto, al
vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia
richiesto dalle mansioni
espletate- ma anche nella sua portata soggettiva e, quindi,
con riferimento alle
particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in
essere, ai modi, ai suoi effetti
e all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente
(Cass. 1977/2016, 1351/2016,
12059/2015 25608/2014 del 2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Induzione indebita anche «tentata».
Funzionari pubblici condannati per le minacce su una pratica
già archiviata.
Reati contro la Pa. Per la Cassazione la fattispecie è
«bilaterale»: non necessario il tornaconto della vittima.
La condanna
per induzione indebita tentata rimane anche se la pratica
delle vittime designate era già stata archiviata all’epoca
delle “pressioni” dei funzionari infedeli.
La VI Sez. penale della Corte di Cassazione (sentenza
22.08.2016 n. 35271) ribadisce la natura «non bilaterale» del
reato previsto dalla riforma Severino degli illeciti contro
la Pa; pertanto, il tentativo resta perfettamente integrato
-cioè “utile” per la condanna- anche se il privato non
aveva già più alcun indebito vantaggio da trarre dalla
proposta contra legem del funzionario pubblico.
Il caso ripercorso dai giudici di legittimità riguardava un
episodio avvenuto negli anni scorsi all’agenzia delle
Entrate di Varese, in cui due funzionari avevano minacciato
indagini fiscali a danno di una coppia -e del loro
commercialista- a margine del rientro di capitali collegati
al terzo e ultimo scudo del decennio scorso. Le vittime, che
si erano viste richiedere una somma definita «ingente» nella
carte processuali, avevano finto di stare al gioco
denunciando però subito la vicenda ai carabinieri, facendo
così partire le intercettazioni telefoniche e ambientali.
Tra i motivi del lungo ricorso per Cassazione -incentrati
soprattutto su questioni procedimentali e sulla valutazione
della chiamata di correo tra gli imputati- c’era però anche
l’aspetto relativo all’inquadramento giuridico della
fattispecie: secondo i legali dei due funzionari infedeli,
l’assenza dell’indebito vantaggio come “corrispettivo” per
le vittime -indebito costituente «requisito implicito della
fattispecie dell’articolo 319-quater del codice penale»-
avrebbe dovuto indurre i giudici a reinquadrare l’ipotesi
nel meno grave reato di «istigazione non accolta alla
corruzione». Una soluzione, questa, che invece i magistrati
di legittimità hanno respinto senza margini di incertezza,
richiamandosi peraltro a un precedente del gennaio scorso
(6846/16, della medesima Sezione).
Il requisito del perseguimento dell’indebito vantaggio da
parte dei privati, argomenta la Sesta, è fuori dal perimetro
del “tentativo”, nonostante sia un pilastro portante del
delitto consumato di «induzione indebita a dare o promettere
utilità». Le Cassazione stessa ha definito tale indebito
vantaggio come il «criterio di essenza» della fattispecie
induttiva che, in una interpretazione costituzionalmente
orientata, diventa il presupposto per estendere la punizione
allo stesso privato/pagatore/beneficiato (che in questo
caso rischia fino a tre anni di reclusione, a fronte dei 10
e mezzo per il funzionario infedele).
Ma, aggiunge
l’estensore, se il privato resiste all’induzione, allora
«viene meno la ratio che si colloca a fondamento del
requisito del perseguimento di un indebito vantaggio da
parte del destinatario della condotta induttiva; non per
questo però crolla la possibilità di perseguire l’agente
pubblico che compie atti idonei diretti in modo non equivoco
a indurre il privato a dare o promettere denaro o utilità».
In sostanza, chiosa la Sesta sezione, il delitto di
induzione indebita non è un «reato bilaterale», perché le
condotte del soggetto pubblico che induce e del privato
indotto «si perfezionano autonomamente e in momenti diversi, sicché il reato si configura in forma tentata nel caso in
cui l’evento non si verifichi per la resistenza opposta dal
privato alle illecite pressioni del pubblico agente»
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).
---------------
MASSIMA
8. Non possono essere condivise le doglianze mosse dai
ricorrenti in punto di
qualificazione giuridica della fattispecie (punti 2.5 e 3.4
del ritenuto in fatto).
Occorre precisare che i ricorrenti contestano
l'inquadramento giuridico della
fattispecie muovendo da premesse diverse, dal momento che Me. rileva
che, nella specie, non sarebbe ravvisabile un indebito
vantaggio in capo ai privati,
asserendo che esso costituisce requisito implicito della
fattispecie incriminatrice
prevista dall'art. 319-quater cod. pen.; D'Er. evidenzia
-da una prospettiva
opposta- che i coniugi Fr. non versavano in uno stato
di soggezione rispetto
ai pubblici ufficiali, avendo agito al fine di ottenere un
indebito vantaggio.
8.1. Innanzitutto, è necessario fare chiarezza in punto di
fatto dando atto che
i Giudici della cognizione hanno expressis verbis escluso
che i coniugi Fr.
abbiano agito allo scopo di perseguire un indebito vantaggio
(v. in calce a pagina
11).
Deve, d'altra parte,
ritenersi pacifico che il delitto di
induzione indebita sia
configurabile nella forma tentata, nel caso in cui l'evento
non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle
illecite pressioni del pubblico agente, che -come
nel caso di specie- presenti denuncia ai Carabinieri
(Sez.
6, n. 46071 del
22/07/2015, Scarcella e altro, Rv. 265351; Sez. 6, n. 6846
del 12/01/2016, Farina
e altro, Rv. 265901).
8.2. Tanto premesso, giudica il Collegio che
ineccepibilmente la Corte
distrettuale abbia ritenuto comunque integrata la
fattispecie di tentata induzione
indebita, pur in assenza di un correlativo interesse dei
privati.
Come questo Giudice della nomofilachia ha già avuto modo di
chiarire,
il
tentativo di induzione indebita di cui all'art. 319-quater
cod. pen. è configurabile
anche quanto il privato non abbia perseguito un indebito
vantaggio, poiché tale
elemento rileva esclusivamente per la sussistenza della
fattispecie consumata
(Sez. 6, n. 32246 del 11/04/2014, Sorge, Rv. 262075).
Nella
motivazione della
pronuncia appena ricordata, si è condivisibilmente osservato
che "qualificare la
fattispecie concreta in disamina come tentativo di induzione
indebita prevista dagli
artt. 56 e 319-quater c.p., non implica la necessità
dell'ulteriore requisito, di cui il
giudice a quo rileva l'insussistenza, costituito dal
perseguimento di un indebito
vantaggio da parte dei privati.
Questo requisito, giustifica
-in coerenza con i
principi fondamentali del diritto penale e con i valori
costituzionali in tema di
colpevolezza, pretesa punitiva dello Stato, proporzione e
ragionevolezza- la
punibilità dell'indotto che abbia dato o promesso l'utilità
al pubblico ufficiale,
secondo quanto sottolineato, nella pronuncia poc'anzi
richiamata, dalle Sezioni
unite, secondo cui esso assurge al rango di "criterio di
essenza" della fattispecie
induttiva.
L'elemento in disamina si colloca dunque
nell'ottica di una
interpretazione costituzionalmente orientata e funzionale
alla salvaguardia
dell'esigenza, imposta dall'art. 27 Cost., di giustificare
la punibilità del privato, che
cede alle richieste dell'agente pubblico non perché coartato
e vittima del "metus",
nella sua accezione più pregnante, ma perché attratto dalla
prospettiva di
conseguire un indebito vantaggio.
Ne deriva che tale
requisito in esame è
necessario solo nell'ipotesi della consumazione del reato di
cui all'art. 319-quater
c.p., e non anche in quella del tentativo.
Il destinatario
della condotta di abuso
induttivo, infatti, ove si sia determinato a dare o a
promettere l'utilità al pubblico
ufficiale, pur disponendo, a differenza del concusso, di
ampi margini discrezionali,
è punibile per aver prestato acquiescenza alla richiesta di
prestazione non dovuta
in quanto motivato dalla prospettiva di conseguire un
indebito tornaconto
personale: ciò che lo pone in una posizione di complicità
con il pubblico agente e
lo rende meritevole di sanzione.
Quando invece, come nel
caso sub iudice, il
privato non dia o non prometta denaro o altra utilità al
pubblico ufficiale,
resistendo alle illecite richieste di quest'ultimo, viene
meno la ratio che si colloca
a fondamento del requisito del perseguimento di un indebito
vantaggio da parte del destinatario della condotta
induttiva, che pertanto esula dal paradigma
delineato dalla norma incriminatrice.
Qualora dunque
l'agente pubblico, abusando
della sua qualità o dei suoi poteri, compia atti idonei
diretti in modo non equivoco
a indurre il privato a dare o a promettere indebitamente
un'utilità, senza riuscire
nel suo intento, perché, l'evento non si verifica per la
resistenza del privato, il
requisito del perseguimento, da parte di quest'ultimo, di un
indebito vantaggio
rimane estraneo alla struttura della norma incriminatrice di
cui agli artt. 56 e 319-quater c.p.".
Di recente, si è affermato che
il delitto di induzione
indebita non integra
pertanto un reato bilaterale, in quanto le condotte del
soggetto pubblico che induce
e del privato indotto si perfezionano autonomamente ed in
tempi diversi, sicché il
reato si configura in forma tentata nel caso in cui l'evento
non si verifichi per la
resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del
pubblico agente
(Sez. 6, n.
6846 del 12/01/2016, Farina e altro, Rv. 265901).
8.3. La decisione in verifica risulta pertanto corretta in
diritto nella parte in
cui recepisce i sopra delineati principi con riguardo alla
configurabilità del delitto
di induzione indebita tentata anche nel caso in cui il
privato "resista" all'abuso
costrittivo rivolgendosi alle forze dell'ordine ed a
prescindere dal perseguimento
di un ingiusto vantaggio. |
SICUREZZA LAVORO: La responsabilità del committente non è «automatica».
Sicurezza. Va verificato il comportamento.
Nei lavori svolti in esecuzione di un contratto di
appalto di prestazione d’opera il dovere di sicurezza è
riferibile al committente oltre che al datore di lavoro, che
di regola è un appaltatore destinatario delle disposizioni
antinfortunistiche.
Tuttavia questo è un
principio, come rileva la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 22.08.2016 n.
35185, che non conosce una applicazione automatica,
non potendo comunque richiedersi al committente un controllo
pressante, continuo e capillare sull’organizzazione dei
lavori e sul loro andamento.
Pertanto, ai fini della configurazione della responsabilità
del committente, non si può prescindere dal verificare, in
concreto, quale sia stata l’incidenza della sua condotta nel
verificarsi dell’evento, a fronte delle capacità
organizzative della ditta scelta e con riguardo alla
specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo
stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del
prestatore d’opera, nonché alla agevole e immediata
percepibilità da parte del committente di situazioni di
pericolo.
In primo e secondo grado i proprietari di un fabbricato sono
stati condannati per l’incidente mortale che si è verificato
nel corso di un contratto di prestazione d’opera, durante il
quale il prestatore è caduto dal tetto. I committenti, come
accertato dai giudici di merito, erano perfettamente
consapevoli dell’assenza di qualsiasi struttura idonea a
evitare il pericolo di caduta, risultando invece escluso
qualsiasi comportamento abnorme della vittima.
Infatti i
primi erano consapevoli che il lavoratore per eseguire
l’incarico conferitogli –verificare l’idoneità dei
precedenti lavori svolti sul tetto che presentava ancora
delle infiltrazioni– doveva nuovamente salire sul tetto,
pur in assenza di qualsiasi struttura idonea a evitare
pericolo di caduta. Si è trattato quindi di un comportamento
del lavoratore caratterizzato da una condotta sicuramente
imprudente ma di certo non abnorme.
Con tale comportamento la Cassazione ha rilevato che la
richiesta di tale intervento rivolta dagli imputati al
prestatore d’opera era essa stessa fonte di pericolo, avendo
richiesto a quest’ultimo, tenuto contrattualmente a
garantire la qualità del precedente intervento, a
intervenire nuovamente, pur in presenza di una situazione
oggettivamente pericolosa, specie per un soggetto privo di
una reale e adeguata struttura di tipo imprenditoriale.
A questo punto appare determinante quanto statuito dalla
stessa Corte, secondo cui nella scelta del soggetto cui
affidare i lavori il committente ha l’obbligo di verificare
l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei
lavoratori autonomi prescelti in relazione agli incarichi
affidati, attraverso l’iscrizione alla Camera di commercio,
ma a fronte della presentazione di una serie di documenti
connessi direttamente con la materia della sicurezza (articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).
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MASSIMA
Giova premettere che questa Corte, annullando la
sentenza in data 01/03/2011 della Corte di
Appello di Catania, che aveva confermato la sentenza condannatoria di primo grado, ha avuto
modo di affermare che,
in tema di prevenzione degli
infortuni sul lavoro, il dovere di sicurezza,
con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto
di appalto o di prestazione d'opera, è riferibile, oltre che
al datore di lavoro (di regola l'appaltatore, destinatario
delle disposizioni
antinfortunistiche), al committente, anche se detto
principio non conosce una applicazione
automatica, non potendo esigersi da quest'ultimo un
controllo pressante, continuo e capillare
sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori.
Ne consegue che,
ai fini della configurazione della
responsabilità del committente, occorre
verificare, in concreto, quale sia stata l'incidenza della
sua condotta nell'eziologia dell'evento, a
fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per
l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo
alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti
dallo stesso committente per la scelta
dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua
ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto
di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché
alla agevole ed immediata
percepibilità da parte del committente di situazioni di
pericolo
(Sez. 4, n. 3563 del 18/1/2012,
Rv. 252672).
Nel caso di specie, alla Corte territoriale, quale giudice
di rinvio, è stato chiesto di colmare le
carenze motivazionali rilevabili nella sentenza annullata
mediante un più approfondito e
specifico esame delle circostanze fattuali rilevanti ai fini
della individuazione di profili di colpa
nella condotta dei committenti, in relazione ai principi di
diritto appena ricordati e,
segnatamente, avuto riguardo alle capacità tecniche ed
organizzative della ditta del prestatore
d'opera, circostanza questa che, se accertata, assume
rilievo in relazione al profilo di colpa
concernente la "culpa in eligendo", ed anche alla eventuale
ingerenza da parte dei committenti
nell'esecuzione dei lavori, circostanza questa che se
concretamente accertata rileva in
relazione alla ravvísabilità di una responsabilità
concorrente dei committenti che avessero
assunto di fatto una posizione direttiva nei confronti del
prestatore d'opera.
Sui punti oggetto d'indagine, la Corte di Appello etnea ha
evidenziato che non corrisponde alle
emergenze probatorie la circostanza, da sempre prospettata
dalla difesa dei ricorrenti, che il
PE. si fosse recato di propria ed autonoma iniziativa
sul luogo dove aveva eseguito i
precedenti lavori commissionati dagli imputati, essendo
stato al medesimo richiesto, una
settimana prima dell'incidente, come peraltro confermato da
MA.Se., di verificare le
ragioni delle persistenti infiltrazioni d'acqua lungo le
pareti dell'immobile sul cui tetto era
stata posata la guaina impermeabilizzante, tant'è che anche
il mezzadro, NA.Se.,
presente sul luogo, era stato informato del fatto che il
PE. doveva sistemare tale guaina.
Orbene, del tutto correttamente il Giudice del rinvio ha
considerato, per un verso, la
sussistenza dello specifico incarico dei committenti di
verificare -al fine evidentemente di
eliminare il difetto- la corretta esecuzione dei precedenti
lavori e, per altro verso, la
consapevolezza da parte dei medesimi della necessità -per
fare ciò- che il PE. doveva
salire nuovamente sul tetto, pur in assenza di qualsiasi
struttura idonea ad evitare pericoli di
caduta.
Tutto ciò nell'ambito di un quadro probatorio dal
quale
emergeva con evidenza "la
qualifica di lavoratore-artigiano della vittima", descritta
come persona "priva di una complessa
dotazione di mezzi, circostanza quest'ultima ben nota ai
committenti" e resa -drammaticamente- evidente dall'uso della bombola di gas
prelevata dall'abitazione dei MA. allo scopo di
"fissare" a caldo la guaina su un cornicione del tetto, con
una
condotta sicuramente imprudente ma, come correttamente
rilevato dalla Corte territoriale,
non certo abnorme.
La motivazione, ancorché sintetica, è perfettamente
in linea con la giurisprudenza
-che qui
interessa- elaborata da questa Corte
in relazione ai casi
di c.d. committenza "non qualificata"
e cioè quando non ricorre la figura del vero e proprio
datore di lavoro-committente,
assoggettata alle rigorose disposizioni antinfortunistiche,
in quanto non v'è dubbio che la
richiesta rivolta dagli odierni ricorrenti al prestatore
d'opera fosse essa stessa fonte di
pericolo, avendo determinato il PE., tenuto
contrattualmente a garantire la qualità
esecutiva dell'intervento eseguito sul tetto dell'immobile
di proprietà dei MA., ad
intervenire nuovamente, pur in presenza di una situazione
oggettivamente pericolosa,
dovendosi realizzare, senza opere provvisionali o altra
misura di sicurezza, una lavorazione
non ad altezza uomo ma ad un'altezza dal suolo che ne
rendeva più difficile e rischiosa la
esecuzione, specie per un soggetto privo di una reale -e
comunque adeguata- struttura
organizzativa di tipo imprenditoriale
(Sez. 4, n. 44131 del
15/7/2015, Rv. 264974).
Non v'è dubbio che gli imputati hanno finito per esigere dal
prestatore d'opera che si
comportasse in quel determinato modo, per conseguire il
risultato voluto -l'eliminazione delle
infiltrazioni- con conseguente efficacia causale della
violazione delle obbligazioni di garanzia di
cui si discute rispetto all'evento mortale occorso al
PE..
Quanto alla colpa nella scelta del soggetto al cui affidare
i lavori, la giurisprudenza di questa
Corte ha statuito che
il committente ha l'obbligo di
verificare l'idoneità tecnico-professionale
dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in
relazione ai lavori affidati, anche attraverso
l'iscrizione alla camera di commercio, industria e
artigianato, ma non esclusivamente in tal
modo
(Sez. 4, sent. n. 8589 del 14/01/2008, Rv. 238965). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato si pronuncia sulla debenza della
sanzione ex art. 83, d.lgs. n. 50 del 2016 nel caso in cui
il concorrente non usufruisca del soccorso istruttorio.
Pubblica
amministrazione – Contratti della p.a. – In genere –
Soccorso istruttorio per carenza e incompletezza documentale
– Rifiuto – Sanzione pecuniaria – Art. 83, comma 9, d.lgs.
n. 50 del 2016 – Esclusione – Differenza con la pregressa
disciplina ex artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter,
d.lgs. n. 163 del 2006 - Individuazione.
L’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n.
50 -secondo cui la sanzione pecuniaria, prevista dal bando
di gara in caso di mancanza, incompletezza e ogni altro caso
di irregolarità essenziale della documentazione di gara, è
dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione- lascia ai
concorrenti la possibilità di integrazione documentale non
onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della
domanda ed è quindi innovativamente incentrato sul concetto
di sanatoria conseguente al soccorso istruttorio e non
separa il momento procedimentale da quello sanzionatorio.
Tale norma, quindi, si discosta dalla pregressa disciplina
dettata dagli artt. 38 comma 2-bis, e 46 comma 1-ter, d.lgs.
12.04.2006, n. 163, secondo cui la sanzione si applica nel
caso in cui il concorrente ha presentato una offerta
mancante di una dichiarazione e di un documento prescritto
mentre è irrilevante se decide di avvalersi del soccorso
istruttorio o meno.
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1.- Il thema decidendum, sul quale convergono i
motivi di appello, che possono dunque essere esaminati
congiuntamente, è incentrato sull’ambito di applicabilità
della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38, comma
2-bis, del Codice dei contratti pubblici, e in particolare
(sul quesito) se la stessa sia irrogabile anche nel caso in
cui il concorrente decida di non avvalersi del soccorso
istruttorio.
Non viene in rilievo la questione (su cui, anteriormente
alla novella del giugno 2014, si è pronunciata la sentenza
dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 25.02.2014, n.
9, e, successivamente, questa V Sezione con le sentenze
21.04.2016, n. 1597 e 02.08.2016, n. 3481) dell’ampiezza,
secondo i parametri del combinato disposto degli artt. 38,
comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006,
del potere di soccorso istruttorio, e anzi tale profilo -che
presuppone la qualificazione dell’incompletezza documentale
come irregolarità essenziale -qui risulta incontroverso.
Non occorre perciò verificare se la mancanza/incompletezza
del possesso del requisito tecnico riferito alla
progettazione esecutiva contestato alla società appellante
costituisca “irregolarità essenziale”. Del pari, non
si pone qui un problema di valutazione della suscettibilità
della mancanza documentale di regolarizzazione postuma. Del
resto, la CO. non ha inteso comunque avvalersi del soccorso
istruttorio.
1.1.- Con questa premessa, occorre vagliare
l’esatto significato da attribuire, stando al Codice dei
contratti pubblici, alla locuzione, invalsa nell’uso, di “soccorso
istruttorio a pagamento”; se vi sia un collegamento
necessario tra l’avvalersi del soccorso istruttorio da parte
dell’operatore economico e il pagamento della sanzione
pecuniaria stabilita dal bando, o se invece la sanzione
–ricorrendo la fattispecie- sia dovuta indipendentemente
dall’integrazione o regolarizzazione delle dichiarazioni da
parte del concorrente che ha dato causa al doveroso
esercizio del potere di soccorso istruttorio, come ritenuto
dalla sentenza di prime cure.
Ad avviso dell’appellante, rinvenendosi il fondamento di
razionalità del soccorso istruttorio nell’obiettivo di
evitare che l’esclusione dalla gara sia disposta per mere
irregolarità formali, a tale scopo consentendosi
strumentalmente all’interessato di colmare le lacune
riscontrate dal seggio di gara, la sanzione è dovuta nel
solo caso in cui il concorrente intenda avvalersi di tale
possibilità; e tanto più in un’evenienza come quella oggetto
di controversia, dove il soccorso istruttorio è intervenuto
tardivamente, successivamente all’iniziale esclusione non
contestata (primo motivo di appello).
Ulteriore argomento difensivo di CO. è che l’applicazione
della sanzione pecuniaria in una fattispecie di mera
irregolarità della dichiarazione (i suoi progettisti erano
tutti in possesso dei requisiti richiesti dal bando),
comporta un’illegittima (quanto a difetto di proporzionalità
e a violazione dell’art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 163 del
2006) equiparazione tra l’ipotesi sostanziale in cui il
concorrente non sia in possesso dei requisiti prescritti
dalla lex specialis (non potendo per ciò partecipare
alla procedura di evidenza pubblica) e l’ipotesi formale in
cui abbia reso dichiarazioni incomplete (secondo e terzo
motivo di appello).
Allega, ancora, l’appellante, con il quarto ed ultimo
motivo, che la sentenza impugnata incorre in un’erronea
interpretazione degli artt. 59, paragrafo 4, e 56 della
direttiva 2014/24/UE, disposizioni che non condizionano il
soccorso istruttorio alla comminatoria di una sanzione, come
posto anche in evidenza dalla determinazione A.N.A.C. n. 1
del 2015.
2. - Ritiene la Sezione che gli argomenti della società
appellante, per quanto seri, non siano condivisibili.
Invero, l’introduzione (ad opera del d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla
legge 11.08.2014, n. 114) dell’art. 38, comma 2-bis, nel
Codice dei contratti pubblici, con la sanzione pecuniaria
proporzionale per il caso di mancanza, incompletezza e ogni
altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni
sostitutive di cui al comma 2, ha inteso prevenire, nella
fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi,
dell’ammissione alla gara delle offerte presentate, il
fenomeno delle esclusioni dalla procedura causate da mere
carenze documentali; e ha «in tal caso» (cioè: di
fronte alla semplice mancanza, incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale di cui sopra) imposto uno spedito
sub-procedimento –il “soccorso istruttorio”-ordinato
alla produzione, integrazione o regolarizzazione delle
dichiarazioni necessarie, e ha previsto l’esclusione
solamente quale conseguenza dell’inosservanza, da parte
dell’impresa concorrente, dell’obbligo di integrazione
documentale entro il termine perentorio accordato, a tale
fine, dalla stazione appaltante.
Corollario di tale innovazione è una
sostanziale dequalificazione, in principio, delle “irregolarità”
dichiarative da cause escludenti a carenze regolarizzabili.
In tale contesto, ad evitare l’abuso del
ricorso al soccorso istruttorio e il conseguente
aggravamento complessivo delle procedure, si pone a
contrappeso la previsione della speciale sanzione
pecuniaria: scopo di questa misura è dunque l’assicurare la
serietà e la completezza originaria delle offerte, e il
responsabilizzare a questi fini i partecipanti alla gara.
Detta sanzione,
come si evince dalla lettera della disposizione («la
mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive
di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato
causa al pagamento, in favore della stazione appaltante,
della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara …»),
colpisce dunque il semplice fatto dell’aver
presentato una dichiarazione difettosa: resta irrilevante il
fatto che l’omissione venga poi sanata dall’impresa
interessata o che questa, benché richiestane, rinunzi a
regolarizzarla.
La norma a questi fini nulla dice riguardo
alla condotta successiva dell’offerente, sia in punto di
avvenuta regolarizzazione, sia in punto di abbandono della
gara mediante il comportamento concludente della non
risposta alla richiesta di regolarizzazione: sicché si deve
rilevare che per la sanzione pecuniaria la legge non
contempla una causa estintiva successiva. La sanzione
insomma non è alternativa o sostitutiva alla esclusione per
insufficiente regolarizzazione o all’abbandono volontario
della gara.
L’esclusione dalla gara è altra cosa rispetto alla sanzione,
la cui fattispecie costitutiva è ormai già perfetta, ed è la
conseguenza procedimentale della mancata corrispondenza al
soccorso istruttorio. Nel sistema del comma 2-bis,
l’irregolarità essenziale porta di suo all’applicazione
della sanzione pecuniaria. Rispetto alla sanzione resta così
ultroneo il diverso profilo funzionale del determinare
l’avvio del procedimento di soccorso istruttorio.
L’esclusione dalla gara si colloca in una successiva fase
procedimentale, quale esito della mancata o insoddisfacente
risposta al soccorso istruttorio, e risulta pertanto
distinta, strutturalmente e funzionalmente, dalla sanzione
pecuniaria, che è conseguenza del mero inadempimento iniziale
(in termini Cons. Stato, VI, 27.11.2014, n. 5890).
Così, l’abbandono volontario della gara determina
l’esclusione, ma non influisce sulla già consumata
fattispecie da sanzionare.
La distinzione tra le due fattispecie è in qualche misura
confermata dalla disposizione contenuta nel terzo periodo
del comma 2-bis, la quale, per l’ipotesi di “irregolarità
non essenziali”, prevede che la stazione appaltante non
ne richieda la regolarizzazione, né applichi la sanzione,
evidenziando come il soccorso istruttorio e la sanzione
pecuniaria si pongano su due piani diversi, seppure
originanti da un unico fatto.
2.1.- Queste considerazioni di base non consentono di
attribuire rilievo a quanto allegato dall’appellante circa
il fatto che nel caso di specie la sanzione è stata
comminata per una mera incompletezza documentale.
Infatti la norma, in modo non irragionevole
ove si consideri la ratio che la permea, non gradua
le varie ipotesi di irregolarità essenziale.
Piuttosto, va qui rilevato che la sanzione pecuniaria ed il
soccorso istruttorio hanno fatto seguito a una precedente
esclusione non contestata da CO., la quale non ha dunque
indotto la stazione appaltante ad un aggravamento del
procedimento di verifica della regolarità e completezza
della documentazione.
Neppure tale circostanza, per quanto possa essere
suscettibile di una qualche valutazione quanto a correttezza
e buona fede della società, è idonea a rendere illegittimo
l’impugnato provvedimento, espressione di un riesame in
autotutela da parte della stazione appaltante, comportante
un regresso del procedimento alla fase di valutazione
dell’offerta, disposta in difformità di quanto previsto
dalla disciplina vigente.
Se non è pertanto ravvisabile
un’applicazione della sanzione pecuniaria non proporzionata,
tanto meno è rinvenibile una violazione dell’art. 46, comma
1, del Codice dei contratti pubblici, disposizione
inapplicabile alla vicenda amministrativa in esame, cui è
invece riferibile il successivo comma 1-ter, in combinato
disposto con l’art. 38, comma 2-bis, dello stesso Codice.
2.2. - Anche il quarto motivo di appello, con cui si deduce
la violazione dell’art. 59, par. 4, e dell’art. 56, par. 3,
della direttiva n. 2014/24/UE, disposizioni che non
condizionano il soccorso istruttorio al pagamento di una
sanzione pecuniaria, ma solamente al rispetto del principio
di parità di trattamento e di trasparenza, non merita
condivisione.
Infatti l’interpretazione della norma di diritto interno
seguita dalla sentenza appellata non contrasta con le
invocate disposizioni del diritto europeo, le quali non
precludono una onerosità dell’accesso al soccorso
istruttorio, così da rimettere tale scelta, ovviamente nei
limiti della congruità, al legislatore nazionale.
Conseguentemente non si evidenziano quei dubbi
interpretativi, che imporrebbero al giudice nazionale di
ultima istanza di disporre il rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia europea ai sensi dell’art. 267 del
T.F.U.E.-Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
3. - Le considerazioni che precedono inducono il Collegio a
ritenere condivisibile il ragionamento della sentenza
appellata.
Ove occorra, si deve considerare che,
trattandosi di sanzione pecuniaria infraprocedimentale che
fa sistema con la disciplina del procedimento definita dal
d.lgs. n. 163 del 2006,il principio di irretroattività della
nuova legge impedisce di dar rilievo alla circostanza che il
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 preveda, all’art. 83, comma 9, che
«la sanzione è dovuta esclusivamente in caso di
regolarizzazione»: l’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n.
163 del 2006, resta cioè applicabile ratione temporis.
Il sistema della nuova disciplina, (che muove dal criterio
direttivo indicato dall’art. 1, lett. z), della legge di
delega 28.01.2016, n. 11, che attribuisce ai partecipanti
alla gara la piena possibilità di integrazione documentale
non onerosa di qualsiasi elemento di natura formale della
domanda) è innovativamente incentrato sul concetto di
sanatoria conseguente al soccorso istruttorio e non separa
il momento procedimentale da quello sanzionatorio.
4. - Alla stregua di quanto esposto, l’appello deve essere
respinto (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.08.2016 n. 3667 -
tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolire non si prescrive.
Cassazione. Anche se dal giudice penale.
L’”ordine” di demolizione, anche se disposto dal giudice
penale, resta una sanzione amministrativa e non si
prescrive.
La Corte di
Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 19.08.2016 n. 35052, torna sugli abusi
edilizi per sgombrare il campo dall’equivoco sulla
possibilità di applicare per analogia al provvedimento di
demolizione l’articolo 173 del Codice penale sulla
prescrizione delle pene.
Un’interpretazione fornita dal Tribunale di Asti (sentenza
Delorier), che ha dichiarato l’estinzione per decorso del
tempo dell’ordine di demolizione, sul presupposto che fosse
non una sanzione amministrativa ma una pena. Il giudice di
merito si sarebbe mosso sulla scia di una lettura
sostanzialistica della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo. Per la Cassazione si tratta però di
un’applicazione eccentrica del diritto Cedu.
La Suprema corte nega che la natura giuridica del
provvedimento possa mutare in funzione dell’autorità che la
dispone. La demolizione d’ufficio e l’ingiunzione alla
demolizione sono disposte dall’autorità amministrativa,
senza che venga messa in dubbio la “veste” amministrativa e
non penale della misura e senza che ricorra una pertinenza
fatto-reato, dal momento che la demolizione può essere
disposta immediatamente senza individuare i responsabili.
Detto questo, non si può affermare che la “demolizione
giudiziale”, identica nell’oggetto e nel contenuto, cambi
natura solo in virtù dell’organo che la dispone.
Anche
perché è pacifico che l’ordine del giudice penale può essere
da questo revocato se incompatibile con provvedimenti
amministrativi di diverso tenore. Si tratta della stessa
sanzione amministrativa, la cui emissione è demandata anche
al giudice penale all’esito dell’affermazione di
responsabilità, per assicurare la celerità dell’esecuzione.
In ogni caso -sottolinea la Cassazione- ci sono due
elementi ad impedire l’applicazione analogica della causa di
esclusione della pena, disegnata dall’articolo 173 del
Codice penale. L’applicazione analogica presuppone, infatti,
l’esistenza di una lacuna normativa sul punto e un’identica
ratio. Che, nel caso specifico, non ci sono. Non c’è vuoto
legislativo perché non è indispensabile prevedere una causa
estintiva della sanzione dipendente dal decorso del tempo e
manca anche l’elemento di identità tra il caso indicato e
quello non disciplinato. L’articolo 173 riguarda, infatti,
solo le pene principali e la demolizione non ha natura
penale né intento repressivo, ma solo ripristinatorio.
Con l’occasione, i giudici invitano a non considerare la
giurisprudenza di Strasburgo come un diritto “à la carte”
dal quale scegliere l’ingrediente ritenuto più adatto. Il
distorto utilizzo delle decisioni delle corti europee può
condurre a compiere «disanalogie» attraverso le quali si
finisce per universalizzare in maniera arbitraria la portata
di un principio affermato in un determinato contesto.
Proprio la Cedu (sentenza Ivanova, aprile 2016) ha ribadito
che la demolizione è in linea con la Convenzione e può
essere considerata come diretta a ristabilire lo stato di
diritto anche se il suo unico scopo è garantire l’effettiva
attuazione delle disposizioni normative che gli edifici non
possono essere costruiti senza autorizzazione.
Fermo
restando il rispetto della proporzionalità della misura con
la situazione personale dell’interessato, la Corte, nel
valutare la compatibilità con il diritto di abitazione, ha
ritenuto che la misura possa rientrare nella prevenzione dei
disordini ed essere finalizzata a promuovere il benessere
economico del Paese
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2016).
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MASSIMA
4. Il secondo motivo, relativamente alla pretesa estinzione
per prescrizione
dell'ordine di demolizione, è manifestamente infondato.
Invero, il ricorso censura l'omessa dichiarazione della
prescrizione, ai sensi
dell'art. 173 cod. pen., dell'ordine di demolizione, in
quanto sanzione
'sostanzialmente penale', richiamando, seppur
implicitamente, una
interpretazione 'convenzionalmente' conforme alla
giurisprudenza della Corte di
Strasburgo.
La tesi è fondata, come noto, su una decisione, del tutto
isolata, di un
giudice di merito (Tribunale Asti, ordinanza del 03/11/2014, Delorier), che ha
dichiarato l'estinzione per decorso del tempo dell'ordine di
demolizione, sul
presupposto che si trattasse non già di una sanzione
amministrativa, bensì di
una vera e propria "pena", nella declinazione
'sostanzialistica' fornita dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in tal senso,
dunque, anche all'ordine
di demolizione sarebbe applicabile l'art. 173 cod. pen.
sulla prescrizione delle
pene.
4.1. Al riguardo, va evidenziato che la tesi della natura
'sostanzialmente
penale' dell'ordine di demolizione, oltre ad essere, come di
dirà, frutto di una
applicazione del diritto eurounitario eccentrica rispetto al
sistema costituzionale
delle fonti, è infondata.
Al riguardo,
la giurisprudenza di legittimità ha elaborato
una serie di principi
che hanno costantemente ribadito la natura amministrativa
della demolizione,
quale sanzione accessoria oggettivamente amministrativa,
sebbene
soggettivamente giurisdizionale, esplicazione di un potere
autonomo e non
alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il
quale può essere
coordinato nella fase di esecuzione
(ex multis, Sez. 3, n.
3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez. 3,
n.37906 del 22/5/2012, Mascia, non
massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/3/1994, Sorrentino Rv.
198511; si vedano
anche Sez. U, n. 15 del 19/6/1996, RM. in proc. Monter); in
tale quadro,
coerentemente è stata negata l'estinzione della sanzione per
il decorso del
tempo, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., in quanto tale
norma si riferisce alle sole
pene principali, e comunque non alle sanzioni amministrative
(Sez. 3, n. 36387
del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 43006 del
10/11/2010, La
Mela, Rv. 248670); ed altresì
è stata negata l'estinzione
per la prescrizione
quinquennale delle sanzioni amministrative, stabilita
dall'art. 28 I. 24.11.1981, n. 689, in quanto riguardante le sanzioni pecuniarie
con finalità punitiva
("il diritto a riscuotere le somme ... si prescrive"),
mentre l'ordine di demolizione
integra una sanzione 'ripristinatoria', che configura un
obbligo di fare, imposto
per ragioni di tutela del territorio
(Sez. 3, Sentenza n.
16537 del 18/02/2003,
Filippi, Rv. 227176).
Ebbene, la tesi della natura intrinsecamente penale della
demolizione risulta
fondata su una serie di indici 'diagnostici' della "materia
penale", ovvero la
pertinenzialità rispetto ad un fatto-reato, la natura penale
dell'organo
giurisdizionale che la adotta, l'indubbia gravità della
sanzione e l'evidente finalità
repressiva; sulla base di tali indici si afferma la natura
penale, facendone poi
discendere una disinvolta operazione di applicazione
analogica dell'art. 173 cod.
pen.
4.2. Nel solco di quanto già evidenziato da questa Corte di
Cassazione (Sez.
3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, 265540; analogamente,
Sez. 3, n. 9949
del 20/01/2016, Di Scala, non ancora massimata), nel
sindacato di legittimità
dell'ordinanza del Tribunale di Asti,
il quadro normativo
che disciplina la
demolizione delle opere abusive esclude, innanzitutto, che
ricorra l'indice,
indiziante la natura penale della misura, della
pertinenzialità rispetto ad un fatto reato;
invero, l'art. 27 d.P.R. 380 del 2001 disciplina la c.d.
demolizione d'ufficio,
disposta dall'organo amministrativo a prescindere da
qualsivoglia attività
finalizzata all'individuazione di responsabili, sul solo
presupposto della presenza
sul territorio di un immobile abusivo; una demolizione,
dunque, che ha una
finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario
assetto del territorio.
L'art. 31 T.U. edil. disciplina l'ingiunzione alla
demolizione delle opere
abusive, adottata dall'autorità amministrativa nel caso non
venga disposta la
demolizione d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista
l'irrogazione di una
sanzione amministrativa pecuniaria, e, comunque,
l'acquisizione dell'opera
abusiva al patrimonio del Comune, finalizzata alla
demolizione 'in danno', a
spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica
deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di
prevalenti interessi pubblici, e sempre che
l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed
ambientali.
Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione
venga ordinata
dal giudice con la sentenza di condanna, "se ancora non sia
stata altrimenti
eseguita".
Una lettura sistematica, e non solipsistica, della
disposizione, dunque,
impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione
accessoria,
ancillare, rispetto al procedimento penale, della
demolizione, pur quando
ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un
potere autonomo e
non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel
senso che la
demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche
qualora sia stata già
disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale'
di demolizione coincide,
nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto
(l'eliminazione dell'abuso), con
l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile
soltanto "se ancora
non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono
disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga
revocata in dubbio la
natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza
che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può
essere disposta immediatamente, senza neppure
l'individuazione dei
responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione
giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo
che la dispone.
Anche perché è pacifico che
l'ordine 'giudiziale' di
demolizione è suscettibile
di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga
incompatibile con
provvedimenti amministrativi di diverso tenore
(Sez. 3, n.
47402 del
21/10/2014, Chisci, Rv. 260972),
in tal senso non mutuando
il carattere tipico
delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità,
ed è impermeabile a tutte
le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena
(ad
esso non sono
applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del
02/12/2010, dep. 2011,
D'Avino, Rv. 249309; resta eseguibile, qualora sia stato
impartito con la
sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel
caso di estinzione del
reato conseguente al decorso del termine di cui all'art.
445, comma 2, cod. proc.
pen., cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv.
250291; non è estinto
dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della
sentenza, cfr. Sez. 3, n.
3861 del 18/1/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa,
adottabile
parallelamente al procedimento amministrativo, la cui
emissione è demandata
(anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di
responsabilità penale, al fine di garantire un'esigenza di
celerità ed effettività del procedimento di
esecuzione della demolizione.
Del resto, anche la dottrina più consapevole ha sottolineato
la
differente
finalità e natura delle misure amministrative previste a
salvaguardia dell'assetto
del territorio: la demolizione, infatti, è connotata da una
finalità ripristinatoria,
l'acquisizione gratuita del bene e dell'area di sedime e le
sanzioni pecuniarie
alternative alla demolizione hanno una finalità riparatoria
dell'interesse pubblico
leso, le sanzioni pecuniarie previste in caso di
inottemperanza all'ingiunzione a
demolire sono connotate da una finalità punitiva.
Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della
demolizione, che non può
conseguire automaticamente dall'incidenza della misura sul
bene.
In tal senso,
non sembra ricorrere neppure l'ulteriore 'indice diagnostico' della natura penale,
ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che
viene in rilievo è la
salvaguardia dell'assetto del territorio, mediante il
ripristino dello status quo ante
(Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736: "In
materia di reati
concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione
del manufatto abusivo,
avendo natura di sanzione amministrativa di carattere
ripristinatorio, non è
soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen.
per le sanzioni penali,
né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del
1981 che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva";
che non ricorra una
finalità repressiva, del resto, è confermato altresì dalla
possibilità di revoca della
demolizione, allorquando gli interessi pubblici sottesi alla
tutela del territorio
siano diversamente ponderati dall'autorità amministrativa,
divenendo
incompatibili con l'esecuzione della misura ripristinatoria.
L'attitudine di un
interesse pubblico a paralizzare l'esecuzione della
sanzione, dunque, sembra
escluderne la asserita finalità repressiva.
4.3. L'altro profilo di perplessità che suscita
l'interpretazione
(asseritamente) conforme alla giurisprudenza 'eurounitaria'
riguarda
l'applicazione analogica della norma sulla prescrizione
delle pene, che appare
addirittura disinvolta.
4.3.1. L'applicazione analogica viene infatti fondata sulla
sostanziale
obliterazione ermeneutica dell'art. 14 delle Preleggi, sul
rilievo che, poiché tale
norma non può riferirsi a previsioni di favore, non occorre
il presupposto
dell'eadem ratio.
La delimitazione del divieto di analogia appare innanzitutto
arbitraria, oltre
che immotivatamente assertiva.
Se è vero, infatti, che il divieto di analogia in materia
penale è considerato,
dalla dottrina più attenta, relativo, concernente soltanto
le norme penali sfavorevoli, nondimeno l'art. 14 Preleggi
impedisce l'integrazione della norma
mediante il procedimento analogico nei casi di norme
eccezionali.
Al riguardo, la dottrina penalistica più accorta ritiene che
il ricorso al
procedimento analogico sia precluso rispetto alle cause di
non punibilità
(denominate anche "limiti istituzionali della punibilità")
fondate su specifiche
ragioni politico-criminali o su situazioni specifiche: in
tal senso, l'analogia non
sarebbe consentita rispetto alle immunità, alle cause di
estinzione del reato e
della pena, e alle cause speciali di non punibilità (ad es.,
il rapporto di famiglia
rilevante ex art. 649 cod. pen.).
Già tale rilievo impedirebbe, dunque, l'applicazione
analogica di una causa di
esclusione della pena come la prescrizione disciplinata
dall'art. 173 cod. pen.
4.3.2. Ma, in ogni caso, ciò che impedisce tale disinvolta
operazione
interpretativa è la carenza dei due presupposti
dell'analogia, alla stregua della
tradizionale e condivisa teoria generale del diritto:
l'esistenza di una lacuna
normativa e l'eadem ratio.
L'applicazione analogica, infatti, presuppone la carenza di
una norma nella
indispensabile disciplina di una materia o dì un caso (per
riprendere la formula
dell'art. 14 Prel.), che altrimenti la scelta di riempire un
preteso vuoto normativo
sarebbe rimesso all'esclusivo arbitrio giurisdizionale, con
conseguente
compromissione delle prerogative riservate al potere
legislativo e del principio di
divisione dei poteri dello Stato.
Nel caso di specie, non sembra scorgersi una lacuna
normativa, non potendo
ritenersi indefettibile la previsione di una causa estintiva
della sanzione
amministrativa della demolizione in conseguenza del decorso
del tempo.
L'opzione di individuare una lacuna normativa, dunque, è del
tutto
arbitraria, e rimessa alle personali e soggettive scelte
dell'interprete.
Del resto, l'assenza di una causa di estinzione è comune
alla demolizione e
ad altre sanzioni amministrative, e sarebbe irragionevole, e
comunque arbitraria,
un'applicazione analogica della prescrizione alla prima e
non alle altre; anche
perché mentre la prescrizione (del reato e della pena) in
materia penale è legata
alla tutela di interessi individuali (libertà personale e
dignità umana) ed alla
progressiva erosione dell'attitudine risocializzante della
pena, in ragione del
decorso del tempo (tempori cedere), nella materia lato sensu
amministrativa il
legislatore ragionevolmente può decidere di non dare
rilevanza, in una o più
fattispecie sanzionatorie, al decorso del tempo quale causa
estintiva, in ragione
della prevalenza di interessi pubblicistici oggetto di
privilegiata considerazione
normativa (nel caso di specie, la prevalenza è attribuita al
ripristino dell'assetto
del territorio).
Inoltre, manca anche l'eadem ratio, l'elemento di identità
fra il "caso"
previsto ed il "caso" non disciplinato, sulla quale la tesi
della natura
intrinsecamente penale della demolizione sorvola.
L'art. 173 cod. pen., infatti, disciplina l'"estinzione
delle pene dell'arresto e
dell'ammenda per decorso del tempo" (così come,
analogamente, l'art. 172 cod.
pen. disciplina la prescrizione delle pene della reclusione
e della multa); la causa
di estinzione, dunque, è limitata alle sole pene principali,
non è una norma 'di
favore' generale, applicabile, ad esempio, anche alle pene
accessorie. A
conferma, peraltro, della natura eccezionale della
disposizione, già solo per tale
motivo insuscettibile di applicazione analogica.
Non si scorge un motivo, ragionevole (inteso non già nella
declinazione
'soggettiva', bensì costituzionale, di parità di trattamento
di situazioni analoghe)
e ancorato a criteri oggettivi, dunque, per applicare
analogicamente la
prescrizione alla sanzione della demolizione, e non alle
pene accessorie -la cui
natura penale, peraltro, oltre ad essere normativamente
sancita, non è
revocabile in dubbio- ovvero agli effetti penali della
condanna.
La diversa natura e finalità delle pene principali, da un
lato, e della
demolizione, dall'altra, non consentono, infatti, di
individuare un elemento di
identità tra i due "casi" che consenta un'applicazione
analogica della norma sulla
prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le pene
'principali' hanno una
natura lato sensu 'repressiva', ed una finalità rieducativa
(recte, risocializzante),
ai sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha
una natura
intrinsecamente 'repressiva', né persegue finalità
risocializzanti, perseguendo
invece una finalità ripristinatoria dell'assetto del
territorio sulla quale le esigenze
individuali legate all'oblio per il decorso del tempo
risultano necessariamente
soccombenti rispetto alla tutela collettiva di un bene
pubblico
(Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670;
Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv.
227176).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque,
deve negarsi
innanzitutto la natura intrinsecamente penale della
demolizione, ed in secondo
luogo la legittimità di un procedimento analogico, in
assenza dei due presupposti
della lacuna normativa e dell'eadem ratio.
4.4. Non ricorrendo gli estremi di una legittima analogia
legis, secondo i
canoni interpretativi tradizionalmente desunti dall'art. 14
Prel., si deve prendere
in considerazione l'ipotesi che l'operazione 'Interpretativa'
a fondamento
dell'applicazione analogica della prescrizione alla sanzione
della demolizione sia
in realtà frutto di una analogia iuris, nella quale si è
proceduto alla (invero
arbitraria) formulazione ed applicazione di principi
generali dell'ordinamento,
secondo i canoni desunti dall'art. 12 Prel.
E tuttavia anche tale procedimento interpretativo sarebbe
frutto di una
soggettiva ed arbitraria opzione politica dell'interprete,
in assenza di una
inequivocabile lacuna normativa.
Innanzitutto l'analogia iuris presupporrebbe la necessità di
risolvere un
"caso dubbio" -e non sembra il caso dell'estinzione della
sanzione della
demolizione-; in secondo luogo imporrebbe l'individuazione
di un principio
generale applicabile al 'caso dubbio': e non sembra che
l'estinzione di una
sanzione amministrativa (ma neppure penale) per il decorso
del tempo possa
plausibilmente integrare un principio generale
dell'ordinamento, sia nazionale
che sovranazionale.
Va al riguardo sempre rammentato che l'integrazione
dell'ordinamento è
solo residuale e succedanea all'interpretazione, e, se il
caso non è dubbio, non è
necessario ricorrere all'applicazione dei principi, in
quanto è sufficiente
l'applicazione della disposizione scritta.
4.5. Particolarmente attuale appare il monito, espresso
anche da
consapevole dottrina, che il diritto ‘eurounitario', ed in
particolare il diritto
proveniente dalla giurisprudenza-fonte della Corte di
Strasburgo, non venga
adoperato dall'interprete alla stregua di un diritto à la
carte, dal quale scegliere
l'ingrediente ermeneutico ritenuto più adatto ad
un'operazione di precomprensione
interpretativa.
Il distorto utilizzo della giurisprudenza casistica delle
Corti europee, infatti,
può condurre, come nel caso dell'applicazione analogica
della prescrizione alla
demolizione, a compiere una "disanalogia", con la quale si
universalizza
arbitrariamente la portata di un principio affermato in un
determinato contesto.
In realtà, il principale ostacolo al procedimento analogico
adoperato
nell'applicazione della prescrizione alla demolizione
risiede nel limite 'logico' del
tenore lessicale della disposizione di cui all'art. 173 cod.
pen.; una norma
dall'univoco significato letterale, che non consente esiti
ermeneutici contra
legem, e che impedisce la (sovente malintesa)
interpretazione conforme.
Per impedire forme di "normazione mascherata", infatti, il
nostro sistema
costituzionale delle fonti, come interpretato nel diritto
vivente della Corte
costituzionale, ha chiarito, fin dalle c.d. "sentenze
gemelle" (n. 348 e 349 del
2007), che il diritto CEDU non è direttamente applicabile;
il giudice comune,
infatti, ha la sola alternativa di esperire una
interpretazione "convenzionalmente
conforme" della norma nazionale, ove percorribile, ovvero
proporre una
questione di legittimità costituzionale, adoperando il
diritto CEDU quale
parametro interposto di legittimità, ai sensi dell'art. 117
Cost. (Corte Cost. n. 80
del 2011).
Ebbene, nel caso di specie, poiché la norma sulla
prescrizione delle pene non
appare suscettibile né di applicazione analogica, né tanto
meno di
interpretazione 'convenzionalmente conforme', a tanto
ostandovi l'univoco
tenore lessicale (che limita la prescrizione alle pene
'principali'), il giudice
comune, ove avesse avuto un fondato dubbio di
costituzionalità della norma, per
l'omessa previsione di una causa estintiva della
demolizione, in virtù della
ritenuta natura penale della stessa, avrebbe potuto
percorrere l'unica strada
della proposizione di una questione di costituzionalità.
5. Del resto, la Corte di Strasburgo ha di recente ribadito
la legittimità
'convenzionale' della demolizione, allorquando, valutandone
la compatibilità con
il diritto alla abitazione, ha affermato che anche se il suo
unico scopo è quello di
garantire l'effettiva attuazione delle disposizioni
normative che gli edifici non
possono essere costruiti senza autorizzazione, la stessa può
essere considerata
come diretta a ristabilire lo stato di diritto; salvo il
rispetto della proporzionalità
della misura con la situazione personale dell'interessato,
la Corte, richiamando
quanto previsto dall'art. 8, § 2, della Convenzione e.d.u.,
ha ritenuto che, nel
contesto in esame, la misura può essere considerata come
rientrante nella
"prevenzione dei disordini", e finalizzata a promuovere il
"benessere economico
del paese" (Corte EDU, Sez, V, 21/04/2016, Ivanova e
Cherkezov vs, Bulgaria).
Altrettanto importante appare l'affermazione della Corte
e.d.u. laddove
esclude che l'ordine di demolizione contrasti con l'art. 1
del protocollo
n. 1 (protezione della proprietà), con la precisazione che
l'ordine, emesso dopo
un ragionevole lasso di tempo dopo la sua edificazione (per
un precedente, cfr.
il caso Hamer c. Belgio, deciso il 27.11.2007, n.
21861/03), ha l'obiettivo
di garantire il ripristino dello "status quo ante", così
ristabilendo l'ordine
giuridico violato dal comportamento dell'autore dell'abuso
edilizio, e di
scoraggiare altri potenziali trasgressori (§ 75).
6. Va dunque riaffermato il principio di diritto (Sez. 3, n.
49331 del 10/11/2015, Delorier, 265540; analogamente, Sez.
3, n. 9949 del 20/01/2016, Di Scala, non ancora massimata)
secondo cui "la demolizione del
manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai
sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata
altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa,
che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene
giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per
ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive
ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è
in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato
o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e
non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173
cod. pen.". |
VARI: Non
è stalking lanciare escrementi in giardino.
Nei rapporti di vicinato non basta il lancio di escrementi
nel giardino del vicino per fare scattare l'ammonimento del
questore ai sensi della legge sullo stalking. Questo
comportamento, per quanto molesto, non mette a repentaglio
l'incolumità delle persone e può essere inibito con una
semplice diffida da parte degli organi di polizia.
Lo ha evidenziato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la
sentenza
19.08.2016 n. 792.
Un'anziana signora dei
lidi di Comacchio ha preso l'abitudine di salutare l'arrivo
dei villeggianti confinanti lanciando nel loro giardino
delle deiezioni. Le vittime del fastidioso atteggiamento
hanno ripreso l'autrice del lancio con tanto di
documentazione audio-video e hanno inviato alla questura un
esposto con richiesta di ammonimento della nonnina monella.
Il responsabile provinciale dell'ordine e della sicurezza
però ha rigettato questa domanda formale evidenziando che
non si tratterebbe di stalking e quindi la vicenda va
risolta diversamente. In effetti anche per il collegio
bolognese la richiesta di ammonimento ai sensi dell'art. 8
del dl 11/2009 in questo caso è eccessiva perché il lancio
di escrementi nel giardino del vicino non può configurare il
reato previsto e punito dall'art. 612-bis del codice penale.
Non si tratterebbe cioè di una condotta atta a cagionare un
perdurante stato di ansia o di paura per l'incolumità
personale. Al massimo in questo caso possono sorgere timori
di carattere igienico, prosegue la sentenza.
I rapporti di
vicinato sono spesso caratterizzati da condotte moleste che
possono avere le più svariate ragioni ma non sempre
sussistono i presupposti per poter richiedere l'ammonimento.
Questo istituto infatti è stato previsto per condotte più
gravi che mettono a repentaglio l'incolumità delle persone.
Per scoraggiare questo tipo di comportamenti è sufficiente
una diffida da parte dei vigili o della polizia, ai sensi
dell'art. 1 del tulps.
In buona sostanza questo tipo di
atteggiamenti richiede l'intervento della pattuglia per
tentare innanzitutto una bonaria composizione della vicenda.
E in caso di reiterazione scatteranno sanzioni anche di
carattere penale
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Cavi Enel aperti alla fibra.
Coinvolti pochi edifici, non c’è il rischio di posizione
dominante.
Telecomunicazioni. Il Tar di Brescia riafferma l’obbligo di
ospitare reti «minori» a vantaggio di un Comune.
Obbligo di
ospitalità per il gestore delle linee elettriche ai cavi in
fibra ottica: lo impone all’Enel il TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I, con
sentenza 17.08.2016 n. 1114.
La vicenda riguarda il
Comune di Gardone Val Trompia che, con ordinanza del 2015,
aveva ingiunto a Enel Distribuzione di consentire che
un’impresa terza ponesse una rete in fibra ottica al
servizio di edifici comunali: la fibra doveva correre
all’interno dei cavidotti di proprietà Enel situati in
alcune vie, permettendo così, all’impresa incaricata dal
Comune della realizzazione della rete comunale in fibra, di
eseguire la posa in sicurezza.
I cavi in fibra ottica, nel loro insieme, sono
elettricamente inerti e non aumentano il rischio di
elettrocuzione (folgorazione). Il problema, tuttavia, si è
posto in quanto il decreto legislativo 33/2016 facilita
l’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta
velocità, promuovendo l’uso condiviso dell’infrastruttura
fisica esistente (cavidotti), ma condizionandola alla
disponibilità dello spazio e all’assenza di rischi per
l’incolumità, sicurezza, sanità ovvero integrità delle reti.
In particolare, tale condizione è prevista dall’articolo 3,
che regola l’ospitalità.
