|
|
Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica
gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).
-
segnala un
errore nei links
|
|
AGGIORNAMENTO AL 24.08.2016 |
ã |
Immobili pubblici:
"bene
culturale" dopo 50 anni o dopo 70 anni? |
Nello scorso mese di luglio, dal noto sito "Bosetti
Gatti & partners", si è (comprensibilmente) posto
all'attenzione degli addetti ai lavori il cogente
interrogativo (si
legga qui) sortito a seguito della
portata di cui all'art.
217, comma 1, lettera v), del d.lgs. 18.04.2016 n.
50 (Codice dei contratti pubblici), il
quale ha abrogato l’articolo 4 del decreto-legge n.
70 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 106 del 2011 (ad eccezione dei commi 13 e
14).
Secondo una disamina -di primo acchito- della novella
legislativa, ciò comporterebbe il "rivivere"
dell’art.
12, comma 1, dell’art.
10, comma 5 e dell’art.
54, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 42
del 2004 nella versione originaria, per cui dovrebbe
essere ripristinato il limite di 50 anni
anche per gli immobili pubblici.
Secondo, invece, un secondo commento a caldo (si
legga qui) si perverrebbe alla
conclusione "che l’abrogazione effettuata
dalla lettera v) dell’articolo 217, comma 1, del
decreto legislativo n. 50 del 2016 non abbia
previsto anche la reviviscenza delle norme abrogate
che contenevano il limite temporale per il
riconoscimento dell’interesse culturale. Da qui la
segnalazione di un vero e proprio vuoto normativo
che dovrà rapidamente essere colmato dall’intervento
del Legislatore per non rischiare di rendere
inconsistenti le norme di tutela dei beni culturali."
Tra l'altro, oltre a quanto sopra detto, ci sarebbe
un'altra questione ben più pressante e quotidiana,
ovverosia la gestione dell'iter amministrativo -ex
art. 146- dell'istanza di autorizzazione
paesaggistica ed altre ancora sempre inerenti il
D.Lgs. n. 42/2004 e cioè:
art. 59;
art. 67;
art. 181.
Ebbene, data la delicatezza delle fattispecie de
quibus e tenuto conto che non è ammissibile, né
pensabile, operare nell'incertezza del diritto con
le potenziali relative personali responsabilità
amministrative e/o penali, un comune s'è prestato a
chiedere lumi al MIBACT il quale, prontamente, ha
risposto (ridando
certezza nella materia de qua)
nei termini di cui al parere riportato a seguire: |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del
decreto legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di
norme precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs.
n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti
pubblici) (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 03.08.2016 n. 23305 di prot.) |
|
L'istituto dell'«ACCORDO DI PROGRAMMA» in
Lombardia:
come, quando e perché l'approvazione
dello stesso comporta variante automatica al vigente P.G.T.. |
Ancorché datato, ancora oggi attuale, ecco un
interessantissimo parere del Consiglio di Stato che
spiega la ratio di questo strumento
(s)conosciuto che, invero, non
capita tutti i giorni di trovarcelo sul tavolo di
lavoro.
Per la segnalazione, su richiesta d'aiuto, è doveroso
un ringraziamento all'Avv. G.G. di Milano. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Secondo
quanto dispone il nuovo Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali di cui al
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 34, l’accordo di
programma è lo strumento “per la definizione e
l'attuazione di opere, di interventi o di programmi
di intervento che richiedono, per la loro completa
realizzazione, l'azione integrata e coordinata di
comuni, di province e regioni, di amministrazioni
statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di
due o più tra i soggetti predetti”. In tali casi “il
presidente della Regione o il presidente della
provincia o il sindaco, in relazione alla competenza
primaria o prevalente sull'opera o sugli interventi
o sui programmi di intervento, promuove la
conclusione di un accordo di programma, anche su
richiesta di uno o più dei soggetti interessati, per
assicurare il coordinamento delle azioni e per
determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento
ed ogni altro connesso adempimento”.
L’accordo si sviluppa secondo un modulo
procedimentale prima istruttorio e poi
determinativo.
Infatti “per verificare la possibilità di concordare
l'accordo di programma, il presidente della Regione
o il presidente della provincia o il sindaco convoca
una conferenza tra i rappresentanti di tutte le
amministrazioni interessate” (comma 3), dopo di che
“l'accordo, consistente nel consenso unanime” di
tutte le amministrazioni partecipanti “è approvato
con atto formale del presidente della Regione o del
presidente della provincia o del sindaco ed è
pubblicato nel bollettino ufficiale della Regione”.
Quanto agli effetti determinativi lo stesso articolo
stabilisce (comma 4) che “l'accordo, qualora
adottato con decreto del presidente della Regione,
produce gli effetti della intesa di cui all'articolo
81 del decreto del Presidente della Repubblica
24.07.1977, n. 616, determinando le
eventuali e conseguenti variazioni degli strumenti
urbanistici e sostituendo le concessioni edilizie,
sempre che vi sia l'assenso del comune interessato”.
In tal caso, quando cioè l'accordo comporti varianti
agli strumenti urbanistici, l'adesione prestata dal
sindaco all’accordo “deve essere ratificata dal
consiglio comunale entro trenta giorni a pena di
decadenza”.
Le disposizioni della legge nazionale sono state
riprese, in Lombardia, dalla
L.R. 14.03.2003, n. 2, relativa alla
"Programmazione negoziata regionale", il cui
articolo 6, dopo avere minuziosamente disciplinato
gli aspetti procedimentali e contenutistici
dell’accordo, assicurando la partecipazione di tutti
i soggetti interessati con la preventiva
pubblicazione della proposta di accordo approvata
dalla Giunta regionale sul BURL proprio “per
consentire a qualunque soggetto portatore di
interessi pubblici o privati di presentare eventuali
osservazioni o proposte”, ribadisce che (comma 11)
“Qualora l'accordo di programma comporti varianti
agli strumenti urbanistici, il progetto di variante
deve essere depositato nella segreteria comunale per
quindici giorni consecutivi, durante i quali
chiunque può prenderne visione. Nei successivi
quindici giorni chiunque ha facoltà di presentare
osservazioni. Le osservazioni presentate sono
controdedotte dal consiglio comunale in sede di
ratifica ai sensi dell'articolo
34 del d.lgs. 267/2000".
L'accordo di programma, dunque, persegue la finalità
di semplificare ed accelerare l'azione
amministrativa mediante un esame contestuale dei
vari interessi pubblici di volta in volta coinvolti
e consiste, come visto, nel consenso unanime delle
amministrazioni o enti interessati circa un quid
(opera, progetto o intervento) da realizzare.
Tale consenso, come già osservato, si forma
progressivamente attraverso fasi successive, che, a
partire dalla fase della "promozione" dell'accordo
(spettante al presidente della regione o al
presidente della provincia o al sindaco, "in
relazione alla competenza primaria o prevalente
sull'opera o sugli interventi o sui programmi di
intervento”), sono normalmente scandite da atti o
deliberazioni degli organi degli enti e delle
amministrazioni interessati e si perfeziona con la
conclusione (ossia con la sottoscrizione)
dell'accordo di programma, che può dirsi così
completo e perfetto.
Trattasi, dunque, di atto di programmazione
attuativa, finalizzato alla definizione ed
attuazione di opere, di interventi o di programmi di
intervento, che richiedono, per la loro completa
realizzazione, l'azione integrata di comuni,
province e regioni (e, eventualmente, anche di altri
soggetti pubblici o privati).
L’accordo non è dunque un semplice modulo
procedimentale di semplice concertazione formale,
che deve essere seguita dall’adozione dei
provvedimenti tipici spettanti a ciascuna
amministrazione partecipante. L'accordo, invece, si
configura come espressione dei poteri pubblicistici
facenti capo agli stessi soggetti partecipanti, la
cui attività amministrativa viene così resa più
snella, celere, efficiente, efficace, razionale ed
adeguata alla cura degli interessi a ciascuno di
essi assegnata dall'ordinamento, in ossequio ai
principi fissati nell'articolo 97 della
Costituzione.
Un problema di competenza, suscettibile di refluire
sulla legittimità dell'accordo conclusivo, si pone
quindi solo se e nella misura in cui l'autorità
effettivamente competente non risulti tra i soggetti
sottoscrittori dell'accordo stesso, sì che, anche
laddove possa dubitarsi della competenza "primaria o
prevalente" dell'autorità che abbia assunto
l'iniziativa procedimentale di cui trattasi, la
partecipazione al procedimento, la successiva
sottoscrizione dell'accordo e, laddove prevista, la
definitiva approvazione del medesimo da parte della
diversa autorità effettivamente competente in
relazione al detto criterio individuato dal
legislatore vale sicuramente a sanare il vizio di
competenza eventualmente sussistente nella fase
dell'iniziativa.
---------------
Lo scopo dell’accordo, secondo le finalità tracciate
dal legislatore nazionale e regionale, è proprio
quello di assicurare un esercizio agevolato e
concentrato dei poteri pubblicistici facenti capo
alle amministrazioni e soggetti partecipanti, la cui
attività amministrativa viene così resa più snella,
celere, efficiente, efficace, razionale ed adeguata
alla cura degli interessi a ciascuno di essi
assegnata dall'ordinamento, in ossequio ai principi
fissati nell'articolo 97 della Costituzione.
Di qui la possibilità che l’accordo possa costituire
e sostituire, come è stato nella specie, il
procedimento di approvazione definitiva di variante
al PRG.
Né può fondatamente sostenersi che attraverso la
procedura di accordo si sia violato il momento
partecipativo dei privati.
Già si è detto, infatti, che la
L.R. Lombardia 14.03.2003, n. 2, relativa
alla “Programmazione negoziata regionale“,
all’articolo 6 ha minuziosamente disciplinato gli
aspetti procedimentali e contenutistici
dell’accordo, assicurando, tra l’altro e anzitutto,
la partecipazione di tutti i soggetti interessati
attraverso la preventiva pubblicazione della
proposta di accordo approvata dalla Giunta regionale
sul BURL; ciò al fine dichiarato dal legislatore, di
“consentire a qualunque soggetto portatore di
interessi pubblici o privati di presentare eventuali
osservazioni o proposte”.
Il medesimo articolo 6 stabilisce, poi, al comma 11,
che “Qualora l'accordo di programma comporti
varianti agli strumenti urbanistici, il progetto di
variante deve essere depositato nella segreteria
comunale per quindici giorni consecutivi, durante i
quali chiunque può prenderne visione. Nei successivi
quindici giorni chiunque ha facoltà di presentare
osservazioni. Le osservazioni presentate sono
controdedotte dal consiglio comunale in sede di
ratifica ai sensi dell'articolo 34 del d.lgs.
267/2000".
Quindi il momento partecipativo, nel caso di
varianti agli strumenti urbanistici viene assicurato
in ben due fasi procedimentali.
---------------
Pur nel rispetto della discrezionalità di scelta
delle aree su cui far sorgere l’opera pubblica,
nella fattispecie emergono certamente dubbi sulla
razionalità, logicità e coerenza con il principio di
buon andamento.
Si tratta tuttavia di dubbi che non possono trovare
collocazione e soluzione in questa sede.
Sul punto vale ulteriormente osservare che, anche
per infrangere il velo della discrezionalità
amministrativa tipicamente ricollegata alle scelte
urbanistiche e di localizzazione delle opere
pubbliche e per consentire al giudice di verificare
la bontà sostanziale delle stesse scelte in
conformità al precetto costituzionale di buon
andamento, per contrastare episodi di mala gestione
dell’interesse pubblico, occorre che chi contesta il
cattivo esercizio dei predetti poteri discrezionali
fornisca quanto meno un indizio di prova che le
ubicazioni delle opere pubbliche siano state
effettuate in spregio ad ogni criterio di logicità,
coerenza, oculata gestione del denaro pubblico.
---------------
Quanto, poi, alla mancanza di V.I.A. lamentata, è da
osservare che tale momento di valutazione
dell’impatto ambientale dell’opera va compiuto
nell’ambito del procedimento progettuale dell’opera
stessa e non in momento anteriore, come è l’accordo
di programma qui impugnato, relativo alla semplice
individuazione delle caratteristiche fondamentali
dell’intervento, demandando ad una fase successiva,
rimessa essenzialmente all’azienda ospedaliera S.
Anna, le procedure di progettazione e realizzazione
dell’intervento.
Sarà quindi nella fase di progettazione che dovrà
essere affrontata e verificata la problematica
relativa alla VIA:
- art. 16, comma 4, della legge n. 109/1994 (oggi
art. 166 del Codice dei contratti pubblici di cui al
D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 ), per cui “Il progetto
definitivo individua compiutamente i lavori da
realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei
criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle
indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e
…..consiste …….nello studio di impatto ambientale
ove previsto…..”;
- art. 25 del regolamento di attuazione della citata
legge 11.02.1994, n. 109, emanato con D.P.R.
21.12.1999 n. 554, che fra i documenti componenti il
progetto definitivo indica espressamente (comma 2,
lett. f) “studio di impatto ambientale ove previsto
dalle vigenti normative ovvero studio di fattibilità
ambientale“;
- D.P.R. 12.04.1996 (oggi abrogato dall’articolo 48
del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, codice dei contratti
pubblici), recante “Atto di indirizzo e
coordinamento per l'attuazione dell'art. 40, comma
1, della L. 22.02.1994, n. 146 (legge comunitaria)",
concernente disposizioni in materia di valutazione
di impatto ambientale (si vedano in particolare gli
artt. 5, 6 e 7, nonché gli allegati al decreto,
ecc.).
---------------
Può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.
Con il primo le associazioni ricorrenti
lamentano che tra delibere comunali di adozione di
semplice progetto della variante al PRG,
osservazioni dei privati e accordo di programma non
è intervenuto l’atto consiliare di definitiva
adozione. In tal modo verrebbe alterato l’ordine
delle competenze in materia di pianificazione
urbanistica rimesse dal TUEL all’esclusiva
attribuzione del consiglio comunale. In subordine
viene sollevata eccezione di illegittimità della
l.r. Lombardia n. 2 del 2003.
Il motivo è infondato.
Vale ricordare che secondo quanto dispone il nuovo
Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali di cui al
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 34
(corrispondente all'art. 27 della L. 08.06.1990, n.
142, ormai abrogata) l’accordo di programma è lo
strumento “per la definizione e l'attuazione di
opere, di interventi o di programmi di intervento
che richiedono, per la loro completa realizzazione,
l'azione integrata e coordinata di comuni, di
province e regioni, di amministrazioni statali e di
altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra
i soggetti predetti”. In tali casi “il
presidente della Regione o il presidente della
provincia o il sindaco, in relazione alla competenza
primaria o prevalente sull'opera o sugli interventi
o sui programmi di intervento, promuove la
conclusione di un accordo di programma, anche su
richiesta di uno o più dei soggetti interessati, per
assicurare il coordinamento delle azioni e per
determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento
ed ogni altro connesso adempimento”.
L’accordo si sviluppa secondo un modulo
procedimentale prima istruttorio e poi
determinativo.
Infatti “per verificare la possibilità di
concordare l'accordo di programma, il presidente
della Regione o il presidente della provincia o il
sindaco convoca una conferenza tra i rappresentanti
di tutte le amministrazioni interessate” (comma
3), dopo di che “l'accordo, consistente nel
consenso unanime” di tutte le amministrazioni
partecipanti “è approvato con atto formale del
presidente della Regione o del presidente della
provincia o del sindaco ed è pubblicato nel
bollettino ufficiale della Regione”.
Quanto agli effetti determinativi lo stesso articolo
stabilisce (comma 4) che “l'accordo, qualora
adottato con decreto del presidente della Regione,
produce gli effetti della intesa di cui all'articolo
81 del decreto del Presidente della Repubblica
24.07.1977, n. 616, determinando le
eventuali e conseguenti variazioni degli strumenti
urbanistici e sostituendo le concessioni edilizie,
sempre che vi sia l'assenso del comune interessato”.
In tal caso, quando cioè l'accordo comporti varianti
agli strumenti urbanistici, l'adesione prestata dal
sindaco all’accordo “deve essere ratificata dal
consiglio comunale entro trenta giorni a pena di
decadenza”.
Le disposizioni della legge nazionale sono state
riprese, in Lombardia, dalla
L.R. 14.03.2003, n. 2, relativa alla "Programmazione
negoziata regionale", il cui articolo 6, dopo
avere minuziosamente disciplinato gli aspetti
procedimentali e contenutistici dell’accordo,
assicurando la partecipazione di tutti i soggetti
interessati con la preventiva pubblicazione della
proposta di accordo approvata dalla Giunta regionale
sul BURL proprio “per consentire a qualunque
soggetto portatore di interessi pubblici o privati
di presentare eventuali osservazioni o proposte”,
ribadisce che (comma 11) “Qualora l'accordo di
programma comporti varianti agli strumenti
urbanistici, il progetto di variante deve essere
depositato nella segreteria comunale per quindici
giorni consecutivi, durante i quali chiunque può
prenderne visione. Nei successivi quindici giorni
chiunque ha facoltà di presentare osservazioni. Le
osservazioni presentate sono controdedotte dal
consiglio comunale in sede di ratifica ai sensi
dell'articolo
34 del d.lgs. 267/2000".
L'accordo di programma, dunque, persegue la finalità
di semplificare ed accelerare l'azione
amministrativa mediante un esame contestuale dei
vari interessi pubblici di volta in volta coinvolti
e consiste, come visto, nel consenso unanime delle
amministrazioni o enti interessati circa un quid
(opera, progetto o intervento) da realizzare (v.
Cons. St., IV, 01.08.2001, n. 4206 e 17.06.2003, n.
3403).
Tale consenso, come già osservato, si forma
progressivamente attraverso fasi successive, che, a
partire dalla fase della "promozione"
dell'accordo (spettante al presidente della regione
o al presidente della provincia o al sindaco, "in
relazione alla competenza primaria o prevalente
sull'opera o sugli interventi o sui programmi di
intervento”), sono normalmente scandite da atti
o deliberazioni degli organi degli enti e delle
amministrazioni interessati e si perfeziona con la
conclusione (ossia con la sottoscrizione)
dell'accordo di programma, che può dirsi così
completo e perfetto (Cons. St., IV, n. 3403/2003,
cit.).
Trattasi, dunque, di atto di programmazione
attuativa, finalizzato alla definizione ed
attuazione di opere, di interventi o di programmi di
intervento, che richiedono, per la loro completa
realizzazione, l'azione integrata di comuni,
province e regioni (e, eventualmente, anche di altri
soggetti pubblici o privati).
L’accordo non è dunque un semplice modulo
procedimentale di semplice concertazione formale,
che deve essere seguita dall’adozione dei
provvedimenti tipici spettanti a ciascuna
amministrazione partecipante. L'accordo, invece, si
configura come espressione dei poteri pubblicistici
facenti capo agli stessi soggetti partecipanti (v.
Cass. Civ., sez. un., 04.01.1995, n. 91), la cui
attività amministrativa viene così resa più snella,
celere, efficiente, efficace, razionale ed adeguata
alla cura degli interessi a ciascuno di essi
assegnata dall'ordinamento, in ossequio ai principi
fissati nell'articolo 97 della Costituzione (Cons.
St., IV, 27.05.2002, n. 2909).
Un problema di competenza, suscettibile di refluire
sulla legittimità dell'accordo conclusivo, si pone
quindi solo se e nella misura in cui l'autorità
effettivamente competente non risulti tra i soggetti
sottoscrittori dell'accordo stesso, sì che, anche
laddove possa dubitarsi della competenza "primaria
o prevalente" dell'autorità che abbia assunto
l'iniziativa procedimentale di cui trattasi, la
partecipazione al procedimento, la successiva
sottoscrizione dell'accordo e, laddove prevista, la
definitiva approvazione del medesimo da parte della
diversa autorità effettivamente competente in
relazione al detto criterio individuato dal
legislatore vale sicuramente a sanare il vizio di
competenza eventualmente sussistente nella fase
dell'iniziativa; vizio, che, peraltro, sia nel
procedimento amministrativo che nel processo nel
quale si controverta della legittimità degli atti
del primo, solo l'Amministrazione "espropriata"
del potere di iniziativa avrebbe interesse a far
valere.
In conclusione, la tesi proposta con il primo motivo
circa la necessità di adottare la variante allo
strumento urbanistico secondo le regole proprie del
procedimento di adozione ed approvazione di
quest’ultimo è priva di pregio alla luce della
riportata normativa, rispetto alla quale ogni
profilo di incostituzionalità è –a tacere d’ogni
altra considerazione– non prospettabile in sede di
ricorso straordinario, per consolidato insegnamento
della Corte Costituzionale, cui la Sezione non può
sottrarsi.
Sulla base delle predette considerazioni si rivela
del tutto infondato il secondo motivo, con
cui si lamenta il distorto utilizzo dell’accordo di
programma, che nella specie non era utilizzabile,
l’unico ente competente alla realizzazione del
futuro ospedale essendo l’Amministrazione
ospedaliera.
La profonda erroneità dell’assunto si rivela dalla
sua intima contraddittorietà con quanto sostenuto
dalle stesse ricorrenti, le quali, con il ricorso,
lamentano che l’opera andrebbe ad incidere su valori
ben diversi da quello puramente sanitario affidato
alla competenza dell’amministrazione ospedaliera:
valori di assetto e pianificazione del territorio
(tanto che occorre adottare una variante al PRG),
valori idrogeologici, ecc..
Del pari privo di ogni consistenza è l’assunto
dedotto con lo stesso secondo motivo, secondo cui
l’accordo in questione sarebbe “una rapida
scorciatoia a ipotesi di localizzazione di opere
nemmeno progettate” (pag. 11 ricorso). In
realtà, lo scopo dell’accordo, secondo le finalità
tracciate dal legislatore nazionale e regionale, è
proprio quello di assicurare un esercizio agevolato
e concentrato dei poteri pubblicistici facenti capo
alle amministrazioni e soggetti partecipanti, la cui
attività amministrativa viene così resa più snella,
celere, efficiente, efficace, razionale ed adeguata
alla cura degli interessi a ciascuno di essi
assegnata dall'ordinamento, in ossequio ai principi
fissati nell'articolo 97 della Costituzione. Di qui
la possibilità che l’accordo possa costituire e
sostituire, come è stato nella specie, il
procedimento di approvazione definitiva di variante
al PRG (cfr., per una fattispecie analoga: Consiglio
di stato, sez. IV, 28.12.2006, n. 8047; id.,
22.06.2006, n. 3889).
Né può fondatamente sostenersi che attraverso la
procedura di accordo si sia violato il momento
partecipativo dei privati. Già si è detto, infatti,
che la
L.R. Lombardia 14.03.2003, n. 2, relativa
alla “Programmazione negoziata regionale“,
all’articolo 6 ha minuziosamente disciplinato gli
aspetti procedimentali e contenutistici
dell’accordo, assicurando, tra l’altro e anzitutto,
la partecipazione di tutti i soggetti interessati
attraverso la preventiva pubblicazione della
proposta di accordo approvata dalla Giunta regionale
sul BURL; ciò al fine dichiarato dal legislatore, di
“consentire a qualunque soggetto portatore di
interessi pubblici o privati di presentare eventuali
osservazioni o proposte”.
Il medesimo articolo 6 stabilisce, poi, al comma 11,
che “Qualora l'accordo di programma comporti
varianti agli strumenti urbanistici, il progetto di
variante deve essere depositato nella segreteria
comunale per quindici giorni consecutivi, durante i
quali chiunque può prenderne visione. Nei successivi
quindici giorni chiunque ha facoltà di presentare
osservazioni. Le osservazioni presentate sono
controdedotte dal consiglio comunale in sede di
ratifica ai sensi dell'articolo 34 del d.lgs.
267/2000". Quindi il momento partecipativo, nel
caso di varianti agli strumenti urbanistici viene
assicurato in ben due fasi procedimentali.
D’altra parte, la pretestuosità, oltre che
l’erroneità in punto di fatto, della censura si
rende ulteriormente manifesta dalla circostanza che,
in concreto, le ricorrenti hanno presentato agli
enti locali interessati dettagliate ed articolate
osservazioni ben prima della data di sottoscrizione
dell’accordo qui impugnato (13.12.2003), altrettanto
analiticamente vagliate dalle stesse
amministrazioni.
Con il terzo motivo si lamenta la mancata
valutazione, prima della sottoscrizione dell’accordo
di programma, dei molteplici vincoli di natura
ambientale, artistica, vulnerabilità geologica ed
idraulica, nonché dei problemi di drenaggio
dell’area: problemi evidenziati dalla stesso comune
di Montano Lucino nelle valutazioni geologiche
preliminari per lo studio di fattibilità del nuovo
ospedale (pagg. 6-7, 10-11), nonché dallo studio di
fattibilità prodromici all’accordo (pag. 47).
Il motivo è di tutta evidenza inammissibile.
Esso contesta, infatti, la localizzazione dell’opera
ospedaliera in zona incongrua sotto i molteplici
profili denunciati: paesaggistico, ambientale,
idrogeologico, geologico, ecc.. Ora, non v’è dubbio
che dai documenti versati in atti emergono motivi di
perplessità in ordine alla scelta delle aree su cui
realizzare l’opera.
Si legge infatti nello “studio di fattibilità”
redatto dall’Azienda ospedaliera S. Anna di Como,
con riferimento al regime idrografico ed
idrogeologico (pag. 46 e seg., che “il tentativo
progettuale consiste nel controllo e nello
spostamento della zona a maggior energia potenziale
della confluenza dei due alvei e del tratto del Val
grande, che in relazione al regime torrentizio
dell’intero reticolo potrebbe assumere livelli di
pericolosità elevati…”; che “le valutazioni
geologiche preliminari………hanno permesso di
verificare la presenza di falde acquifere sospese
superficiali che danno livelli medi d’acqua a circa
2 metri”, con conseguente necessità di “progettazione
dei presidi tecnici di messa in sicurezza dei
manufatti, di impermeabilizzazione e soprattutto di
drenaggio…..”. Inoltre, si evidenzia la
necessità di uno “spostamento parziale dell’alveo
del Val Grande ...per la risoluzione di
problematiche di messa in sicurezza della struttura
ospedaliera”.
Anche nella relazione generale allegata alla
delibera del c.c. di Como n. 66 del 18.12.2003, con
cui è stato ratificato l’accordo di programma, si
prospettano esigenze di “intervenire sul reticolo
idrografico” (paragr. 2.3), di “controllo
della regimazione delle acque …in relazione alla
messa in sicurezza del nuovo organismo ospedaliero”
(paqr. 3.2), di interventi sulle sponde e sugli
alvei (par. 3.3.1), si evidenziano rischi di “asportazione/detrazione
di elementi naturali, biodiversità e funzionalità
ecologica” (par. 3.3.1).
In definitiva, pur nel rispetto della
discrezionalità di scelta delle aree su cui far
sorgere l’opera pubblica, emergono certamente dubbi
sulla razionalità, logicità e coerenza con il
principio di buon andamento.
Si tratta tuttavia di dubbi che non possono trovare
collocazione e soluzione in questa sede.
Infatti, secondo quanto risulta dallo stesso
preambolo dell’accordo di programma e dal citato
studio di fattibilità, la determinazione di
realizzare il nuovo ospedale sull’area in questione,
cioè Villa Giulini in località Tre Camini, risale al
lontano 2002 per effetto di due delibere della
provincia di Como, le nn. 74 e 77, nonché in sede di
determinazioni della Segreteria tecnica dell’accordo
di programma, indicati a pag. 2 delle responsabili
controdeduzioni della Regione Lombardia. Atti non
impugnati neppure in questa sede, nonostante essi
fossero agevolmente conoscibili dalle ricorrenti, le
quali non possono tardivamente formulare appunti
contro scelte di localizzazione non imputabili agli
atti qui impugnati ma a provvedimenti precedenti e
presupposti.
Sul punto vale ulteriormente osservare che, anche
per infrangere il velo della discrezionalità
amministrativa tipicamente ricollegata alle scelte
urbanistiche e di localizzazione delle opere
pubbliche e per consentire al giudice di verificare
la bontà sostanziale delle stesse scelte in
conformità al precetto costituzionale di buon
andamento, per contrastare episodi di mala gestione
dell’interesse pubblico, occorre che chi contesta il
cattivo esercizio dei predetti poteri discrezionali
fornisca quanto meno un indizio di prova che le
ubicazioni delle opere pubbliche siano state
effettuate in spregio ad ogni criterio di logicità,
coerenza, oculata gestione del denaro pubblico.
Nella specie, invece, le ricorrenti si sono limitate
a contestare, del tutto genericamente, che il nuovo
ospedale sorgerà su “un’area naturale
incontaminata, pur in presenza di una rilevante
estensione di aree dimesse (quali?, n.d.r.) nella
provincia di Como”, senza peraltro indicare dove
fossero quelle aree e la loro idoneità ad allocare,
per estensione e posizione, il nuovo polo
ospedaliero.
Naturalmente, tutto ciò non toglie che in sede di
progettazione ed esecuzione dell’opera le
amministrazioni competenti debbano osservare le
regole procedimentali e sostanziali per assicurare i
numerosi aspetti critici insiti nella realizzazione
dell’opera in questione; ma si tratta di aspetti
successivi ed eventuali al presente contenzioso, che
potranno semmai essere fatti valere nei tempi, nelle
sedi e con gli strumenti giurisdizionali più
opportuni.
Quanto, poi, alla mancanza di VIA lamentata con lo
stesso terzo motivo, è da osservare che tale momento
di valutazione dell’impatto ambientale dell’opera va
compiuto nell’ambito del procedimento progettuale
dell’opera stessa e non in momento anteriore, come è
l’accordo di programma qui impugnato, relativo alla
semplice individuazione delle caratteristiche
fondamentali dell’intervento, demandando ad una fase
successiva, rimessa essenzialmente all’azienda
ospedaliera S. Anna, le procedure di progettazione e
realizzazione dell’intervento (cfr. art. 9
dell’accordo).
Sarà quindi nella fase di progettazione che dovrà
essere affrontata e verificata la problematica
relativa alla VIA:
- art. 16, comma 4, della legge n. 109/1994 (oggi
art. 166 del Codice dei contratti pubblici di cui al
D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 ), per cui “Il progetto
definitivo individua compiutamente i lavori da
realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei
criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle
indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e
…..consiste …….nello studio di impatto ambientale
ove previsto…..”;
- art. 25 del regolamento di attuazione della citata
legge 11.02.1994, n. 109, emanato con D.P.R.
21.12.1999 n. 554, che fra i documenti componenti il
progetto definitivo indica espressamente (comma 2,
lett. f) “studio di impatto ambientale ove
previsto dalle vigenti normative ovvero studio di
fattibilità ambientale“;
- D.P.R. 12.04.1996 (oggi abrogato dall’articolo 48
del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, codice dei contratti
pubblici), recante “Atto di indirizzo e
coordinamento per l'attuazione dell'art. 40, comma
1, della L. 22.02.1994, n. 146 (legge comunitaria)",
concernente disposizioni in materia di valutazione
di impatto ambientale (si vedano in particolare gli
artt. 5, 6 e 7, nonché gli allegati al decreto,
ecc.)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 09.04.2008 n. 93 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
corretta applicazione del noto
principio «tempus regit actum»
comporta che la P.A. procedente debba considerare pure le
modifiche normative intervenute durante il procedimento
stesso e giammai che l'assetto normativo si sia
cristallizzato in via definitiva alla data dell'atto che
v’ha dato avvio.
Invero, in base a siffatto principio, gli atti ed i
provvedimenti della P.A., essendo espressione attuale
dell'esercizio di poteri rivolti al soddisfacimento di
pubblici interessi, devono uniformarsi alle norme giuridiche
vigenti nel momento in cui son posti in essere, per quanto
attiene sia ai requisiti di forma e procedimento, sia al
contenuto sostanziale delle statuizioni, stante l’immediata
operatività delle norme di diritto pubblico.
---------------
Infine, quanto al motivo C.III), dice l’appellata che
nessuna norma primaria pone un termine di decadenza nella
gestione del procedimento di AU, per cui neppure l’art. 7.2
della DGR 3029/2010 potrebbe farlo.
La deduzione non convince, perché si tratta d’una norma
transitoria che deroga al noto principio «tempus regit
actum» nel procedimento amministrativo.
La corretta applicazione di esso comporta che la P.A.
procedente debba considerare pure le modifiche normative
intervenute durante il procedimento stesso e giammai che
l'assetto normativo si sia cristallizzato in via definitiva
alla data dell'atto che v’ha dato avvio (arg. ex Cons. St.,
IV, 13.04.2016 n. 1450).
Invero, in base a siffatto principio, gli atti ed i
provvedimenti della P.A., essendo espressione attuale
dell'esercizio di poteri rivolti al soddisfacimento di
pubblici interessi, devono uniformarsi alle norme giuridiche
vigenti nel momento in cui son posti in essere, per quanto
attiene sia ai requisiti di forma e procedimento, sia al
contenuto sostanziale delle statuizioni, stante l’immediata
operatività delle norme di diritto pubblico (cfr., per
tutti, Cons. St., IV, 14.01.2016 n. 83).
Il che è come dire che, nella specie ed ove non vi fosse
detta regola transitoria, la DGR 3029/2013 avrebbe trovato
diretto ingresso, in base alla l.r. 31/2008, nel
procedimento de quo perché ancora pendente
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.08.2016 n. 3536 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Una volta pagata la somma determinata a titolo di oblazione
si ottiene la sanatoria (ordinaria) e la conseguente estinzione del
reato. Di talché, non è più possibile contestare innanzi al
giudice amministrativo l’ammontare della somma in questione.
Quanto corrisposto dalla ricorrente è avvenuto a titolo di
oblazione, secondo le previsioni di cui agli artt. 36, comma
2, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 17, comma 3, della legge
regionale n. 23 del 2004.
Sicché, l’oblazione non è un semplice adempimento
pecuniario, ma consiste in un negozio giuridico unilaterale,
processuale o extraprocessuale, produttivo di effetti di
diritto pubblico, nel senso che il relativo pagamento
implica il riconoscimento dell’illecito con conseguente
rinuncia irretrattabile alla garanzia giurisdizionale.
Di conseguenza “la somma pagata non è ripetibile ed è
irrilevante qualunque riserva fatta a tal fine, essendo
semmai onere dell’interessato quello di far valere le
proprie ragioni di fronte al giudice amministrativo prima di
corrispondere la somma richiesta”.
Pertanto, una volta pagata la somma determinata a titolo di
oblazione si ottiene la sanatoria e la conseguente
estinzione del reato; a tal punto non è più possibile
contestare innanzi al giudice amministrativo l’ammontare
della somma in questione, atteso che, da un punto di vista
prettamente giuridico, il procedimento di sanatoria
presuppone l’adesione volontaria del soggetto interessato,
che presta la propria acquiescenza alla determinazione
dell’Amministrazione.
---------------
FATTO
Con ricorso notificato in data 30.10.2007 e depositato
il 9 novembre successivo, la società ricorrente ha impugnato
il provvedimento comunale prot. n. 20658/07 del 31.07.2007 con il quale le è stata richiesta l’integrazione degli
oneri di urbanizzazione, unitamente alla delibera della
Giunta comunale n. 5 del 25.01.2005 in parte qua,
nonché alla delibera comunale n. 75 del 05.05.1998 e alla
delibera del Consiglio Regionale n. 849 del 04.03.1998,
chiedendo il conseguente accertamento della non debenza di
alcun onere accessorio integrativo in ordine all’intervento
edilizio realizzato da essa ricorrente con D.I.A., prot.
5103 del 19.02.2007, e la restituzione di quanto
corrisposto.
La società ricorrente ha costruito un capannone in seguito
all’acquisto di un terreno su cui insisteva un precedente
fabbricato di cui era stata autorizzata la demolizione e la
conseguente non fedele ricostruzione dello stesso; tuttavia
in fase di costruzione si provvedeva a modificare quanto
stabilito in progetto –realizzando una unica unità
immobiliare al posto delle due inizialmente previste– e
quindi alla fine dei lavori veniva presentata una D.I.A. in
sanatoria accompagnata dal pagamento di una sanzione pari ad
€ 500,00.
In sede di verifica in ordine all’esatta
applicazione degli oneri di urbanizzazione, il Comune ha
stabilito che vi fosse da corrispondere una somma ulteriore
pari ad € 16.821,10, che la ricorrente ha provveduto a
versare al fine di ottenere l’agibilità del fabbricato,
anche se successivamente con il ricorso proposto nella
presente sede ne ha contestato la debenza.
A giudizio della ricorrente il provvedimento di integrazione
degli oneri di urbanizzazione, unitamente alle delibere allo
stesso presupposte, sarebbe illegittimo, in primo luogo, per
violazione di legge dell’art. 107, secondo comma, lett. a,
del TU n. 267 del 2000 e degli artt. 5 e 6 della legge n.
241 del 1990, in quanto lo stesso sarebbe stato sottoscritto
da un soggetto non appartenente alla qualifica dirigenziale,
ma impiegatizia.
Ulteriormente, vengono dedotti la violazione dell’art. 10
della legge regionale n. 31 del 2002 e dell’art. 38 del
Regolamento Edilizio, dell’art. 97 della Cost. e dell’art. 1
della legge n. 241 del 1990; la violazione degli artt. 27 e
28 della legge regionale n. 31 del 2002 e degli artt. 3, 5 e
10 della legge n. 10 del 1977, ora art. 16 del D.P.R. n. 380
del 2001, l’eccesso di potere per falso ed erroneo
presupposto di fatto e di diritto, per travisamento ed
illogicità, ingiustizia manifesta, contraddittorietà,
difetto di istruttoria; illegittimità della delibera n. 5
del 25.01.2005, ed eventualmente anche della delibera
giuntale n. 75 del 05.05.1998, in quanto emessa in
violazione dei criteri generali precisati nella delibera
giuntale n. 39 del 23.06.1998; violazione di legge per
contrasto tra le delibere comunali n. 5 del 25.01.2005,
ed eventualmente anche della delibera giuntale n. 75 del 05.05.1998, e n. 39 del 23.06.1998 e gli artt. 27 e 28
della legge regionale n. 31 del 2002, il difetto di
motivazione, la violazione dell’art. 3 della legge n. 241
del 1990: il pagamento dell’ulteriore integrazione sarebbe
dovuto ad una violazione procedimentale dell’amministrazione
che non avrebbe consentito di presentare la D.I.A. prima
dell’ultimazione dei lavori, come era nelle intenzioni della
ricorrente e, comunque, si sarebbe trattato di variazione in
diminuzione del progetto originario, attraverso
l’eliminazione di un muro divisorio, di una scala, di una
zona uffici e dei servizi igienici, che avrebbe determinato
un minore carico urbanistico, non assoggettabile ad alcun
ulteriore pagamento.
Ugualmente illegittima risulterebbe la
delibera comunale n. 5 del 2005 laddove, in contrasto con
altre deliberazioni della stessa Amministrazione comunale,
prevede che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti
indipendentemente dalla circostanza che l’intervento di
ristrutturazione determini un aumento del carico
urbanistico.
Infine, vengono eccepiti la violazione dell’art. 17 della
legge regionale n. 23 del 2004, l’eccesso di potere per
falso ed erroneo supposto di fatto e di diritto, per
travisamento ed illogicità, per ingiustizia manifesta, per
contraddittorietà per difetto di motivazione e per
violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, in
quanto la norma posta a supposto della determinazione
impugnata farebbe riferimento al pagamento di una oblazione
nella misura di € 500,00, già corrisposta dalla ricorrente.
Si è costituito in giudizio il Comune di Calderara di Reno,
che ha chiesto il rigetto del ricorso.
In prossimità dell’udienza di trattazione del merito della
controversia, i difensori della parti hanno prodotto delle
memorie e dei documenti a sostegno delle rispettive
posizioni; la difesa del Comune ha altresì eccepito
l’inammissibilità del ricorso per acquiescenza, cui la
difesa della ricorrente ha replicato, chiedendo la reiezione
dell’eccezione.
Alla pubblica udienza del 20.04.2016, su conforme
richiesta dei difensori delle parti, il ricorso è stato
trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. La ricorrente, dopo aver terminato la costruzione di cui
al permesso di costruire rilasciato alla sua dante causa in
data 04.03.2004 e volturato in propri favore il 16.12.2004 (all. 2 al ricorso), ha presentato una D.I.A.
in sanatoria ai sensi degli artt. 36 del D.P.R. n. 380 del
2001 e 17 della legge regionale n. 23 del 2004 (all. 4 al
ricorso) per alcune variazioni intervenute in fase di
realizzazione dell’intervento edilizio rispetto a quanto
previsto nel progetto approvato.
Trattandosi di variazioni
essenziali, anche se non determinanti un aumento del carico
urbanistico, ma una sua diminuzione, il Comune ha provveduto
a calcolare la misura dell’oblazione secondo la normativa
regionale e comunale all’epoca vigente.
La parte ricorrente ha in un primo momento provveduto a
corrispondere quanto previsto dal Comune e in tal modo ha
ottenuto il permesso in sanatoria (all. 9 e 12 al ricorso);
successivamente, attraverso la proposizione del ricorso
oggetto di scrutinio nella presente sede, ha contestato la
determinazione comunale con cui è stata determinata la
misura dell’oblazione.
Va evidenziato che quanto corrisposto dalla ricorrente è
avvenuto a titolo di oblazione, secondo le previsioni di cui
agli artt. 36, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 17,
comma 3, della legge regionale n. 23 del 2004.
Come sostenuto da condivisibile giurisprudenza, l’oblazione
non è un semplice adempimento pecuniario, ma consiste in un
negozio giuridico unilaterale, processuale o
extraprocessuale, produttivo di effetti di diritto pubblico,
nel senso che il relativo pagamento implica il
riconoscimento dell’illecito con conseguente rinuncia
irretrattabile alla garanzia giurisdizionale (cfr. Cass.
civ., I, 24.04.1979, n. 2319).
Di conseguenza “la somma
pagata non è ripetibile ed è irrilevante qualunque riserva
fatta a tal fine, essendo semmai onere dell’interessato
quello di far valere le proprie ragioni di fronte al giudice
amministrativo prima di corrispondere la somma richiesta”
(Consiglio di Stato, IV, 07.06.2012, n. 3371; altresì, V,
05.07.2007, n. 3821; TAR Campania, Salerno, I, 13.05.2015, n. 980; TAR Lombardia, Milano, IV, 28.05.2009, n. 3865).
Pertanto, una volta pagata la somma determinata a titolo di
oblazione si ottiene la sanatoria e la conseguente
estinzione del reato; a tal punto non è più possibile
contestare innanzi al giudice amministrativo l’ammontare
della somma in questione, atteso che, da un punto di vista
prettamente giuridico, il procedimento di sanatoria
presuppone l’adesione volontaria del soggetto interessato,
che presta la propria acquiescenza alla determinazione
dell’Amministrazione (TAR Sicilia, Palermo, III, 31.03.2011, n. 610).
2.1. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile per intervenuta acquiescenza (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 28.06.2016 n. 654 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
Combustione/abbruciamento di residui vegetali di origine
agricola e/o forestale - Precisazioni
(Corpo Forestale dello Stato, Comando Provinciale di Lecco,
nota 18.07.2016 n. 3012 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Disciplina della cessazione della qualifica di
rifiuto - Applicazione dell’articolo 184-ter Dlgs 03.04.2006
n. 152 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
nota 01.07.2016 n. 10045 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
G.U. 23.08.2016 n. 196 "Testo
del decreto-legge 30.06.2016, n. 117, coordinato con la
legge di conversione 12.08.2016, n. 161, recante:
«Proroga di termini previsti da disposizioni legislative in
materia di processo amministrativo telematico»". |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 23.08.2016 n. 196 "Approvazione di norme tecniche di
prevenzione incendi per le attività ricettive
turistico-alberghiere, ai sensi dell’articolo 15 del decreto
legislativo 08.03.2006, n. 139" (Ministero
dell'Interno,
decreto 09.08.2016). |
ENTI
LOCALI: G.U.
20.08.2016 n. 194 "Testo
del decreto-legge 24.06.2016, n. 113, coordinato con la
legge di conversione 07.08.2016, n. 160,
recante: «Misure finanziarie urgenti per gli enti
territoriali e il territorio»". |
APPALTI: G.U.
18.08.2016 n. 192 "Regolamento per l’esercizio della
funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale
anticorruzione ai sensi della legge 06.11.2012, n. 190 e dei
relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui
all’art. 211 del decreto stesso" (A.N.AC.,
provvedimento 20.07.2016). |
SICUREZZA LAVORO: G.U.
18.08.2016 n. 192 "Attuazione della direttiva
2013/35/UE sulle disposizioni minime di sicurezza e di
salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi
derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici) e che
abroga la direttiva 2004/40/CE" (D.Lgs.
01.08.2016 n. 159). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 16.08.2016 n. 190 "Approvazione dello schema tipo
dello Statuto del Consorzio nazionale per il riciclaggio di
rifiuti di beni in polietilene" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 29.07.2016). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Linee guida in materia di accertamento delle
inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi
amministrativi da parte del responsabile della prevenzione
della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di
accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi inconferibili
e incompatibili (determinazione
03.08.2016 n. 833 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Indice
1. Il quadro normativo
2. Ruolo e funzioni del Responsabile della prevenzione della
corruzione nel procedimento di accertamento delle
inconferibilità e delle incompatibilità
3. Attività di verifica del RPC sulle dichiarazioni
concernenti la insussistenza di cause di inconferibilità o
incompatibilità
4. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’ANAC
in caso di incarichi inconferibili e incompatibili
5. Il mancato adeguamento da parte del RPC all’accertamento
dell’ANAC e il potere di ordine dell’Autorità |
APPALTI:
Regolamento per l’esercizio della funzione consultiva
svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della
Legge 06.11.2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e
ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, al di
fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso (regolamento
20.07.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Lucca,
Trasparenza
informativa, diritto di accesso e diritto di cronaca (note a
margine di Cons. Stato, sez. IV, sentenza 12.08.2016, n.
3631)
(18.08.2016 - link a www.lexitalia.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
R. Dipace,
La resistenza degli interessi sensibili nella nuova
disciplina della conferenza di servizi
(10.08.2016 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione; 2. Il problema della
“resistenza” degli interessi sensibili; 3. Gli interessi
sensibili, la omessa o inammissibile dichiarazione di
volontà e il silenzio-assenso; 4. La innovativa disciplina
dei dissensi qualificati; 5. Considerazioni conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E. Scotti,
La nuova disciplina della conferenza di servizi tra
semplificazione e pluralismo (10.08.2016
- tratto da www.federalismi.it).
----------------
Sommario: 1. Il problema della conferenza di
servizi - 1.1 L’autonomia dell’amministrazione - 1.2 La
necessaria semplificazione sostanziale - 1.3 Bilanciamento
degli interessi e semplificazioni. L’occasione (perduta) per
ripensare il coordinamento - 2. Spunti critici sulle
principali novità. – 2.1 La conferenza semplificata (o
silenzio-assenso tra amministrazioni per le decisioni
semplici?) – 2.2 Le semplificazioni della conferenza
simultanea – 2.2.1 La riduzione dei termini procedimentali –
2.2.2 Il rappresentante unico delle amministrazioni statali
e regionali – 2.2.3 Il rafforzamento del ruolo
dell’amministrazione procedente. Autotutela e
depotenziamento degli interessi sensibili – 2.2.4 La
partecipazione - 3. Considerazioni di sintesi. |
APPALTI:
S. Licciardello,
Prime note sulla funzione di regolazione dell'ANAC nel nuovo
codice degli appalti (10.08.2016
- tratto da www.federalismi.it). |
APPALTI:
A. Ilacqua,
LA SORTE DEL CONTRATTO A SEGUITO DELL’ANNULLAMENTO
DELL’AGGIUDICAZIONE: PROBLEMATICHE RELATIVE ALLA
GIURISDIZIONE
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2016).
----------------
L’autore si sofferma su uno dei temi più scottanti del
diritto amministrativo, processuale e sostanziale:
l’esistenza e la sorte del contratto stipulato sulla base di
un provvedimento di aggiudicazione annullato dal giudice
amministrativo. E ciò ponendo l’attenzione su entrambi i
profili centrali del tema e del dibattito: il riparto di
giurisdizione e le forme di invalidità e/o inefficacia del
contratto. In questo contesto, l’Autore mette in rilievo le
varie interrelazioni esistenti tra l’invalidità degli atti
amministrativi che compongono le procedure di aggiudicazione
e i contratti a valle.
---------------
Sommario: 1. Introduzione. - 2. La tesi
dell’annullabilità. - 3. La tesi della nullità. - 4. La tesi
dell'inefficacia. - 5. La tesi della caducazione automatica.
- 6. Il riparto di giurisdizione. - 7. La Direttiva
66/2007/CEE. - 8. Il vizio del contratto stipulato a seguito
di un’aggiudicazione illegittima dopo la Direttiva
66/2007/CE. - 9. L’inefficacia del contratto alla luce del
D.lgs. n. 53/2010 e del nuovo Codice del processo
amministrativo. - 10. Le prime applicazioni dei giudici
amministrativi. - 11. Conclusioni. |
APPALTI:
P. Turco,
LA VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2016).
----------------
La valorizzazione dei beni culturali: fonti, principi e
indirizzi giurisprudenziali.
---------------
Sommario: 1. Definire il concetto di valorizzazione.
- 2. La Costituzione ed il Codice dei beni culturali e del
paesaggio. - 3. Le posizioni della giurisprudenza. - 4.
Conclusioni. |
APPALTI:
A. Grappelli,
I COSTI INTERNI AZIENDALI SULLA SICUREZZA SUL LAVORO DEVONO
ESSERE INDICATI NELLE OFFERTE ECONOMICHE ANCHE NELLE GARE DI
APPALTO DI LAVORI, LA LORO OMISSIONE NON È SANABILE NEANCHE
MEDIANTE IL SOCCORSO ISTRUTTORIO
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2016).
----------------
Con il presente commento si affronta, nei suoi aspetti
peculiari, il tema degli oneri di sicurezza nel settore
degli appalti, in particolare il Consiglio di Stato è dovuto
intervenire nel 2015 con due Adunanze Plenarie (n. 3 del
20.03.2015 e la n. 9 del 02.11.2015) per chiarire
l’orientamento interpretativo della normativa di settore
(cfr. art. 87, co. 4, del Codice appalti), ed in particolare
sull’obbligo che tutti i partecipanti alle gare di appalto
di lavori devono rispettare. I Giudici dell’Alta Corte
chiariscono altresì che i concorrenti devono rispettare tale
obbligo a prescindere che lo stesso sia stato esplicitato o
meno nella lex specialis di gara quindi dovranno sempre
essere indicati nella offerta economica anche i costi
interni per la sicurezza del lavoro ed in caso di omessa
indicazione di tali oneri non si potrà ricorrere
all’istituto del soccorso istruttorio per sanarne
l’omissione.
---------------
Sommario: 1. L’evoluzione interpretativa della
giurisprudenza sugli oneri di sicurezza nel settore degli
appalti di lavori dall’Adunanza Plenaria n. 3/2015 alla n.
9/2015. - 2. L’Adunanza plenaria n. 9 del 02.11.2015. - 3.
Conclusioni. |
APPALTI SERVIZI:
M. Dell'Unto,
LINEE GUIDA PER L’AFFIDAMENTO DI SERVIZI A ENTI DEL TERZO
SETTORE E ALLE COOPERATIVE SOCIALI
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2016).
----------------
Deliberazione n. 32 del 20.01.2016 dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione. Sulle regole da seguirsi per
l’affidamento dei servizi e delle forniture nell’ambito del
terzo settore e delle cooperative sociali.
----------------
Sommario: 1. Premessa. - 2. La concorrenza nel
settore dei servizi sociali. - 3. La programmazione degli
interventi da realizzare. - 4. La co-progettazione. - 5.
Modalità di erogazione dei servizi sociali. - 5.1
Autorizzazione e accreditamento. - 5.2. Le convenzioni con
le associazioni di volontariato. - 5.3. L’acquisto di
servizi e prestazioni dagli organismi no-profit. - 5.4
L’affidamento della gestione dei servizi alla persona. - 6.
Gli affidamenti dei servizi e delle forniture nel settore
dell’accoglienza ai richiedenti e titolari di protezione
internazionale. - 7. Gli affidamenti alle cooperative
sociali. - 8. Oggetto della prestazione. Il valore economico
del servizio. - 9. I requisiti dell’erogatore del servizio.
- 10. Controlli. - 11. Proroghe e rinnovi. La clausola
sociale. 12. Gli obblighi in materia di trasparenza e
anticorruzione. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L. Petrucci e G. Vasaturo,
IL TENTATO FURTO DI BENI DI MODICO VALORE ALL’INTERNO DI
UN’“ISOLA ECOLOGICA” COMUNALE NON È PUNIBILE: PRIME
APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEL NUOVO ART. 131-BIS C.P.
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2016).
----------------
La problematica relativa ai furti di beni di modico
valore: spunti di riflessione sulle prime applicazioni
giurisprudenziali.
---------------
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Conclusioni. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
F. R. Marcacci Balestrazzi,
L’ETERNO DILEMMA CIRCA LA DISTINZIONE FRA RIFIUTI O
SOTTOPRODOTTI. IL CASO SPECIFICO DEI RESIDUI DI PRODUZIONE E
L’INTERVENTO ESPLICATIVO DELLA SUPREMA CORTE (SENT. CASS.
PEN. SENTENZA N. 40109/2015)
(Gazzetta Amministrativa
n. 1/2016).
----------------
Il sottoprodotto non necessita di essere sottoposto al
trattamento di recupero, altrimenti non rivestirebbe le
caratteristiche merceologiche e ambientali che lo connotano
sin dall'origine, e che lo qualificano come tale,
contrapponendolo e distinguendolo dal “rifiuto”. Ma, al
contempo, non è più richiesto, in modo rigoroso che il
sottoprodotto sia utilizzato “tal quale” in quanto sono
permessi trattamenti minimi, rientranti nella normale
pratica industriale. Ove i residui della produzione
industriale siano “ab origine” classificati da chi li
produce come rifiuti, gli stessi devono ritenersi sottratti
alla normativa derogatoria prevista per i sottoprodotti come
definiti dall'art. 184-bis, T.U. ambiente, in quanto la
classificazione operata dal produttore esprime quella
volontà di disfarsi degli stessi idonea a qualificarli come
"rifiuti" in base all'art. 183, comma primo, lett. a), del
citato decreto.
---------------
Sommario: 1. Breve introduzione circa l’utilizzo
efficiente delle risorse nelle politiche europee. - 2.
Disciplina normativa di riferimento. - 3. Il sottoprodotto
visto come materiale non coinvolto nel processo produttivo.
- 4. L’intervento innovatore della Cassazione penale,
applicato al caso di specie. - 5. Conclusioni. |
CORTE DEI CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla
possibilità da parte del Comune, privo di un servizio
interno di avvocatura, di affidare annualmente un appalto
per l’affidamento dello svolgimento del servizio di
assistenza legale “che si sostanzi in un servizio di
consulenza legale oltre che di patrocinio dell’ente nelle
possibili vertenze che possano coinvolgere l’Ente in sede
civile, amministrativa, tributaria ed anche penale".
Questa Sezione non può fornire indicazioni
puntuali sul versante gestionale, esprimendosi sul quesito
nei termini formulati dall’Ente, per dirimere il dubbio
relativo alla conferibilità in concreto di appalti annuali
per l’affidamento dei servizi di rappresentanza e consulenza
legale al di fuori delle garanzie previste dal codice dei
contratti pubblici per i servizi “non esclusi”,
trattandosi di questione la cui soluzione si presenta
prodromica all’adozione di concreti atti gestionali, la cui
valutazione spetta alla specifica attribuzione dei
competenti organi comunali (organi politici coadiuvati ex
art. 97 del T.U.E.L. dagli organi gestionali dell’Ente).
----------------
PREMESSO
che con nota indicata in epigrafe, non inoltrata a questa
Sezione tramite il C.A.L., il Sindaco del Comune di
Bracciano (RM) formulava richiesta di parere in ordine alla
possibilità da parte del Comune, privo di un servizio
interno di avvocatura, di affidare annualmente un appalto
per l’affidamento dello svolgimento del servizio di
assistenza legale “che si sostanzi in un servizio di
consulenza legale oltre che di patrocinio dell’ente nelle
possibili vertenze che possano coinvolgere l’Ente in sede
civile, amministrativa, tributaria ed anche penale là dove
si configuri l’opportunità che il Comune di Bracciano si
costituisca parte civile nell’ambito di procedimenti penali”.
A tal fine precisava che l’art. 17 del D.Lgs. n. 50/2016
(codice dei contratti pubblici) esclude gli appalti
concernenti i servizi legali anche di consulenza
dall’applicazione delle disposizioni del codice e,
trattandosi di servizi “esclusi”, pare consentire il
conferimento del patrocinio e della consulenza legale
attraverso un appalto di servizio, da effettuarsi in
applicazione dell’art. 4 del D.Lgs. n. 50/2016 e nel
rispetto dei principi da esso elencati.
Concludeva, pertanto, chiedendo se fosse legittimo
per l’Ente procedere all’affidamento di un appalto annuale
di servizi di rappresentanza e consulenza legali in
applicazione dell’art. 4 del D.Lgs. n. 50/2016, al fine di
velocizzare e semplificare l’azione amministrativa, “senza
incorrere nel rischio di successive censure e/o contenziosi”.
CONSIDERATO
che le Sezioni Regionali di controllo della Corte dei Conti
sono investite, ex art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003,
del potere di rendere pareri, ma che l’esercizio di siffatta
funzione consultiva è subordinato alla previa verifica in
concreto della coesistenza di due noti requisiti di
ammissibilità: la legittimazione soggettiva dell’organo
richiedente, che deve essere il legale rappresentante pro
tempore di uno degli Enti previsti dalla L. n. 131 del 2003
e, sotto il profilo oggettivo, l’attinenza del quesito
prospettato alle materie di contabilità pubblica.
Nel caso di specie, relativamente alla sussistenza del profilo soggettivo,
la richiesta di parere è ammissibile, in quanto presentata a
firma del Sindaco pro-tempore, soggetto munito di generali
poteri di rappresentanza politico-istituzionale e dunque
legittimato ad esprimere la volontà e ad impegnare l’Ente
locale verso l’esterno (art. 50 TUEL).
Occorre comunque segnalare che la richiesta di parere è
stata inoltrata a codesta Sezione direttamente dal Comune a
mezzo PEC, senza seguire la vigente procedura, che ne
prescrive l’invio di norma per il tramite del Consiglio
delle Autonomie Locali (C.A.L.), previsto dall’art. 123,
comma 4, Cost. ed istituito dall’art. 66 dello Statuto della
Regione Lazio, nonché disciplinato -nei suoi profili
attuativi- dalla legge regionale n. 1/2007, organo del quale
-da tempo- la Sezione sollecita il concreto svolgimento
della funzione di “filtro” attribuitagli a livello
ordinamentale e ribadita dalla Sezione delle Autonomie (delib.
n. 13/AUT/07), per agevolare la pronta ed omogenea
risoluzione delle questioni interpretative di contabilità
pubblica nell’ambito del territorio regionale di
riferimento.
Sotto il profilo oggettivo, invece, la richiesta di parere
verte su questione avente per oggetto l’interpretazione di
due norme del codice dei contratti pubblici: gli articoli 4
e 17 del D.Lgs. n. 15 del 2016, di cui appare quanto meno
dubbia la riconducibilità alla materia della “contabilità
pubblica”, al fine di poter ritenere esercitabile la
funzione consultiva, pur essendo foriera la loro
applicazione in termini diversi da parte dell’Ente di
probabili effetti finanziari riflessi.
Occorre preliminarmente ricordare che la nozione di
contabilità pubblica che rileva nell’esercizio della
funzione consultiva è, com’è noto, più ristretta di quella
generale, anche considerato che la funzione consultiva di
cui al comma 8 dell’art. 7 della legge n. 131/2003 deve
essere in ogni caso ricollegata al precedente comma 7, che
attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare
il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento
degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di
principio e di programma, nonché la sana gestione
finanziaria degli Enti locali. Sul punto, sono anzitutto di
ausilio gli indirizzi ed i criteri generali elaborati dalla
Sezione delle Autonomie della Corte dei conti ed
esplicitati, in particolare, nell’atto di indirizzo del
27.04.2004, nonché nella deliberazione n. 5/AUT/2006 del
10.03.2006.
In quest’ultima, premesso che la funzione consultiva della
Corte non può “investire qualsiasi attività degli enti
che abbia comunque riflessi di natura
finanziaria-patrimoniale…con l’ulteriore conseguenza che le
sezioni regionali di controllo della Corte dei conti
diventerebbero organi di consulenza generale delle autonomie
locali”, si è voluto restringere l’ambito oggettivo
della nozione di contabilità pubblica, limitandolo alla
normativa disciplinante, in generale, l’attività finanziaria
che precede o che segue i distinti interventi di settore,
compresi, in particolare, la disciplina dei bilanci ed i
relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate,
l’organizzazione finanziario-contabile, la disciplina del
patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la
rendicontazione ed i relativi controlli.
Al riguardo, le Sezioni Riunite della Corte dei conti,
intervenendo qualche anno dopo con una pronuncia in sede di
coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 17,
co. 31, del D.L. 01.07.2009, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, hanno
delineato un concetto unitario di contabilità pubblica,
incentrato sulla tradizionale nozione di “sistema di
principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e
patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici”, da
integrarsi in senso dinamico, ossia da intendersi “in
continua evoluzione in relazione alle materie che incidono
direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui
pertinenti equilibri di bilancio”.
Tale accezione dinamica della “contabilità pubblica”
pare consentire un ampliamento dell’angolo visuale rispetto
al tradizionale contesto della gestione del bilancio,
giungendo ad attrarre nell’orbita dell’attività consultiva
della Corte ulteriori materie, che ne resterebbero
altrimenti estranee, ma che vengono ad esservi ricomprese,
in quanto afferenti ad aspetti che implicano problematiche
interpretative inerenti a statuizioni recanti limiti e
divieti “strumentali al raggiungimento degli specifici
obiettivi di contenimento della spesa ed idonei a
ripercuotersi sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e
sui relativi equilibri di bilancio” (SS.RR. delibera n.
54, del 17.11.2010).
Ne discende che –allo stato– sono suscettibili di essere
esaminate in sede consultiva, non soltanto le questioni
tradizionalmente riconducibili al concetto di contabilità
pubblica intesa come sistema di principi e di norme che
regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e
degli Enti pubblici, ma “anche quelle materie che
risultano connesse alle modalità di utilizzo delle risorse
pubbliche nel quadro di specifici obiettivi di contenimento
della spesa sanciti dai principi di coordinamento della
finanza pubblica ed in grado di ripercuotersi direttamente
sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui pertinenti
equilibri di bilancio” (come ribadito, anche
successivamente, da SS.RR., delibera n. 14 dell’08.03.2011).
La Sezione Autonomie ha operato ulteriori precisazioni
rilevando come, pur costituendo la materia della contabilità
pubblica “una categoria concettuale estremamente ampia”,
i criteri utilizzabili per valutare ammissibile, sotto il
profilo oggettivo, una richiesta di parere possono essere,
oltre al “riduttivo ed insufficiente…criterio dell’eventuale
riflesso finanziario di un atto…sul bilancio dell’ente”,
anche l’attinenza del quesito proposto “ad una competenza
tipica della Corte dei conti in sede di controllo sulle
autonomie territoriali” (deliberazione n. 3/2014/SEZAUT).
Competenza tipica che -in relazione alla materia degli
appalti pubblici disciplinata dall’apposito codice (D.Lgs.
n. 15/2016)- non si rinviene, trattandosi di profili
pertinenti e riconducibili ad altri organi e plessi
giudiziari.
È appena il caso di osservare che il sindacato di
legittimità sulle delibere di conferimento di servizi
legali, anche in assenza di selezione pubblica è devoluto
alla giurisdizione del G.A. (in tal senso, espressamente,
Tar Campania, Salerno, sez. II – Sentenza 16.07.2014 n.
1383), per cui ove si opinasse diversamente si creerebbe
anche il rischio di interferenza nel senso che, ove fosse
reso, il parere potrebbe giungere ad interferire con
l’esercizio delle funzioni giurisdizionali demandate per
legge ad altri ordini magistratuali.