A monte, la direttiva dell’Unione europea 61/2014 individua
espressamente (nel considerando 13, articolo 2, punto 1ii)
la rete di distribuzione dell’energia elettrica definendola
infrastruttura fisica ospitante. Quindi, gli operatori
titolari delle reti maggiori sono obbligati a dare
ospitalità alle reti minori, salvo rifiuto giustificato: in
altre parole l’ospitalità è un obbligo per gli enti pubblici
e per i gestori dei servizi pubblici.
Su questi princìpi, sopravviene il decreto legislativo del
2016, il quale (articolo 3) consente agli operatori di rete
di rivolgersi all’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni per risolvere in via amministrativa divergenze
con altri operatori di rete circa l’obbligo di ospitalità.
L’Autorità decide fissando condizioni eque e ragionevoli
anche sul prezzo dell'ospitalità (articolo 9, decreto 33).
Secondo il Tar Brescia, questa procedura lascia intatto, per
gli uffici comunali, il potere di accertamento dei
presupposti della “coubicazione” degli impianti. Quindi,
esiste una doppia facoltà, di rivolgersi all’Autorità
garante oppure, in via giurisdizionale, contestare il
rifiuto di ospitalità (articolo 9, comma 6, decreto
33/2016).
È un meccanismo simile a quello che, negli appalti
pubblici, colloca l’Autorità anticorruzione (Anac) a fianco
dei giudici. Quindi, i cavidotti sotterranei già utilizzati
per il passaggio di altri sottoservizi sono opere di
urbanizzazione e sede prioritaria di nuove reti, sicché
secondo il Tar rimane solo un problema tecnico, cioè la
verifica di elementi di incompatibilità tra fibra ottica e
la tecnologia utilizzata per distribuzione dell'energia
elettrica in un determinato segmento della rete elettrica.
Nel caso del Comune bresciano, discutendosi di connettere
solo alcuni edifici comunali, a parere del Tar non emergono
problemi di posizione dominante sul mercato, terreno
insidioso per la presenza di eventuali accordi tra Enel
distribuzione e Telecom: in altri termini, essendo limitato
il tratto di coubicazione, secondo i giudici occorre solo un
confronto tecnico (conferenza di servizi), verificando
l’idoneità dei cavidotti ad ospitare la fibra ottica. La
logica (il minimo impatto) è la stessa che sarà applicata
nei condomini (articolo 8, decreto 33), evitando conflitti
tra privati e operatori di rete che intendano raggiungere
nuovi abbonati (articolo Il Sole 24 Ore del 20.08.2016).
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MASSIMA
5. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sullo strumento dell’ordinanza
6. L’ordinanza impugnata non appartiene al genere delle
ordinanze contingibili e urgenti ex art. 54, comma 4, del
Dlgs. 18.08.2000 n. 267, non sussistendo evidentemente i
presupposti necessari per l’emissione un simile ordine
(gravi pericoli per l'incolumità pubblica e la sicurezza
urbana).
7. È vero che l’ordine dato dal Comune a Enel Distribuzione
non trova una puntuale descrizione come potere di ordinanza
all’interno delle norme che regolano la posa delle
infrastrutture digitali.
8. Questo però non significa che il Comune abbia agito in
carenza di potere. In realtà,
lo strumento dell’ordinanza è
utilizzabile ogni volta che sia necessario dare attuazione a
un obiettivo definito in modo preciso da una norma. Se i
privati non rispettano il divieto di fare, o l’obbligo di
fare o di sopportare, contenuti in una norma, quando si
tratti di una norma che individua chiaramente una categoria
di destinatari, e se questo atteggiamento dei privati può
avere conseguenze negative sull’interesse pubblico descritto
nella norma stessa, l’amministrazione competente alla tutela
del suddetto interesse può intervenire formulando un ordine
individuale al privato perché rispetti il contenuto di tale
norma.
9. Occorre quindi stabilire se, alla data dell’ordinanza
oggetto di impugnazione, vi fosse l’obbligo per Enel
Distribuzione di consentire l’utilizzo dei propri cavidotti
per la posa della rete in fibra ottica di un gestore di
servizi di telecomunicazione, e se l’amministrazione
comunale avesse la competenza per imporre l’esecuzione di
tale obbligo.
Sulla coubicazione delle reti di servizi pubblici
10. La risposta al primo quesito è affermativa.
Le norme
nazionali e comunitarie hanno individuato da tempo un
interesse pubblico allo sviluppo delle reti in fibra ottica
(v. art. 2 del DL 112/2008)
e alla diffusione della banda
larga ad alta velocità
(v. considerando n. 1 e 2 della Dir.
2014/61/UE).
Per il raggiungimento del predetto obiettivo
sia la normativa nazionale sia quella comunitaria
stabiliscono un obbligo strumentale, imponendo a ogni
concessionario di servizi pubblici di ospitare nella propria
infrastruttura fisica le reti in fibra ottica
(v. art. 2
comma 2 del DL 112/2008; art. 3 par. 2 della Dir.
2014/61/UE).
11. In via generale, inoltre,
i soggetti pubblici non
possono opporsi all’installazione nella loro proprietà di
impianti interrati in fibra ottica, tranne quando si tratti
di beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello
Stato, delle regioni, delle province e dei comuni, e
l’installazione possa arrecare concreta turbativa al
pubblico servizio
(v. art. 2, comma 14, del DL 112/2008).
Nel
contesto, per soggetti pubblici svolgenti un pubblico
servizio si devono intendere anche i concessionari di
servizi pubblici.
12.
Le infrastrutture destinate all'installazione di
impianti in fibra ottica sono assimilate a ogni effetto alle
opere di urbanizzazione primaria di cui all’art. 16, comma 7,
del DPR 06.06.2001 n. 380
(v. art. 2, comma 5, del DL
112/2008). Ne consegue che,
per definizione legislativa, la
rete in fibra ottica è un’opera di urbanizzazione primaria
che si inserisce all’interno di un’altra opera di
urbanizzazione primaria (nello specifico, la rete di
distribuzione dell'energia elettrica).
13. Il servizio pubblico gestito da Enel Distribuzione non
ha caratteristiche di specialità tali da fuoriuscire dal
perimetro regolatorio sopra delineato. Le formule utilizzate
nella normativa nazionale sono in grado di ricomprendere
anche i cavidotti del servizio di distribuzione dell’energia
elettrica. La Dir. 2014/61/UE individua espressamente (v.
considerando n. 13; art. 2 punto 1-ii) la rete di
distribuzione dell’energia elettrica come infrastruttura
fisica ospitante.
14. In questo quadro,
poiché gli operatori titolari delle
reti maggiori sono obbligati dare ospitalità alle reti
minori, salvo rifiuto giustificato, e poiché un rifiuto
ingiustificato rappresenta un’ostruzione al raggiungimento
di un interesse pubblico nazionale e comunitario, è
legittimo l’utilizzo di uno strumento autoritativo per
superare le resistenze di una delle parti coinvolte.
Sulla competenza comunale
15.
L’autorizzazione alla posa della fibra ottica nelle
infrastrutture di un altro operatore di rete rientra tra i
poteri di cui sono investiti i comuni. Questi ultimi sono
infatti competenti a ricevere e a valutare tutte le denunce
di inizio attività relative alle infrastrutture in fibra
ottica
(v. art. 2, comma 4, del DL 112/2008).
In queste
comunicazioni sono indicate anche le infrastrutture civili
esistenti da utilizzare ai sensi dell’art. 2, comma 2, del DL
112/2008 per la posa della fibra ottica. Gli uffici comunali
possono inibire l’effetto della denuncia di inizio attività
solo in assenza di una o più delle condizioni legittimanti,
oppure qualora esistano specifici motivi ostativi di
sicurezza, incolumità pubblica o salute
(v. art. 2, comma 10,
del DL 112/2008).
16.
Poiché tra le condizioni legittimanti non rientra
l’assenso dell’operatore della rete ospitante
(essendo
l’ospitalità un obbligo ex lege per gli enti pubblici e per
i gestori di servizi pubblici),
e poiché le controversie
economiche tra chi chiede e chi nega l’ospitalità non
possono ritardare lo svolgimento dei lavori
(v. art. 2 comma
2 del DL 112/2008),
l’approvazione della denuncia di inizio
attività da parte degli uffici comunali accerta anche la
soccombenza dell’opposizione del gestore della rete
ospitante.
17.
Per superare il successivo atteggiamento di inerzia
dell’operatore della rete ospitante, che vanifica la
posizione giuridica dell’altro operatore riconosciuta come
fondata dall’amministrazione comunale, quest’ultima può
utilizzare lo strumento dell’ordinanza. Resta ferma la
possibilità dell’operatore della rete ospitata di tutelarsi
autonomamente in via giurisdizionale, anche contro
l’eventuale silenzio dell’amministrazione di fronte
all’ostruzionismo dell’operatore della rete ospitante.
18. Su questo meccanismo autorizzatorio è intervenuta in
corso di causa la disciplina del Dlgs. 15.02.2016 n.
33, che ha introdotto la facoltà per gli operatori di rete
di rivolgersi all'Autorità per le Garanzie nelle
Comunicazioni (AGCOM) allo scopo di risolvere in via
amministrativa le divergenze con gli altri operatori di rete
circa l’obbligo di ospitalità (v. art. 3, comma 5, del Dlgs.
33/2016). Nel termine di due mesi l’AGCOM emette una
decisione vincolante, fissando condizioni eque e
ragionevoli, anche sul prezzo dell’ospitalità (v. art. 9,
comma 2, del Dlgs. 33/2016).
19. Peraltro, l’innovazione normativa non cancella la
competenza comunale sulla denuncia di inizio attività. È
vero, infatti, che è stato abrogato il comma 2 dell’art. 2
del DL 112/2008 sull’obbligo di prestare ospitalità
(riformulato e precisato nell’art. 3 del Dlgs. 33/2016, in
conformità all’art. 3 par. 2 e 3 della Dir. 2014/61/UE).
Sono però rimasti invariati i commi 4, 5, 10 e 14 dell’art.
2 del DL 112/2008 sulla procedura di autorizzazione alla
posa della fibra ottica, e dunque permane in capo agli
uffici comunali il potere di accertamento dei presupposti
della coubicazione degli impianti. A questo punto, nella
nuova disciplina, una delle parti può attivare un
subprocedimento davanti all’AGCOM, oppure ricorrere subito
in via giurisdizionale contro il rifiuto di ospitalità (v.
art. 9, comma 6, del Dlgs. 33/2016).
Nulla impedisce,
naturalmente, che l’AGCOM sia interpellata prima del
deposito della denuncia di inizio attività. L’attivazione
del subprocedimento davanti all’AGCOM nel corso della
procedura davanti agli uffici comunali comporta
necessariamente la sospensione di quest’ultima. La decisione
dell’AGCOM sull’obbligo di ospitalità è vincolante anche ai
fini della pronuncia degli uffici comunali, potendo essere
messa in discussione solo in via giurisdizionale (v. art. 9,
comma 5, del Dlgs. 33/2016).
20. La nuova disciplina, applicabile con decorrenza 01.07.2016 (v. art. 15, comma 1, del Dlgs. 33/2016), non può essere
invocata nel presente giudizio, che si è radicato con
riferimento a situazioni sostanziali e procedurali esaurite
nella vigenza della vecchia normativa.
Sul rifiuto di
ospitalità
21.
Il rifiuto di Enel Distribuzione non può essere
giustificato sulla base dell’art. 3, comma 3, del DM 01.10.2013. Al contrario, tale norma individua nei cavidotti
sotterranei già utilizzati per il passaggio di altri
sottoservizi la sede prioritaria delle nuove infrastrutture
digitali. Il problema è quindi soltanto tecnico, ossia se vi
siano in concreto elementi di incompatibilità tra la fibra
ottica e la tecnologia utilizzata per la distribuzione
dell’energia elettrica in un determinato segmento della rete
elettrica.
22. Restano invece del tutto estranee alla possibilità di
motivare il rifiuto sia le questioni circa il mercato della
banda larga in generale sia le relazioni commerciali
intercorrenti nello specifico tra il Comune e Intred spa.
Del resto, appare evidente che la coubicazione chiesta da
Intred spa per il collegamento di alcuni edifici comunali
non ha alcun peso sull’evoluzione della banda larga, né a
livello nazionale né a livello locale.
In proposito si può
anzi osservare che una posizione dominante sul mercato
potrebbe essere assunta proprio da Enel Distribuzione,
attraverso accordi come quello con Telecom Italia sopra
richiamato, il quale prevede appunto lo sviluppo su ampia
scala della rete in fibra ottica all’interno delle
infrastrutture elettriche.
23. Pertanto,
l’unico (limitato) profilo sotto cui le
preoccupazioni di Enel Distribuzione possono trovare
accoglimento consiste nella verifica, in contraddittorio,
dell’idoneità dei cavidotti in esame a ospitare la fibra
ottica. Il Comune ha già raccolto documentazione tecnica a
sostegno della propria posizione.
È ora necessario, come già
osservato in sede cautelare (v. ordinanza n. 413 del 24.03.2015), che il confronto con Enel Distribuzione si procedimentalizzi attraverso un confronto tecnico, nella
forma della conferenza di servizi aperta alla partecipazione
di Intred spa, con la presenza degli esperti e dei tecnici
di fiducia delle parti. La finalità del suddetto confronto
riguarda l’analisi delle condizioni tecniche per la posa e
il mantenimento della fibra ottica nei cavidotti indicati
dal Comune, compresa la tempistica dei lavori.
Rimangono
invece estranee a questo supplemento istruttorio eventuali
questioni economiche, tenendo conto della circostanza che
Enel Distribuzione (v. pag. 23 del ricorso) non ha
subordinato la posa della fibra ottica a un corrispettivo
monetario.
Conclusioni
24. Il ricorso deve quindi essere accolto parzialmente, nel
senso che il provvedimento impugnato è annullato soltanto
nella parte in cui stabilisce la data di posa della fibra
ottica nei cavidotti.
25. L’effetto conformativo della pronuncia vincola il Comune
a indire, e a concludere, la sopra descritta procedura di
confronto tecnico nel termine di 90 giorni dal deposito
della presente sentenza.
Successivamente a tale termine, il
Comune potrà adottare una nuova ordinanza di diffida nei
confronti di Enel Distribuzione, motivata in relazione alle
risultanze del confronto tecnico, e, se necessario,
integrata da ulteriori controdeduzioni o prescrizioni. |
PUBBLICO IMPIEGO: Spacciarsi
per un poliziotto costituisce reato.
Spacciarsi per un poliziotto è un reato.
Lo afferma la V Sez. penale della Corte di Cassazione,
nella
sentenza
16.08.2016 n. 34894, che ha esaminato il ricorso di un
uomo, La Mo. Lu., condannato nel 2015 a 10 mesi e 20 giorni di
carcere dalla Corte d'appello di Bolzano per aver utilizzato
un falso distintivo della polizia spacciandosi per agente
così da intimare a Maria S., una cittadina straniera, di
spostare l'automobile altrimenti avrebbe annotato la targa e
rimosso l'automobile.
La donna, accortasi dell'inganno e dell'improbabile
distintivo, «per il comportamento tenuto dal falso
poliziotto che non si era qualificato correttamente, non
comunicando nome, cognome e grado, come richiestogli e, poi,
per la custodia apparsa troppo consumata per essere vera
agli occhi della malcapitata», si era recata dalla
polizia (quella vera) per sporgere querela.
L'uomo ha presentato ricorso in Cassazione spiegando il suo
atteggiamento come un «falso innocuo», perché appunto
la donna si accorse subito della simulazione, quindi non
avrebbe subìto alcun danno in merito. Ma i giudici hanno
sentenziato come il ricorso sia «inammissibile, generico
e comunque manifestamente infondato», perché l'articolo
497-ter del codice penale punisce «chiunque illecitamente
detiene segni distintivi, contrassegni o documenti di
identificazione in uso ai corpi di polizia, ovvero oggetti o
documenti che ne simulano la funzione».
E oltre al rigetto, infine, il falso agente dovrà pagare
1.000 euro per le spese processuali
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2016). |
VARI: Lavoratori
furbetti, investigatore valido.
Validi gli 007 in azienda per smascherare i lavoratori
furbetti.
A stabilirlo la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella
sentenza
16.08.2016 n. 17113, in cui i porporati hanno esaminato
il ricorso di un uomo, che nel 2012 è stato licenziato da
un'azienda gelese per simulazione fraudolenta del suo stato
di malattia, con tanto di certificato medico.
Nel febbraio 2015 la Corte d'appello di Caltanissetta
rigettò il ricorso, presentato nel gennaio 2014,
specificando che «dal materiale probatorio acquisito,
anche attraverso filmati e fotografie nonché mediante
deposizione testimoniale di un agente investigativo,
risultasse accertato l'addebito», oltre al fatto che
fosse stata evidenziata «tutta una serie di azioni e
movimenti del tutto incompatibili con la sussistenza della
malattia», ovvero una lombalgia.
Il lavoratore però ha presentato ricorso in Cassazione,
criticando le modalità di verifica dell'azienda, che avrebbe
violato sia lo Statuto dei lavoratori che la legge sulla
privacy, ritenendo inammissibile «che la ricerca degli
elementi utili a verificare l'attendibilità della
certificazione medica inviata dal lavoratore era stata
compiuta da un'agenzia investigativa incaricata dal datore
di lavoro».
I giudici di piazza Cavour, esaminando il ricorso, non hanno
accolto le motivazioni dell'uomo che poggiavano sulle norme
dello Statuto, le quali «non precludono che le risultanze
delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in
genere degli accertamenti di carattere sanitario, possano
essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di
fatto atta a dimostrare l'insussistenza della malattia, o la
non idoneità di quest'ultima, a determinare uno stato di
incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l'assenza».
Pieni poteri quindi al datore di lavoro che, sospettando di
un dipendente furbetto, può «prendere conoscenza di
comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo
svolgimento dell'attività lavorativa, sono rilevanti sotto
il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni
derivanti dal rapporto di lavoro», il quale «può
ricorrere alla collaborazione di soggetti (come nella specie
un'agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari
giurate per la tutela del patrimonio aziendale».
La Cassazione però ha accolto solo un motivo del ricorso
dell'uomo, quello in cui lamenta dei vizi di forma. La Corte
nissena ha evidenziato come ordinatorio l'art. 8 c. 4 dello
Statuto, che spiega come «se il provvedimento non verrà
comminato entro i sei giorni successivi a tali
giustificazioni, queste si riterranno accolte», perché «la
contestazione dell'addebito non richiede l'osservanza di
schemi prestabiliti e rigidi, assolvendo esclusivamente alla
funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare
pienamente il proprio diritto di difesa».
Con il licenziamento quindi spetterà al giudice attribuire
al lavoratore, come indennità di licenziamento, «da un
minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità dell'ultima
retribuzione»
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato inganna cliente, non c’è la «lieve tenuità».
Impunità esclusa anche se il danno è minimo e il legale
incensurato.
Cassazione. Niente applicazione dell’articolo 131-bis per
chi lucra sulla parcella.
All’avvocato che fa pagare al cliente una parcella per
un’attività mai svolta non può essere applicata la
particolare tenuità del fatto. Neppure se la somma lucrata è
minima e il legale è incensurato: a rendere impossibile
l’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale è la
lesione al vincolo di fiducia che lega l’assistito al
proprio difensore.
Con la
sentenza 16.08.2016 n. 34887,
la Corte di cassazione -Sez. feriale penale- respinge il ricorso di
un avvocato condannato per truffa (articolo 640 del Codice
penale ) ai danni del proprio assistito.
Il legale aveva chiesto e ottenuto una somma per una
denuncia che affermava di aver depositato in Procura, per
poi ritirarla in un secondo momento. Circostanza che in
realtà non si era verificata: la denuncia non era mai stata
fatta e, ovviamente, mai ritirata.
Il ricorrente ha tentato di giocarsi la carta della
particolare tenuità del fatto. La norma, introdotta con il
Dlgs 28/2015, consente di restare “impuniti” a particolari
condizioni: quando l’offesa è particolarmente tenue, la pena
resta sotto il minimo edittale dei cinque anni, e il reato
non è abituale. Requisiti che il legale riteneva di
possedere.
La Cassazione spiega però che il beneficio è stato
correttamente negato dalla Corte d’appello, perché quello
che pesa è il "tradimento” della fiducia che l’assistito
ripone nel difensore.
La condotta sotto esame è stata, infatti, realizzata nel
contesto del delicatissimo ed assai rilevante rapporto
fiduciario avvocato-cliente. La lesione non può essere
considerata né trascurabile né marginale, a prescindere
dall’importo lucrato con il reato, perché sono state
disattese le aspettative e l’affidamento della parte lesa.
Per la Suprema corte, si è trattato di un’azione
rimarchevole, grave e intrinsecamente dotata di una carica
di offensività penale palese, anche perché consumata
nell’esercizio della professione forense a danno di un
soggetto che con fiducia aveva chiesto aiuto legale ad un
professionista del settore.
Ma non basta. I giudici della sezione feriale valorizzano
anche la percezione che del reato si può avere all’esterno.
«Si è trattato inoltre -si legge nella sentenza- di
un’azione dotata di un tasso di partecipazione psicologica e
soggettiva, in capo al prevenuto, intenso, francamente
incompatibile con la previsione e con i parametri normativi
delineati dall’articolo 131-bis del Codice penale, pensati
ovviamente per episodi minimali, realmente blandi e
percepiti o percepibili dai destinatari della sanzione
penale e dalla collettività dei consociati come tali».
Nulla da fare, dunque, per evitare una condanna che arriva
malgrado le attenuanti dell’incensuratezza e della esiguità
del danno siano state considerate dei giudici di merito
prevalenti sull’aggravante, di aver commesso il fatto
nell’ambito di una prestazione d’opera (articolo 61, numero
11, del Codice penale) (articolo Il Sole 24 Ore del 17.08.2016). |
VARI: Finta malattia, il certificato non basta.
Gli accertamenti sanitari prodotti dal lavoratore
contestabili dall’azienda.
Licenziamenti. Valido il recesso se esistono elementi
oggettivi che provano l’inesistenza della patologia
denunciata.
Il certificato
medico non basta ad attestare l’esistenza della malattia del
lavoratore quando esistono elementi oggettivi che provano
l’inesistenza della patologia denunciata dal dipendente come
motivo per assentarsi dal lavoro.
La Corte di Cassazione (Sez. lavoro -
sentenza
16.08.2016 n. 17113) torna ad affrontare la
spinosa questione della valenza che assumono i certificati
medici quando il dipendente tiene una condotta palesemente
incompatibile con la malattia accertata dal medico curante.
La vicenda al vaglio dei giudici di legittimità riguarda un
lavoratore licenziato per «simulazione fraudolenta dello
stato di malattia»; il licenziamento era stato intimato in
quanto l’azienda aveva accertato che aveva compiuto tutta
una serie di azioni e movimenti incompatibili con la
malattia che lo stesso aveva dichiarato di avere: una
lombalgia.
Il dipendente aveva impugnato il recesso, facendo leva
sull’esistenza di una documentazione medica attestante
l’esistenza della patologia denunciata. La Corte di
cassazione -confermando le pronunce dei giudici di merito-
ritiene valido il licenziamento, facendo presente (come già
affermato in alcune decisioni precedenti, la n. 6236/2001 e
la più recente n. 25162/2014) che le certificazioni mediche
e gli accertamenti sanitari prodotti dal lavoratore possono
essere contestate dall’azienda.
Tali contestazioni, osserva la Corte, non devono basarsi
necessariamente su accertamenti medici contrari a quelli
forniti dal dipendente, ma possono essere fondate anche su
elementi di fatto: in questo contesto la credibilità della
certificazione può venire meno ogni volta che esistano
elementi di fatto capaci di dimostrare l’inesistenza della
malattia o, comunque, la sua inidoneità a impedire la
prestazione lavorativa.
La sentenza ricorda anche che, per giurisprudenza costante,
il datore di lavoro ha facoltà di investigare sulle condotte
del dipendente estranee allo svolgimento della prestazione
lavorativa se queste possono incidere negativamente sul
corretto adempimento della prestazione lavorativa. In
quest’ottica, la Corte ricorda che il datore di lavoro può
incaricare un’agenzia investigativa di seguire il dipendente
assente per malattia allo scopo di verificare se la
certificazione medica inviata per motivare l’assenza sia
attendibile oppure no, anche se non c’è la certezza di un
illecito ma esiste solo un semplice sospetto circa la
commissione di atti non regolari.
L’unico limite che incontra tale facoltà riguarda
l’adempimento diretto della prestazione lavorativa, il cui
controllo spetta direttamente al datore di lavoro e ai suoi
collaboratori e non può essere delegato a soggetti esterni.
La pronuncia potrà agevolare la repressione dei casi di
assenteismo agevolati da certificazioni mediche troppo
generose, in quanto consente di andare oltre queste
certificazioni quando la realtà è oggettivamente diversa da
quanto attestato dal medico (articolo Il Sole 24 Ore del 17.08.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Prestazione
difensiva unitaria. Il diritto al compenso matura al termine
dell'incarico. La Corte di cassazione sulla deducibilità dei
costi legati all'assistenza legale.
In materia di prestazioni professionali vige la regola della
postnumerazione (artt. 2225 e 2233 c.c.), secondo la quale
il diritto al compenso pattuito matura una volta posta in
essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il
risultato a cui la prestazione è diretta. La prestazione
difensiva ha, quindi, carattere unitario. Unitarietà che
deve essere rapportata ai singoli gradi in cui si è svolto
il giudizio e quindi al momento della pronuncia che conclude
ciascun grado. Aveva, pertanto, errato il giudice di merito
che aveva invece riconosciuto il diritto del professionista
all'immediata percezione del compenso per ogni singola
prestazione, dove la prestazione veniva intesa come singolo
atto difensivo. Il corrispettivo della prestazione del
professionista e la relativa spesa si considerano invece
rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione
è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della
cessazione dell'incarico professionale.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
11.08.2016 n.
16969.
Nel caso di specie, secondo l'amministrazione finanziaria
ricorrente, i costi per prestazioni di assistenza legale,
per attività svolta per causa ancora pendente, non erano
deducibili, dovendo questi essere considerati sostenuti solo
alla definitiva ultimazione delle prestazioni e cioè solo a
conclusione della controversia giudiziaria.
Il motivo di impugnazione, secondo i giudici di legittimità,
era fondato, come anche confermato dal fatto che gli onorari
di avvocato debbono essere liquidati in base alla tariffa
vigente nel momento in cui la prestazione è condotta a
termine e dal fatto che, ai sensi dell'art. 2957 c.c., la
prescrizione del diritto dell'avvocato al compenso decorre
dal momento dell'esaurimento dell'affare per il cui
svolgimento fu conferito l'incarico dal cliente.
Tale regola è mitigata soltanto da un duplice ordine di
diritti del professionista: quello all'anticipo delle spese
occorrenti all'esecuzione dell'opera e quello all'acconto,
da determinarsi secondo gli usi sul compenso da percepire
una volta portato a termine l'incarico professionale
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).
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MASSIMA
Il motivo è fondato.
In materia di prestazioni professionali vige la regola della
postnumerazione (artt. 2225 e 2233 c.c.), secondo la quale
il diritto al compenso pattuito si matura una volta posta in
essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il
risultato a cui la prestazione è diretta (regola mitigata da
un duplice ordine di diritti del professionista: quello
all'anticipo delle spese occorrenti all'esecuzione
dell'opera e quello all'acconto, da determinarsi secondo gli
usi sul compenso da percepire una volta portato a termine
l'incarico - Cass. 10.11.2006, n. 24046).
La prestazione difensiva ha così carattere unitario e ciò
importa che gli onorari di avvocato debbano essere liquidati
in base alla tariffa vigente nel momento in cui la
prestazione è condotta a termine per effetto
dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico
professionale, unitarietà che va rapportata ai singoli gradi
in cui si è svolto il giudizio, e quindi al momento della
pronunzia che chiude ciascun grado (fra le tante Cass.
03.08.2007, n. 17059).
Ulteriore manifestazione dell'unitarietà della prestazione è
la decorrenza della prescrizione. Ai sensi dell'art. 2957
c.c. la prescrizione del diritto dell'avvocato al compenso
decorre dal momento dell'esaurimento dell'affare per il cui
svolgimento fu conferito l'incarico dal cliente (Cass.
30.06.2015, n. 13401).
Ha quindi errato il giudice di merito che ha riconosciuto il
diritto del professionista all'immediata percezione del
compenso per ogni singola prestazione, dove prestazione,
essendo indipendente dalla decisione della lite, va inteso
come singolo atto.
Il giudice tributario dovrà uniformarsi al seguente
principio di diritto:
il corrispettivo della prestazione del professionista legale
e la relativa spesa si considerano rispettivamente
conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a
termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione
dell'incarico professionale. |
ENTI
LOCALI - VARI:
Verbali multe, l'ufficio ha più tempo per
presentare le carte. Risolto uno dei
nodi delle cause di impugnazione.
Più chance alla difesa delle multe. La p.a. ha più tempo per
presentare i documenti relativi ai verbali. Anche oltre il
termine di dieci giorni prima dell'udienza, previsto dalle
norme processuali, che deve, dunque, considerarsi non
perentorio.
La Corte di Cassazione - Sez. VI civile (sentenza
09.08.2016 n. 16853) ha così risolto uno dei nodi delle cause di
impugnazione di verbali e ordinanze.
Nel caso specifico un automobilista ha impugnato una
sanzione relativa a una infrazione alla segnalazione di
semaforo rosso, in orario in cui il segnalatore avrebbe
dovuto rimanere spento.
Nel giudizio è emersa la questione della tardività dei
documenti presentati, anche con fax, dalla prefettura a
sostegno del verbale.
L'estromissione dei documenti avrebbe comportato la vittoria
dell'automobilista, per mancanza di prova dell'infrazione.
Secondo l'interessato, in base alla legge processuale
relativa alle opposizioni a verbali e ordinanze (art. 7 dlgs
150/2011), i documenti, a pena di decadenza, devono essere
presentati in giudizio al più tardi entro il decimo giorno
precedente l'udienza. Questo perché il dlgs 150/2011 estende
ai processi sulle sanzioni amministrative il rito del
lavoro, disciplinato nel codice di procedura civile.
E in
questo rito c'è effettivamente il termine di dieci giorni
per la costituzione in giudizio: entro tale termine la parte
interessata deve svolgere le difese sulle questioni non
rilevabili d'ufficio dal giudice, altrimenti decade;
inoltre, sempre entro i dieci giorni, si devono indicare i
mezzi di prova e depositare i documenti, altrimenti la
regola è che le prove e i documenti presentati
successivamente sono inammissibili e non se ne può tenere
conto ai fini della decisione.
La Cassazione è stata di diverso parere. Vediamo perché.
Innanzitutto una premessa di carattere storico.
Prima del dlgs 150/2011 era vigente la legge 689/1981, che
prevedeva, per il deposito da parte della p.a. dei documenti
relativi ai verbali, il termine di dieci giorni: tale
termine è sempre stato unanimemente ritenuto non perentorio.
Bisogna però vedere se l'orientamento precedente trova
appigli nelle nuove norme.
La sentenza analizza, dunque, il dlgs 150/2011 e scopre
un'apparente ripetizione. L'articolo 7 del dlgs 150/2011 in
un comma, il settimo, indica il termine (dieci giorni) per
il deposito in giudizio della documentazione inerente il
verbale e, in un altro comma, il primo, attraverso il
richiamo del rito del lavoro, rende applicabile l'articolo
416 codice procedura civile, che pure prevede un termine
(dieci giorni) per le difese e, quindi, per il deposito dei
documenti.
Nel dettaglio, secondo il comma settimo, il giudice, nel
fissare l'udienza, deve ordinare all'autorità che ha emesso
il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria,
dieci giorni prima dell'udienza fissata, copia del rapporto
con gli atti relativi all'accertamento, nonché alla
contestazione o notificazione della violazione.
Nel primo comma, nel recepire il rito del lavoro, si
estendono alla p.a. le norme sulla costituzione in giudizio,
con deposito di memoria almeno dieci giorni prima
dell'udienza, nelle quali indicare tutte le difese e
allegare i documenti difensivi.
Il problema è se siamo di fronte a un doppione. Per la
Cassazione la risposta è no, considerando che, proprio il
dlgs 150/2011 (articolo 7, comma 1), per le cause sui
verbali, richiama sì il rito del lavoro, ma solo se «non
diversamente disposto» dal medesimo decreto.
La sentenza, allora, ritiene che il dlgs 150/2011, al comma
settimo, abbia previsto una specifica regolamentazione del
regime del deposito dei soli atti strettamente collegati
all'atto sanzionatorio.
Questo, dunque, con una deroga al rito del lavoro. Quindi,
per gli atti strettamente relativi al verbale, il termine è
quello di dieci giorni dell'articolo 7, comma 7, del dlgs
150/2011 (e non quello, perentorio, dell'articolo 416 del
codice di procedura civile).
Rimane, però, il quesito e cioè se, a sua volta, il termine
di dieci giorni abbia o meno natura perentoria. Secondo la
cassazione il termine non è perentorio e il suo decorso non
comporta una decadenza: questo sia perché non è previsto
espressamente il contrario, sia per dare un seguito agli
orientamenti consolidati sulla cassazione sulla natura del
termine, nella specifica materia e nella vigenza della
precedente normativa.
Secondo la pronuncia in commento, quindi, si deve
considerare che il processo sui verbali necessita di
adattamenti, «specie per quanto riguarda la produzione in
giudizio della documentazione della stessa amministrazione»:
solo così, infatti, si dà la possibilità al giudice di
conoscere tutto ciò che è stato accertato e valutato
dall'amministrazione ai fini della adozione e notifica
dell'atto sanzionatorio.
Attenzione, però, a non far dire alla sentenza cose che non
dice. La pronuncia riguarda solamente il deposito di
documenti strettamente inerenti il verbale (cosa diversa,
per esempio, dalla costituzione in giudizio e dalla
formulazione di eccezioni non rilevabili d'ufficio). Salvo
la norma sul deposito dei documenti strettamente inerenti
l'atto impugnato (e le altre deroghe espresse contenute
negli articoli 2, 6 e 7 del dlgs 150/2011), per tutto il
resto, si applica il rito del lavoro.
I principi della sentenza in commento valgono per le cause
sui verbali per contravvenzioni amministrative e per le
cause sulle ordinanze ingiunzioni nella medesima materia,
sia per violazioni del codice della strada sia per altri
tipi di illeciti (articoli 6 e 7 del dlgs 150/2011)
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Revocazione, strada in discesa. Riproposizione
dei motivi di ricorso.
L'esistenza di un motivo di ricorso, non esaminato dal
giudice di primo grado, in quanto espressamente ritenuto
assorbito dall'accoglimento di altro motivo, ma
espressamente riproposto in appello, e nondimeno in quella
sede ancora dichiarato assorbito per la stessa ragione,
costituisce un fatto processuale la cui affermata (o
supposta) inesistenza, contrariamente all'evidenza,
costituisce errore di fatto percettivo idoneo a condurre
alla revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c., ove immediatamente
percepibile dagli atti e decisivo.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
09.08.2016 n. 16798.
Nel caso di specie la ricorrente lamentava che la
sentenza (della stessa suprema Corte) per la quale proponeva
revocazione, nell'accogliere l'unico motivo di ricorso
proposto dall'ufficio, aveva omesso di prendere in esame gli
ulteriori tre motivi posti a fondamento del ricorso
introduttivo, e che, riproposti in appello, erano stati
dichiarati assorbiti dalla Ctr ed erano stati altresì
riproposti con il controricorso per cassazione.
La decisività dell'errore era nella specie evidente, in
quanto, ove la Corte avesse tenuto presente l'esistenza dei
detti motivi, rimasti assorbiti nel precedente gradi di
merito, una volta accolto il ricorso della parte rimasta
soccombente, con ciò escludendo la fondatezza dell'unico
motivo esaminato nel merito, non avrebbe potuto decidere nel
merito, ma avrebbe dovuto rinviare al giudice a quo,
al fine di risolvere la parte residua della controversia
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Con l’esposto anonimo scatta il sequestro.
Indagini penali. Basta che la polizia giudiziaria trovi un
minimo riscontro alla notitia criminis.
Una denuncia anonima può bastare a far scattare
perquisizioni e sequestri: è sufficiente che la polizia
giudiziaria, dopo la ricezione dell’esposto, abbia svolto
quel minimo di attività necessaria ad acquisire la notitia
criminis, per poi dar tempestivamente seguito
all’accertamento della prova di cui il sequestro è lo
strumento principe.
La Corte di cassazione -VI Sez. penale,
sentenza 04.08.2016 n. 34450-
scioglie le briglie degli investigatori allargando i paletti
dell’articolo 240 del Codice di procedura («I documenti
che contengono dichiarazioni anonime non possono essere
acquisiti né in alcun modo utilizzati, salvo che
costituiscano corpo del reato o provengano comunque
dall’imputato»).
Il caso arrivato al giudizio di legittimità riguardava
l’inchiesta della procura di Ancona contro un dipendente
pubblico che nel dicembre scorso aveva caricato sul social
media Facebook una serie di post offensivi verso il
presidente della Repubblica e di vilipendio della nazione
italiana (articoli 278 e 291 del Codice penale).
L’uomo, un quarantenne del posto, era stato denunciato con
un esposto anonimo e dopo poco si era trovato la polizia
giudiziaria in casa e al lavoro per vedersi sequestrare il
telefono cellulare, una pen drive e gli hard disk
dei due computer in uso. Immediata l’impugnazione davanti al
Riesame, con esito negativo, e quindi il ricorso in
Cassazione per lamentare l’utilizzo improprio del sequestro
probatorio, fondato appunto su una “delazione”
anonima.
Anche la Suprema Corte ha però validato le iniziative
adottate nell’indagine preliminare -cioè i sequestri- in
quanto orientate ad «assicurare le fonti di prova».
In questo contesto, scrive la Sesta sezione, «si è in
presenza di una fonte valida a stimolare l’attività di
indagine d’iniziativa della polizia giudiziaria», pg che
proprio sulla base dell’esposto aveva subito riscontrato la
notitia criminis sul profilo Facebook riferibile alla
persona finita sotto indagine. E per trovare ulteriori
riscontri all’ipotesi di reato, e soprattutto sulla
responsabilità dell’indagato, la procura aveva
immediatamente avviato la rogatoria internazionale per
ottenere i dati in possesso del gestore del servizio di
social media.
Se è vero che una denuncia anonima non può essere posta a
fondamento di atti tipici di indagine, scrive l’estensore, «e
quindi non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri
e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che
implicano e presuppongono indizi di reità», è altresì
vero che gli elementi contenuti nell’anonimo «possono
stimolare l’attività del pubblico ministero e della polizia
giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a
verificare se dall’anonimo possano ricavarsi elementi utili
per l’individuazione di una notitia criminis» (articolo Il Sole 24 Ore del 05.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Scia semplifica il commercio. Niente
comunicazione al comune per chiudere l'attività.
Le novità del dlgs che ha avuto l'ok di
palazzo Spada. Incentivi alle bonifiche da parte di terzi.
Basterà la Scia anche per aprire o trasferire la sede di
esercizi commerciali che somministrano alimenti e bevande
(comprese quelle alcoliche) in zone soggette a tutela.
Abolita la comunicazione al comune della cessazione
dell'attività degli esercizi di vicinato, nonché delle medie
e grandi strutture di vendita. Per le attività soggette ad
autorizzazione di pubblica sicurezza, la Scia produrrà gli
effetti dell'autorizzazione, anche ai fini ispettivi. Mentre
per quanto riguarda il settore ambientale, vengono
incentivate le bonifiche da parte di terzi, ossia di
soggetti diversi da quelli che hanno contaminato i siti.
Lo schema di decreto legislativo sulla cd «Scia 2» che ha
ricevuto l'ok dal Consiglio di stato nel
parere
04.08.2016 n. 1784 (si veda ItaliaOggi di ieri) introduce
rilevanti novità non solo nel campo delle autorizzazioni
edilizie, ma anche nel commercio, nella pubblica sicurezza e
nel settore ambientale.
Commercio
La bozza di dlgs semplifica il regime per l'apertura o il
trasferimento di sede degli esercizi commerciali che
somministrano alimenti e bevande (comprese quelle alcoliche)
in zone soggette a tutela. Per tutte queste tipologie di
pratiche basterà la Scia. Inoltre, viene abolita la
comunicazione al comune della cessazione dell'attività degli
esercizi di vicinato, nonché delle medie e grandi strutture
di vendita.
L'applicabilità della Scia, precisa tuttavia il Consiglio di
stato, resta esclusa per taluni procedimenti per i quali
siano previsti specifici strumenti di programmazione
settoriale, come il commercio nelle medie e grandi strutture
di vendita e la somministrazione di alimenti e bevande, per
i quali la legislazione prevede di norma un regime
autorizzatorio, che risponde alle regole di una
programmazione settoriale basata su criteri individuati
dalle regioni e dai comuni.
Pubblica sicurezza
Per le attività soggette ad autorizzazione di pubblica
sicurezza, la Scia produrrà gli effetti dell'autorizzazione,
anche ai fini ispettivi. La ratio è chiara: far prevalere la
vocazione commerciale dell'attività, fermo restando il
potere di controllo da parte degli ufficiali e degli agenti
di pubblica sicurezza.
Ambiente
Incentivate le bonifiche da parte di terzi, ossia da parte
di soggetti diversi da coloro che hanno contaminato i siti.
La ragione è incoraggiare l'iniziativa privata di chi decida
di attivarsi volontariamente in considerazione del risparmio
che ciò comporta per la spesa pubblica. Infatti, ai sensi
del dlgs n. 152 del 2006, spetta alla pubblica
amministrazione effettuare d'ufficio gli interventi di
ripristino qualora i soggetti responsabili della
contaminazione non provvedano direttamente oppure non siano
individuabili oppure in caso di inadempimento del
proprietario del sito e degli altri soggetti interessati.
Il Consiglio di stato ha apprezzato la novità. «L'idea di
costruire un regime di favore per l'impiego di capitali
privati, provenienti dai soggetti incolpevoli, nei siti che
richiedono interventi di bonifica e, soprattutto, nei Siti
di interesse nazionale, è convincente», osservano i giudici.
«In primo luogo, si contribuisce all'obiettivo di
riqualificare ambiti territoriali compromessi sotto il
profilo ambientale, avviando un efficace processo di
rigenerazione urbana e limitando fortemente il consumo di
suolo. In secondo luogo l'impatto macroeconomico è virtuoso,
essendo prevedibili esternalità positive, in termini di
crescita dei livelli occupazionali».
Altri interventi
Nel parere il Consiglio di stato solleva il problema di
quale sia la sorte degli altri interventi potenzialmente
interessati alla delega, dato che lo schema di decreto
tratta solo edilizia, ambiente, commercio e pubblica
sicurezza, mentre la delega copre l'intero ordinamento delle
funzioni amministrative. In considerazione di ciò, palazzo
Spada invita il governo «a non interrompere l'opera di
ricognizione della disciplina di altri settori di attività
private, specialmente quelle oggetto di libertà di
iniziativa economica».
Per questo, secondo il Cds,
l'esecutivo dovrà prendere in considerazione «il progressivo
completamento della riforma tramite decreti integrativi e
correttivi» da emanarsi entro un anno dall'entrata in vigore
del dlgs.
A questo proposito la commissione speciale del Consiglio di
stato propone un'interpretazione «ragionevole», anche se un
po' restrittiva, della disposizione di chiusura sulle
attività libere contenuta nell'art. 1, comma 2, del decreto
Scia 1 (dlgs n. 126/2016).
Il decreto prevede che «allo scopo di garantire certezza sui
regimi applicabili alle attività private e di salvaguardare
la libertà di iniziativa economica, le attività private non
espressamente individuate con decreto o specificamente
oggetto di disciplina da parte della normativa europea,
statale e regionale, sono libere».
Per Palazzo Spada la disposizione di chiusura sulle attività
libere deve intendersi applicabile ai settori oggetto del
futuro decreto e non anche ai settori rimasti completamente
al di fuori dell'opera di riordino. In tal senso deve
intendersi il riferimento alle attività che non siano «specificamente
oggetto di disciplina da parte della normativa europea,
statale e regionale», riferimento che consente di
ritenere ancora pienamente vigenti le normative esistenti
nei settori non interessati dalla riforma
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Sosta
oltre ticket, c'è sanzione. La permanenza configura danno
erariale per la p.a.. Sentenza della Corte di cassazione
ritiene infondato il ricorso di un automobilista.
Lasciare la propria vettura in una zona di sosta a pagamento
oltre il limite indicato dal ticket acquistato giustifica
l'irrogazione di una sanzione pecuniaria in quanto la
permanenza del veicolo oltre il limite di tempo presuppone
un danno erariale per l'amministrazione.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la
sentenza 03.08.2016 n. 16258 (pres. S. Petiti,
rel. A. Giusti) con la quale i supremi giudici hanno posto
fine alla vicenda che aveva preso avvio dall'opposizione
sollevata da un automobilista contro il verbale di
accertamento con il quale gli era stata inflitta una
sanzione pecuniaria per aver sostato con il proprio veicolo,
negli spazi delimitati da strisce blu, un'ora in più
rispetto a quanto pagato con apposito contrassegno.
Il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione di
due norme: l'art. 157, commi 7 e 8 (arresto, fermata e sosta
di veicoli) e l'art. 7, c. 15 (regolazione della
circolazione nei centri abitati) del codice della strada. A
suo dire, il mancato versamento dell'importo per le ore di
sosta ulteriori rispetto a quelle effettivamente pagate non
costituiva una violazione del codice della strada ma un mero
inadempimento dell'obbligazione contrattuale conclusa al
momento del pagamento del biglietto.
La Suprema corte ha invece ritenuto infondato il motivo di
ricorso; in particolare ha ribadito che l'art. 157, c. 6,
Cds prevede due distinte condotte: nel caso di sosta a tempo
limitato il conducente deve indicarne l'inizio e
nell'ipotesi di presenza di un dispositivo di controllo
della durata della sosta l'automobilista ha l'obbligo di
azionarlo. Con il sintagma «dispositivo di controllo
della durata della sosta» si fa riferimento anche ai
posteggi a pagamento mediante acquisto di apposita scheda
(cosiddetto «ticket»).
Secondo la Suprema corte in materia di sosta a pagamento su
suolo pubblico, ove la sosta si protragga oltre l'orario per
il quale è stata corrisposta la tariffa, si incorre in una
violazione delle prescrizioni della sosta regolamentata, ai
sensi dell'art. 7, comma 15, del codice della strada.
Infatti, poiché l'assoggettamento al pagamento della sosta è
un atto di regolamentazione della sosta stessa, la sosta del
veicolo con ticket di pagamento esposto scaduto per decorso
del tempo di sosta pagato ha natura di illecito
amministrativo e non si trasforma in inadempimento
contrattuale, trattandosi, analogamente al caso della sosta
effettuata omettendo l'acquisto del ticket orario, di una
evasione tariffaria in violazione della disciplina della
sosta a pagamento su suolo pubblico, introdotta per
incentivare la rotazione e razionalizzare l'offerta di sosta
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
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MASSIMA
1. - Con l'unico mezzo (violazione o falsa applicazione
degli artt. 157, commi 6 e 8, e 7, comma 15, del codice
della strada), il ricorrente sostiene che chi paga il ticket
ma non integra il versamento per le ore successive non
incorrerebbe in alcuna violazione del codice della strada,
bensì soltanto in una violazione dell'obbligazione
contrattuale sorta nel momento in cui si acquista il ticket,
regolata dal codice civile.
2. - Il motivo è infondato.
Questa Corte (Sez. II, 25.02.2008, n. 4847; Sez. Il,
04.10.2011, n. 20308) ha già statuito che l'art. 157 del
codice della strada prevede, sottoponendo al coma 8 la loro
violazione alla medesima sanzione, due distinte condotte,
quella di porre in sosta l'autoveicolo senza segnalazione
dell'orario di inizio della sosta, laddove essa è prescritta
per un tempo limitato, ed il fatto di non attivare il
dispositivo di controllo della durata della sosta, nei casi
in cui esso è espressamente previsto; ed ha precisato che
l'espressione «dispositivo di controllo di durata della
sosta», utilizzata dal comma 6, vale a comprendere i
casi di c.d. parcheggi a pagamento mediante acquisto di
apposita scheda, ciò discendendo dal rilievo che tale
formula è la medesima di quella usata dalla disposizione del
codice della strada che consente ai Comuni, nell'ambito
delle loro competenze in materia di regolamentazione della
circolazione nei centri abitati, di stabilire aree di
parcheggio a pagamento, anche senza custodia dei veicoli
(art. 7, comma 1, lettera f).
La sentenza di questa Sezione 02.09.2008, n. 22036, ha
affermato che, là dove il sindaco si sia
avvalso del potere di stabilire, previa deliberazione della
giunta, aree destinate al parcheggio sulle quali la sosta
dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da
riscuotere mediante dispositivi di controllo di durata della
sosta, anche senza custodia del veicolo, fissando le
relative condizioni e tariffe, la stessa non si sottrae
all'operatività della sanzione amministrativa pecuniaria nei
casi di sosta protrattasi in violazione dei limiti o della
regolamentazione al cui rispetto essa era subordinata.
A sua volta, Sez. V1-2, 09.01.2012, n. 30, ha cassato la
sentenza del giudice del merito che aveva escluso "che
nell'ipotesi di cui all'art. 7 del codice della strada,
superata l'ora scatti la medesima violazione come avviene
nel caso del sistema previsto per la sosta limitata di cui
all'art. 157 del codice della strada", sul rilievo -non
condiviso da questa Corte di legittimità- che nel primo caso
"scatti soltanto il diritto del Comune di riscuotere la
tassa per l'utilizzo del parcheggio a pagamento ed in
relazione alla durata stessa della sosta".
Questo orientamento è stato recepito dalla giurisprudenza
della Corte dei conti (Sezione giurisdizionale per la
Regione Lazio, sentenza 19.09.2012, n. 888). Il giudice
contabile ha infatti affermato che la
mancata contestazione della sanzione pecuniaria da parte
dell'ausiliario del traffico (e della società affidataria
del servizio) nel momento in cui è stata accertata la sosta
del veicolo senza ticket comprovante il pagamento del
corrispettivo dovuto oppure con tagliando esposto scaduto
per decorso del tempo di sosta pagato (che è pur sempre una
fattispecie di mancato pagamento che il codice della strada,
senza distinzioni, sanziona), configura una ipotesi di danno
erariale per il Comune, rappresentato dal mancato incasso
dei proventi che sarebbero derivati dalla applicazione della
sanzione per violazione delle norme che disciplinano la
sosta in aree a pagamento.
In questo quadro giurisprudenziale, va affermato il
principio secondo cui, in materia di sosta
a pagamento su suolo pubblico, ove la sosta si protragga
oltre l'orario per il quale è stata corrisposta la tariffa,
si incorre in una violazione delle prescrizioni della sosta
regolamentata, ai sensi dell'art. 7, comma 15, del codice
della strada. Infatti, poiché l'assoggettamento al pagamento
della sosta è un atto di regolamentazione della sosta
stessa, la sosta del veicolo con ticket di pagamento esposto
scaduto per decorso del tempo di sosta pagato ha natura di
illecito amministrativo e non si trasforma in inadempimento
contrattuale, trattandosi, analogamente al caso della sosta
effettuata omettendo l'acquisto del ticket orario, di una
evasione tariffaria in violazione della disciplina della
sosta a pagamento su suolo pubblico, introdotta per
incentivare la rotazione e razionalizzare l'offerta di
sosta.
Di tale principio il Tribunale ha fatto corretta
applicazione. |
TRIBUTI:
Dietrofront sull'Ici. Ruralità non basta per
esenzioni. La Cassazione rivede la
sua tesi sui benefici fiscali.
La Cassazione cambia posizione sui requisiti per fruire del
trattamento agevolato Ici sui fabbricati rurali e rivede la
tesi espressa con alcune pronunce nel 2015.
Con la
sentenza
03.08.2016 n. 16179, infatti, ha
chiarito che vanno ritenute isolate le pronunce dello scorso
anno con le quali aveva ritenuto esenti dall'imposta
comunale i fabbricati rurali, in presenza dei requisiti di
legge, a prescindere dal loro inquadramento catastale.
Dunque, ha affermato che non va dato seguito alle sentenze
con le quali è stato sostenuto che conta solo la ruralità
degli immobili per avere diritto ai benefici fiscali. Ha
precisato, inoltre, che le autocertificazioni presentate
dagli interessati per l'annotazione di ruralità possono
avere effetto retroattivo, ma limitato ai 5 anni precedenti,
sempre che abbiano fatto domanda di variazione catastale
nelle categorie A/6 o D/10.
Per i giudici di legittimità, i possessori di fabbricati
utilizzati per l'esercizio dell'attività agricola possono
reclamare l'esenzione Ici solo se hanno ottenuto
l'iscrizione catastale di questi immobili nelle categorie
A/6 (destinati ad abitazione) o D/10 (destinati alla
manipolazione, trasformazione e vendita di prodotti
agricoli). Ciò costituisce «un presupposto necessario e
indefettibile» per l'esclusione del fabbricato
dall'assoggettamento all'Ici. E sono da disattendere alcuni
precedenti della stessa Corte (Cass. 16973/2015; 10355/2015;
14013/2013) secondo i quali l'esenzione spetterebbe al
contribuente in ragione del solo carattere di ruralità
dell'immobile.
Con la sentenza in esame la Cassazione ha posto in rilievo
che si tratta «di alcune pronunce isolate», «alle quali non
si ritiene di dover dare seguito». Ha poi ribadito che la
retroattività dei benefici fiscali non può andare oltre il
quinto anno antecedente la data di presentazione
dell'autocertificazione imposta dalla legge, con la quale i
titolari di fabbricati rurali hanno attestato la sussistenza
dei requisiti soggettivi e oggettivi.
Requisiti e retroattività dei benefici.
Le variazioni catastali e le annotazioni di ruralità
richieste dai titolari di fabbricati rurali hanno effetto
retroattivo per i cinque anni antecedenti a quello in cui
sono state presentate le relative domande. Lo prevede
l'articolo 2, comma 5-ter, del dl 102/2013, in sede di
conversione nella legge 124/2013. L'efficacia retroattiva di
questa disposizione di interpretazione autentica può
arrivare fino all'anno d'imposta 2006, considerato che i
contribuenti avrebbero potuto inoltrare le prime istanze di
variazione entro il 30.09.2011.
Il decreto del
Ministero dell'economia e delle finanze del 26.07.2012
ha indicato quali adempimenti devono porre in essere i
titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione
negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche
per l'Imu delle agevolazioni. Va ricordato, però, che per
quest'ultimo tributo sono escluse dai benefici le unità
immobiliari utilizzate come abitazione.
In base alla norma citata, quindi, le domande di variazione
catastale, disciplinate dall'articolo 7, comma 2-bis, del dl
70/2011, e l'inserimento negli atti catastali della ruralità
degli immobili producono effetti per i 5 anni antecedenti a
quello in cui sono state presentate. Quindi non c'è più
alcun dubbio, come è accaduto in passato, sulla valenza
retroattiva delle istanze, ma nei limiti temporali fissati
dalla norma sopra citata.
Per i fabbricati rurali conta
l'annotazione catastale per l'esenzione Ici e Imu, mentre
per la Tasi gli interessati hanno diritto solo a fruire di
un'aliquota agevolata. Se è stata presentata in catasto
l'autocertificazione che attesta la sussistenza dei
requisiti di legge entro il 30.09.2012, al titolare
dell'immobile rurale spetta l'esenzione Ici anche per i
cinque anni precedenti. Alla stessa agevolazione hanno
diritto i possessori di fabbricati strumentali censiti nella
categoria D/10, perché l'inquadramento in questa categoria
certifica la loro ruralità.
Al riguardo, la commissione tributaria regionale di Milano,
sezione staccata di Brescia, con la sentenza 1014/2016.
Per i giudici d'appello, l'inserimento dell'annotazione di
ruralità negli atti catastali attesta i requisiti a
decorrere dal quinto anno antecedente a quello di
presentazione della domanda, se prodotta entro il 30.09.2012.
La commissione regionale, tra l'altro, ha
evidenziato che
«per i fabbricati aventi funzioni produttive
connesse alle attività agricole il requisito della ruralità
è certificato solo se gli stessi sono censiti nella
categoria D/10». Per tutti gli altri immobili strumentali
non censibili nella suddetta categoria la ruralità va
riconosciuta in presenza dell'annotazione ottenibile
mediante domanda presentata al catasto.
---------------
Categoria catastale pomo della
discordia.
Continua la diatriba sulla rilevanza della categoria
catastale per fruire dell'esenzione dall'imposta municipale.
Non è infatti stata ancora trovata una soluzione condivisa
nella giurisprudenza di legittimità e di merito, anche per
via dei continui cambiamenti normativi riguardo al
trattamento fiscale dei fabbricati rurali.
Contrariamente a quanto affermato di recente, per esempio,
dalla Ctr di Cagliari (sentenza 29/2016), la posizione
assunta dalla Cassazione dopo la pronuncia a Sezioni unite
(18565/2009) è stata quasi sempre, a parte qualche caso
isolato, quella di legare l'esenzione Ici alla categoria
catastale.
Ha riconosciuto l'esenzione Ici solo per i fabbricati
inquadrati catastalmente nelle categorie A/6, se destinati a
abitazione, o D/10, se strumentali all'esercizio
dell'attività agricola.
La commissione tributaria regionale di Cagliari, invece, ha
stabilito che per il riconoscimento dell'esenzione Ici per i
fabbricati rurali strumentali non conta la categoria
catastale. L'immobile va considerato rurale se utilizzato
per la manipolazione, trasformazione, conservazione,
valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli
dei soci. La regola vale non solo per l'Ici ma anche per l'Imu.
A conforto di questa interpretazione viene richiamata nella
sentenza una pronuncia della Cassazione (16979/2015).
Tuttavia, come confermato dalla Cassazione con la sentenza
16179, le pronunce del 2015 vanno ritenute superate, perché
per ottenere i benefici fiscali conta sempre l'inquadramento
catastale
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
TRIBUTI: Sui
fabbricati rurali la Cassazione smentisce se stessa: per
l'esenzione non basta solo la ruralità dell'immobile.
La Cassazione smentisce se stessa e afferma di ritenere
isolate le pronunce del 2015 con le quali aveva ritenuto
esenti dall'imposta municipale i fabbricati rurali, in
presenza dei requisiti di legge, a prescindere dal loro
inquadramento catastale.
Con la
sentenza 03.08.2016 n. 16179, infatti, i
giudici di legittimità (Sez. V civile) chiariscono che non va dato seguito
alle sentenze con le quali hanno sostenuto che conta solo la
ruralità degli immobili per avere diritto ai benefici
fiscali.
Inoltre, le autocertificazioni presentate dagli interessati
per l'annotazione di ruralità possono avere effetto
retroattivo, ma limitato ai 5 anni precedenti, sempre che
abbiano fatto domanda di variazione catastale nelle
categorie A/6 o D/10.
Secondo i giudici di piazza Cavour, i fabbricati strumentali
all'attività agricola devono essere classificati
catastalmente nelle categorie A/6 o D/10. Ciò costituisce
«un presupposto necessario ed indefettibile» per
l'esclusione del fabbricato dall'assoggettamento all'Ici.
Nonostante questo orientamento sia «stato disatteso da
alcuni precedenti di questa Corte (Cass. 16973/2015;
10355/2015; 14013/2013) secondo i quali l'esenzione
spetterebbe al contribuente in ragione del solo carattere di
ruralità dell'immobile», pone in rilievo la Cassazione che
si tratta «di alcune pronunce isolate», «alle quali non si
ritiene di dover dare seguito».
Tra l'altro, ricordano i
giudici, la retroattività dei benefici fiscali non può
andare oltre il quinto antecedente la data di presentazione
dell'autocertificazione da parte dei contribuenti con la
quale hanno attestato la sussistenza dei requisiti.
È una questione dibattuta da tempo e che non ha ancora
trovato una soluzione condivisa nella giurisprudenza di
legittimità e di merito, anche per via dei continui
cambiamenti normativi. Per esempio, la commissione
tributaria regionale di Cagliari, quarta sezione, con la
sentenza n. 29 dell'01.02.2016, non si è allineata alla
tesi della Cassazione, in quanto ha stabilito che per il
riconoscimento dell'esenzione Ici per i fabbricati rurali
strumentali non conta la categoria catastale. L'immobile va
considerato rurale se utilizzato per la manipolazione,
trasformazione, conservazione, valorizzazione o
commercializzazione dei prodotti agricoli dei soci.
In realtà, contrariamente a quanto affermato dalla Ctr di
Cagliari, la posizione assunta dalla Cassazione dopo la
pronuncia a sezioni unite (18565/2009) è stata sempre quella
di legare l'esenzione alla categoria catastale, tranne in
alcuni casi che, come evidenziato con la pronuncia in esame,
non fanno testo
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2016). |
TRIBUTI:
Tariffe alte per chi fa attività ricettive. La
Sentenza della corte di cassazione sulla tassa sui rifiuti.
Chi svolge attività ricettiva e fornisce agli ospiti servizi
similari a quelli degli alberghi deve pagare la tassa
rifiuti con tariffe elevate, maggiori rispetto a quelle
previste per le abitazioni civili.
La Corte di Cassazione - Sez. V civile, con la
sentenza 03.08.2016 n. 16176, è
tornata sulla tassazione delle strutture turistico-ricettive
calcando ulteriormente la mano rispetto a quanto già
sostenuto lo scorso anno per i b&b, affermando che a un
residence che fornisce servizi particolari agli inquilini
vanno applicate tariffe più alte delle abitazioni.
Ha
ritenuto, infatti, legittima la scelta del comune di
assoggettare alla tassa rifiuti come alberghi gli immobili
locati da una società che fornisce agli ospiti una
lavabiancheria a gettone o altri servizi produttivi di
rifiuti come un'attività alberghiera, per la quale sono
previste dal regolamento dell'ente tariffe più salate
rispetto alle abitazioni. Dai servizi offerti alla clientela
emerge che la società svolge un'attività turistico-ricettiva
e non di locazione di immobili. E quello che conta ai fini
fiscali è la potenziale produzione di rifiuti riferita
all'attività in concreto esercitata dai contribuenti.
Per i giudici di legittimità la società gestisce alcuni
appartamenti «fornendo servizi agli ospiti del residence,
quali una lavabiancheria a gettone e altri genericamente
considerati come produttivi di rifiuti in misura similare a
una tipica attività alberghiera». Quindi, non si limita «a
svolgere un'attività di mera locazione di semplici unità
abitative».
La posizione espressa dalla Cassazione con la pronuncia in
esame è ancora più rigida rispetto a quanto sostenuto nel
2015 con la sentenza 16972, secondo cui va differenziata la
tariffa per l'attività di b&b svolta in una civile
abitazione, rispetto alla tariffa abitativa ordinaria. Ha
precisato che i b&b non sono assimilabili agli alberghi,
atteso che svolgono attività ricettiva in maniera
occasionale e in forma non imprenditoriale.
Tuttavia,
secondo la Cassazione, i bed & breakfast producono più
rifiuti rispetto alle abitazioni, anche se in misura minore
rispetto agli alberghi. Pertanto, i comuni devono fissare
una tariffa ad hoc per il pagamento della tassa rifiuti,
prevedendo una sottocategoria con l'applicazione di
coefficienti di quantità e qualità intermedi, considerato
che si tratta di un'attività promiscua destinata ad
abitazione e a ricezione. In mancanza di un'apposita tariffa
deliberata dal comune, va applicata la tariffa dell'utenza
domestica.
La regola vale per Tarsu, Tares e Tari.
L'attività di bed & breakfast è un'attività ricettiva, di
ospitalità e somministrazione di alimenti e bevande, con una
produzione di rifiuti certamente differente e superiore
rispetto a un'utenza domestica. Ma la Cassazione ha
giudicato inopportuno equiparare il b&b a un albergo, come è
avvenuto con la sentenza 16176 per i residence che offrono
servizi accessori, che vanno oltre la semplice locazione
degli immobili.
Con la sentenza 12679/2015, però, è stato confermato
l'orientamento consolidato che impone di differenziare
sempre le tariffe per utenze domestiche e non domestiche, e
dunque quelle degli alberghi, dei b&b e delle strutture di
ospitalità in genere, da quelle delle abitazioni. Le
amministrazioni locali hanno il potere di fissare le tariffe
Tarsu più elevate per gli alberghi rispetto a quelle delle
abitazioni. Per la Cassazione (sentenza 302/2010) la
maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero
rispetto a una civile abitazione costituisce un dato di
comune esperienza.
In effetti, l'articolo 68 del decreto legislativo 507/1993
non imponeva ai comuni di inserire gli immobili adibiti a
attività alberghiere nella stessa categoria di quelli
utilizzati come abitazioni, poiché non manifestano la stessa
potenzialità di produzione di rifiuti. Così come non sono
inseriti nella stessa categoria per la Tari
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Sebbene
a seguito della presentazione della DIA non si formi alcun
provvedimento tacito, una volta spirato il termine per
l'esercizio del potere inibitorio, l'amministrazione può
ancora intervenire per contrastare l'attività edilizia non
conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di
autotutela sui generis (sui generis proprio perché non ha ad
oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con
l'ordinario potere di autotutela i principi che ne governano
l'esercizio.
Affinché tale potere possa dirsi legittimamente esercitato,
è indispensabile, dunque, che, ai sensi dell'art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, l'autorità amministrativa invii
all'interessato la comunicazione di avviso di avvio del
procedimento, che l'atto di autotutela intervenga
tempestivamente, e che in esso si dia conto delle prevalenti
ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse
da quelle al mero ripristino della legalità violata, che
depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli
interessi dei destinatari e dei controinteressati.
---------------
Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, sebbene a
seguito della presentazione della DIA non si formi alcun
provvedimento tacito, una volta spirato il termine per
l'esercizio del potere inibitorio, l'amministrazione può
ancora intervenire per contrastare l'attività edilizia non
conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di
autotutela sui generis (sui generis proprio perché
non ha ad oggetto un provvedimento di primo grado) che
condivide con l'ordinario potere di autotutela i principi
che ne governano l'esercizio (cfr. Consiglio di Stato, A.P.,
29.07.2011 n. 15).
Affinché tale potere possa dirsi legittimamente esercitato,
è indispensabile, dunque, che, ai sensi dell'art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, l'autorità amministrativa invii
all'interessato la comunicazione di avviso di avvio del
procedimento, che l'atto di autotutela intervenga
tempestivamente, e che in esso si dia conto delle prevalenti
ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse
da quelle al mero ripristino della legalità violata, che
depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli
interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Nella fattispecie oggetto di giudizio, il Comune di Arzano
non solo non ha indicato le ragioni di interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla base dell’annullamento degli
effetti della DIA di cui è causa, intervenendo a distanza di
oltre un anno dalla presentazione della D.I.A. (e, dunque,
ben oltre il termine perentorio normativamente stabilito),
ma non ha neanche considerato il legittimo affidamento
ingenerato negli interessati dal consolidamento degli
effetti della dichiarazione e dalle precedenti
determinazioni assunte dallo stesso ente con riferimento
alla D.I.A. n. 7588 del 18.04.2013 (avente ad oggetto la
realizzazione di un muretto di contenimento al solaio di
copertura), con le quali è stata disposta la irrogazione
della sola sanzione pecuniaria, in applicazione dell’art. 37
del d.P.R. n. 380 del 2001, sul presupposto della conformità
urbanistica dell’intervento.
Giova evidenziare, peraltro, che non emerge dalla
documentazione versata in atti che le opere eseguite siano
difformi rispetto a quelle oggetto della D.I.A. presentata
nel giugno del 2013, avente il seguente oggetto: «cambio
di destinazione d'uso del solaio di copertura apponendo per
questo mattonelle, impianto elettrico lungo í muri
perimetrali ed una adduzione di acqua per le dovute pulizie.
Inoltre si porrà in opera un pergolato in legno
prefabbricato allo scopo di ombreggiare il terrazzo e
rendere termicamente già agibile il piano sottostante ... si
intende inoltre eseguire una diversa distribuzione degli
spazi interni per una maggiore fruibilità degli stessi"».
L’amministrazione comunale, pertanto, è stata posta nelle
condizioni di valutare compiutamente e tempestivamente la
consistenza e le caratteristiche dell’intervento dovendosi
escludere fraudolenze da parte degli interessati, sicché
anche sotto tale profilo non può revocarsi in dubbio la
sussistenza del legittimo affidamento degli interessati.
Da quanto sopra esposto discende l’illegittimità del
provvedimento in autotutela impugnato, con assorbimento
delle residue censure, e, in via derivata, anche
dell’ordinanza di demolizione adottata sul presupposto
dell’annullamento degli effetti della D.I.A. assunta al prot.
n. 11323 del 17.06.2013.
Del pari, l’accoglimento del ricorso introduttivo determina
anche la fondatezza delle censure dedotte con il ricorso per
motivi aggiunti, in via derivata, avverso il provvedimento
prot. 17874 del 18.08.2015, restando assorbite le altre
contestazioni articolate in via autonoma stante l’assenza di
profili di utilità ulteriore per i ricorrenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 02.08.2016 n. 3988 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Dissuasore messo male, il comune deve risarcire.
Se un automobilista patisce guai seri a causa un fittone di
cemento poco visibile al traffico veicolare spetta al comune
risarcire il malcapitato e gli eredi. Specialmente se la
collocazione del manufatto risulta tutt'altro che
appropriata.
Così la Corte d Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 29.07.2016 n. 15785.
Uno sfortunato autista ha perso la vita andando a
scontrarsi contro un dissuasore di sosta posizionato in
maniera negligente da un comune piemontese. Contro la
condanna al risarcimento danni a favore dei parenti
pronunciata dalla Corte d'appello di Torino il comune ha
avanzato censure ma senza successo.
Anche se l'autista
percorreva la strada comunale superando il limite di
velocità il dissuasore di sosta è stato posizionato male
rappresentando una vera e propria insidia. L'investimento da
parte di un veicolo del panettone di cemento posizionato in
mezzo alla strada a parere dei giudici risulta essere un
fatto probabile.
Ai sensi dell'art. 2051 cc il comune aveva
il potere-dovere di custodia del manufatto che è risultato
mal posizionato rappresentando un pericolo occulto per il
traffico veicolare. Circolare a una velocità leggermente
superiore al limite consentito rappresenta circostanza
prevedibile quindi non sufficiente per interrompere il nesso
causale tra custodia del bene e danno
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI:
L’impresa ha diritto di vedere gli atti. Procedimenti sanzionatori. Secondo il Consiglio di Stato
l’Antitrust non può vietare l’accesso indiscriminatamente.
Il diritto di
accesso “difensivo” consente alle imprese interessate da
procedimenti sanzionatori disposti da autorità pubbliche di
controllo di conoscere gli atti e i dettagli delle
contestazioni a loro imputate senza che siano le stesse
autorità a vietarlo in assoluto e a stabilire quali siano
quelli utili alla difesa nel procedimento e nel processo.
L’ha chiarito il Consiglio di Stato nella
sentenza 28.07.2016 n. 3409, depositata dalla
VI Sez.,
accogliendo il ricorso di una società di calcestruzzi
sanzionata dall’Antitrust per un cartello di settore in
Friuli Venezia Giulia.
Alla ricorrente era stato negato l’accesso perché, come
stabilito anche in primo grado, aveva chiesto di conoscere
un procedimento diverso su accordi anticoncorrenziali
accertati in un’altra regione e con «informazioni
commerciali sensibili» di terzi ritenuti non coinvolti nel
proprio provvedimento.
Il Consiglio di Stato ha giudicato illegittimo vietare
l’accesso per garantire comunque la riservatezza delle
informazioni contenute in questo tipo di procedure –intese,
abusi di posizione dominante e operazioni di concentrazione- se la domanda, come nel caso in esame, è ritenuta
necessaria a ottenere documenti (verifiche della Guardia di
finanza) che possono rivelarsi utili per esercitare il
diritto di difesa, considerata «la natura sostanzialmente
penale delle sanzioni inflitte (Corte europea dei diritti
dell’uomo, sentenza 27.09.2011, n. 43509/08)».
Lo prevedono la disciplina sull’accesso amministrativo -anche per documenti con dati sensibili e giudiziari «nei
limiti in cui sia strettamente indispensabile» e con
l’oscuramento di quelli che possono rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale (comma 7, articolo 24, legge
241/1990)- e il regolamento sulle procedure istruttorie
della stessa Agcm (articolo 13, Dpr 217/1998) che in tale
fase “apre” i propri «documenti formati o stabilmente
detenuti…ai soggetti direttamente interessati».
Come spiegato dal collegio, l’Autorità non può perciò
opporre «un diniego generalizzato» nemmeno a chi chiede di
accedere ad atti diversi da quelli con cui è stata inflitta
la sanzione, poiché al limite deve «consegnare
esclusivamente i documenti richiesti con tutti gli
accorgimenti finalizzati ad evitare che vengano svelate
informazioni riservate di carattere personale, commerciale,
industriale e finanziario».
Nel giudizio in esame spetta
quindi alla stessa Agcm la «prudente valutazione» di fornire
gli atti che non richiamino dati sensibili di operatori
economici giudicati estranei e che ne dimostrino la stessa
estraneità al procedimento sulla ricorrente.
La sentenza precisa che in questi casi si possono
«bilanciare gli interessi in gioco contrapposti» solo coi
citati “paletti” normativi che regolano il prevalente
diritto d’accesso “difensivo”: la Pubblica amministrazione
non deve rendere pubblici atti considerati non rilevanti che
riguardano altri soggetti non coinvolti e le società
sanzionate hanno diritto a “controllare” direttamente i
propri documenti detenuti solo dalla Pa (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2016).
---------------
MASSIMA
6.– L’appello è fondato.
L’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 dispone che
deve essere garantito «ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici».
La norma aggiunge che, nel caso di documenti contenenti dati
sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in
cui sia strettamente indispensabile e, in presenza di
situazioni giuridiche di pari rango, in caso di dati idonei
a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
L’art. 13 del d.p.r. n. 217 del 1998, in relazione ai
procedimenti dell’Autorità, prevede che «il diritto di
accesso ai documenti formati o stabilmente detenuti
dall'Autorità nei procedimenti concernenti intese, abusi di
posizione dominante ed operazioni di concentrazione è
riconosciuto nel corso dell'istruttoria dei procedimenti
stessi ai soggetti direttamente interessati».
Nella fattispecie in esame la richiesta di accesso è
finalizzata ad ottenere documenti che possono essere utili
ai fini dell’esercizio del diritto di difesa nell’ambito di
un procedimento applicativo di sanzioni amministrative.
In questi casi, per la natura sostanzialmente penale
delle sanzioni inflitte
(Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Menarini,
27.09.2011, n. 43509/08), deve essere
assicurata all’impresa la conoscenza di tutti quegli
elementi che possono essere utili per difendersi nel
procedimento e nel processo.
Né potrebbe valere il rilievo, contenuto nella memoria
difensiva dell’Autorità, secondo cui, da un lato, tutti i
documenti richiesti sarebbero estranei al perimetro
dell’indagine I-780 (che include i mercati di “Venezia
mare” e “Belluno”), dall’altro, sarebbe mancata
la richiesta relativa al procedimento I-772.
Tali rilievi possono rilevare non ai fini dell’ammissibilità
dell’istanza di accesso, che ricomprendeva la documentazione
pretesa, quanto ai limiti che la richiesta stessa incontra
quando essa attiene a documenti afferenti a procedimenti
diversi che coinvolgono altre imprese. L’Autorità, dovrà
consegnare esclusivamente i documenti richiesti con tutti
gli accorgimenti finalizzati ad evitare che vengano svelate
informazioni riservate di carattere personale, commerciale,
industriale e finanziario.
In altri termini, in fattispecie quale
quella in esame, non è consentito un diniego generalizzato
fondato su valutazioni rimesse alla stessa Autorità ma
occorre fornire la documentazione richiesta nel rispetto
delle modalità sopra indicate. Del resto, tale soluzione è
l’unica in grado di bilanciare gli interessi in gioco
contrapposti: quello dell’Autorità a non rilasciare
documenti ritenuti non rilevanti che coinvolgono altri
operatori economici; quello dell’impresa ad avere diretta
contezza della documentazione che si trova nell’esclusiva
disponibilità della parte pubblica.
La soluzione prescelta dal Collegio è quella di
rimettere alla prudente valutazione dell’Autorità di
fornire esclusivamente quegli atti che non attengono a dati
sensibili di altri imprese e che sono in grado di dimostrare
l’assunto dell’estraneità dei dati stessi al procedimento
sanzionatorio che riguarda l’appellante. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il Comune non ferma le delibere.
Impianti autonomi. Ripristino del «centralizzato» solo se
urgente.
Il Comune non
può ordinare, in via di urgenza, ai condòmini il ripristino
dell’impianto termico centralizzato.
L’articolo 50, comma 5, del Dlgs 267/2000 prevede infatti
una serie di casi tassativi. E, dunque, il Comune non può
emettere ordinanze in via di urgenza, per fronteggiare
situazioni permanenti, come la decisione di un condominio di
dismettere l’impianto termico centralizzato, per passare ad
impianti di riscaldamento autonomi ed individuali, per
questioni di contenimento energetico e di riduzione dei
consumi.
Questo in sintesi, il contenuto della
sentenza 26.07.2016 n. 3369 del
Consiglio di Stato, Sez. V.
Oggetto del provvedimento del sindaco era la decisione
assunta dall’assemblea di un condominio di ricercare
individualmente soluzioni alternative per assicurarsi il
calore necessario per l’imminente) stagione invernale, non
essendo più ripristinabile l’impianto termico centralizzato.
Non solo: già nell’inverno del 2012, era venuta meno, per
finita locazione, la disponibilità del locale di proprietà
privata dove era ubicata la caldaia comune. Il condominio si
era immediatamente attivato per cercare soluzioni tecniche
alternative, senza tuttavia reperire un locale adatto.
Per
il Consiglio di Stato è, quindi, legittimo il comportamento
dei condòmini che si sono procurati altre fonti di calore,
mediante impianti di riscaldamento autonomi, per «cause
tecniche o di forza maggiore», anche ai sensi della della
legge Regione Piemonte 13/2007 (all’epoca vigente) (articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2016).
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MASSIMA
1. Il Collegio rileva in punto di fatto che il Comune
appellante ha emanato l’impugnata ordinanza contingibile ed
urgente per ordinare agli attuali appellati, tutti condomini
e proprietari di alloggi del Condominio Flora, ubicato in
Alessandria, Via ..., con l’eccezione della parte
appellata Dott. Sa.Gi., che era ed è
l’amministratore in carica, di provvedere all’immediato
ripristino dell’impianto di riscaldamento centralizzato nel
Condominio Flora medesimo, entro 7 giorni dalla notifica
dell’ordinanza stessa, e con l’eliminazione degli impianti
di riscaldamento autonomi realizzati.
In data 02.07.2013 l’assemblea condominiale, cui hanno
partecipato 12 dei 13 proprietari del condominio aveva
deliberato, all’unanimità dei partecipanti, che, non essendo
fattibile realizzare una nuova centrale termica, ogni
condomino avrebbe dovuto provvedere ad adottare le soluzioni
più idonee per “assicurarsi il calore necessario per la
prossima stagione invernale”.
2. Ciò premesso in punto di fatto la Sezione deve rilevare
e ribadire che l’ordinanza contingibile ed urgente adottata
dal Comune di Alessandria difetta dei presupposti
dell’imprevedibilità ed urgenza e tende a risolvere, in modo
illegittimo, una questione condominiale di tipo
privatistico, che è stata oggetto di una deliberazione
vincolante per l’amministratore e per tutti i condomini, che
avrebbe dovuto essere contestata, dagli eventuali
dissenzienti, nella sede competente.
Il Comune appellante ha formulato il suo unico ed articolato
motivo di appello sul presupposto che il TAR non avrebbe
tenuto conto né che l’attività istruttoria posta in essere
dal Comune era stata adeguata ed immune da vizi di
illogicità ed irragionevolezza, né che l’adozione
dell’ordinanza era necessitata dalle violazioni della
normativa vigente, giacché l’ordinanza si sarebbe limitata
ad imporre l’adeguamento dell’impianto di riscaldamento
entro un congruo termine, senza alcuna indebita interferenza
nei rapporti privati fra i condomini.
3. A prescindere dall’eccezione formulata dagli appellanti
secondo cui l’Amministrazione comunale ha omesso di
impugnare due punti fondamentali su cui è incentrata la
sentenza di primo grado, relativamente ai presupposti di
contingibilità ed urgenza, con la conseguenza, che sui detti
capi, non specificamente investiti da motivi di
impugnazione, si sarebbe formato il giudicato, la Sezione
ritiene che le prospettazioni dell’amministrazione siano
comunque infondate nel merito.
4. Il TAR, infatti, ritenendo insussistenti gli elementi
dell’imprevedibilità ed urgenza, ha fatto corretta
applicazione di consolidati principi circa i presupposti per
l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente, principi
incentrati sulla sussistenza di un pericolo irreparabile ed
imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti
fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati
dall’ordinamento, e sulla provvisorietà e temporaneità degli
effetti, nella proporzionalità del provvedimento (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 29.05.2015, n.
2697 e Sez. VI, 31.10.2013, n. 5276).
Non è, infatti, legittimo adottare ordinanze contingibili ed
urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti
o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come
assoluta necessità di porre in essere un intervento non
rinviabile, a tutela della pubblica incolumità.
Nel caso di specie, il problema del riscaldamento del
condominio si era evidenziato molto tempo prima
dell’adozione dell’ordinanza, quando, a dicembre 2012, per
la legittima disdetta del contratto di locazione (doc. 8
parte appellata) da parte della società proprietaria, era
noto a tutti i condomini che, a far data dal 1° luglio 2013,
sarebbe venuta meno la disponibilità del locale ove era
stata collocata la centrale termica che serviva il
condominio, con il conseguente smantellamento della stessa.
Il problema era stato, peraltro, affrontato tempestivamente
dal condominio, che aveva cercato soluzioni tecniche
alternative e, nell’impossibilità di reperire un locale
idoneo in base alla normativa tecnica vigente, in sede
assembleare aveva preso atto dell’impossibilità di
ripristino della centrale termica o dell’individuazione di
un locale idoneo, lasciando liberi i condomini, vista
l’imminenza della stagione autunnale ed invernale, di
procurarsi in modo alternativo il riscaldamento del proprio
alloggio.
Detta delibera è stata adottata consensualmente da tutti i
condomini e gli stessi condomini si sono procurati in via
alternativa altre fonti di calore necessarie senza rischio
di compromissione del diritto alla salute l’autunno e
l’inverno, come documentalmente provato (cfr. doc n. 21
appellati), mediante impianti di riscaldamento autonomo, la
cui realizzazione è dovuta all’evidenza a cause tecniche e
di forza maggiore (cfr. art. 4 d.P.R. n. 59 del 2009 e art.
19, comma 1., L.R. Piemonte n. 13 del 2002).
Non sussiste, pertanto, né il presupposto della situazione
imprevedibile, né l’urgenza di provvedere con un rimedio
eccezionale extra ordinem per una situazione già affrontata
e risolta dagli stessi condomini destinatari del
provvedimento impugnato.
Infatti, le finalità della normativa contenuta nel d.P.R. n.
59 del 2009, che il Comune ha ritenuto violate, sono
esclusivamente quelle del contenimento energetico e della
riduzione dei consumi e non la tutela della salute
collettiva, finalità per la cui salvaguardia non possono
certo emanarsi ordinanze extra ordinem che hanno finalità
diverse e tendono alla tutela dell’incolumità pubblica, non
compromessa dall’adozione della delibera condominiale sopra
richiamata.
Anche la lamentata violazione, da parte degli appellati,
degli artt. 123 e 125 del Testo unico dell’edilizia, per
mancata presentazione della denunzia di inizio lavori non
può costituire presupposto per l’adozione di un
provvedimento eccezionale come quello di specie, previsto,
come detto, per casi di straordinaria urgenza non altrimenti
fronteggiabili,
5. Peraltro, i destinatari dell’ordinanza impugnata, come
correttamente ha rilevato il TAR, sono giuridicamente
impossibilitati, quali singoli, ad eseguirlo, ripristinando
l’impianto centralizzato, posto che l’ordine di ripristino
riguarda parti e servizi comuni dell’edificio condominiale,
quali sono per l’appunto gli impianti tecnologici, sui quali
solo la volontà dell’assemblea condominiale, cioè della
maggioranza dei condomini, consente di intervenire.
6. Per completezza deve osservarsi che anche le censure
evidenziate espressamente nell’atto di appello sono
infondate.
Infatti, l’attività istruttoria posta in essere dal Comune,
proprio perché non ha correttamente considerato la
situazione di imprevedibilità ed urgenza, nei sensi sopra
precisati e proprio perché non si è posto il problema
dell’esatta individuazione dei soggetti passivi,
legittimamente destinatari dell’ordine, non risulta per
nulla adeguata ed è, dunque, affetta dai lamentati vizi di
illogicità ed irragionevolezza.
Né è condivisibile la tesi, propugnata dal Comune, secondo
cui il provvedimento impugnato sarebbe stato giustificato
dalla necessità di tutelare la salute ed incolumità
pubblica, mediante l’imposto ripristino dell’impianto
centralizzato, per garantire a sei famiglie, che non avevano
ancora installato impianti autonomi di non essere esposte ai
rigori invernali.
In proposito, anche a prescindere dalla circostanza che
risulta in atti che dette sei famiglie avevano, comunque,
risolto in altro modo il problema del riscaldamento (cfr.
doc. 20, punto 3, parte appellata), deve
essere ribadito che il pericolo per la pubblica incolumità
deve essere di considerevoli dimensioni e deve tradursi in
un’emergenza igienico-sanitaria per la popolazione, vale a
dire per la collettività o comunque per un numero
indeterminato di persone, e non per un numero ristretto di
privati individui, senza che l’Autorità possa arrogarsi una
funzione di risoluzione di liti o controversie tra privati,
che invece è devoluta ad altre forme di tutela, segnatamente
a quella civilistica, a pena dell’indebita interferenza
dell’amministrazione in una lite tra privati, priva di ogni
rilevanza di interesse pubblico. |
COMPETENZE GESTIONALI:
Non spetta al primo cittadino la regolazione del
traffico.
La competenza ad adottare provvedimenti relativi alla
disciplina della circolazione stradale spetta al dirigente e
non al sindaco.
Lo ha chiarito il TAR Piemonte, Sez. II, con la
sentenza
27.07.2016 n.
1077.
Nel caso sottoposto all'esame del collegio UN sindaco ha
adottato, ai sensi dell'art. 7 del codice stradale, un
generico divieto di transito ai mezzi pesanti in ambito
comunale. Contro questo provvedimento il titolare di
un'attività agricola ubicata nella zona interessata dalla
limitazione ha proposto ricorso.
Senza entrare nel merito delle altre doglianze avanzate dal
ricorrente, i giudici hanno ritenuto di accogliere l'istanza
a causa della manifesta incompetenza del sindaco ad emanare
ordinanze limitative della circolazione urbana.
Secondo l'orientamento ormai consolidato in giurisprudenza
queste ordinanze rientrano infatti nella esclusiva
competenza del dirigente e pertanto il ricorso è fondato e
il provvedimento deve essere annullato
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).
---------------
MASSIMA
Ritenuto, in diritto:
- che il primo motivo è fondato ed ha carattere assorbente
(sulla rilevanza del vizio di incompetenza relativa, cfr.
Cons. Stato, ad. plen., n. 5 del 2015);
- che l’ordinanza impugnata è essenzialmente motivata in
relazione all’esigenza di regolamentare la circolazione nel
centro cittadino;
- che, secondo l’orientamento ormai consolidatosi in
giurisprudenza,
i provvedimenti con i quali si disciplina la circolazione
sulla viabilità comunale, la modalità di accesso alla stessa
ed i relativi orari, l’eventuale divieto per talune
categorie di veicoli, i controlli e le sanzioni, ai sensi
degli artt. 6 e 7 del Codice della Strada, assumono natura
tipicamente gestoria ed esecutiva e quindi appartengono alla
competenza dei dirigenti e non del Sindaco, anche avendo
riguardo all’assenza di qualsiasi presupposto di urgenza che
potrebbe giustificare l’adozione di un’ordinanza
contingibile ed urgente
(cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5191 del 2015; TAR Lombardia,
Milano, sez. III, n. 2886 del 2015; TAR Calabria, Catanzaro,
sez. II, n. 69 del 2015; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n.
3204 del 2014; TAR Veneto, sez. III, n. 494 del 2013; TAR
Piemonte, sez. II, n. 1923 del 2010; TAR Sardegna, sez. I,
n. 1391 del 2009);
Ritenuto, in conclusione, di dover accogliere il ricorso,
assorbite tutte le ulteriori censure, con condanna del
Comune di Moncalvo al pagamento delle spese processuali
nella misura indicata in dispositivo; |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d. indennità
risarcitoria) di cui all'art. 167, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 è
soggetta alla prescrizione quinquennale di cui all'art. 28,
l. 24.11.1981 n. 689.
Tale termine prescrizionale, sebbene il potere-dovere della
p.a. di irrogare sanzioni in relazione ad illeciti
amministrativi in materia di abusi edilizi non sia soggetto
a prescrizione e/o decadenza, inizia a decorrere dal momento
in cui cessa la permanenza dell'illecito con il rilascio
delle autorizzazioni ancorché postume.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. 7127 del 26.03.2013 del Capo
Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di
Sabaudia, contenente richiesta di pagamento di oneri
relativi all’istanza di condono edilizio;
- del provvedimento prot. 4139 del 140.2.2013 del Capo
Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di
Sabaudia, contenente richiesta di pagamento della indennità
risarcitoria prevista dall’art. 167 del D.lgs n. 42/2004.
...
4) Il ricorso è parzialmente fondato.
5) Con riguardo all’ingiunzione di pagamento dell’indennità
risarcitoria ai sensi dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, il
ricorrente ha ottenuto la determinazione paesaggistica n.
208 del 06.12.2001 favorevole alla sanatoria del
frazionamento.
Sul punto, la Sezione ha già avuto occasione di precisare
che la sanzione pecuniaria di tipo ambientale (c.d.
indennità risarcitoria) di cui all'art. 167, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 è soggetta alla prescrizione quinquennale
di cui all'art. 28, l. 24.11.1981 n. 689; tale termine
prescrizionale, sebbene il potere-dovere della p.a. di
irrogare sanzioni in relazione ad illeciti amministrativi in
materia di abusi edilizi non sia soggetto a prescrizione e/o
decadenza, inizia a decorrere dal momento in cui cessa la
permanenza dell'illecito con il rilascio delle
autorizzazioni ancorché postume (TAR Lazio Latina 19.01.2012 n. 30).
6) Pertanto, essendo stata rilasciata l’autorizzazione
paesaggistica in data 06.12.2001, il diritto a pretendere
l’indennità risarcitoria in argomento si è prescritto il
06.12.2006
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 25.07.2016 n. 499 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La formazione del silenzio-assenso sulla domanda
di sanatoria degli abusi edilizi richiede, quale presupposto
essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a
titolo di oblazione, che siano stati integralmente assolti
dall'interessato gli oneri di documentazione, che si
risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito
sostanziale, relativi al tempo di ultimazione dei lavori,
all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro
elemento rilevante affinché possano essere utilmente
esercitati i poteri di verifica dell'amministrazione
comunale.
Conseguentemente, il termine per la formazione del
silenzio-assenso sulla domanda di rilascio della concessione
in sanatoria non decorre quando manchino i presupposti di
fatto e di diritto previsti dalla norma e/o le opere non
siano suscettibili di sanatoria, nonché qualora la domanda
stessa sia carente della documentazione prevista dalla
legge.
Pertanto, il termine di 24 mesi, previsto dall'art. 35, l.
28.02.1985 n. 47, per l'eventuale formazione del
silenzio-assenso relativo al rilascio di concessione
edilizia in sanatoria, e quello collegato di trentasei mesi
per la prescrizione del diritto al conguaglio degli oneri,
iniziano a decorrere dal momento in cui l'amministrazione
procedente è posta in condizioni di esaminare compiutamente
la relativa domanda, in quanto integrata la documentazione
necessaria richiesta "ex lege" all'interessato
dall'amministrazione.
----------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. 7127 del 26.03.2013 del Capo
Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di
Sabaudia, contenente richiesta di pagamento di oneri
relativi all’istanza di condono edilizio;
- del provvedimento prot. 4139 del 140.2.2013 del Capo
Settore Urbanistica ed Assetto del Territorio del Comune di
Sabaudia, contenente richiesta di pagamento della indennità
risarcitoria prevista dall’art. 167 del D.lgs. n. 42/2004.
...
7) Con riguardo alla nota del 26.03.2013, invece, osserva il
Collegio che l’Amministrazione non si è limitata a chiedere
il pagamento di somme ma ha anche richiesto al ricorrente di
produrre diversi documenti necessari per la definizione
della domanda di condono.
8) In particolare l’Amministrazione ha chiesto copia del
titolo di proprietà o altro titolo attestante il godimento
di diritti reali sull’immobile, prova dell’avvenuto
accatastamento con visura e planimetria catastale,
autorizzazione allo scarico fognario, autocertificazioni di
cui alla L. 662/1996, autocertificazione di cui all’art. 35 L.
47/1985, grafici riguardanti il frazionamento del piano terra
con evidenziazione delle porzioni abusive, planimetrie in
scala con l’esatta ubicazione del fabbricato, la
rappresentazione dei distacchi dai confini e dalle altre
costruzioni, piante quotate con destinazione d’uso dei
locali, prospetti e sezioni con indicazione delle altezze,
calcolo grafico e analitico delle superfici utili e di
quelle non residenziali nonché della volumetria (autorizzata
e oggetto di condono).
9) In ordine a tale richiesta il ricorrente non ha dedotto
alcunché, non ha fornito prova di avere già prodotto tali
documenti, limitandosi ad eccepire la prescrizione.
10) In tema, la giurisprudenza ha spiegato che "La formazione
del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria degli abusi
edilizi richiede, quale presupposto essenziale, oltre al
completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione,
che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli
oneri di documentazione, che si risolvono evidentemente
nella sussistenza del requisito sostanziale, relativi al
tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla
consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante
affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di
verifica dell' amministrazione comunale.
Conseguentemente,
il termine per la formazione del silenzio-assenso sulla
domanda di rilascio della concessione in sanatoria non
decorre quando manchino i presupposti di fatto e di diritto
previsti dalla norma e/o le opere non siano suscettibili di
sanatoria, nonché qualora la domanda stessa sia carente
della documentazione prevista dalla legge.
Pertanto, il
termine di 24 mesi, previsto dall'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, per l'eventuale formazione del silenzio-assenso
relativo al rilascio di concessione edilizia in sanatoria, e
quello collegato di trentasei mesi per la prescrizione del
diritto al conguaglio degli oneri, iniziano a decorrere dal
momento in cui l'amministrazione procedente è posta in
condizioni di esaminare compiutamente la relativa domanda,
in quanto integrata la documentazione necessaria richiesta
"ex lege" all'interessato dall'amministrazione" (TAR
Campania Napoli sez. VIII 04.03.2015 n. 1383).
11) Pertanto, nel caso che ci occupa, non avendo il
ricorrente assolto integralmente agli oneri di
documentazione, non si è formato il silenzio-assenso sulla
domanda di sanatoria, né quello collegato di trentasei mesi
per la prescrizione del diritto al conguaglio degli oneri.
12) In conclusione, quindi, il ricorso va accolto
limitatamente alla richiesta di pagamento dell’indennità
risarcitoria ex art. 167 del d.lgs. 42/2004, con conseguente
annullamento dell’atto impugnato, e va respinto con riguardo
ai restanti atti
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 25.07.2016 n. 499 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Legali, disciplina col bollino. Sanzione del Cnf
non censurabile in sede di legittimità.
Il principio ribadito in una sentenza delle
sezioni unite della Corte di cassazione.
Disciplinare avvocati: confermata la sanzione della
sospensione di tre mesi per il legale che viola scientemente
i precetti sulla competenza funzionale, territoriale e sulla
regolare instaurazione del contraddittorio.
Con la
sentenza 22.07.2016 n. 15203, le Sezz. unite
civili della Corte di Cassazione, intervenendo sul ricorso
mosso dal professionista avverso la decisione di sospensione
comminatagli dal proprio ordine di appartenenza, hanno
ricordato come il potere di applicare o meno, a carico degli
avvocati, la sanzione disciplinare, adeguata alla gravità e
alla natura dell'offesa arrecata al prestigio dell'ordine
professionale, sia «riservato» ai soli organi
disciplinari, con la conseguenza che «la sanzione
inflitta all'incolpato dal Cnf non è censurabile in sede di
legittimità, salvo il caso di assenza di motivazione»,
che nell'ipotesi non ricorreva.
A nulla infatti sono valse le censure lamentate, tra le
quali, appunto, la mancanza di motivazione sia relativamente
all'accertamento della responsabilità e alla valutazione
degli addebiti, sia in merito alla domanda di riduzione
della sanzione: nel definire «nebulosi» i rilievi di
parte ricorrente e «generiche» le sue doglianze, gli
Ermellini hanno rammentato come in tema di procedimento
disciplinare, alle sezioni unite non è data la possibilità
di sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del
giudice disciplinare, dal momento che la Corte deve
semplicemente limitarsi a esprimere un giudizio di congruità
sull'adeguatezza e sull'assenza di vizi logici della
motivazione, motivazione che, nella specie, era «esistente
e pure congrua».
Le censure mosse, quindi, non potevano trovare accoglimento
in sede di legittimità, «concernendo elementi che il
giudice del disciplinare, nel proprio percorso decisionale,
potrebbe avere diversamente valutato, ovvero non aver
considerato, perché ritenuti, anche implicitamente,
recessivi e/o ininfluenti, rispetto agli elementi probatori,
invece, positivamente individuati, ritenuti decisivi e
utilizzati a fini decisori».
Hanno, quindi, rigettato il ricorso, senza disporre nulla in
ordine alle spese del giudizio, non avendo la parte intimata
svolto alcuna attività difensiva
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Senza le parti presenti in aula la querela
decade.
Senza le parti presenti in aula la querela decade.
Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione,
nella
sentenza
21.07.2016 n. 31668, in seguito al ricorso presentato
dal Procuratore generale della Corte d'appello di Lecce.
Nel
marzo 2014 il giudice di pace di Taranto stabilì di non
procedere contro un uomo accusato da una donna di ingiuria e
minaccia, ma l'assenza sia del querelante che dell'accusato
venne interpretato come una tacita remissione e quindi
accettazione dei presunti reati.
Il procuratore generale
invece dedusse una violazione di legge: il procedimento
infatti venne disposto dal pm ma soprattutto ritenne che
l'assenza del querelante non corrispondesse alla sua volontà
di procedere, anche se il giudice aveva informato le parti.
Le Sezioni Unite hanno esaminato il ricorso e hanno
stabilito che «se nel procedimento davanti al giudice di
pace, instaurato a seguito di citazione disposta dal
pubblico ministero configura remissione tacita di querela la
mancata comparizione del querelante, previamente ed
espressamente avvisato, che l'eventuale sua assenza sarebbe
stata interpretata come volontà di non insistere».
E gli
ermellini, in conclusione, hanno esposto il principio di
diritto secondo cui «integra remissione tacita di querela la
mancata comparizione all'udienza dibattimentale del
querelante, previamente ed espressamente avvertito dal
giudice, che l'eventuale sua assenza sarà interpretata come
fatto incompatibile con la volontà di persistere nella
querela»
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2016). |
TRIBUTI: La
Tari va motivata. Anzi no. Il Tar Latina da ultimo:
sufficiente applicare i coefficienti. Continua il contrasto
giurisprudenziale sull'obbligo di giustificare le scelte
tariffarie.
Continua il contrasto giurisprudenziale
sull'obbligo delle amministrazioni locali di motivare le
scelte tariffarie per il pagamento della tassa rifiuti.
Per il TAR Lazio-Latina (sentenza
21.07.2016 n. 486), contrariamente a quanto
sostenuto da altri giudici amministrativi, le tariffe Tari
non richiedono la motivazione se i comuni applicano i
coefficienti fissati dal regolamento statale per la
determinazione della quota fissa e di quella variabile del
tributo.
Si tratta di una questione dibattuta da tempo in ordine alla
quale i giudici amministrativi non hanno ancora trovato una
soluzione condivisa e che continua a generare contenzioso.
Il contrasto di posizioni era già emerso negli anni scorsi
anche per la Tarsu e la Tares e non è venuto meno neppure
per la Tari, istituita a partire dal 2014.
In primo luogo, secondo il Tar Latina, la delibera che fissa
le tariffe Tari non richiede «una particolare o specifica
motivazione dato che si tratta di un atto generale».
Inoltre, i ricorrenti laddove lamentano che la tariffa
stabilita per gli stabilimenti balneari non tiene conto
della diversa attitudine alla produzione di rifiuti
dell'arenile rispetto al chiosco e del carattere stagionale
delle attività svolte, non tengono conto del fatto «che
la valutazione di questi elementi è per così dire insita nel
metodo normalizzato, nel senso che i coefficienti previsti
dalle tabelle allegate al dpr n. 158 per la determinazione
della quota fissa e della quota variabile per gli
stabilimenti balneari già tengono conto delle
caratteristiche dell'attività».
E non a caso i coefficienti previsti per gli stabilimenti
balneari sono diversi e soprattutto notevolmente più bassi
rispetto a quelli previsti per es. per bar, pasticcerie e
ristoranti o campeggi e alberghi. Quello che la legge impone
all'amministrazione comunale è che nello scegliere il
coefficiente per l'applicazione del metodo normalizzato «si
mantenga all'interno del range previsto dalle tabelle»
allegate al dpr 158/1999.
Dunque, nel caso in esame «poiché i coefficienti scelti
si collocano in un ambito intermedio, la tariffa non sarebbe
sindacabile trattandosi di scelte rientranti nel merito
della discrezionalità amministrativa». In effetti,
nonostante in alcuni casi e per particolari attività
coefficienti di produzione dei rifiuti e tariffe deliberate
possano sembrare eccessive, non è sindacabile la scelta
comunale che fissi delle tariffe in linea con i parametri
stabiliti dal citato regolamento statale sul metodo
normalizzato. Ancorché l'ente abbia il potere di aumentarle
o diminuirle in modo consistente per alcune tipologie di
attività in relazione alla loro tendenziale maggiore o
minore produzione di rifiuti.
In realtà, il contrasto giurisprudenziale sull'obbligo o
meno di motivare le delibere tariffarie era già emerso
prepotentemente in regime di Tarsu, anche se per il vecchio
tributo i comuni non avevano vincoli ad hoc nella scelta
delle tariffe da applicare. L'unico limite era rappresentato
dal raggiungimento dell'obbiettivo primario di copertura dei
costi del servizio di smaltimento rifiuti.
Il contrasto giurisprudenziale.
È da molto tempo che la questione relativa all'obbligo di
motivazione delle tariffe Tarsu, Tia, Tares e Tari non trova
pace. Il panorama giurisprudenziale è piuttosto oscillante,
con posizioni diversificate tra giudici di legittimità e di
merito e anche tra giudici amministrativi.
Sono infatti state emanate diverse sentenze che sono tra
loro in aperto contrasto. Però interessa molto ai
contribuenti sapere se le amministrazioni pur di coprire i
costi del servizio devono dar conto o meno delle loro
scelte.
La Commissione tributaria regionale di Palermo, sezione XXV,
con la sentenza 02.02.2016 n. 400, ha sostenuto che le
delibere comunali che fissano le tariffe della tassa rifiuti
non devono essere motivate. Si tratta di atti generali per i
quali non è imposto l'obbligo di motivazione.
La delibera comunale che non contiene una motivazione
dettagliata dei costi del servizio di smaltimento rifiuti
che giustifichi le tariffe adottate, non si pone in
contrasto con l'articolo 7 dello Statuto dei diritti del
contribuente (legge 212/2000) e non è sindacabile per
eccesso di potere. Per i giudici d'appello la delibera fa
riferimento ai costi del servizio, «quali si ricavano dal
bilancio di previsione allegato all'atto deliberativo».
Tra l'altro, precisano, «va richiamato l'orientamento
interpretativo della giurisprudenza di legittimità, secondo
cui non è configurabile alcun obbligo di motivazione della
delibera comunale di determinazione della tariffa di cui al
dlgs n. 507 del 1993, art. 65, poiché la stessa, al pari di
qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o
collettivo, si rivolge ad una pluralità indistinta, anche se
determinabile ex post di destinatari, occupanti o detentori,
attuali o futuri, di locali ed aree tassabili ai sensi degli
artt. 62 e 63».
In linea con questa tesi si è espresso il Tribunale
amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di
Lecce (II), con la sentenza 1238/2013. Ha stabilito che il
comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu.
L'aumento può essere giustificato dalla necessità di coprire
i costi del servizio.
Questa interpretazione è stata ancor prima assunta dalla
Cassazione. I giudici di legittimità (sentenza 22804/2006;
ordinanza 26132/2011) hanno sempre escluso l'obbligo di
motivazione per gli atti generali, come previsto
dall'articolo 3 della legge 241/1990 e dall'articolo 7 dello
Statuto dei diritti del contribuente (legge 212/2000).
Il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010), invece, ha
affermato che il comune deve motivare la delibera che
prevede un aumento delle tariffe Tarsu. E non può invocare
genericamente la necessità di assicurare la tendenziale
copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo
scostamento tra entrate e costo del servizio.
Anche con la sentenza 504/2015 ha ribadito che
l'amministrazione comunale deve indicare nella delibera le
ragioni che hanno comportato l'aumento delle tariffe della
tassa rifiuti, con l'obbiettivo di coprire integralmente i
costi del servizio, ma è insindacabile la scelta di
privilegiare le utenze domestiche rispetto alle attività
produttive. Quindi, può prevedere tariffe più elevate per le
utenze non domestiche.
Principio fatto proprio anche dal Tribunale amministrativo
regionale per l'Emilia Romagna (sentenza 1056/2015), secondo
cui la delibera che fissa le tariffe della tassa rifiuti
deve essere motivata e deve indicare i costi di esercizio
dell'anno precedente, le stime dell'anno di competenza, il
gettito della tassa e le ragioni dell'eventuale aumento dei
costi e delle tariffe.
Si tratta di una deroga alla regola generale che esclude la
motivazione per tutti gli atti a contenuto generale, vale a
dire delibere e regolamenti. In particolare, per il Tar,
nella delibera con la quale il comune determina le tariffe
relative alla tassa rifiuti «deve esplicitare con
chiarezza tutte le risultanze istruttorie, fornendo
motivazione dettagliata delle ragioni delle proprie
decisioni».
Devono essere indicati, dunque, il costo di esercizio
dell'anno precedente e il relativo gettito, nonché il costo
preventivato per l'anno di competenza e il quantum
dell'aumento degli oneri per la raccolta e lo smaltimento
rifiuti svolto dal gestore del servizio.
---------------
Mano libera ai comuni sulle
agevolazioni.
I comuni oltre a determinare le tariffe Tari hanno ampi
poteri anche nel concedere agevolazioni fiscali. Infatti,
hanno il potere di concedere con regolamento riduzioni
tariffare, senza limiti, e esenzioni anche legate al reddito
familiare. Le agevolazioni Tari possono essere collegate
alla capacità contributiva dei contribuenti desunta dagli
indicatori della situazione economica (Isee).
Con regolamento possono essere deliberate riduzioni
tariffarie, che a differenza della Tares non sono più
soggette alla soglia massima del 30%, o esenzioni per
particolari situazioni espressamente individuate dalla
legge. Normalmente le riduzioni della tassa per il servizio
di smaltimento vengono riconosciute in presenza di
determinate situazioni in cui si presume che vi sia una
minore capacità di produzione di rifiuti. Inoltre, nei casi
previsti dalla legge in cui il comune ha il potere di
deliberare le riduzioni tariffarie, può andare oltre fino ad
arrivare al riconoscimento delle esenzioni.
In particolare, questi benefici possono essere concessi per:
abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a
disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e
discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso
stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o
hanno la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero;
fabbricati rurali a uso abitativo
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016). |
APPALTI: Mafia, basta anche un solo dipendente.
Appalti e malavita. Il Consiglio di Stato precisa i limiti
del concetto di infiltrazione.
Per ipotizzare
il condizionamento mafioso dell’azienda che partecipa agli
appalti pubblici, non è necessario che i dipendenti siano in
gran parte collegati alle cosche mafiose: in questi casi, la
gravita dei fatti che fa scattare l’interdittiva antimafia
può riferirsi anche a un solo lavoratore in qualche modo
vicino ai gruppi criminali.
Il Consiglio di Stato -sentenza
20.07.2016 n. 3299, III Sez.– ha così dato ragione
al ministero dell’Interno, che chiedeva di ribaltare la tesi
di primo grado secondo cui è illegittima l’interdittiva
basata, senza idonee motivazioni, sull’ipotesi di scelte
aziendali influenzate da un «trascurabile» numero di addetti
nell’orbita della malavita, per di più se con mansioni solo
esecutive e mai decisionali anche di fatto.
In questo caso, era stata bloccata una società del settore
rifiuti affidataria di dieci contratti comunali, poiché
ritenuta condizionata da 15 dipendenti su 90 con gravi
precedenti penali, anche per associazione a delinquere di
stampo mafioso o con rapporti di parentela e frequentazione
con esponenti di cosche locali.
Dettagli che, secondo
l’azienda, avrebbero avuto «rilevanza sproporzionata» senza
la prova del peso sui quadri dirigenziali o societari,
facendo passare per «presenza massiva» una quota minima di
operai, peraltro divisa in più cantieri, in parte assunta
per subentri a ex gestori e paradossalmente con requisiti
morali poiché con porto d’armi.
Il Consiglio di Stato spiega che la giurisprudenza ormai
riconosce «numerose situazioni, non tipizzate dal
legislatore,...“spie” dell’infiltrazione (nella duplice
forma del condizionamento o del favoreggiamento
dell’impresa)» e che le stesse, diverse per tempi, luoghi e
persone, si possono valutare per desumere il tentativo di
infiltrazione come da Codice antimafia (comma 6, articolo
91, Dlgs 159/2011).
Tra esse, proprio l’assunzione di
personale col profilo sospetto citato, quindi con presenza
anche solo «rilevante» e non per forza, come la stessa
Sezione ha chiarito in altri casi (sentenza 1743/2016),
«esclusiva o prevalente».
Il condizionamento è infatti ipotizzabile «anche dalla
presenza di un solo dipendente “infiltrato”, del quale la
mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno
l’impresa, ciò che può risultare da atti investigativi...,
frequentazioni ed altri elementi sintomatici»: l’obiettivo
delle cosche «non è solo –o non sempre– la scalata delle
gerarchie societarie, ma il controllo delle attività
economiche più lucrose con ogni mezzo e con ogni uomo idoneo
allo scopo, con una flessibilità di forme interne che
sfugge…, per non attirare controlli esterni, alle “armonie
prestabilite” del diritto societario».
Secondo il principio del «più probabile che non», come
precisa la sentenza, in questi casi un numero comunque «non
certo esiguo» di “infiltrati” –stabilito che non è una
questione solo numerica- non può far escludere che gli atti
e la vita stessa dell’impresa, soprattutto se piccola o
media, dipendano da «direzione esterna». L’interdittiva è
perciò legittima «se tale anomala presenza non è
giustificata né preceduta da un’efficace attività di
vigilanza e di selezione» dovuta per l’azienda che decide di
avere rapporti con la Pa (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2016).
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MASSIMA
4. Ritiene la Sezione che l’appello è fondato e deve
essere accolto.
4.1. La articolata motivazione del primo giudice poggia su
una centrale ratio decidendi e, cioè, che nessun elemento
indiziario o sintomatico sarebbe stato evidenziato
dall’informativa a carico dei soggetti aventi un ruolo di
vertice, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, o ai
quali possano essere comunque riferiti livelli decisionali
inerenti all’esercizio dell’impresa, laddove i soggetti
interessati dagli elementi istruttori svolgono tutti
mansioni esecutive e non decisionali, né sarebbe emerso che,
nonostante la mancanza di un formale riconoscimento di
responsabilità gestionali in capo ai dipendenti
controindicati, vi fossero gli estremi per la
configurabilità di eventuali posizioni sostanziali di
amministratori di fatto.
4.2. Le considerazioni del primo giudice, pur ampiamente
argomentate, ad avviso della Sezione non sono tuttavia
condivisibili, per le ragioni che ora si esporranno.
5. Come emerge dalla vasta giurisprudenza formatasi sul
punto nel corso di oltre venti anni, vi sono numerose
situazioni, non tipizzate dal legislatore, che costituiscono
altrettante ‘spie’ dell’infiltrazione (nella duplice forma
del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa),
anche se non ricomprese nel ‘catalogo’ dell’art. 84 del d.lgs. n. 159 del 2011.
5.1. Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal
costituire un numerus clausus, assumono infatti forme e
caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le
persone e sfuggono ad un preciso inquadramento, per
l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano
sociale, del fenomeno mafioso (Cons. St., sez. III,
03.05.2016, n. 1743).
5.2. Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di
questo, è dunque un ‘catalogo aperto’ di situazioni
sintomatiche del condizionamento mafioso, come si desume
chiaramente dall’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del
2011.
5.3. Tra queste situazioni sintomatiche non
tipizzate dal legislatore,
come la Sezione ha già chiarito nella citata sentenza n.