Ciò posto, deve anche ribadirsi che la funzione consultiva
non può svolgersi in ordine a quesiti concreti che
implichino valutazioni di comportamenti amministrativi
riservati al giudizio discrezionale dell’Ente e ciò
all’evidente fine sia di tutelare l’autonomia decisionale
dell’amministrazione, sia di mantenere la necessaria
posizione di neutralità e di indipendenza della Corte dei
conti.
Possono rientrare nella funzione consultiva della Corte dei
Conti le sole questioni volte ad ottenere l’esame, da un
punto di vista astratto e generale, di una normativa
contabile al fine di dirimerne un dubbio ermeneutico,
dovendo quindi ritenersi inammissibili le richieste
concernenti valutazioni su casi o atti gestionali specifici
o in cui difetta -come nel caso specifico- la sussistenza di
un dubbio ermeneutico da sciogliere sotto il profilo
giuscontabilistico.
Non è possibile, pertanto, scendere in valutazioni
suscettibili di determinare un’ingerenza nella discrezionale
attività dell’Ente, né l’ausilio consultivo può tramutarsi
in una sorta di autorizzazione preventiva a provvedere
idonea ad esonerare da responsabilità
amministrativo-contabile o di altro genere. Ciò in quanto è
d’uopo ribadire che il limite conformativo della funzione
consultiva esclude qualsiasi possibilità di interferenza con
la concreta attività gestionale ed amministrativa ricadente
nell’esclusiva competenza dell’Ente locale.
Questa Sezione,
perciò, non può fornire indicazioni
puntuali sul versante gestionale, esprimendosi sul quesito
nei termini formulati dall’Ente, per dirimere il dubbio
relativo alla conferibilità in concreto di appalti annuali
per l’affidamento dei servizi di rappresentanza e consulenza
legale al di fuori delle garanzie previste dal codice dei
contratti pubblici per i servizi “non esclusi”,
trattandosi di questione la cui soluzione si presenta
prodromica all’adozione di concreti atti gestionali, la cui
valutazione spetta alla specifica attribuzione dei
competenti organi comunali (organi politici coadiuvati ex
art. 97 del T.U.E.L. dagli organi gestionali dell’Ente)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio,
parere 01.08.2016 n. 97). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Sulla
erogazione dell'incentivo per l’attività di manutenzione
del verde pubblico e per il servizio di raccolta
differenziata affidata a ditte o società esterne,
secondo una pratica consolidata nel tempo ma censurata dalla
procura regionale in quanto palesemente arbitraria e
contraria all’interpretazione data alla suddetta norma dalla
stessa Corte dei Conti che dalla giurisprudenza
amministrativa e dalla stessa Autorità di vigilanza sui
lavori pubblici.
Nessun dubbio può sussistere in merito alla responsabilità dei convenuti per il
danno patrimoniale arrecato all’Ente di appartenenza,
consistente nella percezione e/o erogazione indebita dei
compensi, relativamente agli appalti di servizi di
manutenzione del verde pubblico e della raccolta
differenziata “porta a porta”, secondo quanto costantemente
ritenuto dalla stessa giurisprudenza di questa Corte dei
Conti in fattispecie analoghe e dalla stessa Autorità di
Vigilanza.
I responsabili del settore tecnico
hanno posto in essere una condotta contraria a precisi
dettati normativi e regolamentari, consistita
nell’erogazione degli incentivi di progettazione per appalti
di servizi e non già per l’esecuzione di lavori pubblici,
compensi determinati, tra l’altro, non già sull’importo a
base d’asta ma sulle singole fatture dei lavori.
Nessuna giustificazione può essere considerata da questo
Collegio ove si consideri che -se anche si volesse
prescindere dalla qualificazione dell’elemento soggettivo
come dolo- si appalesano comunque particolarmente gravi le
condotte tenute dagli odierni convenuti, tenuto conto della
specifica professionalità di ciascuno di essi e degli
incarichi da essi ricoperti nell’ambito dell’Area I^ Servizi
LL.PP., situazioni che avrebbero consentito a ciascuno di
essi di applicare correttamente il beneficio di che trattasi
con esclusione degli appalti di servizi stipulati dal
Comune.
---------------
1. La domanda nei termini prospettati dall’attore è
incentrata sulla indebita percezione e/o erogazione dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 92, 5° c., del D.lgs. 163/2006, con riferimento ai servizi di manutenzione
del verde pubblico e della raccolta differenziata appaltati
dal Comune di Palmi, nel periodo 2009-2012.
L’art. 92 del Codice dei contratti pubblici rubricato
“Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a
disposizione delle stazioni appaltanti”, contiene una serie
di disposizioni volte a disciplinare l’assegnazione di
specifici incentivi, che assolvono alla finalità di
valorizzare le professionalità interne all’ente e di
incrementarne la produttività.
L’Autorità di Vigilanza, con il
parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10, ha chiarito che
l’incentivo
“assolve alla funzione di compensare i progettisti
dipendenti dell’amministrazione che abbiano in concreto
effettuato la redazione degli elaborati progettuali.”
La ratio legis è di favorire
l’ottimale utilizzo delle professionalità interne a ogni
amministrazione e di assicurare un risparmio di spesa sugli
oneri che l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare
all’esterno gli incarichi. L’incentivo, infatti, può essere
corrisposto al solo personale dell’ente che abbia
materialmente redatto l’atto e ciò in funzione incentivante
e premiale per l’espletamento di servizi propri dell’ufficio
pubblico (C.
Conti, Sez. controllo, Veneto,
parere 26.07.2011 n. 337).
Al riguardo, il Collegio evidenzia che elementi utili ai
fini del decidere possono essere tratti dagli arresti
giurisprudenziali di questa Corte che, in sede di controllo,
ha individuato l’ambito soggettivo ed oggettivo di
applicazione della suddetta disposizione (cfr. fra le altre,
Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290, Sezione
Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57 e
parere 30.05.2012 n. 259; Sez. Piemonte
parere 21.05.2014 n. 97, segnalandosi da ultimo
le deliberazioni Sezione Piemonte,
parere 16.01.2014 n. 8
e
parere 17.03.2014 n. 44).
La giurisprudenza citata, dopo aver ricordato la preferenza
per l’attività di progettazione svolta all’interno
dell’amministrazione ed il principio di onnicomprensività
della retribuzione del pubblico dipendente, ha rilevato come
l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, deroghi ai principi
di onnicomprensività e determinazione contrattuale della
retribuzione del dipendente pubblico e, come tale,
costituisca un’eccezione di stretta interpretazione, per la
quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12
delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso
Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008, Sezione Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119, Sezione Marche,
parere 04.10.2013 n. 67).
Come evincibile dalla lettera del comma 5, la legge pone
alcuni limiti per l’attribuzione del predetto incentivo ,
rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”)
ad un regolamento interno, assunto previa contrattazione
decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare
(Sezione Lombardia
parere 30.05.2012 n. 259)
paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per
un appalto di fornitura di beni o di servizi);
- ammontare complessivo non superiore al due per cento
dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma
concretamente prevista dal regolamento interno può essere
stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non
all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante
dallo stato finale dei lavori);
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli
incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione (si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18
e
deliberazione 02.05.2001 n. 150).
2. Delineato il contesto normativo e giurisprudenziale
dell’istituto in esame, il Collegio osserva che dalla
ricostruzione in fatto effettuata dal Corpo di Polizia
Locale della caserma “Domenico Scolaro" di Palmi -supportata dalla documentazione amministrativa versata in
atti- fatta propria dal requirente- è emerso che gli odierni
convenuti -dipendenti del settore dell’Ufficio Tecnico Comunale-Settore Ambiente e territorio- hanno erogato
ovvero percepito negli anni 2009-2012, gli incentivi
previsti dall’art. 92 del d.lgs. 163/2006 per l’attività di
manutenzione del verde pubblico e per il servizio di
raccolta differenziata, affidata a ditte o società esterne,
secondo una pratica consolidata nel tempo ma censurata dalla
procura regionale in quanto palesemente arbitraria e
contraria all’interpretazione data alla suddetta norma dalla
stessa Corte dei Conti che dalla giurisprudenza
amministrativa e dalla stessa Autorità di vigilanza sui
lavori pubblici.
a) Contratti di manutenzione di verde pubblico
Dalla documentazione prodotta in atti, è emerso che il
Comune di Palmi ha affidato la manutenzione del verde
pubblico alla società in house PPMM spa Piana Palmi
Multiservizi, per l’importo di euro 136.000,elevato a euro
158.922,57 sul quale il dirigente pro-tempore dell’UTC ing.
St. De Lu., il Capo Area dell’UTC ing. Vi.Or.
e l’ing. An.Sc. hanno corrisposto al dipendente
progettista Pa.An. somme, a titolo di incentivo
alla progettazione, pari all’1,50% del totale dei lavori
fatturati dalla ditta appaltatrice durante la vigenza del
contratto di appalto.
Ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso
incentivante occorre far riferimento al contenuto specifico
dell’incarico conferito al dipendente, che deve essere
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità
interna, rispetto ad una mera attività tecnica che
costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività
istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già
corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Nel caso di specie, aldilà della mera qualificazione
giuridica del contratto posto in essere dal Comune, il
Collegio non può che condividere l’assunto attoreo secondo
cui le determine contestate, di contenuto identico, con cui
sono stati disposti gli incentivi …avevano ad oggetto il
servizio di manutenzione del verde pubblico e la
liquidazione dei suddetti benefici è avvenuta sulla scorta
di documentazione (redazione di un semplice capitolato di
gara, computo metrico ed elenco prezzi) tutt’altro che
riconducibile a quegli elaborati progettuali richiesti dal
codice dei contratti per la corresponsione degli incentivi
alla progettazione e per gli interventi in cui il fondo di
progettazione è deputato ad operare e cioè i lavori
pubblici.
Sotto questo profilo, contrariamente a quanto sostenuto
dalle difese dei convenuti, il riconoscimento degli
incentivi si appalesa contrario a norme di legge (art. 92, c. 5, D.lgs. 63/2006) e di regolamento (Del. G.M. n. 234
dell’11.11.204, art. 1), in quanto riferito ad appalto di
servizio e non già ad opere e lavori pubblici intesi come
“attività di costruzione, demolizione, recupero,
ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e
ordinaria, comprese le eventuali connesse progettazioni di
campagne diagnostiche, le eventuali redazioni di perizie di
variante e suppletive" (Autorità di vigilanza).
Nel capitolato d’appalto all’art. 3 “Descrizione sommaria
dei lavori”, si legge: ”I lavori che formano oggetto
dell’appalto possono riassumersi come appresso salvo le più
precise indicazioni che in corso d’opera potranno essere
impartite dalla direzione lavori:
Manutenzione tappeto erboso, taglio erbe nelle aiuole,
apertura e chiusura della villa comunale, pulizia dei bagni
all’interno della villa, fornitura e messa a dimora di
piantine annuali, concimazione potatura alberi, siepi e
palme nella Villa comunale e nei giardini di piazza
Municipio”.
L’attività manutentiva affidata a terzi appare quindi
rispondente a prestazioni continuative di facere
(manutenzione verde pubblico), fatturate periodicamente
dall’impresa in relazione alle quali è stato (pure
erroneamente) applicato il compenso incentivante, in luogo
dell’importo del progetto posto a base di gara.
Dall’esame delle componenti dell’appalto emergono quindi
significative distorsioni nell’inquadramento delle
prestazioni dedotte in contratto, catalogate in atti dalla
stazione appaltante in termini di “lavori”, ancorché
caratterizzate da una spiccata ed oggettiva natura di
“servizi”, con conseguente alterazione dei parametri su cui
è stato commisurato l’incentivo per la progettazione ai
sensi dell’art. 92, co. 5, del d.lgs. 163/2006, ora abrogato
dall’art. 13, co. 1, del d.l. n. 90/2014, convertito in
legge n. 114 l’11.08.2014, ma vigente al tempo di indizione
della gara (2009).
L’appalto consiste, infatti, in interventi di manutenzione
del verde pubblico di aree comunali (villa comunale,
giardini pubblici), relativamente ai quali, non è dato
riscontrare un’attività che possa essere qualificata come
“lavori” per come ritenuto dalla stazione appaltante.
L’attività manutentiva esclude infatti qualsiasi attività di
modificazione della realtà fisica esistente, come invece è
previsto per i lavori pubblici, dovendosi pertanto
attribuire ad essa la natura di “servizi”.
Difatti, l’incentivo alla progettazione non può venire
riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione
ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo
per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui
base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, dunque, dall’ambito di applicazione della citata
norma tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione
non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli
articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.
Sul punto vale richiamare ancora quanto affermato
dall’Autorità di vigilanza nella
deliberazione 14.02.2008 n. 7 secondo cui “il discrimen tra lavori di
manutenzione e servizi di manutenzione va individuato
nell’oggetto della prestazione: per i servizi consiste in
una pluralità di interventi indeterminati, per i lavori in
interventi definiti a priori, cui si collega la diversa
modalità di definizione del corrispettivo, basato nel primo
caso su una stima presuntiva legata al costo organizzativo
ed orario della mano d’opera, nel secondo su un computo
analitico dei lavori da eseguire. Pertanto, la manutenzione
assume le caratteristiche di un appalto di servizi quando
comporta una prestazione continuativa di facere con
interventi periodici e assidui di personale specializzato;
costituisce, invece, appalto di lavori quando consiste in
attività di modificazione della realtà fisica esistente con
utilizzazione ed installazione di materiali aggiuntivi e
sostituivi non inconsistenti sul piano strutturale e
funzionale”.
Ed ancora, è stato affermato che “l’art. 90 del D.lgs. n.
163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento
esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1,
presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi come
finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata.
A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’
incentivo alla progettazione venga ripartito tra i
dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto e, dunque, è di palmare evidenza come il
riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia
ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici,
presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica
finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico
interesse”.
Anche il Decreto Ministero Infrastrutture 17.03.2008, n.
84 in attuazione dell'articolo 92, comma 5, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, ha specificato che gli incentivi siano
riconosciuti "per le attività di progettazione di livello
preliminare, definitivo ed esecutivo inerenti ai lavori
pubblici, intesi come attività di costruzione, demolizione,
recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione
straordinaria e ordinaria, comprese le eventuali connesse
progettazioni di campagne diagnostiche, le eventuali
redazioni di perizie di variante e suppletive" a condizione
che i relativi progetti siano posti a base di gara (fonte:
Ministero Infrastrutture).
Tutte attività palesemente non riscontrabili nell’appalto
affidato dal Comune alla società Piana Palmi Multiservizi
SPA.
b) Contratto di servizio di raccolta differenziata
Il comune di Palmi ha ottenuto dalla Regione Calabria un
contributo per gli interventi inclusi nel Decreto
n. 11028/2006 a favore dello sviluppo della raccolta
differenziata, a valere sulle risorse della Misura
1.7-Azione 1.7.a del Complemento di programmazione del POR
Calabria 2000-2006, sulla base del progetto predisposto dal
Comune il cui quadro economico ha previsto:
- spese generali per attività di consulenza, informazione e
divulgazione di euro 4.000,00;
- spese per attività di programmazione e progettazione di
euro 2.500, riservate all’Ufficio nella misura massima del
2%;
- spese per l’espletamento del servizio “porta a porta”, così
come previsto con appalto esterno di euro 87.172,00.
In data 25.02.2009 è stata stipulata apposita convenzione tra
le parti, sottoscritta per conto del Comune dall’ing.
Or.Vi.. L’art. 16 della convenzione rinvia, per
quanto non specificatamente regolato, alla legislazione
nazionale, regionale e comunitaria vigente in materia, in
quanto applicabile.
L’appalto (peraltro rinnovato e prorogato più volte dal
Comune), è stato affidato direttamente alle società Piana
Ambiente e alla ATI RADI-ASED,in quanto già gestori dei
servizi di raccolta differenziata del Comune di Palmi,
ritenendo il progetto approvato dalla Regione rientrante tra
i servizi di natura complementare previsti dall’art. 57, c.
5, d.lgs. 163/2006, rispetto al servizio principale che
dette ditte svolgevano per conto del Comune, la prima per la
raccolta differenziata di carta, vetro e plastica, la
seconda per la raccolta dell’umido e degli ingombranti; il
servizio “aggiuntivo” di raccolta differenziata è stato
perciò affidato ad entrambe le società rispettivamente,
alla Piana Ambiente per la quota del 30% e all’ATI per la
quota del 70%; sull’importo di progetto è stata riservata
all’Ufficio la somma di euro 2.500, corrisposta ai tecnici
progettisti, ing. Or. e Pa., per spese di
programmazione e progettazione .
Diversamente da quanto sostenuto dalle difese dei convenuti
-secondo cui le somme corrisposte ai tecnici comunali sulla
base degli importi dei lavori fatturati dalle ditte
rientravano tra le spese ammesse al finanziamento regionale,
in relazione alle quali la stessa procura regionale ha
espresso talune perplessità circa la loro spettanza ai
tecnici comunali- il Collegio ritiene che, nonostante la
previsione nella Manifestazione di Interesse quali “spese
ammissibili” di quelle relative alla programmazione e
progettazione, debba comunque essere verificata la coerenza
del contenuto di tali prestazioni con le regole poste
dall’art. 92 del D.lgs. 163/2006.
Il riferimento al contributo regionale è stato infatti
ampiamente valorizzato dalle difese dei convenuti per
sostenere la tesi della spettanza dell’ incentivo alla
progettazione a favore dei dipendenti dell’ente che abbiano
contribuito alla redazione degli atti relativi al progetto
finanziato con fondi regionali, indipendentemente dal
contenuto delle prestazioni previste nell’ambito del
progetto finanziato dalla regione.
Invero, l’incentivo alla progettazione e alla
programmazione deve essere intrinsecamente correlato alla
realizzazione di opere e lavori pubblici che, come può
evincersi dalla documentazione tecnica e
amministrativo-contabile adottata dal Comune e relativa
all’intervento in esame, non è ravvisabile nel caso
concreto. Al riguardo basta scorrere lo scarno contenuto
meramente descrittivo delle attività svolte dalle società
affidatarie del servizio di raccolta “porta a porta”, per
escludere i presupposti basilari per l’attribuzione di detto
beneficio ai tecnici comunali.
Il Collegio ritiene che anche per tale fattispecie valgono
le considerazioni dinanzi svolte per l’incentivo erogato
per i contratti relativi alla manutenzione del verde
pubblico, dovendosi escludere la natura di “lavori” per le
prestazioni effettuate per il “servizio aggiuntivo” di
raccolta differenziata, connotato da mere operazioni, come
peraltro espressamente specificato nelle determine riferite
alla “raccolta della frazione organica e degli
ingombranti”.
Né, sul punto, possono condividersi le perplessità formulate
da parte attrice circa la previsione, nello specifico
settore, dell’incentivo, tra le “spese ammissibili” della
Misura 1.7-Azione 1.7.a del Complemento di programmazione
del POR Calabria 2000-2006, tra le altre, “le spese per
l’attività di progettazione e di supporto
tecnico-amministrativo, nella misura massima del 2%
dell’importo richiesto”, atteso che l’uno è il contributo
regionale per il servizio in questione (comprensivo delle
cd. spese ammissibili espressamente indicate nel
Manifestazione pubblica d’interesse per gli interventi a
favore dello sviluppo della raccolta differenziata), l’altro
è l’incentivo alla progettazione e programmazione da
erogarsi sempre e comunque in presenza dei presupposti e
requisiti di legge (art. 92, 5 e 6 c., D.lgs. 163/2006;
regolamento G.M. n. 234/2004).
Deve quindi ritenersi che la previsione, tra le spese
“ammissibili”, di quelle di “progettazione e di supporto
tecnico-amministrativo”, nonché di quelle “per i servizi
connessi alla raccolta “porta a porta”, ivi compresi “i
costi per le risorse umane impiegate”, non abbia carattere
“derogatorio” ai principi posti dal Codice dei contratti in
materia di incentivo alla progettazione, dovendosi
correlare detto beneficio, in ogni caso, ad interventi
relativi ad opere e lavori pubblici.
Nel caso concreto, con riferimento alle prestazioni oggetto
dell’appalto del servizio di raccolta differenziata, “Nella
Relazione tecnica illustrativa delle modalità di erogazione
del servizio porta a porta" è specificato che “la
qualificazione del servizio “porta a porta” presso le utenze
del ns territorio, stimate in circa 7.766, avverrà con la
distribuzione alle utenze stesse di contenitori o sacchi di
diverso colore e capacità, contraddistinti per tipologia di
materiale da raccogliere”, seguita dalla descrizione delle
specifiche modalità di raccolta di ciascun tipo di materiali
presi in considerazione (plastica, lattine, vetro, carta,
cartone, farmaci, materiali ingombranti).
Appare evidente, quindi, l’assenza di una correlazione dell’
incentivo erogato dai convenuti ad una fase di progettazione
o pianificazione riferita a opere e lavori pubblici (es.
costruzione di discarica, impianti…), del tutto assenti nel
Progetto predisposto dall’ing. Vi.Or. dell’UTC del
Comune di Palmi (che ha sottoscritto la convenzione con la
Regione Calabria); d’altra parte, il richiamo fatto dalla
convenzione alla legislazione nazionale, regionale e
comunitaria vigente in materia, esclude ogni ipotesi
derogatoria alla disciplina generale contenuta nel d.lgs.
163/2006, nella materia che occupa.
Né, a fortiori, può avere alcuna valenza probatoria
discriminante la circostanza invocata dalle difese circa la
previsione dell’incentivo de quo nell’ambito di un progetto
di raccolta differenziata finanziato dalla Regione Calabria,
dovendosi, in concreto, valutare la coerenza dello stesso
con i parametri di legge, né tanto meno alcuna
giustificazione esimente può essere attribuita all’invocata
proroga del contratto.
Difatti, ove si volesse accedere a dette argomentazioni
difensive verrebbe avallata una condotta contraria a norme
di legge e regolamento non potendosi individuare -nello
specifico ambito- alcuna attività riconducibile alla
categoria dei lavori e alla relativa programmazione, nel
senso ampiamente precisato.
Le determine inoltre presentano un ulteriore profilo di
illegittimità in ordine al criterio di determinazione dell’incentivo stesso, parametrato sui lavori fatturati
dall’impresa e non già sull’importo a base d’asta
dell’appalto.
Avvalorano le considerazioni e valutazioni dinanzi svolte la
circostanza che le determinazioni relative alla raccolta
differenziata sono state pure oggetto di revoca, in sede di
autotutela, da parte dell’Amministrazione comunale.
3. Sotto il profilo soggettivo nessun dubbio può sussistere,
pertanto, in merito alla responsabilità dei convenuti per il
danno patrimoniale arrecato all’Ente di appartenenza,
consistente nella percezione e/o erogazione indebita dei
compensi, relativamente agli appalti di servizi di
manutenzione del verde pubblico e della raccolta
differenziata “porta a porta”, secondo quanto costantemente
ritenuto dalla stessa giurisprudenza di questa Corte dei
Conti in fattispecie analoghe e dalla stessa Autorità di
Vigilanza (ut supra richiamate).
La documentazione acquisita al fascicolo ha consentito di
accertare che i predetti responsabili del settore tecnico
hanno posto in essere una condotta contraria a precisi
dettati normativi e regolamentari, consistita
nell’erogazione degli incentivi di progettazione per appalti
di servizi e non già per l’esecuzione di lavori pubblici,
compensi determinati, tra l’altro, non già sull’importo a
base d’asta ma sulle singole fatture dei lavori.
Nessuna giustificazione può essere considerata da questo
Collegio, tra quelle prospettate dalle difese dei convenuti,
ove si consideri che -se anche si volesse prescindere dalla
qualificazione dell’elemento soggettivo come dolo- si
appalesano comunque particolarmente gravi le condotte tenute
dagli odierni convenuti, tenuto conto della specifica
professionalità di ciascuno di essi e degli incarichi da
essi ricoperti nell’ambito dell’Area I^ Servizi LL.PP.,
situazioni che avrebbero consentito a ciascuno di essi di
applicare correttamente il beneficio di che trattasi con
esclusione degli appalti di servizi stipulati dal Comune di
Palmi.
E’ perciò pienamente fondata anche nel quantum, secondo ciò
che emerge dagli atti di causa, la richiesta di condanna del
Procuratore regionale.
Questo Collegio deve pertanto ritenere gli odierni convenuti
responsabili del danno sofferto dall’Ente, nella misura
indicata nella domanda di euro 20.838,56.
Tale danno va ripartito in relazione agli importi da
ciascuno di essi liquidati a titolo di incentivo alla
progettazione, così indicati: euro 9.752,72 in capo
all’ing. St. De Lu.; euro 6.894,42 in capo all’ing.
Vi.Or., euro 4.191,42, in capo all’ing. An.Sc..
A tali poste di danno va aggiunta la rivalutazione monetaria
a decorrere dagli effettivi pagamenti fino alla data della
presente sentenza.
La condanna va estesa infine agli interessi legali da
quest’ultima data e alle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte dei Conti-Sezione giurisdizionale per la Regione
Calabria, definitivamente pronunciando, ogni contraria
domanda ed eccezione respinte,
ACCOGLIE
la domanda e, per l’effetto, condanna l’ing. St. De Lu. al
pagamento, in favore dell’erario, della somma di euro
9.752,72, l’ing. Vi.Or. della somma di euro 6.894,42, l’ing.
An.Sc. della somma di euro 4.191,42, nonché alla
rivalutazione monetaria dalla data di ciascun pagamento fino
alla data di notifica della presente sentenza e agli
interessi legali a far tempo da tale data e fino al soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria,
sentenza 01.04.2016 n. 67). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Oneri, palla al consiglio. Competenza frutto di
coerenza sistematica. URBANIZZAZIONE/ L'organo per la
determinazione/adeguamento.
Qual è l'organo competente alla determinazione/adeguamento
degli oneri di urbanizzazione?
L'art. 42 del decreto legislativo n. 267/2000 stabilisce che
il consiglio è l'organo di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, a cui sono attribuite una serie di
competenze elencate in dettaglio nella stessa disposizione
normativa.
In particolare, la lettera b) prevede in linea
generale la competenza del consiglio in materia di
programmi, bilanci, piani territoriali ed urbanistici ecc.,
mentre la lett. f) assegna a tale organo competenze in
materia di istituzione e ordinamento dei tributi, con
esclusione della determinazione delle relative aliquote e la
disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni
e dei servizi.
La giunta comunale, a cui sono assegnate
funzioni di tipo esecutivo–attuativo, in base al successivo
art. 48, comma 2, compie tutti gli atti rientranti ai sensi
dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi
di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio
e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o
dallo statuto, del sindaco o degli organi di decentramento;
collabora con il sindaco nell'attuazione degli indirizzi
generali del consiglio; riferisce annualmente al consiglio
sulla propria attività e svolge attività propositive e di
impulso nei confronti dello stesso.
Circa il caso di specie,
il dpr 06.06.2001, n. 380, all'art. 16, comma 4, prevede
espressamente che l'incidenza degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del
consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la
regione definisce per classi di comuni in relazione a una
serie di parametri ivi indicati. Il comma 5 del citato art.
16 stabilisce, altresì, che nel caso di mancata definizione
delle tabelle parametriche da parte della regione e fino
alla definizione delle tabelle stesse, i comuni provvedono,
in via provvisoria, sempre con deliberazione del consiglio
comunale secondo i parametri di cui al comma 4, fermo
restando quanto previsto dal comma 4-bis.
È evidente,
pertanto, che la competenza a determinare gli oneri di
urbanizzazione ricade esclusivamente sul consiglio comunale.
Riguardo agli aggiornamenti degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, il comma 6 del medesimo art. 16 del
dpr 06.06.2001, n. 380, si limita a stabilire che i
«comuni» provvedono ogni cinque anni, in conformità alle
relative disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e
prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria,
secondaria e generale.
Il Consiglio di stato, con sentenza
n. 7140/05 del 15/12/2005, ha affermato che il contributo
per il rilascio del permesso di costruire imposto dall'art.
16 del dpr 06.06.2001, n. 380, commisurato agli oneri di
urbanizzazione, ha carattere generale perché prescinde
totalmente dall'esistenza o meno delle singole opere di
urbanizzazione e ha natura di prestazione patrimoniale
imposta. Lo stesso Consesso ha citato altresì, per la natura
tributaria di tale prestazione, la decisione del Consiglio
di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana 05.05.1999, n. 203.
Pertanto, benché la giurisprudenza non
risulti sempre univoca nell'individuare l'organo a cui
compete l'adozione della deliberazione di adeguamento degli
oneri urbanistici, indipendentemente dalla effettiva natura
della prestazione (patrimoniale o tributaria) la competenza
non può che essere ricondotta al consiglio comunale.
Infatti, l'articolo 42 del Tuoel affida al consiglio la
competenza in ordine a tributi e tariffe ed esercita
l'ipotetica discrezionalità, laddove venga riconosciuta
dalla legge, che non può essere demandata a un organo
esecutivo quale la giunta.
Nel caso specifico, la competenza all'aggiornamento degli
oneri di urbanizzazione dovrebbe, comunque, essere
ricondotta al consiglio anche per coerenza sistematica alle
varie disposizioni contenute nell'articolo 16 del dpr n.
380/2001 che al comma 4 e al comma 5 affidano al consiglio
comunale il compito di determinarne l'incidenza
(articolo ItaliaOggi del 19.08.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Statuto a maggioranza. Quorum funzionale e
strutturale coincidono. In commissione i consiglieri devono
rappresentare la metà più uno dei voti.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità
delle sedute della commissione regolamenti e statuto?
Nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie, previste
per legge (vedi commissione elettorale comunale) e
commissioni facoltative (come le c.d. commissioni consiliari
permanenti ex art. 38 del Tuel n. 267/00); in entrambi i
casi, la rispettiva composizione e il funzionamento si
riconducono generalmente alla fonte normativa che le
istituisce e, quindi, alle disposizioni di legge o di
regolamento, ovvero agli statuti locali.
Nella fattispecie in esame il regolamento comunale individua
il quorum funzionale stabilendo che la commissione
regolamenti e statuto è composta da un rappresentante per
ogni gruppo consiliare, con diritto di voto di
rappresentanza pari al numero dei consiglieri rappresentati.
L'assenza di una specifica indicazione in ordine al quorum
per considerare valida la seduta potrebbe far ritenere
applicabile la disposizione regolamentare che richiede, per
la validità delle sedute delle commissioni permanenti, la
presenza della maggioranza assoluta dei componenti.
In merito, posto che l'art. 38, comma 6, del Tuel dà facoltà
ai consigli comunali di recepire, in sede statutaria, la
possibilità di avvalersi di commissioni costituite nel
proprio seno con criterio proporzionale, nel caso specifico
la commissione regolamenti e statuto costituisce un terzo
genere rispetto alle commissioni permanenti e alle
commissioni speciali previste dallo statuto. Il regolamento,
invece, ha disciplinato le commissioni permanenti e le
commissioni speciali istituendo, altresì, la commissione
regolamenti e statuto.
In particolare il regolamento comunale, disciplinando le
sedute, il numero legale e la votazione, prevede che «le
sedute delle commissioni permanenti sono valide con la
maggioranza assoluta dei componenti».
Essendo la norma, indirizzata in forma specifica alle
commissioni permanenti, appaiono applicabili alla
commissione regolamenti e statuto, proprio per le sue
caratteristiche, le disposizioni relative alle commissioni
speciali.
In particolare, lo statuto prevede, nell'ambito delle
commissioni speciali, la rappresentanza di tutti i gruppi
consiliari e l'espressione del voto di ogni singolo
componente con valore proporzionale ai consiglieri
rappresentati in consiglio comunale, ma non fornisce
indicazioni in ordine al quorum strutturale, rinviando ad
altra disposizione statutaria la disciplina delle modalità
di costituzione e funzionamento.
Anche il regolamento riguardo alle commissioni speciali non
fornisce indicazioni in ordine alla formazione del quorum
strutturale, stabilendo, invece, come per le commissioni
speciali il voto di rappresentanza pari al numero dei
consiglieri componenti il gruppo rappresentato.
Laddove si procede alla costituzione di organi collegiali
con modalità ponderali, in assenza di disposizioni che
stabiliscano maggioranze speciali o qualificate, il quorum
funzionale deve essere generalmente individuato nella
maggioranza (metà più uno) dei voti possibili.
Quindi, nel caso di specie, anche riguardo alla commissione
regolamenti e statuto, qualora i consiglieri presenti siano
in grado di esprimere la maggioranza dei voti necessari, non
può non farsi coincidere il quorum funzionale con il quorum
strutturale.
Infatti, l'eventuale assenza dei rappresentanti della
minoranza, numericamente superiori ai rappresentanti della
maggioranza, ma con un peso di rappresentatività minore,
potrebbe bloccare i lavori della commissione pur essendo la
maggioranza potenzialmente in grado di esprimere il quorum
funzionale
(articolo ItaliaOggi del 12.08.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. In caso di contrasto con
il regolamento. Cosa accade se le due fonti dicono cose
diverse sul computo dei consiglieri.
In caso di contrasto tra previsione statutaria e normativa
regolamentare, quale disposizione deve essere applicata al
fine di computare il numero di consiglieri necessario per la
validità delle sedute del consiglio comunale riunito in
seconda convocazione?
Nella fattispecie in esame, in materia di quorum strutturale
per la validità delle sedute del consiglio comunale, il
regolamento di organizzazione e funzionamento del consiglio
comunale prevede che le sedute consiliari, convocate in
seconda convocazione, siano valide con la presenza di almeno
14 consiglieri. Ai sensi della normativa statutaria è
previsto, invece, che le medesime sedute siano valide con la
presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati,
escluso il sindaco.
Tale discrasia si è verificata a seguito della modifica
introdotta dalla legge n. 148/2011 che ha inciso sulla
composizione dei consigli operando una riduzione da 40 a 32
del numero dei consiglieri rientranti nella fascia
demografica dell'ente locale.
In merito, l'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del
«numero dei consiglieri necessario per la validità delle
sedute», con il limite che detto numero non può, in ogni
caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri
assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia»; quest'ultimo
assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al
computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere
escluso.
Nel caso di specie, seguendo la gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto
legislativo che disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e
dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n.
2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011) la
citata disposizione regolamentare dovrebbe essere
disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, evidente la necessità di comporre tale
discrasia attraverso un intervento correttivo volto ad
armonizzare le previsioni recate dalle richiamate fonti di
autonomia locale
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso analisi acqua potabile.
Il signor …. premesso:
- di aver chiesto all’ente che esegue prelievi ed analisi
dell’acqua potabile del suo comune, di avere accesso ai
risultati di dette analisi;
- di aver ricevuto dall’ente la risposta di aver svolto tale
servizio su incarico del comune e pertanto quest’ultimo
doveva ritenersi il proprietario dei certificati analitici,
con la conseguenza che la richiesta andava rivolta al
Comune;
- di aver pertanto inoltrato la medesima richiesta su
descritta al Comune, ricevendo la seguente risposta: “il
diritto di accesso ai documenti amministrativi può essere
esercitato solo quando è concreta ed attuale l’esigenza
dell’interessato di tutelare situazioni per lui
giuridicamente rilevanti, altrimenti non si sarebbe più di
fronte ad un diritto all’informazione, bensì ad una mera
esigenza di curiosità che non potrebbe essere in alcun modo
soddisfatta, non corrispondendo ai principi costituzionali
cui deve attenersi l’azione amministrativa”,
chiede alla
Commissione un parere su detta risposta.
Al riguardo la Commissione osserva che nel caso in cui
l'istante sia un cittadino residente nel Comune, il diritto
di accesso non è soggetto alla disciplina dettata dalla
legge n. 241/1990 -che richiede la titolarità di un interesse
diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
richiesto- bensì alla speciale disciplina di cui all'art.
10, co. 1, del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), che sancisce,
espressamente ed in linea generale, il principio della
pubblicità di tutti gli atti ed il diritto dei cittadini di
accedere agli atti ed alle informazioni in possesso delle
autonomie locali, senza fare menzione alcuna della necessità
di dichiarare la sussistenza di tale situazione al fine di
poter valutare la legittimazione all'accesso del
richiedente.
Il cittadino residente può accedere a tutti
gli atti amministrativi dell'ente locale di appartenenza
senza alcun condizionamento alla sussistenza di un interesse
personale e concreto e senza necessità della previa
indicazione delle ragioni della richiesta (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oneri economici connessi all’esercizio dell’accesso.
La richiedente, cittadina del comune di …, formula istanza
di parere alla Commissione sulla legittimità della delibera
comunale con la quale si aumenta il costo per l’accesso,
fissandolo in euro 25,00 quale corrispettivo fisso dei
diritti per l’accesso agli atti inerenti l’urbanistica
privata oltre agli oneri di riproduzione fotostatica.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
Nella delibera si fa riferimento genericamente ai diritti
per ogni singola istanza relativa al singolo fascicolo
edilizio (oltre al costo di ogni singola riproduzione). Va
pertanto in primo luogo precisato che, verosimilmente, tali
diritti riguardano la ricerca dei documenti e/o
l’istruttoria della pratica.
Al riguardo l’articolo 25 della
legge n. 241/1990 (valevole anche per gli enti locali)
prevede testualmente che “Il diritto di accesso si esercita
mediante esame ed estrazione di copia dei documenti
amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla
presente legge. L'esame dei documenti è gratuito. Il
rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del
costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in
materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
Ne consegue che se è legittimo fissare un costo per il
rimborso delle spese di riproduzione e per i diritti di
ricerca e visura, tali somme devono essere individuate in
una misura adeguata e proporzionate all’attività svolta in
modo da non diventare un limite irragionevole all’esercizio
del diritto di accesso.
L’importo fissato in via
predeterminata e fissa in quanto “sganciato” dall’attività
compiuta non appare coerente con tale finalità (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Accesso agli atti di gara da parte di assessore comunale.
Il responsabile del settore servizi alla persona del Comune
di ... formula richiesta di parere alla Commissione in
merito alla possibilità da parte di un assessore del comune
di avere copia della documentazione, riguardante gli
“affiliati” alla società, prodotta da un partecipante
(società sportiva dilettantistica) alla gara di appalto
bandita dal Comune per la gestione delle palestre comunali.
La Commissione osserva quanto segue:
-
nella richiesta si individua il soggetto istante come
assessore, non risulta che esso sia anche consigliere
comunale.
Ne consegue che non è applicabile la disciplina sull’accesso
del consigliere comunale previsto nell’articolo 43, comma 2,
del d.lgs. n. 267/2000, in termini estremamente ampi in
quanto connesso all’esercizio del suo munus in tutte le
potenzialità ed implicazioni per una compiuta valutazione
della correttezza e dell’efficacia dell’amministrazione
comunale, ma, quella meno “ampia” dell’accesso del privato
cittadino e quindi previa notifica ai controinteressati.
Tuttavia, nel caso di specie, pervenendo la richiesta di
documentazione, non già dal cittadino a titolo personale, ma
dall’assessore comunale nell’esercizio della sua funzione,
si deve ritenere applicabile il principio di leale
cooperazione istituzionale tra soggetti pubblici di cui
all’art. 22, comma 5, della legge n. 241 del 1990 (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Esercizio
del diritto di accesso di un consigliere comunale.
Il Sindaco del Comune di ... chiede un parere alla
Commissione in relazione alla richiesta di accesso
presentata da un consigliere comunale ai sensi dell’articolo
43 del d.lgs. n. 267/2000 e tendente ad ottenere visione e
ad estrarre copia degli estratti conto dei conti correnti
bancari intestati alla società pubblica ... s.r.l.,
partecipata dal Comune, per il periodo 01.01.2010/30.06.2014.
Il parere viene richiesto in relazione a specifici profili
della cui legittimità si dubita e riguardanti l’oggetto
della richieste sopra indicate e, più in generale,
l’ampiezza e le modalità di esercizio del diritto di accesso
da parte del consigliere comunale, in particolare si
lamenta:
il carattere generico ed indeterminato della stessa, in
quanto riguardante un’intera categoria di atti ed il
rilascio di una documentazione molto “corposa”;
l’ingente numero delle richieste di accesso avanzate dallo
stesso consigliere (oltre 20 in meno di due mesi), in
relazione alla struttura del Comune con una popolazione di
meno di 3000 abitanti ed al numero dei dipendenti addetti
(10), con conseguente rischio di paralisi dell’attività
amministrativa comunale. Al riguardo si sottolinea il
rischio di un abuso del diritto all’informazione, ovvero di
un uso dello stesso per finalità meramente emulative,
irragionevoli e sproporzionate e quindi tali da deviare il
corretto funzionamento del comune;
la correttezza della richiesta contenente al suo interno il
termine perentorio ultimativo di 7 giorni per la risposta,
prescindendo dalla complessità della richiesta stessa e
minacciando “inutilmente” azioni penali, atteso che il
comune “rispetta usualmente il termine di sette giorni
fissato nel regolamento comunale”.
Il Consigliere comunale, dal canto suo, allega una nota
nella quale lamenta le difficoltà connesse all’esercizio
effettivo del proprio diritto di accesso, in particolare ad
accedere ad atti e documenti riguardanti società partecipate
dal comune.
In merito ai quesiti posti la Commissione osserva quanto
segue:
1) la richiesta ha ad oggetto i conti correnti bancari
intestati ad una società a capitale prevalentemente
pubblico: tale documentazione, pertanto, in quanto volta a
dare dimostrazione dell’attività economica svolta da detta
società va qualificata di interesse pubblico e come tale è
soggetta alla disciplina sull’accesso ai documenti
amministrativi;
2) nella specie si tratta del diritto di accesso dei
consiglieri comunali disciplinato dall’articolo 43 del
d.lgs. n. 267/2000 il cui ambito è molto esteso (e più ampio
rispetto a quello riconosciuto al privato cittadino dalla
legge n. 241/1990), in quanto può essere esercitato nei
confronti di qualsiasi notizia od informazione utile per
l’espletamento del mandato ai fini del controllo sulla
correttezza e sull’operato dell’amministrazione comunale,
senza che sia necessario specificare i motivi della
richiesta o che comunque sussista un legame fra la richiesta
e le competenze amministrative dell’organo collegiale.
Ciò
posto è evidente la strumentalità della richiesta ai fini di
un controllo sull’attività della società e sull’utilizzo di
denaro pubblico;
3) sui limiti dell’esercizio dell’accesso ai fini del suo
contemperamento con le esigenze organizzative e del
personale del comune, appare congrua la previsione contenuta
nel regolamento comunale, ai sensi della quale è possibile
il differimento dell’accesso ad altro giorno non eccedente
il quinto.
Tale previsione può trovare applicazione anche
nel caso di specie, tenuto conto dell’ampiezza del lasso di
tempo di cui si chiede la documentazione, che viene tuttavia
identificata nei suoi elementi essenziali (oggetto della
stessa e soggetto al quale si riferisce), di tal essa non
sembra potersi qualificare come indeterminata
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso
agli atti di una procedura di selezione per contratto a
tempo indeterminato presso l’Agenzia del Demanio.
L’istante premesso:
-
di aver partecipato per l’anno 2013 a n. 2 procedure di
selezione a tempo indeterminato per personale amministrativo
presso l’Agenzia del demanio;
- di aver presentato all’Agenzia del demanio richiesta di
accesso al fine di tutelare le proprie posizioni soggettive,
riguardante una serie di documenti;
-
di aver avuto accesso solo a parte dei documenti.
Formula i seguenti quesiti alla Commissione, riguardanti la
legittimità o meno della motivazione per la quale si è
negato l’accesso di alcuni documenti; in particolare sui
seguenti aspetti:
- se i dati degli altri candidati “relativi a domicilio,
residenza, recapiti telefonici ed indirizzi e mail contenuti
nei curricula vitae degli stessi” siano documenti
accessibili ai sensi della legge n. 241/1990;
- come debba essere risolto il conflitto tra il dovere di
riserbo dell’Agenzia del demanio sui documenti coperti dal
diritto di autore ed il suo diritto di valutare la
legittimità dell’operato dell’Ente e quindi di tutelare e
difendere i propri interessi.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue:
-
in relazione al primo aspetto, non
sembra essere prevalente la tutela della riservatezza dei
concorrenti, dal momento che questi ultimi prendendo parte
alla selezione pubblica hanno implicitamente accettato che i
loro dati personali esposti nei documenti riguardanti la
procedura di selezione, potessero essere resi conoscibili da
tutti gli altri concorrenti a ciò interessati (quale è
senz’altro l’istante, in qualità di concorrente non
utilmente collocata in graduatoria);
- in relazione al secondo aspetto,
va considerato prevalente l’interesse diretto, concreto ed
attuale della richiedente ai fini della valutazione della
legittimità ed attendibilità delle operazioni di selezione
rispetto a quello del diritto di autore della società che ha
redatto i test che è tutelato solo ai fini della
riservatezza in via residuale dalla normativa in materia
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso
a documentazione di procedimenti disciplinare - parere.
Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca premesso che:
-
è stata formulata una richiesta di accesso agli atti da
parte del dipendente, per la quale risultano ampiamente
decorsi, tanto il termine entro cui l’amministrazione
avrebbe dovuto rispondere, tanto quello entro il quale
l’interessato avrebbe dovuto impugnare il silenzio davanti
al TAR, ovvero davanti a questa Commissione;
-
che la richiesta aveva ad oggetto il diritto del dipendente
ad accedere agli atti del procedimento disciplinare avviato
nei confronti di una collega in conseguenza di un suo
esposto;
-
che a fondamento della richiesta il dipendente richiamava la
decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7
del 2006, senza tuttavia specificare, nonostante puntuale
richiesta in tal senso da parte dell’Amministrazione, il suo
interesse diretto concreto ed attuale ad acquisire i
documenti richiesti;
-
che la controinteressata nell’opporsi all’accesso agli atti,
aveva informato l’Amministrazione della pendenza di un
procedimento penale a suo carico, avente un oggetto
coincidente con quello del disciplinare.
Ritenuta la questione di interesse generale
formula a questa Commissione richiesta di parere in merito
all’esistenza in capo al dipendente del diritto a conoscere
gli atti del procedimento disciplinare avviato in
conseguenza di un esposto dallo stesso presentato.
Come osservato dall’amministrazione richiedente la
situazione da cui trae origine il presente quesito, coincide
con quella presa in esame nella decisione n. 7 del 2006 che
ha così ritenuto “la qualità di autore di un esposto, al
quale abbia fatto seguito un procedimento disciplinare, a
carico di terzi, è circostanza idonea, unitamente ad altri
elementi, a radicare nell’autore medesimo la titolarità di
una situazione giuridicamente rilevante, che ai sensi
dell’art. 22 della L. n. 241/1990 legittima l’accesso nei
confronti degli atti del procedimento disciplinare
(coinvolgente terzi) che dall’esposto ha tratto origine”.
In particolare poi, più recentemente, il Consiglio di Stato
nella decisione n. 3742 del 22.06.2011, ha precisato che
“ove risulti un suo personale interesse il denunciante ha
senz’altro titolo ad avere copia dell’atto disciplinare
emesso dall’amministrazione, a seguito dell’esposto da lui
presentato […] anche se si tratti dell’atto di archiviazione
del procedimento”.
Emerge dunque con chiarezza da queste e da altre pronunce
del supremo organo amministrativo (da ultimo, si veda
Consiglio di Stato, decisione n. 31621 del 2013) che la sola
qualità di autore di un esposto che abbia dato luogo ad un
procedimento disciplinare, non costituisce di per sé
circostanza idonea a radicare in capo all’autore la
titolarità della situazione giuridicamente rilevante cui fa
riferimento l’art. 22, L. n. 241/1990, in assenza di una
prova sulla natura diretta, concreta ed attuale
dell’interesse ad accedere agli atti per i quali è
formalizzata la richiesta di accesso.
Nella specie, l’istante, nonostante esplicito invito in tale
senso da parte della amministrazione, non ha indicato
elementi ulteriori idonei a radicare un suo interesse
all’accesso corrispondente ai canoni del citato articolo 22,
manifestando ad esempio l’intenzione di volersi costituire
parte civile nel processo penale iniziato per gli stessi
fatti, ovvero di iniziare un processo civile in caso di
condanna in sede disciplinare.
D’altro canto, questa
Commissione non è a conoscenza dei fatti posti a fondamento
dell’azione disciplinare e quindi non è in grado di
apprezzare né i rapporti intercorrenti fra il denunciante e
la denunciata, né, le possibili conseguenze in caso di
accertamento (o di non accertamento) di una responsabilità
disciplinare per il richiedente l’accesso.
Infine, può altresì osservarsi che quest’ultimo non può
reputarsi titolare di un diritto all’accesso ai sensi
dell’articolo 10 della legge n. 241/1990, attesa
l’estraneità dell’autore dell’esposto al procedimento
disciplinare e la sua conseguente qualità di terzo rispetto
al medesimo.
Ne consegue che il parere di questa Commissione sulla
questione di cui sopra è il seguente: la
qualità di autore di un esposto non è di per sé sufficiente
a radicare in capo all’istante la titolarità di una
situazione giuridicamente rilevante che, ai sensi
dell’articolo 22 della legge n. 241/1990 legittima l’accesso
nei confronti degli atti disciplinari che da quell’esposto
hanno tratto origine.
E’ necessario, infatti, individuare ulteriori elementi
idonei a configurare in capo all’istante un interesse con le
caratteristiche indicate dal predetto articolo 22, elementi
che vanno apprezzati alla luce delle circostanze specifiche
del caso concreto
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
agli atti ai sensi della legge 07.08.1990 n. 241 e
successive modifiche. Richiesta di parere.
Il Capo di Gabinetto del Ministero … premesso:
-
che la senatrice ... aveva formulato richiesta per
l’acquisizione di una lettera del Ministro indirizzata al
segretario generale del Ministero, contenente richiesta di
valutazioni per la migliore tutela del complesso monumentale
“Palazzo …”, all’esito di un contenzioso amministrativo
conclusosi sfavorevolmente per l’amministrazione,
osservato che:
-
l’atto richiesto non rivestirebbe la natura di documento
amministrativo e che l’istante, quale Senatrice, avrebbe la
facoltà di avvalersi degli strumenti di sindacato ispettivo
al fine di acquisire elementi informativi sull’attività del
Ministero,
formula il seguente quesito alla Commissione:
-
se sia legittimo un eventuale diniego dell’Amministrazione
in relazione alla richiesta di accesso in questione anche in
relazione al principio di leale cooperazione sancito
dall’articolo 22, comma 5, della legge 07.08.1990, n.
241.
La Commissione osserva che la disciplina in materia di
diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosce
tale diritto a chiunque vanti un interesse "per la tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti" (art. 22, comma 1, della
l. n. 241/1990) e prescrive che il soggetto istante debba
motivare la richiesta di accesso "specificando e ove occorra
comprovando l'interesse connesso all'oggetto della sua
istanza" (art. 25, comma 2 della predetta legge e art. 3,
comma 2, d.P.R. n. 352/1990).
E' infatti proprio la
titolarità di un interesse personale, concreto ed attuale
specificato nella istanza, a qualificare la posizione
legittimante all'accesso. Nella specie invece l’istante si
limita a fare valere la sua qualità di Senatrice senza
addurre alcun elemento ulteriore che possa consentire
all’Amministrazione di valutare la sussistenza di un
interesse, con le caratteristiche di cui sopra, in relazione
alla nota oggetto della richiesta. D’altro canto nel nostro
ordinamento, ad eccezione dei consiglieri comunali e
provinciali, non si rinviene alcun’altra norma volta ad
attribuire una speciale legittimazione all'accesso in
relazione allo status del soggetto, derivante
dall'appartenenza ad una particolare categoria od organo
oppure derivante dallo svolgimento di determinate funzioni.
Ne consegue l'assoggettamento anche dei componenti del
Parlamento alla disciplina generale del diritto di accesso
e, quindi, la configurabilità in capo ad ogni singolo
parlamentare di un interesse generico ed indifferenziato in
quanto riconducibile alla generalità dei consociati. D’altro
canto, come ben dedotto nella richiesta, al fine di
esercitare il controllo del Parlamento sull'attività
amministrativa del Governo l'ordinamento prevede altri e più
specifici mezzi d'indagine quali: gli strumenti
dell'interrogazione (artt. 128 e ss. del Reg. Cam., 145 e ss.
Reg. Sen.), dell'interpellanza (artt.136 e ss. del Reg. Cam.,
154 e ss. Reg. Sen.) e delle inchieste di cui all'art. 82
della Costituzione, strumenti che, tuttavia, non hanno
carattere coattivo, come emerge dall’art. 131 Reg. Cam. ai
sensi del quale il Governo può dichiarare di non poter
rispondere, indicandone il motivo.
In relazione all’ulteriore profilo riguardante la
qualificazione dell’atto come documento amministrativo va
richiamato l’articolo 22 della legge 241/1990 (il quale
testualmente recita “è documento amministrativo ogni
rappresentazione grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto
di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale”).
Alla luce di tale
definizione la richiesta in oggetto in quanto riguardante
attività di pubblico interesse può qualificarsi come atto
amministrativo.
Alla luce delle argomentazioni si ritiene
che l’Amministrazione debba richiedere alla Senatrice di
precisare i motivi dell'istanza di accesso ed all’esito
decidere circa il suo accoglimento o rigetto
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Tutela
della riservatezza e dell’anonimato - accesso ed esposto
nell’ambito del procedimento disciplinare.
Il Dirigente del Compartimento della polizia stradale…
premesso:
- di aver ricevuto un’istanza di accesso agli atti
nell’ambito di un procedimento disciplinare scaturito da un
esposto all’Autorità giudiziaria di un dipendente, avente ad
oggetto il mancato recupero di tre ore di permesso orario
fruito da altro dipendente, esposto sfociato in un
procedimento penale poi archiviato;
- che, in seguito al decreto di archiviazione erano iniziati
procedimenti disciplinari a carico di entrambi i dipendenti,
osservato:
-
che la giurisprudenza in casi siffatti ha sempre ritenuto
prevalente il diritto all’accesso agli atti e quindi alla
difesa, rispetto a quello della tutela alla riservatezza;
che tuttavia nella fattispecie sorge la necessità di
verificare se tale orientamento possa essere confermato alla
luce del recente intervento normativo contenuto
nell’articolo 54-bis del d.lgs. n. 165/2001, il quale
sancisce la non punibilità ed il diritto all’anonimato del
dipendente che segnala illeciti stabilendo espressamente, al
comma 4 che “la denuncia è sottratta all’accesso previsto
dagli artt. 22 e ssgg della legge n. 241/1990”,
formula il seguente quesito alla Commissione:
-
se alla luce della giurisprudenza e della normativa da
ultimo intervenuta deve consentirsi in tale situazione
accesso all’esposto in versione integrale ovvero previa
apposizione di appositi “Omissis” a tutela della
riservatezza del segnalante al fine di garantire i diritti
di entrambi i dipendenti senza venir meno agli obblighi di
trasparenza e di correttezza.
La Commissione reputa che nella fattispecie
sia prevalente, in quanto norma speciale, il disposto
dell’articolo 54-bis ai sensi del quale l’identità del
segnalante nell’ambito del procedimento disciplinare non può
essere rivelata senza il suo consenso e dunque l’identità è
sottratta all’accesso. L’identità potrà essere rivelata solo
ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per
la difesa dell’incolpato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Accesso
alla SCIA del confinante.
Il Sig. … premesso:
- di avere presentato richiesta di accesso agli atti con
visione immediata di una SCIA al comune di ...;
- di avere motivato l’istanza sulla sua qualità di
confinante e sulla necessità di poter verificare la
legittimità delle opere edilizie del vicino e, quindi, di
poter tutelare propri interessi anche in sede legale,
attraverso una eventuale richiesta di interruzione dei
lavori;
- di aver ricevuto una risposta negativa da parte del Comune
“condizionando la stessa alla successiva comunicazione e
determinazione del controinteressato”.
osservato che:
- Il perdurante ritardo nella decisione sull’accesso da parte
del Comune consente al vicino di concludere i lavori,
verosimilmente illegittimi, rendendo difficile l’eventuale rispristino dello stato dei luoghi,
chiede:
-
alla Commissione se la condotta del Comune su descritta sia
legittima e quindi se nella fattispecie sussista o meno il
suo diritto all’accesso immediato alla SCIA.
La Commissione osserva:
-
che va riconosciuto in capo all’istante un interesse
diretto, concreto ed attuale ad accedere alla SCIA in
qualità di confinante, trattandosi di un atto la cui
conoscenza è necessaria per curare o per difendere i propri
interessi giuridici.
L’opposizione del controinteressato,
pur conseguenza di un passaggio necessario (quale è quello
della notifica della richiesta a coloro che rivestono tale
qualifica come definita dall’articolo 22, comma 1, lettera c),
della legge 241/1990 e dall’articolo 3 del D.P.R n. 184 del
2006) non può essere posta a fondamento unico del diniego di
accesso, in quanto la normativa in materia di accesso agli
atti, lungi dal rendere i controinteressati arbitri assoluti
delle richieste che li riguardino, rimette sempre
all'amministrazione destinataria della richiesta di accesso
il potere di valutare la fondatezza della richiesta stessa,
anche in contrasto con l'opposizione eventualmente
manifestata dai controinteressati (in tal senso TAR
Sicilia Catania, sez. IV, 20.07.2007, n. 1277)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Limiti
del diritto di accesso dei consiglieri comunali ai sensi
dell’articolo 43, comma 2, del D.lgs. n. 267 del 2000.
Il Segretario Generale del Comune di … chiede alla
Commissione per l’accesso un parere circa i limiti entro i
quali è possibile esercitare il diritto di accesso di
all’articolo 43, c. 2, del Dlgs. n. 267 del 2000.
In particolare lo stesso Segretario Generale specifica che
l’Amministrazione comunale ha ricevuto una richiesta
d’accesso agli atti da parte di un consigliere comunale di
opposizione, volta ad ottenere informazione circa l’elenco
delle imprese con o senza personalità giuridica operanti nel
territorio cittadino, la cui posizione risulti essere
debitoria, nei confronti dell’amministrazione comunale,
relativamente alle imposte IMU, ICI, TARES, TOSAP ed imposta
sulla pubblicità e le pubbliche affissioni, con riferimento
alle annualità ricomprese tra il 2007 ed il 2013.
L’amministrazione istante -nel chiedere alla Commissione
per l’accesso se la richiesta del consigliere di minoranza
di cui sopra sia o meno compatibile con i principi di
proporzionalità e ragionevolezza, così come definiti ed
applicati dal Consiglio di Stato (Cons. di stato n.
846/2013)- afferma che, per far fronte alla richiesta,
sarebbe opportuno un impegno di mezzi e personale tali da
paralizzare l’operato di diversi uffici comunali, anche in
riferimento al numero di annualità cui fa riferimento
l’istanza d’accesso.
Afferma, inoltre, l’amministrazione comunale che
“l’omissione di qualsivoglia motivazione che giustifichi
l’accesso impedisce di valutare l’esistenza di mezzi
alternativi per il raggiungimento dei fini perseguiti dal
Consigliere comunale.”
Preliminarmente, questa Commissione ritiene opportuno
rammentare che l’art. 43 del TUEL riconosce ai consiglieri
comunali un diritto pieno e non comprimibile
“all’informazione”.
In particolare, nella scia di una ormai consolidata
giurisprudenza del Giudice amministrativo, la Commissione ha
avuto più volte occasione di affermare che il “diritto di
accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri
comunali sono specificamente disciplinati dall’art. 43 del
d.lgs. 267/2000 (T.U. Enti locali) che riconosce loro (e ai
consiglieri provinciali) il diritto di ottenere dagli uffici
tutte le notizie e tutte le informazioni in loro possesso,
utili all’espletamento del loro mandato. Si tratta,
all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto
di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del
Comune di residenza (art. 10 T.U. Enti locali) o, più in
generale, nei confronti della P.A., disciplinato dalla legge
n. 241 del 1990.
Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel
particolare “munus” espletato dal consigliere comunale,
affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa
la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio
consapevole sulle questioni di competenza della P.A.,
opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica
e la funzione pubblicistica da questi esercitata,
soprattutto se, come nel caso di specie, il consigliere
comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente
deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica
dell’operato della maggioranza.
Tuttavia, il diritto di accesso del consigliere comunale non
ha carattere generalizzato ed indiscriminato in quanto vanno
rispettate alcune forme e modalità di esercizio, tra cui la
necessità che l’interessato alleghi la sua qualità di
consigliere comunale, posto che l’accesso è funzionale ad
acquisire notizie ed informazioni connesse all'esercizio del
proprio munus ed è attribuito al fine di compiere,
attraverso la visione dei provvedimenti adottati e
l’acquisizione delle notizie in possesso dell’ente locale,
una compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia
dell'operato dell'amministrazione comunale.
Comunque,
occorre valutare di volta in volta se le istanze di accesso
siano irragionevoli, sproporzionate e come tali se abbiano o
meno aggravato gli uffici pregiudicandone la funzionalità.
In questi ristretti limiti, la declaratoria di principio
dell’inammissibilità di un “accesso indiscriminato e
generalizzato” di per sé non costituisce un limite alle
prerogative del consigliere.
Si segnala altresì che la fattispecie normativa delineata
dall'art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000 non pare compatibile con
l’obiezione, opposta nel caso di specie da codesto Ente
comunale, della mancata motivazione della richiesta
d’accesso, in quanto ciò appare contrastante con l’ampiezza
del diritto soggettivo pubblico riconosciuto ai consiglieri
comunali, di fronte al quale recede ogni altro interesse. La
richiesta di motivazione appare quindi illegittima in quanto
volta a costituire un ingiustificato limite all’accesso.
In particolare, si osserva che il consigliere comunale non
deve motivare la propria richiesta di informazioni e
documenti, perché, altrimenti, la P.A. si ergerebbe
impropriamente ad arbitro delle forme di esercizio delle
potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi,
con la conseguenza che gli uffici comunali non hanno il
potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto
delle richieste di informazione e le modalità di esercizio
della funzione esercitata dal consigliere comunale (in tal
senso la Commissione si è già espressa, tra gli altri, con
parere del 29.11.2011).
Inoltre, si rammenta che, seppur anche le richieste di
accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai
sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano
rispettare il limite di carattere generale –valido per
qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non
genericità della richiesta medesima (cfr. C.d.S., Sez. V, n.
4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), non è generica
l’istanza relativa all’accesso agli atti inerenti specifiche
pratiche o problematiche, qualora, come appunto risulta
essere avvenuto nel caso di specie, nell’istanza siano
indicati gli elementi necessari e sufficienti alla puntuale
identificazione dei documenti richiesti e delle informazioni
richieste.
Infine, si rammenta che il contemperamento tra esigenze di
accesso e funzionalità degli uffici non può mai tradursi in
limitazioni o impedimenti di fatto dell’esercizio pieno del
diritto d’accesso del consigliere comunale.
Infatti, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
il diritto di accesso del consigliere comunale non può
subire compressioni di sorta per pretese esigenze di natura
burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del
suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter
esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa
gravosità sia organizzativa che economica per gli uffici
comunali) secondo i tempi necessari per non determinare
interruzione alle altre attività di tipo corrente (cfr., fra
le molte, Cons. Stato, sez. V, 22.05.2007 n. 929).
Rientra, quindi, nelle facoltà del responsabile del
procedimento, la possibilità di dilazionare opportunamente
nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di
contemperare tale adempimento straordinario con l’esigenza
di assicurare il normale funzionamento dell’attività
ordinaria degli uffici comunali, ma giammai potrà essere
negato l’accesso.
Pertanto, non può mai essere giustificato un diniego di
accesso con l'impossibilità di rilasciare l'eccessiva
documentazione richiesta, in quanto è comunque obbligo
dell'amministrazione di dotarsi di un apparato burocratico
in grado di soddisfare gli adempimenti di propria competenza
(cfr. TAR Veneto Venezia Sez. I Sent., 15.02.2008, n.
385).
Proprio al fine di evitare che le richieste di accesso si
trasformino in un aggravio dell’ordinaria attività
amministrativa dell’ente locale, la Commissione per
l’accesso ha sempre riconosciuto la possibilità per il
consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema
informatico interno (anche contabile) dell’ente attraverso
l’uso di password di servizio e, più recentemente, anche
attraverso l’accesso del Consigliere comunale al protocollo
informatico (vedi in tal senso, tra gli altri, i pareri
della Commissione del 06.04.2011 e del 17.01.2013)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Possibilità di derogare all’obbligo di preventiva
informativa all’interessato per l’accesso ai documenti
amministrativi.