1743 del 2016, figura anche «l’assunzione
esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole,
di personale avente precedenti penali gravi o comunque
contiguo ad associazioni criminali».
5.4. Con riferimento al caso di specie, occorre qui
precisare ulteriormente che la presenza di un ‘numero
rilevante’ di dipendenti –come lo è il numero di 15 su 90–
legati alle cosche mafiose e gravati da specifici precedenti
penali in una piccolo-media impresa può assurgere ad
elemento di inquinamento mafioso, anche indipendentemente
dal loro ruolo di ‘amministratori di fatto’, se tale anomala
presenza non è giustificata né preceduta da un efficace
attività di vigilanza e di selezione da parte degli organi
decisionali o gestionali dell’impresa.
5.4.1. Consentire, infatti, che la propria attività
esecutiva sia affidata a soggetti contigui o affiliati alle
cosche non può far ragionevolmente escludere che anche le
decisioni e la vita stessa dell’impresa siano affidati ad
una ‘direzione esterna’, per il tramite di uomini di fiducia
posti dalle cosche all’interno dell’impresa.
5.5. La mafia non si serve necessariamente, infatti, dei
soli amministratori o dei soci di una società per
condizionare l’impresa e strumentalizzarla ai propri scopi,
ben potendo avvalersi di soggetti che nell’impresa svolgono
una qualsivoglia mansione, poiché il suo scopo non è solo –o non sempre– la scalata delle gerarchie societarie, ma il
controllo delle attività economiche più lucrose con ogni
mezzo e con ogni uomo idoneo allo scopo, con una
flessibilità di forme interne che sfugge e intende sfuggire,
per non attirare controlli esterni, alle ‘armonie
prestabilite’ del diritto societario.
5.6. Ne deriva quindi che,
sul piano qualitativo, il
condizionamento mafioso (ovvero il ‘controllo del
territorio’ con la creazione di un clima di paura o di
omertà) può derivare anche dalla presenza di soggetti che
non svolgano ruoli apicali all’interno della società, ma
siano o figurino come meri dipendenti, entrati a far parte
dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri
preventivi.
5.7.
Sul piano quantitativo, poi, è evidente che non si
tratta qui, come ha ritenuto il primo giudice,
nemmeno di
una questione meramente numerica, apprezzabile cioè soltanto
in base alla misura percentuale dei dipendenti
‘controindicati’ assunti dall’impresa rispetto all’organico
totale dei dipendenti, sicché l’assunzione di 15 dipendenti
contigui ad associazioni mafiose o con gravi precedenti
penali, rispetto ad un numero complessivo di 90, si dovrebbe
considerare un valore trascurabile.
6. Accade che i ‘protocolli di legalità’ prevedano e
precisino, sempre più di frequente, quali attività di
vigilanza e di controllo debbano necessariamente porre in
essere gli imprenditori, ma anche laddove tali protocolli di
legalità non siano stati stipulati l’assenza di tale
vigilanza e di controllo ben può formare oggetto di
valutazione da parte del Prefetto.
6.1. L’obbligo di vigilanza non ha solo un fondamento
pattizio, ex contractu, nei protocolli di legalità, ma trova
nelle previsioni del d.lgs. n. 159 del 2011 un sicuro
fondamento normativo, ex lege, secondo una lettura
sistematica e anche costituzionalmente orientata di tali
disposizioni.
6.2. Al di là delle previsioni dei ‘protocolli di legalità’
e degli obblighi da esse previsti, infatti,
il
condizionamento mafioso, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, si può desumere anche dalla
presenza di un solo dipendente ‘infiltrato’, del quale la
mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno
l’impresa, ciò che può risultare da atti investigativi
(intercettazioni), frequentazioni, ed altri elementi
sintomatici.
6.3. Il condizionamento si può altresì desumere anche dalla
assunzione o dalla presenza di dipendenti aventi precedenti
legati alla criminalità organizzata, pur quando non emergano
specifici riscontri oggettivi sull’influenza delle scelte
dell’impresa.
6.4. In presenza di tali situazioni, infatti, la Prefettura
ben può trarre elementi per ritenere sussistente un fattore
di inquinamento mafioso all’interno dell’impresa, in
considerazione dell’atteggiamento dell’impresa, già sul
piano della scelta dei suoi dipendenti.
7. Le imprese possono effettuare liberamente le assunzioni
che meglio credano, qualora non abbiano o non intendano
avere i rapporti economici con la pubblica amministrazione,
disciplinati dal d.lgs. n. 159 del 2011.
7.1. Ove però intendano avere tali
rapporti, le imprese devono garantire la massima
affidabilità, non solo nelle selezione di amministratori e
soci, ma anche dei dipendenti, e devono vigilare affinché
nella loro organizzazione non vi siano dipendenti risultati
contigui al mondo della criminalità organizzata.
7.2. Contrariamente a quanto ha rilevato il TAR,
tuttavia, l’impresa che intenda intrattenere rapporti con la
pubblica amministrazione –fondati sulla affidabilità
necessaria ex lege– deve essere vigile e responsabile nella
selezione dei dipendenti di cui si avvale.
7.3. Sia in sede di assunzione che nel corso dei rapporti di
lavoro, infatti, essa si deve organizzare in modo tale da
avere una struttura su cui non possa interferire la
criminalità organizzata, ben potendo l’impresa far valere
anche la giusta causa del recesso da rapporti di lavoro già
instaurati, rappresentando che la loro prosecuzione, con chi
ne sia risultato contiguo, può indurre la Prefettura a
disporre misure interdittive.
8. La Prefettura del tutto ragionevolmente rileva la
sussistenza del rischio di infiltrazioni, quando l’impresa –per disattenzione o per ‘quieto vivere’– non abbia disposto
controlli o abbia esercitato filtri selettivi sulle
assunzioni (in un contesto per di più ad alta densità
criminale).
9. Sotto tale profilo, dunque, le disposizioni del codice
antimafia (d.lgs. n. 159 del 2011) –nella misura in cui
costituiscano, come detto, la fonte ex lege di obblighi di
vigilanza dell’impresa in ordine alla gestione delle proprie
strutture e dei propri dipendenti– rinvengono una propria
giustificazione nell’art. 41, terzo comma, Cost., per il
quale «la legge determina i programmi e i controlli
opportuni perché l’attività economica pubblica e privata
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
9.1. Ciò risponde ad una interpretazione di tale
disposizione costituzionale che, superata la originaria
matrice dirigistica, evolva invece verso una più matura e
democratica visione del rapporto tra autonomia
imprenditoriale e pubblico potere, intesa a
responsabilizzare massimamente e a rendere consapevoli le
imprese, che intendano svolgere la loro attività economica
con lo Stato e per lo Stato, circa il fondamentale
presupposto e, insieme, il «fine sociale» di tale rapporto,
riguardato sul versante della legislazione antimafia, ossia
la loro alta affidabilità e la loro impermeabilità al
fenomeno mafioso.
10. L’informativa impugnata in primo grado ha
dettagliatamente evidenziato, seppure nella chiave
preventiva che le è propria, lo spessore e anche i
precedenti dei dipendenti, molti dei quali sono risultati
affiliati, in posizioni non secondarie, alla cosca ‘-OMISSIS-’
o al -OMISSIS-.
10.1. La gravità di tale quadro, al di là del dato della
‘presenza massiva’ o meno dei dipendenti in un numero che,
comunque, non è certo esiguo, pienamente giustifica la
constatazione del rischio che –con riferimento alla data di
emanazione del provvedimento impugnato in primo grado- le
scelte strategiche della società possano essere considerate
condizionabili dalle cosche.
10.2. Per le ragioni sopra esposte, la Prefettura ha
legittimamente attribuito rilevanza alla presenza dei
dipendenti risultati contigui alle cosche (pur se alcuni di
essi sono stati assunti in base alla ‘clausola sociale’),
ravvisando la indubbia esistenza di un grave quadro
indiziario che, secondo la logica del «più probabile che
non», rende verosimile e non remoto il rischio di
condizionamento mafioso dell’impresa, priva del fondamentale
requisito richiesto dalla normativa antimafia, di cui si è
detto, ossia la sua massima affidabilità e la sua credibile
impermeabilità al condizionamento mafioso.
10.3. Resta salva, ovviamente, la possibilità, per
l’impresa, di richiedere l’aggiornamento e il riesame
dell’informativa, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d.lgs.
n. 159 del 2011, una volta rimosse le ragioni del possibile
inquinamento mafioso (e impregiudicati i provvedimenti
adottati dal giudice del lavoro, in sede contenziosa, sui
licenziamenti intimati per giusta causa ai singoli
dipendenti dalla società, come emerge dalla documentazione
depositata dall’appellata, da ultimo, il 10.05.2016).
11. In conclusione, per le ragioni esposte, l’appello deve
essere accolto, sicché –in riforma della sentenza impugnata– va respinto il ricorso di primo grado n. 708 del 2014. |
APPALTI: Gare,
se manca l'invito non c'è la trasparenza.
Alla seduta pubblica per aprire le buste.
Il mancato invito a presenziare alla seduta pubblica di
apertura delle buste in una gara pubblica viola il principio
di trasparenza e non necessita della prova dell'avvenuta
manipolazione della documentazione.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 20.07.2016 n. 3266 in cui si premette
che il principio di trasparenza in materia di contratti
pubblici ha portata fondamentale ed informa profondamente le
procedure di gara.
Corollario di questa affermazione è che la rilevanza della
violazione (del principio di trasparenza) «prescinde
dalla prova concreta delle conseguenze negative derivanti
dalla sua violazione, rappresentando un valore in sé, di cui
la normativa nazionale e comunitaria predica la salvaguardia
a tutela non solo degli interessi degli operatori, ma anche
di quelli della stazione appaltante».
Nel caso esaminato dalla sentenza era accaduto che la
stazione appaltante non avesse inviato la comunicazione via
Pec., del giorno di apertura dei plichi, privando il
concorrente della possibilità di partecipare alla seduta
pubblica e, conseguentemente, determinando una lesione del
principio di trasparenza.
I giudici affermano che è sufficiente questa mancanza a
ritenere illegittimo il comportamento della stazione
appaltante, a nulla rilevando il fatto che si sia poi
prodotto una manipolazione della documentazione di gara: «non
spetta all'operatore economico provare che il mancato
rispetto del principio di trasparenza abbia in concreto
prodotto una manipolazione indebita della documentazione
nella disponibilità della commissione di gara».
D'altro canto il Consiglio di stato aveva precisato in
passato che nelle gare d'appalto la pubblicità delle sedute
risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di
trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso
di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità
formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che
non siano successivamente intervenute indebite alterazioni,
ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza e
all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui
conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex
post una volta rotti i sigilli e aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato
(articolo ItaliaOggi del 26.08.2016).
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MASSIMA
6. L’appello è infondato e non può essere accolto.
Va innanzitutto sottolineato che il
principio di trasparenza in materia di contratti pubblici ha
portata fondamentale, come si evince dall’art. 2, d.lgs.
163/2006, ratione temporis applicabile alla procedura
de qua, ed informa profondamente le procedure di
gara, sicché la rilevanza della sua violazione prescinde
dalla prova concreta delle conseguenze negative derivanti
dalla sua violazione, rappresentando un valore in sé, di cui
la normativa nazionale e comunitaria predica la salvaguardia
a tutela non solo degli interessi degli operatori, ma anche
di quelli della stazione appaltante.
Occorre ribadire (cfr. Cons. St., Sez. V, 07.06.2013, n.
3135) che in materia di gare d'appalto, e
con specifico riferimento alle operazioni preliminari da
svolgere in seduta pubblica, la verifica dell'integrità dei
plichi non esaurisce la sua funzione nella constatazione che
gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è
destinata a garantire che il materiale documentario trovi
correttamente ingresso nella procedura, giacché la
pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non
solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali
deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri
sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così
la garanzia che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla
trasparenza e all'imparzialità dell'azione amministrativa.
Pertanto, nella fattispecie non spetta all’operatore
economico provare che il mancato rispetto del principio di
trasparenza abbia in concreto prodotto una manipolazione
indebita della documentazione nella disponibilità della
commissione di gara. Da qui l’irrilevanza che si sia in
presenza di una procedura telematica con asta elettronica;
circostanza del resto a tal fine non presa in esame nemmeno
dalla stessa lex specialis.
Al riguardo, infatti, occorre rilevare che il punto 12.2.
del disciplinare di gara stabilisce che la commissione
procede in seduta pubblica, il giorno comunicato via p.e.c.,
all’apertura dei plichi contenenti l’offerta tecnica. Questa
diposizione ha natura derogatoria e comunque speciale
rispetto alla previsione generale contenuto nel punto 3.5
del disciplinare di gara, che consente alla stazione
appaltante di effettuare le comunicazioni anche attraverso
la mera pubblicazione delle stesse sul profilo del
committente.
Ciò del resto è pienamente in linea con quanto affermato
dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 13/2011, secondo la
quale: “Nelle gare d’appalto in cui il
contratto venga affidato col criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa e in relazione alle
operazioni preliminari da svolgere in seduta pubblica, anche
con specifico riferimento all'apertura della busta
dell'offerta tecnica, vige il principio secondo il quale la
"verifica della integrità dei plichi" non esaurisce la sua
funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito
manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che
il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella
procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute
risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di
trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso
di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità
formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che
non siano successivamente intervenute indebite alterazioni,
ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza e
all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui
conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post
una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di
un riscontro immediato; pertanto, l'Amministrazione non può
sottrarre alla seduta pubblica l'operazione di apertura
della busta recante l'offerta tecnica disponendone lo
svolgimento nella seduta riservata di valutazione del merito”.
La manca comunicazione via p.e.c., come prescritto dal
disciplinare di gara al punto 12.2, ha privato l’originaria
ricorrente della possibilità di partecipare alla suddetta
seduta, cagionando una lesione del principio di trasparenza,
come correttamente rilevato dal primo giudice.
7. L’appello deve, quindi, essere respinto. |
APPALTI: L'interdittiva
antimafia fa revocare il contratto.
Una interdittiva antimafia giunta in sede di esecuzione di
un contratto obbliga la stazione appaltante alla revoca del
contratto; sulla controversia è competente il giudice
amministrativo perché l'interdittiva determina l'incapacità
originaria a contrattare.
Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 20.07.2016 n. 3247 con riferimento a un
caso che aveva visto una stazione appaltante procedere alla
risoluzione del contratto di appalto di lavori determinata
dalla ricezione di una informativa antimafia.
I giudici
hanno stabilito che se l'informativa antimafia interdittiva
sopravviene in corso di esecuzione di un contratto stipulato
con la pubblica amministrazione ciò non costituisce una
«sopravvenienza» impeditiva dell'ulteriore esecuzione del
contratto stipulato, bensì l'accertamento dell'incapacità
originaria del privato ad essere parte contrattuale della
pubblica amministrazione.
Affermato questo principio, la
sentenza ne deduce, in primo luogo la competenza del giudice
amministrativo e non del giudice ordinario (come sarebbe
quando si discute di diritti soggettivi come quelli legati
all'esecuzione del contratto) in quanto si recede
unilateralmente dal contratto per effetto di una
sopravvenuta informativa antimafia interdittiva.
In secondo
luogo la sentenza afferma la riconduzione del provvedimento
di revoca del contratto agli atti che concernono
l'affidamento dell'appalto, avvenuto in favore di un
soggetto a ciò interdetto, e dunque in difetto dei
presupposti necessari per essere destinatario
dell'affidamento.
Infine i giudici ritengono di dovere anche escludere
l'obbligo di invio della comunicazione di avvio del
procedimento di revoca dell'atto di affidamento ovvero di
recesso dal contratto, «non potendosi l'amministrazione
appaltante determinare diversamente (art. 21-octies, comma
2, legge n. 241/1990), né potendo, peraltro, la stessa né
procedere ad istruttoria e a valutazioni autonome su quanto
risultante dall'informativa, né valutare lo stato di
esecuzione del contratto, stante il chiaro disposto
dell'art. 92, dlgs n. 159/2011».
«Quest'ultima norma prevede
infatti che l'amministrazione sia costretta all'emanazione
di un tipico “atto vincolato” derivante semplicemente dalla
ricezione della interdittiva antimafia»
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).
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MASSIMA
2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto,
respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
In linea generale,
ai sensi dell’art. 91 d.lgs. 06.09.2011 n. 159, i soggetti che vi sono tenuti devono acquisire
la cd. informazione antimafia, in particolare “prima di
stipulare, approvare o autorizzare i contratti e
subcontratti” (co. 1).
Ciò in quanto la sussistenza di condizioni per l’emissione
di informativa antimafia interdittiva determina (così
argomentando dall’art. 67 d.lgs. n. 159/2011) una
particolare forma di incapacità giuridica, riferita in
particolare alla stipulazione di contatti e ad essere parte
nei conseguenti rapporti contrattuali con la pubblica
amministrazione.
Tuttavia., in talune ipotesi di urgenza, ovvero di
superamento dei termini previsti per il rilascio
dell’informativa da parte del Prefetto, è possibile
procedere anche in assenza di informativa antimafia; in
questa ipotesi, però, “i contributi, i finanziamenti, le
agevolazioni e le altre erogazioni di cui all’art. 67 sono
corrisposti sotto condizione risolutiva e i soggetti di cui
all’articolo 83, commi 1 e 2, revocano le autorizzazioni e
le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il
pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso
delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei
limiti delle utilità conseguite” (art. 92, co. 3).
Nelle ipotesi ora descritte, l’eventuale stipulazione del
contratto, pur consentita dalla legge al fine di tutelare
l’efficienza, e dunque il buon andamento dell’attività
amministrativa, avviene tuttavia sub condicione del possesso
(non tanto di requisiti di ordine generale, ma più
precisamente) della indispensabile capacità giuridica.
Di modo che, laddove l’informativa antimafia interdittiva
sopravvenga in corso di esecuzione di un contratto stipulato
con la pubblica amministrazione (e segnatamente, come nel
caso di specie, di un contratto di appalto), ciò non
costituisce una “sopravvenienza” impeditiva dell’ulteriore
esecuzione del contratto stipulato, bensì l’accertamento
dell’incapacità originaria del privato ad essere parte
contrattuale della pubblica amministrazione.
Da ciò consegue:
- per un verso, la sussistenza della giurisdizione del
giudice amministrativo (ex art. 133, co. 1, lett. e), n. 1
Cpa) in ordine ai provvedimenti con i quali
l’amministrazione committente revoca il provvedimento di
affidamento di un appalto ovvero recede unilateralmente dal
contratto, per effetto di una sopravvenuta informativa
antimafia interdittiva;
- per altro verso, la riconduzione del provvedimento così
adottato agli atti che concernono l’affidamento dell’appalto
(avvenuto in favore di un soggetto a ciò interdetto, e
dunque in difetto dei presupposti necessari per essere
destinatario dell’affidamento), con conseguente applicazione
dell’art. 120 Cpa e dei termini dimidiati ivi previsti (il
che fonda il rigetto del primo motivo di appello);
- per altro verso ancora, l’esclusione dell’obbligo di invio
della comunicazione di avvio del procedimento di revoca
dell’atto di affidamento ovvero di recesso dal contratto,
non potendosi l’amministrazione appaltante determinare
diversamente (art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990), né
potendo, peraltro, la stessa né procedere ad istruttoria ed
a valutazioni autonome su quanto risultante
dall’informativa, né valutare lo stato di esecuzione del
contratto, stante il chiaro disposto dell’art. 92 d.lgs. n.
159/2011 (il che determinerebbe, in ogni caso, il rigetto
dei motivi proposti con il ricorso instaurativo del giudizio
di I grado e riproposti in appello: sub lett. b), c) e d)
dell’esposizione in fatto).
Per tutte le ragioni esposte, il primo motivo di appello
(sub a) dell’esposizione in fatto) deve essere rigettato,
stante la sua infondatezza, con conseguente reiezione
dell’appello proposto e conferma della sentenza impugnata. |
VARI:
Assegno non trasferibile, la banca non si libera
dell'obbligazione.
La Corte di Cassazione ha stabilito che la banca che abbia effettuato
il pagamento di un assegno non trasferibile in favore di chi
non era legittimato a riceverlo «non è liberata
dall'originaria obbligazione finché non paga il prenditore
esattamente individuato, e ciò a prescindere dalla
sussistenza dell'elemento della colpa nell'errore sulla
identificazione» (sentenza
19.07.2016 n. 14777).
Si tratta di una presa di posizione rispetto a due
differenti impostazioni. Per la prima, la banca è esente da
responsabilità se ha proceduto ad identificare il portatore
dell'assegno e a verificare che la firma riportata sul
titolo corrisponda a quella del traente. Altri, invece,
afferma che la banca debba essere sempre ritenuta
responsabile a prescindere dalla configurabilità o meno di
colpa nell'errata identificazione del beneficiario con la
conseguenza che essa sarà tenuta in ogni caso a ripetere il
pagamento al vero creditore.
La sentenza stabilisce il
principio predetto poiché deriva dal fatto che la legge
assegni (rd 21.12.1933, n. 1736), «nel disporre che colui
che paga a persona diversa dal prenditore, o dal banchiere
giratario per l'incasso, disciplina in modo autonomo il
pagamento dell'assegno non trasferibile, con deviazione
dalla regola generale che libera il debitore che esegua il
pagamento in buona fede in favore del creditore apparente».
L'orientamento scelto dalla Cassazione sembra essere
maggiormente coerente con la funzione propria della legge
assegni che è quella di evitare che l'assegno sia riscosso
da soggetti diversi dal beneficiario. La sentenza in esame
ritiene che la responsabilità che si configura per la banca
in ordine al pagamento di un assegno munito di clausola di
non trasferibilità a persona diversa dal prenditore rivesta
sia di tipo contrattuale.
Tale natura della responsabilità discende dalla circostanza
che per la banca esiste un obbligo professionale di
protezione, definito come preesistente, specifico e
volontariamente assunto, che opera «nei confronti di
tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante
operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto
nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole
che ne presidiano la circolazione e l'incasso»
(articolo ItaliaOggi del 06.08.2016). |
VARI:
Auto all'amico? C'è il diritto al
risarcimento.
Se affidiamo l'automobile a un amico ma commette un
incidente il diritto al risarcimento è mantenuto.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. III civile, nella
sentenza
19.07.2016 n. 14699, la
quale ha accolto il ricorso di una donna che aveva portato
in giudizio un ragazzo, in possesso del solo foglio rosa, a
cui aveva affidato l'auto per verificare uno strano rumore.
La vicenda risale al novembre 2003: durante la guida il
giovane perse il controllo dell'auto e andò a sbattere
contro un muro e un lampione. L'auto riportò gravissimi
danni così come la donna che accusò diverse ferite e si
rivolse, per ottenere un risarcimento dal guidatore incauto,
al tribunale di Milano che però respinse la richiesta
nell'ottobre 2013.
I giudici ritennero che la donna avesse rivestito i panni di
«un'assistente in una simulazione di guida», quindi la
responsabilità era la sua.
Nel settembre 2012 la Corte
d'appello milanese confermò la sentenza, quindi tutto passò
ai giudici di piazza Cavour che accolsero il ricorso perché
«il ruolo, inesistente, di assistente alla guida, desunta in
maniera “creativa”, è una figura assolutamente nuova», oltre
al fatto che «la cooperazione colposa, con la causazione
del sinistro, non può essere identificata nel salire su
un'auto, condotta da una persona che il trasportato sa non
essere in grado di fornire una guida adeguata», con
l'accettazione che «la guida del veicolo sia effettuata
da un soggetto a ciò non idoneo non può intendersi come
valida rinuncia a ogni risarcimento dei danni»
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2016). |
ESPROPRIAZIONE: Indennizzo sanante non retroattivo.
La pronuncia che precede l’esproprio è irrevocabile e
incontestabile.
Consiglio di Stato. Acquisizione vietata dopo la sentenza
che impone alla Pa di restituire il bene al privato.
La pubblica
amministrazione non può acquisire il bene privato occupato
illegittimamente per interesse pubblico, dopo la sentenza
passata in giudicato che le ha ordinato di restituirlo al
proprietario. L’acquisizione sanante, infatti, non è
retroattiva e, non avendola attivata prima, la Pa non può
contestare la pronuncia ormai irrevocabile nemmeno
appellandosi alla mancanza di risorse economiche necessarie
per eseguirla, né ai conseguenti disagi per i cittadini.
A stabilirlo è il Consiglio di Stato (IV Sez.) con la
sentenza 19.07.2016 n. 3200, confermando il giudizio di
primo grado che aveva annullato il decreto di «acquisizione
sanante» (ai sensi dell’articolo 42-bis del Testo unico
sugli espropri, il Dpr 327/2001), disposto da un Comune per
un suolo privato già occupato senza titolo, nell’ambito dei
lavori per la costruzione della rete fognaria comunale.
L’Ente aveva adottato l’atto a distanza di oltre tre anni
dalla sentenza con cui un Tribunale lo aveva condannato a
rimuovere il tratto di rete e a restituire il suolo ai
proprietari.
La decisione era passata in giudicato, poiché mai impugnata.
Per il Comune, però, questo caso era differente, poiché non
era possibile restituire il bene per «evidentissimi elementi
ostativi»: l’impossibilità di trovare coperture finanziarie,
ma soprattutto quella di interrompere un servizio ormai
garantito alla popolazione, seppur avvalendosi di una
proprietà di terzi, senza un valido provvedimento ablatorio.
I giudici, al contrario, hanno spiegato che per la natura
non retroattiva della procedura, così come ha precisato la
Consulta nel ribadirne la compatibilità col dettato
costituzionale (sentenza 71/2015), il giudicato restitutorio
«impedisce» alla Pa di acquisire il bene al proprio
patrimonio indisponibile con indennizzo al privato.
Il collegio ha sottolineato che questo principio è stato
chiarito di recente dall’Adunanza plenaria di Palazzo Spada
(sentenza 2/2016), secondo cui esso «assume un rilievo
centrale» che caratterizza questo tipo di acquisizioni e «si
desume implicitamente dalla previsione del comma 2
dell’articolo 42-bis, nella parte in cui consente
all’autorità di adottare il provvedimento durante la
pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della
procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo
eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi
dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto
cassatorio, ma anche esplicitamente restitutorio».
La
Sezione ha quindi affermato «il carattere del tutto
recessivo» degli oneri finanziari che la Pa sosterrebbe per
eseguire la decisione del Tribunale e l’«assoluta
irrilevanza» sia delle opere pubbliche realizzate, sia degli
«ipotetici disagi» che la comunità potrebbe subire dopo la
rimozione.
Nella sentenza si è ritenuto che la responsabilità esclusiva
non può non essere del Comune se, nei casi come quelli in
esame, decide di non provvedere all’«acquisizione sanante»
in pendenza di giudizio, né di appellare la sentenza di
primo grado che gli ha ordinato la restitutio in integrum
della proprietà occupata illegittimamente.
In questa cornice poi, violata la citata norma espropriativa
e accertata la responsabilità della Pa, «risulta superfluo
anche solo accertare in via istruttoria se quanto allegato
dal Comune risponda al vero o meno» (articolo Il Sole 24 Ore del 18.08.2016).
---------------
MASSIMA
1. Il presente contenzioso concerne un suolo sito nel
territorio del Comune di Morigerati, di proprietà degli
originari ricorrenti, signori It. De Fi. e Ma.Au.Va., oggetto di occupazione
sine titulo
nell’ambito dei lavori per la realizzazione della rete
fognante comunale.
A seguito di pregresso giudizio instaurato dagli
interessati, il Tribunale di Sala Consilina, con sentenza nr.
50 del 06.06.2009, ha condannato l’Amministrazione
comunale alla rimozione del tratto di rete fognante che
attraversava la proprietà degli istanti ed alla restituzione
del suolo in loro proprietà; detta sentenza non ha formato
oggetto di impugnazione da parte del Comune, ed è pertanto
passata in giudicato.
Successivamente, con provvedimento del 26.11.2012, il
Comune ha disposto l’acquisizione della porzione di suolo de
qua, ai sensi dell’art. 42-bis del d.P.R. 08.06.2001, nr.
327.
La determina di acquisizione è stata impugnata in sede
giurisdizionale dai proprietari interessati, dando luogo al
giudizio definito in prime cure con la sentenza oggetto
dell’appello oggi all’esame della Sezione.
In detta sentenza, accogliendo la domanda attorea, il TAR
della Campania ha reputato fondata e assorbente la censura
di violazione del giudicato formatosi sulla precitata
sentenza nr. 50 del 2009, da intendersi ormai preclusivo
dell’esercizio del potere di acquisizione del suolo per cui
è causa.
2. La ricostruzione in fatto che precede, ricavata dalla
documentazione in atti e ripetitiva di quella operata dal
giudice di prime cure, non risulta contestata dalle parti
costituite per cui, vigendo la preclusione di cui all’art.
64, comma 2, cod. proc. amm., deve considerarsi idonea alla
prova dei fatti oggetto di giudizio.
3. Tutto ciò premesso, può prescindersi dall’eccezione di
inammissibilità dell’appello sollevata dalle parti
resistenti, in quanto l’appello risulta infondato nel
merito.
4. Ed invero, il primo giudice ha individuato il fattore
ostativo all’esercizio del potere di acquisizione nella più
volte citata sentenza del Tribunale di Sala Consilina nr. 50
del 2009, passata in giudicato, con la quale il Comune è
stato condannato sic et simpliciter alla restituzione del
suolo illegittimamente occupato, previa rimozione di quanto
in esso realizzato.
Tanto alla luce del principio enunciato dalla Corte
costituzionale nella sentenza nr. 71 del 30.04.2015,
laddove, nel riaffermare la compatibilità col quadro
costituzionale dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bis
del d.P.R. nr. 327/2001, ha evidenziato che uno dei suoi
tratti caratteristici, e cioè il carattere non retroattivo
dell’acquisizione, “impedisce l’utilizzo dell’istituto in
presenza di un giudicato che abbia già disposto la
restituzione del bene al privato”.
A fronte di tale rilievo, il Comune odierno appellante, pur
dando atto di condividere il principio enunciato dalla
Corte, assume che esso non si applicherebbe alla presente
fattispecie, la quale si configurerebbe come “diversa” per
l’esistenza di “evidentissimi elementi ostativi
all’esecuzione dell’ordine restitutorio, rappresentati
dall’impossibilità di reperire le necessarie risorse
economiche e, soprattutto, dall’impossibilità di
interrompere la continuità del servizio erogato alla
popolazione”.
5. Il Collegio ritiene che gli elementi di mero fatto così
rappresentati non siano idonei a escludere l’applicazione
della regola circa il carattere preclusivo del giudicato
restitutorio rispetto all’esercizio del potere di
acquisizione ex art. 42-bis del d.P.R. nr. 327/2001.
Tale regola è stata recentemente esplicitata dall’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato, la quale ha
precisato: “…assume un rilievo centrale (…)un ulteriore
elemento caratterizzante l’istituto in esame, ovvero
l’impossibilità che l’Amministrazione emani il provvedimento
di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia
disposto la restituzione del bene al proprietario; tale
elemento -valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in
coerenza coi principi elaborati dalla Corte di Strasburgo-
si desume implicitamente dalla previsione del comma 2
dell’art. 42-bis nella parte in cui consente all’autorità di
adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio
avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria
(ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di
ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia
formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma
anche esplicitamente restitutorio (…)” (sent. 09.02.2016, nr. 2).
Da quanto sopra discende, con riguardo al caso che qui
occupa e alle deduzioni dell’Amministrazione appellante, a
fronte del giudicato restitutorio formatosi sulla più volte
citata sentenza del 2009:
- il carattere del tutto recessivo dell’argomento relativo
agli ingenti oneri finanziari che il Comune dovrebbe
sostenere per dare esecuzione al decisum giudiziale;
- l’assoluta irrilevanza della questione di se e quali opere
siano state realizzate sul suolo per cui è causa, come pure
degli ipotetici disagi che la loro rimozione provocherebbe
alla collettività.
A tale ultimo riguardo, è a dirsi che parte appellata
definisce “apodittica” l’affermazione contenuta nell’appello
circa i suddetti inconvenienti; e, tuttavia, alla luce della
portata in radice preclusiva della regola giuridica dianzi
evocata, risulta superfluo anche solo accertare in via
istruttoria se quanto allegato dal Comune risponda al vero o
meno.
Insomma, imputet sibi il Comune se, a fronte dell’iniziativa
a suo tempo intrapresa dai proprietari interessati presso il
giudice ordinario, non ritenne di disporre l’acquisizione
del suolo de quo in pendenza del giudizio, e neanche di
appellare la sentenza di primo grado che ordinava la restitutio in integrum.
6. In conclusione, s’impone una pronuncia di reiezione
dell’appello e conferma della sentenza impugnata.
Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla
Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a
norma dell’art. 112 cod. proc. civ., in aderenza al
principio sostanziale di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante:
cfr. ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass.
civ., sez. II, 22.03.1995, nr. 3260, e, per quelle più
recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, nr. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono
stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione
di tipo diverso |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il gip non può archiviare se manca
contraddittorio.
Illegittimi i decreti di archiviazione del gip se manca il
contraddittorio dell'altra parte.
A ribadire l'annoso principio di diritto i giudici della
Corte di Cassazione - Sez. IV penale, nella
sentenza 17.07.2016 n. 32551, in cui è stato
preso in esame il caso di un giudice per le indagini
preliminari del tribunale di Nocera Inferiore, in provincia
di Salerno, che aveva richiesto l'archiviazione avanzata del
pubblico ministero, nel settembre 2014, «sottraendo la
discussione a qualsiasi contraddittorio».
Nella vicenda erano coinvolte 12 persone del pronto soccorso
della città, indagate per omicidio colposo per presunta
responsabilità medica in cui un paziente, ricoverato per
problemi cardiaci, perse la vita. Sebbene l'autopsia
dimostrasse come l'uomo morì per il suo gravissimo stato di
salute, figli e parenti avanzarono ricorso per presunte
condotte omissive dell'intero staff medico, aggiungendo
delle ulteriori consulenze tecniche sull'accaduto ritenute
però «né rilevanti, né pertinenti» dal giudice,
specificando che «i parenti della persona offesa avevano
presentato due distinte denunce, e non era dato sapere su
che cosa avrebbero dovuto essere ulteriormente sentiti».
La famiglia, impugnato il decreto sui tavoli dei giudici
della Corte di cassazione, accusava il gip di «essere
andato oltre il proprio compito», si legge nella
sentenza, «pronunciando un provvedimento con la
valutazione di merito, senza permettere alle persone offese
di esercitare il proprio diritto di difesa», aggiungendo
a questo che «replicava con valutazioni aventi il
contenuto del giudizio, anticipando l'esito di quella che
doveva essere l'udienza di comparizione».
Alla fine però i porporati della IV sezione penale hanno
dato ragione alla famiglia, in quanto «il ricorso deve
essere accolto, perché fondato. Non è consentito al gip, in
presenza di temi suppletivi d'indagine, anche se presumibile
di scarsa incidenza, obliterare la regola del
contraddittorio, anticipando valutazioni di merito in ordine
alla fondatezza o all'esito delle indagini suppletive
indicate, in quanto l'opposizione è preordinata
esclusivamente a sostituire il provvedimento “de plano” con
il rito camerale»
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2016).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso deve essere accolto perché fondato.
Deve osservarsi che la possibilità di
definire il procedimento in assenza di contraddittorio
costituisce un'eccezione giustificata, oltre che,
ovviamente, dal convincimento di infondatezza della notizia
di reato, dall'inammissibilità dell'opposizione.
Se è pur vero che l'inammissibilità può essere ricollegata,
oltre che alla carenza dei requisiti di legittimazione e
tempestività, all'enunciazione di temi di prova estranei
rispetto all'ipotesi formulata, non è consentito al G.I.P.,
in presenza di temi suppletivi d'indagine, anche se di
presumibile scarsa incidenza, obliterare la
regola del contraddittorio, anticipando valutazioni di
merito in ordine alla fondatezza o all'esito delle indagini
suppletive indicate, in quanto l'opposizione è preordinata
esclusivamente a sostituire il provvedimento "de plano"
con il rito camerale
(Cfr. da ultimo Cass., Sez. IV, 17.01.2013 Rv 255500; sez.
VI, n. 35787 del 10/07/2012, Rv. 253349; conformi: n. 14360
del 2003 Rv. 224839, n. 34152 del 2006 Rv. 235204, n. 40593
del 2008 Rv. 241360, n. 9184 del 2009 Rv. 243010, n. 19808
del 2009 Rv. 243852, n. 34676 del 2010 Rv. 248085, n. 40509
del 2010 Rv. 248855, n. 41625 del 2010 Rv. 248914, n. 1304
del 2011 Rv. 249371, n. 8129 del 2012 Rv. 252476; sez. V,
25.11.2014 rv 263194; sez. II, 10.12.2015 rv 265490, sez.VI
08.01.2016 rv 265915). |
PUBBLICO IMPIEGO: Spoils
system alla Consulta. Paletti alla decadenza automatica dei
dirigenti. Ordinanza di rimessione
della Cassazione fa tornare d'attualità il dibattito.
L'incostituzionalità della decadenza automatica dei
dirigenti derivante dall'insediamento di un nuovo vertice
politico-amministrativo torna d'attualità e mette in seria
discussione l'impianto della riforma Madia.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con
ordinanza
interlocutoria 15.07.2016 n. 14593 indirettamente entra nel dibattito
aperto sulla riforma della dirigenza, sollevando la
questione di legittimità costituzionale relativamente
all'articolo 9, comma 6, delta legge reg.
Friuli Venezia Giulia del 03.03.1998, n. 6, nella parte in
cui, appunto, dispone la decadenza automatica dei dirigenti
dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente.
La Sezione lavoro fa sue e riprende le motivazioni con le
quali la Corte costituzionale esprime da anni un indirizzo
giurisprudenziale fortemente contrario agli elementi di
spoils system che vìolino l'articolo 97 della Costituzione
in tema di accesso agli impieghi pubblici mediante concorsi
e, soprattutto, il principio di continuità dell'azione
amministrativa.
Tale indirizzo, ricorda la Cassazione citando alcune delle
sentenze più rilevanti pronunciate dalla Consulta, afferma
che meccanismi di decadenza automatica, se riferiti a
dirigenti preposti alla direzione di uffici amministrativi
per la cui scelta l'ordinamento non attribuisce, in ragione
della loro funzioni, rilievo esclusivo o prevalente al
criterio della personale adesione del nominato agli
orientamenti politici del titolare dell'organo che nomina,
pregiudicano la continuità dell'azione amministrativa oltre
ad introdurre altri elementi problematici.
In primo luogo, la parzialità del dirigente, se scelto in
relazione all'orientamento politico; inoltre, la sottrazione
del dirigente dichiarato decaduto dalle garanzie del giusto
procedimento, a causa del fatto che la decadenza automatica
svincola la rimozione del dirigente dall'accertamento
oggettivo dei risultati conseguiti. Indirettamente queste
affermazioni, ormai pacifiche nella giurisprudenza
costituzionale, incidono sulla riforma della dirigenza, in
elaborazione frenetica in questi giorni.
La legge 124/2015,
infatti, pur non prevedendo ipotesi di decadenza automatica
dei dirigenti connessa all'insediamento di nuovi organi di
governo, di fatto estende a dismisura la lesione del
principio di continuità dell'azione amministrativa. Infatti,
si prevede una durata degli incarichi dirigenziali al
massimo di quattro anni, prorogabili di altri due in caso di
valutazioni positive, dopo di che si ha la decadenza
necessaria dall'incarico e la collocazione a disposizione
dei ruoli dirigenziali, a prescindere da qualsiasi
valutazione dei risultati conseguiti.
La riforma Madia,
insomma, così come pensata espone tutti i dirigenti
all'assenza di incarico per fatti del tutto casuali, come la
scadenza dell'incarico e la mancata nomina per nuovi
incarichi, del tutto estranei alle vicende del rapporto di
lavoro, proprio perché l'assenza dell'incarico dirigenziale
non sarebbe giustificata da ragioni aziendali o soggettive,
come valutazioni concernenti i risultati aziendali o il
raggiungimento degli obiettivi o il verificarsi di cause che
legittimerebbero la risoluzione per inadempimento del
rapporto.
Anzi, paradossalmente la riforma porrebbe sullo stesso piano
tanto i dirigenti rimasti senza incarico per scadenza
naturale del termine, quanto i dirigenti privati
dell'incarico in conseguenza di valutazioni negative: in
entrambi i casi i dirigenti si ritroverebbero a languire nei
ruoli unici, privi della retribuzione di posizione e
risultato (che va dal 40% al 70% circa del trattamento
stipendiale complessivo a seconda degli enti e dei tipi di
incarico), con la prospettiva di essere licenziati se tale
condizione si prolunga per sei anni nel corso dei quali
annualmente la retribuzione si riduce del 10% annuo, oppure
di chiedere il demansionamento a funzionari.
Simili
conseguenze possono ammettersi in presenza di un
giustificato motivo soggettivo. Ma, la casuale
indisponibilità di determinati organi di governo ad
assegnare incarichi ai dirigenti difficilmente si forma
consiste nel dissociare la qualifica dirigenziale dal
simmetrico obbligo degli organi di governo a reperire dai
ruoli dei dirigenti i vertici da incaricare.
La riforma
vuole puntare sulla rotazione dei dirigenti: ma la
dissociazione tra appartenenza al ruolo e diritto
all'incarico (vulnerato ovviamente nel caso di valutazioni
negative) non crea rotazione, ma solo quello spoils
system automatico, che consente di lasciare a casa
dirigenti non apertamente aderenti all'orientamento
politico, senza alcun riferimento ai risultati ed alla
capacità espressi nell'espletamento del loro incarico
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
progetto è da esibire ai vicini. Diritto di visione dei
confinanti anche se il titolare nega.
Sentenza del Tar Puglia sugli obblighi di trasparenza del
comune in merito ai permessi.
Il proprietario del terreno confinante ha diritto a prendere
visione del progetto edilizio del vicino anche se
quest'ultimo si oppone: in base alla legge sulla
trasparenza, infatti, è possibile ottenere dal comune una
copia del permesso di costruire rilasciato dagli uffici
dell'ente locale, benché il titolare dell'autorizzazione si
opponga: nell'ostensione del documento non vengono in gioco
valori come la privacy delle persone, ma profili soltanto
pubblicistici, laddove l'accesso al nuovo immobile da
realizzare prevede il passaggio sulla proprietà del vicino
richiedente.
È quanto emerge dalla
sentenza 14.07.2016 n. 1136, pubblicata dal TAR
Puglia-Lecce, II Sez..
Interesse qualificato.
Sbaglia il comune: non può esimersi dal rilasciare una copia
del titolo edilizio assentito al proprietario del terreno
che vede come il fumo negli occhi l'iniziativa del
confinante, di cui ha saputo in paese in maniera via
informale; il progetto prevede un immobile residenziale e un
garage e sull'accesso al cespite esiste già una controversia
con l'ente locale.
L'amministrazione motiva il rifiuto dell'ostensione facendo
riferimento all'opposizione del titolare
dell'autorizzazione. Ma l'articolo 24, comma 6, lettera d),
della legge 241/1990 legittima il diniego del comune
soltanto se la diffusione della copia del documento può
ledere la riservatezza delle persone, mentre il permesso a
costruire costituisce un atto che per sua stessa natura è
soggetto al controllo del terzo confinante.
Il fatto che il richiedente sia proprietario del terreno
limitrofo gli conferisce un interesse qualificato dal punto
di vista giuridico a ottenere l'accesso al documento.
All'ente locale non resta che pagare le spese di giudizio.
Strumentalità necessaria.
Per gli obblighi di trasparenza amministrativa il comune è
chiamato spesso in causa nelle controversie fra confinanti e
condomini, che spesso e volentieri finiscono davanti al
giudice. Se per esempio il vano tecnico diventa un locale
abitabile, l'ente locale deve mostrare l'agibilità al vicino
che vuol fare causa.
Dopo la lite sull'appartamento all'ultimo piano, nonostante
la sanatoria, l'amministrazione non può negare le carte
sulla conclusione dell'iter al condomino perché deve
preparare la difesa in tribunale. Il proprietario del
penultimo piano fa la guerra a quello che abita sopra perché
è convinto che nei lavori realizzati vi sia qualcosa di
strano: il vano tecnico diventa abitazione civile grazie a
una sanatoria, ma non risulta chiaro se sussiste o meno
l'agibilità dei locali.
L'ufficio dell'ente, tuttavia, resta in silenzio rispetto
all'istanza del vicino. E sbaglia perché fra i condomini
pendono ben due cause e quello del piano di sotto ha diritto
a ottenere i documenti per preparare la sua difesa in
giudizio. È quanto emerge dalla sentenza 898/2016,
pubblicata dal Tar Puglia, seconda sezione della sede di
Lecce.
In effetti sono gli stessi giudici amministrativi a
instradare sul da farsi il condominio battagliero che vuole
bloccare i lavori all'ultimo piano. Il Tar, infatti, ha già
respinto un primo ricorso precisando che con il rilascio del
permesso di costruire si sono sanate esclusivamente le opere
edilizie, mentre l'utilizzazione dell'immobile come civile
abitazione è soggetto al rilascio del certificato di
agibilità.
Ma ora accoglie il ricorso, ordinando all'amministrazione
locale di mostrare come si è concluso il procedimento
relativo all'agibilità dei locali richiesta dall'altro
condomino litigante. E ciò perché non c'è dubbio che ricorra
il presupposto ex articolo 24 della legge 241/1990: secondo
la normativa sulla trasparenza, infatti, il condomino che si
sente leso dall'iniziativa del rivale ha diritto ad accedere
ai documenti amministrativi necessari per curare o difendere
i suoi interessi giuridici.
Nella specie si configura il requisito della «strumentalità
necessaria» fra le carte richieste e la necessità di
impostare la strategia processuale. Al comune non resta che
pagare le spese di giudizio.
Stop abusi.
La glasnost imposta dalla legge all'amministrazione
vale a maggior ragione in caso di programma di
lottizzazione: lo conferma la giurisprudenza. Il comune è
tenuto a esibire i titoli edilizi rilevanti se uno dei
proprietari coinvolti nell'iniziativa ritiene di essere
danneggiato dalla variante urbanistica adottata
dall'amministrazione per il terreno attiguo al suo:
l'interessato per non avere sorprese si è già rivolto al
Tribunale.
E ciò anche prima della novità legislativa rappresentata
dall'accesso civico introdotto dalla riforma Severino: a
tanto bastano le regole del testo unico dell'edilizia e
della legge sulla trasparenza amministrativa. È quanto
emerge dalla sentenza 923/2014, pubblicata dalla prima
sezione del Tar Marche.
Accolto il ricorso del confinante: l'ente locale non può
rifiutare di mostrare i documenti al richiedente, che è
comproprietario del lotto interessato dall'intervento
edilizio. Non c'è bisogno di invocare le novità introdotte
dal decreto legislativo 33/2013 che ha fatto seguito alla
riforma di cui alla legge 190/2012, che non contiene
soltanto norma anticorruzione ma anche disposizioni per
migliorare il rapporto fra amministrazione e cittadini. E
ciò perché è lo stesso dpr 380/2001 a prescrivere che dopo
il rilascio di un titolo edilizio deve essere dato l'avviso
all'albo pretorio e che chiunque deve avere facoltà di
accedere agli atti del procedimento, visionando sia gli atti
amministrativi sia gli elaborati progettuali.
Insomma: sul progetto della lottizzazione non c'è privacy
che tenga. Nella specie il vicino ha soltanto l'esigenza di
verificare la presenza di eventuali abusi edilizi o altre
similari evenienze che possano ledere la sua proprietà (e
non importa se si tratti di proprietà individuale o di
comproprietà), il che non implica quindi la conoscenza di
dati sensibili; diversamente si darebbe la possibilità agli
autori di abusi edilizi di poter evitare qualsiasi controllo
su impulso di parte, accampando un inesistente diritto alla
riservatezza. Il comune paga le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.201).
-----------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Come è noto, l’art. 22 l. 241/1990, per l’esercizio del
diritto di accesso, richiede l’interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso.
L’art. 24, comma 6, lettera d), prevede che le
amministrazioni possano sottrarre all’accesso i documenti
quando riguardino la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e
associazioni, con particolare riferimento agli interessi
epistolare, sanitario, professionale, finanziario,
industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari,
ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione
dagli stessi soggetti cui si riferiscono.
Nel caso di specie, gli atti richiesti riguardano il
permesso di costruire rilasciato al confinante. Rispetto a
tali documenti non può ravvisarsi alcuna esigenza di
riservatezza tutelata ai sensi del comma 6 dell'art. 24, non
essendo dati relativi alla vita privata delle persone, ma
essendo per loro stessa natura soggetti al controllo dei
terzi confinanti.
In particolare, la giurisprudenza ha condivisibilmente
ritenuto che “per gli atti relativi al
permesso di costruire, la sussistenza del requisito della
vicinitas tra la proprietà dell’istante e quella del
controinteressato fanno sì che debba riconoscersi la
sussistenza in capo al ricorrente dell'interesse diretto,
concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
stato chiesto l'accesso; e che si tratta di atti che per la
loro diretta inerenza a provvedimenti amministrativi
pubblici, non possono essere in alcun modo sottratti
all'accesso, in quanto l'art. 20, comma 6, del T.U. n. 380
del 2001 assicura a qualsiasi soggetto interessato la
possibilità di visionare gli atti del procedimento di
rilascio di permesso di costruire, in ragione del controllo
sull'attività edilizia, che il legislatore ha inteso
garantire ed atteso che in subiecta materia non può essere
affermata l'esistenza di un diritto alla riservatezza in
capo ai controinteressati”
(Tar Lazio, sez. II, 01.12.2015, n. 13545).
Ne deriva, nel caso di specie, che non può esservi dubbio
circa la sussistenza in capo al ricorrente del diritto di
accesso agli atti richiesti e della illegittimità del
diniego espresso dal Comune con riferimento alla mera
opposizione del controinteressato.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto. |
APPALTI: I
limiti al subappalto vanno giustificati.
Lo dice la corte di giustizia Ue.
Illegittimo prevedere obbligo di svolgimento di una quota
dell'appalto con risorse proprie se non vi sono esigenze di
competenze particolari.
Lo afferma la
sentenza
14.07.2016 n. C-406/14
della Corte europea che ha si è trovata a giudicare della
legittimità di una clausola di un capitolato che obbligava
l'esecutore dell'appalto a eseguire una quota di lavori con
risorse proprie per almeno il 25% del totale dei lavori,
peraltro oggetto di finanziamento da parte di fondi europei.
I giudici ricostruiscono il quadro normativo vigente
all'epoca della gara bandita in Polonia e censurano il
comportamento della stazione appaltante partendo dalla
considerazione che la direttiva 2004/18 deve essere
interpretata nel senso che un'amministrazione aggiudicatrice
non è autorizzata a imporre, mediante una clausola del
capitolato d'oneri di un appalto pubblico di lavori, che il
futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei
lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse
proprie.
Nella sentenza si legge che una clausola come quella
prevista dalla stazione appaltante, che si limita a fissare
implicitamente una percentuale dei lavori, non consentirebbe
di determinare se la restrizione del ricorso al subappalto
riguardi lavori la cui esecuzione necessita di competenze
particolari.
Inoltre, dicono i giudici, questa previsione si configura
come irregolarità anche rispetto alla normativa in materia
di utilizzo dei fondi Ue. Anche in base all' articolo 98 del
regolamento europeo n. 1083/2006 del Consiglio,
dell'11.07.2006, recante disposizioni generali sul Fondo
europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e
sul Fondo di coesione, il fatto che, nell'ambito di un
appalto pubblico di lavori relativi ad un progetto che
beneficia di un aiuto finanziario dell'Unione,
l'amministrazione aggiudicatrice abbia imposto che il futuro
aggiudicatario esegua almeno il 25% di tali lavori
avvalendosi di risorse proprie, in violazione della
direttiva 2004/18, costituisce un'«irregolarità» ai
sensi di detto articolo 2, punto 7, che giustifica la
necessità di applicare una rettifica finanziaria
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2016).
------------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
1) La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal
regolamento (CE) n. 2083/2005 della Commissione, del
19.12.2005, deve essere interpretata nel senso che
un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad
imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un
appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario
esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di
detto appalto avvalendosi di risorse proprie.
2) L’articolo 98 del regolamento (CE) n. 1083/2006 del
Consiglio, dell’11.07.2006, recante disposizioni generali
sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale
europeo e sul Fondo di coesione e che abroga il regolamento
(CE) n. 1260/1999, in combinato disposto con l’articolo 2,
punto 7, dello stesso, deve essere interpretato nel senso
che il fatto che, nell’ambito di un appalto pubblico di
lavori relativi ad un progetto che beneficia di un aiuto
finanziario dell’Unione, l’amministrazione aggiudicatrice
abbia imposto che il futuro aggiudicatario esegua almeno il
25% di tali lavori avvalendosi di risorse proprie, in
violazione della direttiva 2004/18, costituisce un’«irregolarità»
ai sensi di detto articolo 2, punto 7, che giustifica la
necessità di applicare una rettifica finanziaria ai sensi di
detto articolo 98, nei limiti in cui non possa escludersi
che tale violazione abbia avuto un effetto sul bilancio del
Fondo interessato.
L’importo di tale rettifica deve essere determinato tenendo
conto di tutte le circostanze concrete rilevanti alla luce
dei criteri citati al paragrafo 2, primo comma,
dell’articolo 98 di detto regolamento, vale a dire la natura
dell’irregolarità constatata, la gravità della stessa e la
perdita finanziaria che ne è risultata per il Fondo
interessato. |
TRIBUTI: Scuole
religiose senza imposta comunale.
L'ente religioso che svolge attività di insegnamento e di
oratorio è esente dal pagamento dell'imposta comunale sugli
immobili utilizzati nel compimento dei propri fini
istituzionali; in tal senso, non rileva il fatto che gli
alunni paghino una retta annuale, il che non trasforma
l'attività da non commerciale a commerciale e nulla cambia
in merito all'esenzione dal pagamento dell'Ici.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza
11.07.2016 n. 1679/03/16 della Ctp di Taranto.
I giudici tributari erano chiamati a dirimere una
controversia in materia di Ici, tra il comune di Taranto e
un istituto religioso, titolare di un immobile in cui veniva
esercitata l'attività di insegnamento e oratorio. Agli
alunni che intendessero frequentare detta scuola, era
richiesto il pagamento di una retta.
Tale circostanza
induceva il comune a richiedere l'Ici sull'immobile,
qualificando come commerciale l'attività in esso esercitata.
L'ente religioso, di contro, manifestava il proprio
dissenso, impugnando l'avviso di accertamento, e sostenendo
l'assenza di ogni finalità lucrativa e il pieno diritto
all'esenzione dall'imposta.
La Ctp ha accolto il ricorso e annullato l'accertamento. La
previsione del pagamento di una retta da parte degli alunni
frequentanti i corsi scolastici, spiega la sentenza, non
trasforma affatto l'attività da non commerciale a
commerciale, stante l'assenza di uno scopo di lucro.
In
verità, si tratta di una necessità di sopravvivenza
dell'ente, rispondente a elementari principi di economicità,
secondo cui le entrate devono almeno coprire le spese, per
evitare che l'attività, pur non lucrativa, non sia in
perdita, rischiando la chiusura, dovendosi comunque coprire
i costi, tale da arrivare a un pareggio di gestione.
Dunque, osserva la Ctp, per gli istituti religiosi che
svolgano esclusivamente attività di insegnamento e/o di
oratorio, non ha alcuna rilevanza accertare se la retta
versata dagli alunni sia meramente simbolica, oppure copra
le spese (personale, utenze ecc.) o addirittura che ecceda
quest'ultime. L'importante è che l'attività sia svolta senza
fine di lucro, come nel caso in esame, anche se,
necessariamente, in conformità ai necessari criteri di
economicità.
Criteri che sono giustificati, peraltro, dalla
«sacrosanta garanzia costituzionale della funzione didattica
svolta da altri enti in parallelo allo stato e le nozioni
generali di economia e di impresa». In ragione della
affermata incertezza interpretativa, il collegio ha comunque
disposto la compensazione integrale delle spese.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Il ricorso è fondato e va accolto.
L'istituto ricorrente è un ente religioso, in cui si svolge
in modo esclusivo, per circostanza pacifica e come
comprovato dall'allegato regolamento interno, secondo i
valori ispiratori dell'ordine dei Salesiani, attività di
insegnamento e di oratorio, cioè ricreative e sportive,
tutte rientranti in quelle previste dall'art. 7, comma 1,
lett. i), del dlgs n. 504 del 1992, espressamente esenti da
Ici, ove non abbiano natura esclusivamente commerciale, in
base a quanto disposto con decreti legge n. 203 del 2005 e
n. 223 del 2006.
Nella fattispecie, il regolamento interno esclude
specificamente la finalità di lucro. Consegue,
implicitamente, che nessuna delle eventuali entrate
economiche può avere carattere di profitto ed essere
incamerata a titolo definitivo, anziché essere reimpiegata
per le medesime, istituzionali finalità non di lucro.
L'istituzione, quindi, possiede ontologicamente i requisiti
per lo svolgimento delle suddette attività con modalità non
commerciali ex art. 7 citato, così come interpretati anche
dal decreto del Mef n. 200/2012.
Tra l'altro, non esiste nessun'altra attività concorrente di
natura eventualmente commerciale, che pure potrebbe esserci,
in aggiunta, senza per questo far venir meno l'esenzione, a
tenore della novelle legislative del 2005 e del 2006, come
potrebbe essere, per esempio, quella alberghiera,
notoriamente praticata presso ben altre realtà.
La previsione del pagamento di una retta da parte degli
alunni frequentanti i corsi scolastici non trasforma affatto
l'attività da non commerciale a commerciale, stante
l'assenza di uno scopo di lucro.
Si tratta soltanto di una necessità di sopravvivenza
dell'ente, rispondente ad elementari principi di
economicità, secondo cui le entrate devono almeno coprire le
spese, a evitare che l'attività, per quanto non lucrativa,
non sia in perdita, rischiando la chiusura, dovendone
sopportare i costi, ma, almeno, vada in pareggio, se
possibile. Sicché, per gli istituti religiosi che svolgano
esclusivamente attività di insegnamento e/o di oratorio, non
ha nemmeno alcuna rilevanza accertare se la retta versata
dagli alunni sia meramente simbolica oppure copra le spese
(personale, utenze...).
L'importante è che l'attività sia
svolta senza fine di lucro, come nel caso in esame, anche
se, necessariamente, in conformità agli esposti, necessari
criteri di economicità, per comprendere i quali non c'è
neanche bisogno di richiamare, benché pertinenti, la
sacrosanta garanzia costituzionale della funzione didattica
svolta da altri enti in parallelo allo stato e le nozioni
generali di economia e di impresa.
L'incertezza interpretativa in materia giustifica la
compensazione delle spese
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
APPALTI SERVIZI: Per la concessione non va indicato l’incasso presunto.
Tar di Bologna. Bandi e gare pubbliche.
Le gare per
collocare distributori automatici in luoghi pubblici non
devono indicare il potenziale valore del contratto, perché
spetta all’imprenditore reperire i dati per formulare
un’offerta remunerativa.
Questo è il
principio posto dal TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, nella
sentenza 11.07.2016 n. 699, relativa ad un’Asl che poneva in gara la
concessione di macchinette per distribuire bevande e snack.
Un’impresa contestava la gara, lamentando di non poter
formulare un’offerta economica perché il bando comunicava
solo l’importo del canone da versare all’Asl (1.258.000 euro
per un triennio), mentre mancava il dato del fatturato
conseguibile. La tesi dell’Asl era invece che, in mancanza
di un dato sul fatturato, era sufficiente conoscere i luoghi
di ubicazione, il numero delle macchine e il potenziale
bacino di utenza.
Questa seconda tesi è stata condivisa dal Tar, sottolineando
che l’Asl aveva bandito una concessione (e non un appalto)
di servizi, in quanto il corrispettivo della fornitura
consisteva solo nel diritto di gestire i servizi riscuotendo
un prezzo (art. 3, co. 12, codice dei contratti 163/2006).
È
una concessione perché l’impresa utilizza ciò che l’ente le
consente (la possibilità di collocare distributori),
assumendo il rischio economico connesso alla gestione del
servizio (vendita), che viene svolto con mezzi propri. Per
godere dell’area in cui viene collocato il distributore, il
concessionario corrisponde un canone e non riceve
dall’amministrazione alcun corrispettivo.
Non trattandosi di un appalto, è stato ritenuto applicabile
l’articolo 30 del previgente Codice dei contratti (Dlgs
163/2006), che esigeva solo l’adozione di principi di
economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza e proporzionalità, il tutto attraverso procedura
selettiva e gare anche informali. Non si applicava invece
l’articolo 29 dello stesso Dlgs, che imponeva di comunicare
anche il valore stimato dell’appalto.
Il Tar ha condiviso la tesi dell’amministrazione, cioè che
il servizio potesse essere affidato senza fornire elementi
circa il fatturato potenziale, ad esempio perché si tratta
della prima installazione, con un ragionamento già adottato
in un caso analogo, relativo ai distributori nelle sedi del
ministero dell’Economia (Tar Lazio, sentenza 3756/2016).
Bastano quindi dati relativi al bacino di utenza, al numero
e collocazione dei distributori, al numero dei dipendenti e,
per le Asl, ai posti letto, per consentire agli operatori
del settore di offrire un importo remunerativo.
Nel regime del nuovo Codice degli appalti (Dlgs 50/2016,
articolo 4) per le concessioni sotto soglia (5.225.000 euro)
operano oggi i princìpi di economicità, efficacia,
imparzialità e parità di trattamento simili a quelli del
precedente articolo 30 del Dlgs 163. Quindi il principio
adottato dal Tar Bologna potrà essere valido anche per il
futuro.
Dal 01.01.2017, peraltro, il problema sarà
risolto grazie alle nuove tecnologie: l’articolo 2 del Dlgs
127/2015 impone di comunicare all’agenzia delle Entrate i
corrispettivi incassati da ogni distributore automatico (si
veda Il Sole 24 Ore del 18 luglio). Ciò gioverà anche alle
pubbliche amministrazioni, che potranno bandire gare con
dati più precisi (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2016).
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MASSIMA
6. Passando all’esame del merito deve premettersi che
l'affidamento del servizio di gestione di
distributori automatici di snack e bevande è ricondotto
dalla giurisprudenza prevalente nell'ambito della
concessione di servizi che si differenzia dall'appalto di
servizi in quanto il corrispettivo della fornitura "consiste
unicamente nel diritto di gestire i servizi, o in tale
diritto accompagnato da un prezzo" (art. 3, comma 12,
del codice dei contratti).
Sul piano economico, il concessionario utilizza quanto
ottiene in concessione a fini di lucro, assumendo il rischio
economico connesso alla gestione del servizio, svolto con
mezzi propri; per godere delle risorse materiali
appartenenti all'amministrazione, il concessionario
normalmente corrisponde un canone e non riceve dalla stessa
alcun corrispettivo
(così, in termini, Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015 n.
3571).
L'art. 30 del codice dei contratti sottrae
le concessioni alle disposizioni riferite ai contratti
pubblici, ma le assoggetta comunque al rispetto dei principi
di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità, con residuale
obbligo, pertanto, di procedure selettive che, anche
attraverso una gara informale, assicurino il rispetto dei
suddetti principi.
7. Si tratta dunque di stabilire se, all’interno delle norme
applicabili, debba farsi rientrare l'art. 29 del codice dei
contratti in materia di "calcolo del valore stimato degli
appalti pubblici e delle concessioni di lavori o servizi
pubblici".
Ciò in quanto la reale e pressoché unica doglianza della
ricorrente risiede nel fatto che una stima carente,
insufficiente o, comunque, non corretta, del potenziale
bacino di utenza cui il servizio è destinato possa vulnerare
i principi di trasparenza, parità di trattamento e
proporzionalità nell'affidamento delle concessioni.
Il rilievo di tale elemento è stato colto dall'ANAC, la
quale, anche relativamente alla tipologia dei contratti di
concessione, ha più volte sottolineato la necessità di
calcolare il fatturato presunto derivante dalla gestione del
servizio (cfr., da ultimo, il parere di precontenzioso n.
104 del 17.06.2015, che richiama la delibera n. 40 del
19.12.2013 e la deliberazione n. 75 del 01.08.2012).
Secondo l'Autorità "qualora si tratti di
una concessione, non essendovi un prezzo pagato dalla
stazione appaltante, ma solo quello versato dagli utenti,
sarà quest'ultimo a costituire parte integrante dell'importo
totale pagabile di cui è fatta menzione nella norma sopra
citata; il canone a carico del concessionario potrà altresì
essere computato, ove previsto, ma certamente, proprio in
quanto solo eventuale, non può considerarsi l'unica voce
indicativa del valore della concessione
(Cfr. Deliberazione n. 9 del 25.02.2010).
La mancata indicazione del valore stimato
dell'affidamento può rendere più difficoltosa per le imprese
interessate alla partecipazione, la formulazione di un
offerta economica consapevole. Inoltre, l'erronea
indicazione del valore del contratto può determinare la
mancata assicurazione di un adeguato livello di pubblicità,
che -in base a quanto da tempo chiarito dalla Commissione
Europea nella Comunicazione interpretativa sulle concessioni
del 2000 sulla scorta di orientamenti costanti della Corte
di Giustizia- per le concessioni di servizi di importo
superiore alle soglie comunitarie, consiste nella
pubblicazione del relativo avviso sulla Gazzetta Ufficiale
dell'Unione Europea
(cfr. Deliberazione n. 73 del 20.07.2011 e Deliberazione n.
13 del 12.03.2010).
Ulteriore conseguenza della non corretta
valutazione dell'importo dell'affidamento, può essere anche
l'erronea commisurazione del contributo dovuto all'Autorità
e delle cauzioni previste dal codice dei contratti pubblici,
in quanto i relativi importi sono fissati proprio sulla base
del predetto valore [...]".
Le considerazioni dell'Autorità vanno tuttavia poste a
raffronto con le evenienze dei casi concreti, in cui, ad
esempio, un servizio venga affidato per la prima volta, o,
comunque, l'amministrazione non disponga del dato relativo
al fatturato generato dalla concessione eventualmente già in
essere (TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.03.2016, n. 3756).
In ogni caso, qualora non sia possibile
calcolare il fatturato presunto, l'amministrazione è tenuta
quantomeno a fornire indicazioni analitiche circa il
potenziale bacino di utenza del servizio da affidare.
In proposito, dalla documentazione in atti e alla stregua
delle norme della lex specialis innanzi riportate
risulta che l'amministrazione ha assolto l'onere di indicare
i dati relativi al bacino di utenza, dai quali i
concorrenti, tutti operatori del settore, potevano
ragionevolmente ricavare il fatturato potenziale derivante
dalla gestione del servizio.
Infatti il capitolato reca in coda 5 allegati, riguardanti i
5 lotti, in cui si indica per ciascun presidio il numero e
la collocazione dei distributori.
I suddetti dati sono integrati con l'indicazione del numero
dei dipendenti e dei posti letto per ogni sede.
Ritiene il Collegio che l'amministrazione abbia fornito
tutti gli elementi a sua disposizione, dai quali i
concorrenti potevano ragionevolmente desumere la stima del
potenziale fatturato generato dalla gestione del servizio
mediante la propria organizzazione imprenditoriale.
La censura principale, sviluppata nei primi due motivi, è
dunque infondata. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Indulto, pene accessorie salve. Resta la sanzione
disciplinare a carico dell'avvocato.
CASSAZIONE/ Sentenza sulla decisione assunta dal
Consiglio dell'Ordine di Potenza.
L'indulto non annulla le pene accessorie.
Lo ribadisce la Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, nella
sentenza
08.07.2016 n. 14039, in cui un'avvocatessa, F.S., propose ricorso contro
la decisione del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di
Potenza, di sospenderla per sei mesi nell'aprile 2013 per
concorso in bancarotta fraudolenta.
L'avvocatessa impugnò,
in maggio, la sanzione disciplinare davanti le Sezioni unite
della Cassazione e il Consiglio nazionale forense per
ottenere il condono, basandosi sulla legge di concessione
dell'indulto 241/2006.
A settembre il Cnf respinse il ricorso, che tuttavia si
rivolse alle Sezioni unite presentando diverse pronunce
della Cassazione in merito, in particolare la 23287/2010 in
cui è spiegato che «trovano applicazione le norme del
codice di procedura penale invece quando la legge
professionale ne faccia espresso rinvio ovvero quando siano
da applicare istituti, quali l'amnistia e l'indulto».
Ma la Cassazione non ha accolto la motivazione, spiegando
che «non è in alcun modo sostenibile l'interpretazione
prospettata dalla ricorrente», in quanto l'articolo 174
del codice di procedura penale recita che «l'indulto o la
grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la
commuta in un'altra specie di pena stabilita dalla legge.
Non estingue le pene accessorie», quindi «il
Consiglio nazionale forense, allorquando ha escluso che la
legge di indulto potesse implicare effetti estintivi della
sanzione disciplinare ha adottato una decisione del tutto
corretta»
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti
per la pa, i prezzi sono revisionabili al rialzo.
E' nulla la clausola che impediva la
revisione periodica delle condizioni economiche dei
contratti.
È tuttora nulla la clausola che impediva la revisione
periodica dei prezzi negli appalti di servizi per le scuole,
assegnati con la vecchia normativa: il decreto legislativo
n. 163/2006. Il nuovo codice degli appalti (decreto n.
50/2016) è stato pubblicato il 19.04.2016, ma, stante la
recente introduzione della vi è da ritenere che la maggior
parte dei contratti in essere sia ancora sotto il regime
della precedente legislazione.
Il TAR Campania-Napoli - Sez. VIII, per l'appunto, con la
sentenza 08.07.2016 n. 3504 (camera di consiglio
il 18 maggio, quindi dopo l'abrogazione) ha dato ragione ad
un'impresa di pulizie facendo riferimento all'art. 115 del
d.lgs. 163, vigente all'epoca dell'appalto. La sentenza ha
pertanto annullato la clausola impeditiva e prescritto
adempimenti di revisione.
Il relativo contratto che ne era seguito prevedeva la
subordinazione della revisione dei prezzi ad eventuali
incrementi di stanziamenti annuali di bilancio a favore
della stazione appaltante da parte dell'amministrazione
centrale. Così composta la situazione era soggetta alla
regola di ragioni di bilancio erariale e restava svincolata
da effettive condizioni di ordine economico temporale che,
in caso di prestazioni di lungo periodo, sono soggette a
variazioni di mercato che possono poi incidere sugli
equilibri contrattuali.
Mostrando sensibilità ed attenzione all'andamento economico,
i giudici campani hanno sottolineato l'inderogabilità
dell'art. 115 che, rubricato “Adeguamenti dei prezzi”,
disponeva: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o
continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare
una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione
viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai
dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi”.
Di particolare interesse è la motivazione che sorregge la
decisione giudiziaria che recepisce la revisione periodica
del corrispettivo nello scopo di tenere indenni gli
appaltatori delle amministrazioni pubbliche da quegli
aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che,
incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento
della formulazione dell'offerta, potrebbero indurre
l'appaltatore a svolgere i servizi o ad eseguire le
forniture a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito
o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con
inevitabile compromissione degli interessi pubblici.
Ai giudici non sfugge la presenza nella vecchia norma di un
procedimento istruttorio che assegna alla stazione
appaltante (la pa, ossia la scuola) particolare priorità e
conduzione nel rideterminare e riproporre l'entità del
corrispettivo revisionato; in tal senso la sentenza
prescrive che l'adeguamento deve essere calcolato
utilizzando l'indice di variazione dei prezzi per le
famiglie di operai ed impiegati reso noto dall'Istat, il
cosiddetto indice FOI.
Restano da annotare le novità introdotte nel nuovo codice
degli appalti dal legislatore, che, invece, non ha dedicato
medesimo riguardo alla tematica, prevedendo (art. 106 del
d.lgs. n. 50/2016) solo la possibilità di inserimento di
clausole di revisione privilegiando ragioni di erario onde
evitare turbamenti del quadro finanziario che inducono la pa
a ricorrere all'appalto, ed in tal modo da rendere
subordinata l'impresa privata nell'equilibrio tra le parti
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2016).
---------------
MASSIMA
Il Collegio, confermando l’orientamento di questa
Sezione, dal quale non ha motivo di discostarsi, deve, in
via preliminare, osservare che la proposta
domanda di riconoscimento delle somme spettanti in virtù
dell’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, previo accertamento
della nullità della clausola negoziale limitativa della
revisione periodica dei prezzi prescritta da tale norma,
rientra nella giurisdizione esclusiva dell'adito giudice
amministrativo
(cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione VIII, 11.03.2015,
n. 1462 e n. 1475).
Ed invero, l'art. 244 del d.lgs. n. 163/20063 prevede che "il
codice del processo amministrativo individua le controversie
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materia di contratti pubblici"
e l'art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm.
stabilisce che "sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie relative al divieto di rinnovo tacito dei
contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, relative
alla clausola di revisione del prezzo e al relativo
provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione
continuata o periodica, nell'ipotesi di cui all'articolo 115
del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163".
Tanto premesso in punto di giurisdizione, nel merito, la
suindicata domanda è fondata per le ragioni di seguito
esposte.
Ai sensi dell’art. 115 del d.lgs. n.
163/2006, “tutti i contratti ad esecuzione periodica o
continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare
una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione
viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai
dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi
sulla base dei dati di cui all'articolo 7, comma 4, lett.
c), e comma 5”.
La giurisprudenza amministrativa è ormai costante
nell'affermazione secondo cui l'art. 115
citato (che riprende la formulazione già contenuta nell'art.
6 della l. n. 537/1993) è una norma imperativa, che si
sostituisce di diritto ad eventuali pattuizioni contrarie (o
mancanti) nei contratti pubblici di appalti di servizi e
forniture ad esecuzione periodica o continuativa
(cfr., ex multis, Cons. Stato, n. 2461/2002; n.
916/2003; n. 3373/2003; n. 3994/2008): ciò,
in quanto la clausola di revisione periodica del
corrispettivo di tali contratti ha lo scopo di tenere
indenni gli appaltatori delle amministrazioni pubbliche da
quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che,
incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento
della formulazione dell'offerta, potrebbero indurre
l'appaltatore a svolgere i servizi o ad eseguire le
forniture a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito
o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con
inevitabile compromissione degli interessi pubblici.
Per evitare tali inconvenienti, il
legislatore ha,
quindi, disposto l'inserimento obbligatorio
della clausola di revisione prezzi ed ha contemporaneamente
delineato il procedimento istruttorio attraverso cui la
stazione appaltante deve determinare l'entità del compenso
revisionale.
Peraltro, è noto che le disposizioni del
previgente art. 6 della l. n. 537/1993 non sono state
completamente attuate, visto che, ad esempio, non ha mai
concretamente funzionato il meccanismo di rilevazione del
costo dei beni e servizi, cosicché si applica normalmente il
c.d. indice FOI fissato dall'ISTAT
(cfr. Cons. Stato n. 3373/2003; n. 2461/2002; n. 4801/2002).
Può, pertanto, affermarsi che, per i
contratti ad esecuzione periodica o continuativa –relativi a
servizi e forniture– stipulati da amministrazioni pubbliche,
la regola ordinaria è quella per cui la revisione prezzi
spetta senza alcun margine di alea a danno dell'appaltatore.
Nella fattispecie
oggetto di gravame devono ritenersi applicabili i principi
sopra richiamati, atteso che la clausola contenuta nell’art.
12, comma 2, del contratto normativo (“la revisione dei
prezzi … potrà essere effettuata subordinatamente ed entro i
limiti di eventuali incrementi degli stanziamenti annuali di
bilancio”) e recepita nel susseguente contratto
attuativo risulta irrefutabilmente arbitraria nell’an
e limitativa nel quantum dell’adeguamento periodico
del corrispettivo, contraria, come tale, alla norma
imperativamente prescrittiva del compenso revisionale
tramite apposita statuizione contrattuale.
Conseguentemente, è da ritenersi operante, per effetto
sostitutivo automatico, la clausola revisionale prevista
dall'art. 115 del d.lgs. n. 163/2006.
Con riferimento al quantum revisionale, il meccanismo
legale di aggiornamento del canone degli appalti pubblici di
servizi e delle pubbliche forniture prevede che la revisione
venga operata a seguito di una istruttoria condotta dai
dirigenti responsabili della acquisizione dei beni e servizi
sulla base dei dati rilevati e pubblicati semestralmente
dall'ISTAT sull'andamento dei prezzi dei principali beni e
servizi acquisiti dalle amministrazioni appaltanti, ma
l'insegnamento giurisprudenziale consolidato ha chiarito che
–a fronte della mancata pubblicazione di tali dati da parte
dell'ISTAT– l’adeguamento dei corrispettivi debba essere
calcolato utilizzando l'indice (medio del paniere) di
variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati
(c.d. indice FOI) mensilmente pubblicato dal medesimo ISTAT
(cfr., ex multis, Cons. Stato, n. 2461/2002).
Quanto al maggior costo sostenuto per il personale impiegato
per l'espletamento del servizio di pulizia, che –come
argomentato da parte ricorrente– incide sull’economia del
contratto nella misura dell’85%, ritiene il Collegio che il
relativo importo debba essere riconosciuto in base agli
incrementi desumibili dalle tabelle ministeriali, in
rapporto ai valori economici previsti dalla contrattazione
collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, alle norme in materia previdenziale e
assistenziale, ai diversi settori merceologici ed alle
differenti aree territoriali.
Alla stregua delle superiori considerazioni, la domanda in
esame va accolta per quanto di ragione, con conseguente
condanna dell’amministrazione resistente al pagamento, in
favore del C.N.S. e del Consorzio Stabile Miles, del
compenso revisionale ex 115 del d.lgs. n. 163/2006.
Detto compenso revisionale andrà determinato, ai sensi
dell’art. 34, comma 4, c.p.a., su proposta
dell’amministrazione resistente, secondo i predetti principi
di diritto, e tenendo conto sia delle fatture emesse dalla
parte ricorrente ai fini del calcolo della rivalutazione dei
canoni sulla base delle variazioni dell’indice FOI rilevato
dall’ISTAT, sia delle fatture già saldate dalla stazione
appaltante, nonché decurtando le somme già forfetariamente e
parzialmente riconosciute a titolo di adeguamento dei
corrispettivi.
L’importo così determinato andrà maggiorato
degli interessi moratori che –ai sensi dell’art. 4 del
d.lgs. n. 231/2002– decorreranno dal giorno successivo alla
scadenza del termine per il pagamento fino all’effettivo
soddisfo (cfr. TAR
Napoli, Sezione VIII, 11.03.2015, n. 1475 cit.).
La proposta di determinazione a cura dell’amministrazione
resistente e il pagamento, in favore dei ricorrenti,
dell’importo dovuto a titolo di compenso revisionale
dovranno avvenire entro il termine che si fissa, quanto alla
proposta, in 40 giorni decorrenti dalla comunicazione o, se
anteriore, notificazione della presente decisione, e, quanto
al pagamento, in 40 giorni dalla notizia dell’accettazione
della proposta. |
APPALTI SERVIZI: Circa
la domanda di
rimborso dei maggiori costi sostenuti in conseguenza
dell’incremento dell’orario di lavoro e della corrispondente
maggior retribuzione del personale impiegato in appalto,
ritiene il Collegio di dover declinare la
giurisdizione di questo adito giudice amministrativo in
favore della giurisdizione del giudice ordinario.
La domanda in esame ha per oggetto il
totalmente distinto profilo del rimborso dei maggiori oneri
economici derivanti da una circostanza estranea
all’andamento di mercato dei costi del servizio affidato e,
segnatamente, consistente nell’incremento dell’orario di
lavoro della manodopera in corso di appalto; profilo che
attiene, quindi, alla variazione del quantum delle
prestazioni richieste al gestore, nonché all’incidenza della
stessa sulla remuneratività del corrispettivo ab origine
pattuito, e che non può, come tale, considerarsi attratto
all’orbita di giurisdizione esclusiva dell’adito giudice
amministrativo, essendo inammissibile una estensione
analogica della eccezionale norma istitutiva di
quest’ultima.
In realtà, la fattispecie in scrutinio rientra pacificamente
nella giurisdizione del giudice ordinario.
Essa sussegue, infatti, allo spartiacque rappresentato dalla
stipula del contratto affidato ed afferisce alla fase della
sua esecuzione, così da attingere, in via diretta e
immediata, posizioni di diritto soggettivo scaturenti da un
rapporto negoziale ‘iure privatorum’, perfezionato ed
efficace, e cioè posizioni di diritto soggettivo che, in
quanto tali, si incanalano nell’alveo naturale della
cognizione del giudice ordinario, chiamato a verificare la
conformità delle regole convenzionali e delle relative
condotte attuative alla normativa civilistica.
Più in dettaglio, investe pretese patrimoniali ingenerate
dalla modifica quantitativa del contenuto delle obbligazioni
gravanti su ciascuna delle parti –quale, da un lato,
l’incremento del monte ore della manodopera impiegata e,
quindi, delle prestazioni erogate dall’impresa appaltatrice
e, d’altro lato, la proporzionale maggiorazione del compenso
dovuto dalla stazione appaltante–, nonché l’interpretazione
e l’applicazione della disciplina convenzionale dettata per
tale ipotesi (art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo
del 28.12.2006).
Ebbene, l’esercizio, da parte della stazione appaltante, del
c.d. ius variandi, ossia del diritto potestativo di
avvalersi di simili modifiche alla quantità (o anche alla
qualità) delle prestazioni affidate, così come,
specularmente, il diritto dell’appaltatore di esigere
l’adeguamento del corrispettivo in proporzione alle
modifiche stesse non si correlano –come, invece, inferito
dai ricorrenti– ad un potere dell’amministrazione di tipo
autoritativo, ma si esplicano a guisa di diritti soggettivi
nell'ambito di un rapporto paritetico.
Pertanto, la controversia originata dall’esercizio del ius
variandi è da intendersi esulante dalla giurisdizione del
giudice amministrativo, atteso che la modifica, quantitativa
o qualitativa, delle prestazioni contrattuali rientra
nell'ambito della fase negoziale di esecuzione del contratto
già affidato e stipulato, devoluta –come illustrato– alla
cognizione del giudice ordinario.
In questo senso, è stato, più in generale, ribadito che
appartengono al giudice amministrativo le controversie che
attengono alla fase preliminare –antecedente e prodromica
alla stipula del contratto pubblico– di formazione della
volontà dell’amministrazione e di scelta del contraente
privato in base alle regole della c.d. evidenza pubblica;
mentre sono devolute al giudice ordinario le controversie
che radicano le loro ragioni nella serie negoziale
successiva, a partire dalla stipula del contratto pubblico
fino alle vicende del suo adempimento, e che riguardano la
disciplina dei rapporti instaurati in forza del contratto
medesimo e sono, quindi, volte all’accertamento dei diritti
e degli obblighi da esso scaturenti, nonché delle condizioni
di sua validità ed efficacia.
---------------
Venendo ora alla domanda di rimborso dei maggiori costi
sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di
lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del
personale impiegato in appalto, il Collegio, confermando
l’orientamento già fatto proprio dalla Sezione in casi
omologhi a quello dedotto nel presente giudizio, ritiene di
dover declinare la giurisdizione di questo adito giudice
amministrativo in favore della giurisdizione del giudice
ordinario (cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione VIII,
23.10.2015, n. 5000, 05.11.2015, n. 5131).
Al riguardo, giova, in primis, chiarire gli esatti
termini della controversia.
Il Collegio rileva, in particolare, che, stando alla
prospettazione dei ricorrenti:
- in seguito all’accordo sindacale stipulato il 30.07.2007,
l’orario di lavoro della manodopera adibita all’esecuzione
dell’appalto, costituita da ex lavoratori socialmente utili
(LSU) o di pubblica utilità (LPU), sarebbe stato innalzato
da 35 a 36 ore settimanali;
- ciò avrebbe comportato il proporzionale aumento della
retribuzione media mensile pro capite da € 1.544,08 a €
1.588,20;
- in capo al gestore del servizio di pulizia affidato,
all’obbligo contrattuale “di assicurare, in ogni caso, il
mantenimento dei livelli occupazionali … del personale ex
LSU ed ex LPU esistenti alla data di stipula del … contratto”
(art. 4, comma 6, del contratto normativo del 28.12.2006)
–così come, appunto, quello imposto dal citato accordo
sindacale del 30.07.2007– avrebbe dovuto corrispondere il
diritto di percepire un compenso commisurato all’andamento
della spesa per la manodopera, non potendo, quest’ultimo,
tradursi in un fattore a discapito del gestore medesimo.
Rileva, altresì, il Collegio che la copertura dei maggiori
costi derivanti dall’incremento dell’orario di lavoro in
corso di appalto rinviene la propria disciplina negoziale
nell’art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo del
28.12.2006: “L’importo contrattuale … –recita,
segnatamente, la clausola in parola– rimane fisso ed
invariabile per l’intera durata del contratto anche in
presenza di variazione del numero di lavoratori. Le ore
erogate infatti non subiranno variazioni in diminuzione.
Tale importo non deve considerarsi comunque garantito per
l’assuntore stante la facoltà per il contraente di avvalersi
di quanto stabilito dall’art. 11 del r.d. n. 2443/1923. Il
contraente, pertanto, potrà richiedere all’assuntore di
incrementare l’importo contrattuale stesso fino a
concorrenza del limite di 1/5 … alle stesse condizioni,
termini e corrispettivi del presente contratto normativo e
del contratto attuativo … L’assuntore curerà di assicurare,
in ogni caso, il mantenimento dei livelli occupazionali e
retributivi del personale ex LSU ed ex LPU esistenti alla
data di stipula del presente contratto; le economie
rivenienti dalle cessazioni del personale a qualunque titolo
verificatesi nell’arco temporale di durata del contratto,
nonché quelle maturate, per effetto delle precedenti
cessazioni, a decorrere dalla stipula del presente
contratto, saranno utilizzate per il progressivo adeguamento
contrattuale del personale dalle attuali 35 ore settimanali
fino ad un massimo di 40 ore pro capite, per migliorare la
qualità dei servizi prestati ovvero per far fronte, con le
ore aggiuntive, alle predette cessazioni, alle quali,
comunque, non potrà far seguito alcuna nuova assunzione di
unità lavorative”.
Ciò posto, il Collegio ritiene che la controversia, così
come dianzi inquadrata, esuli dal novero di quelle riservate
dall’art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, c.p.a. alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, le quali
ineriscono alla “clausola di revisione del prezzo” ed
al “relativo provvedimento applicativo nei contratti ad
esecuzione continuativa o periodica, nell’ipotesi di cui
all’art. 115 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163”.
La clausola e il provvedimento di revisione periodica
disciplinati dal menzionato art. 115 del d.lgs. n. 163/2006
concernono, infatti, –come desumibile anche dal richiamo al
precedente art. 7, commi 4, lett. c), e 5– l’adeguamento del
prezzo degli appalti di servizi e forniture rispetto
all’andamento di mercato dei costi dei fattori produttivi
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.01.2013, n. 465; TAR Sicilia,
Palermo, sez. III, 23.09.2014, n. 2328; TAR Lombardia,
Milano, sez. I, 26.01.2015, n. 293), ‘ceteris rebus sic
stantibus’, ossia ferme restando le condizioni negoziali
originariamente pattuite dalle parti in ordine alla natura
ed alla quantità delle prestazioni dovute.
La domanda in esame, a differenza di quella già scrutinata
ed accolta, ha, invece, per oggetto il totalmente distinto
profilo del rimborso dei maggiori oneri economici derivanti
da una circostanza estranea all’andamento di mercato dei
costi del servizio affidato e, segnatamente, consistente
nell’incremento dell’orario di lavoro della manodopera in
corso di appalto; profilo che attiene, quindi, alla
variazione del quantum delle prestazioni richieste al
gestore, nonché all’incidenza della stessa sulla
remuneratività del corrispettivo ab origine pattuito,
e che non può, come tale, considerarsi attratto all’orbita
di giurisdizione esclusiva dell’adito giudice
amministrativo, essendo inammissibile una estensione
analogica della eccezionale norma istitutiva di quest’ultima
(art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, cod. proc. amm., sulla
cui natura tassativa, cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.07.2014,
n. 4015; TAR Abruzzo, L’Aquila, 12.02.2015, n. 88;
14.05.2015, n. 391; più in generale, nel senso del carattere
‘particolare’ delle materie devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, cfr.
Corte cost., 06.07.2004, n. 204).
In realtà, la fattispecie in scrutinio rientra pacificamente
nella giurisdizione del giudice ordinario.
Essa sussegue, infatti, allo spartiacque rappresentato dalla
stipula del contratto affidato ed afferisce alla fase della
sua esecuzione, così da attingere, in via diretta e
immediata, posizioni di diritto soggettivo scaturenti da un
rapporto negoziale ‘iure privatorum’, perfezionato ed
efficace, e cioè posizioni di diritto soggettivo che, in
quanto tali, si incanalano nell’alveo naturale della
cognizione del giudice ordinario, chiamato a verificare la
conformità delle regole convenzionali e delle relative
condotte attuative alla normativa civilistica (cfr. Cass.
civ., sez. un., 23.12.2003, n. 19787; 05.04.2005 n. 6992;
18.10.2005 n. 20116; 07.11.2008, n. 26792; 05.04.2012, n.
5446; 23.11.2012, n. 20729; 08.07.2015, n. 14188; Cons.
Stato, sez. V, 28.12.2006, n. 8070; 17.10.2008, n. 5071;
25.07.2012, n. 4224; 16.01.2013, n. 236; 30.07.2014, n.
4025; 31.12.2014, n. 6455; TAR Campania, Napoli, sez. VII,
05.06.2009, n. 3110; sez. VIII, 25.10.2012, n. 4228; TAR
Abruzzo, Pescara, 14.07.2009 n. 511; 23.11.2011, n. 642;
28.01.2013, n. 44; 12.04.2013, n. 217; L’Aquila, 22.04.2014,
n. 361; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 24.11.2010, n.
7346; 02.04.2015, n. 868; TAR Sicilia, Catania, sez. IV,
07.12.2011, n. 2932; TAR Toscana, Firenze, sez. I,
12.12.2011, n. 1925; TAR Molise, Campobasso, 08.02.2012, n.
20; 17.02.2012, n. 63; 19.03.2014, n. 174; 28.11.2014, n.
653; TAR Basilicata, Potenza, 09.03.2012, n. 114;
08.11.2013, n. 704; TAR Calabria, Reggio Calabria,
05.06.2012, n. 407; TAR Valle d’Aosta, Aosta, 19.07.2012, n.
70; TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.10.2012, n. 8755;
13.12.2012, n. 10379; sez. III, 02.05.2013, n. 4399; Latina,
19.07.2013, n. 648; TAR Emilia Romagna, Parma, 20.12.2012,
n. 364; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 21.12.2012, n. 1389 e
n. 1390; 06.02.2015, n. 259; TAR Liguria, Genova, sez. II,
16.05.2014, n. 769; 12.02.2015, n. 173; TAR Puglia, Lecce,
sez. II, 13.02.2015, n. 571).
Più in dettaglio, investe pretese patrimoniali ingenerate
dalla modifica quantitativa del contenuto delle obbligazioni
gravanti su ciascuna delle parti –quale, da un lato,
l’incremento del monte ore della manodopera impiegata e,
quindi, delle prestazioni erogate dall’impresa appaltatrice
e, d’altro lato, la proporzionale maggiorazione del compenso
dovuto dalla stazione appaltante–, nonché l’interpretazione
e l’applicazione della disciplina convenzionale dettata per
tale ipotesi (art. 4, commi 5 e 6, del contratto normativo
del 28.12.2006).
Ebbene, l’esercizio, da parte della stazione appaltante, del
c.d. ius variandi, ossia del diritto potestativo di
avvalersi di simili modifiche alla quantità (o anche alla
qualità) delle prestazioni affidate, così come,
specularmente, il diritto dell’appaltatore di esigere
l’adeguamento del corrispettivo in proporzione alle
modifiche stesse non si correlano –come, invece, inferito
dai ricorrenti– ad un potere dell’amministrazione di tipo
autoritativo, ma si esplicano a guisa di diritti soggettivi
nell'ambito di un rapporto paritetico. Pertanto, la
controversia originata dall’esercizio del ius variandi
è da intendersi esulante dalla giurisdizione del giudice
amministrativo, atteso che la modifica, quantitativa o
qualitativa, delle prestazioni contrattuali rientra
nell'ambito della fase negoziale di esecuzione del contratto
già affidato e stipulato, devoluta –come illustrato– alla
cognizione del giudice ordinario (cfr. TAR Campania, Napoli,
sez. V, 07.02.2014, n. 897).
In questo senso, Cass. Civ., SS.UU., 05.04.2012, n. 5446 ha,
più in generale, ribadito che appartengono al giudice
amministrativo le controversie che attengono alla fase
preliminare –antecedente e prodromica alla stipula del
contratto pubblico– di formazione della volontà
dell’amministrazione e di scelta del contraente privato in
base alle regole della c.d. evidenza pubblica; mentre sono
devolute al giudice ordinario le controversie che radicano
le loro ragioni nella serie negoziale successiva, a partire
dalla stipula del contratto pubblico fino alle vicende del
suo adempimento, e che riguardano la disciplina dei rapporti
instaurati in forza del contratto medesimo e sono, quindi,
volte all’accertamento dei diritti e degli obblighi da esso
scaturenti, nonché delle condizioni di sua validità ed
efficacia.
Alla luce delle considerazioni svolte, con riguardo alla
domanda di rimborso dei maggiori costi per incremento
dell’orario di lavoro della manodopera impiegata in appalto,
deve essere, conseguentemente, dichiarato il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo, appartenendo la
giurisdizione al giudice ordinario.
In conclusione, alla luce di quanto sopra esposto, il
ricorso in epigrafe deve essere accolto limitatamente alla
domanda di adeguamento periodico dei corrispettivi
dell’appalto di pulizia eseguito, con conseguente
accertamento della nullità della clausola contrattuale
limitativa di esso e condanna dell’amministrazione
resistente al pagamento delle somme da determinarsi a tale
titolo, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a.; con riguardo
alla proposta domanda di rimborso dei maggiori costi
sostenuti in conseguenza dell’incremento dell’orario di
lavoro e della corrispondente maggior retribuzione del
personale impiegato in appalto, va dichiarato il difetto di
giurisdizione di questo adito giudice amministrativo,
appartenendo la giurisdizione al giudice ordinario.
La riproposizione della relativa domanda è disciplinata
dell’art. 11 del decreto legislativo 02.07.2010 n. 104 (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.07.2016 n. 3504
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Necessaria
massima correttezza fuori dall'ufficio come all'interno.
PUBBLICI UFFICIALI/ Una decisione del Tar
Emilia sulla polizia di stato.
La condotta improntata alla massima correttezza non deve
essere mantenuta dal dipendente della polizia di stato nei
soli rapporti esterni, ma anche nei confronti
dell'amministrazione di appartenenza, con la conseguenza che
costituiscono fatti oggettivamente delineanti una condotta
contraria al decoro delle funzioni.
Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del TAR Emilia
Romagna-Bologna con la
sentenza 08.07.2016 n. 694.
La questione sottoposta all'attenzione dei giudici
amministrativi bolognesi vedeva un dipendente della polizia
di stato che chiedeva l'annullamento della decisione con la
quale il capo della polizia aveva respinto il ricorso
gerarchico presentato dal medesimo avverso il provvedimento
con cui il dirigente di reparto, a conclusione del relativo
procedimento disciplinare, gli aveva irrogato sanzione della
«pena pecuniaria».
Avverso i suddetti provvedimenti il dipendente deduceva
motivi in diritto rilevanti violazione dell'articolo 61 del
decreto del presidente della repubblica numero 782 del 1985;
violazione dell'articolo 97 Cost. e degli articoli 13, 14 e
17 del decreto del presidente della repubblica numero 737
del 1981; eccesso di potere per travisamento di fatto,
ingiustizia manifesta, contraddittorietà carenza di
motivazione.
Il ministero dell'interno, costituitosi in giudizio,
ritenendo infondato il ricorso ne chiedeva la reiezione.
A parere dei giudici dell'Emilia Romagna tale sanzione
irrogata risultava essere proporzionata e sussumibile
nell'ambito applicativo dell'art. 4 n. 18 del decreto del
presidente della repubblica numero 737 del 1981, in quanto
era stata con essa effettivamente sanzionata una condotta
del dipendente della polizia di stato «non conforme al
decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli
dell'amministrazione della pubblica sicurezza».
Nel caso specifico, secondo l'avvocatura erariale «una
simile condotta denota una scarsa attenzione del dipendente
alla correttezza e al rispetto delle procedure organizzative
inerenti la gestione del personale».
Inoltre, il Tribunale amministrativo regionale sostiene
nella sentenza in commento che non ci sia nel caso specifico
alcun travisamento dei fatti da parte dell'amministrazione
procedente, risultando in atti che il ritardo nella
presentazione del certificato medico era effettivamente di
sette giorni, che esso era ingiustificato, stante la palese
incompletezza della documentazione presentata
dall'interessato dopo due giorni e dopo sei giorni dal
rientro in servizio e che, infine, la regolare presentazione
del certificato sia avvenuta solo a seguito di diversi
solleciti da parte dell'amministrazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene che il ricorso non sia meritevole di
accoglimento.
Entrambi i gravati provvedimenti, rispettivamente di
irrogazione al ricorrente della sanzione disciplinare della
“pena pecuniaria” e decisione del Capo della polizia
di rigetto del ricorso gerarchico dal medesimo proposto
avverso detto provvedimento, risultano infatti immuni dai
vizi di legittimità segnalati in ricorso.
In particolare, il Tribunale ritiene che sia proporzionata e
sussumibile nell’ambito applicativo dell’art. 4 n. 18 del
D.P.R. n. 737 del 1981, la sanzione della “pena
pecuniaria”
irrogata al ricorrente, in quanto è stata con essa
effettivamente sanzionata una condotta del dipendente della
Polizia di Stato “…non conforme al decoro delle funzioni
degli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della
pubblica sicurezza.”.
La condotta improntata alla massima
correttezza non deve infatti essere mantenuta dal dipendente
della Polizia di Stato nei soli rapporti esterni, ma anche
nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, con la
conseguenza che costituiscono fatti oggettivamente
delineanti una condotta contraria al decoro delle funzioni,
l’avere presentato il certificato medico di malattia per una
assenza pregressa, con ben 7 giorni di ingiustificato
ritardo rispetto al termine prescritto dalla norma
regolamentare e solo dopo avere ricevuto più inviti e
solleciti in tal senso dai competenti uffici della sede in
cui l’interessato presta servizio.
Sul punto, si ritengono del tutto condivisibili le
considerazioni svolte dall’Avvocatura erariale, laddove si
afferma che “…una simile condotta denota
una scarsa attenzione del dipendente alla correttezza ed al
rispetto delle procedure organizzative inerenti la gestione
del personale…”.
In conclusione, ritiene il Collegio che l’amministrazione
procedente abbia applicato correttamente l’art. 4 n. 18 del
D.P.R. n. 737 del 1981 e che, pertanto, debbano essere
giudicati insussistenti i vizi di legittimità rassegnati in
ricorso, delineanti diverse figure sintomatiche di eccesso
di potere.
Non sussiste alcun travisamento dei fatti da parte
dell’amministrazione procedente, risultando in atti che il
ritardo nella presentazione del certificato è effettivamente
di 7 giorni, che esso è ingiustificato, stante la palese
incompletezza della documentazione presentata
dall’interessato dopo 2 giorni e dopo 6 giorni dal rientro
in servizio e che, infine, la regolare presentazione del
certificato sia avvenuta solo a seguito di diversi solleciti
da parte dell’amministrazione.
Nemmeno risulta sproporzionata e affetta da
contraddittorietà, come sostiene il ricorrente, la sanzione
disciplinare inflittagli, risultando effettivamente
esistenti le precedenti sanzioni disciplinari irrogate anche
di recente, con conseguente incidenza ti tale fattore sulla
misura e graduazione della sanzione disciplinare.
Per le suesposte ragioni, il ricorso è respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: Una
struttura costituita esclusivamente da uno scheletro di
carpenteria metallica idoneo solo a sorreggere i panelli
solari, e che non sviluppa una superficie utile, è passibile
di compatibilità paesaggista ex art. 167 dlgs 42/2004.
---------------
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241, l’atto
amministrativo deve recare l’indicazione dei presupposti di
fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno determinato
l'adozione in relazione alle risultanze dell'istruttoria. In
conseguenza sussiste il difetto di motivazione quando non è
possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito
dall'Autorità emanante ed appaiano indecifrabili le ragioni
sottese alla determinazione assunta.
Nel caso in esame, il tenore letterale del provvedimento
impugnato non consente di ripercorrere l’iter
logico-giuridico seguito dalla Soprintendenza nella
redazione del provvedimento impugnato e non consente,
soprattutto, di conoscere i motivi giuridici che hanno
condotto l’amministrazione stessa all’emanazione del parere
contrario.
---------------
Limitandosi, infatti, ad affermare che «questa
Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa,
considerato che le opere eseguite in assenza di titolo
edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura
metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto
voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio,
per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene
compatibili le stesse», l’amministrazione non rende
adeguatamente comprensibile la ragione dell'adozione del
provvedimento.
Il vizio dedotto non può essere superato dalla nota
depositata in giudizio dall’amministrazione considerato che
la motivazione del provvedimento amministrativo non può
essere integrata nel corso del giudizio, dovendo la
motivazione stessa precedere e non seguire ogni
provvedimento. In tal senso la nota depositata urta contro
il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.
---------------
Quanto al profilo della compatibilità dell’intervento, non
appare corretto il riferimento alla costruzione di una
“tettoia” che svilupperebbe una superficie utile e, per
questo, non rientrante nella casistica delle opere
ammissibili ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Nella relazione tecnica allegata al progetto e richiamata
dalla stessa nota della soprintendenza si legge, infatti:
- che il progetto riguarda “un progetto di installazione di
un impianto fotovoltaico (D.Lgs. n. 387/2003) su carpenteria
metallica”,
- che “L'impianto è stato realizzato sulla superficie già
esistente (e già destinata a parcheggio) facente parte del
piazzale interno dell'opificio” e
- che “La tipologia architettonica della struttura in
oggetto è quella di una pensilina fotovoltaica di copertura
della superficie già esistente (e già destinata a
parcheggio), completamente aperta sui lati e aperta
superiormente con una distanza in pianta fra le "strisce"
dei pannelli di circa 1,68 mt.
I pannelli sono collegati alla struttura portante avendo un
inclinazione rispetto all'orizzontale di circa 30°.
All'interno del piazzale al di sotto dei pannelli
fotovoltaici è stata prevista una altezza libera di 4,00 mt.
così come riportato negli elaborati grafici al fine di
conservare la funzione di parcheggio per l'area sottostante.
L'intervento quindi non varia la consistenza originaria del
manufatto e non comporta creazione di superfici utili o
volumi ovvero modifiche di quelli esistenti.
---------------
Con istanza protocollata agli atti del Comune di Lecce in
data 28.07.2011 la "Nu.Ed.Pe." S.a.s. chiedeva il
rilascio di autorizzazione paesaggistica in sanatoria
relativamente ad una struttura metallica reggente un
impianto fotovoltaico (della potenza di 19,92 Kw)
realizzata, insieme al medesimo impianto, nel piazzale
interno (asfaltato e destinato a parcheggio) dell'opificio
artigianale per la manutenzione di macchine ed attrezzatura
per l'edilizia del quale la stessa "Nu.Ed.Pe."
S.a.s. è proprietaria, in area sottoposta a vincolo ex L.
29.06.1939, n. 1497 e ricadente in un A.T.E. di tipo C del
P.U.T.T./p. della Regione Puglia.
La Commissione locale per il paesaggio del Comune di Lecce
esprimeva parere favorevole al rilascio in data 01.12.2011.
Sennonché, giusta provvedimento prot. n. 5391 del
26.03.2012 il Soprintendente per i beni architettonici e
paesaggistici della Provincia di Lecce ed il Responsabile
del procedimento comunicavano che «questa Soprintendenza,
esaminata la documentazione trasmessa, considerato che le
opere eseguite in assenza di titolo edilizio, consistenti
nella realizzazione di "struttura metallica dell'altezza di
m. 4 reggente pannelli foto voltaici", costituiscono un
ingombro stabile sul territorio, per tipologia di intervento
e dimensioni, non ritiene compatibili le stesse».
Detto parere veniva notificato alla "Nu.Ed.Pe."
S.a.s. giusta nota prot. n. 44629/12 del 05.04.2012 a firma
del Dirigente dell'Ufficio tecnico - Settore urbanistico del
Comune di Lecce.
Avverso detti provvedimenti insorge l’odierna ricorrente
chiedendone l’annullamento.
Si è costituito il Dicastero intimato resistendo al ricorso
e chiedendone la reiezione.
All’udienza dell’08.06.2016 il ricorso è stato trattenuto
in decisione.
Con un articolato motivo di ricorso, l’"Nu.Ed.Pe."
lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione; eccesso
di potere per erronea presupposizione in fatto, illogicità,
irragionevolezza, contraddittorietà e perplessità
dell'azione amministrativa; illegittimità in via derivata.
In particolare, il parere soprintendentizio impugnato, nel
ritenere «le opere eseguite in assenza di titolo edilizio,
consistenti nella realizzazione di "struttura metallica
dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto voltaici"»
incompatibili "per tipologia di intervento e dimensioni", si
paleserebbe frutto di attività istruttoria carente, nonché
di erronea presupposizione in fatto.
Nello specifico, nella relazione paesaggistica e nella
relazione P.U.T.T./p. allegate alla istanza protocollata
agli atti del Comune di Lecce in data 28.07.2011 si precisava
che la struttura metallica reggente l'impianto fotovoltaico,
nonché l'impianto stesso, sono localizzati nel piazzale
interno (asfaltato e destinato a parcheggio) dell'opificio
artigianale del quale la "Nu.Ed.Pe." S.a.s. è
proprietaria e, quindi, in un contesto a vocazione
produttiva rispetto al quale non è dato comprendere quale
sia il significato dell’affermazione inerente
l'incompatibilità per "tipologia di intervento".
Allo stesso modo, non si comprende quale sia il parametro al
quale rapportare la presunta incompatibilità per
"dimensioni".
Con nota depositata in udienza, la Soprintendenza ha
affermato che “tale intervento "per tipologia" non rientra
nella casistica delle opere ammissibili dall'art. 167 Dlvo
42/2004 in quanto la tettoia prevista per una altezza libera
di 4.00 mt. ... al fine di conservare la funzione di
parcheggio dell'area sottostante- ha sviluppato una
superficie utile all'appoggio dei pannelli fotovoltaici (cfr
Relazione tecnica All. 1);
- non rientra altresì per "tipologia" ammissibile alla
casistica del succitato articolo in quanto come specificato
dalla circolare Mibact n. 33/2009, esplicativa in merito alla
definizione dei termini "lavori", "superfici utili" e
"volumi", per superfici utili si intende "qualsiasi
superficie utile, qualunque sia la sua destinazione. Sono
ammesse le logge e i balconi nonché i ponici. collegati al
fabbricato, aperti su Ire lati contenuti entro il 25%
dell'area di sedime del fabbricato stesso”.
La censura è fondata e deve essere accolta.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241,
l’atto amministrativo deve recare l’indicazione dei
presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno
determinato l'adozione in relazione alle risultanze
dell'istruttoria. In conseguenza sussiste il difetto di
motivazione quando non è possibile ricostruire il percorso
logico giuridico seguito dall'Autorità emanante ed appaiano
indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione
assunta.
Nel caso in esame, il tenore letterale del provvedimento
impugnato non consente di ripercorrere l’iter
logico-giuridico seguito dalla Soprintendenza nella
redazione del provvedimento impugnato e non consente,
soprattutto, di conoscere i motivi giuridici che hanno
condotto l’amministrazione stessa all’emanazione del parere
contrario.
Limitandosi, infatti, ad affermare che «questa
Soprintendenza, esaminata la documentazione trasmessa,
considerato che le opere eseguite in assenza di titolo
edilizio, consistenti nella realizzazione di "struttura
metallica dell'altezza di m. 4 reggente pannelli foto
voltaici", costituiscono un ingombro stabile sul territorio,
per tipologia di intervento e dimensioni, non ritiene
compatibili le stesse», l’amministrazione non rende
adeguatamente comprensibile la ragione dell'adozione del
provvedimento.
Il vizio dedotto non può essere superato dalla nota
depositata in giudizio dall’amministrazione considerato che
la motivazione del provvedimento amministrativo non può
essere integrata nel corso del giudizio, dovendo la
motivazione stessa precedere e non seguire ogni
provvedimento. In tal senso la nota depositata urta contro
il divieto di integrazione giudiziale della motivazione.
In ogni caso, anche la motivazione fornita nella nota
depositata in giudizio appare frutto di un errore sui
presupposti di fatto.
Infatti, quanto al profilo della compatibilità
dell’intervento, non appare corretto il riferimento alla
costruzione di una “tettoia” che svilupperebbe una
superficie utile e, per questo, non rientrante nella
casistica delle opere ammissibili ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. 42/2004.
Nella relazione tecnica allegata al progetto e
richiamata dalla stessa nota della soprintendenza si legge,
infatti, che il progetto riguarda “un progetto di
installazione di un impianto fotovoltaico (D.Lgs. n. 387/2003)
su carpenteria metallica”, che “L'impianto è stato
realizzato sulla superficie già esistente (e già destinata a
parcheggio) facente parte del piazzale interno dell'opificio di proprietà della Im.Pe. s.a.s.” e
che “La tipologia architettonica della struttura in oggetto
è quella di una pensilina fotovoltaica di copertura della
superficie già esistente (e già destinata a parcheggio),
completamente aperta sui lati e aperta superiormente con una
distanza in pianta fra le "strisce" dei pannelli di circa
1,68 mt. I pannelli sono collegati alla struttura portante
avendo un inclinazione rispetto all'orizzontale di circa
30°. All'interno del piazzale al di sotto dei pannelli
fotovoltaici è stata prevista una altezza libera di 4,00 mt
così come riportato negli elaborati grafici al fine di
conservare la funzione di parcheggio per l'area sottostante.
L'intervento quindi non varia la consistenza originaria del
manufatto e non comporta creazione di superfici utili o
volumi ovvero modifiche di quelli esistenti”.
La stessa documentazione fotografica depositata in atti
dimostra che la struttura è costituita esclusivamente da uno
scheletro di carpenteria metallica idoneo solo a sorreggere
i panelli solari e che non sviluppa una superficie utile.
Per i predetti motivi il ricorso deve essere accolto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 07.07.2016 n. 1080 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazioni
con l'alternativa. La p.a. può decidere di sanare tutto con
l'acquisizione. Al posto della restituzione. Lo afferma la
terza sezione del Tar Puglia con una sentenza.
Sta all'amministrazione valutare se disporre, in alternativa
alla sua restituzione, l'acquisizione sanante alla mano
pubblica del bene illecitamente occupato, alle condizioni e
con le modalità prescritte dalla legge.
Così la III Sez. del TAR Puglia-Bari con la
sentenza 07.07.2016 n. 894, che ha, altresì, rilevato che il
potere di disporre l'acquisizione ex art. 42-bis, dpr
327/2001, dell'area abusivamente occupata
dall'amministrazione risulta essere espressione del più
generale potere di amministrazione attiva che compete agli
enti pubblici, cui il giudice amministrativo non può
sostituirsi al di fuori dei casi di giurisdizione estesa al
merito.
Pertanto, anche in virtù di una recente
giurisprudenziale (Consiglio di stato, sez. IV, 15.09.2014, n. 4696), la valutazione comparativa degli interessi
in gioco e la conseguente decisione in ordine
all'acquisizione o alla restituzione del bene costituisce
quindi scelta riservata alla discrezionalità
dell'amministrazione.
Il thema decidendum vedeva i sig.ri
Tizi che agivano per l'esecuzione del giudicato formatosi
sulla sentenza del Tar. Con la predetta sentenza, il Comune
di Caiopoli veniva condannato alla restituzione dei terreni
oggetto di procedura espropriativa, i cui atti erano stati
annullati, «previa riduzione in pristino degli stessi, fatta
salva l'attivazione a cura dell'Amministrazione competente
del procedimento di acquisizione sanante di cui all'art.
42-bis del dpr n. 327/2001», mentre veniva respinta la
domanda risarcitoria.
I ricorrenti riferivano di aver
appellato la menzionata sentenza limitatamente al rigetto
della domanda risarcitoria, mentre non era stata impugnata
la pronuncia di condanna alla restituzione delle aree
espropriate. Aggiungevano, inoltre, di aver diffidato il
comune all'esecuzione della sentenza e che, nonostante
l'avvenuto passaggio in giudicato della parte relativa alla
condanna alla restituzione degli immobili, l'amministrazione
civica era rimasta inerte.
Agivano, pertanto, per
l'adempimento dell'obbligo del comune di conformarsi al
giudicato e chiedevano, inoltre, la nomina di un commissario
ad acta incaricato di provvedere, ai sensi dell'art. 114,
comma 4, lett. d), cpa
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
---------------
MASSIMA
4 - Il ricorso è fondato nei termini che sono di seguito
precisati.