Il Sig. … premesso che il figlio aveva ricevuto dalla
moglie, tramite il suo legale, lettera di separazione
consensuale e che trovandosi attualmente nella fase
negoziale aveva necessità di richiedere all’INPS i seguenti
documenti relativi alla posizione della moglie:
- estratto conto previdenziale;
- periodi indennizzati dall’INPS;
- attuale tipo di lavoro Part Time/Full Time;
- attuale contratto se a tempo determinato (con la data
della scadenza) o a tempo indeterminato;
- ultima retribuzione mensile,
formula il seguente quesito alla Commissione: se è
consentito all’INPS fornire questi dati in deroga
all’obbligo di preventiva informativa all’interessato,
precisando che l’assenza di comunicazione costituisce
condizione irrinunciabile per l’accesso.
Al riguardo la Commissione rileva che nella fattispecie è
applicabile l’articolo 3 del d.p.r. 184/1996 il cui dettato
è chiarissimo “1. Fermo quanto previsto dall'articolo 5, la
pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di
accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui
all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta
a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia
con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via
telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di
comunicazione. I soggetti controinteressati sono individuati
tenuto anche conto del contenuto degli atti connessi, di cui
all'articolo 7, comma 2.”
Ai sensi dell’articolo 22 della legge n. 241/1990 sono "controinteressati",
tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in
base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio
dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza: tale è senza dubbio la moglie del figlio
dell’istante atteso che i documenti si riferiscono alla
posizione previdenziale della stessa.
Alla fattispecie non si reputano applicabili le invocate
disposizioni di cui all’articolo 13, comma 5, lettera b), e
26, comma 4, lettera c), del decreto legislativo n. 196/2003,
atteso che esse operano nell’ambito delle indagini difensive
e dunque in un contesto diverso da quello di cui alla
fattispecie caratterizzato, soggettivamente, dalla richiesta
di un soggetto diverso da un difensore munito di mandato e,
oggettivamente, da un fase “negoziale”, e non da un
giudizio penale
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 02.10.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Limiti
al diritto di accesso del consigliere comunale.
La dott.ssa…, consigliere del comune di … lamenta che alcune
previsioni degli articoli del regolamento del Comune di …,
siano lesive del proprio diritto di informazione ed accesso,
chiede pertanto un parere a questa Commissione sulla
legittimità delle disposizioni successivamente indicate del
regolamento comunale.
In via preliminare, la Commissione osserva che: il
regolamento comunale, come dichiarato dalla stessa istante,
non è stato a suo tempo trasmesso a questa Commissione, in
contrasto con quanto stabilito dall’articolo 11, comma 3,
del d.P.R. 12.04.2006. n. 184.
Si segnala pertanto
l’esigenza che a ciò si provveda; questa Commissione non ha
il potere di annullare le determinazioni contenute nel
regolamento che reputi illegittime, ma può soltanto
formulare considerazioni al riguardo, rimanendo nella
autonoma valutazione del Consiglio comunale eventuali
modifiche del regolamento.
Nel merito la Commissione formula alcune considerazioni: -
in relazione al comma 3 dell’articolo 16 (diritto di
informazione e di accesso agli atti amministrativi)
l’istante censura l’introduzione dei seguenti limiti alle
modalità di esercizio del suo diritto di accesso:
a) limite
temporale: settimanale (due giorni alla settimana, fissato e
comunicato dal Segretario comunale) ed orario (due ore per
ogni giorno);
b) limite “procedurale”: obbligatoria
presenza, al momento della consultazione, del dipendente
dell’ente a ciò individuato con ordine del Responsabile di
servizio, competente per materia a seconda dell’accesso
richiesto.
La Commissione osserva al riguardo che l’esercizio della
funzione di consigliere comunale comporta il diritto ad
ottenere i documenti amministrativi e le notizie richieste,
ma non a disporre senza limiti di tempo del personale degli
uffici. Ne consegue che ferma restando la legittimità
astratta dei suddetti limiti è necessario che nel concreto
essi tengano conto delle discussioni politiche e dei
procedimenti amministrativi urgenti o in corso al fine di
garantire al consigliere lo svolgimento effettivo delle
attività connesse al suo mandato.
In relazione all’articolo 17 (diritto al rilascio di copie
di atti e documenti). L’istante si duole di alcune
previsioni, contenute nei commi 2 e 3, aventi ad oggetto le
modalità di esercizio di detto diritto e riguardanti, in
particolare: a) l’introduzione di un termine di 30 giorni
per evadere la richiesta di accesso, b) l’obbligo di
compilare apposita modulistica, allo stato ancora
inesistente, ovvero in alternativa la trasmissione via mail
all’indirizzo PEC con firma digitale;
c) il ritiro diretto
degli atti con l’unica alternativa dell’invio tramite posta
certificata;
d) il termine di trenta giorni per comunicare
l’eventuale diniego.
La Commissione osserva al riguardo che il
previsto termine di trenta giorni per il rilascio delle
copie, ovvero per comunicare l’eventuale diniego, potrebbe
in astratto determinare la concreta soppressione delle
prerogative del consigliere nei casi di procedimenti urgenti
o che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche
entro un limite inferiore a quello previsto. Onde
scongiurare tale pericolo è necessario che l’ente garantisca
l’accesso nell’immediatezza o comunque nei termini più
celeri o ragionevoli possibili.
In relazione poi alla necessaria compilazione del modulo,
qualora questo non sia disponibile dovrebbe essere comunque
consentito il deposito dell’istanza da parte del diretto
interessato, ovvero la trasmissione dell’istanza via e-mail,
all’indirizzo PEC, sempre che la PEC sia stata fornita
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 02.10.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ammissibilità
della produzione a terzi di documenti oggetto di diritto di
accesso.
L’istante premesso:
- di aver formulato richiesta di accesso
agli atti al Ministero del lavoro ed all’Ufficio nazionale
del servizio civile al fine di verificare se un’associazione
a carattere nazionale abbia commesso delle irregolarità;
- di
aver ricevuto i documenti oggetto della richiesta dal
Ministero del lavoro e di aver riscontrato l’esistenza delle
temute irregolarità “che interessano anche al Servizio
civile”,
formula il seguente seguito: se sia ammissibile
produrre al Servizio civile la documentazione oggetto della
precedente istanza di accesso.
Va in primo luogo osservato che, ai sensi dell’articolo 11
del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 in materia di accesso ai
documenti amministrativi, la Commissione per l’accesso agli
atti amministrativi: “esprime pareri per finalità di
coordinamento dell’attività organizzativa delle
amministrazioni in materia di accesso e per garantire
l’uniforme applicazione dei principi, sugli atti che le
singole amministrazioni adottavano ai sensi dell’articolo
24, comma 2, della legge, nonché, ove ne sia richiesta, su
quelli attinenti all’esercizio ed all’organizzazione del
diritto di accesso”.
Ebbene, nessuna delle ipotesi elencate
dalla predetta norma ricorre nella fattispecie, ove,
come si è sopra esposto, è richiesto un
parere sulla possibilità di divulgare un documento già
oggetto di diritto di accesso, ad un terzo, in particolare,
ad un’amministrazione pubblica sul presupposto che la stessa
possa essere interessata alla conoscenza delle notizie
contenute nello stesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 24.07.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
ad atti parte di un procedimento non concluso da parte delle
organizzazioni sindacali.
Il capo dell’ufficio VII della direzione generale per le
risorse e l’innovazione …premesso:
-
che ai sensi dell’articolo 93 del D.P.R. 05.01.1967, n.
18: “il personale dell’Amministrazione degli affari esteri
è costituito dalla carriera diplomatica, disciplinata dal
proprio ordinamento di settore, dalla dirigenza e dal
personale delle aree funzionali come definiti e disciplinati
dalla normativa vigente, nonché dagli impiegati a contratto
in servizio presso le rappresentanze diplomatiche, gli
uffici consolari e gli istituti italiani di cultura”;
-
che con riferimento a quest’ultima categoria di personale
l’articolo 154 del citato d.P.R. stabilisce che i contratti
sono regolati dalla legge locale e che le rappresentanze
diplomatiche e gli uffici consolari accertano
periodicamente, “sentite anche le rappresentanze sindacali
in sede”, la compatibilità del contratto con le norme locali
a carattere imperativo;
-
che nella fattispecie è in corso di revisione la bozza
contrattuale degli impiegati a contratto in servizio presso
le sedi diplomatico-consolari e istituti di cultura in … ed
un gruppo di impiegati, sostenuti dall’organizzazione
sindacale di riferimento, ha presentato richiesta di
accesso: a) alla bozza di contratto di impiego redatta nel
2012 da uno studio legale a cui era stata commissionato lo
studio della questione, b) a due messaggi identificati con
numero di protocollo e data inviati dall’ambasciata al
Ministero,
formula richiesta di parere in merito all’accesso ai
documenti suddetti.
La Commissione osserva quanto segue:
-
Appare in primo luogo opportuno un cenno sul quadro
normativo nel quale si inserisce la richiesta.
-
Il citato articolo 154 non sembra fondare un diritto di
accesso del sindacato, ma, piuttosto, il diritto dello
stesso ad essere informato del contenuto del contratto al
fine di verificare un particolare aspetto della materia da
esso disciplinata: la compatibilità del contratto con le
norme locali a carattere imperativo.
-
Il diritto di accesso del sindacato rinviene invece il suo
fondamento nell’articolo 25 della legge n. 241/1990 e nel
più generale interesse del sindacato a conoscere la
disciplina del rapporto di lavoro di una determinata
categoria lavoratori, anche al fine di adottare eventuali
iniziative a tutela degli interessi collettivi che gli sono
propri e che si riferiscono alla intera categoria
rappresentata.
Sussiste pertanto nella fattispecie, un interesse concreto
attuale e personale del sindacato all’accesso al contratto.
D’altro canto trattandosi di una richiesta specifica e
diretta alla conoscenza di un documento ben determinato e
connesso all’interesse proprio del sindacato, non ricorre
l’ipotesi di esclusione dall’accesso prevista dall’articolo
24, comma 3, della legge n. 241/1990 quando esso miri ad un
controllo generalizzato sull’operato della pubblica
amministrazione.
-
Ciò posto in punto di legittimazione del sindacato, nel
merito, si osserva che dalla richiesta emerge con chiarezza
che la documentazione a cui si chiede di accedere è una
bozza di contratto redatta da uno studio legale e che non
risulta sia stata recepita dall’Amministrazione datrice di
lavoro. Nella situazione concreta, pertanto, non sembra allo
stato rinvenibile un interesse concreto e diretto ed attuale
del sindacato alla conoscenza del documento, ma al più una
aspettativa di mero fatto.
Alla luce degli elementi su esposti si esprime il seguente
parere:
- va riconosciuta al sindacato la legittimazione
all’accesso al contratto di lavoro e tuttavia tale
legittimazione sorge solo al momento in cui vi sia un
contratto ascrivibile all’Amministrazione datrice di lavoro,
sia pur in una versione preliminare, in quanto ancora non
perfezionato in tutti i suoi elementi. Pertanto si ritiene
che nella fattispecie l’accesso vada differito ad un momento
successivo.
- In relazione all’accesso ai due messaggi, si osserva che
in assenza dell’individuazione sia pur minima dell’oggetto
degli stessi, non è possibile fornire un parere in merito
all’accessibilità agli stessi da parte del sindacato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 24.07.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI REGIONALI: Accesso
di un consigliere della regione Lombardia agli atti
dell’Agenzia del Demanio inerenti la gestione del complesso
monumentale della ….
La Signora …, Consigliere regionale della Lombardia, si è
rivolta prima al Difensore Civico regionale e poi, con nota
del 29.04.2014, a questa Commissione, riferendo di aver
inoltrato, in data 07.11.2013, all’Agenzia del Demanio
– filiale Lombardia, Sede di Milano, richiesta d’accesso
volta ad ottenere copia dei documenti amministrativi
relativi alla gestione del complesso monumentale della ...
dal 2003 ad oggi e lamentando che tale istanza d’accesso è
di fatto rimasta inevasa.
Dalla corrispondenza intercorsa con l’Agenzia del Demanio –
Filiale Lombardia – Sede di Milano, allegata in copia
dall’istante, si evince quanto segue.
In data 08.01.2014, con nota prot. n. 2014/186, l’Agenzia
del Demanio – Direzione regionale Lombardia - rispondeva al
Consigliere regionale …, invitando la stessa a prendere
visione della documentazione, presso gli ufficio del
Demanio, in virtù del principio di leale cooperazione
istituzionale, precisando nel contempo che parte della
documentazione chiesta non era presente agli atti.
Successivamente, in data 09.01.2014, il Consigliere
regionale rinnovava la propria richiesta di accesso,
specificando che la documentazione era richiesta sia in
quanto necessaria per l’espletamento delle funzioni di
Consigliere regionale della Lombardia, sia che per
esercitate il diritto d’accesso in qualità di cittadina … ai
sensi e per gli effetti dell’articolo 5 del D.lgs. n. 33
del 2013, richiamando l’obbligo di pubblicazione delle
informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle
pubbliche amministrazioni ed il connesso diritto di chiunque
di richiedere i medesimi, attraverso l’accesso civico, nel
caso in cui sia stata omessa la loro pubblicazione.
Con nota del 10.01.2014, Prot. 2014/374, l’Agenzia del
Demanio comunicava al Consigliere regionale di aver
provveduto a dare ottemperanza agli obblighi di
pubblicazione di cui al D.lgs n. 33 del 2013, pubblicando
sul proprio sito istituzionale la documentazione prevista e
confermando la disponibilità dell’incontro fissato per il
successivo 10 gennaio.
Successivamente, in data 13.01.2014, prot. 2014/594,
l’Agenzia del Demanio, integrava la precedente nota del 10
gennaio, comunicando al Consigliere regionale ... il
diniego d’accesso rispetto all’istanza del 7 novembre.
In particolare, nella succitata comunicazione l’Agenzia del
Demanio affermava che “l’accesso ai documenti amministrativi
presuppone che l’istante abbia un interesse personale,
diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l’accesso, così come disciplinato
dall’articolo 22, comma 1, punto b), della legge n. 241 del
1990 e dal regolamento adottato dall’Agenzia del demanio il
24.01.2007”. Nella stessa nota si affermava che
l’istante non poteva ritenersi soggetto legittimato
all’esercizio dell’accesso, ai sensi della richiamata
normativa, e che, pertanto, non poteva essere accolta
l’istanza d’accesso datata 7 novembre u.s..
A supporto del diniego d’accesso, nella stessa nota, veniva
richiamato un parere di questa Commissione del 12.05.2009, nel quale, tra l’altro, la Commissione per l’accesso
specificava che la qualità di deputato e l’esercizio di
attività inerenti l’espletamento del proprio mandato non
esprimono una posizione legittimante l’accesso ai documenti
amministrativi.
Infine, sempre nella stessa nota, veniva segnalato che sul
sito dell’Agenzia del demanio era pubblicata la
documentazione prevista dal D.lgs n. 33 del 2013.
Al riguardo -premesso che la Commissione per l’accesso, ai
sensi del d.lgs. n. 33 del 2013, non è competente in materia
di accesso civico- si osserva, che la Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi ha in più occasione
sottolineato (cfr., ad es., da ultimo, parere del 18.03.2014) che, alla luce della normativa vigente, la disciplina
dettata dall’art. 43, comma 2, del D.lgs. 18.08.2000, n.
267, che assicura ai Consiglieri comunali e provinciali un
diritto di accesso dai confini molto più ampi di quello
riconosciuto agli altri soggetti, non è applicabile ai
Deputati nazionali, ne ai consiglieri regionali, tenuto
conto che si tratta di una norma avente carattere speciale e
come tale insuscettibile di altra interpretazione che non
sia quella strettamente letterale.
La Commissione ha, tuttavia, ritenuto applicabile, in
fattispecie simili all’odierna, il principio di cui
all’articolo 22, comma 5, della legge n. 241 del 1990, in
forza del quale l’acquisizione di documenti amministrativi
da parte di soggetti pubblici, si informa al principio di
leale cooperazione istituzionale.
Tale principio, naturalmente, va inteso come un’
accessibilità maggiore rispetto a quella prevista dalla
legge n. 241 del 1990 ed, inoltre, nell’ambito della
acquisizione di documenti tra soggetti pubblici, non è
affatto necessaria e neppure ipotizzabile alcuna
specificazione dell’interesse personale diretto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata,
contrariamente a quanto affermato da Codesta Agenzia del
Demanio nel caso di specie.
Il soggetto pubblico richiedente
è certamente tenuto al rispetto, a sua volta, delle regole
di leale cooperazione tra amministrazioni nonché delle
regole di riservatezza nella trattazione dei dati contenuti
nei documenti acquisiti, certamente, non possono trovare
applicazione le norme di cui al citato comma 1, lettera b),
dell’articolo 22, l. 241 del 1990.
Pertanto, premesso quanto sopra, ad avviso
della Commissione, codesta Agenzia del demanio appare tenuta
a dover fornire al Consigliere regionale istante, alla luce
del suddetto principio di leale cooperazione istituzionale,
tutte le informazioni e i documenti richiesti, a prescindere
dai limiti stabiliti dalla L. 241/1990, che non trovano
applicazione nel caso di specie, inerente una richiesta di
documentazione rivolta da soggetto pubblico ad un'altra
amministrazione
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 24.07.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso
del sindacato di polizia a documentazione con dicitura
riservata amministrativa.
Il Dirigente della Sezione di Polizia Stradale di ...,
premesso:
- di aver ricevuto dal segretario del sindacato di Polizia COISP –Coordinamento per l’indipendenza sindacale delle
forze di polizia- richiesta di accesso ad una serie di
documenti riguardanti la mancata autorizzazione del Questore
di ..., alla consumazione di pasti presso un esercizio
esterno convenzionato, da parte del personale dipendente in
forza al distaccamento della Polizia Stradale di ...,
impiegato in servizio di ordine pubblico;
- di aver già provveduto a consentire l’accesso alla maggior
parte dei documenti richiesti; formula richiesta di parere
sull’accessibilità della nota n. … del 19.04.2014 con la
quale il Questore di … ha risposto alle spiegazioni fornite
dall’istante in merito alla vicenda su indicata e sulla
quale è stata posta la dicitura “Riservata amministrativa”.
Va in primo luogo osservato che la qualifica “Riservata
amministrativa” non è di per sé sufficiente ad escludere
l’accesso: al riguardo ciò che rileva, infatti, non è la
qualifica formale con cui l’amministrazione classifica e
conserva i documenti, ma la loro natura oggettiva e la
corrispondenza degli stessi alle specifiche categorie
individuate dal legislatore, ai fini dell’esclusione del
diritto di accesso. Pertanto il documento in oggetto può
ritenersi escluso dall’accesso non perché protocollato
riservatamente ma, esclusivamente, nell’ipotesi in cui, per
la sua natura, rientri in una delle categorie specifiche per
le quali è prevista l’esclusione dall’accesso.
Va dunque verificato, da un canto, il contenuto del
documento e, dall’altro, il soggetto richiedente l’accesso.
In relazione al primo profilo, la nota oggetto della
richiesta di accesso contiene valutazioni (negative)
espresse dal Questore sulla condotta, tenuta nella vicenda
sopra sommariamente descritta, dalla dirigente della sezione
di polizia stradale di ..., condotta ritenuta non conforme
all’ordine di servizio dallo stesso emesso e di cui è già
stato consentito l’accesso. A tale valutazione negativa
consegue la restituzione della fattura dei pasti consumati e
del buono pasto cumulativo con indicazione dei nomi, dei
cognomi, delle qualifiche, dei reparti di appartenenza ed
infine la sottoscrizione dei dipendenti che hanno consumato
i pasti. Tali documenti vengono allegati alla nota.
In relazione al secondo profilo. Il soggetto che ha
presentato richiesta di accesso è il sindacato di polizia.
Nell’istanza depositata agli atti il sindacato fonda la
propria legittimazione “sull’interesse della categoria
rappresentata e dunque dell’organizzazione sindacale, di
verificare che nei confronti dei dipendenti in questione sia
stata correttamente applicata la vigente disciplina
contrattuale e non riguardante la fruizione del vitto in
occasione di servizi di O.P., verifica che costituisce il
presupposto di ogni prerogativa sindacale (compreso il
diritto di critica), costituzionalmente tutelato”.
Alla luce di tali elementi si esprime il seguente parere:
-
La richiesta di accesso pur motivata da un interesse,
ritenuto concomitante, della categoria indifferenziata di
soggetti rappresentata dal sindacato e dei singoli
lavoratori, appare nella sostanza afferire esclusivamente
all’interesse dei singoli lavoratori coinvolti, atteso che
il documento suddetto (a differenza degli ordini di servizio
per i quali già è stata accolta la richiesta di accesso) non
ha ad oggetto l’interpretazione, in generale, di una
normativa incidente sulle prerogative sindacali, ma, come la
stessa normativa è stata interpretata nella concreta
situazione accaduta nella quale sono coinvolti soggetti ben
determinati.
Ne consegue che al riguardo rileva non solo il
profilo della riservatezza dei lavoratori (afferente alla
tutela dei loro dati personali riportati nel documento
allegato alla nota), ma anche, e soprattutto, della stessa
situazione giuridicamente rilevante per la cui tutela è
attribuito l’accesso, posto che l’atto di cui si chiede
l’accesso ha indubbiamente inciso sulla sfera giuridica di
quei lavoratori.
Pertanto si esprime il seguente parere: la
richiesta di accesso in oggetto incide su interessi
giuridicamente rilevanti di lavoratori ben identificabili,
rimasti estranei al procedimento atteso che, in assenza di
una delega ad hoc, essi non possono ritenersi rappresentanti
dal sindacato istante.
Non si ravvisa in relazione alla nota su indicata ed ai
documenti allegati la legittimazione ad accedere iure
proprio da parte del sindacato istante
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 08.07.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso
a documentazione di procedimenti disciplinare.
La qualità di autore di un esposto, al quale abbia fatto
seguito un procedimento disciplinare, a carico di terzi, è
circostanza idonea, unitamente ad altri elementi, a radicare
nell’autore medesimo la titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante, che ai sensi dell’art. 22 della L.
n. 241/1990 legittima l’accesso nei confronti degli atti del
procedimento disciplinare (coinvolgente terzi) che
dall’esposto ha tratto origine.
In particolare poi, più recentemente, il Consiglio di Stato
nella decisione n. 3742 del 22.06.2011, ha precisato che
“ove risulti un suo personale interesse il denunciante ha
senz’altro titolo ad avere copia dell’atto disciplinare
emesso dall’amministrazione, a seguito dell’esposto da lui
presentato […] anche se si tratti dell’atto di archiviazione
del procedimento”.
Emerge dunque con chiarezza da queste e da altre pronunce
del supremo organo amministrativo (da ultimo, si veda
Consiglio di Stato, decisione n. 31621 del 2013) che la sola
qualità di autore di un esposto che abbia dato luogo ad un
procedimento disciplinare, non costituisce di per sé
circostanza idonea a radicare in capo all’autore la
titolarità della situazione giuridicamente rilevante cui fa
riferimento l’art. 22, L. n. 241/1990, in assenza di una
prova sulla natura diretta, concreta ed attuale
dell’interesse ad accedere agli atti per i quali è
formalizzata la richiesta di accesso.
Nella specie, l’istante, nonostante esplicito invito in tale
senso da parte della amministrazione, non ha indicato
elementi ulteriori idonei a radicare un suo interesse
all’accesso corrispondente ai canoni del citato articolo 22,
manifestando ad esempio l’intenzione di volersi costituire
parte civile nel processo penale iniziato per gli stessi
fatti, ovvero di iniziare un processo civile in caso di
condanna in sede disciplinare.
D’altro canto, questa
Commissione non è a conoscenza dei fatti posti a fondamento
dell’azione disciplinare e quindi non è in grado di
apprezzare né i rapporti intercorrenti fra il denunciante e
la denunciata, né, le possibili conseguenze in caso di
accertamento (o di non accertamento) di una responsabilità
disciplinare per il richiedente l’accesso.
Infine, può altresì osservarsi che quest’ultimo non può
reputarsi titolare di un diritto all’accesso ai sensi
dell’articolo 10 della legge n. 241/1990, attesa
l’estraneità dell’autore dell’esposto al procedimento
disciplinare e la sua conseguente qualità di terzo rispetto
al medesimo.
Ne consegue che il parere di questa Commissione sulla
questione di cui sopra è il seguente: la qualità di autore
di un esposto non è di per sé sufficiente a radicare in capo
all’istante la titolarità di una situazione giuridicamente
rilevante che, ai sensi dell’articolo 22 della legge
n. 241/1990 legittima l’accesso nei confronti degli atti
disciplinari che da quell’esposto hanno tratto origine.
E’ necessario, infatti, individuare ulteriori elementi
idonei a configurare in capo all’istante un interesse con le
caratteristiche indicate dal predetto articolo 22, elementi
che vanno apprezzati alla luce delle circostanze specifiche
del caso concreto
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 08.07.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
del cittadino residente di accesso a documenti da parte di
un cittadino residente.
Il Comune di ... (NO) ha chiesto a questa Commissione il
proprio parere sulla richiesta presentata da un proprio
cittadino residente di accedere, a fini di controllo
politico, a un contratto di concessione di impianti natatori
e alle fatture emesse dall’Ente durante due mensilità del
2013.
L’Amministrazione ritiene l’istanza inaccoglibile,
perché non sorretta da sufficiente interesse se presentata
ai sensi della legge 241/1990, e non rivolta ad atti
sottoposti ad obbligo di pubblicazione se presentata ai
sensi della normativa sull’accesso civico, ma ha sospeso
l’emissione di un formale provvedimento nell’attesa del
parere di questo Collegio e dell’Autorità nazionale
anticorruzione, che risulta essersi nel frattempo dichiarata
incompetente.
Il parere è reso nei sensi che seguono.
Secondo l’orientamento consolidato e costante della
giurisprudenza amministrativa e di questa Commissione,
il
diritto garantito dal TUEL al cittadino-residente di
accedere agli atti degli enti locali non è condizionato
(diversamente da quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge
n. 241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti di
amministrazioni centrali dello Stato) alla
titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione
giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale
diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare
finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del
cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e
alla realizzazione di un più immanente controllo sulla
legalità dell’azione amministrativa.
L’Amministrazione dovrà quindi procedere
senz’altro all’ostensione, non essendo possibile, nel caso
di specie, subordinare il diritto di accesso del
cittadino-residente alla dimostrazione della titolarità di
un interesse giuridicamente rilevante
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 08.07.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
dei Consiglieri comunali alla corrispondenza
dell’Amministrazione comunale con la Procura della Corte dei
conti.
Il Comune di ..., il Comune di ..., e il sig. …, consigliere
comunale del Comune di …, chiedono a questa Commissione se
un consigliere comunale ha diritto ad accedere alla
corrispondenza tra Comune e Procura regionale della Corte
dei conti.
Chiede inoltre il Comune di ...:
a) se, in caso positivo
all’accessibilità, rilevi l’apposizione della dicitura
“riservato” che spesso il procuratore contabile appone alle
richieste informative;
b) se occorra comunque chiedere il
consenso o il nulla osta della medesima Procura;
c) se, in
caso di risposta positiva, siano accessibili tutti gli atti
ovvero solo quelli precedenti l’eventuale notifica
dell’invito a dedurre;
d) quali siano le norme applicabili,
e cioè se esistono norme specifiche del processo contabile,
ovvero siano applicabili altre norme, ad esempio quelle del
processo penale.
Il parere di questa Commissione è nel senso
dell’inaccessibilità dei documenti in questione.
Consolidata giurisprudenza ha chiarito che i Consiglieri
comunali godono del diritto di accedere, senza neppure che
la domanda sia soggetta ad onere motivazionale alcuno, a
tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento
del loro mandato: ciò al fine di poter valutare, con piena
cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
Anche un tale generalizzato diritto di accesso deve essere
tuttavia coordinato con il complesso dell’ordinamento
vigente, nel senso in cui quest’ultimo introduce eccezioni
al generale regime di trasparenza degli atti.
Sia l’articolo 7 della legge 08.06.1990 n. 142 che gli
articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241
riconoscono il diritto di accesso ai documenti
amministrativi a tutti i soggetti interessati alla tutela di
una situazione giuridicamente rilevante, definendo inoltre,
all’articolo 22 della legge n. 241/1990, un concetto ampio
di documento amministrativo, comprensivo anche degli atti
provenienti da soggetti diversi dalla stessa
amministrazione, purché correlati al perseguimento degli
interessi pubblici affidati alla cura dell’amministrazione.
E tuttavia la normativa di rango statale, pur affermando
l’ampia portata della regola, la quale rappresenta la
coerente applicazione del principio di trasparenza che
governa i rapporti tra amministrazione e cittadini,
introduce alcune limitazioni di carattere oggettivo,
definendo le ipotesi in cui determinate categorie di
documenti sono sottratte all’accesso, in ragione del loro
particolare collegamento con interessi e valori giuridici
protetti dall’ordinamento in modo differenziato.
In particolare, l’articolo 7 della legge n. 142/1990, pur
affermando il principio della pubblicità degli atti
comunali, introduce una rilevante eccezione, riferita ai
“documenti riservati per espressa indicazione di legge”.
Dunque, nello stesso ambito delle amministrazioni locali,
pure caratterizzato da un accentuato livello di trasparenza,
legato, fra l’altro, alle dinamiche partecipative della
comunità auto-amministrata, l’accessibilità ai documenti
amministrativi non è indiscriminata, ma è sottoposta ad
alcune puntuali limitazioni di ordine oggettivo.
Il principio è espresso, in modo coerente, ed in un ambito
più generale, dall’art. 24 della legge n. 241/1990, il quale
stabilisce che il diritto di accesso “è escluso per i
documenti coperti da segreto di Stato ai sensi dell'articolo
12 della legge 24.10.1977, n. 801, nonché nei casi di
segreto o di divieto di divulgazione altrimenti previsti
dall’ordinamento”.
Il significato delle disposizioni citate è chiaro: sia la
legge n. 241/1990 che la normativa sull’accesso dedicata
agli enti locali ridimensionano la portata sistematica del
segreto amministrativo, il quale, ora, non esprime più un
principio generale dell’agire dei pubblici poteri, ma
rappresenta un’eccezione al canone della trasparenza,
rigorosamente circoscritta ai soli casi in cui viene in
evidenza la necessità obiettiva di tutelare particolari e
delicati settori dell’amministrazione. Ma l’innovazione
legislativa, per quanto radicale, non travolge le diverse
ipotesi di segreti, previsti dall’ordinamento, finalizzati a
tutelare interessi specifici, diversi da quello,
riconducibile, secondo l’impostazione più tradizionale, alla
mera protezione dell’esercizio della funzione
amministrativa.
In tali eventualità i documenti, seppur formati o detenuti
dall’amministrazione, non sono accessibili, perché il
principio di trasparenza cede (o, quanto meno, viene
circoscritto sul piano oggettivo o temporale) a fronte
dell’esigenza di salvaguardare l’interesse protetto dalla
normativa speciale sul segreto.
L’esatta delimitazione delle discipline sul segreto non
travolte dalla nuova normativa in materia di accesso ai
documenti talvolta può risultare disagevole, ma possono
indicarsi al riguardo due criteri direttivi (cfr. CdS sez. V
n. 9686/2000):
-
il “segreto” che impedisce l’accesso ai documenti non deve
costituire la mera riaffermazione del tramontato principio
di assoluta riservatezza dell’azione amministrativa;
-
il segreto fatto salvo dalla legge n. 241/1990 deve
riferirsi esclusivamente ad ipotesi in cui esso mira a
salvaguardare interessi di natura e consistenza diversa da
quelli genericamente amministrativi.
Sulla base di queste indicazioni ermeneutiche è possibile
affermare che nell’ambito dei documenti legittimamente
sottratti all’accesso in base a segreto rientrano gli atti
intercorsi fra Amministrazione comunale e Procura regionale
della Corte dei conti.
Tali documenti, difatti, pur se soggettivamente prodotti da
un’Amministrazione pubblica, non sono oggettivamente
formati nell’esercizio di una attività amministrativa
istituzionale. Essi vengono invece espressamente formati
nell’alveo di una più complessiva attività istruttoria,
quella azionata dalla Procura contabile, e in risposta ad
essa; rivestono pertanto natura di veri e propri atti di
indagine, formati dalla P.A. nell’esercizio, per conto di un
organo estraneo all’amministrazione stessa, di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuite
dall’ordinamento (vedi art. 74 R.d. 1214/1934, art. 16 D.l.
152/1991, art. 2, c. 4, e art. 5, c. 6, D.l. 453/1993),
e come tali,
similmente a quanto accade in ambito processual-penalistico,
sono assoggettati al regime della segretezza istruttoria
(cfr. CdS VI 22/1999 e 7389/2006), senza neppure la necessità,
per negare l’accesso, che vi sia stato un preventivo
sequestro del magistrato, come invece nel caso di documenti,
seppur contenenti notizie d’illecito, formati
dall’Amministrazione nello svolgimento dei propri compiti
amministrativi istituzionali. Sottratti all’ambito del
diritto di accesso agli atti amministrativi, tali documenti
potranno essere eventualmente chiesti all’Autorità
giudiziaria contabile.
Per quanto riguarda infine le ulteriori richieste proposte
dal Comune di ..., esse, nei punti a), b) e c), appaiono
superate dal tenore complessivo del presente parere. Per
quanto riguarda il punto d), le norme che regolano la
materia risultano essere a questa Commissione i regolamenti
sull’accesso adottati dalla Corte dei conti con
deliberazione n. 4 del 17.07.1996 e n. 4 del 04.11.2010
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 08.07.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
ai documenti relativi ad un affidamento diretto ai sensi
dell’art. 125, d.lgs. 136/2006.
Il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del
Consiglio dei Ministri ha formulato alla scrivente
Commissione richiesta di parere in ordine alla seguente
fattispecie.
Riferisce l’amministrazione che in data 24 aprile u.s.
l’Associazione … ha chiesto di poter accedere alla
documentazione relativa “alla procedura avviata in data
07/12/2012 relativa al progetto Educare alla diversità a
scuola ed, in particolare, della documentazione relativa
alla descrizione del progetto, della documentazione relativa
alla definizione dei requisiti richiesti agli operatori
invitati e dei criteri di scelti degli stessi, della
documentazione relativa allo stanziamento economico per la
realizzazione del progetto e della proposta dell’Istituto …".
Chiede in particolare il Dipartimento, se l’associazione
istante sia titolare di interesse qualificato all’accesso in
considerazione che l’affidamento è avvenuto senza
espletamento di una vera e propria gara, rientrando
l’appalto nella soglia di cui al comma 11, art. 125, d.lgs.
n. 136/2006 che, come noto, consente l’affidamento diretto
per lavori di importo inferiore ad € 40.000,00.
Sulla richiesta di parere si osserva quanto segue.
Il c.d. codice dei contratti pubblici all’art. 13 effettua
un rinvio alla disciplina di cui alla legge n. 241/1990 per
ciò che concerne l’accessibilità dei documenti in materia di
appalti di lavori, forniture e/o servizi.
Come è noto, l’art. 22 della legge da ultimo menzionata,
stabilisce che l’accedente per essere titolare di posizione
qualificata e differenziata, debba far constare un interesse
diretto, concreto ed attuale all’accesso.
Tuttavia qualora, come nel caso di specie, i documenti siano
stati pubblicati sul sito dell’amministrazione che ha
provveduto all’affidamento diretto, tale qualità dei
documenti consente di ritenere che essi debbano essere ostesi a chi ne faccia richiesta.
Inoltre l’Associazione istante si duole nello specifico di
non aver avuto contezza per tempo della procedura
preordinata al relativo affidamento e di non aver, quindi,
potuto presentare una propria offerta.
Tale profilo fa emergere altresì un interesse
sufficientemente qualificato all’accesso che rende
meritevole di favorevole considerazione la domanda di
accesso presentata in data 24.04.2014
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.05.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
del consigliere comunale.
La signora …, consigliera comunale di minoranza del Comune
di …, avendo presentato una mozione contenente, tra l’altro,
la richiesta al Sindaco di attribuire le funzioni
dirigenziali esclusivamente al personale con qualifica
dirigenziale e di approntare un sistema di controlli
rispettoso della terzietà ed imparzialità del Segretario
comunale, successivamente al rigetto di tale mozione, in
data 17.02.2014, chiedeva a diverse autorità statali e
regionali di valutare il comportamento tenuto dal Sindaco
del predetto Comune, con specifico riferimento al
conferimento al Segretario Comunale dell’Ente di una serie
di funzioni dirigenziali aggiuntive al suo incarico
istituzionale.
La Giunta comunale del Comune di …. conferiva all’avvocato
…, l’incarico di pronunciarsi sulla questione sollevata
dalla consigliera comunale istante.
In data 21.03.2014, la consigliera comunale… chiedeva
all’Amministrazione comunale di consentire l’accesso al
parere redatto dall’avvocato Sartori.
L’Amministrazione comunale avrebbe riferito alla consigliera
... che tale parere non risultava agli atti del Comune,
essendo stato inviato all’Amministrazione dall’avvocato …
per mero errore.
La consigliera …, in data 02.04.2014, adiva la Commissione
affinché valutasse il comportamento tenuto
dall’Amministrazione.
In data 18.04.2014, l’Amministrazione inviava una nota nella
quale precisava che alla nota ricevuta dal Comune in data
11.03.2014 dall’avvocato ... -contenente la quantificazione
del compenso per l’attività professionale svolta dal
predetto legale- risultava allegato il documento indirizzato
al Sindaco ed al Segretario generale che veniva registrato
come allegato alla predetta nota, documento che, in pari
data, l’avvocato ... comunicava di aver inviato per mero
errore.
La Commissione, preliminarmente, ritiene di esser competente
a fornire il parere richiesto dalla consigliera ..., in
virtù della funzione di vigilanza sull’attuazione del
principio di piena conoscibilità dell’attività della
Pubblica Amministrazione ex art. 25, comma 5, della legge n.
241/1990.
La Commissione ritiene che la signora ..., nella qualità
di consigliera comunale, sia legittimata ad accedere al
documento inviato all’Amministrazione, sia pure per mero
errore, dall’avvocato ... in data 11.03.2014 dal momento che
lo stesso, essendo stata regolarmente registrato dal Comune
di ... quale documento allegato alla nota contenente la
quantificazione del compenso spettante al predetto legale,
non può non esser considerato come documento detenuto
dall’Amministrazione.
La Commissione esprime l’avviso che debba esser consentito
l’accesso al documento richiesto dalla consigliera …
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
del consigliere comunale alla Password del programma di
contabilità del Comune.
Il signor …, consigliere comunale del Comune di … (SA),
chiedeva all’Amministrazione il rilascio della password del
programma di contabilità del predetto Ente locale.
Tale richiesta era riscontrata dall’Amministrazione,
giustificando il mancato rilascio della password in
questione in considerazione del fatto che il programma di
contabilità del Comune di ... risiedesse in un server
esterno potesse implicare delle questioni involgenti la
tutela della riservatezza nonché la protezione delle banche
dati.
Il signor … chiedeva alla Commissione di esprimere il proprio
parere in merito alla possibilità del rilascio della
password in questione.
La Commissione ritiene che il rischio, paventato
dall’Amministrazione, che il rilascio della password del
programma possa pregiudicare l’esigenza di tutela della
riservatezza e di protezione delle banche dati non possa
giustificare il rigetto dell’istanza del rilascio della
stessa ad un consigliere comunale, essendo evidente che
l’utilizzazione di tale password dovrà esser rispettosa di
tutte le vigenti norme giuridiche preordinate alla tutela
della riservatezza ed alla protezione delle banche dati e
che di eventuali illeciti commessi dall’utilizzatore questi
potrà esser chiamato a risponderne di fronte alle autorità
competenti.
La Commissione esprime l’avviso che l’Amministrazione debba
provvedere al rilascio della password del programma di
contabilità del Comune al consigliere comunale
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Portata
e limiti dell’accesso ambientale.
Il Sig. … ha formulato alla scrivente Commissione richiesta di
parere in ordine alla seguente fattispecie.
Il richiedente ha chiesto all’amministrazione comunale di
poter accedere ai documenti relativi ad un’ordinanza emessa
a seguito di esposti e segnalazioni a carico dello
stabilimento … in … per presunti abusi edilizi.
La richiesta veniva effettuata ai sensi della disciplina in
materia di c.d. accesso ambientale. L’amministrazione con
note interlocutorie ha chiesto una serie di precisazioni ed
integrazioni circa le ragioni poste a fondamento
dell’istanza ostensiva prodotta dal sig. … il quale, a sua
volta, chiede alla scrivente Commissione se ciò sia conforme
o meno alla disciplina in materia di accesso alle
informazioni ambientali.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
In termini generali l’accesso ambientale
trova la sua fonte normativa nel decreto legislativo n.
195/2005 e nel decreto legislativo n. 152/2006. Tali
disposizioni riconoscono a chiunque il diritto di accedere
non solo ai documenti ma anche alle informazioni ambientali,
senza che all’uopo sia necessario dimostrare la titolarità
di un interesse giuridicamente rilevante.
La nozione di
informazione ambientale è molto ampia e tale da ricomprende
al suo interno certamente anche quelle relative ad eventuali
abusi edilizi siccome potenzialmente in grado di incidere
sul bene ambiente.
Alla luce di ciò, le richieste di integrazione sulla
titolarità di situazione giuridicamente rilevante in capo
all’istante, appaiono ultronee giusto il dettato normativo
di cui sopra.
Nei suesposti sensi è il parere della scrivente Commissione
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Accesso a titoli edilizi e concessioni di passo carrabile
– amministrazione comunale di ….
Il Sig. … ha formulato alla scrivente Commissione richiesta di
parere in ordine alla seguente fattispecie.
Il richiedente ha chiesto all’amministrazione comunale di
poter accedere ai titoli edilizi ed alle concessioni di
passo carrabile relative ad un manufatto limitrofo a quello
di residenza dell’istante.
Nella domanda di accesso, allegata alla richiesta di parere,
il … faceva constare sia la propria qualità di
rappresentante di palazzina del condominio di residenza che
il suo status di cittadino residente nel Comune acceduto.
L’amministrazione, a seguito di opposizione dei soggetti
controinteressati, chiedeva al Sig. … di chiarire meglio il
proprio interesse all’accesso e le asserite esigenze di
tutela del condominio.
Chiede, pertanto, il Sig. … se l’agire dell’amministrazione
locale sia o meno conforme ai precetti che regolano il
diritto di accesso ed il suo esercizio previsti dal
legislatore.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
In termini generali l’amministrazione, qualora abbia dubbi
sulla legittimazione attiva del richiedente l’accesso, ha la
facoltà di chiedere a quest’ultimo di meglio specificare le
ragioni della istanza ostensiva (in tal senso depone la
lettera dell’art. 6, commi 1 e 5, del d.P.R. n. 184/2006).
Tuttavia occorre altresì osservare che nel caso di specie
l’accesso è stato richiesto ad un’amministrazione locale da
parte di un cittadino residente nel relativo territorio e
pertanto a disciplinare la fattispecie è la disciplina
speciale di cui all’art. 10 TUEL il quale non contempla la
motivazione della richiesta da parte dell’accedente al
contrario di quanto previsto dagli artt. 22 e seguenti della
legge n. 241/1990.
Peraltro, anche alla luce della normativa da ultimo
richiamata la legittimazione del Sig. … si reputa
sussistere, attesa la vicinitas del proprio luogo di
residenza con quello cui si riferiscono i documenti oggetto
di domanda di accesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 29.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Visione
del protocollo informatico tramite password da parte del
consigliere comunale.
Il sig. …, consigliere comunale a … (FR), chiede se esiste o
meno per i consiglieri il diritto ad accedere al protocollo
comunale tramite accesso informatico diretto, in quanto il
Segretario comunale, per evitare l’occupazione delle
postazioni informatiche dell’ufficio da parte dei
consiglieri, ha rifiutato di fornirgli la relativa password
di accesso, indirizzandolo invece a rivolgersi a piacimento,
fra le 9 e le 13 di ogni giorno, ai dipendenti comunali per
ottenere la visione degli atti protocollati.
A parere di questa Commissione il comportamento del Comune è
legittimo.
Consolidata giurisprudenza ha chiarito che i Consiglieri
comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a
tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento
del loro mandato: ciò al fine di poter valutare, con piena
cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto
ha infatti una ratio diversa da quella che contraddistingue
il diritto di accesso ai documenti amministrativi
riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10
del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ovvero a chiunque sia
portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex
art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): esso è
strettamente funzionale all'esercizio del mandato, alla
verifica e al controllo del comportamento degli organi
istituzionali decisionali dell'ente locale, ai fini della
tutela degli interessi pubblici, ed è peculiare espressione
del principio democratico dell'autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Posto che l’accesso del Consigliere non può essere soggetto
ad alcun onere motivazionale, giacché diversamente opinando
sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente,
attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del
consigliere comunale, e che il termine "utili", contenuto
nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267,
garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato
(cfr. C.d.S. n.6963/2010) senza che alcuna limitazione possa
derivare dall’eventuale natura riservata delle informazioni
richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto
d'ufficio (fra gli altri C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n.
2716, Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009,
n.143) si ritiene che gli unici limiti all'esercizio del
diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano,
per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative
(fermo restando che la sussistenza di tali caratteri
necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al
diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso
debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio
possibile per gli uffici comunali.
La modalità attraverso cui minimizzare tale aggravio può
variare, a seconda delle specifiche condizioni ambientali in
cui l’amministrazione concretamente opera: talvolta potrebbe
essere preferibile consentire autonomia di accesso ai
consiglieri, tramite la fornitura di password (procedura di
per sé perfettamente lecita, come in passato espresso da
questa Commissione), altre volte, al contrario, tale
modalità, invece di snellire le incombenze, ben potrebbe
rischiare di moltiplicarle.
Nell’odierna fattispecie la
valutazione dell’amministrazione è stata nei sensi di non
consentire l’accesso diretto tramite password, per evitare
problematiche occupazioni delle postazioni informatiche.
A
fronte di tale diniego, appunto orientato a non aggravare
l’efficienza dell’operato amministrativo, l’attestazione di
disponibilità alle necessità dei consiglieri appare tuttavia
sufficiente a non far nutrire dubbi sulla sostanziale
praticabilità, per il consigliere, dello svolgimento del
proprio munus
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso
da parte di un funzionario intervenuto nel procedimento.
La Prefettura di Siena chiede il parere di questa
Commissione sulla legittimità, anche riguardo alla
titolarità di un interesse specifico diretto alla
salvaguardia di una situazione giuridicamente rilevante,
della richiesta di accesso avanzata da un funzionario
responsabile del contenzioso dell’Amministrazione
provinciale senese ad una lettera privata, prodotta da un
terzo, indirizzata al Prefetto, e citata nel fascicolo di
parte ricorrente in un ricorso al Giudice di pace avverso
contestazione di illecito stradale elevato dalla stessa
Amministrazione provinciale già respinto in prima istanza
dal Prefetto.
Il parere di questa Commissione è nei sensi che seguono.
Qualora il funzionario abbia presentato la richiesta
ostensiva in qualità di privato, la titolarità all’accesso
deve essere valutata nello specifico, soppesando i motivi
portati dall’istante stesso a giustificazione della
richiesta. Non potrà così essere meritevole la domanda
basata su mera curiosità, o i cui presupposti siano la pura
astratta prospettazione della necessità di difesa dei propri
interessi, mentre ben potrà essere accolta la pretesa
fondata sulla necessità di difendere un puntuale interesse
giuridico, quale ad esempio quello alla tutela del proprio
buon nome, qualora la lettera richiamata nel fascicolo del
ricorso riporti doglianze sull’operato del funzionario, o
comunque espressioni potenzialmente lesive.
Non sarebbe
sufficiente, in tal caso, opporre la natura non ufficiale
dell’atto per giustificare il diniego, posto che l’art. 22,
c. 1, lett. d), definisce documento amministrativo ogni
rappresentazione del contenuto di atti, anche interni o non
relativi a uno specifico provvedimento, detenuti da una
pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico
interesse (quale nella fattispecie l’accertamento dei fatti
nell’evenienza di una contestazione di illecito stradale),
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale, né sarebbe sufficiente ad
evitare l’ostensione la considerazione delle esigenze di
riservatezza del terzo autore della lettera, anche qualora
egli negasse il proprio consenso, essendo il diritto di
accesso prevalente su tali cautele, a norma dell’art. 24, c.
7, della legge 241/1990, qualora esso venga in rilievo per la
cura o difesa degli interessi giuridici del richiedente -salva solamente la possibilità di oscurare le parti della
lettera manifestamente inconferenti con l’interesse
azionato, qualora presenti.
Qualora il funzionario abbia presentato invece
la richiesta in qualità di rappresentante della Pubblica
amministrazione coinvolta nella vicenda, nello svolgimento
quindi dei propri compiti istituzionali, in tal caso
l’accesso è regolato dall’art. 22, c. 5, l. 241/1990, il quale
stabilisce che l'acquisizione di documenti amministrativi da
parte di soggetti pubblici, ove non rientrante nella
previsione dell'art. 43, c. 2, dPR 445/2000 (consultazione
diretta da parte di una pubblica amministrazione o gestore
di servizio pubblico degli archivi dell'amministrazione
certificante per l'accertamento d'ufficio di stati, qualità
e fatti ovvero di dichiarazioni sostitutive presentate dai
cittadini), si informa al principio di leale collaborazione
istituzionale, il cui solo limite è, in via generale,
l’esigenza di rapporti di tipo interorganico o
intersoggettivo improntati al buonsenso, e pertanto non
sproporzionatamente gravosi né manifestamente irragionevoli
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso
dei consiglieri comunali a procedimenti disciplinari dei
dipendenti comunali.
Il Comune di … ha ricevuto richiesta da un consigliere
comunale di ottenere copia di tutta la documentazione
riguardante la sospensione disciplinare cautelare di un
dirigente del Comune nei confronti del quale è stato avviato
un procedimento penale. L’accesso agli stessi atti è stato
chiesto anche da un altro consigliere, che ha delegato un
cittadino terzo alla consultazione e al ritiro dei
documenti.
L’amministrazione riporta di ritenere corretto,
al fine di tutelare la riservatezza del dirigente,
delimitare la richiesta di accesso tramite il rispetto della
fase procedimentale soggetta alla tutela della riservatezza,
e differire quindi l’ostensione alla conclusione del
procedimento.
Chiede il Comune il parere di questa
Commissione sul proprio orientamento, e inoltre se sia
possibile concedere l’accesso nella forma della sola presa
visione, escludendo l’estrazione di copia, e se sia lecito
delegare l’esercizio dell’accesso a un terzo.
Il parere è nel senso che segue.
Consolidata giurisprudenza ha chiarito che i Consiglieri
comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a
tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento
del loro mandato: ciò al fine di poter valutare, con piena
cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto
ha infatti una ratio diversa da quella che contraddistingue
il diritto di accesso ai documenti amministrativi
riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10
del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ovvero a chiunque sia
portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex
art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): esso è
strettamente funzionale all'esercizio del mandato, alla
verifica e al controllo del comportamento degli organi
istituzionali decisionali dell'ente locale, ai fini della
tutela degli interessi pubblici, ed è peculiare espressione
del principio democratico dell'autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Posto che l’accesso del Consigliere non può essere soggetto
ad alcun onere motivazionale, giacché diversamente opinando
sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente,
attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del
consigliere comunale, e che il termine "utili", contenuto
nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267,
garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato
(cfr. C.d.S. n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa
derivare dall’eventuale natura riservata delle informazioni
richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto
d'ufficio (fra gli altri C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n.
2716, Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009,
n. 143) si ritiene che gli unici limiti all'esercizio del
diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano,
per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative
(fermo restando che la sussistenza di tali caratteri
necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso
debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio
possibile per gli uffici comunali.
Tanto premesso, è necessario stabilire se è legittimo, in
tale quadro, il differimento operato dall’Amministrazione, e
il parere di questa Commissione è orientato a un sostanziale
consenso alla prudenziale posposizione opposta dal Comune a
tutela della riservatezza.
Pur la richiamata e amplissima
previsione normativa, difatti, non travolge le diverse
ipotesi di cautele previste dall’ordinamento e finalizzate a
tutelare interessi specifici, diversi da quello
riconducibile, secondo l’impostazione più tradizionale, alla
mera protezione dell’esercizio della funzione
amministrativa, e connesse, nel caso di specie, alla
contemporanea fase istruttoria di un procedimento
disciplinare, e all’avviamento di un giudizio penale. In
tali eventualità i documenti, seppur detenuti
dall’amministrazione, non sono suscettibili di divulgazione,
perché il principio di trasparenza cede, quantomeno sul
piano temporale, a fronte dell’esigenza di salvaguardare
l’interesse protetto da speciali normative di segretezza, o
della necessità di tutelare, in fase di iniziale
chiarificazione, la riservatezza del controinteressato (cfr.
CdS sez. V sent. n. 1893/2001).
Per quanto riguarda poi
la possibilità di concedere ai
consiglieri comunali ostensione degli atti nella forma della
sola visione, essa, a opinione di questa Commissione, non è
praticabile: seppure la normativa di cui alla legge 241/1990,
ad autorevole parere del Supremo giudice amministrativo, non
può essere lo strumento normativo impiegato per disciplinare
le fattispecie in trattazione nel TUEL, proprio la diversa e
più ampia portata di tale ultima legge renderebbe illogico
ipotizzare la possibilità di consentire ai consiglieri
comunali un accesso solo rivolto alla visione degli atti (e
quindi affievolito nei modi), nel momento in cui, a seguito
della novella della legge 15/2005, tale cautela è risultata
obsoleta anche nei casi d’accesso partecipativo e
informativo previsti dalla disciplina generale della
materia.
Circa infine
la possibilità, da parte del consigliere, di
delegare un cittadino terzo al materiale esperimento
dell’acquisizione documentale, essa non è ammissibile.
Il
diritto di controllo del consigliere sull’attività
amministrativa dell’ente locale radica infatti il proprio
vastissimo raggio d’azione nel munus connaturato alla
funzione svolta, e ad esso è inscindibilmente connesso: non
può considerarsi tale potestà quale privilegio in
disponibilità di utilizzo funzionalmente immotivata, ma
sempre e solo quale strumento fornito dall’ordinamento per
l’esplicazione della propria singolare -e personale- qualità
esponenziale della comunità civica; né sarebbe poi possibile
consentire a tale delega in quanto solo il consigliere, e
non il terzo, è sottoposto all’obbligo del segreto
d’ufficio, posto dalla legge stessa a contemperamento del
diritto d’accesso nei casi di contatto con dati riservati,
della cui illegittima diffusione egli stesso è responsabile
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto
di accesso agli atti da parte di un ex consigliere comunale.
Il Comune di … chiede il parere di questa Commissione in
merito alla legittimità del diniego che ha opposto alla
richiesta d’accesso avanzata da un proprio ex consigliere
comunale.
Nello specifico l’amministrazione riporta che il signor
..., in qualità di consigliere comunale nel periodo 18.06.2008-11.06.2013, ha avanzato richiesta di
ottenere il tabulato della corrispondenza protocollata in
entrata tra il 01.07.2012 e il 31.05.2013, nonché le
missive intercorse con l’Ufficio scolastico provinciale di
Venezia-Mestre e con la sezione di San Donà di Piave del
Tribunale di Venezia tra il 18.06.2008 e il 12.06.2013. L’amministrazione ha negato l’ostensione, sul
presupposto del fatto che la qualità soggettiva di ex
consigliere comunale non è in alcun modo tutelata
dall’ordinamento, e che considerando quindi l’istanza alla
luce della legge 241/1990 la richiesta appare priva
dell’indicazione di un necessario interesse attuale e
concreto, nonché generica.
Dai documenti in possesso di questa Commissione non è
possibile dedurre se l’istante rivesta o meno la qualità di
residente nel territorio comunale.
Il parere di questa Commissione è nei sensi che seguono.
Pur non condividendo l’eccezione di genericità opposta dal
Comune (gli atti chiesti appaiono sufficientemente
individuati e datati) questa Commissione ritiene corretto il
diniego operato dall’Amministrazione qualora l’istante non
rivesta la qualità di residente nel territorio comunale.
Sono nel giusto difatti gli Uffici civici nel ritenere priva
di tutela ordinamentale la qualifica soggettiva di ex
consigliere comunale, e insufficiente l’indicazione
dell’interesse sottostante alla domanda d’ostensione, tale
da non permettere di qualificarla in alcun modo diversa da
quella, di per sé inammissibile, fondata sulla mera
curiosità di quivis de populo.
Qualora invece l’istante rivesta la qualità di residente nel
territorio comunale, in tal caso l’istanza andrebbe accolta.
In conformità al proprio consolidato orientamento (e a
quello del Giudice amministrativo: cfr. ex multis TAR
Puglia Lecce Sez. II, 12.04.2005, n. 2067; TAR Marche,
12.10.2001, n. 1133) questa Commissione ritiene difatti che,
qualora l’istante sia un cittadino residente nel Comune, il
diritto di accesso non sia soggetto alla disciplina dettata
dalla legge n. 241/1990 -che in effetti richiede la
titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento richiesto- bensì alla speciale
disciplina di cui all’art. 10, co. 1, del d.lgs. n.
267/2000, che sancisce espressamente ed in linea generale il
principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto
dei cittadini di accedere alle informazioni in possesso
delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della
necessità di dichiarare la sussistenza della situazione
sottostante al fine di poter valutare la legittimazione
all’accesso del richiedente.
Pertanto, considerato che il
diritto di accesso ex art. 10 TUEL si configura alla stregua
di un’azione popolare, il cittadino residente può accedere
alle informazioni dell'ente locale di appartenenza senza
alcun condizionamento e senza necessità della previa
indicazione delle ragioni della richiesta, dovendosi
cautelare la sola segretezza degli atti la cui esibizione è
vietata dalla legge o da esigenze di tutela della
riservatezza dei terzi, che nella specie non risultano né
dedotti né sussistenti
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Accesso
dei consiglieri comunali a procedimenti disciplinari dei
dipendenti comunali.
Il Comune di … ha ricevuto richiesta da un consigliere
comunale di accedere al decreto, con allegati, riguardanti
la rimozione e i procedimenti disciplinari, tuttora in
corso, di tre dipendenti dell’Amministrazione.
Il Comune, al
fine di tutelare la riservatezza dei dipendenti, e
coerentemente col parere reso dal Dipartimento della
funzione pubblica della Presidenza del consiglio dei
ministri nel 2002 su analoga fattispecie, ha riscontrato la
richiesta parzialmente, negando, fino alla conclusione del
procedimento, le schede riepilogative delle condotte
imputabili ai tre, allegate al decreto ed oggetto dell’avvio
del procedimento disciplinare.
Chiede il Comune il parere di
questa Commissione sul proprio orientamento.
Il parere è nel senso che segue.
Consolidata giurisprudenza ha chiarito che i consiglieri
comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a
tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento
del loro mandato: ciò al fine di poter valutare, con piena
cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto
ha infatti una ratio diversa da quella che contraddistingue
il diritto di accesso ai documenti amministrativi
riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10
del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ovvero a chiunque sia
portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex
art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): esso è
strettamente funzionale all'esercizio del mandato, alla
verifica e al controllo del comportamento degli organi
istituzionali decisionali dell'ente locale, ai fini della
tutela degli interessi pubblici, ed è peculiare espressione
del principio democratico dell'autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Posto che l’accesso del Consigliere non può essere soggetto
ad alcun onere motivazionale, giacché diversamente opinando
sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente,
attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del
consigliere comunale, e che il termine "utili", contenuto
nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267,
garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato
(cfr. C.d.S. n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa
derivare dall’eventuale natura riservata delle informazioni
richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto
d'ufficio (fra gli altri C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n.
2716, Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009,
n. 143) si ritiene che gli unici limiti all'esercizio del
diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano,
per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative
(fermo restando che la sussistenza di tali caratteri
necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso
debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio
possibile per gli uffici comunali.
Tanto premesso, è necessario stabilire se è legittimo, in
tale quadro, il differimento operato dall’Amministrazione, e
il parere di questa Commissione è orientato a un sostanziale
consenso alla prudenziale posposizione opposta dal Comune a
tutela della riservatezza.
Pur la richiamata e amplissima
previsione normativa, difatti, non travolge le diverse
ipotesi di cautele previste dall’ordinamento e finalizzate a
tutelare interessi specifici, diversi da quello
riconducibile, secondo l’impostazione più tradizionale, alla
mera protezione dell’esercizio della funzione
amministrativa, e connesse, nel caso di specie, al fatto che
i documenti, pur se richiamati nel decreto di rimozione,
sono alla base di una contemporanea fase istruttoria di un
procedimento disciplinare.
In tali eventualità i documenti,
seppur detenuti dall’amministrazione, non sono suscettibili
di divulgazione, perché il principio di trasparenza cede,
quantomeno sul piano temporale, a fronte dell’esigenza di
salvaguardare l’interesse protetto da speciali normative di
segretezza, o della necessità di tutelare, in fase di
iniziale chiarificazione, la riservatezza del controinteressato (cfr. in tal senso CdS sez. V sent. n.
1893/2001)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Portata
e limiti dell’accesso ambientale.
Il Sig. …, con nota del 19.09.2013, ha formulato alla
scrivente Commissione richiesta di parere in ordine alla
seguente fattispecie.
In data 13.08.2013 il richiedente ha chiesto
all’amministrazione comunale di poter accedere ai documenti
relativi ad un’ordinanza emessa a seguito di esposti e
segnalazioni a carico dello stabilimento balneare … in Portovenere per presunti abusi edilizi.
La richiesta veniva effettuata ai sensi della disciplina in
materia di c.d. accesso ambientale. L’amministrazione con
note interlocutorie ha chiesto una serie di precisazioni ed
integrazioni circa le ragioni poste a fondamento
dell’istanza ostensiva prodotta dal sig. ... il quale, a
sua volta, chiede alla scrivente Commissione se ciò sia
conforme o meno alla disciplina in materia di accesso alle
informazioni ambientali.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
In termini generali l’accesso ambientale trova la sua fonte
normativa nel decreto legislativo n. 195/2005 e nel decreto
legislativo n. 152/2006. Tali disposizioni riconoscono a
chiunque il diritto di accedere non solo ai documenti ma
anche alle informazioni ambientali, senza che all’uopo sia
necessario dimostrare la titolarità di un interesse
giuridicamente rilevante. La nozione di informazione
ambientale è molto ampia e tale da ricomprende al suo
interno certamente anche quelle relative ad eventuali abusi
edilizi siccome potenzialmente in grado di incidere sul bene
ambiente.
Alla luce di ciò, le richieste di integrazione sulla
titolarità di situazione giuridicamente rilevante in capo
all’istante, appaiono ultronee giusto il dettato normativo
di cui sopra.
Nei suesposti sensi è il parere della scrivente Commissione
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Accesso a titoli edilizi e concessioni di passo carrabile.
Il Sig. … con nota del 19.09.2013, ha formulato alla
scrivente Commissione richiesta di parere in ordine alla
seguente fattispecie.
In data 09.08.2013 il richiedente ha chiesto
all’amministrazione comunale di poter accedere ai titoli
edilizi ed alle concessioni di passo carrabile relative ad
un manufatto limitrofo a quello di residenza dell’istante.
Nella domanda di accesso, allegata alla richiesta di parere,
il ... faceva constatare sia la propria qualità di
rappresentante di palazzina del condominio di residenza che
il suo status di cittadino residente nel Comune acceduto.
L’amministrazione, a seguito di opposizione dei soggetti
controinteressati, chiedeva al Sig. ... di chiarire meglio
il proprio interesse all’accesso e le asserite esigenze di
tutela del condominio.
Chiede, pertanto, il Sig. … se l’agire dell’amministrazione
locale sia o meno conforme ai precetti che regolano il
diritto di accesso ed il suo esercizio previsti dal
legislatore.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
In termini generali l’amministrazione, qualora abbia dubbi
sulla legittimazione attiva del richiedente l’accesso, ha la
facoltà di chiedere a quest’ultimo di meglio specificare le
ragioni della istanza ostensiva (in tal senso depone la
lettera dell’art. 6, commi 1 e 5, del d.P.R. n. 184/2006).
Tuttavia occorre altresì osservare che nel caso di specie
l’accesso è stato richiesto ad un’amministrazione locale da
parte di un cittadino residente nel relativo territorio e
pertanto a disciplinare la fattispecie è la disciplina
speciale di cui all’art. 10 TUEL il quale non contempla la
motivazione della richiesta da parte dell’accedente al
contrario di quanto previsto dagli artt. 22 e seguenti della
legge n. 241/1990.