Il Collegio ritiene che la regolamentazione dell’assetto di
interessi tra le parti trovi la sua disciplina specifica nel
giudicato contenuto nella sentenza TAR n. 648/2015 sopra
citata, nella parte in cui ha disposto l’obbligo di
restituzione concreta da parte del Comune a favore dei
ricorrenti della quota parte dei terreni di loro proprietà,
fatta salva l’eventuale attivazione del procedimento di cui
all’art. 42-bis del DPR n. 327/2001.
L’amministrazione civica, sulla base di tale sentenza, aveva
in sostanza due sole alternative: restituire i terreni ai
titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la
completa riduzione in pristino allo status quo ante;
attivarsi per acquisire un legittimo titolo di acquisto
dell'area da parte del suo legittimo proprietario
(Cons. Stato, Sez. IV, 10.03.2014, n. 1105).
Rispetto a tale statuizione, allo stato, non risulta che
l’amministrazione abbia ottemperato, né adempiendo
all’obbligo di restituzione, né attivando il procedimento di
cui all’art. 42-bis del DPR n. 327/2001.
Va in proposito rilevato che
il potere di disporre l'acquisizione ex art. 42-bis, d.P.R.
08.06.2001, n. 327, dell'area abusivamente occupata
dall'amministrazione è espressione del più generale potere
di amministrazione attiva che compete agli enti pubblici,
cui il giudice amministrativo non può sostituirsi al di
fuori dei casi di giurisdizione estesa al merito; la
valutazione comparativa degli interessi in gioco e la
conseguente decisione in ordine all'acquisizione o alla
restituzione del bene costituisce quindi scelta riservata
alla discrezionalità dell'amministrazione
(cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2014, n.
4696).
Sta dunque all’amministrazione valutare se disporre, in
alternativa alla sua restituzione, l’acquisizione sanante
alla mano pubblica del bene illecitamente occupato, alle
condizioni e con le modalità prescritte dall’art. 42-bis
citato.
5 - Alla stregua di quanto sin qui illustrato, occorre
conseguentemente ordinare al Comune di Vieste di
determinarsi, nel termine di 90 giorni dalla notificazione o
dalla comunicazione in forma amministrativa del presente
provvedimento, procedendo:
a) alla restituzione della quota parte degli immobili agli
odierni ricorrenti, in quanto proprietari, demolendo quanto
realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino
allo status quo ante;
b) in alternativa, all’acquisizione di un legittimo titolo
di acquisto dell'area, anche ai sensi dell’art. 42-bis
d.P.R. 08.06.2001, n. 327.
6 - Decorso infruttuosamente tale termine, ai medesimi
adempimenti provvederà, sostitutivamente, un Commissario
ad acta, nella persona del Prefetto di Foggia, con
facoltà di delega ad idoneo Funzionario della relativa
struttura organizzativa, che vi provvederà, in luogo e a
spese dell’amministrazione comunale intimata, nell’ulteriore
termine di 90 (novanta) giorni dalla comunicazione (a cura
di parte ricorrente) dell'inottemperanza.
7 - Deve, invece, essere respinta la richiesta della misura
prevista dalla disposizione dell’art. 114, comma 4, lettera
e), cod. proc. amm. (secondo il quale “salvo che ciò sia
manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni
ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro
dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza
successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del
giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”).
In linea generale, sulla questione la Sezione si è già
pronunciata (v. sentenze n. 665/2016 e n. 1560/2015),
escludendola, in casi analoghi, in ragione del limite,
espressamente contemplato dall’art. 114 del codice del
processo amministrativo, rappresentato dal fatto che l’uso
dell’astreinte non risulti “manifestamente iniquo, ovvero
sussistano altre ragioni ostative” (in senso conforme v.
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, decisione del
25.06.2014 n. 15).
Nel caso in esame, pur sussistendo l’imprescindibile
presupposto della richiesta di parte ricorrente, non si
ritiene di poter accogliere la richiesta di astreintes,
ravvisandosi ragioni ostative consistenti nell’esigenza di
contenimento della spesa pubblica in relazione alla
particolare condizione di crisi della finanza pubblica e
all’ammontare del debito pubblico. |
PUBBLICO IMPIEGO: Annullamento
solo per chi fa ricorso.
Qualora il giudice amministrativo annulli una graduatoria di
un concorso pubblico, accogliendo il ricorso di chi abbia
lamentato l'illegittimità dei criteri applicati per la
redazione della graduatoria, a parità di punteggio tra i
candidati, l'annullamento si deve intendere disposto nei
soli confronti di coloro che abbiano proposto il ricorso,
poi accolto.
È quanto stabilito dai giudici della III Sez. del Consiglio
di Stato con la
sentenza 06.07.2016 n. 3005.
Alcuni dipendenti del Ministero dell'interno avevano
partecipato a procedure di riqualificazione professionale.
L'Amministrazione aveva redatto le graduatorie, nelle quali
gli appellanti –a seguito della applicazione dei criteri di
preferenza a parità di punteggio- non si erano collocati
utilmente in posizione utile, pur avendo risposto
esattamente agli ottanta quesiti previsti.
Già il Tar in accoglimento dei ricorsi proposti da altri
partecipanti avverso le graduatorie provvisorie aveva
statuito che l'Amministrazione –a parità di punteggio–
avrebbe dovuto dapprima applicare il criterio di preferenza
della posizione nel ruolo di anzianità e solo
successivamente il criterio della maggiore età anagrafica
dei partecipanti. Nel dare esecuzione alle sentenze,
l'Amministrazione aveva rideterminato le graduatorie dei
vincitori, prendendo in considerazione –e inserendo in
soprannumero– unicamente i partecipanti che avevano proposto
i ricorsi accolti dal Tar.
Pertanto, con il ricorso di primo grado al Tar, gli
appellanti della sentenza in commento avevano impugnato gli
atti con cui erano state rideterminate le graduatorie,
lamentando la violazione dell'art. 2909 c.c., degli artt. 3
e 97 della Costituzione, nonché vari profili di eccesso di
potere per disparità di trattamento e ingiustizia manifesta.
Essi avevano altresì dedotto che l'Amministrazione avrebbe
dovuto prendere in considerazione tutte le posizioni
coinvolte, poiché le graduatorie in questione avrebbero
natura di atti inscindibili.
Ma il Tar con sentenza respingeva il ricorso. A parere dei giudici del
Consiglio di stato: «Per la scindibilità delle posizioni
dei candidati, nei confronti di coloro che non abbiano
proposto ricorso la graduatoria è suscettibile di divenire
inoppugnabile, per acquiescenza»
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).
---------------
MASSIMA
1. Gli appellanti, dipendenti del Ministero
dell’Interno, hanno partecipato ad alcune procedure di
riqualificazione professionale, indette con decreti del
Ministero dell’Interno di data 27.04.2007.
In applicazione dei criteri fissati dall’art. 5, settimo
comma, dei bandi, l’Amministrazione ha redatto le
graduatorie, nelle quali gli appellanti –a seguito della
applicazione dei criteri di preferenza a parità di punteggio- non si sono collocati utilmente in posizione utile, pur
avendo risposto esattamente agli ottanta quesiti previsti.
2. In accoglimento dei ricorsi n. 699 e n. 701 del 2008,
proposto da altri partecipanti avverso le graduatorie
provvisorie, le sentenze del TAR per il Lazio n. 8309 e n.
7913 del 2011 ha statuito che l’Amministrazione –a parità
di punteggio- avrebbe dovuto dapprima applicare il criterio
di preferenza della posizione nel ruolo di anzianità e solo
successivamente il criterio della maggiore età anagrafica
dei partecipanti.
3. Nel dare esecuzione alle sentenze, l’Amministrazione ha
rideterminato le graduatorie dei vincitori, prendendo in
considerazione –e inserendo in soprannumero– unicamente
i partecipanti che hanno proposto i ricorsi accolti dal TAR.
4. Con il ricorso di primo grado n. 12663 del 2014 (proposto
al TAR per il Lazio), gli odierni appellanti hanno impugnato
gli atti con cui sono state rideterminate le graduatorie,
lamentando la violazione dell’art. 2909 c.c., degli artt. 3
e 97 della Costituzione, nonché vari profili di eccesso di
potere per disparità di trattamento e ingiustizia manifesta.
Essi hanno altresì dedotto che l’Amministrazione avrebbe
dovuto prendere in considerazione tutte le posizioni
coinvolte, poiché le graduatorie in questione avrebbero
natura di atti inscindibili.
5. Con la sentenza n. 10812 del 2015, il TAR ha respinto il
ricorso ed ha compensato tra le parti le spese del giudizio.
6. Con l’appello in esame, gli interessati hanno impugnato
la sentenza del TAR ed hanno chiesto che –in sua riforma–
il ricorso di primo grado sia accolto.
7. Ritiene la Sezione che l’appello va respinto perché
infondato.
Con motivazioni che vanno integralmente confermate (e
rispetto alle quali le articolate deduzioni degli appellanti
non hanno prospettato argomenti ulteriori e rilevanti), la
sentenza appellata ha evidenziato l’infondatezza di tutte le
censure di primo grado, riproposte in questa sede.
7.1. In primo luogo, non sussiste la violazione dell’art.
2909 c.c., poiché gli appellanti non hanno proposto i
ricorsi, poi accolti dal TAR con le sentenze n. 7913 e n.
8309 del 2011.
7.2. In secondo luogo, tali sentenze non hanno inciso
direttamente o indirettamente sulle posizioni degli odierni
appellanti.
Qualora il giudice amministrativo annulli una graduatoria,
accogliendo il ricorso di chi sia abbia lamentato
l’illegittimità dei criteri applicati per la redazione della
graduatoria, a parità di punteggio tra i candidati,
l’annullamento si deve intendere disposto nei soli confronti
di coloro che abbiano proposto il ricorso, poi accolto.
Infatti, per la scindibilità delle posizioni dei candidati,
nei confronti di coloro che non abbiano proposto ricorso la
graduatoria è suscettibile di divenire inoppugnabile, per
acquiescenza.
Sotto tale aspetto, va evidenziato che
la limitazione degli
effetti della sentenza, in favore dei soli ricorrenti
vittoriosi, è stata espressamente statuita nella sentenza n.
7913 del 2011, ma si deve intendere statuita anche con la
sentenza n. 8309 del 2011, la quale –in assenza di una
espressa statuizione ‘estensiva’ della sua efficacia anche
ai ‘non ricorrenti– va interpretata sulla base del
principio generale sopra enunciato.
7.3. Infine, come correttamente rilevato dal TAR,
l’Amministrazione neppure poteva discrezionalmente estendere
nei confronti degli appellanti gli effetti delle sopra
citate sentenze del TAR, per il divieto disposto dall’art.
1, comma 132, della legge n. 31 del 2004 (le cui regole si
applicano «anche per gli anni successivi al 2008», ai sensi
dell’art. 41, comma 6, del decreto legge n. 207 del 2008,
convertito con modificazioni nella legge n. 14 del 2009).
Pertanto, non sono configurabili i dedotti profili di
eccesso di potere per disparità di trattamento e manifesta
ingiustizia.
8. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ok
all'accesso per difendersi. Ha portata generale il diritto
di acquisire gli atti. In una sentenza del Consiglio di
stato richiamate alcune pronunce sulla Consob.
Il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito
dall'art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 che, nel
rispetto dell'art. 24 della Costituzione, prevede, con una
formula di portata generale, che «deve comunque essere
garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
difendere i propri interessi giuridici».
Fermo restando che, nel caso di documenti contenenti dati
sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in
cui sia strettamente indispensabile.
A sottolinearlo sono stati i giudici della VI Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza 06.07.2016 n. 3003.
Nella sentenza in commento i giudici amministrativi hanno,
poi, richiamato alcune pronunce della Corte costituzionale
circa la Consob e il diritto d'accesso, evidenziando i
limiti entro i quali può essere consentito l'accesso agli
atti della Commissione nazionale per le società e la borsa,
riguardanti l'esercizio delle sue funzioni istituzionali di
vigilanza, ritenuti eccessivamente rigidi e in possibile
contrasto con diverse norme di rango costituzionale.
La Corte costituzionale, con sentenza 23.10-03.11.2000, n.
460, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 4, comma 10, del dlgs n. 58 del
24.02.1998, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 11,
21, 24, 97, primo comma, e 98, primo comma, della
Costituzione. Successivamente la Corte, con ordinanza
19-23.03.2001, n. 80, e con ordinanza 21-30.03.2001, n. 93
ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di
legittimità.
La stessa Corte, con sentenza 12-26.01.2005, n. 32, ha poi
dichiarato ancora non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 4, comma 10, sollevata in
riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 97 della Costituzione.
I giudici di palazzo Spada hanno, altresì, evidenziato come
la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 460 del
2000, nel ritenere infondata la questione di legittimità
costituzionale, abbia peraltro ritenuto, sulla base di una
interpretazione sistematica della norma, che la sfera di
applicazione dell'art. 4, comma 10, del dlgs n. 58 del 1998,
quale che ne sia l'effettiva estensione, con certezza non
comprende gli atti, le notizie e i dati in possesso della
Commissione in relazione alla sua attività di vigilanza,
posti a fondamento di un procedimento disciplinare, sicché
questi nei confronti dell'interessato non sono affatto
segreti e sono invece pienamente accessibili non solo nel
giudizio di opposizione alla sanzione disciplinare, ma anche
nello speciale procedimento di accesso regolato dall'art. 25
della legge n. 241 del 1990, strumento esperibile anche
dall'incolpato nei procedimenti disciplinari, per orientare
preventivamente l'azione amministrativa onde impedirne
eventuali deviazioni.
E quindi le esigenze di segretezza, che costituiscono la «ratio»
dell'art. 4 del Tuf, sarebbero a parere della Corte
costituzionale, recessive rispetto al diritto di accesso «defensionale»,
nell'ipotesi in cui si chieda l'ostensione di atti confluiti
in un procedimento sanzionatorio o a carattere contenzioso e
la loro conoscenza sia necessaria per la difesa
dell'interessato nell'ambito del procedimento stesso
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
TRIBUTI: Il
piano annullato evita i prelievi tributari locali.
Il comune non può pretendere il pagamento dell'imposta
municipale se il piano particolareggiato, con relativa
variante, è stato bocciato dalla regione con effetto
retroattivo. Non può cambiare la destinazione di un'area da
agricola a edificabile in assenza di un valido
provvedimento, anche se medio tempore è stato proposto
ricorso al Tar per ottenere la sospensiva e poi
l'annullamento della delibera regionale. Stante l'incertezza
sulla natura giuridica dell'area, il ricorso al giudice
amministrativo proposto dal comune, infatti, aveva la
finalità di giustificare la riscossione del tributo entro i
termini di decadenza.
Così la Ctr Torino, sez. XXVI (sentenza 06.07.2016 n. 874).
Per i giudici, al momento dell'emissione dell'avviso di
accertamento il terreno oggetto di contesa «doveva iuris et
de iure reputarsi agricolo, in mancanza della necessaria
approvazione del piano particolareggiato da parte della
regione», che aveva dichiarato la nullità della variante con
efficacia retroattiva.
Del resto, la presentazione del
ricorso non «può avere l'effetto di far considerare il
procedimento per l'acquisizione dell'edificabilità, in
itinere, ai fini della «legge Bersani», stante l'intervenuta caducazione del piano del comune, da parte della regione».
Secondo l'art. 2 del dlgs 504/92 per area fabbricabile
s'intende quella utilizzabile a scopo edificatorio in base
agli strumenti urbanistici «generali o attuativi».
Mentre
per la caratteristica dell'edificabilità è sufficiente che
essa risulti da un piano regolatore generale, la
potenzialità di edificazione è maggiore quando l'area è
ricompresa in un piano particolareggiato e ciò ha effetti
nella determinazione del valore dell'area stessa e della
quantificazione della base imponibile Ici, Imu e Tasi. Tra
l'altro, l'edificabilità di un'area non può essere esclusa
neppure dalla presenza di vincoli o di particolari
destinazioni urbanistiche. In questi casi l'area è comunque
soggetta al pagamento delle imposte locali (Cass., sent.
5161/14), anche se la questione non è pacifica.
Al riguardo, la Consulta (sent. 41/2008) ha stabilito che ai
fini della determinazione dell'imponibile Ici non si possono
distinguere le aree edificabili in concreto da quelle
edificabili in astratto (cioè considerate edificabili da
strumenti urbanistici non approvati o non attuati).
L'astratta edificabilità del suolo giustifica di per sé la
valutazione del terreno secondo il suo valore venale e
differenzia radicalmente tali suoli dagli agricoli non
fabbricabili
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2016). |
VARI: Le
telecamere vanno segnalate. Un avviso fuori dal negozio deve
indicare la sorveglianza. La Cassazione interviene sui
dispositivi video nei locali, dando ragione al garante
privacy.
Per la videosorveglianza all'ingresso non basta un cartello
interno al locale commerciale.
Secondo la
sentenza 05.07.2016 n.
13663 della Corte di Cassazione, Sez. II civile,
l'avviso deve essere sistemato prima delle telecamere.
La pronuncia dà ragione al garante della privacy che aveva
sanzionato una farmacia per irregolarità dell'informativa.
La sanzione è stata annullata dal tribunale, ma ora la
Cassazione ha ribaltato il verdetto. Ma vediamo i dettagli
della questione.
Una farmacia comunale ha ricevuto una sanzione di 2.400 euro
per non avere dato una idonea informativa circa la
videosorveglianza operata con una telecamera posizionata
all'esterno dell'edificio, all'ingresso principale. Oltre a
questa telecamera ce n'erano altre tre: una posizionata
all'esterno con controllo dell'ingresso secondario; una con
osservazione del locale di dispensazione ed una ancora con
visione del locale ufficio e smistamento farmaci. Quanto
all'informativa era presente un cartello, ma collocato su
parete interna della farmacia non visibile all'esterno.
La farmacia ha impugnato la sanzione e, in primo grado, il
tribunale ha dato ragione al trasgressore. La pronuncia di
primo grado ha fatto leva sul fatto che la prescrizione
sull'informativa (e cioè il cartello con l'avviso), da
sistemare prima dell'accesso (e non dopo) a un'area
videosorvegliata, sarebbe stata esplicitata con il
provvedimento generale del garante dell'08.04.2010,
mentre i fatti, oggetto del giudizio, erano anteriori.
Secondo il tribunale, dunque, all'epoca della contestazione
era sufficiente che gli interessati fossero informati del
fatto che stavano per accedere oppure che si trovavano in
zona videosorvegliata: insomma non ci sarebbe stato
l'obbligo unico della preventiva informativa, ma sarebbe
stato sufficiente un avviso nel luogo videoripreso.
Di diversa opinione è stata la Cassazione, sollecitata dal
garante a rivedere la sentenza del tribunale.
Il garante ha evidenziato che, a prescindere dalle
prescrizioni contenute nei provvedimenti generali sulla
videosorveglianza, l'articolo 13 del Codice della privacy (dlgs
196/2003) prevede l'obbligo della informativa preventiva
quando si trattano dati personali. E la Cassazione ha
ricordato che senz'altro l'immagine di una persona
costituisce dato personale, trattandosi di dato
immediatamente idoneo a identificare una persona a
prescindere dalla sua notorietà: l'installazione di un
impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio
commerciale, allo scopo di controllare l'accesso degli
avventori, costituisce, dunque, trattamento di dati
personali e deve formare oggetto dell'informativa, rivolta a
chi entra nel locale.
Basta il citato articolo 13 a obbligare gli esercenti a
posizionare il cartello prima che gli interessati accedano
nella zona videosorvegliata.
Considerata la novità e l'importanza della materia, la
Cassazione ha formulato espressamente il principio di
diritto per cui l'installazione di un impianto di
videosorveglianza all'interno di un esercizio commerciale,
costituendo trattamento di dati personali, deve formare
oggetto di previa informativa, resa ai soggetti interessati
prima che facciano accesso nell'area videosorvegliata,
mediante supporto da collocare perciò fuori del raggio
d'azione delle telecamere che consentono la raccolta delle
immagini delle persone e danno così inizio al trattamento
stesso.
La Cassazione fa, poi, un collegamento con il
consenso dell'interessato, che, in generale, deve essere
informato e, quindi, il cartello dovrebbe, anche per questa
ragione, essere sistemato prima della ripresa video.
Si tratta, però, di una riflessione impropria, in quanto per
la videosorveglianza, già in base al provvedimento del
garante del 2004 (conforme quello del 2010), non è
necessario il consenso degli interessati, nel caso in cui la
ripresa sia finalizzata a protezione delle persone, della
proprietà o del patrimonio aziendale, relativamente
all'erogazione di particolari servizi pubblici o a
specifiche attività (che si svolgono per esempio in luoghi
pubblici o aperti al pubblico, o che comportano la presenza
di denaro o beni di valore, o la salvaguardia del segreto
aziendale o industriale in relazione a particolari tipi di
attività).
Costituiscono, quindi, un legittimo interesse, che supera la
necessità del consensi preventivo, la raccolta di mezzi di
prova e la tutela di persone e beni rispetto a possibili
aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di
vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di
sicurezza del lavoro.
L'esclusione del consenso è stata prevista, sempre nel
provvedimento del 2004, anche per la videosorveglianza senza
registrazione, nei casi in cui le immagini siano unicamente
visionate in tempo reale, oppure conservate solo per poche
ore mediante impianti a circuito chiuso (Cctv): questo vale
in particolare per esercizi commerciali esposti ai rischi di
attività criminali in ragione della detenzione di denaro,
valori o altri beni (come gioiellerie, supermercati, filiali
di banche, uffici postali). Tuttavia la videosorveglianza
può risultare eccedente e sproporzionata quando sono già
adottati altri efficaci dispositivi di controllo o di
vigilanza oppure quando vi è la presenza di personale
addetto alla protezione.
Infine, anche se non c'è bisogno del consenso, il garante,
nell'uso delle apparecchiature puntate su aree esterne a
edifici e immobili, prescrive di limitare l'angolo visuale
all'area effettivamente da proteggere, evitando la ripresa
di luoghi circostanti e di particolari non rilevanti (come
vie, edifici, esercizi commerciali, istituzioni)
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sanzioni,
p.a. tutte alla cassa. Enti pubblici, responsabilità
amministrativa diretta. PRIVACY/ La precisazione giunge (per
la prima volta) dalla Corte di cassazione.
Società ed enti pubblici chiamati alla cassa delle sanzioni
privacy.
Il codice della privacy prevede una responsabilità
amministrativa diretta delle persone giuridiche in caso di
contravvenzioni al codice della riservatezza (dlgs
196/2003).
È quanto ha precisato, per la prima volta, la Corte di Cassazione con
la
sentenza
05.07.2016 n. 13657 (solo ora resa nota), che ha spiegato come si applica
l'articolo 162, comma 2-bis, del codice della privacy.
Nel caso specifico un ente provinciale è stato sanzionato
dal garante per la protezione dei dati personali (nella
misura minima di 20 mila euro) per violazione dell'art. 162,
comma 2-bis, del dlgs n. 196/2003.
La violazione è consistita nella pubblicazione sul portale
web della provincia di graduatorie, liberamente
consultabili, degli iscritti negli elenchi del collocamento
obbligatorio dei disabili: con il risultato che erano
conoscibili da chiunque le particolari condizioni di
disabilità di oltre 6 mila soggetti indicati
nominativamente, in violazione di quanto disposto
dall'articolo 22, comma 8, del codice della privacy (divieto
di diffusione di dati sullo stato di salute).
In primo grado il tribunale ha annullato l'ordinanza del
garante, che ha presentato ricorso per Cassazione.
I problemi affrontati dalla Suprema corte sono stati
stabilire chi è il titolare del trattamento e a chi è
imputabile la sanzione pecuniaria.
In dettaglio ci si è chiesti se sia possibile o meno
l'irrogazione delle sanzione amministrativa anche a un ente
oppure solo a una persona fisica.
Il garante ha sostenuto che la sanzione è applicabile anche
all'ente.
La Cassazione si è dichiarata d'accordo con questa
impostazione.
La sentenza non nega affatto il principio generale della
imputabilità personale della sanzione amministrativa; nega,
però, che il principio possa essere forzato fino al punto di
stabilire la sostanziale irresponsabilità dell'ente.
Vediamo di ricostruire il quadro giuridico.
Si parte dal principio della natura personale della
responsabilità amministrativa e della imputabilità,
dell'elemento soggettivo della violazione, delle cause di
esclusione della responsabilità e del concorso di persone.
Cioè il trasgressore è una persona fisica, di cui bisogna
valutare il grado di colpa o dolo o se è capace di intendere
e volere e così via.
Ma la stessa legge 689/1981 (legge quadro sulla
responsabilità amministrativa pecuniaria) prevede una
responsabilità solidale della persona giuridica: il
trasgressore è una persona fisica, ma è tenuto al pagamento
della sanzione anche l'ente che sia, per esempio, datore di
lavoro o proprietario della cosa con cui sia stato commesso
l'illecito.
Si prenda il caso di una violazione del divieto di sosta dei
veicoli commesso dal dipendente di una spa: il trasgressore
è il dipendente, ma al pagamento della sanzione è tenuta
anche la spa, per responsabilità solidale (salvo rivalsa sul
responsabile).
Questo impianto, dice però la Cassazione, non esclude di per
sé la possibile autonoma responsabilità della persona
giuridica in base al codice della privacy.
La sentenza spiega, infatti, che la diversa natura giuridica
delle sanzioni amministrative, contenute nel codice in
materia di protezione dei dati personale, è dimostrata
dall'art. 162, comma 2-bis, del codice stesso, nella parte in
cui si prevede testualmente che in caso di trattamento di
dati personali effettuato in violazione delle disposizioni
indicate nell'articolo 167 è altresì applicata in sede
amministrativa, in ogni caso, la sanzione pecuniaria. Per la
Cassazione l'articolo 162, comma 2-bis, del codice della
privacy prevede una sanzione amministrativa che si aggiunge
a quella penale, con un regime proprio e autonomo e che
scatta in ogni caso e, quindi, anche nei confronti di un
ente e non solo della persona fisica.
È lo stesso meccanismo della responsabilità amministrativa
delle imprese per le ipotesi di reato commessi da manager e
dipendenti (dlgs 321/2001).
Il principio formulato dalla Cassazione concorda anche con
la definizione di titolare del trattamento: è considerato
titolare del trattamento dei dati non solo la persona
fisica, ma espressamente anche la persona giuridica, la
pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente,
associazione o organismo cui competono le decisioni del
trattamento (articolo 4 del codice della privacy).
Se il titolare del trattamento è la persona giuridica,
allora, questa è direttamente sanzionabile ai sensi della
normativa in materia di trattamento dei dati personali
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2016).
---------------
MASSIMA
1.- Con l'unico motivo del ricorso principale si censura il
vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 28,
162 e 166 del
dlgs. n. 196/2003 in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c..
Con il motivo si pone, nella sostanza, la questione dei
limiti di
compatibilità del rinvio alla L. 689/1981 da parte dell'art.
166
d.lvo. 196/2003 e, quindi, della "identificazione" del
soggetto
titolare del trattamento e della imputabilità delle
sanzioni.
E, quindi, conseguentemente se sia possibile o meno
l'irrogazione delle sanzione amministrativa prevista ex lege
anche ad un Ente (quale, in ipotesi, la Provincia) oppure
solo ad
una persona fisica.
Il principio che, con il motivo in esame, parte ricorrente
chiede
affermarsi è quello per cui la sanzione de qua è applicabile
anche
all'ente.
Il motivo è fondato.
Il richiamo al noto principio della imputabilità personale
della
sanzione, di cui alla L. n. 689/1981, non può giustificare
—come
ritenuto nella decisione gravata-
la sostanziale
irresponsabilità
dell'Ente tenuto al trattamento dei dati sensibili protetti
dalla
legge.
Non è corretto, in particolare, il richiamo, operato dalla
sentenza
impugnata, al dictum di Cass. n. 12664/2007 e, quindi, al
principio (in essa pure richiamato) della natura personale
della responsabilità e dei conseguenti profili della
imputabilità,
dell'elemento soggettivo della violazione, delle cause di
esclusione della responsabilità e del concorso di persone.
Giova al riguardo evidenziare che quanto affermato dalla
citata
decisione di questa Corte attiene, più propriamente, al
regime
sanzionatorio considerato dalla generale legge di
depenalizzazione.
Quest' ultima preesisteva alla normativa sanzionatoria
specifica
del Codice e quest'ultimo, pur richiamando (al suo art. 166)
la L.
n. 689/1981 rende possibile la configurabilità di una
responsabilità solidale della persona giuridica, ma non
esclude di
per sé la possibile autonoma responsabilità della stessa
siffatta
persona quanto al successivo e specifico regime
sanzionatorio
previsto dal predetto Codice stesso.
Infatti la diversa natura giuridica delle sanzioni
amministrative
contenute nel Codice in materia di protezione dei dati
personale
(D.lvo. n. 196/2003) è confermata dal tenore della norma di
cui
all'art. 162, co. Il-bis (aggiunto ex D.L. n. 207/2008 conv.
in L.
n. 14/2009) del detto codice laddove si prevede testualmente
che: "in caso di trattamento di dati personali effettuato in
violazione
...delle disposizioni indicate nell'art. 167 è altresì
applicata in sede amministrativa, in ogni caso, la sanzione
del pagamento di
una somma....".
Insomma con l'anzidetta norma di legge si prevede una
sanzione
amministrativa che si aggiunge a quella penale, con un
regime
proprio ed autonomo e che scatta in ogni caso e, quindi,
anche
nei confronti di un Ente e non solo della persona fisica.
Peraltro la suddetta previsione appare in linea proprio con
l'inquadramento generale dato dal citato Codice quanto alla
configurazione dei soggetti (persone fisiche o giuridiche)
titolari
del trattamento dei dati.
Difatti, ai sensi dell'art. 4 del predetto Codice, è
considerato
titolare del trattamento dei dati non solo la persona
fisica, ma
espressamente anche "...la persona giuridica, la pubblica
amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione o
organismo
cui competono...".
D'altra parte questa Corte, già con nota pronuncia ( Cass.
civ.,
Sez. VI-2°, Ord. 08.04.2014, n. 8184), ha già avuto modo
di
affermare che
"il titolare del trattamento è la persona
giuridica",
come tale perfettamente sanzionabile ai sensi della
normativa in
materia di trattamento dei dati personali.
In conclusione il motivo esaminato deve essere accolto con
conseguente cassazione dell'impugnata decisione e rinvio,
anche per le spese del presente giudizio, al Tribunale di
Avellino in
diversa composizione, che provvederà alla stregua dei
principi
innanzi enunciati. |
VARI: Il giornalista può usare il sarcasmo.
Corte diritti dell’uomo. Secondo i giudici europei la
libertà di espressione consente anche di scegliere lo stile.
Sarcasmo e ironia in articoli di stampa quasi senza
limiti. Anche quando singole espressioni come «stupido» e
«lento a capire» sono in sé offensive, perché i giornalisti
hanno diritto ad usare tecniche stilistiche, su questioni di
interesse pubblico, con sarcasmo e ironia anche eccessivi.
Lo ha stabilito la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza
05.07.2016, con la quale ha condannato la Polonia per
violazione dell’articolo 10 della Convenzione che assicura
il diritto alla libertà di espressione, dando ragione, su
tutta la linea, a un giornalista (caso Ziembinski, 1799/07).
A rivolgersi alla Corte era stato un cronista polacco che
aveva pubblicato un articolo sul quotidiano del quale era
anche proprietario, in cui criticava aspramente un progetto
dell’amministrazione comunale che, in pratica, prevedeva il
via libera a un allevamento di quaglie ritenendo potesse
essere utile a fronteggiare la disoccupazione nella zona.
Malgrado non avesse citato nominativamente il sindaco e due
funzionari pubblici, il reporter era stato denunciato e
condannato per diffamazione.
Di qui il ricorso alla Corte
europea che, ancora una volta, ha rafforzato la libertà di
espressione dei giornalisti rispetto ad altri diritti in
gioco come quello alla reputazione. E questo soprattutto
quando oggetto degli articoli sono politici e dipendenti
pubblici.
La Corte europea critica l’operato dei giudici nazionali che
hanno deciso la condanna del giornalista valutando le
singole espressioni e non il contesto generale. L’articolo,
molto critico nei confronti di alcuni amministratori
pubblici –osservano i giudici di Strasburgo– conteneva
termini in sé forti sottolineando che chi aveva effettuato
la scelta di dare il via a un allevamento di quaglie era
«stupido», «lento a capire», «smorto». Detto questo, però, i
giudici nazionali hanno sbagliato a considerare le
espressioni in sé e non nel contesto dell’articolo, nel
quale il giornalista aveva fatto una scelta stilistica
precisa, ugualmente protetta dall’articolo 10 della
Convenzione.
La valutazione delle autorità nazionali –scrive la Cort– non può essere staccata dal contesto e
senza considerare che il giornalista ha diritto di scegliere
una comunicazione ironica e sarcastica quando riporta alla
collettività questioni di interesse generale. «Un livello di
esagerazione –osserva la Corte– e di provocazione è
permesso al giornalista» e questo anche quando arriva a un
certo grado di intemperanza e a taluni eccessi.
Senza dimenticare che i destinatari non erano indicati
nominativamente (anche se identificabili) e, soprattutto,
erano personaggi pubblici. L'articolo, infatti, prendeva di
mira il sindaco che, in quanto politico, è maggiormente
esposto a critiche rispetto a un privato cittadino, con un
obbligo di tolleranza maggiore. Con la conseguenza che, nei
suoi confronti, le autorità nazionali hanno margini di
intervento molto ristretti laddove intendano limitare la
libertà di espressione. Tanto più che è compito del
giornalista animare e suscitare un dibattito su questioni di
interesse generale.
Inevitabile, quindi, la bocciatura dell’operato dei giudici
nazionali, che si sono limitati a decidere nel senso della
diffamazione senza considerare l’articolo nel suo complesso.
Con la conseguenza che la Polonia dovrà versare al
giornalista oltre 4mila euro tra danni patrimoniali e morali (articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016). |
APPALTI:
L'offerta economica è segreta. Conoscenza
anticipata interdetta alla commissione. Principio ribadito
dal Tar Marche sulle gare a offerta economicamente più
vantaggiosa.
Nelle procedure di affidamento con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, le regole di segretezza
dell'offerta economica e di separazione del relativo esame
rispetto a quello dell'offerta tecnica impongono
tassativamente che, prima della conclusione di quest'ultimo,
sia interdetta alla commissione giudicatrice l'anticipata
conoscenza degli elementi dell'offerta economica.
È quanto hanno ribadito i giudici della I Sez. del TAR
Marche con la
sentenza 30.06.2016 n. 425.
A parere dei giudici amministrativi di Ancora, ciò deve
realizzarsi affinché, in omaggio ai canoni di imparzialità e
trasparenza, la preventiva valutazione dell'offerta tecnica
non ne resti influenzata (effettivamente o anche solo
potenzialmente), così da inficiare l'obiettività
nell'assegnazione dei punteggi e la regolarità della
selezione.
Inoltre, in ossequio ad un ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale (si vedano: Cons. stato, sez. VI, n.
5928/2012; Tar Marche n. 334/2015; Tar Sardegna, sez. I, n.
390/2013; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, n. 25894/2010;
Tar Lazio, Roma, sez. II, n. 2393/2007), i giudici del Tar
nella sentenza in commento hanno evidenziato come
l'indicazione di elementi economici tra la documentazione
costituente l'offerta tecnica risulti, in alcuni casi,
insuscettibile di inquinare la valutazione della commissione
giudicatrice nel caso in cui, ad esempio, «le voci e le
entità economiche incluse nell'offerta rivestono portata
quantitativamente marginale a fronte alle voci e alle entità
del computo metrico estimativo a base di gara, oppure
quando, pur trattandosi di voci di entità rilevante, vengono
riportate al lordo del ribasso che è possibile conoscere
solo dall'esame dell'offerta economica».
Infine, nel caso specifico, è stato osservato dai giudici
amministrativi che, l'aver chiesto agli offerenti «elementi
di computo metrico» a corredo delle proprie offerte
tecniche, avrebbe reso comunque possibile, da parte di una
Commissione «tecnica» farsi un'idea orientativa
dell'entità economica delle migliorie, conoscendo sia i
prezziari ufficiali di riferimento (lordi), che i prezzi
effettivamente praticati nella zona per lavorazioni analoghe
(netti).
Sono queste le circostanze in cui la giurisprudenza
amministrativa ha comunque ritenuto ammissibile una tale
disciplina di gara, osservando che, quando essa «richiede
o permette soluzioni migliorative, la cui tecnicità richieda
necessariamente anche esami di tipo aritmetico o
l'indicazione di parametri dei costi o, ancora, comparazioni
rispetto a prezzi di mercato o listini ufficiali, ne viene
che fatalmente l'offerta tecnica va a dover contenere alcuni
elementi di rilievo economico, al limite indici indiretti di
prezzi. Il che, nel limite della ragionevolezza e delle
proporzionalità, non vulnera il principio generale di
separatezza delle due offerte» (cfr. Cons. stato, sez.
V, n. 703/2016)
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).
---------------
MASSIMA
2.2 Riguardo al secondo profilo, il Collegio non ignora
che, per univoco orientamento giurisprudenziale fatto
proprio anche da questo Tribunale in ripetute occasioni
(cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 7431/2003; Sez. V, n.
3575/2009; n. 1734/2011; n. 2734/2012; n. 10/2013; n.
2214/2013; n. 3841/2013; TAR Marche nn. 307/2004 e 380/2013;
TAR Lazio, Roma, Sez. I n. 5196/2005; TAR Sicilia, Catania,
Sez. IV, n. 1236/2006; Sez. III, n. 1852/2007; n. 1969/2007;
TAR Friuli Venezia Giulia n. 296/2006; TAR Campania, Napoli,
Sez. I, n. 7089/2006; TAR Toscana, Sez. II, n. 1385/2010;
TAR Puglia, Bari, Sez. I, n. 693/2011; Lecce, Sez. III, n.
1001/2011; TAR Liguria, Sez. II, n. 73/2012; TAR Piemonte,
Sez. I, n. 1177/2012; TAR Abruzzo, Pescara, n. 526/2013),
nelle procedure di affidamento con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, le regole di segretezza
dell’offerta economica e di separazione del relativo esame
rispetto a quello dell’offerta tecnica impongono
tassativamente che, prima della conclusione di quest’ultimo,
sia interdetta alla commissione giudicatrice l’anticipata
conoscenza degli elementi dell’offerta economica, affinché,
in omaggio ai canoni di imparzialità e trasparenza, la
preventiva valutazione dell’offerta tecnica non ne resti
influenzata (effettivamente o anche solo potenzialmente),
così da inficiare l’obiettività nell’assegnazione dei
punteggi e la regolarità della selezione.
Va tuttavia anche ricordato che l’indicazione di elementi
economici tra la documentazione costituente l’offerta
tecnica risulta, in alcuni casi, insuscettibile di inquinare
la valutazione della commissione giudicatrice quando, ad
esempio, le voci e le entità economiche incluse nell’offerta
rivestono portata quantitativamente marginale a fronte alle
voci e alle entità del computo metrico estimativo a base di
gara, oppure quando, pur trattandosi di voci di entità
rilevante, vengono riportate al lordo del ribasso che è
possibile conoscere solo dall’esame dell’offerta economica
(cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 5928/2012; TAR Marche n.
334/2015; TAR Sardegna, Sez. I, n. 390/2013; TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, n. 25894/2010; TAR Lazio, Roma, Sez. II,
n. 2393/2007).
Questi ultimi aspetti caratterizzano proprio il caso in
esame.
In primo luogo va osservato che alcuni dei prezzi inseriti
nei computi metrici delle singole proposte sono stati
desunti dal prezziario regionale utilizzato anche per
l’elaborazione del computo metrico estimativo e dell’elenco
dei prezzi unitari del progetto a base di gara, come si può
facilmente rilevare dal confronto fra tali documenti (v. ad
es. per la proposta 1.1, i prezzi 09.04.005 e 09.05.006.02
rispettivamente di € 252,52 e 86,68 che corrispondono alle
identiche voci del prezziario regionale riportate ai nr. 52
e 30 dell’elenco dei prezzi unitari depositato
dall’Amministrazione).
Tali voci sono state evidentemente riportate al lordo del
ribasso che la Commissione ha potuto conoscere solo aprendo
la busta contenente l’offerta economica.
Peraltro va osservato che anche le altre offerenti (tra cui
la ricorrente) hanno elaborato i loro “elementi di computo
metrico” indicando i numeri di tariffa del prezziario
regionale, per cui sarebbe stato facile, per la Commissione,
conoscere il valore lordo delle proposte migliorative, per
quanto irrilevante se si ignora il relativo ribasso.
I computi metrici della controinteressata contengono,
tuttavia, anche nuovi prezzi di tariffa non contenuti nel
prezziario regionale, che vengono riportati con allegata una
scheda analitica di incidenza delle singole componenti
(manodopera, materiali, mezzi, noli, trasporti, sicurezza,
spese generali, utile) la cui somma viene indicata come
“prezzo di applicazione”.
Anche a voler ipotizzare che per “prezzo di applicazione”
debba intendersi quello effettivamente praticato al cliente
(quindi al netto del ribasso), va osservato che la loro
incidenza (per complessivi € 63.700 circa) è minimale, sia
rispetto all’importo complessivo delle migliorie proposte (€
209.900 circa), sia all’importo a base d’asta (€ 299.683,61
+ € 8.439,07), non potendo quindi costituire elemento utile
per dedurre anticipatamente e con un apprezzabile margine di
precisione, in sede di valutazione dell’offerta tecnica,
l’entità dell’offerta economica.
Da ultimo va osservato che, l’aver chiesto agli offerenti
“elementi di computo metrico” a corredo delle proprie
offerte tecniche (sul punto la lex specialis non è in
contestazione), rende comunque possibile, da parte di una
Commissione “tecnica” (composta da due ingegneri e un
geometra, come nel caso in esame), farsi un’idea orientativa
dell’entità economica delle migliorie, conoscendo sia i
prezziari ufficiali di riferimento (lordi), che i prezzi
effettivamente praticati nella zona per lavorazioni analoghe
(netti).
In tali circostanze la giurisprudenza amministrativa ha
comunque ritenuto ammissibile una tale disciplina di gara,
osservando che, quando essa “richiede o permette soluzioni
migliorative, la cui tecnicità richieda necessariamente
anche esami di tipo aritmetico o l’indicazione di parametri
dei costi o, ancora, comparazioni rispetto a prezzi di
mercato o listini ufficiali, ne viene che fatalmente (come è
stato qui) l’offerta tecnica va a dover contenere alcuni
elementi di rilievo economico, al limite indici indiretti di
prezzi. Il che, nel limite della ragionevolezza e delle
proporzionalità, non vulnera il principio generale di
separatezza delle due offerte. Infatti diversamente si
dovrebbero ritenere a priori precluse tutte le formulazioni
dell’offerta tecnica –e, a maggior ragione, le richieste di
formulazioni dell’offerta tecnica a opera della lex
specialis– che prendano in considerazione siffatti
parametri economici: mentre ne ricorre il divieto solo nel
caso in cui quel limite sia concretamente superato e dunque
dall’offerta tecnica si possa agevolmente desumere l’offerta
economica, con conseguente lesione effettiva della
separatezza dell’offerta tecnica dall’offerta economica”,
concludendo che “una sommatoria di poco superiore a un terzo
del complesso delle lavorazioni non può dar luogo a una
previa conoscenza dell’importo globale dell’offerta
economica: dunque ad una vera anticipazione dell’offerta
economica fatta in sede di offerta tecnica” (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, n. 703/2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Giudici
di legittimità all'angolo. C'è incompetenza a statuire in
tema di responsabilità. AVVOCATI/ È quanto ha ribadito la
terza sezione civile della Corte di cassazione.
In tema di responsabilità dell'avvocato il giudice di
legittimità è incompetente a statuire sul merito.
Lo hanno ribadito i giudici della III Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza
28.06.2016 n. 13292.
Già la stessa Cassazione (sez. 3, 13.02.2014 n. 3355) aveva
sottolineato come «nelle cause di responsabilità
professionale nei confronti degli avvocati, la valutazione
prognostica compiuta dal giudice di merito circa il
probabile esito dell'azione giudiziale malamente intrapresa
o proseguita, sebbene abbia contenuto tecnico-giuridico,
costituisce comunque valutazione di un fatto, censurabile in
sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di
motivazione».
Nel caso di specie con sentenza il Tribunale condannava per
responsabilità professionale l'avvocato Tizio a risarcire
danni alla controparte che era stata sua cliente, Caio Srl.
Avendo Tizio proposto appello contro tale sentenza, la Corte
d'appello lo rigettava con sentenza.
Tizio presentava, quindi, ricorso sulla base di quattro
motivi: il primo denunciava violazione di legge in relazione
al capo della sentenza che dichiara la sua responsabilità
professionale per avere proposto domanda di condanna nel
confronti di Caietta Sri nel giudizio in cui assisteva Caio
Srl; il secondo denuncia ancora violazione di legge sul capo
della sentenza che lo riteneva responsabile per avere
proposto nel suddetto giudizio azione di arricchimento senza
causa; il terzo contestava l'asserita mancanza di valido
consenso informato della cliente Caio Srl; il quarto
atteneva al profilo probatorio e all'effettiva sussistenza o
meno di una responsabilità professionale.
Emerge, quindi, evidentemente che, lungi dall'identificare
una violazione dell'articolo 112 c.p.c. da parte del giudice
d'appello, il ricorrente argomentava al fine di ottenere dal
giudice di legittimità una valutazione di merito, e
precisamente una ricostruzione alternativa rispetto a quella
effettuata nell'impugnata sentenza dei presupposti fattuali
della responsabilità professionale del ricorrente.
Secondo i giudici di piazza Cavour il contenuto della
domanda che, secondo la corte territoriale, anche se fosse
stata vagliata non avrebbe apportato alcuna modifica agli
esiti del giudizio in cui ritiene che l'attuale ricorrente
non abbia ben adempiuto al suo mandato professionale rientra
nell'accertamento della condotta posta in essere
dall'avvocato per adempiere al suo mandato, e pertanto
nell'ambito della cognizione di merito.
Non risulta, inoltre, a parere degli Ermellini, essere
incidente in senso contrario, poi, l'indiscutibile dato che,
per compiere tale accertamento, sia necessario da parte dei
giudicante anche un vaglio tecnico al fine di determinare le
prevedibili conseguenze della condotta dell'avvocato, poiché
tale valutazione non può qualificarsi questione di diritto
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
149 del dlgs 42/2004 prevede che “...non é comunque
richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146,
dall'articolo 147 e dall'articolo 159: a) per gli interventi
di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato
dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici...”.
Gli interventi consistenti nell’istallazione:
- “di due unità di condizionamento, di corpi illuminanti e
di grillages sul parapetto perimetrale del terrazzo” nonché
nella realizzazione “di un insegna pubblicitaria fissata
sull’inferriata situata nella parte superiore del varco
d’accesso”,
non possono rientrare nella fattispecie di cui all'art. 149,
lett. a), del dlgs 42/2004, e ciò in quanto tali opere,
complessivamente considerate, comportato un’alterazione
dell’aspetto esteriore dell’immobile vincolato, atteso che
le medesime, consistendo in opere esterne, incidono sulla
percezione visiva rilevante ai fini della tutela del vincolo
ricadente sull’immobile de quo.
Ne deriva, quindi, che i succitati interventi -non
rientrando nella fattispecie di cui all’art. 149, lett. a),
del d.lgs. n. 42 del 2004- sono soggetti al regime
autorizzatorio di cui all’art. 146 del medesimo decreto
legislativo, con la conseguenza che l’Amministrazione, dopo
aver riscontrato che tali opere erano state realizzate in
assenza dei richiesti titoli abilitativi, ha correttamente
proceduto a intimarne la demolizione.
---------------
Non può, peraltro, opporsi la circostanza che le succitate
opere sarebbero temporanee e amovibili.
Infatti, la Sezione deve rilevare che, in base alla
consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “i
manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze
stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare
lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà
strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie. Ciò, in quanto il
manufatto non precario non risulta in concreto deputato ad
un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un
utilizzo protratto nel tempo. Infatti, la precarietà
dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del
permesso di costruire ... postula un uso specifico e
temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo
stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze permanenti nel tempo”.
Orbene, nel caso di specie, gli interventi concernenti
l’illuminazione, il sistema di condizionamento e l’insegna
pubblicitaria non costituiscono opere aventi una finalità
temporalmente delimitata ma risultano funzionalmente diretti
a soddisfare esigenze durevoli nel tempo, con la conseguenza
che la loro ipotetica ed astratta amovibilità non risulta
una circostanza adeguata ad inficiare la rilevata
legittimità del provvedimento impugnato.
---------------
Osserva, preliminarmente, la Sezione che l’art. 146, commi 1
e 2 del d.lgs. n. 42 del 2004 dispone che “i proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree
oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all'articolo
157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli
138 e 141, tutelati ai sensi dell'articolo 142, ovvero
sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano
paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi
modificazioni che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione. I proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati
al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o
all'ente locale al quale la regione ha affidato la relativa
competenza i progetti delle opere che intendano eseguire,
corredati della documentazione prevista, al fine di ottenere
la preventiva autorizzazione”.
L’art. 149 del medesimo decreto legislativo prevede,
inoltre, per quanto d’interesse in questa sede, che “...non
é comunque richiesta l'autorizzazione prescritta
dall'articolo 146, dall'articolo 147 e dall'articolo 159: a)
per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria,
di consolidamento statico e di restauro conservativo che non
alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli
edifici...”.
Orbene, per quanto concerne il caso di specie, la Sezione
deve in primo luogo rilevare che gli interventi oggetto
dell’impugnata ordinanza -così come individuati dalla nota
della Soprintendenza di Napoli e Provincia n. 14402 del
27.08.2012, non contestata in atti- sono stati realizzati su
un immobile vincolato ope legis ai sensi dell’art. 10
del d.lgs. n. 42 del 2004.
Inoltre, i suddetti interventi -consistiti, come esplicitato
al precedente n. 4, nell’istallazione “di due unità di
condizionamento, di corpi illuminanti e di grillages sul
parapetto perimetrale del terrazzo” nonché nella
realizzazione “di un insegna pubblicitaria fissata
sull’inferriata situata nella parte superiore del varco
d’accesso”- non possono rientrare nella fattispecie di
cui al richiamato art. 149, lett. a) del succitato decreto
legislativo, e ciò in quanto tali opere, complessivamente
considerate, hanno comportato un’alterazione dell’aspetto
esteriore dell’immobile vincolato, atteso che le medesime,
consistendo in opere esterne, incidono sulla percezione
visiva rilevante ai fini della tutela del vincolo ricadente
sull’immobile de quo.
Ne deriva, quindi, che i succitati interventi -non
rientrando nella fattispecie di cui all’art. 149, lett. a)
del d.lgs. n. 42 del 2004- erano soggetti al regime
autorizzatorio di cui all’art. 146 del medesimo decreto
legislativo, con la conseguenza che l’Amministrazione, dopo
aver riscontrato che tali opere erano state realizzate in
assenza dei richiesti titoli abilitativi, ha correttamente
proceduto a intimarne la demolizione.
A quanto esposto non può, peraltro, opporsi la circostanza
che le succitate opere sarebbero temporanee e amovibili.
Infatti -anche volendo prescindere dalla circostanza che la
società ricorrente si è limitata ad asserire l’amovibilità
di tali opere senza fornire adeguati elementi probatori al
riguardo, eccezion fatta per il solo intervento relativo ai
“grillages”, cui si fa riferimento nella relazione
tecnica allegata alla SCIA del 16.04.2012- la Sezione deve
rilevare che, in base alla consolidata giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato, “i manufatti non precari, ma
funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno
considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a
nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere
murarie. Ciò, in quanto il manufatto non precario non
risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel
tempo. Infatti, la precarietà dell'opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire ...
postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene
e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al
soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo” (Cons.
di Stato, Sez. VI, 04.09.2015, n. 4116).
Orbene, nel caso di specie, gli interventi concernenti
l’illuminazione, il sistema di condizionamento e l’insegna
pubblicitaria non costituiscono opere aventi una finalità
temporalmente delimitata ma risultano funzionalmente diretti
a soddisfare esigenze durevoli nel tempo, con la conseguenza
che la loro ipotetica ed astratta amovibilità non risulta
una circostanza adeguata ad inficiare la rilevata
legittimità del provvedimento impugnato
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 28.06.2016 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base alla consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato, i provvedimenti demolitori “non
necessitano di una motivazione particolarmente estesa,
essendo sufficiente che l'Amministrazione individui con
chiarezza le ragioni giuridiche assunte a fondamento della
decisione, anche con mero richiamo alle disposizioni di
legge delle quali viene fatta applicazione”, con la
conseguenza che il Comune, una volta accertata l’abusività
delle opere de quibus, realizzate in assenza dei richiesti
titoli abilitativi, non aveva alcun obbligo di motivare il
provvedimento di demolizione in relazione a quanto rilevato
nella succitata relazione tecnica.
---------------
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale di
questo Consiglio di Stato “in caso di abusivismo edilizio,
non sussiste a carico del Comune l'onere di verificare la
sanabilità dell'opera prima di emettere un’ordinanza di
demolizione, atteso che, nello schema giuridico delineato
dal testo unico dell'edilizia, non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, dal momento che l'esercizio del
potere repressivo di un abuso edilizio consistente
nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo
abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re
ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto,
accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione
ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non
costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle
opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia”.
In altri termini, una volta accertata la natura abusiva
delle opere, l’Amministrazione non ha l’obbligo di valutarne
in via preventiva la sanabilità, e ciò sia perché tale
valutazione non è esplicitamente richiesta dalla normativa
di settore sia perché l’adozione di una ordinanza di
demolizione non preclude all’interessato la possibilità di
presentare una successiva domanda di sanatoria.
Ne deriva, quindi, che la mancanza di una preventiva
valutazione, da parte dell’Amministrazione comunale, in
merito alla sanabilità delle opere de quibus ai sensi
dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non risulta una
circostanza adeguata a viziare l’impugnato provvedimento
demolitorio, con la conseguenza che il medesimo deve
ritenersi legittimo.
---------------
Infine, per quanto concerne la censura relativa alla mancata
comunicazione, da parte del Comune, del preavviso di rigetto
di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la
Sezione deve rilevare che l’istituto del preavviso di
rigetto, per espressa previsione normativa, trova
applicazione esclusivamente nei “procedimenti ad istanza di
parte” mentre, nel caso di specie, il procedimento che ha
condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza di
demolizione non è stato avviato sulla base di un’istanza
della società ricorrente ma in ragione di quanto rilevato
nella nota della Soprintendenza, con la conseguenza che
l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo di
adottare il preavviso di rigetto di cui al predetto art.
10-bis.
---------------
Infine, per quanto concerne la censura relativa al fatto che
l’Amministrazione comunale non avrebbe proceduto a confutare
analiticamente la relazione tecnica allegata alla SCIA del
16.04.2012, la Sezione rileva che, in base alla consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, i provvedimenti
demolitori “non necessitano di una motivazione
particolarmente estesa, essendo sufficiente che
l'Amministrazione individui con chiarezza le ragioni
giuridiche assunte a fondamento della decisione, anche con
mero richiamo alle disposizioni di legge delle quali viene
fatta applicazione” (Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2008,
n. 2977), con la conseguenza che il Comune, una volta
accertata l’abusività delle opere de quibus,
realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, non
aveva alcun obbligo di motivare il provvedimento di
demolizione in relazione a quanto rilevato nella succitata
relazione tecnica.
6. Con il secondo motivo di gravame la società ricorrente ha
dedotto l’illegittimità dell’impugnata ordinanza per
violazione dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004;
violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990;
eccesso di potere sotto i profili del presupposto erroneo,
del travisamento dei fatti, del difetto d’istruttoria e
della motivazione errata e contraddittoria; nonché
violazione dell’art. 15 del regolamento edilizio.
Secondo la società ricorrente, infatti, gli interventi de
quibus non avrebbero comportato la creazione di
superfici utili e volumi o l’aumento di quelli
legittimamente assentiti e sarebbero, quindi, sanabili ai
sensi dell’art. 167, lett. a) e c) del d.lgs. n. 42 del
2004, con la conseguenza che il Comune, prima di adottare il
contestato provvedimento demolitorio, avrebbe dovuto
comunicare alla società ricorrente il preavviso di diniego
di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990,
consentendo alla società di depositare una istanza di
sanatoria paesaggistica ai sensi del succitato art. 167.
Detta censura non può essere condivisa.
Rileva, infatti, la Sezione che, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato
“in caso di abusivismo edilizio, non sussiste a carico
del Comune l'onere di verificare la sanabilità dell'opera
prima di emettere un’ordinanza di demolizione, atteso che,
nello schema giuridico delineato dal testo unico
dell'edilizia, non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, dal momento che l'esercizio del potere
repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione
di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce
atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico
alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di
opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale
dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune
verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia” (Cons. di Stato, Sez. IV,
26.08.2014, n. 4279).
In altri termini, una volta accertata la natura abusiva
delle opere, l’Amministrazione non ha l’obbligo di valutarne
in via preventiva la sanabilità, e ciò sia perché tale
valutazione non è esplicitamente richiesta dalla normativa
di settore sia perché l’adozione di una ordinanza di
demolizione non preclude all’interessato la possibilità di
presentare una successiva domanda di sanatoria.
Ne deriva, quindi, che la mancanza di una preventiva
valutazione, da parte dell’Amministrazione comunale, in
merito alla sanabilità delle opere de quibus ai sensi
dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non risulta una
circostanza adeguata a viziare l’impugnato provvedimento
demolitorio, con la conseguenza che il medesimo deve
ritenersi legittimo.
Infine, per quanto concerne la censura relativa alla mancata
comunicazione, da parte del Comune, del preavviso di rigetto
di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la
Sezione deve rilevare che l’istituto del preavviso di
rigetto, per espressa previsione normativa, trova
applicazione esclusivamente nei “procedimenti ad istanza
di parte” mentre, nel caso di specie, il procedimento
che ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza di
demolizione non è stato avviato sulla base di un’istanza
della società ricorrente ma in ragione di quanto rilevato
nella nota della Soprintendenza di Napoli e Provincia n.
14402 del 27.08.2012, con la conseguenza che
l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo di
adottare il preavviso di rigetto di cui al predetto art.
10-bis
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 28.06.2016 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati edilizi, ai
fini del disconoscimento del
concorso del proprietario del terreno non committente dei
lavori nel reato previsto
dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, è necessario escludere
l'interesse o il suo
consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero
dimostrare che egli non sia
stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Questa Corte di legittimità
non ritiene sufficiente,
per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del
terreno non abbia
commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario
non committente vada
esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè,
che dagli atti emerga che
lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato
nelle condizioni di impedirne
l'esecuzione.
E' dunque pacifico che in tema di reati edilizi,
l'individuazione del
comproprietario non committente quale soggetto responsabile
dell'abuso edilizio
può essere desunta da elementi oggettivi di natura
indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del
suolo, interesse specifico ad edificare la nuova
costruzione,
rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore
dell'opera abusiva ed il
proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo
durante l'effettuazione
dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale
vigilanza sull'esecuzione dei
lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in
sanatoria; il regime
patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva,
di tutte quelle situazioni
e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano
trarsi elementi integrativi
della colpa e prove circa la compartecipazione, anche
morale, all'esecuzione delle
opere, tenendo presente pure la destinazione finale della
stessa.
Inoltre, la valutazione del comproprietario non committente
quale soggetto
responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di
legittimità della Suprema
Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non
contrasta né con la
disciplina in tema di valutazione della prova né con le
massime di esperienza.
---------------
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema
si è stabilmente
assestata nell'affermare che in tema di reati edilizi, ai
fini del disconoscimento del
concorso del proprietario del terreno non committente dei
lavori nel reato previsto
dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, è necessario escludere
l'interesse o il suo
consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero
dimostrare che egli non sia
stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (così
questa sez. 3, n. 33540 del
19.06.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri rv. 253169; conforme
sez. 4 n. 19714 del 03.02.2009, Izzo F., rv. 243961).
Questa Corte di legittimità
non ritiene sufficiente,
per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del
terreno non abbia
commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario
non committente vada
esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè,
che dagli atti emerga che
lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato
nelle condizioni di impedirne
l'esecuzione.
E' dunque pacifico che in tema di reati edilizi,
l'individuazione del
comproprietario non committente quale soggetto responsabile
dell'abuso edilizio
può essere desunta da elementi oggettivi di natura
indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del
suolo, interesse specifico ad edificare la nuova
costruzione,
rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore
dell'opera abusiva ed il
proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo
durante l'effettuazione
dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale
vigilanza sull'esecuzione dei
lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in
sanatoria; il regime
patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva,
di tutte quelle situazioni
e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano
trarsi elementi integrativi
della colpa e prove circa la compartecipazione, anche
morale, all'esecuzione delle
opere, tenendo presente pure la destinazione finale della
stessa (Sez. 3,
27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi;
10.08.2001, n. 31130,
Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n. 9536,
Mancuso;
28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo;
15.07.2005, n. 26121,
Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del
21/03/2013,
Rv. 257676; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Rv. 261522).
Inoltre, la valutazione del comproprietario non committente
quale soggetto
responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di
legittimità della Suprema
Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non
contrasta né con la
disciplina in tema di valutazione della prova né con le
massime di esperienza (sez.
3, n. 35631 dell'11.07.2007, Leone ed altri, rv. 237391).
Alla stregua di tali principi, nella fattispecie in esame, i
giudici del merito -con
motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici-
hanno ricondotto
all'imputata l'attività di edificazione illecita in oggetto
sui rilievi che essa era
"proprietaria esclusiva" del fondo oggetto dei lavori
abusivi, ne aveva la
disponibilità giuridica e di fatto, ed avesse sicuro
interesse all'esecuzione delle
opere.
Essa, inoltre, non ha dimostrato che non avesse avuto
piena conoscenza
dei lavori abusivi e che non fosse stata messa in condizione
di esprimere il suo
dissenso.
Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui
singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio
non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la
struttura razionale della decisione sia sorretta, come nel
caso in oggetto, da logico e coerente apparato argomentativo
e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la
rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa
ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito
della sentenza impugnata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26428 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia edilizia, l'estinzione del reato
di costruzione abusiva per
prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera,
indipendentemente da una
espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una
sanzione
amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria
giustificazione nella
accessorietà alla sentenza di condanna.
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi
eseguiti in assenza
di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con
variazioni essenziali- (che
riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo
comma della legge n. 47
del 1985) prevede, infatti, testualmente che "per le opere
abusive di cui al
presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna
per il reato di cui all'art.
44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non
sia stata altrimenti
eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio
(non di una pena
accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale),
caratterizzata dalla natura
giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è
attribuita l'applicazione, la cui
catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova
ragione giuridica proprio
nella sua accessività alla "sentenza di condanna".
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come
presupposto
-diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47
del 1985, art. 19 ed
attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2,
per la confisca dei
terreni abusivamente lottizzati-
la pronuncia di una
sentenza di condanna o ad
essa equiparata e non il mero accertamento della commissione
dell'abuso edilizio,
come nel caso dì sentenza dì estinzione per prescrizione.
---------------
5. Vanno,
inoltre, eliminati l'ordine di demolizione e la disposta
confisca, alla
stregua delle argomentazioni che seguono.
Con riferimento all'ordine di demolizione, va osservato che
questa Corte ha
affermato che, in materia edilizia, l'estinzione del reato
di costruzione abusiva per
prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera,
indipendentemente da una
espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una
sanzione
amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria
giustificazione nella
accessorietà alla sentenza di condanna
(Sez. 3, n.
10/2/2006, Cirillo, Rv. 233673;
Sez.3, n. 8409 del 30/11/2006, dep. 28/02/2007, Rv. 235952;
Sez. 3, n. 756 del
02/12/2010, dep. 14/01/2011, Rv. 249154; Sez. 3, n. 50441 del
27/10/2015
Rv. 265616).
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi
eseguiti in assenza
di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con
variazioni essenziali- (che
riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo
comma della legge n. 47
del 1985) prevede, infatti, testualmente che "per le opere
abusive di cui al
presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna
per il reato di cui all'art.
44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non
sia stata altrimenti
eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio
(non di una pena
accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale),
caratterizzata dalla natura
giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è
attribuita l'applicazione, la cui
catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova
ragione giuridica proprio
nella sua accessività alla "sentenza di condanna"
(vedi, in
tal senso, Cass., Sez.
Unite, 24.07.1996, ric. Monterisi).
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come
presupposto
-diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47
del 1985, art. 19 ed
attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2,
per la confisca dei
terreni abusivamente lottizzati-
la pronuncia di una
sentenza di condanna o ad
essa equiparata e non il mero accertamento della commissione
dell'abuso edilizio,
come nel caso dì sentenza dì estinzione per prescrizione
(vedi Cass., Sez. 3
16.02.1998, n. 4100, ric. Maniscalco).
Nella specie, quindi,
la declaratoria di estinzione del
reato di costruzione
abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione
impartito con la sentenza
impugnata.
Con riferimento alla confisca, va osservato che questa Corte
ha affermato che
non può essere disposta la confisca dell'area adibita a
discarica abusiva, in caso di
estinzione del reato (nella specie, per prescrizione), né a
norma dell'art. 256,
comma terzo, d.lgs. n. 152 del 2006, né a norma dell'art.
240, comma secondo,
cod. pen.
(Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687; Sez. 3
n. 13741, 22.03.2013, non massimata).
Quanto al primo profilo, va rimarcato che il d.lgs. n. 152
del 2006, art. 256,
comma 3, stabilisce, infatti, che
unicamente alla sentenza di
condanna o alla
sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. consegue la
confisca dell'area sulla
quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà
dell'autore o del
compartecipe al reato.
Il tenore della disposizione richiamata è, quindi,
estremamente chiaro nello
stabilire che
la confisca è applicabile soltanto in caso di
condanna o applicazione
pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., tanto che la
sua perentorietà è stata
indicata tra le ragioni che consentono di escluderne
l'applicabilità con il decreto
penale di condanna
(Sez. 3, n. 26548 del 22/05/2008, Rv. 240343;
Sez. 3, n. 24659
del 19/03/2009, Rv. 244019).
Quanto al secondo profilo, questa Corte ha affermato che
un'area adibita a
discarica abusiva non rientra certamente tra le ipotesi di
cui all'art. 240, comma
2, cod. pen., sia perché la realizzazione e la gestione di
una discarica, se
debitamente autorizzata, è lecita, sia perché la
disposizione che la prevede
consente la soggezione a confisca obbligatoria solo se
l'area appartenga all'autore
o al compartecipe al reato
(Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687, cit.).
Nella specie, quindi,
la declaratoria di estinzione del reato di costruzione
abusiva per prescrizione travolge anche la confisca disposta
con la sentenza impugnata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26428 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Riguardo agli abusi
paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della
condotta posta in essere ad
arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura
di reato di pericolo
della violazione non richiede la causazione di un danno e la
incidenza della condotta medesima sull'assetto del
territorio non viene meno neppure qualora venga attestata,
dall'amministrazione competente, la compatibilità
paesaggistica dell'intervento eseguito.
E' stato altresì osservato che l'individuazione della
potenzialità lesiva di detti
interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta
quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al
paesaggio ed
all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse
astrattamente idoneo a ledere il
bene giuridico tutelato e che, proprio per tali ragioni, è
richiesta la preventiva
valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del
vincolo per ogni intervento,
anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla
disciplina urbanistica ed
edilizia.
Sicché, il
reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta
consista nell'esecuzione
di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il
mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano
venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario
assetto.
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi
in zone vincolate
senza il controllo e la autorizzazione amministrativa
indipendentemente dal
risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai
fini dell'integrazione della
fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle
autorità competenti
alla tutela del vincolo.
---------------
La ratio della introduzione di
vincoli paesaggistici
generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella
valutazione che l'integrità
ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso
anche da
interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella
sua interezza.
La severità del relativo trattamento
sanzionatorio
«trova giustificazione nella entità sociale dei beni
protetti e nel ricordato
carattere generale, immediato ed interinale, della tutela
che la legge ha inteso
apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere
comportamenti tali che
possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili
all'integrità ambientale.
I reati incidenti su beni paesaggistici
vincolati per legge hanno
introdotto «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del
territorio
individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o
morfologiche), improntata
a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione
assidua dell'intero
territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale.
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta
sostanziale identità dei
valori in gioco, il bene paesaggistico non può essere
considerato qualcosa di
avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta
nella norma è
sufficientemente determinata.
---------------
In proposito, occorre preliminarmente osservare che la
sentenza della Corte
Costituzionale n. 56, depositata il 23.03.2016 ha
dichiarato l'illegittimità
costituzionale "dell'art. 181, comma 1-bis, del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai
sensi dell'articolo 10
della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui
prevede «:a) ricadano su
immobili od aree che, per le loro caratteristiche
paesaggistiche siano stati
dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito
provvedimento emanato in epoca antecedente alla
realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree
tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed»",
determinando così una
parificazione delle condotte di cui al comma 1°-bis dello
stesso art. 181 con la
disciplina di cui al comma 1, purché non vengano superate le
soglie volumetriche
indicate dal comma 1-bis.
La predetta pronunzia, relativa
al solo trattamento
sanzionatorio della norma in esame, non ha però rilievo ai
fini della declaratoria
di estinzione per intervenuta rimessione in pristino.
In ogni caso, a prescindere dal fatto che l'eccezione di
estinzione del reato
ex art. 181, comma 1-quinquies citato non risulta
richiesta con i motivi di
appello, la Corte territoriale non se ne è occupata,
ritenendo, correttamente, che
l'autorizzazione della Provincia di Varese non rilevasse ai
fini dell'applicazione
dell'art. 129 c.p.p., anche perché, come sostenuto dal
Tribunale e ripreso dalla
stessa Corte, il predetto provvedimento amministrativo si
riferiva all'attività di
cava autorizzata.
4.4. Da parte di questa Suprema Corte è stato ripetutamente
affermato il
principio secondo il quale, riguardo agli abusi
paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della
condotta posta in essere ad
arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura
di reato di pericolo
della violazione non richiede la causazione di un danno e la
incidenza della
condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno
neppure qualora
venga attestata, dall'amministrazione competente, la
compatibilità paesaggistica
dell'intervento eseguito. Si tratta, ad avviso del Collegio,
di considerazioni che
vanno ribadite anche in questa occasione, non essendovi
ragione alcuna per
discostarsi da un orientamento che può dirsi ormai
consolidato [Sez. 3, n.
11048 del 18/02/2015 (dep. 16/03/2015), Murgia, Rv. 263289;
Sez. 3, n. 6299
del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493].
E' stato altresì osservato che l'individuazione della
potenzialità lesiva di detti
interventi deve essere effettuata mediante una valutazione
ex ante, diretta
quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al
paesaggio ed
all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse
astrattamente idoneo a ledere il
bene giuridico tutelato (v. ex plurimis Sez. 3, n. 14461 del
07/02/2003, Carparelli,
Rv. 224468; Sez. 3, n. 14457 del 06/02/2003, De Marzi, Rv.
224465; Sez. 3, n.
12863 del 13/2/2003, Abbate, Rv. 224896; Sez. 3, n. 10641
del 30/01/2003,
Spinosa, Rv. 224355) e che, proprio per tali ragioni, è
richiesta la preventiva
valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del
vincolo per ogni intervento,
anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla
disciplina urbanistica ed
edilizia.
Sulla base di tali considerazioni si è giunti,
pertanto, ad affermare che il
reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta
consista nell'esecuzione
di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il
mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano
venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario
assetto (Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493,
cit.).
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi
in zone vincolate
senza il controllo e la autorizzazione amministrativa
indipendentemente dal
risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai
fini dell'integrazione della
fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle
autorità competenti
alla tutela del vincolo (Sez. 3, n. 10463 del 25/1/2005, Di
Cesare, Rv. 231247).
Ciò posto, deve rilevarsi come, avuto riguardo alla
consistenza delle opere
come descritta nell'imputazione, la decisione della Corte
territoriale appaia
perfettamente in linea con i principi richiamati. Appare
inoltre dirimente il fatto
che -pur ribadendo la natura di reato di pericolo della
fattispecie contestata-
già il Tribunale avesse individuato un danno effettivo
arrecato all'ambiente (pag.
4 secondo periodo).
Come ha condivisibilmente sostenuto la sentenza impugnata,
la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 181 D.Lvo n. 42/2004 -per la parte invocata
dal ricorrente- è manifestamente infondata.
Il giudice
delle leggi ha infatti già
avuto modo di affermare che «la ratio della introduzione di
vincoli paesaggistici
generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella
valutazione che l'integrità
ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso
anche da
interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella
sua interezza (sentenze
n. 247 del 1997, n. 67 del 1992 e n. 151 del 1986; ordinanze
n. 68 del 1998 e n.
431 del 1991)»
e che la severità del relativo trattamento
sanzionatorio
«trova giustificazione nella entità sociale dei beni
protetti e nel ricordato
carattere generale, immediato ed interinale, della tutela
che la legge ha inteso
apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere
comportamenti tali che
possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili
all'integrità ambientale
(sentenze n. 269 e n. 122 del 1993; ordinanza n. 68 del
1998)» (ordinanza n.
158 del 1998).
I reati incidenti su beni paesaggistici
vincolati per legge hanno
introdotto «una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del
territorio
individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o
morfologiche), improntata
a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione
assidua dell'intero
territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale (v., da
ultimo, ordinanze n. 68 del 1998 e n. 431 del 1991)»
(ordinanza n. 158 del
1998).
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta
sostanziale identità dei
valori in gioco, il bene paesaggistico non può essere
considerato qualcosa di
avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta
nella norma è
sufficientemente determinata
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2016 n. 25041 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumori estivi, paga l'esercente che non controlla
gli avventori.
Spetta al barista attivarsi per limitare il disagio dei
residenti nel caso in cui i clienti siano troppo rumorosi
soffermandosi per strada impedendo il riposo delle persone.
Altrimenti potranno scattare delle multe con la sospensione
della diffusione sonora o la riduzione dell'orario di
apertura del locale.
Lo ha evidenziato il TAR Veneto, Sez. III, con la
sentenza 15.06.2016 n. 644.
Un pubblico esercizio posizionato nel centro storico è stato
ripetutamente sanzionato per rumori e schiamazzi e per
questo motivo il comune ha adottato un'ordinanza di completo
silenzio musicale per un mese. Contro questa decisione
l'interessato ha proposto ricorso al Tar ma senza successo.
Se l'esercente non controlla il comportamento dei suoi
clienti che stazionano in strada parlando a voce alta con
tanto di musica ad altro volume all'arrivo dei vigili
scattano le multe. Poi il dirigente ha facoltà di adottare
ulteriori misure sanzionatorie a carico dell'esercente che
vanno dalla limitazione della musica alla riduzione
anticipata dell'orario di chiusura
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016). |
VARI: Estorsione,
non è reato registrare conversazioni.
Registrare una conversazione per difendersi dall'estorsione
non è reato.
Così la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con
sentenza 10.06.2016 n. 24288: «Le
registrazioni di conversazioni tra presenti, compiute di
propria iniziativa da uno degli interlocutori, non
necessitano dell'autorizzazione del giudice per le indagini
preliminari, in quanto non rientrano nel concetto di
intercettazione in senso tecnico ma si risolvono in una
particolare forma di documentazione, che non è sottoposta
alle limitazioni ed alle formalità proprie delle
intercettazioni».
Per gli Ermellini esse possono essere prove, soprattutto di
estorsione: la legge «qualifica documento tutto ciò che
rappresenta fatti, persone o cose mediante la fotografia, la
cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo. Il
nastro contenente la registrazione non è altro che la
documentazione fonografica del colloquio, la quale può
integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere
raggiunta e può rappresentare (si pensi alla vittima di
un'estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la
propria difesa»
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2016).
---------------
MASSIMA
Il terzo motivo di ricorso è infondato.
Deve premettersi che la giurisprudenza di questa Corte è
costante nel ritenere che
le registrazioni di conversazioni tra presenti, compiute di
propria iniziativa da uno degli interlocutori, non
necessitano dell'autorizzazione del giudice per le indagini
preliminari, ai sensi dell'art. 267 c.p.p., in quanto non
rientrano nel concetto di intercettazione in senso tecnico,
ma si risolvono in una particolare forma di documentazione,
che non è sottoposta alle limitazioni ed alle formalità
proprie delle intercettazioni.
Al riguardo le Sezioni Unite hanno evidenziato che, "in
caso di registrazione di un colloquio ad opera di una delle
persone che vi partecipi attivamente o che sia comunque
ammessa ad assistervi, difettano la conpromissione del
diritto alla segretezza della comunicazione, il cui
contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi
palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà" del
captante. L'acquisizione al processo della registrazione del
colloquio può legittimamente avvenire attraverso il
meccanismo di cui all'art. 234 c.p.p., comma 1, che
qualifica documento tutto ciò che rappresenta fatti, persone
o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la
fonografia o qualsiasi altro mezzo; il nastro contenente la
registrazione non è altro che la documentazione fonografica
del colloquio, la quale può integrare quella prova che
diversamente potrebbe non essere raggiunta e può
rappresentare (si pensi alla vittima di un'estorsione) una
forma di autotutela e garanzia per la propria difesa, con
l'effetto che una simile pratica finisce col ricevere una
legittimazione costituzionale"
(Cass. Sez. Un. 28.05.2003 n. 36747).
Diversa è l'ipotesi di registrazione eseguita da un privato,
su indicazione della polizia giudiziaria ed avvalendosi dì
strumenti da questa predisposti.
Dette registrazioni secondo la giurisprudenza di questa
Corte (n. 23742 del 2010 Rv. 247384, N. 42939 del 2012 Rv.
253819 N. 7035 del 2014 Rv. 258551), alla quale il collegio
aderisce, essendo effettuate col pieno consenso di uno dei
partecipi alla conversazione, implicano un minor grado di
intrusione nella sfera privata; sicché, ai fini della tutela
dell'art. 15 Cost., è sufficiente un livello di garanzia
minore, rappresentato da un provvedimento motivato
dell'autorità giudiziaria, che può essere costituito anche
da un decreto del pubblico ministero.
Tale provvedimento, infatti, rappresenta il "livello
minimo di garanzie" richiamato in varie pronunce della
Corte Costituzionale (sentenze n. 81 del 1993 e n. 281 del
1998) e al quale la giurisprudenza di legittimità ha fatto
riferimento, in mancanza di una specifica normativa, sia in
materia di acquisizione dei tabulati contenenti i dati
identificativi delle comunicazioni telefoniche (Sez. Un.
23.02.2000 n. 6), sia in tema di videoriprese eseguite in
luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma
meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost., per la
riservatezza delle attività che vi si compiono (Cass. Sez.
Un. 28.03.2006 n. 26795).
Nel caso di specie, come indicato nella sentenza impugnata e
non disatteso in fatto dal ricorrente che si limita a
ventilare la verosimiglianza di un accordo con le forse
dell'ordine, la registrazione è stata effettuata dal
Palazzolo, su sua iniziativa e senza l'ausilio di
strumentazione fornita dalla polizia giudiziaria,
correttamente pertanto l'acquisizione al processo della
registrazione del colloquio è avvenuta attraverso il
meccanismo di cui all'art. 234 c.p.p., comma 1. |
EDILIZIA PRIVATA: Né
può contestarsi la legittimità della sanzione pecuniaria se
la sua irrogazione avviene a distanza di tempo ragguardevole
dalla realizzazione dell’opera abusiva; ciò, dal momento che
il potere repressivo dell’Amministrazione dinanzi ad abusi
edilizi non è soggetto a termini di decadenza o di
prescrizione, qualunque sia l’entità della violazione posta
in essere e che le opere abusive non vengono legittimate per
effetto del mero decorso del tempo, in assenza di un
esplicito provvedimento che disponga in tal senso.
Per tali ragioni, anche nei casi di protratta inerzia
dell’Amministrazione nell’attività di vigilanza e
accertamento delle violazioni edilizie, non può ritenersi
sorto in capo al privato alcun affidamento meritevole di
tutela circa la legittimazione dello stato dei luoghi.
---------------
Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce
della infondatezza delle censure dedotte.
Va, preliminarmente, rilevato che l’irrogazione nei
confronti della società Casa di Cura Privata Ma./Vi. dei Pl.
S.p.A. della sanzione contestata è legittima e coerente con
le norme previste in materia edilizia di cui al d.P.R. n.
380/2001.
L’art. 36 dello stesso decreto, infatti, sancisce la
possibilità di ottenere, nel caso di interventi realizzati
in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso,
il permesso in sanatoria, sempre che l’intervento realizzato
sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente
sia al tempo della realizzazione dello stesso che della
presentazione della domanda. Per gli interventi non in
regola, per i quali è comunque preclusa la demolizione,
l’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prescrive
l’applicazione di una sanzione pari al doppio del valore
venale della parte dell’opera priva dei necessari titoli
abilitativi edilizi.
Né può contestarsi la legittimità di tale sanzione se la sua
irrogazione avviene a distanza di tempo ragguardevole dalla
realizzazione dell’opera abusiva; ciò, dal momento che il
potere repressivo dell’Amministrazione dinanzi ad abusi
edilizi non è soggetto a termini di decadenza o di
prescrizione, qualunque sia l’entità della violazione posta
in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sent.
04.05.2012, n. 1592) e che le opere abusive non vengono
legittimate per effetto del mero decorso del tempo, in
assenza di un esplicito provvedimento che disponga in tal
senso.
Per tali ragioni, anche nei casi di protratta inerzia
dell’Amministrazione nell’attività di vigilanza e
accertamento delle violazioni edilizie, non può ritenersi
sorto in capo al privato alcun affidamento meritevole di
tutela circa la legittimazione dello stato dei luoghi.
Peraltro, nel caso di specie, deve osservarsi che è stata la
stessa ricorrente ad ammettere esplicitamente la non piena
conformità edilizia della struttura sanitaria, anche con
riferimento al terzo piano del fabbricato, avendo richiesto
il rilascio del permesso di costruire in parziale sanatoria
di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 09.06.2016 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nella
p.a. ok al segnatempo. Il cartellino per attestare la
presenza in servizio. Una sentenza del Tar Sardegna sugli
avvocati dipendenti delle amministrazioni.
Anche la presenza in servizio degli avvocati dipendenti di
enti locali, può essere attestata mediante l'utilizzo di
cartellini segnatempo.
Questo è quanto ha affermato il TAR Sardegna con la
sentenza
09.06.2016 n. 493.
Nel caso in esame due avvocati,
dipendenti comunali, iscritti all'elenco speciale degli
avvocati di enti pubblici tenuto dall'Ordine degli avvocati
di Cagliari, avevano impugnato una norma del regolamento per
il funzionamento dell'Avvocatura comunale secondo la quale
«le mansioni degli avvocati non sono assoggettate a vincoli
d'orario. La presenza degli stessi in servizio dovrà essere
comunque attestata mediante i sistemi automatici delle
presenze, compatibilmente con la partecipazione alle udienze
giudiziarie e alle altre attività istituzionali».
I
ricorrenti lamentavano che gli avvocati dipendenti di Enti
pubblici, nell'esercizio delle funzioni di rappresentanza e
difesa giudiziale e stragiudiziale dell'Amministrazione,
devono essere considerati come dei professionisti e non
possono essere costretti ad un'osservanza rigida e rigorosa
dell'orario di lavoro alla stessa stregua degli altri
dipendenti.
Contrariamente a quanto sostenuto dai legali, invece, i
giudici amministrativi ritengono la norma legittima: pur
riconoscendo che il sistema automatico di rilevazione delle
presenze in dotazione presso l'Ente locale deve essere
fornito di idonei correttivi, tali da consentire di rilevare
la presenza in servizio dei professionisti legali
compatibilmente con la partecipazione alle udienze
giudiziarie e alle altre attività istituzionali degli
stessi, il collegio reputa la disposizione ragionevole.
È ovvio che una uniforme ed omogenea applicazione
dell'orario di servizio e delle connesse modalità di
rilevazione delle presenze potrà esigersi nei loro confronti
unicamente quando essi non sono impegnati all'esterno dei
locali per l'esercizio delle peculiari funzioni loro
demandate. Tuttavia, per quanto concerne il restante orario
di lavoro, si rileva che alla stregua di tutti gli altri
dipendenti dovranno ritenersi sottoposti al potere
disciplinare dell'Amministrazione di appartenenza
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016).
---------------
MASSIMA
Una sintesi delle censure proposte dalle ricorrenti è
utile ai fini della soluzione della controversia.
L’art. 2, comma 5, del regolamento viene contestato sulla base
del fatto che la peculiarità dello status degli avvocati
dipendenti della P.A. è incompatibile con l’utilizzo dei
sistemi automatici di rilevazione delle presenze. Sussiste,
a dire delle ricorrenti, una incompatibilità logica e
strutturale tra le mansioni implicate dal profilo
professionale di avvocato e il sistema automatico di
rilevazione fondato sul c.d. “badge”.
Si deve aggiungere che
le ricorrenti sono dirigenti e quindi
non soggette a vincolo d’orario.
L’art. 6, comma 3, viene contestato per le ragioni che
seguono.
La disposizione trova la sua fonte negli indirizzi impartiti
con la deliberazione della Giunta comunale n. 210/2014 che
prevede l’individuazione dello stanziamento di bilancio
dell’anno 2013 per compensi e onorari agli avvocati quale
tetto massimo di spesa complessivo per le diverse tipologie
di compensi.
Tale disposizione è, a dire delle ricorrenti, in violazione
di legge e, precisamente, in violazione dell’art. 9, comma 6,
del d.l. 90/2014 convertito in L. 114/2014.
La limitazione al corrispondente stanziamento relativo
all’anno 2013 è previsto nel comma 6 con esclusivo
riferimento alla corresponsione e non “ripartizione” dei
compensi professionali nel caso di compensazione integrale
delle spese. Tale disposizione non può estendersi, secondo
le ricorrenti, al di là di quanto espressamente previsto,
fino a ricomprendere anche le somme recuperate a seguito
dell’addebito in sentenza delle spese legali a carico della
controparte soccombente.
L’unico tetto previsto nella legge ed esteso a entrambe le
tipologie di compensi è quello derivante al comma 7 (“i
compensi professionali di cui al comma 3 e al primo periodo
del comma 6 possono essere corrisposti in modo da attribuire
a ciascun avvocato una somma non superiore al suo
trattamento economico complessivo”).
In ordine all’art. 7, le contestazioni sono molteplici.
Esso
viene censurato integralmente sia nella parte in cui
assoggetta la ripartizione o la corresponsione di tutti i
compensi professionali a una valutazione del rendimento
individuale da parte del Nucleo di Valutazione del Comune,
sia nella parte in cui detta i parametri di misurazione
dell’apporto quali–quantitativo fornito da ciascun
avvocato.
La fonte dell’assoggettamento degli avvocati alla
valutazione dell’apposito Nucleo dovrebbe essere la
disposizione del comma 5 del già citato art. 9 d.l. 90/2014
laddove esso dispone che debbano essere disciplinati i
criteri di riparto delle somme secondo criteri
oggettivamente misurabili che tengano conto tra l’altro
della puntualità negli adempimenti processuali.
Secondo le ricorrenti, il rendimento individuale riguarda
l’attività di difesa in giudizio effettuata dagli avvocati e
non anche l’attività consulenziale.
Le ricorrenti rimarcano poi che il Nucleo di valutazione non
è un organo terzo e indipendente.
Esso è infatti presieduto dal Direttore generale del Comune.
Sottoporre la valutazione degli avvocati a tale organo
significa introdurre, secondo le ricorrenti, una forma di
cripto–subordinazione a d un altro dirigente del Comune.
Inoltre, con riguardo alla composizione del Nucleo, va
rilevato che esso è composto, oltre che dal Direttore
generale, da tre membri esterni esperti in tecniche di
gestione, valutazione e controllo di gestione. Nessuna di
tali professionalità ha attinenza alcuna con la valutazione
del rendimento professionale di un Avvocato.
Le ricorrenti censurano ancora l’art. 7 nella parte in cui
definisce i criteri di valutazione.
Anzitutto si rileva la violazione del principio desumibile
dal d.lgs. 196/2003 in base al quale i dati personali
relativi a terzi non possono essere impunemente diffusi al
di là del motivo e della cerchia (legali e addetti) che ad
essi ha motivo di accedere ratione officii.
Ciò premesso, i criteri definiti violano la disposizione di
legge che prescrive che il rendimento individuale deve
essere posto a base del riparto delle somme “secondo criteri
oggettivamente misurabili”.
L’art. 5 dell’Accordo 13.01.2015, approvato con la delibera
G.C. n. 10/2015 non è stato trasposto nel Regolamento. In
esso, si stabiliscono criteri più dettagliati di quelli
generici stabiliti dal Regolamento.
Secondo le ricorrenti, gli unici criteri oggettivamente
misurabili sono quelli di ripartizione delle somme a seconda
dell’apporto individuale, dato dalla trattazione della causa
da solo o in Collegio di difesa e dall’eventuale apporto dei
colleghi della stessa avvocatura, anche in relazione alla
specifica veste di ciascuno (ad es. per le sostituzioni
reciproche in udienza). Si tratta dei criteri di riparto di
cui all’art. 3 dell’accordo integrativo decentrato
13.01.2015.
Ancora, le ricorrenti rilevano che non si comprende il
richiamo alla “puntualità negli adempimenti processuali”. I
termini, secondo le ricorrenti, si rispettano o non si
rispettano.
Le ricorrenti censurano poi l’art. 8, comma 1, del regolamento
laddove si dispone che i compensi sono comprensivi
dell’Irap.
Le molteplici questioni sottoposte al Collegio devono essere
risolte partendo da una compiuta ricostruzione della figura
dell’Avvocato dipendente dell’ente pubblico.
Non sfuggono a
questo Giudice la complessità e la delicatezza di tali
questioni che involgono da un lato la potestà organizzativa
dell’ente pubblico, dall’altro, la tutela della indipendenza
della figura dell’Avvocato e della peculiare figura
dell’avvocato dipendente dell’ente (con i connessi problemi
di conciliare l’appartenenza dell’avvocato pubblico a un
ordine professionale e la sua veste di dipendente).
La L. 31.12.2012, n. 247 (Nuova disciplina
dell'Ordinamento della professione forense) contiene una
specifica disposizione e cioè l’art. 23 (in vigore dal 02.02.2013) dedicata agli Avvocati degli Enti Pubblici
che così recita:
“1. Fatti salvi i diritti acquisiti alla data di entrata in
vigore della presente legge, gli avvocati degli uffici
legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici,
anche se trasformati in persone giuridiche di diritto
privato, sino a quando siano partecipati prevalentemente da
enti pubblici, ai quali venga assicurata la piena
indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e
stabile degli affari legali dell'ente ed un trattamento
economico adeguato alla funzione professionale svolta, sono
iscritti in un elenco speciale annesso all'albo.
L'iscrizione nell'elenco è obbligatoria per compiere le
prestazioni indicate nell'articolo 2. Nel contratto di
lavoro è garantita l'autonomia e l'indipendenza di giudizio
intellettuale e tecnica dell'avvocato.
2. Per l'iscrizione nell'elenco gli interessati presentano
la deliberazione dell'ente dalla quale risulti la stabile
costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione
della trattazione degli affari legali dell'ente stesso e
l'appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato
in forma esclusiva di tali funzioni; la responsabilità
dell'ufficio è affidata ad un avvocato iscritto nell'elenco
speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i
principi della legge professionale.
3. Gli avvocati iscritti nell'elenco sono sottoposti al
potere disciplinare del consiglio dell'ordine”.
Attenta dottrina ha lucidamente sottolineato che con il
nuovo art. 23, rispetto al sistema previgente (r.d.l. 27.11.1933, n. 1578) assumono dignità di legge i profili
della piena indipendenza ed autonomia, della esclusività e
stabilità nella trattazione degli affari legali, del
trattamento economico adeguato alla funzione professionale,
quali requisiti, garantiti anche in via contrattuale per
l'iscrizione nell'elenco speciale della legge professionale.
Alla affermazione della piena indipendenza ed autonomia
dell’avvocato consegue, per espressa disposizione di legge,
la limitazione sia dei poteri di organizzazione degli uffici
sia della libertà contrattuale delle parti posto che nel
contratto di lavoro, appunto, è garantita l'autonomia e
l'indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica
dell'avvocato.
In definitiva, una volta che l’Amministrazione costituisce
un'avvocatura interna ha l’obbligo di rispettare i principi
sopra citati, utilizzare la propria autonomia organizzativa
per conformarsi a quelli e applicarli in sede di disciplina
contrattuale e regolamentare.
Va poi precisato che siccome il citato art. 23 della L.
247/2012 attribuisce la responsabilità dell'ufficio ad un
avvocato e non ad un dirigente amministrativo è evidente che
la piena autonomia ed indipendenza non può essere solo
rapportata all’ufficio ma anche e sopratutto, al singolo
avvocato. I rapporti tra gli avvocati sono di coordinamento;
il responsabile deve esercitare una attività di indirizzo
nel pieno rispetto delle singole scelte difensive degli
altri avvocati.
Svolta questa premessa diventa più agevole risolvere le
numerose questioni che le ricorrenti hanno sottoposto al
Collegio.
Quanto alla prima censura va rilevato quanto segue.
Intanto va osservato che, contrariamente a quanto sostenuto
dalla difesa dell’Amministrazione, la censura non è tardiva.
La mancata impugnazione della nota di servizio del direttore
generale prot. 165813 del 31.07.2012 (documento 5
produzioni dell’Amministrazione) non rende tardivo il
ricorso qui esaminato per il semplice fatto che quella nota,
consistente in un “invito” ad utilizzare il sistema di
rilevazione automatica, non ha alcun valore provvedimentale
e non doveva pertanto essere impugnata nei termini di
decadenza.
La censura va quindi esaminata nel merito.
L’applicazione dei principi sopra riportati e l’analisi
dell’art. 23 della L. 247/2012 hanno condotto la
giurisprudenza ad affermare che le avvocature degli enti
pubblici devono essere costituite in un apposito ufficio
dotato di adeguata stabilità ed autonomia organizzativa,
nonché distinzione dagli altri uffici di gestione
amministrativa al quale devono essere preposti avvocati
addetti in via esclusiva alle cause e agli affari legali con
esclusione dello svolgimento di “attività di gestione”.
Tali
regole costituiscono l’applicazione ai professionisti legali
degli enti pubblici, che sono soggetti agli obblighi
deontologici e alla vigilanza degli ordini forensi di
appartenenza, dei principi che caratterizzano la professione
legale, la quale deve essere svolta senza condizionamenti
che potrebbero comprometterne l’indipendenza.
Tale
principio, già predicabile durante la vigenza dell’art. 3
del R.D.L. 27.11.1933 n. 1578, è ormai previsto
esplicitamente dall’art. 23 della legge 31.12.2012, n.
247, il quale, nel dettare la nuova disciplina
dell’ordinamento forense, ha chiarito e meglio delineato i
requisiti di tale autonomia precisando che deve essere
garantita anche sul piano organizzativo (Tar Veneto, Sez.
II, 27.11.2015 n. 1274).
Una delle questioni più significative, più volte affrontata
dalla giurisprudenza, è proprio quella dell'orario di lavoro
e delle concrete modalità di controllo sull'attività di
servizio del professionista dipendente.
La Corte
Costituzionale (Corte Cost. 28.07.1988, n. 928) aveva
inizialmente ritenuto legittima la predisposizione di un
orario unico per tutti i dipendenti degli enti pubblici di
cui alla legge n. 70 del 1975 e uguale posizione era stata
espressa per gli avvocati delle Regioni con la sentenza del
10.06.1988, n. 624. Ma il problema effettivo è sempre
consistito nelle modalità di controllo dell’orario data la
peculiarità dell'attività legale.
E’ noto ed è questione che
non necessita di grande riflessione, che l’attività sia
svolta anche per larga parte, fuori dall'ufficio e con orari
non preventivabili né prevedibili. Lo stesso lavoro svolto
all’interno dell’ufficio è legato a scadenze processuali che
possono determinare sovraccarico in alcuni periodi. Tutte
situazioni inconciliabili con il rispetto di un orario
rigido di permanenza in ufficio. Se è indubbia la necessità
di attestare in qualche modo la presenza in servizio, la
questione dell'orario è stata risolta nel senso di
consentire forme di controllo idonee a conciliare la
presenza in ufficio con la peculiare organizzazione del
lavoro propria dell’avvocato.
La giurisprudenza amministrativa ha affermato che l'attività
degli avvocati, anche se pubblici dipendenti, è soggetta a
scadenze e ritmi di lavoro che sfuggono alla potestà
organizzativa delle Amministrazioni, dipendendo dalle
esigenze dei processi in corso nei quali essi sono
impegnati, l'esercizio dell'attività di avvocato pubblico
comportando, infatti, operazioni materiali (precipuamente
procuratorie) ed intellettuali (esemplificativamente studio
delle controversie e predisposizione delle difese)
necessitate dai tempi delle scadenze processuali e
proiettate all'esterno, direttamente ascrivibili alla
responsabilità del professionista che le svolge.
Ne deriva
che il principio da tenere fermo è che gli avvocati
dipendenti di Enti Pubblici, nell'esercizio delle funzioni
di rappresentanza e difesa giudiziale e stragiudiziale
dell'Amministrazione, in attuazione del mandato in tal senso
ricevuto, sono dei professionisti i quali non possono essere
costretti ad un'osservanza rigida e rigorosa dell'orario di
lavoro alla stessa stregua degli altri dipendenti, senza
tenere conto della peculiarità dell'attività da loro svolta.
Invero, una uniforme ed omogenea applicazione dell'orario di
servizio e delle connesse modalità di rilevazione delle
presenze può esigersi nei loro confronti unicamente
allorquando essi non sono impegnati all'esterno dei locali
ove sono ubicati gli uffici dell'Ente di appartenenza per
l'esercizio delle peculiari funzioni loro demandate, atteso
che, in tal caso, essi (ad eccezione dell'avvocato
coordinatore che risponde unicamente al legale
rappresentante dell'ente), alla stregua di tutti gli altri
dipendenti, devono ritenersi sottoposti al potere
disciplinare dell'Amministrazione di appartenenza, ma
allorquando una tale evenienza non sussista necessita
individuare delle modalità che consentano al professionista
di usufruire di una elasticità di azione che non può essere
costretta da una rigida e precostituita osservanza
dell'orario di servizio (Tar Campania, Napoli, sez. V,
13/04/2012, n. 1727).
Ciò premesso, va rilevato che questione analoga a quella
sottoposta a questo Giudice è già stata affrontata dalla
giurisprudenza che ha affermato quanto di seguito si
riporta:
“Questa Sezione ha infatti già statuito (cfr. da ultimo
sentenza 24.01.2013, n. 547) ritenendo
un'incompatibilità logica e strutturale fra le mansioni
implicate dal profilo professionale di avvocato e il sistema
automatico di rilevazione fondato sul cd. "badge", ancorché
previsto in astratto come alternativo alla rilevazione delle
presenze mediante apposito foglio, tenuto conto che, in
definitiva, spetta comunque all'amministrazione decidere di
quale modalità concreta valersi in un certo momento storico.
Il sistema di rilevazione automatica "si risolve, quanto
meno in astratto (anche al di là delle intenzioni di chi
decide di adottarlo), in uno strumento idoneo obiettivamente
a produrre una limitazione dei profili di autonomia
professionale e di indipendenza che vanno invece
riconosciuti a questa figura, per prassi amministrativa,
dalla costante giurisprudenza e soprattutto nel rispetto
della vigente legislazione.
In secondo luogo (...) l'avvocato di un ente pubblico, per
intuibili ragioni connesse alle esigenze di patrocinio, è
spesso costretto ad assentarsi dal posto di lavoro per
raggiungere le sedi giudiziarie dove pendono le controversie
in cui è parte l'ufficio da lui rappresentato ed è evidente
quanto siffatta necessaria mobilità sia in contrasto con gli
obblighi, ma anche con le formalità ed i tempi legati ad un
(obbligatorio) utilizzo del badge" e, deve aggiungersi, con
la preventiva comunicazione dei servizi esterni a sua volta
incompatibile con la spesso non prevedibile esigenza di
prestare la propria attività professionale fuori della sede
di servizio interno.
"Infine, a definitivo conforto della tesi qui esposta, vale
la pena di ricordare che la giurisprudenza -dalla quale non
vi è motivo di discostarsi in questa sede- ha costantemente
affermato i principi sopra condivisi (cfr., da tempi
risalenti, in materia di sistemi di rilevazione automatica
della presenza degli avvocati degli enti pubblici questo Tar
Campania, Napoli, Sez. II, 04.12.1996 n. 560, secondo
cui: "Il provvedimento col quale l'Inps dispone che anche i
dipendenti appartenenti al ruolo legale soggiacciano alle
medesime procedure di rilevazione automatica delle presenze
vigenti per il restante personale, è da considerasi
illegittimo perché il lavoro esterno che in talune occasioni
può essere richiesto al detto personale, non può
giustificare metodi di accertamento del rispetto dell'orario
di servizio differenti" (Tar Campania, Napoli, sez. V,
17/02/2014, n. 1045).
Ma questa posizione non è condivisa dal Collegio.
Intanto va chiarito che il regolamento approvato dal Comune
di Cagliari non prevede (né pretende) una rigida
applicazione del sistema automatico della rilevazione delle
presenze. Sono previsti idonei correttivi e tanto basterebbe
a ritenere infondata la censura.
Il sistema automatico di
rilevazione delle presenze è applicato “compatibilmente con
la partecipazione alle udienze giudiziarie ed alle altre
attività istituzionali”.
Non si può poi mancare di osservare che
quello che viene
comunemente chiamato “badge” per la rilevazione delle
presenze non è (non è più) quello che in passato era un
comune apparecchio “marcatempo”.
Oggi, un sistema di rilevazione delle presenze è un insieme
di apparecchiature che registrano il passaggio dei
dipendenti in entrata e in uscita, collegate ad un personal
computer su cui è installato un complesso software di
gestione.
Quel che caratterizza questi sistemi (è fatto notorio) è
l'alta configurabilità del software di gestione che rende
possibile adattare il sistema automatico a qualsiasi realtà
organizzativa, anche alla più particolare.
Si deve quindi concludere che la disposizione regolamentare
impugnata, tenuto conto della clausola che consente
l’adattabilità del sistema alla particolarità della
posizione degli avvocati, non sia da considerarsi
illegittima.
Il primo motivo di ricorso è quindi infondato.
In ordine alla seconda censura va anche qui descritto il
quadro giuridico di riferimento.
Questo perché anche la retribuzione è indice della doppia
identità dell'avvocato dipendente.
In linea generale, accanto ad una quota di retribuzione
ricollegabile allo stipendio tabellare e alle relative voci
integrative ed accessorie, l’avvocato alle dipendenze degli
enti pubblici riceve una quota di compensi regolamentati
sulla base della propria attività professionale, di importo
variabile.
La Corte Costituzionale (Corte Cost., 06.02.2009, n.
33) pronunciandosi sulla legittimità dell'art. 1, c. 208,
della l. 23.12.2005, n. 266, disposizione che consente
alle amministrazioni dotate di uffici legali interni di
effettuare, sulle somme dovute ai legali dipendenti a titolo
di compensi professionali, la trattenuta degli oneri
previdenziali ha fondato la propria decisione sul
presupposto della natura retributiva del trattamento
economico corrisposto agli avvocati degli enti pubblici,
comprensivo, in aggiunta allo stipendio tabellare, di una
quota di retribuzione quantificata sulla base di legge e
tariffe professionali forensi.
La Corte dei Conti, Sez. Giur. della Regione Lombardia con
un parere del 16.02.2016 (n. 44) si è espressa sugli
onorari spettanti agli avvocati appartenenti alle avvocature
degli enti pubblici affermando che “la previsione contenuta
nell’art. 9, comma 3, ultimo periodo del D.L. n. 90/2014,
convertito dalla L. 11.08.2014, n. 114 (secondo cui “la
parte rimanente delle suddette somme è riversata nel
bilancio dell’amministrazione”), deve intendersi nel senso
che l’ente locale può stabilire, con il regolamento previsto
dalla norma di finanza pubblica, di destinarne in favore dei
dipendenti avvocati solo una quota della somma riscossa
dalla controparte che è stata condannata al pagamento delle
spese di lite. Infatti, l’art. 3 cit. consente
all’amministrazione locale di determinare, oltre che le
modalità, la “misura” del compenso spettante al dipendente
avvocato.
La previsione contenuta nell’art. 9, comma 6, del D.L. n.
90/2014 (che fa riferimento allo “stanziamento relativo
all’anno 2013”) lascia alla contrattazione integrativa la
competenza a determinare i criteri di riparto dei compensi,
fermi restando tre tetti:
a) il primo è quello retributivo
individuale generale, per cui ai sensi dell’art. 23-ter del
D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito in L. 22.12.2011, n. 214, in base alla norma estensiva dell’art. 1,
commi 471 ss., della L. 147/2013, anche gli enti locali
dovranno dare applicazione al DPCM 23.03.2012; negli
emolumenti percepiti vanno calcolati tutti i compensi
professionali percepiti in funzione delle sentenze
favorevoli, senza distinzione tra sentenze con vittoria o
compensazione di spese;
b) il secondo è quello retributivo
individuale specifico, per cui i compensi professionali
percepiti dall’avvocato interno nell’anno non possono
eccedere il suo trattamento economico complessivo, da
percepirsi nello stesso anno (per il calcolo del quale è
possibile fare riferimento per analogia alla norma dell’art.
9, comma 1, del D.L 31.05.2010, n. 78, che comprende
anche il trattamento accessorio);
c) il terzo è quello
finanziario collettivo (assente nelle sentenze favorevoli
con vittoria di spese), previsto in caso di sentenza
favorevole con compensazione delle spese o con transazione,
in quanto l’ente non può stanziare somme superiori allo
stanziamento corrispondente previsto nell’anno 2013. In tal
caso i criteri di assegnazione del compenso seguono le norme
regolamentari o contrattuali vigenti.
Ai fini della corresponsione dei compensi dovuti agli
avvocati di Enti pubblici per l’attività professionale
prestata, il tetto massimo è quello retributivo individuale
specifico, per cui i compensi professionali percepiti
dall’avvocato interno nell’anno non possono eccedere il suo
trattamento economico complessivo, da percepirsi nello
stesso anno (per il calcolo del quale è possibile fare
riferimento per analogia alla norma dell’art. 9, comma 1,
del DL 31.05.010, n. 78, che comprende anche il
trattamento accessorio). Il limite, essendo rapportato ad
un’annualità, è apposto non solo alla misura dell’incentivo
del singolo incarico, ma anche alla sommatoria degli
incentivi relativi agli incarichi eseguiti, anche
parzialmente, nel corso dell’anno”.
Quel che è chiaro è che la legge attribuisce alle
Amministrazioni il potere di stabilire la misura della
ripartizione delle somme liquidate in sentenza e quindi un
tetto massimo.
Va incidentalmente osservato quanto segue.
E’ la contrattazione l'ambito naturale della disciplina dei
compensi professionali. Si tratta di una materia dove il
potere unilaterale dell'amministrazione è limitato alla
disciplina esecutiva e di dettaglio e l’Amministrazione di
questo dovrà tenere conto.
Tutto ciò rilevato, il secondo motivo di ricorso non può
comunque essere accolto per i motivi sopra esposti.
In ordine al terzo motivo di ricorso occorre osservare
quanto segue.
L’art. 7 impugnato prevede che la ripartizione dei compensi
professionali agli avvocati è soggetta ad una valutazione di
rendimento individuale e attribuisce tale valutazione al
Nucleo di valutazione del Comune.
Tre sono le contestazioni mosse all’art. 7 del Regolamento
impugnato:
1) la valutazione non potrebbe riguardare anche l’attività
di consulenza legale;
2) la valutazione non poteva essere attribuita al Nucleo di
valutazione;
3) i criteri per la valutazione degli avvocati non sarebbero
oggettivamente misurabili.
La questione sottoposta al Collegio non è nuova.
La Corte dei conti, Campania, in sede consultiva, con
delibera 14/2009/PAR, depositata il 26/03/2009, ha avuto modo
di esaminare la questione dei limiti entro i quali è
consentito di sottoporre l'avvocato dipendente da ente
pubblico a valutazione del nucleo di valutazione
dell'amministrazione.
La problematica è stata esaminata in
vigenza del r.d.l. n. 1578 del 1933. I principi allora
affermati devono pertanto tenere in debito conto della L.
247 del 2012. La giurisprudenza, anche della Corte
costituzionale, ha valorizzato la posizione di esclusività
delle prestazioni, di autonomia e di indipendenza
dell’avvocato pubblico (tra le altre, Corte Costituzionale,
21.11.2006, n. 390) ammettendo però una autonomia
degli enti locali in materia di istituzione di propri organi
tecnico-legali (Tar Lazio, Roma. Sez. III, 30.11.1990, n. 1886).
In linea generale, pur tenendo conto della particolarità
degli avvocati degli enti pubblici,
non può ritenersi
preclusa la loro sottoposizione a un’attività di valutazione
esercitata da organi degli enti stessi nell’ambito dei
controlli interni previsti dalla legge e da contratti
collettivi di lavoro nazionali o decentrati, e ciò sia nei
confronti di avvocati rivestenti qualifica dirigenziale sia
per figure apicali e non dirigenziali.
E’ però chiaro che
qualunque modalità di valutazione posta in essere nei
confronti del personale di avvocatura di enti locali, non
può espandersi sino a prevedere ‑espressamente o
surrettiziamente- forme di condizionamento e di soggezione
che introducano una non tollerabile ingerenza nell’autonomia
di giudizio e di iniziativa nella trattazione degli affari giuridico-legali attinenti specificamente alle competenze
che il professionista può svolgere in virtù della sua
iscrizione al relativo albo professionale
(Corte di
cassazione, Sez. un., 18.04.2002, n. 5559; Corte
costituzionale, 21.11.2006, n. 390 cit.).
La Corte dei Conti (Sezione regionale di controllo per la
Campania Del/Par n. 14/2009) concludeva affermando che “Resta
dunque affidato alla equilibrata discrezionalità degli enti
interessati l’esercizio al riguardo dei poteri statutari e
regolamentari di auto-organizzazione nel rispetto delle già
illustrate peculiarità tipiche della funzione svolta dagli
avvocati pubblici, che, pur se professionalmente incardinati
nelle strutture operative degli enti locali, restano
tuttavia sostanzialmente “estranei all’apparato
amministrativo” (Corte di cassazione, Sezioni unite civili,
18.08.2002, n. 5559 cit.)
e “posti in diretta
connessione unicamente con il vertice decisionale dell’ente,
al di fuori di ogni intermediazione”
(Tar Sardegna, Sezione II, 14.01.2008, n. 7; cfr. anche Consiglio di Stato, Sezione
V, 16.09.2004, n. 6023 cit.).
Il Collegio condivide questa impostazione e non può che
concludere per la legittimità della disposizione
regolamentare impugnata.
Non può sfuggire il fatto che la
stessa è effettivamente (come affermano le ricorrenti) del
tutto generica e tale genericità non può che essere dovuta
proprio alla peculiare posizione degli avvocati degli enti
locali. Peraltro, nella parte in cui il regolamento fa
riferimento alla predisposizione della relazione da parte
dell’avvocato Coordinatore, si rende possibile un apporto
alla valutazione proprio da parte dell’unico soggetto
effettivamente competente ad effettuarla. Non può poi
sfuggire che i criteri di valutazione individuati
dall’impugnato art. 7 sono così generici da non produrre
alcuna lesione in capo alle ricorrenti.
Una analisi degli stessi aiuta a comprendere la situazione.
In ordine alla “tempestività negli adempimenti processuali”
quanto affermato dalla difesa delle ricorrenti corrisponde
al vero e cioè che un adempimento o scade o non scade. Non
vi sono pertanto margini di discrezionalità né particolari
valutazioni che dovranno essere effettuate dal Nucleo.
In ordine alla “tempestività nella resa di pareri ai servizi
comunali” la valutazione non potrà che essere effettuata
sulla base della relazione dell’avvocato coordinatore.
Altrettanto si può dire per gli altri criteri quali la
“capacità di analisi e problem solving” la “polivalenza
funzionale e versatilità nell’assolvimento delle
attribuzioni di competenza” e la “capacità di interlocuzione
e confronto a supporto degli altri servizi”.
Analizzando compiutamente la disposizione regolamentare
impugnata, l’unica lettura che se ne può dare è che la
valutazione del Nucleo non potrà in alcun modo entrare nel
merito né delle consulenze rese dagli avvocati né
dell’attività processuale. Intanto perché i membri del
Nucleo non sono, all’evidenza, competenti a farlo, poi
perché il secondo capoverso del comma 4, limita del tutto la
valutazione all’esame della relazione del coordinatore e ai
criteri sopra indicati che non potranno in alcun modo
entrare nel merito delle consulenze (ma solo sulla
tempestività) e dell’attività processuale (ma solo sul
rispetto formale dei termini).
La censura è quindi infondata.
In ordine all’art. 8, comma 1, del regolamento, le censure
delle ricorrenti sono sicuramente fondate.
E’ pacifico che soggetto passivo dell’IRAP, ossia obbligato
in proprio al pagamento nei confronti dell’erario, è l’ente
pubblico.