Peraltro, anche alla luce della normativa da ultimo
richiamata, la legittimazione del Sig. … si reputa
sussistere, attesa la vicinitas del proprio luogo di
residenza con quello cui si riferiscono i documenti oggetto
di domanda di accesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
di un parlamentare agli atti amministrativi, nell’ambito di
attività di sindacato ispettivo.
Espone il Dipartimento dei Vigili del Fuoco del Soccorso
pubblico e della difesa civile che la Senatrice … in data 18
febbraio ha inoltrato ai comandi provinciali dei vigili del
fuoco di Prato e di Pistoia richiesta d’accesso ad atti
amministrativi concernenti, rispettivamente, il nuovo
ospedale di Prato e il nuovo ospedale di Pistoia.
In particolare viene richiesta specifica documentazione in
possesso dei citati comandi relativa al "procedimento di
prevenzione incendi delle citate strutture” avendo necessità
di completare una attività di sindacato ispettivo.
Nel chiedere il parere a questa Commissione
sull’accessibilità ai chiesti documenti, codesto
Dipartimento richiama un parere espresso da questa
Commissione il 15.05.2003 in cui si precisava che al
fine di esercitare il controllo del Parlamento sull’attività
amministrativa del Governo, non può essere utilizzato lo
strumento del diritto d’accesso in quanto a tale scopo sono
previsti dall’ordinamento altri e più specifici mezzi
d’indagine.
Al riguardo questa Commissione, nel confermare il citato
parere del 15.05.2003 osserva, tra l’altro, che nei
confronti delle richieste d’accesso provenienti dai membri
del Parlamento non può trovare applicazione neppure la
disciplina dettata per i consiglieri Comunali e provinciali,
stante la natura di norma speciale della disposizione di cui
all’art. 43 del decreto legislativo n. 267 del 2000, recante
il T.U. degli enti locali.
Infatti, secondo il costante orientamento espresso da questa
Commissione (cfr., ad es., parere 14.10.2003 e parere 27.03.2012) la disciplina dettata dall’art. 43 del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, che indubbiamente assicura ai
Consiglieri comunali e provinciali un diritto di accesso ai
documenti amministrativi dell’amministrazione di
appartenenza dai confini più ampi di quello riconosciuto
agli altri soggetti, nel senso che le istanze di accesso non
devono neppure essere motivate, non è applicabile ai
Consiglieri regionali, ne tantomeno ai Deputati e ai
Senatori tenuto conto che si tratta di una norma avente
carattere speciale come tale in suscettibile di altra
interpretazione che non sia quella strettamente letterale.
Tuttavia, nel caso di specie, pervenendo la richiesta di
documentazione non già dal singolo Senatore a titolo
personale ma dal Senatore nella sua funzione di Senatore
Questore ed essendo rivolta ufficialmente
all’amministrazione esponente nell’esercizio dell’attività
di sindacato ispettivo, si deve ritenere applicabile il
principio di cui all’articolo 22, comma 5, della legge n. 241
del 1990, in forza del quale l’acquisizione di documenti
amministrativi da parte di soggetti pubblici, si informa al
principio di leale cooperazione istituzionale.
Tale principio, naturalmente, va inteso come una
accessibilità maggiore rispetto a quella prevista dalla
legge n. 241 del 1990 ed, inoltre, non è necessaria alcuna
notifica ai controinteressati all’accesso ne possono mai
avere rilevo, in caso di acquisizione di documenti da parte
di soggetti pubblici, profili di riservatezza astrattamente
ipotizzabili, in quanto, comunque, il soggetto pubblico
richiedente è tenuto al rispetto delle regole di
riservatezza nella trattazione dei dati contenuti nei
documenti acquisiti .
Pertanto, premesso quanto sopra, ad avviso della
Commissione, codesto Dipartimento appare obbligato a dover
fornire, alla luce del suddetto principio di leale
cooperazione istituzionale, tutte le informazioni e i
documenti richiesti, a prescindere dai limiti stabiliti
dalla L. 241/1990 che non trovano applicazione nel caso di
specie, inerente una richiesta di documentazione rivolta da
soggetto pubblico ad un'altra amministrazione
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.03.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Categorie
di documenti inaccessibili per la salvaguardia dell’ordine
pubblico.
Il Ministero delle politiche agricole alimentari e
forestali, in data 09.10.2012, rivolgeva al Consiglio di
Stato una richiesta di parere in ordine alla portata
giuridica delle disposizioni di cui agli articoli 2, 3 e 4
del D.M. n. 392/1997- che individuano le categorie di
documenti inaccessibili per la salvaguardia dell’ordine
pubblico, della prevenzione e della repressione della
criminalità, della sicurezza, della difesa nazionale, delle
relazioni internazionali e della riservatezza di terzi,
persone, gruppi o imprese, in relazione ai casi di
esclusione, di cui all’art. 8 del d.p.r. n. 352/1986,
espressamente richiamato dall’art. 14, comma 1, terzo
periodo del d.p.r. n. 184/2006-, chiedendo, in particolare,
a tale autorevole consesso, di pronunciarsi sulla
possibilità di considerare tali disposizioni come limiti
soccombenti rispetto al c.d. accesso difensivo, disciplinato
dall’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990, precisando
altresì la natura delle esigenze difensive idonee a
giustificare la prevalenza di tale diritto.
Il Consiglio di Stato - sezione seconda, all’esito
dell’adunanza del 13.11.2013, invitava
l’Amministrazione ad acquisire le valutazioni della
Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento affari
giuridici e legislativi, della Commissione per l’accesso ai
documenti amministrativi, dell’Autorità Garante per la
protezione dei dati personali e dell’Ufficio legislativo del
Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali,
nonché a precisare le categorie di atti in relazione alle
quali più frequentemente si è configurato un contrasto
interpretativo.
L’Amministrazione, con nota del 05.03.2014, individuava tali
categorie di atti in quelle contemplate dall’art. 2, lettera
c), e), f), g), i), l), o) nonché dall’art. 4 lett. b),
o), p).
Successivamente, in data 23.1.2014, l’Amministrazione
invitava la Commissione a pronunciarsi sulla questione
sottoposta al Consiglio di Stato.
Innanzitutto si deve precisare che, come ha avuto occasione
di affermare, anche recentemente, il Consiglio di Stato
(Ordinanza collegiale n. 600/2014 della VI Sez. del
Consiglio di Stato) - nonostante la formulazione letterale
dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990 possa indurre
a ritenere che l’esigenza di tutela del diritto di difesa
sia prevalente sulle finalità sottese alle disposizioni
regolamentari che prevedono casi di sottrazione di documenti
all’accesso, in attuazione di quanto previsto dall’art. 24,
comma 6 della predetta legge- tale esigenza deve essere
ritenuta prevalente solo rispetto al diritto alla
riservatezza, salvo il disposto dell’art. 60 del decreto
legislativo n. 196/2003.
Ne consegue la legittimità delle norme regolamentari
contenute negli artt. 2 e 3 del D.M. n. 392/1997 che
sottraggono all’accesso determinate categorie di documenti
amministrativa in funzione della salvaguardia dell’ordine
pubblico, della prevenzione e la repressione della
criminalità, da un lato, e della salvaguardia della
sicurezza, della difesa nazionale e delle relazioni
internazionali, dall’altro.
Quanto all’ 4 del D.M. n. 392/1997 che individua i documenti
inaccessibili per la salvaguardia della riservatezza di
terzi, persone, gruppi ed imprese, la Commissione rileva
preliminarmente la non correttezza della limitazione della
garanzia prevista nell’ultima parte del comma 1 di tale
disposizione alla sola possibilità di prender visione degli
atti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere
gli interessi giuridicamente rilevanti degli accedenti, alla
stregua del disposto dell’art. 22, comma 1, lettera a) della
legge n. 241/1990, a norma del quale il diritto di accesso
ha ad oggetto sia la visione, sia l’estrazione di copia dei
documenti amministrativi ai quali gli accedenti siano
interessati.
Inoltre la Commissione ritiene che tale disposizione debba
essere interpretata risolvendo il conflitto tra l’esigenza
di salvaguardare la riservatezza di terzi, persone, gruppi
ed imprese, che giustifica la sottrazione all’accesso di
siffatti documenti, e l’esigenza di tutela del diritto di
curare o difendere in giudizio gli interessi degli
accedenti, alla luce del combinato disposto tra l’art. 24,
comma 7, della legge n. 241 e l’art. 60 del d.lgs. n.
196/2003.
In forza di tale combinato disposto l’accesso difensivo ai
documenti contenenti dati sensibili e giudiziari è
consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile
e, laddove si tratti di documenti idonei a rivelare lo stato
di salute o la vita sessuale, solo a condizione che la
situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare
sia di rango almeno pari a quello del titolare dei dati
contenuti nei documenti in questione, ovvero consista in un
diritto della personalità o in un altro diritto o libertà
fondamentale e inviolabile.
Roma, 18 marzo 2014
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.03.2014 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Costi dell'accesso esercitato in via telematica.
Il partecipante ad una procedura concorsuale indetta dalla
Scuola nazionale d'amministrazione ha chiesto di visionare
telematicamente i propri temi, e chiede se sia corretta la
richiesta dell'amministrazione di subordinare l'accesso al
pagamento di 3,25 €, a fronte di una richiesta non di copia
cartacea ma di solo invio telematico. In merito questa
Commissione osserva quanto segue. Sebbene il tenore
letterale dell'art. 25 c. 1 della legge 241/90 ("L'esame dei
documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato
soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le
disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti
di ricerca e visura.") possa far sorgere, prima facie,
qualche perplessità sulla correttezza della richiesta di una
somma di denaro per consentire l’accesso in via telematica,
occorre rilevare due aspetti.
Il primo è che anche qualora la richiesta di invio
telematico sia presentata come domanda di visione, essa, per
motivi intrinsecamente legati al mezzo tecnologico usato,
nella sostanza si risolve non nel semplice esame degli atti,
quanto piuttosto nella necessaria fornitura di una copia
informatica del documento, ottenuta tramite la ricerca
dell'atto e la successiva scansione, e come tale andrebbe
pertanto considerata ai fini della valutazione dei costi.
Il secondo è che la giurisprudenza amministrativa ha in più
di un’occasione affermato che l’espressione “costi di
riproduzione” non sia da intendere stricto sensu come
riferibile alle spese da sostenere per la riproduzione
cartacea di documenti, ma anche (cfr. tra le altre Consiglio
Stato, Sez. V, 25 ottobre 1999, n. 1709) alle particolari
spese sostenute per la ricerca degli atti e ai costi di
fotoriproduzione/scansionamento. Già questa Commissione,
inoltre, con la propria Direttiva del 19 marzo 1993 n.
27720/928/46, ha stabilito che “Nel caso in cui il rilascio
di copia comporti l'uso di apparecchiature speciali,
procedure di ricerca di particolare difficoltà, o formati
particolari su carta speciale, ciascuna Amministrazione
potrà individuare costi diversi da corrispondere sempre
mediante applicazione di marche da bollo.“
Pertanto a parere di questa Commissione è giustificata la
richiesta di pagamento dei costi di riproduzione sporta
dall'Amministrazione qualora effettivamente essa abbia
dovuto provvedere, a seguito della richiesta ostensiva,
all'espresso scansionamento dell'atto richiesto, mentre tale
pretesa apparirebbe indebita qualora la copia elettronica
dell'atto fosse già stata in possesso dell'amministrazione,
ed essa si fosse quindi solo limitata ad inviarla al
richiedente, in quanto in tal caso la mera trasmissione via
e-mail del documento informatico non avrebbe determinato
costi. La misura di tali importi deve inoltre costituire
oggetto di responsabile valutazione da parte di ogni singola
amministrazione, ed essere equo e non esoso, nel rispetto
dei principi di ragionevolezza e di contenuta misura del
contributo, in quanto la richiesta di un importo elevato
costituirebbe un limite all’esercizio del diritto di
accesso.
Nel caso odierno la tenuità della somma richiesta appare
proporzionata al rimborso dei costi sostenuti
dall'amministrazione per la riproduzione informatica di
quanto chiesto, qualora effettivamente essa sia avvenuta a
motivo del soddisfacimento della richiesta dell'istante, e
non potrebbe considerarsi in tal caso una limitazione
indiretta dell’esercizio del diritto di accesso.(Parere reso
nella seduta del 19 dicembre 2013)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 19.12.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Illegittimità della richiesta di copia del
documento di identità per accesso richiesto per via
telematica.
Un iscritto al corso di laurea magistrale in “ Scienze
dell’Economia” presso l’Unicusano - Università degli Studi
Niccolò Cusano Telematica -, espone di aver sostenuto
l’esame di Scienza delle Finanze – corso avanzato presso la
sede di Trieste – e , ritenendo incongrua la valutazione di
28/30, ha chiesto tramite posta elettronica certificata con
firma digitale di visionare il proprio elaborato scritto, i
criteri di valutazione dell’elaborato, il verbale di esame
ed il verbale di correzione dell’elaborato, lo svolgimento
dell’elaborato (soluzione di tutti i quesiti proposti, i
titoli accademici e scientifici) in base ai quali è stato
conferito l’insegnamento del suddetto corso al dott. Alessio
Fanucci.
Avendo l’Università risposto tramite PEC (posta elettronica
certificata) informando che il procedimento di accesso era
stato sospeso non essendo stata allegata alla domanda copia
di un documento d’identità, l’esponente chiede se sia
legittima tale richiesta dell’Amministrazione e se sia
altresì legittima la richiesta di € 9,00 per spese di
spedizione qualora la copia della documentazione oggetto di
accesso possa essere inviata tramite P.E.C. (posta
elettronica certificata) con scansione di detti documenti.
Ad avviso della Commissione l’operato dell’Amministrazione
non può essere condiviso.
L’art. 65 del D. lgs 7 marzo 2005, n.82 e s.m.i. (c.d.
Codice dell’amministrazione digitale) al primo comma, con
formulazione chiara e precisa, dispone che le istanze e le
dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni e ai
gestori dei servizi pubblici per via telematica ai sensi
dell’art. 38, commi 1 e 3, del D.P.R. 28 dicembre 2000, n.
445, sono valide se, tra l’altro, sottoscritte mediante la
firma digitale, la firma elettronica qualificata il cui
certificato è rilasciato da un certificatore accreditato.
Con formulazione altrettanto chiara e precisa il secondo
comma del suddetto articolo dispone che le istanze e le
dichiarazioni inviate o compilate su sito secondo le
modalità previste dal primo comma sono equivalenti alle
istanze e alle dichiarazioni sottoscritte con firma
autografa apposta in presenza del dipendente addetto al
procedimento.
E’ evidente, pertanto, che la disciplina dettata dalla
richiamata normativa trova il proprio presupposto nel fatto
che il procedimento previsto per ottenere la firma digitale
certificata da sicurezza assoluta sull’identità del titolare
della firma digitale, con la conseguenza che, come nel caso
di specie, la domanda di accesso tramite pec non necessita
affatto di essere corredata da fotocopia di documento
d’identità dell’accedente.
Per quanto concerne, infine, il secondo quesito va
sottolineato che alla domanda di accesso tramite pec non si
applica l’imposta di bollo né altri oneri per la scansione
dei documenti da trasmettere telematicamente, mentre la
domanda di rilascio di copie conformi nel normale formato
cartaceo continua ad essere assoggettata al pagamento
dell’imposta di bollo ed ai costi di riproduzione dei
documenti. In tal senso si sono determinate alcune
Amministrazioni come, ad es. il Ministero dell’Interno con
circolare n. 300/A/ 7138/11/101/138 del 2 settembre 2011.
(Parere reso nella seduta del 18 novembre 2013)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.11.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso a richieste di autorizzazioni
urbanistiche.
La Soprintendenza per i beni architettonici e per il
paesaggio del Comune di Roma ha rappresentato di aver
ricevuto da un Comitato di quartiere istanza di accesso, ai
sensi della legge 241/90 e del d.lgs. 195/05, alla richiesta
autorizzativa del progetto esecutivo per la realizzazione di
un campo da golf e di una ristrutturazione edilizia in
un'area sottoposta a tutela paesaggistica, istanza motivata
dall'esistenza di un contenzioso, pendente innanzi al Tar
Lazio, e in cui il Comitato è parte processuale, che ha per
oggetto la richiesta di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica rilasciata dalla Regione Lazio per la
realizzazione di tale campo da golf. La controinteressata si
è opposta all'accesso a tali documenti, fra l'altro
obiettando di voler rinunciare al procedimento e di aver
chiesto il ritiro della documentazione, che non rivestirebbe
più, pertanto, la natura di documento amministrativo, e che,
in quanto opera d'ingegno, sarebbe comunque protetta da
privativa ex lege 633/41. Per tanto sopra scritto la
Soprintendenza ha chiesto a questa Commissione di esprimere
il proprio parere sull'ammissibilità o meno dell'ostensione
dei documenti, che risultano attualmente in possesso
dell'Amministrazione.
Non pare a questa Commissione dubbia la legittimazione
passiva all'accesso degli atti in esame, stante il disposto
dell'art. 22 c. 1 lett. d) l. 241/90 "Si intende (…) per
documento amministrativo ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra
specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi a
uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica
amministrazione e concernenti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale;" e dell'art.
2 c. 2 d.P.R. 184/06 "Il diritto di accesso si esercita con
riferimento ai documenti amministrativi materialmente
esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa
data da una pubblica amministrazione". Talché, sub specie
iuris, scolora la rilevanza dell'intervenuta rinuncia al
procedimento nelle more eventualmente operata dalla
ricorrente, qualora, come nella fattispecie, tali documenti,
anche non più relativi a un procedimento in corso, siano
nella disponibilità dell'amministrazione, e
consustanzialmente concernenti un'attività
dell'amministrazione, quella della tutela costituzionalmente
protetta del paesaggio, di pacifico pubblico interesse.
Per quanto alla legittimazione attiva dell'istante, essa
viene rappresentata come motivata da duplice interesse:
quello alla tutela dei propri interessi in giudizio, e
quello alla pubblica conoscenza di documenti riguardanti
materia ambientale. In disparte quest'ultimo aspetto,
risulta a questa Commissione dirimente, nel valutare il
diritto dell'istante a ottenere l'ostensione, pur la sola
disamina della questione sul presupposto della legge 241/90.
Tale legge, difatti, stabilisce all'art. 24 c. 7 che "deve
comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici",
solo ponendo la cautela dell'indispensabilità in caso di
dati sensibili, giuridici, sanitari o sessuali, odiernamente
assenti. Orbene, stante l'oggetto del giudizio
amministrativo in cui l'accedente è parte processuale, pare
innegabile la connessione dei documenti domandati alle
necessità della costruzione di un'adeguata strategia
processuale, per la quale è d'interesse sia la ricognizione
dello stato di fatto che la ricostruzione cronologica delle
modificazioni dei progetti a cui l'istante si oppone. A
tutela dell'opera d'ingegno del controinteressato rimane,
del resto, il fatto che il consentimento dell'accesso non
sgrava l'accedente dalla responsabilità per l'eventuale
utilizzo illegittimo degli atti ottenuti, quale ad esempio
un indebito sfruttamento economico dei progetti
architettonici. (Parere reso il 18 novembre 2013)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.11.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: Richieste di accesso, continue ed abnormi, di ex
amministratori comunali o ex dipendenti e collaboratori del
Comune.
Il Sindaco del Comune di Solofra fa presente che nel giro di
trenta giorni è pervenuta all’Ente una enorme mole di
richieste di accesso ex legge n. 241 del 1990, inoltrate da
ex amministratori comunali o ex dipendenti e collaboratori
dell’Ente stesso.
Premesso che, a suo avviso, tali richieste sarebbero state
presentate sotto forma di istanze di accesso ma con
l’intento di effettuare un controllo generalizzato
sull’attività amministrativa del Comune, l’esponente chiede
al riguardo il parere di questa Commissione, allegando tutte
le istanze pervenute.
Osserva al riguardo la Commissione, esaminate le istanze
allegate alla richiesta di parere, che le stesse non possono
essere qualificate quali domande di accesso ai sensi della
legge n. 241/1990 essendo esse preordinate non
all’acquisizione di documentazione amministrativa in
possesso dell’Amministrazione, ma piuttosto ad avere
generiche informazioni o a sollecitare verifiche ovvero ad
inoltrare diffida.
E’ evidente, pertanto, che le fattispecie
in esame si pongono al di fuori di tutta la normativa
dettata per l’esercizio del diritto di accesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 25.10.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Accesso di consigliere comunale.
Il Signor .., consigliere comunale di S. ..., espone che le
modalità di esercizio del munus presso tale Comune sono
regolamentate dalla deliberazione del Consiglio Comunale n.
44 del 27.09.2007.
Tale delibera sarebbe stata modificata dalla deliberazione
della Giunta n. 32 del 2013, non ratificata dal Consiglio,
che determinerebbe il rischio di comprimere le prerogative
dei consiglieri e pregiudicare di conseguenza la cura
dell’interesse pubblico connesso al mandato conferito.
Ad avviso della Commissione la tesi dell’esponente non può
essere condivisa.
La citata deliberazione di Giunta, invero, non modifica
affatto il regolamento approvato dal Consiglio in materia di
esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali,
comprimendone le prerogative o restringendone i confini; al
contrario il suddetto provvedimento giuntale si limita a
disciplinare in concreto l’esercizio del diritto di accesso
al dichiarato fine di evitare, per quanto possibile, ogni
intralcio al normale svolgimento dell’attività
amministrativa dell’Ente ed al regolare funzionamento degli
uffici comunali.
Tale finalità, per altro, nella scia della consolidata
giurisprudenza del giudice amministrativo, è stata sempre
affermata da questa Commissione.
Va soggiunto, infine, che la delibera di Giunta in questione
richiama espressamente il secondo comma dell’art. 43 del
D.Lgs. n. 267/2000, che individua i confini dell’esercizio
del diritto di accesso da parte dei consiglieri provinciali
e comunali durante l’espletamento del loro mandato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 25.10.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: accesso alle planimetrie di immobili di
proprietà per via telematica.
L’Ing. ….ha chiesto all’Agenzia delle Entrate, Ufficio
Provinciale di…, di poter accedere alle planimetrie di
immobili di sua proprietà per via telematica, non potendo
recarsi personalmente presso l’ufficio per motivi di lavoro.
L’Amministrazione interessata ha fatto presente che una tale
forma di accesso non è consentita ai privati i quali, per
ottenere le informazioni richieste, devono recarsi
personalmente presso l’Ufficio o tramite altro soggetto
all’uopo formalmente delegato.
Al riguardo la Commissione osserva che con provvedimento del
Direttore delle Entrate 30.09.2010 è stata data la
possibilità soltanto a tecnici professionisti, formalmente
incaricati dai titolari dei diritti reali sull’immobile
(ovvero dall’autorità giudiziaria), abilitati alla
presentazione telematica degli atti di aggiornamento
catastale o ad adempimento connessi alla stipula di atti
relativi ad un immobile.
Per consultare le planimetrie on-line è necessario l’invio
telematico di una richiesta all’Agenzia, sottoscritta dai
professionisti abilitati con firma digitale, che deve
contenere la specifica dichiarazione relativa all’incarico
professionale ricevuto per l’accesso alla planimetria di un
determinato immobile.
Alla luce della suindicata normativa, la cui formulazione
non lascia spazio ad altra interpretazione che non sia
quella squisitamente letterale, deve ritenersi che i privati
siano esclusi dalla possibilità di esercitare il diritto di
accesso alle planimetrie catastali per via informatica.
E’ appena il caso di sottolineare, infine, che il privato
non può ottenere l’attivazione del servizio Sister come
professionista, per il solo fatto di aver inoltrato
all’Ufficio una richiesta con posta certificata,
sottoscritta con firma digitale
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.07.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso alle ingiunzioni di pagamento dell’Unione
di comuni da parte del consigliere di uno dei comuni.
Un’unione di Comuni intende negare l’accesso richiesto da un
consigliere di uno dei Comuni costituenti l’Unione per
conoscere gli atti relativi alle ingiunzioni di pagamento.
L’Unione di comuni invoca a fondamento del diniego due
precedenti di questa Commissione (12.05.2009 e 13.04.2010),
che aveva negato la legittimazione del consigliere comunale
ad ottenere le informazioni (mancando un rapporto di
dipendenza), fatti salvi i diritti informativi esercitabili
nei confronti dei rappresentanti comunali eletti in seno
all’Unione.
Dall’altra parte, il consigliere comunale
lamenta che proprio la mancanza in concreto di tali
rappresentanti nell’Unione rende impossibile ottenere
informazioni necessarie per capire la grave situazione
debitoria del Comune nei confronti dell’ente sovracomunale,
stigmatizzata peraltro anche dalla Corte dei Conti che
paventava una possibile dichiarazione di dissesto.
In disparte ogni considerazione in ordine ai problemi sulla
competenza di questa Commissione, ai sensi dell’articolo 4,
comma 7, del d.lgs. n. 33 del 2013, si fa presente che
trattasi di documenti con obbligo di pubblicazione, quindi
soggetti all’accesso civico.
In particolare, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 14.3.2013 n. 33
(pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80 ed entrato in vigore
il 20 aprile u.s.) chiunque -e dunque anche i consiglieri
comunali- ha diritto di ottenere l’accesso ai dati relativi
ai controlli sull'organizzazione e sull'attività
dell'amministrazione che la p.a. ha l’obbligo di pubblicare.
Per quanto qui interessa, le pubbliche amministrazioni (tra
cui rientra anche l’unione dei Comuni) pubblicano,
unitamente agli atti cui si riferiscono, i rilievi non
recepiti degli organi di controllo interno, degli organi di
revisione amministrativa e contabile e tutti i rilievi
ancorché recepiti della Corte dei conti, riguardanti
l'organizzazione e l'attività dell'amministrazione o di
singoli uffici (art. 31 del citato D.Lgs. n. 33/2013).
Conseguentemente, la Commissione è del parere che l’acceso
debba essere concesso non potendo in senso contrario
invocarsi le pronunce citate dall’istante, essendo relative
a fattispecie verificatesi prima dell’innovazione
legislativa introdotta con “l’accesso civico” di cui al D.lgs. n. 33 del 2013
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 03.10.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso di un
consigliere dell’Ordine ai verbali e atti della precedente
consiliatura.
L’Ordine professionale in indirizzo ha chiesto a questa
Commissione se sussista o meno il diritto di un componente
di prima nomina, a seguito del rinnovo dei consiglieri
dell’Ordine, a conoscere i verbali del Consiglio e della
Commissione disciplinare della precedente consiliatura e in
caso positivo se possano essere oggetto di ostensione anche
i verbali inerenti all’istruttoria di esposti o ricorsi
disciplinari ed ancora se in tal caso debbano essere
informati i controinteressati.
In linea generale, la Commissione osserva che, anche la
giurisprudenza amministrativa più recente -che si è
espressa a favore della natura pubblicistica dei Consigli
professionali i quali, sia pure con riferimento alle loro
articolazioni locali, rientrano nella nozione di pubblica
amministrazione di cui alla legge n. 241/1990- ha affermato
che sono accessibili i verbali e le delibere delle sedute
consiliari, sempreché sussista un interesse diretto,
concreto, attuale dell’istante corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata alla
documentazione richiesta.
Nel caso in esame, dal tenore dell’istanza di accesso, non
si evince quale sia l’interesse specifico del consigliere ad
ottenere copia integrale di tutti i verbali della
consiliatura. Sarà necessario che il richiedente dettagli il
proprio interesse al riguardo, non potendo ritenersi
implicito nella sola qualità di consigliere dell’Ordine,
altrimenti il rischio è che l’istanza di accesso si
configuri come controllo generalizzato dell’operato accesso,
come tale illegittima.
Qualora la verifica dell’interesse specifico dell’istante
fosse positiva, e l’accesso riguardasse documentazione
afferente alla posizione di terzi controinteressati,
l’Ordine avrà l’onere di darne comunicazione ai
controinteressati ex art. 3 DPR n. 184/2006 e di verificare la
fondatezza di eventuali motivi di opposizione all’accesso,
contemperando le esigenze di riservatezza e quelle
dell’accesso.
Infatti, gli atti di un procedimento
disciplinare non possono considerarsi documenti esclusi tout
court dall'accesso in quanto il diritto di accesso prevale
anche sulla tutela della riservatezza qualora il primo sia
strumentale alla cura o alla difesa dei propri interessi
giuridici (in conformità all’art. 15, comma 2, del regolamento
attutivo emanato dall’Ordine), salvo che vengano in
considerazione dati sensibili o sensibilissimi (poiché in
tal caso ai sensi dell’art. 24, co. 7, legge n. 241/1990 l’accesso
spetta nei limiti in cui sia strettamente indispensabile o
nei termini di cui la situazione giuridicamente rilevante
che si intende tutelare con la richiesta di accesso sia di
rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero
consiste in un diritto della personalità o in un altro
diritto o libertà fondamentale e inviolabile)
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 03.10.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso di un
consigliere comunale agli elenchi dei contribuenti locali e
dei debitori a qualsiasi titolo delle casse comunali.
In disparte i problemi sulla competenza di questa
Commissione, ai sensi dell’articolo 4, comma 7, del d.lgs.
n. 33 del 2013, si osserva che la richiesta di accesso è
pienamente legittima e debba essere soddisfatta
nell’immediato. Infatti si fa presente che trattasi nel caso
di specie di documenti con obbligo di pubblicazione, quindi
soggetti all’accesso civico ai sensi del d.lgs. n. 33 del
2013.
In particolare, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 14.03.2013 n. 33
(pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80 ed entrato in vigore
il 20 aprile u.s.), chiunque -e dunque anche i consiglieri
comunali- ha diritto di ottenere l’accesso ai i dati
relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività
dell'amministrazione.
Infatti, le pubbliche amministrazioni
pubblicano, unitamente agli elenchi dei contribuenti locali
e dei debitori e tutti gli atti riguardanti l'organizzazione
e l'attività dell'amministrazione o di singoli uffici (art.
31 del citato D.Lgs. n. 33/2013).
Conseguentemente, la Commissione è del
parere che l’acceso debba essere concesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 03.10.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso alle ingiunzioni di pagamento dell’Unione
di comuni da parte del consigliere di uno dei Comuni.
Un’unione di Comuni intende negare l’accesso richiesto da un
consigliere di uno dei Comuni costituenti l’Unione per
conoscere gli atti relativi alle ingiunzioni di pagamento.
L’Unione di comuni invoca a fondamento del diniego due
precedenti di questa Commissione (12.05.2009 e 13.04.2010),
che aveva negato la legittimazione del consigliere comunale
ad ottenere le informazioni (mancando un rapporto di
dipendenza), fatti salvi i diritti informativi esercitabili
nei confronti dei rappresentanti comunali eletti in seno
all’Unione.
Dall’altra parte, il consigliere comunale
lamenta che proprio la mancanza in concreto di tali
rappresentanti nell’Unione rende impossibile ottenere
informazioni necessarie per capire la grave situazione
debitoria del Comune nei confronti dell’ente sovracomunale,
stigmatizzata peraltro anche dalla Corte dei Conti che
paventava una possibile dichiarazione di dissesto.
In disparte ogni considerazione in ordine ai problemi sulla
competenza di questa Commissione, ai sensi dell’articolo 4,
comma 7, del d.lgs. n. 33 del 2013, si fa presente che
trattasi di documenti con obbligo di pubblicazione, quindi
soggetti all’accesso civico.
In particolare, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 14.03.2013 n. 33
(pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80 ed entrato in vigore
il 20 aprile u.s.) chiunque -e dunque anche i consiglieri
comunali- ha diritto di ottenere l’accesso ai dati relativi
ai controlli sull'organizzazione e sull'attività
dell'amministrazione che la P.A. ha l’obbligo di pubblicare.
Per quanto qui interessa, le pubbliche amministrazioni (tra
cui rientra anche l’unione dei Comuni) pubblicano,
unitamente agli atti cui si riferiscono, i rilievi non
recepiti degli organi di controllo interno, degli organi di
revisione amministrativa e contabile e tutti i rilievi
ancorché recepiti della Corte dei conti, riguardanti
l'organizzazione e l'attività dell'amministrazione o di
singoli uffici (art. 31 del citato D.Lgs. n. 33/2013).