Il presupposto dell’imposta indicato dall’art. 2
del d.lgs. 446 del 1997 e successive integrazioni è infatti
costituito dall’esercizio abituale di una attività
autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo
scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. Il
successivo articolo 3 individua i soggetti passivi
dell’imposizione; la mancata esplicita inclusione tra i
soggetti passivi dei lavoratori dipendenti comporta ex se la
inapplicabilità del tributo in esame all’avvocatura interna
degli Enti.
Conseguentemente l’onere fiscale inerente l’IRAP
non può gravare sul lavoratore dipendente ma unicamente
sull’ente datore di lavoro.
Non sfugge a questo Collegio che la questione è stata anche
affrontata dalla Corte dei Conti, sezione regionale Liguria
che, con la deliberazione n. 38/2014 del 30.05.2014 ha
affermato:
- "Al riguardo rappresenta un punto fermo la pronuncia delle
Sezioni Riunite della Corte dei conti che, con deliberazione
n. 33 del 30.05.2010 resa in funzione nomofilattica (ai
sensi dell'articolo 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge
03.08.2009, n. 102), soffermandosi sulle modalità di
determinazione del compenso spettante al dipendente avvocato
in caso di vittoria in sede giudiziale, hanno affermato
quanto segue: Può concludersi nel senso che, mentre sul
piano dell'obbligazione giuridica, rimane chiarito che
l'Irap grava sull'amministrazione (secondo blocco delle
citate disposizioni), su un piano strettamente contabile,
tenuto conto delle modalità di copertura di 'tutti gli
oneri', l'amministrazione non potrà che quantificare le
disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti,
accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l'onere
Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre
retribuzioni del personale pubblico ... Pertanto, le
disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di
personale (tra cui l'Irap) si riflette, in sostanza, sulle
disponibilità dei fondi per la progettazione e per
l'avvocatura interna ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle
risorse necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante
sull'amministrazione";
- "Pertanto due sono i punti fermi espressi dalla delibera
citata. Da una parte l'Irap grava, giuridicamente,
sull'amministrazione comunale e non poteva essere deciso
diversamente in quanto il presupposto stesso dell'imposta,
indicato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997 e successive
integrazioni, è, infatti, costituito dall'esercizio abituale
di una attività autonomamente organizzata diretta alla
produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di
servizi. La disposizione è strettamente collegata al
successivo articolo 3, che individua i soggetti passivi
dell'imposizione; la mancata esplicita inclusione tra i
soggetti passivi dei lavoratori dipendenti comporta, ex se,
la inapplicabilità del tributo in esame all'avvocatura
interna degli Enti (delibera n. 34/2007 Sezione di controllo
per l'Emilia Romagna). Dall'altra parte, però, le somme
destinate al pagamento dell'Irap devono trovare copertura
finanziaria nell'ambito dei fondi destinati a compensare
l'attività dell'avvocatura comunale nel rispetto del
principio di cui all'art. 81, comma 4 della Costituzione:
'le somme indicate per fronteggiare in materia di pubblico
impiego gli oneri di spesa, ivi inclusi i fondi di
produttività e per i miglioramenti economici, costituiscono
le disponibilità complessive massime e, pertanto, non
superabili. In sostanza, sui bilanci dello Stato o degli
altri enti pubblici, non potranno gravare ulteriori oneri
che non trovino adeguata copertura' (Sez. Controllo
Piemonte, delibera n. 16/2012)";
- in conclusione, l'IRAP va esclusa "dall'ambito degli oneri
riflessi restando in capo all'Ente l'obbligo giuridico di
provvedere al pagamento della stessa. Contestualmente, però,
le risorse per finanziare il pagamento del tributo devono
gravare sui fondi destinati a compensare l'attività
dell'avvocatura comunale" (Corte dei Conti Liguria
deliberazione n. 38/2014 del 30.05.2014).
Ma la soluzione proposta non è assolutamente condivisibile.
L’Irap deve essere pagata dall’Ente pubblico e non può
essere considerata a carico del dipendente, ovviamente,
salvo diverso accordo contrattuale esplicitamente previsto.
Questo principio, affermato dalla Suprema Corte con sentenza
n. 20917 del 12.09.2013, è talmente pacifico che non
necessita di particolare approfondimento.
Tale assunto è da
estendere, chiaramente, a qualsiasi dipendente pubblico.
Affermare il principio per cui il soggetto passivo d’imposta
è l’Ente pubblico ma che le relative somme devono essere
trattenute al dipendente significa confondere norme
contabili con norme tributarie.
L’Irap, come è noto,
non è un onere riflesso e di
conseguenza, lo si ribadisce, non può gravare sul lavoratore
dipendente in relazione ai compensi di cui è pacifica la
natura retributiva, quali ad esempio i compensi aggiuntivi
agli avvocati interni all’ente (ma anche ogni retribuzione
aggiuntiva quale ad esempio l’incentivo ai progettisti
interni).
A questa conclusione era peraltro già giunta
l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 123/2008 con
argomentazioni oggi ancora valide.
Dal compenso lordo, legislativamente o contrattualmente
previsto, si possono sottrarre solo gli oneri riflessi e non
anche l’Irap che, appunto, non rientra in tale categoria.
L’Irap, come è del tutto pacifico
(si veda peraltro, Corte
costituzionale n. 156 del 2001),
colpisce un fatto economico
diverso dal reddito comunque espressivo di capacità
contributiva in capo a chi, in quanto organizzatore
dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la
ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi
soggetti, che concorrono alla sua creazione.
Insomma,
il carico d’imposta non può essere trasferito
unilateralmente da un soggetto all’altro e meno che meno con
una norma regolamentare che determinerebbe una impropria
traslazione dell’imposta comportante, tra l’altro, la
trasformazione della stessa in imposta sul reddito.
Il motivo è pertanto fondato.
Il ricorso è, in definitiva fondato nei limiti esposti in
motivazione. |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
costante orientamento della giurisprudenza amministrativa,
ai fini del regime premiale di cui all'art.
9, comma 1, lettera f), della legge nr. 10/1997 (ora art. 17, comma
3, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380),
è indispensabile accertare la sussistenza di due profili, uno
di carattere soggettivo, l’altro oggettivo.
Sotto il primo aspetto, bisogna tenere conto delle
specifiche qualità soggettive del richiedente il titolo
abilitativo: alla luce, infatti, dell’evoluzione del
concetto di pubblica amministrazione, inteso non più
meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono
ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le
amministrazioni formalmente previste e riconosciute come
tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori
individuali, società per azioni) che esercitino un’attività
pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di
longa manus della p.a..
Tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario
anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della
quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento
restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo
necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede
l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia,
per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità,
esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera
collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia
legata a un interesse generale da un nesso di mera
strumentalità.
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla
base della sola destinazione che il titolare dell’opera
intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non
provocando un’evidente elusione del sistema normativo che
prevede come regola generale, in un’ottica di corretto
governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost.,
l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli
edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di
stretta interpretazione.
---------------
6. Fondato è invece il terzo motivo, col quale il Comune
appellante si duole del fatto che il giudice di primo grado
non abbia fatto buon governo della consolidata
interpretazione della norma di cui al citato art. 9, comma
1, lettera f), della legge nr. 10/1997 (ora art. 17, comma
3, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001, nr. 380) la quale
prevede che: “…Il contributo di cui al precedente art. 3 non
è dovuto (…)per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
Ad avviso dell’appellante, in particolare, tenuto conto
della specifica opera in costruzione (edificio destinato a
ospitare le strutture tecnico-amministrative della società),
non poteva ritenersi integrato il requisito oggettivo
necessario per l’esenzione dal pagamento degli oneri di
urbanizzazione.
Tale prospettazione merita condivisione in ragione delle
seguenti considerazioni.
6.1. Va innanzi tutto premesso, che, secondo costante
orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai fini
del regime premiale di cui alla norma citata, è
indispensabile accertare la sussistenza di due profili, uno
di carattere soggettivo, l’altro oggettivo.
Sotto il primo aspetto, bisogna tenere conto delle
specifiche qualità soggettive del richiedente il titolo
abilitativo: alla luce, infatti, dell’evoluzione del
concetto di pubblica amministrazione, inteso non più
meramente in senso formalistico ma funzionalistico, possono
ottenere lo sgravio edilizio de quo non esclusivamente le
amministrazioni formalmente previste e riconosciute come
tali dalla legge, ma anche soggetti privati (imprenditori
individuali, società per azioni) che esercitino un’attività
pubblicisticamente rilevante, ponendosi in una condizione di
longa manus della p.a..
Tuttavia, in forza della seconda peculiarità, è necessario
anche focalizzare l’attenzione sull’opera, in funzione della
quale il titolo edilizio viene chiesto e rilasciato.
Su quest’ultimo punto, va registrato un orientamento
restrittivo della giurisprudenza amministrativa, essendo
necessario dimostrare che l’opera, per la quale si chiede
l’esenzione del pagamento degli oneri urbanizzativi, sia,
per le sue oggettive caratteristiche e peculiarità,
esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera
collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia
legata a un interesse generale da un nesso di mera
strumentalità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2014, nr.
3421; id., sez. V, 07.05.2013, nr. 2467; id., sez. IV, 02.03.2011, nr. 1332; id., sez. VI,
05.06.2007, nr.
2981).
Tale accertamento, pertanto, non può essere fondato sulla
base della sola destinazione che il titolare dell’opera
intende soggettivamente imprimere sulla stessa, se non
provocando un’evidente elusione del sistema normativo che
prevede come regola generale, in un’ottica di corretto
governo del territorio ex art. 9, comma 2, Cost.,
l’imposizione contributiva per l’ottenimento dei titoli
edilizi, rispetto alla quale i casi di deroga sono di
stretta interpretazione.
6.2. Da tali considerazioni discende che, nel caso di
specie, pur essendo pacifica la natura di affidataria di
servizio pubblico della società richiedente il titolo
edilizio (circostanza peraltro non contestata dal Comune),
la stessa, con il titolo abilitativo richiesto, ha inteso
realizzare una “struttura destinata ad ospitare le attività
direzionali/amministrative”, la cui evidente
polifunzionalità, anche alla luce della natura privatistica
della società stessa, impedisce l’esclusiva funzionalizzazione della stessa a scopi unicamente
pubblicistici.
A fronte di ciò, poco condivisibilmente il primo giudice ha
giustificato la natura pubblicistica dell’opera sulla base
della destinazione del suolo su cui la stessa doveva essere
eretta (zona F4), laddove invece la verifica deve essere
evidentemente condotta esclusivamente sulle caratteristiche
intrinseche dell’opera, e non su elementi esteriori quale è
la disciplina urbanistica (peraltro suscettibile di
variazioni) del territorio su cui la stessa deve essere
collocata.
7. L’accoglimento del motivo di appello testé esaminato,
essendo ex se sufficiente a far concludere nel senso della
fondatezza dell’impostazione del Comune, esonera il Collegio
dall’esame della questione posta col quarto mezzo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.06.2016 n. 2394 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Per rettificare un Docfa è necessario il sopralluogo.
Catasto. Classamento.
La rettifica
della rendita catastale proposta tramite procedura Docfa
deve passare attraverso un sopralluogo e deve contenere i
motivi tecnici e le valutazioni effettuate per soddisfare la
motivazione e confutare le argomentazioni del contribuente e
non rileva il classamento delle unità dello stesso stabile.
In caso di omesso sopralluogo, poi, il contribuente può
sempre provare classamento e rendita proposti tramite
perizia giurata di stima che è da ritenersi valida in caso
di mancata contestazione.
Queste le conclusioni della
Ctr Liguria,
sentenza 25.05.2016 n.
747/5/2016 (presidente Pasca, relatore Laurenzana).
La controversia
Due fratelli modificano la distribuzione degli spazi interni
della loro unità immobiliare e presentano la dichiarazione
Docfa proponendo nuovi classamento (categoria A/2, classe 3)
e rendita (1.859 euro). Ma l’amministrazione rettifica il
classamento in A/1, classe 4 e la rendita in 3.977 euro.
I contribuenti si oppongono in Ctp, sostenendo che per
rettificare il classamento Docfa è necessaria
l’effettuazione di un’attività istruttoria, quale il
sopralluogo la cui omissione genera il difetto di
motivazione dell’atto.
Entrando nel merito i due fratelli evidenziavano inoltre che
le caratteristiche intrinseche ed estrinseche dell’immobile
lo inquadrano correttamente in A/2, come avallato dalla
perizia giurata di un geometra.
L’amministrazione resiste in giudizio. Secondo l’ufficio la
rettifica è motivata anche senza sopralluogo, in quanto
l’unità immobiliare possiede “ex se” caratteristiche
intrinseche di signorilità con un valore facilmente
stimabile. Nel merito, poi, l’amministrazione sottolinea che
abitazioni simili situate nello stesso stabile sono censite
in A/1 e spetterebbe quindi al contribuente provare che il classamento proposto è stato attribuito in tempi recenti
dall’amministrazione anche ad altri immobili della zona con
analoghe caratteristiche.
La decisione
La Ctp dà ragione all’amministrazione, ma la Ctr accoglie
l’appello proposto per i seguenti motivi:
l’amministrazione per la rendita proposta dal contribuente
con Docfa, non può classificare deliberatamente l’immobile
quale abitazione signorile di categoria A/1 senza avere
prima effettuato il sopralluogo e spiegato i motivi tecnici
e le valutazioni effettuate. A questo fine non conta che le
unità immobiliari dello stesso stabile siano accatastate in
categoria A/1 in quanto l’amministrazione deve comunque
motivare l’atto impositivo e confutare, se documentate, le
contrapposte argomentazioni del contribuente;
il contribuente, se propone con Docfa la rendita, in caso di
omesso sopralluogo da parte dell’amministrazione, può
provare classamento e rendita tramite perizia giurata di
stima da parte di un tecnico, corredata da foto e contenente
le caratteristiche abitative intrinseche dell’immobile quali
struttura, opere esterne, dimensioni, qualità delle parti
comuni, ampiezza vani, distribuzione vani, servizi e
rifiniture in grado escludere le caratteristiche di pregio
proprie delle abitazioni di pregio di categoria catastale A
/1;
in assenza di contestazione della perizia da parte
dell’amministrazione il classamento proposto è da ritenersi
legittimo (articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Processo amministrativo, l'avvocato è
obbligatorio.
Inutile provarci. Anche chi è in possesso della laurea
magistrale in giurisprudenza ma non ha conseguito
l'abilitazione forense non può difendersi da solo nel
giudizio amministrativo e deve rivolgersi a un avvocato
vero. E ciò anche se la controversia riguarda soltanto una
carta di identità non valida per l'espatrio laddove il
cittadino chiede che sia rimosso il vincolo apposto dalla
questura.
Il Codice del processo amministrativo, infatti, impone il
conseguimento dell'abilitazione per poter patrocinare le
cause e l'obbligo di difesa tecnica, lungi dall'essere
superato dalla realtà dei fatti, costituisce una misura
dettata a tutela del cittadino e del suo diritto alla
Giustizia.
È quanto emerge dalla
sentenza 18.05.2016 n. 504, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Liguria.
Il ricorso in questione, dunque, non può essere esaminato
dai giudici perché chi l'ha presentato ammette di non aver
superato le prove di legge necessarie ex artt. 22 e 23 del
dlgs 104/2010 per patrocinare se stesso o altri davanti al
tribunale amministrativo.
Il ricorrente ha sì conseguito il massimo titolo esistente
in legge, come riconosce lo stesso collegio chiamato a
pronunciarsi sulla questione, ma la necessità di rivolgersi
a un tecnico abilitato resta tuttavia estesa a tutti e senza
eccezioni. E non giova al ricorrente sostenere durante la
Camera di consiglio che l'obbligo di difesa tecnica sarebbe
ormai contrario all'art. 24 della Costituzione. Più volte,
infatti, la Consulta si è pronunciata sulla legittimità
delle norme in materia.
«In ogni caso», si legge in sentenza, «ammettere
ogni cittadino a rappresentare se stesso in tribunale
costituirebbe una riduzione della tutela e non un incremento».
Anche per i giudici, quindi, la presenza dell'avvocato al
fianco della parte rappresenta un rafforzamento della
capacità di chi si rivolge alla giustizia. L'interessato
dovrà quindi superare gli esami di stato se vuole che le sue
censure contro il provvedimento amministrativo siano prese
in considerazione dai magistrati
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2016).
---------------
MASSIMA
Il dottor En.Ie. in proprio chiede che il tribunale
amministrativo annulli gli atti emarginati, ed ha per ciò
notificato il ricorso depositato il 29.04.2016, con cui
chiede altresì adottarsi una misura cautelare.
Con decreto 03.05.2016, n. 91 il presidente del tribunale
amministrativo ha disatteso la domanda interinale del
ricorrente.
L’amministrazione statale si è costituita in causa con
memoria, ed ha allegato una difesa con dei documenti.
Con successivo atto si è costituito in causa il comune di
Andora che ha chiesto dichiararsi inammissibile e
respingersi il ricorso.
Il collegio può pronunciare una sentenza brevemente
motivata, vista la rituale instaurazione del
contraddittorio, la proposizione della domanda cautelare e
la sussistenza di un profilo di inammissibilità del ricorso.
Il ricorrente dichiara infatti di aver conseguito la laurea
magistrale in giurisprudenza, ma tale qualificazione non è
sufficiente (artt. 22 e 23 del d.lvo 2.7.2010, n. 104) a
conferire il titolo a difendere sé od altri avanti al
tribunale amministrativo: non ricorrono infatti le
situazioni descritte dall’art. 23 del codice del processo
amministrativo per esonerare la parte dell’obbligo di
munirsi di un difensore abilitato, prima di proporre
l’impugnazione in esame.
Nel corso della camera di consiglio l’interessato ha
specificato che la persistente previsione dell’obbligo di
conseguire l’abilitazione per essere dotati della capacità
di difendere in giudizio risponde ad un’esigenza superata
dalla realtà, e contraria all’art. 24 cost.
Il tribunale non può condividere tale assunto, posto che
la giurisprudenza della corte costituzionale si è più volte
pronunciata nel senso della piena compatibilità con la
Costituzione dell’obbligo di dotarsi di una difesa tecnica;
a ben vedere si tratta con ciò di un rafforzamento della
capacità di chi si rivolge alla Giustizia, posto che allo
stato dell’evoluzione della società si deve ritenere che
ammettere ogni cittadino alla personale difesa nei tribunali
costituirebbe una menomazione della tutela, e non già una
sua implementazione.
Nel caso in questione l’interessato dichiara di essersi
laureato in materie giuridiche, cosa che non è di tutti, sì
che comunque la realtà pone delle differenziazioni a cui il
legislatore ha inteso porre rimedio prevedendo il generale
obbligo di difesa tecnica.
Il ricorrente ammette di non aver superato
le prove di legge a tale riguardo, dal che consegue che il
collegio non può prendere in esame le censure, dovendosi
limitare a dichiarare l’inammissibilità del ricorso.
Le spese possono essere compensate, attesa l’oggettiva
anomalia della vicenda. |
EDILIZIA PRIVATA: Non
può sostenersi che le opere eseguite (da considerare
unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione
della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la
sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere
necessitanti del previo permesso di costruire, perché
comportano una permanente e significativa trasformazione del
territorio.
Invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente
prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in
muratura necessita del permesso di costruire, non essendo
sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una
D.I.A./S.C.I.A..
---------------
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno presentato istanza di
permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta
rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del
silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in
zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma
8, del d.P.R. n. 380/2001);
---------------
L’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere,
ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere
con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio,
trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto
distinti.
Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la
P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio
edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e
che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della
compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione
della demolizione irrogata dal Comune per la verificata
mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua
sostituzione con la sanzione pecuniaria.
---------------
Per giurisprudenza consolidata, l’ordinanza di demolizione
rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che
può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione,
ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta
descrizione delle opere abusive, nella constatazione della
loro esecuzione in mancanza del necessario titolo
abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma
applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto
tipico del provvedimento;
Ancora di recente si è precisato che per i provvedimenti di
ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è
necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla
descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione
oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle
ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o
della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione
dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il
provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato
con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera,
essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto
alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la
P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per
il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare
che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli
abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato.
----------------
Richiede un ulteriore approfondimento la questione del
rapporto tra procedimento di rilascio del parere di
compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del
d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia
delle opere eseguite.
Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti,
si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo
paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione
pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse,
prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica
manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione
dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per
l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione,
dell’ordinanza del Comune di Fondi n. 31 del 09.03.2015,
notificata il 17.03.2015, recante ingiunzione di demolire
le opere abusive ivi descritte, realizzate in loc. Torre
Canneto;
...
1. I sigg.ri Gi.Ma. e Pa.Lu. espongono
di essere proprietari di un fondo rustico in Fondi, loc.
Torre Canneto, ubicato in zona soggetta a vincolo
paesaggistico, e di aver richiesto al Comune di Fondi il
rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di
una recinzione di detto fondo.
1.1. In data 06.08.2013 il Comune rilasciava il nulla
osta paesaggistico per la realizzazione della recinzione con
muretto e rete soprastante su un solo lato (dalla parte di
via L. Cristini), mentre per gli altri confini veniva
autorizzata la messa in opera di paletti e rete metallica.
1.2. Gli esponenti in data 21.03.2014 comunicavano
all’Amministrazione comunale l’inizio di lavori di
manutenzione ordinaria, costituiti dalla sistemazione del
giardino e dalla realizzazione del muro di cinta con
cancello, e di seguito davano corso ai lavori.
1.3. In particolare, procedevano a realizzare la recinzione
con cordolo in muratura per tutti i lati del lotto, nonché
ad appoggiare sul terreno piastre precompresse da giardino
(senza stabilità alcuna) ed a porre cancelli di entrata.
1.4. Con ordinanza n. 71 del 31.03.2014 la P.A.
ingiungeva l’immediata sospensione dei lavori, cui faceva
poi seguito l’ordinanza n. 31 del 09.03.2015, recante
ingiunzione di demolizione delle opere eseguite (recinzione
in muratura e paletti di ferro del terreno; al suo interno,
pavimentazione in marmette prefabbricate di circa mq. 130,
delimitata con cigli; due tratti di delimitazione dell’area,
con all’interno parziale posa di brecciame), in quanto
abusive.
...
3.3. Va premesso che, come già osservato in sede cautelare, è
indiscutibile la difformità delle opere eseguite rispetto ai
titoli vantati dai ricorrenti: questi, infatti, da un lato
hanno presentato istanza di permesso di costruire in data 10.01.2013, ma ad oggi siffatto permesso non risulta
rilasciato e, nonostante ciò, le opere sono state ugualmente
realizzate.
Dall’altro, hanno ottenuto dal Comune di Fondi
l’autorizzazione paesaggistica n. 365 del 06.08.2013, che
però riguarda la realizzazione di un cordolo e del muro di
recinzione solo dal lato di via L. Cristini, mentre per gli
altri confini della proprietà consente soltanto la messa in
opera di paletti e rete.
In terzo luogo, hanno presentato il
21.03.2014 comunicazione di inizio lavori di
“manutenzione ordinaria”, ma è evidente che i lavori
effettivamente eseguiti –per come descritti nella stessa
comunicazione (riparazione della corte nel giardino;
sostituzione del mattonato appoggiato senza malta
cementizia, né leganti; realizzazione di muro di cinta con
cancello)– esorbitano dalla manutenzione ordinaria.
3.4. Ciò premesso, le doglianze dedotte dai ricorrenti si
rivelano destituite di fondamento giuridico, per le seguenti
ragioni:
- non può sostenersi che le opere eseguite (da considerare
unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione
della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la
sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere
necessitanti del previo permesso di costruire, perché
comportano una permanente e significativa trasformazione del
territorio;
- ed invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente
prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in
muratura necessita del permesso di costruire, non essendo
sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una
D.I.A./S.C.I.A. (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 25.09.2013, n. 2017; TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 03.04.2012, n. 1542; TAR Lazio, Roma, Sez. II,
11.09.2009, n. 8644);
- nel caso di specie, come detto, i ricorrenti hanno
presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad
oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile
la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto
di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v.
art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
- nessuna censura (di contraddittorietà o altro) può essere
avanzata nei confronti dell’autorizzazione paesaggistica
rilasciata ai ricorrenti dal Comune di Fondi nel 2013, che
“copre” la costruzione della recinzione in cordolo e
muratura soltanto dal lato di via L. Cristini, non avendo
detta autorizzazione formato oggetto di impugnativa da parte
dei ricorrenti;
- l’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere,
ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere
con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio,
trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto
distinti. Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti
che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio
edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e
che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della
compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione
della demolizione irrogata dal Comune per la verificata
mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua
sostituzione con la sanzione pecuniaria;
- per giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, TAR
Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014, n. 1100; TAR
Puglia, Bari, Sez. III, 06.06.2013, n. 956; TAR
Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.09.2010, n. 17302),
l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e
rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata
e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già
solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella
constatazione della loro esecuzione in mancanza del
necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione
della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal
contenuto tipico del provvedimento;
- ancora di recente si è precisato (C.d.S., Sez. V, 11.07.2014, n. 3568) che per i provvedimenti di ingiunzione
di demolizione di opere edilizie non è necessaria una
specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione
dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva,
la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico sottese alla demolizione, o della
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione
dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il
provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato
con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera,
essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto
alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la
P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per
il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa
Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che
l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi
edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I,
08.09.2015, n. 603; id., 11.12.2013, n. 963).
4. Richiede un ulteriore approfondimento la questione del
rapporto tra procedimento di rilascio del parere di
compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del
d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia
delle opere eseguite. Ciò, in ragione del rilascio da parte
della Regione Lazio, con determinazione n. 400597 del 29.01.2016, del parere positivo circa la compatibilità
delle opere stesse sotto il profilo paesaggistico.
4.1. L’assunto del Collegio poc’anzi illustrato –secondo
cui i due procedimenti in questione sono e devono restare
distinti ed autonomi– trova conferma, anzitutto, nel dato
normativo di riferimento e cioè nello stesso art. 167 del
d.lgs. n. 42/2004, nonché, in secondo luogo, nella
determinazione della Regione Lazio del 29.01.2016, ora
citata.
4.2. Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004,
infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il
profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una
sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di
esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione
paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude
la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n.
380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto
edilizio.
In questo senso è, poi, decisiva la determinazione
della Regione Lazio n. 400597 del 29.01.2016, la quale,
nell’accertare la compatibilità dal lato paesaggistico delle
opere, al par. 2 del dispositivo recita: “la presente
determinazione è rilasciata ai soli fini paesaggistici. Il
Comune dovrà accertare, nella propria competenza,
l’ammissibilità o meno del progetto in ordine alle vigenti
norme urbanistiche ed edilizie e a vincoli di altra natura,
nonché alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali
e sovra comunali”.
4.3. Alla luce di quanto appena visto, non può perciò
ammettersi una ricaduta del parere favorevole della Regione
(e di quello altrettanto favorevole emesso dalla
Soprintendenza) sulla qualificazione dell’intervento sotto
l’aspetto edilizio: qualificazione che resta rimessa in via
esclusiva alla sfera di attribuzioni del Comune e che, nel
caso di specie, appare corretta e condivisibile, visto che
le opere eseguite non possono certo ritenersi dei semplici
lavori di manutenzione ordinaria rispetto a quanto
autorizzato nel 2013.
Dal punto di vista edilizio, appare
evidente l’abuso commesso dai ricorrenti, i quali hanno
eseguito opere che incidono sull’assetto del territorio,
senza alcun titolo edilizio ed anzi in contrasto con
l’autorizzazione del 2013: il richiamo, nell’ordinanza
impugnata, alla possibilità di chiedere una sanatoria
(evidentemente riferito alla sanatoria ex art. 36 del d.P.R.
n. 380/2001), lungi dal denotare un’ulteriore incongruità
del provvedimento, come lamentato dai ricorrenti, è invece
del tutto coerente con la normativa di settore, poiché
l’ottenimento della sanatoria edilizia ex art. 36 cit.
precluderebbe i successivi sviluppi del procedimento
sanzionatorio, ed in particolare l’acquisizione gratuita.
5. In definitiva, pertanto, il ricorso è nel suo complesso
infondato e da respingere (TAR Lazio-Latina,
sentenza 18.05.2016 n. 317 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
abuso consistente in una realizzazione doppia rispetto a
quella consentita (165 mq. rispetto a 83 mq.) esclude ex se
che la fattispecie possa rientrare nelle ipotesi delineate
dalla nota Mibact 13.09.2010 prot. n. 1672, circolare
invocata, ossia della non percepibilità della modificazione
dell’aspetto esteriore.
---------------
E' legittimo che, in presenza di un abuso ictu oculi non
sanabile, il Comune possa rigettare l’istanza di sanatoria
(ex art. 167 dlgs 42/2004) senza coinvolgere
l’Amministrazione dei beni culturali.
---------------
10. Parimenti infondato è il ricorso della sig.ra Sc..
11. La presentazione di un’istanza di sanatoria, respinta
dal Comune di Assisi, con ordinanza n. 312, prot. 30027, del
05.08.2010, avverso la quale l’interessata propose, in primo
gado, motivi aggiunti, dimostra la piena consapevolezza
dell’abusività (sia pure parziale) dell’opera.
12. Il ricorso in appello può ricondursi a un’unica censura:
l’aver il comune adottato il diniego di sanatoria senza
sottoporla al preventivo parere della competente
soprintendenza.
Anche nel giudizio d’appello la parte invoca la nota del
Ministero del beni culturali 13.09.2010, prot. n. 16721 che,
a suo giudizio, dichiara paesaggisticamente irrilevanti gli
interventi non percepibili e visibili.
Orbene in tale nota si afferma che “la non percepibilità
della modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto
elide in radice la sussistenza stessa dell’illecito
contestato”.
“Ove addirittura l’incremento di volume o di superficie
(che dovrà per forza di cose essere di minima entità) non
risulti neppure visibile, allora dovrà evidentemente
ritenersi insussistente in radice l’illecito e, dunque, la
domanda di sanatoria dovrà (a rigore) essere dichiarata
inammissibile, e ciò non già perché osti al suo eventuale
accoglimento la carenza del sopra detto presupposto negativo
per la sanatoria, bensì perché trattasi in realtà di
illecito insussistente, per non essere dovuta <a monte> la
stessa autorizzazione paesaggistica, in presenza di un
intervento obiettivamente incapace di introdurre
<modificazioni che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione>, in quanto
oggettivamente non percepibile”.
Le opere oggetto del procedimento sono quelle indicate al §
1.
Parte appellante sostiene l’erroneità delle dimensioni
dell’abuso indicate nell’originario provvedimento impugnato
in quanto:
- la parte autorizzata del piano fuori terra non è di mq. 48
come affermato nell’ordinanza, ma di mq. 83, come da
progetto approvato in quanto va aggiunta anche la tettoia di
mq. 35,
- la parte interrata autorizzata non è di mq. 112, ma
aggiunte le intercapedini di mq. 66, l’autorizzato risulta
di mq. 178 come dall’ultimo progetto in variante presentato;
- non vi è stato mutamento della destinazione d’uso
dell’annesso agricolo in abitativo, in quanto il manufatto è
rurale, non avendo le caratteristiche e le condizioni per
essere definito abitabile.
Orbene, nell’originario provvedimento impugnato il piano
fuori terra veniva indicato con una dimensione di mq 165,
rispetto ad una superficie autorizzata di mq 48: quindi il
triplo del consentito.
Anche ad ammettere quanto sostenuto dall’appellante (ossia
che la costruzione autorizzata era di 83 mq), si ha pur
sempre un abuso consistente in una realizzazione doppia
rispetto a quella consentita (165 rispetto a 83).
Tale circostanza esclude ex se che la fattispecie
possa rientrare nelle ipotesi delineate dalla circolare
invocata, ossia della non percepibilità della modificazione
dell’aspetto esteriore.
Né può contestarsi che, in presenza di un abuso ictu
oculi non sanabile, il Comune possa rigettare l’istanza
di sanatoria senza coinvolgere l’Amministrazione dei beni
culturali.
13. In conclusione entrambi gli appelli vanno rigettati con
compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2016 n. 1939 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Incidenti,
la responsabilità sale. I prof devono dimostrare di aver
messo in sicurezza gli alunni. La
Cassazione aggrava la posizione degli educatori: non bastano
le esortazioni a fare attenzione.
La Cassazione rende gravosa la responsabilità dei
precettori: la portata dell'art. 2048 del codice civile va
riferita al caso specifico onde verificare in concreto se il
fatto sia stato inevitabile, così da escludere gli addebiti
alla scuola.
Con la
sentenza 09.05.2016 n. 9337, la I Sez. civile di
Piazza Cavour ha riformato una sentenza di appello rilevando
il seguente principio di diritto in tema di responsabilità
civile dei maestri: non è sufficiente la sola dimostrazione
di non essere stato in grado di spiegare un intervento
correttivo o repressivo dopo l'inizio della causa sfociata
nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare
di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure
disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di
una situazione di pericolo.
Tanto va valutato, per la scuola, tenendo in considerazione
l'età ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi, in
relazione alle circostanze del caso concreto, dovendo la
sorveglianza dei minori essere tanto più efficace e
continuativa in quanto si tratti di fanciulli in tenera età.
La presenza di un manufatto (o di una situazione oggettiva:
si pensi ad una siepe o ad un albero) che di fatto ostacola
la piena e totale visibilità dello spazio da controllare
preclude che possano essere ritenute idonee le misure
organizzative quali la previsione della presenza di
insegnanti in area se non opportunamente dislocati proprio
in relazione allo stato dei luoghi.
Il caso è sorto presso una primaria quando in occasione
della ricreazione una bambina cadeva in terra riportando
danni perché urtata da un ragazzino che, inseguito da un
compagno, sbucava improvvisamente correndo da dietro un
muretto. A nulla vale, a parere della Cassazione, il fatto
accertato che le insegnanti presenti in loco avessero
richiamato gli scolari a “non correre troppo”.
In sentenza si legge che tale è una mera esortazione
generica, e che ha finito per l'essere intesa dagli alunni
come un'autorizzazione a correre, pur senza eccedere.
Venendosi così, da un lato, a creare una condizione lasciata
alla libera valutazione dei bambini sulla velocità e le
modalità dei propri movimenti, ancorché sia evidente che gli
stessi non possano avere piena consapevolezza delle
situazioni di rischio.
D'altro canto il vago monito ha denotato scarsa attenzione
sul fatto che, a prescindere dallo stato dei luoghi, vi era
compresenza di bambini di classi inferiori, notoriamente più
deboli e delicati; e quindi meno capaci di auto-proteggersi,
senza il concreto intervento di un adulto.
Nella specie, la presenza, all'interno del cortile, di un
muretto che non consentiva una completa visuale alle persone
addette al controllo degli allievi, avrebbe dovuto indurre
queste ultime ad una maggiore e più completa vigilanza,
estesa anche alla zona posteriore al suddetto manufatto,
ovvero ad imporre ai ragazzi di astenersi dal giocare
correndo, per non rischiare di fare del male a se stessi ed
agli allievi più piccoli.
Così argomentando la Corte ha riformato la sentenza
impugnata e rimesso l'esame di merito ad un altro giudice
che abbia attenzione per la situazione dei luoghi ed alle
misure disposte dalla scuola per ravvisare quanto fosse
ragionevolmente imprevedibile, in concreto, il fatto
accaduto alla piccola
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: No
a proroghe a chi non si attiva in tempo.
È legittimo il rifiuto opposto dal comune alla proroga del
permesso di costruire se il titolare dell'autorizzazione si
decide troppo tardi a dare il via alla variante del
progetto; il tutto benché abbia scoperto da tempo che sotto
il suo terreno ci sono parti delle fondamenta riconducibili
all'edificio confinante.
Nessuna «moratoria» può allora essere concessa
dall'amministrazione locale se non risulta che chi vuole
realizzare i lavori sul proprio fondo si è attivato in modo
tempestivo per risolvere i problemi che ha col vicino e che
impediscono alle ruspe di entrare in azione.
È quanto emerge dalla
sentenza 04.05.2016 n. 864, pubblicata dal TAR
Lombardia-Milano, Sez. II.
Deve rassegnarsi il titolare del permesso scaduto che voleva
realizzare un edificio industriale con annesse abitazioni di
pertinenza. Solo con i primi scavi di cantiere si scopre che
a suo tempo il vicino aveva sconfinato ponendo i plinti di
fondazione del suo edificio sotto la superficie del terreno
attiguo.
Scattava allora lo stop alle operazioni. Ma il proprietario
che voleva realizzare i lavori non aveva compiuto subito lo
sforzo di diligenza necessario a superare il problema,
benché avesse già ricevuto una proroga.
La denuncia di inizio attività in variante è arrivata troppo
tardi perché il progetto potesse concludersi entro i tempi
previsti.
E tuttavia è escluso che la responsabilità possa essere
addebitata al comune: la denuncia dei cementi armati sarebbe
dovuta avvenire prima
(articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2016).
--------------
8. Con il secondo motivo il ricorrente afferma che il
diniego di proroga sarebbe illegittimo, poiché il Comune non
avrebbe preso in considerazione l’insieme delle circostanze
di fatto, indipendenti dalla volontà del proprietario, che
avevano impedito al sig. Alberti di portare a termine i
lavori entro il termine previsto.
Al riguardo, occorre tenere presente che la
durata limitata nel tempo dei titoli edificatori costituisce
un principio cardine dell’intero sistema della disciplina
urbanistica. Si tratta, infatti, di una regola che risponde
non solo all’esigenza di assicurare la realizzazione
ordinata ed entro tempi certi delle trasformazioni assentite
con il titolo edilizio, prevenendo situazioni di degrado
legate alla presenza di costruzioni non ultimate, ma anche
alla necessità di tutelare l’interesse pubblico a consentire
quelle sole trasformazioni del territorio che corrispondono
alle esigenze attuali della collettività, quali individuate
dalla pianificazione urbanistica vigente. Esigenza, questa,
che verrebbe irrimediabilmente frustrata dalla possibilità
del protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di
realizzazione degli interventi edilizi, una volta che le
trasformazioni assentite siano ritenute non più rispondenti
all’interesse pubblico.
In tale prospettiva, la proroga del titolo
edilizio presenta carattere derogatorio rispetto al sistema
e, non a caso, può essere consentita nei soli casi previsti
dall’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001. Disposizione,
quest’ultima, che individua l’ambito applicativo
dell’istituto contemplando una serie di fattispecie,
accomunate dalla circostanza che la necessità di disporre di
un tempo più lungo di quello ordinario per completare i
lavori dipende, nelle diverse ipotesi tipizzate dal
legislatore, da ragioni oggettive e non imputabili al
titolare del permesso di costruire.
9. Nel caso oggetto del presente giudizio, il sig. Al. ha
allegato, quale fatto ostativo al completamento dei lavori
entro il termine di tre anni dall’avvio, la scoperta, sul
proprio fondo, dei plinti di fondazione dell’edificio
confinante.
Deve, però, evidenziarsi che tale situazione di fatto era
già stata presa in considerazione dall’Amministrazione, che
aveva concesso in ragione di ciò una prima proroga di un
anno del titolo edilizio.
Le motivazioni addotte dal ricorrente al fine di ottenere,
per quella stessa causa, una nuova proroga dei termini del
medesimo permesso di costruire sono state convincentemente
confutate dal Comune nelle motivazioni del diniego impugnato
nel presente giudizio.
In particolare, il provvedimento ripercorre la cronologia
degli eventi, mettendo in evidenza –in ultima analisi– che “dal
dicembre 2011 sino a metà 2014, la proprietà non risulta
aver posto in essere alcun concreto intervento per ovviare
alle problematiche insorte allora giustificate per la
sospensione dei lavori, interventi comunque non comunicati
allo scrivente ufficio”.
In sostanza, il Comune ha evidenziato che, pure a fronte
della difficoltà esecutiva determinata dalla scoperta dei
plinti, il sig. Al. non ha assunto alcuna iniziativa idonea
a risolvere il problema. E ciò almeno fino alla
presentazione della denuncia di inizio attività in variante
del giugno 2014.
Conseguentemente, sono stati ritenuti insussistenti i
presupposti prescritti normativamente per la concessione di
una nuova proroga del titolo edilizio.
10. Il Collegio ritiene, come detto, che le motivazioni
diffusamente esposte dal Comune nel provvedimento impugnato
e nella comunicazione delle ragioni ostative
all’accoglimento dell’istanza, in esso richiamata, siano
idonee a sorreggere la determinazione negativa assunta
dall’Amministrazione; determinazione che non è infirmata
dalle opposte argomentazioni del ricorrente.
Deve infatti rilevarsi che non risulta agli
atti del giudizio alcuna evidenza dell’attività che il sig.
Al. avrebbe svolto per la soluzione, con il proprio
confinante, della questione relativa ai plinti. Al
contrario, è ampiamente comprovata la circostanza che, nel
periodo di efficacia del titolo edilizio, vi siano stati
continui avvicendamenti nella direzione dei lavori (ben sei
direttori dei lavori, secondo quanto rimarcato dalla difesa
comunale), senza che fosse comunicata all’Amministrazione
l’assunzione di iniziative idonee a risolvere la difficoltà
esecutiva emersa.
Al riguardo, non coglie nel segno il rilievo del ricorrente,
secondo il quale il provvedimento comunale sarebbe
censurabile, nella parte in cui avrebbe preteso, al fine di
comprovare la non imputabilità al sig. Al. del mancato
completamento dei lavori, la dimostrazione dell’avvio di
iniziative di tutela giurisdizionale contro il confinante.
E invero, il provvedimento comunale si è limitato a
evidenziare che “non risulta in ogni caso alcun tentativo
di accordo con il vicino, non essendo stato trasmesso
all’Ufficio alcun atto in tale senso e/o comunque l’avvio di
qualsivoglia procedura anche giurisdizionale con il medesimo
per la risoluzione della controversia” (v. punto 4 della
motivazione del provvedimento impugnato, in fine).
Nel medesimo atto, peraltro, il Comune ha evidenziato pure
che “entro i termini concessi era comunque possibile
valutare soluzioni operative concrete (...), soluzioni
operative e tecniche che non sono mai state trasmesse
all’Ufficio” (v. punto 3 della motivazione del
provvedimento impugnato) e che “al di là dei tentativi di
giungere all’accordo con il vicino”, il sig. Al. ha
atteso il mese di giugno 2014 per sottoporre
all’Amministrazione la soluzione progettuale che consentiva
di superare il problema riscontrato (v. ancora il punto 4
della motivazione del provvedimento impugnato).
Il Comune ha quindi, correttamente,
rilevato che –da un lato– non vi fosse alcuna dimostrazione
che il ricorrente si fosse effettivamente attivato per
superare il problema insorto con il vicino e che
–dall’altro– sussistevano altre soluzioni, che però sono
state prese in considerazione tardivamente.
E che la questione relativa ai plinti fosse superabile con
uno sforzo di diligenza del proprietario è dimostrato dalla
circostanza stessa che, nel giugno del 2014 –e quindi in
prossimità della scadenza del termine, già prorogato, per
ultimare i lavori– il sig. Al. sia stato effettivamente in
grado di individuare una soluzione, formalizzata appunto con
la denuncia di inizio di attività in variante.
11. Quanto a quest’ultimo profilo, va poi rimarcato che la
circostanza che la denuncia di inizio di attività del giugno
2014 sia divenuta efficace soltanto il 05.08.2014, e che
quindi sia rimasto a disposizione del sig. Al. un tempo
molto ristretto per attuare quanto progettato, non è
imputabile all’operato del Comune.
Come sopra detto, infatti, l’Amministrazione ha
tempestivamente richiesto, il 07.07.2014, l’integrazione
degli elaborati grafici, e a fronte delle produzioni
documentali del 25.07.2014 ha disposto, il 05.08.2014,
l’operatività della denuncia.
Dipende, invece, come detto, da una scelta del sig. Al.
l’aver atteso il mese di giugno 2014 per presentare la
variante. |
VARI: Chi paga i danni causati da animali.
Proprietario responsabile in prima istanza - Obbligo sugli
enti locali per i cani randagi.
Diritto civile. A carico del possessore o sul custode
temporaneo grava la presunzione legale di mancato o
insufficiente controllo.
Il
proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in
cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati, sia
che si trovi sotto la sua custodia, sia che risulti smarrito
o fuggito, salvo che provi il caso fortuito.
Lo prevede
l’articolo 2052 del Codice civile che pone a carico della
persona o dell’ente che abbia la facoltà, o l’obbligo, di
esercitare il potere di controllo una vera e propria
presunzione di responsabilità.
L’obbligo di rendere l’animale in condizione di non arrecare
danni alle persone o alle cose è dunque di volta in volta
attribuito al proprietario, oppure a chi abbia
temporaneamente la custodia dell’animale, oppure anche agli
enti pubblici che devono garantire l’incolumità della
collettività da fatti legati al randagismo.
In due recenti sentenze, questo principio è stato ribadito a
chiare lettere con la condanna del custode dell’animale al
risarcimento dei danni causati.
Il controllo dell’animale
Il TRIBUNALE di Trento (Sez. civile,
sentenza 02.05.2016 n. 465, giudice Barbato) ha
condannato il custode di un cane che aveva arrecato lesioni
gravi ad una passante mordendole la mano durante una
passeggiata in un centro abitato.
La colpa nel caso specifico è stata legata tanto al potere
di governo e controllo sull’animale che espone sempre il
custode ad una responsabilità presunta (articolo 2052 del
Codice civile), quanto per la violazione di generali norme
di prudenza da parte del proprietario (per avere tenuto
l’animale al guinzaglio lungo, circa tre o quattro metri e
senza utilizzare la museruola).
Le responsabilità
La colpa per i danni causati da un animale può riguardare
tanto le persone fisiche che ne abbiano il controllo, quanto
enti ed istituzioni che siano tenuti a garantire
l’incolumità pubblica verso fatti legati alla circolazione
di animali privi di proprietario.
La violazione di tali oneri di protezione sociale posti a
carico dell’amministrazione pubblica è stato affermato dalla
Corte di appello di Lecce (sentenza 28.04.2016 n. 435,
presidente Dell’Anna, estensore Palazzo) che ha condannato
la Asl locale per non avere impedito che una muta di cani
arrecasse danni patrimoniali ad un allevatore di bovini, che
erano stati aggrediti a più riprese dagli animali randagi.
La Corte rileva che sulla base della legislazione regionale,
la vigilanza sui cani randagi era stata trasferita dai
Comuni alle aziende sanitarie locali e che a queste ultime
era rimesso quindi l’onere di provvedere al recupero ed al
trattamento igienico sanitario dei cani randagi.
Ai Comuni spetta invece l’onere di segnalare al servizio
veterinario delle Asl la presenza di randagi e di
predisporre canili e strutture ricettizie degli animali
senza padrone.
Nel caso in esame, la Corte di appello di Lecce confermava
la sentenza del tribunale che aveva condannato la sola Asl a
risarcire all’allevatore il danno patrimoniale, sul
presupposto che l’azienda sanitaria, pur allertata a più
riprese dalla amministrazione comunale, non avesse svolto
l’attività di recupero che le è demandata, intervenendo in
seguito a numerosi eventi e con colpevole ritardo.
Danni a motoveicoli
Il principio di responsabilità legato, come detto
all’articolo 2052 del Codice civile, è stato a più riprese
confermato dalla giurisprudenza per la quale e in linea
generale, la pubblica amministrazione è responsabile per i
danni riconducibili all’omissione della attività di
controllo e messa in sicurezza del territorio. Così ad
esempio la Corte di cassazione (sentenza n. 17528/2011) ha
condannato una amministrazione comunale per i danni subiti
da un motociclista che era stato sbalzato da sella per
l’aggressione improvvisa subita proprio da parte di un cane
randagio (articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2016). |
TRIBUTI: Liti tributarie: vietate le notifiche via Pec.
Processo. Dove non c’è sperimentazione.
È inammissibile l’appello tributario notificato a mezzo
posta elettronica certificata in quanto la notifica a mezzo
Pec, nel processo tributario, allo stato non è ancora
operativa.
A dirlo è stata la
Commissione tributaria regionale di Milano con
sentenza 24.03.2016 n. 1711/34/2016
(presidente Sacchi, relatore Bonavolonta).
La Ctp di Milano ha dichiarato inammissibili tre ricorsi poi
riuniti perché notificati a mezzo posta prioritaria e non
con raccomandata con ricevuta di ritorno, non consentendo,
in questo modo, ai giudici di valutare la tempestività nella
proposizione degli stessi.
Avverso la sentenza ha proposto appello il contribuente
notificando -e trasmettendoli all’agenzia delle Entrate di
Milano a mezzo Pec in data 27.07.2015- tre separati
ricorsi, uno per ciascun anno di imposta.
La Ctr di Milano ha dichiarato inammissibile l’appello
poiché notificato in modo difforme da quanto stabilito dal
combinato disposto degli articoli 53, comma 2 e 20, commi 1
e 2 del Dlgs 546/1992 in quanto la notifica a mezzo Pec, allo
stato non è ancora operativa, per cui l’appello doveva
essere notificato all’ufficio ai sensi della normativa
vigente ratione temporis.
Vale la pena evidenziare che il Mef, con la circolare 2/DF
dell’11.05.2016, ha emanato le linee guida che
forniscono spiegazioni sul Sistema informativo della
giustizia tributaria (Sigit) e forniscono indicazioni sulle
modalità di accesso ed utilizzi dei servizi del Processo
tributario telematico (Ptt). Ed infatti, dal 01.12.2015, nelle Commissioni tributarie delle Regioni Toscana e
dell’Umbria, è consentito alle parti, previa registrazione
al Sigit, di utilizzare la posta elettronica certificata
(Pec) per la notifica dei ricorsi e degli appelli e di poter
effettuare il successivo deposito in via telematica nella
Commissione tributaria competente utilizzando l’applicativo
Ptt.
Giova tuttavia precisare che in questa prima fase attuativa
del processo tributario telematico vige il principio della
facoltatività del deposito telematico rispetto a quello
tradizionale cartaceo e della graduale estensione sul
territorio nazionale delle nuove modalità di deposito degli
atti processuali (entro il 2016 sarà esteso ad Abruzzo,
Molise, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna e Veneto). In base
a questo principio. ciascuna delle parti può scegliere di
notificare e depositare gli atti processuali con le modalità
tradizionali, ovvero con quelle telematiche presso le
Commissioni tributarie ove risultino attive tali modalità.
In buona sostanza, fermo restando il principio di
facoltatività appena descritto, in base alle disposizioni
contenute nel regolamento 163/2013, qualora sia la parte
ricorrente che resistente si avvalga delle modalità
telematiche nel procedimento di primo grado è obbligata
successivamente ad utilizzare le medesime modalità anche nel
giudizio d’appello. Tale obbligo si estende anche al
deposito degli atti successivi alla costituzione in
giudizio, in base agli articoli 10 e 11 del regolamento (articolo Il Sole 24 Ore del 15.08.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Fogne, allaccio senza permessi.
Tar Campania. Non serve l’autorizzazione del condominio.
L’ente locale
non deve acquisire l’assenso del condominio o degli altri condòmini, se l’opera che il singolo vuole realizzare
riguarda parti comuni dell’edificio strettamente
pertinenziali alla propria unità immobiliare. Tali opere,
del resto, rientrano negli interventi che il condòmino,
titolare del provvedimento abilitativo, ha piena facoltà di
eseguire.
Lo puntualizza il
TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la
sentenza 26.02.2016 n. 1077.
Apre il caso, il proprietario di un appartamento che –comunicata al Comune l’intenzione di voler effettuare
interventi di ordinaria manutenzione relativi alla
ritinteggiatura, sostituzione e riparazione dei rivestimenti
di cucina e bagno, con sostituzione degli igienici–
collegava, in realtà, l’impianto igienico-sanitario al
sottoservizio fognario nel cortile condominiale. Di qui, il
provvedimento comunale di sospensione dei lavori e
ripristino dello stato dei luoghi, seguito dall’ordine di
sgombero.
Provvedimenti impugnati dal condòmino in quanto l’intervento
consiste nella posa di una tubatura in Pvc per collegare un
impianto igienico alla rete fognaria preesistente senza
l’esecuzione di opere murarie, e in quanto tale non è
soggetto al regime della Dia, rientrando nell’attività
libera edilizia che non necessita di alcun titolo
abilitativo.
Ricorso accolto.
Il provvedimento gravato –afferma il
Tribunale– è illegittimo. La posa in opera della conduttura
in Pvc per il collegamento di un impianto igienico alla rete
fognante rientra nell’ambito dell’attività libera di cui
all’articolo 6 del Dpr 380/2001.
E dato che ai sensi
dell’articolo 3, comma 1, lettera b), della stessa norma si
trattava di manutenzione straordinaria, che non aveva inciso
su parti strutturali dell’edificio, né comportato l’aumento
delle unità immobiliari o l’incremento dei parametri
urbanistici, l’opera non necessitava di Dia.
Irrilevante, anche la critica mossa dal Comune circa
l’assenza di previa autorizzazione degli altri condòmini.
Consenso che, concludono i giudici amministrativi, non
occorreva: «esclusa la necessità di un titolo abilitativo
edilizio, l’indispensabilità del consenso dei condòmini per
la realizzazione dell’opera diviene una questione relativa
all’esercizio del diritto di proprietà o, comunque, inerente
ai rapporti civilistici tra condòmini» (articolo Il Sole 24 Ore del 23.08.2016).
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MASSIMA
La posa in opera della conduttura in
PVC per il collegamento di un impianto igienico alla rete
fognante rientra nell’ambito dell’attività libera ex art. 6
D.P.R. n. 380/2001.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b), di
quest’ultimo D.P.R., sono ricomprese nella categoria degli
interventi di manutenzione straordinaria “le
opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire
parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare
ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici,
sempre che non alterino i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle
destinazioni di uso”.
L’opera posta in essere rientra in
quest’ultima categoria. La stessa è, infatti, volta a
realizzare o integrare i servizi igienico-sanitari e non ha
alterato volumi o superfici.
Il citato art. 6 del D.P.R. n. 380/2001, nel testo vigente
ratione temporis, prevedeva che potessero essere
eseguiti senza alcun titolo abilitativo “gli interventi
di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma
1, lettera b), ivi compresa l'apertura di porte interne o lo
spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le
parti strutturali dell'edificio, non comportino aumento del
numero delle unità immobiliari e non implichino incremento
dei parametri urbanistici”.
Nel caso di specie l’intervento non riguarda parti
strutturali dell'edificio, né comporta aumento del numero
delle unità immobiliari o incremento dei parametri
urbanistici.
L’opera in esame non necessitava, pertanto,
della D.I.A., e risulta, pertanto, illegittima la sanzione
comminata ex art. 37 D.P.R. n. 380/2001, riservata
all’omissione di tale titolo edilizio.
Inoltre, il Collegio rileva per completezza come, in ogni
caso, l’omissione della D.I.A. avrebbe potuto comportare
l’applicazione della sanzione pecuniaria ma non di quella
ripristinatoria adottata invece dal Comune, peraltro
sommandola a quella pecuniaria.
Fermo quanto indicato, si rileva ancora
come da accogliere risulti anche la censura relativa alla
mancanza della necessità del consenso di tutti i condomini
per l’esecuzione dell’opera.
Ciò in primo luogo perché, una volta esclusa la necessità di
un titolo abilitativo edilizio,
l’indispensabilità del consenso dei condomini per la
realizzazione dell’opera diviene una questione relativa
all’esercizio del diritto di proprietà o, comunque, inerente
ai rapporti civilistici tra condomini.
L’eventuale necessità del consenso, e la
pretesa alla stessa connessa, sarà quindi nel caso
tutelabile ad opera degli interessati dinanzi alla
competente autorità giudiziaria ordinaria, ma non riguarderà
l’esercizio del potere autorizzatorio o sanzionatorio del
Comune in materia di governo del territorio e, in
particolare, in materia urbanistica ed edilizia.
Il Collegio, inoltre, ritiene di poter applicare quella
giurisprudenza amministrativa secondo cui,
in caso di realizzazione di un'opera da parte di un singolo
sulle parti comuni dell'edificio, ma strettamente
pertinenziale alla propria unità immobiliare, l'ente locale
non è tenuto a richiedere il previo assenso del condominio
interessato, ovvero degli altri condomini
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, Sent., 28.02.2011, n. 367),
assumendosi che il singolo condomino ha facoltà di
eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni
dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità
immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la
conseguenza che egli va considerato come soggetto avente
titolo per ottenere il provvedimento abilitativo e che il
mancato assenso del condominio concerne esclusivamente
tematiche privatistiche, cui resta estranea
l'amministrazione
(Cons. Stato Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
Il suddetto principio costituisce evidentemente applicazione
della norma contenuta nell'articolo 1102 c.c., in base al
quale "ciascun partecipante può servirsi
della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e
non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso
secondo il loro diritto".
Il ricorso principale va quindi accolto. |
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