Conseguentemente, la Commissione è del parere che l’accesso
debba essere concesso non potendo in senso contrario
invocarsi le pronunce citate dall’istante, essendo relative
a fattispecie verificatesi prima dell’innovazione
legislativa introdotta con “l’accesso civico” di cui al D.lgs. n. 33 del 2013
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 03.10.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso ai verbali delle riunioni preparatorie e
ai verbali delle sedute del CIPE, nonché ai documenti
propedeutici alle deliberazioni del CIPE.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per
la programmazione e il coordinamento della politica
economica, espone che il ruolo determinante del CIPE
(Comitato interministeriale per la programmazione economica)
in settori chiave dell’economia nazionale e in particolare
in quello delle infrastrutture strategiche, favorisce una
crescente attenzione dei media, delle associazioni
esponenziali di interessi collettivi e di interessi diffusi,
dei soggetti territoriali e dei cittadini sull’attività,
posta in essere dal Comitato che si traduce, tra l’altro, in
un sensibile incremento delle istanze di accesso ai verbali
delle riunioni preparatorie e delle sedute del CIPE, nonché
sugli atti propedeutici alle deliberazioni del CIPE, con
impatti significativi sia sull’attività del Dipartimento che
per il CIPE svolge attività di supporto tecnico e
amministrativo sia su quelli del Comitato stesso.
Tutto ciò premesso il Dipartimento esponente, dopo aver
indicato il quadro normativo di riferimento che detta la
disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi
del CIPE, contenuta nel D.P.C.M. 27.06.2011, n. 143,
“Regolamento recante l’individuazione dei casi di esclusione
dal diritto di accesso ai documenti amministrativi di
competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri ai
sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 07.08.1990,
n. 241” e nella deliberazione CIPE 30.04.2012, n.
62/2012, “Regolamento interno del CIPE”, e dopo aver
rilevato che alcune disposizioni contenute nelle due
normative non sembrano perfettamente coincidenti, chiede a
questa Commissione quale sia la normativa da applicare a
fronte di una istanza di accesso ai verbali ed agli atti
propedeutici alle deliberazioni del CIPE e, nell’ipotesi in
cui si dovesse ritenere prevalente il D.P.C.M. rispetto alla
delibera CIPE, come debba essere intesa l’espressione
“provvedimenti riguardanti singoli soggetti” ivi prevista.
Con riferimento ai quesiti posti dal Dipartimento esponente
questa Commissione osserva quanto segue.
Il D.P.C.M. 27.06.2011, n. 143, con formulazione chiara
e precisa, dispone che sono sottratti all’accesso i
documenti propedeutici alle deliberazioni del CIPE, quali
proposte e relative notifiche, valutazioni, elaborazioni,
ove non contenenti provvedimenti riguardanti singoli
soggetti; i verbali del CIPE e delle connesse riunioni
preparatorie, ove non contenenti provvedimenti riguardanti
singoli soggetti; le delibere del CIPE in corso di
registrazione o di pubblicazione, salvi i casi in cui
sussistono precise condizioni al pubblico interesse come
previsto dall’art. 11, comma 2, del Regolamento del CIPE,
ove non contenenti provvedimenti riguardanti singoli
soggetti.
E’ certamente di diverso tenore la disposizione contenuta
nell’art. 7, comma 3, del Regolamento interno del CIPE,
secondo cui sono sottratti all’accesso tutti gli atti
endoprocedimentali, ivi comprese proposte, valutazioni,
elaborazioni e relative modifiche, inerenti alle
deliberazioni del Comitato relative ad atti amministrativi
generali, di pianificazione e di programmazione, tranne che
la loro conoscenza sia necessaria per curare o per difendere
gli interessi giuridici dei richiedenti.
Sotto un primo profilo le due normative non sembrano avere,
dal punto di vista sostanziale, un contenuto differente,
tenuto conto che ambedue, pur usando locuzioni diverse,
sottraggono in via generale all’accesso tutti gli atti
endoprocedimentali preordinati all’adozione delle delibere
del CIPE, né può rinvenirsi un contrasto nella previsione
delle eccezioni per la decisiva ragione che essendo escluso
il controllo generalizzato sull’azione della pubblica
amministrazione, è evidente che l’eventuale accesso può
essere consentito solo a soggetti ben individuati che
abbiano un interesse qualificato alla conoscenza di una
determinata documentazione secondo i principi dettati dalla
L. 241/1990.
Come esattamente rilevato dal Dipartimento esponente, più
consistente, sotto altro profilo, si rivela la discrasia tra
le due normative con riferimento alla circostanza che,
mentre il D.P.C.M. sottrae all’accesso i verbali e gli atti
propedeutici alle deliberazioni del CIPE, il Regolamento
interno del Comitato differisce l’accesso alla data di
pubblicazione della deliberazione cui si riferisce l’atto
richiesto, nulla dispone sull’accessibilità ai verbali delle
riunioni preparatorie del Comitato, qualifica come riservati
i verbali delle sedute del Comitato stesso.
Al riguardo, invero, le due normative non si rivelano
perfettamente coincidenti e tuttavia, al di là di
interpretazioni di carattere sistematico finalizzate al loro
coordinamento, deve sottolinearsi che, nella gerarchia delle
fonti, non può che essere data prevalenza alle disposizioni
del D.P.C.M., atteso che, in assenza di una apposita ed
espressa disposizione di legge attributiva del relativo
potere, il Regolamento interno del CIPE non può adottare
disposizioni in contrasto con quelle contenute nel D.P.C.M..
Per quanto riguarda l’ulteriore quesito concernente
l’interpretazione da dare alla locuzione “provvedimenti
riguardanti singoli soggetti”, ritiene la Commissione che il
termine “provvedimento” non sia stato usato in senso tecnico
nel D.P.C.M., cioè come atto finale di un procedimento
adottato da un soggetto della pubblica amministrazione
nell’esercizio di una potestà amministrativa, destinato a
modificare la realtà giuridica esistente.
Ed invero, nel contesto in cui è stato usato e cioè nel
disciplinare l’esercizio del diritto di accesso, deve
ritenersi che il D.P.C.M. abbia inteso rifarsi, con tale
termine, a qualunque atto, confezionato o detenuto dalla
pubblica amministrazione, che possa essere qualificato
“documentazione amministrativa ai sensi della disciplina
dettata al riguardo dalla legge n. 241 del 1990”.
Tale
criterio vale naturalmente anche per i verbali e gli atti
propedeutici alle deliberazioni del CIPE, che sono, alla
stregua del D.P.C.M. 27.06.2011, n. 143, da considerarsi
accessibili ove siano direttamente e immediatamente riferiti
a singoli soggetti individuati o individuabili
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.07.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di un consigliere comunale a dati
contabili del bilancio comunale.
L’istante chiede se sia legittima la richiesta presentata da
un consigliere di minoranza per conoscere i dati contabili
utilizzati per formare il piano esecutivo di gestione
comunale, dubitando della conoscibilità di tali notizie sia
perché contenuti in un documento non ancora approvato
formalmente dalla G.C. sia perché condizionato alla
disponibilità di tempo del personale amministrativo.
La Commissione osserva che il diniego di accesso appare del
tutto illegittimo.
Il primo dubbio è infondato. Infatti, ai sensi dell’art. 43 TUEL, come interpretato da questa Commissione (arg ex parere
14.12.2010), i consiglieri comunali hanno il diritto di
accedere a qualsiasi “informazione” anche di tipo contabile,
ricavabile da documenti preparatori all’atto definitivo o
ancora non approvati.
Del resto, il 20 aprile u.s. è entrato
in vigore l’accesso civico (previsto dall’art. 5 D.Lgs.
14.03.2013 n. 33 pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80) che
consente a chiunque -anche ai consiglieri comunali- di
ottenere l’accesso a “documenti, informazioni e dati” che la
P.A. ha l’obbligo di pubblicare, tra cui anche i dati
relativi al bilancio, preventivo e consuntivo, di ciascun
anno in forma sintetica, aggregata e semplificata (ex art. 29
del citato d.lgs. n. 33/2013).
Quanto alle difficoltà organizzative, è principio
giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S.,
Sez. V, 22.05.2007 n. 929) che la prerogativa dell’accesso
riconosciuta ai consiglieri non può essere compressa per
pretese esigenze burocratiche degli Uffici comunali.
Pertanto, l’accesso va garantito nell’immediatezza,
soprattutto quando sia funzionale alla minoranza per
acquisire elementi per accrescere il dibattito consiliare
sull’approvazione del bilancio.
Tuttavia, qualora la richiesta di accesso
implichi eccessivi aggravi per l’ordinaria attività
amministrativa dell’ente, il responsabile del procedimento
potrà dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle
copie, fermo restando il diritto del consigliere di prendere
visione, nel frattempo, dei dati contabili di interesse
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.06.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Accesso a documenti relativi ad una visita
medica fiscale.
Il Ministero istante, a fronte di un’istanza da parte di un
dipendente in servizio all’estero per l’accesso agli atti
relativi ad una visita fiscale predisposta nei suoi
confronti, ha manifestato perplessità sull’accoglimento
poiché sarebbe inapplicabile la legge n. 241/1990 in ragione
della natura privata del rapporto di pubblico impiego.
In forza della previsione esplicita dell’articolo 23 della
legge n. 241/1990, è oramai jus receptum (cfr. Cons. di Stato
A.P. 22.04.1999 n. 4) che le regole del diritto di accesso ai
documenti amministrativi si applicano a favore dei
dipendenti delle amministrazioni statali, pur essendo
intervenuta la privatizzazione del rapporto di lavoro.
Ne
consegue che è ben possibile assicurare l’accesso anche a
tutti gli atti di controllo che coinvolgano il proprio
personale, anche se con rapporto contrattualizzato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.06.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di consigliere comunale ai dati
anagrafici e di famiglia del Sindaco, del Vice Sindaco e di
alcuni dipendenti assunti nel Comune.
Il Comune istante ha manifestato dubbi sull’accoglibilità
dell’istanza presentata da un consigliere comunale di
minoranza per conoscere i dati anagrafici e di famiglia del
Sindaco, Vicesindaco e di alcuni dipendenti assunti 25 anni
orsono nonché per conoscere quali siano i titoli
professionali per essere nominati componenti di commissioni
di gare d’appalto.
Secondo l’ente civico, oltre a mancare il
necessario collegamento tra atti richiesti ed esercizio del
mandato politico, sarebbero incomprensibili le ragioni
dell’accesso a notizie relative a vicende passate.
Come è noto, i consiglieri comunali ai sensi dell’art 43
d.lgs. n. 267/2000, hanno un diritto pieno, e non
comprimibile, ad accedere a tutte le notizie e le
informazioni in possesso degli uffici utili all’espletamento
del proprio mandato tra cui anche quello di favorire un
controllo diffuso sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche.
Alla luce di tale principio, la Commissione
ritiene che l’eventuale diniego di accesso alle informazioni
richieste sarebbe illegittimo in quanto il consigliere
comunale non deve motivare la propria richiesta di
informazioni, soprattutto nella specie ove sussiste la
necessità di un controllo attuale sull’uso delle risorse
pubbliche comunali (permanendo nel tempo gli effetti delle
assunzioni effettuate dal Comune), poiché, diversamente
opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 14.05.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di un consigliere comunale a dati
contabili del bilancio comunale.
L’istante chiede se sia legittima la richiesta presentata da
un consigliere di minoranza per conoscere i dati contabili
utilizzati per formare il piano esecutivo di gestione
comunale, dubitando della conoscibilità di tali notizie sia
perché contenuti in un documento non ancora approvato
formalmente dalla G.C. sia perché condizionato alla
disponibilità di tempo del personale amministrativo.
La Commissione osserva che il diniego di accesso appare del
tutto illegittimo.
Il primo dubbio è infondato. Infatti, ai sensi dell’art. 43
del TUEL, come interpretato da questa Commissione (arg ex
parere 14.12.2010), i consiglieri comunali hanno il diritto
di accedere a qualsiasi “informazione” anche di tipo
contabile, ricavabile da documenti preparatori all’atto
definitivo o ancora non approvati.
Del resto, il 20 aprile
u.s. è entrato in vigore l’accesso civico (previsto dall’art
5 D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n.
80) che consente a chiunque -anche ai consiglieri comunali- di ottenere l’accesso a “documenti, informazioni e dati”
che la P.A. ha l’obbligo di pubblicare, tra cui anche i dati
relativi al bilancio, preventivo e consuntivo, di ciascun
anno in forma sintetica, aggregata e semplificata (ex art 29
del citato d.lgs. n. 33/2013).
Quanto alle difficoltà organizzative, è principio
giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S.,
Sez. V, 22.05.2007 n. 929) che la
prerogativa dell’accesso riconosciuta ai consiglieri non può
essere compressa per pretese esigenze burocratiche degli
Uffici comunali. Pertanto, l’accesso va garantito
nell’immediatezza, soprattutto quando sia funzionale alla
minoranza per acquisire elementi per accrescere il dibattito
consiliare sull’approvazione del bilancio.
Tuttavia, qualora la richiesta di accesso
implichi eccessivi aggravi per l’ordinaria attività
amministrativa dell’ente, il responsabile del procedimento
potrà dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle
copie, fermo restando il diritto del consigliere di prendere
visione, nel frattempo, dei dati contabili di interesse
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 14.05.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso del consigliere comunale ad atti di
società partecipata dalla Regione.
La società istante, operante nel trasporto pubblico locale
partecipata a maggioranza dalla Regione Emilia Romagna e da
alcune Province e Comuni, ha chiesto a questa Commissione di
conoscere se il diritto di accesso dei consiglieri comunali
ex art. 43 del T.U.E.L. sia limitato all’attività di
gestione del servizio di pubblico interesse ovvero possa
estendersi anche all’organizzazione ed al funzionamento
della società, assoggettata alle regole privatistiche di
mercato, dovendo scegliere una linea di condotta anche per
il futuro.
Il quesito va affrontato e risolto esclusivamente alla luce
del disposto contenuto nell’art. 43, comma 2, del T.U.E.L.
che riconosce al consigliere comunale (e provinciale) il
diritto di accesso il “diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
proprio mandato”.
La dizione letterale della disposizione richiamata, sulla
quale si è formata una giurisprudenza consolidata, non
lascia alcun dubbio sul fatto che i soggetti passivi della
prerogativa riconosciuta ai consiglieri sono, oltre al
Comune e alla Provincia, anche gli “enti da essi
dipendenti”, nei quali rientrano sicuramente anche le
società formalmente private ma sostanzialmente pubbliche,
siccome partecipate a maggioranza da enti pubblici e
comunque funzionali al perseguimento di interessi generali.
Ebbene, ai fini dell’applicazione di tale norma speciale ex
art. 43 TUEL, è condizione sufficiente che la società in
questione operi nel settore pubblico e sia partecipata da
enti pubblici, senza che rilevi la distinzione tra attività
e organizzazione della società, che semmai assume
significato alla stregua del disposto dell’art. 22, comma 1,
lett. e) (che configura come “pubblica amministrazione” anche
il soggetto privato “limitatamente alla sua attività di
pubblico interesse”).
Una diversa interpretazione
costituirebbe un ingiustificato limite alla ampia
prerogativa riconosciuta al consigliere comunale e
provinciale
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.04.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI:
OGGETTO: Accesso agli atti di una gara per la fornitura
di lavagne interattive multimediali da parte della ditta
classificata al terzo posto.
L’Istituto scolastico in indirizzo, dopo aver rappresentato
di aver indetto sul mercato elettronico della P.A. una gara
per la fornitura di lavagne interattive multimediali, ha
formulato a questa Commissione alcuni quesiti al fine di
sapere se:
a) sia sufficientemente motivata la richiesta di accesso
formulata da una ditta, classificatasi al terzo posto della
graduatoria per conoscere gli atti di gara degli altri
concorrenti (offerta tecnica, offerta economica, relazione e
schede tecniche) onde verificare in sede amministrativa e/o
giudiziale la legittimità del procedimento di
aggiudicazione;
b) sia possibile estrarre ed inviare la documentazione di
interesse tramite pec e, in caso non fosse possibile, quali
dovrebbero essere i costi di riproduzione.
La prima questione non pone grossi dubbi.
Qualora l’istanza
di accesso provenga da un concorrente alle gare di appalto,
il partecipante ad un procedimento ha pieno diritto ad
accedere agli atti dello stesso procedimento ai sensi
dell’art. 10, legge n. 241/1990, senza necessità di dimostrare
la titolarità di un interesse diretto e concreto e senza che
la sua istanza sia motivata, trattandosi di c.d. accesso endoprocedimentale.
L’unico limite all’accesso è previsto
dall’art. 24 della citata legge per i documenti relativi a
“interessi industriali e commerciali” (come peraltro
confermato, in materia di procedimenti ad evidenza pubblica,
dall’art. 13 d.lgs. 163/2006 Codice dei contratti pubblici),
fatta salva comunque la prevalenza dell’accesso
ogniqualvolta la conoscenza dei documenti sia necessaria per
curare o per difendere i propri interessi giuridici.
La seconda questione è più articolata concernendo, da un
lato, l’ammissibilità dell’accesso telematico e, dall’altro,
i costi dell’accesso.
Sul primo aspetto, si osserva che in base al quadro
normativo vigente, l’accesso telematico “deve” essere
consentito, ove richiesto, nei rapporti tra P.A. e
cittadino, soprattutto per corrispondere alle richieste di
accesso dei documenti amministrativi.
Infatti, in base
all'art. 13, comma 1, d.P.R. n. 184/2006 (disposizione che
rinvia all’art. 38 del d.P.R. n. 445/2000) “le pubbliche
amministrazioni assicurano che il diritto d'accesso possa
essere esercitato anche in via telematica”. Inoltre, il d.lgs. n. 82/2005 “Codice dell’amministrazione digitale”
sancisce in favore dei cittadini, oltre al diritto di
chiedere ed ottenere l’accesso ai documenti con l'uso delle
tecnologie telematiche (artt. 3 e 4), il diritto
all’utilizzo della PEC per ogni scambio di documenti ed
informazioni (art. 6).
Infine, l’art. 3-bis della L. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005) ha previsto che, per
conseguire maggiore efficienza nelle loro attività, le
amministrazioni pubbliche incentivano l’uso della
telematica. Pertanto, nella specie, la P.A. ha il dovere di
provvedere all’invio di copie digitali (anziché cartacee)
degli atti amministrativi.
Circa l’altro profilo, la Commissione rammenta che
i costi
di riproduzione (nonché i diritti di ricerca e visura), pur
non potendo essere predeterminati a livello generale, devono
costituire oggetto di responsabile valutazione da parte di
ogni singola amministrazione nell’esercizio dei poteri
organizzatori previsti dall’art. 8, lett. c, d.P.R. n.
184/2006, in modo da essere equi e non esosi, in quanto la
richiesta di un importo elevato costituisce un limite
all'esercizio del diritto di accesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.04.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di consigliere comunale – accesso
diretto al sistema informatico.
Un consigliere comunale lamenta l’illegittima condotta di
alcuni funzionari amministrativi i quali, oltre a limitare
la conoscenza degli atti dei vari settori dell’ente
(compresi quelli prodromici alle deliberazioni di giunta),
non consentirebbero l’accesso agli atti prima della
pubblicazione in albo, addirittura rimanendo inerti sulle
richieste rivolte dai consiglieri.
Pertanto, ritenendo leso
l’esercizio della prerogativa riconosciuta ai consiglieri,
l’istante formula a questa Commissione una serie di quesiti
al fine di conoscere se:
1) le determine degli organi di governo o dei dirigenti,
anche se soltanto adottate, costituiscano documenti
amministrativi;
2) le determine degli organi di governo o dei dirigenti
siano accessibili prima della loro pubblicazione, anche
nella sola forma della visione;
3) esistono termini massimi entro cui pubblicare le delibere
consiliari e di giunta e chi sia responsabile in caso di
omessa pubblicazione;
4) un consigliere comunale possa accedere al sistema
informatico dell’ente mediante password ed avere un’utenza e-mail dal sito web istituzionale dell’ente per migliorare
il rapporto consigliere-utenti.
Circa il primo aspetto, è indubbio che le delibere, anche se
soltanto adottate, costituiscono il risultato di un atto di
conoscenza o di volontà dell’organo di governo o del
dirigente che materialmente lo ha formato. Pertanto,
rientrano nel novero dei documenti amministrativi definiti
ai sensi l'art. 22, co. 1, lett. d), legge n. 241/1990 come
ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto
di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una Pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale.
Del resto, l’ampiezza del
diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri comunali
dall’art. 43 TUEL verso qualsiasi “notizia” o “informazione”
determina, di riflesso, che tale diritto possa in astratto
indirizzarsi anche verso semplici informazioni, non
contenute in formali documenti amministrativi.
Quanto al secondo profilo, la Commissione ritiene che
l’accesso dei consiglieri comunali vada garantito anche alle
delibere adottate e dunque indipendentemente dalla avvenuta
pubblicazione sul sito istituzionale dell’ente ex art. 124 TUEL (e art. 32, legge n. 69/2009) sia perché la prerogativa
consiliare non può subire ingiustificate compressioni tali
da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale sia
per la diversa finalità della pubblicazione degli atti
(funzionale alla conoscenza legale dell’atto) rispetto al
diritto di accesso del consigliere (funzionale al controllo
politico-amministrativo dell’ente).
Eventuali difficoltà
pratiche, opposte dall’ente all’estrazione di copia degli
atti nelle more della pubblicazione delle delibere, dovranno
essere risolte lealmente a cura degli Uffici comunali,
garantendo comunque al consigliere la tempestiva facoltà di
prendere visione degli atti, dilazionando nel tempo
l’acquisizione di copia.
In ordine al terzo punto, trattandosi di questione che non
inerisce alle modalità di esercizio dell’accesso bensì alla
esistenza o meno di termini di pubblicazione delle delibere
e dei soggetti responsabili, la Commissione ritiene di dover
declinare ogni competenza al riguardo, non rientrando tra le
materie attribuite ex art. 27 legge n. 241/1990.
Infine, quanto all’ultimo aspetto, la Commissione già in
altre occasioni (cfr tra le altre plenum del 20.07.2010) ha
riconosciuto, ed in questa sede conferma, la possibilità per
il consigliere di uso di password di servizio per l’accesso
diretto al sistema informatico interno ed al protocollo
informatico comunale al fine di evitare che le continue
richieste di accesso si trasformino in un aggravio della
ordinaria attività amministrativa dell’ente locale.
Nulla si
può esprimere sulla attivazione dell’utenza e-mail per
migliorare i rapporti tra cittadini e consigliere comunale,
trattandosi di materia estranea all’esercizio del diritto di
accesso
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 18.04.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso di consiglieri comunali ad atti della
Società Levanto Waterfront.
La Società Levanto Waterfront, partecipata al 51% dalla
società Levanto Sviluppo s.p.a a sua volta partecipata al
90% dal Comune di Levanto e al 10% dal Comune di Bonossola,
costituita per realizzare le opere di trasformazione del
fronte a mare di Levanto, espone che due consiglieri
comunali di Levanto hanno chiesto copia di corposa
documentazione relativa alla provvista delle cariche
societarie, ad alcuni aspetti delle opere realizzate ed alla
totalità dei contratti di compravendita degli immobili
costruiti.
Avendo evaso la richiesta, a distanza di breve tempo è
apparsa sulla stampa nazionale e locale un articolo
estremamente diffamatorio e calunnioso nei confronti delle
società, dei suoi amministratori e dei suoi soci, recante
dettagli relativi alla documentazione oggetto di accesso.
Poiché i due consiglieri hanno richiesto altra
documentazione, la società esponente chiede se le nuove
istanze di accesso debbano essere accolte tenuto conto delle
caratteristiche della società, della natura dei documenti
richiesti, della gravosità della relativa raccolta e
copiatura, della illegittima divulgazione dei dati acquisiti
con il precedente accesso.
Questa Commissione ha più volte avuto occasione di affermare
che il diritto di accesso dei consiglieri comunali
disciplinato dall’art. 43 del TUEL, si estende anche agli
atti formati o stabilmente detenuti da tutte le aziende o
enti partecipati dal Comune, non richiedendosi che gli
stessi integrino la figura dell’in house providing.
Risulta infatti evidente che le società partecipate
pubbliche restano assoggettate alle regole di buona
amministrazione imparziale secondo il principio di legalità
di cui all’art. 97 Cost., con la conseguenza che la loro
formale natura privatistica non è idonea a consentire ad
esse di sottrarsi alle regole di trasparenza e
controllabilità, ivi compreso anche l’esercizio del diritto
di accesso.
Va sottolineato, inoltre, che gli atti richiesti rivestono
senza dubbio natura di documentazione amministrativa ai
sensi della legge n. 241 del 1990, mentre per ciò che
concerne la gravosità della raccolta e copiatura della
corposa documentazione richiesta, la Commissione non può che
richiamare il proprio consolidato orientamento, secondo cui
il consigliere comunale non può abusare del diritto di
accesso mettendo in difficoltà il normale funzionamento
degli uffici.
Deve essere infine evidenziato che il diritto di accesso
riconosciuto al consigliere comunale non può essere
compresso in ragione di un eventuale uso distorto del
diritto stesso, essendo altre le forme di tutela apprestate
dall’ordinamento al soggetto che si ritenga danneggiato
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.03.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Estrazione copia di un verbale di conciliazione
redatto nell’ambito di una procedura di raffreddamento
avvenuta tra sigle sindacali.
Il Dipartimento dei Vigili del Fuoco – Relazioni Sindacali
espone che alcune Organizzazioni Sindacali hanno chiesto di
estrarre copia di un verbale di conciliazione redatto
nell’ambito dell’espletamento di una procedura di
raffreddamento avvenuta con altra sigla sindacale.
Dopo aver descritto il meccanismo per addivenire agli
accordi decentrati, il Dipartimento chiede se sia legittimo
l’accesso ai verbali di conciliazione di soggetti estranei
allo svolgimento della procedura di raffreddamento, con
particolare riferimento alla sussistenza di un interesse
diretto, concreto ed attuale da parte di Organizzazioni
Sindacali estranee a siffatte procedure.
Al riguardo osserva la Commissione che le Organizzazioni
Sindacali sono senza dubbio legittimate ad esercitare il
diritto di accesso sia “iure proprio” sia a tutela di
interessi giuridicamente rilevanti della categoria
rappresentata.
Detta legittimazione, tuttavia, per consolidato principio
giurisprudenziale non può tradursi in iniziative di
preventivo e generalizzato controllo dell’attività
dell’Amministrazione datrice di lavoro (Cons. Stato, VI,
06.03.2009, n. 1351), con la conseguenza che
la domanda di accesso, ancorché esplicata
nell’esercizio delle prerogative sindacali, è subordinata
all’esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata che
trovi collegamento con la documentazione che si vuole
conoscere
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.03.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso a documentazione relativa alle spese di
rappresentanza e di segreteria dei consiglieri regionali.
Il Dirigente generale del Consiglio regionale della
Basilicata espone che il sig. ..., in qualità di
giornalista, ha verbalmente inoltrato richiesta di accesso
ai rendiconti, alle fatture ed ai contratti giustificativi
dei rimborsi per le spese di segreteria e di rappresentanza
previsti dall’art. 11 della legge regionale n.8 del 1998.
A seguito del diniego il sig. ... ha
autonomamente inoltrato la richiesta a tutti i Consiglieri
regionali ed agli Assessori esterni della Giunta; poiché
solo 14 dei 33 Consiglieri ed Assessori hanno fornito
risposta positiva, l’interessato ha successivamente
presentato all’Amministrazione richiesta di accesso ai
suddetti atti e documenti, al dichiarato scopo di condurre
una indagine giornalistica.
Ciò premesso l’esponente, dopo aver sottolineato che nel
sito del Consiglio regionale è stata pubblicata parte della
documentazione richiesta (in attesa della approvazione del
regolamento che disciplina le modalità di accesso), esprime
le proprie perplessità sull’ostensibilità di quanto
richiesto perché si chiede di disporre di documentazione di
natura privata (scontrini fiscali, fatture, bollette, etc.)
che l’Amministrazione possiede solo in copia e di cui gli
unici titolari sono i Consiglieri e gli Assessori, che
peraltro hanno l’obbligo di conservare gli originali per
tutta la durata della legislatura.
Dopo aver richiamato i principi giurisprudenziali in materia
di diritto di accesso e di legittimazione all’esercizio del
diritto stesso, l’esponente chiede se un giornalista possa
accedere agli atti ed alla documentazione in questione al
solo fine di condurre una inchiesta giornalistica; se la
richiesta nei termini in cui è stata formulata, non debba
considerarsi generica e comunque lesiva del diritto alla
riservatezza dei controinteressati che non abbiano prestato
il loro assenso; se, ritenuto sussistente il diritto di
accesso, ne debba essere consentita la sola visione o anche
l’estrazione di copia.
Non vi è dubbio che l’esercizio del diritto di accesso ai
documenti amministrativi da parte di un giornalista possa
collidere, per più di un motivo, con le esigenze del diritto
alla riservatezza degli eventuali controinteressati.
Nel tentativo di contemperare tali opposte esigenze, in
mancanza di una più precisa disciplina nell’attuale
configurazione normativa che regola il diritto di accesso,
già nell’ormai lontano 1996 il Consiglio di Stato (cfr.
sentenza VI Sez., 06.05.1996, n. 570) ebbe ad affermare che
una testata giornalistica ha titolo di accedere ai documenti
amministrativi per poterli successivamente pubblicare onde
informare i propri lettori; ciò in quanto il diritto di
accesso si presenta come strumentale rispetto alla libertà
d’informazione, costituzionalmente riconosciuta agli organi
di stampa, con la conseguenza che occorre riconoscere alla
testata giornalistica una posizione qualificata e
differenziata alla conoscenza degli atti che possano
interessare i propri lettori.
Nella scia di tali affermazioni la successiva giurisprudenza
(anche di questa Commissione, cfr. parere 27.02.2003)
ha avuto modo di precisare che dopo l’entrata in vigore
della legge 31.12.1996, n.675, il diritto di accesso
esercitato da organi di stampa avente ad oggetto documenti
amministrativi contenenti dati personali sensibili relativi
a terzi, prevale su quello alla riservatezza soltanto nel
caso in cui una espressa disposizione di legge consenta al
soggetto pubblico di comunicare a privati i dati oggetto
della richiesta.
Successivamente, alla luce del disposto dell’art. 16, 2°
comma, del d.lgs. 11.05.1999, n. 135 è stato precisato
che l’accesso a documenti amministrativi contenenti dati
sensibili è possibile soltanto nel caso in cui il diritto da
far valere o difendere sia al rango almeno pari a quello dei
soggetti a cui si riferiscono i dati stessi, nel senso che
la prevalenza del diritto di accesso o del diritto alla
riservatezza va effettuata caso per caso valutando, oltre
che il rango dell’uno o dell’altro diritto, anche il
rispettivo grado di compromissione che discenderebbe dalla
soluzione adottata in concreto (Cons. Stato, VI, 30.03.2001, n. 1882).
La tesi della ponderazione comparativa de diritto di accesso
e del diritto alla riservatezza merita senz’altro di essere
condivisa, perché in realtà è idonea ad evitare soluzioni
precostituite poggianti su una astratta scala gerarchica dei
diritti in contesa ed a tener conto delle specifiche
circostanze di fatto destinate a connotare il caso concreto
(cfr. sentenza da ultimo citata).
Alla luce delle suesposte considerazioni, da una parte non
può revocarsi in dubbio che gli atti, i rendiconti e la
documentazione giustificativa delle spese relative al
rimborso spese di rappresentanza e di segreteria
costituiscano documentazione amministrativa detenuta
dall’Amministrazione ai sensi della legge n. 241 del 1990;
dall’altra è da escludersi che tali documenti contengano
dati sensibili ai sensi della legge 31.12.1996, n. 675.
Tuttavia, anche nell’ipotesi in cui si dovesse ritenere che
la suddetta documentazione contenga dati “semisensibili”
e che quindi vada effettuata una valutazione comparativa
analoga a quella prescritta dal citato art. 16, 2° comma,
del d.lgs. 11.05.1999, deve concludersi che
il diritto di cronaca è di rango costituzionale ragion per
cui l’art. 12 del d.lgs. 13.05.1998, n. 171 ha previsto che
le disposizioni relative al consenso dell’interessato o
all’autorizzazione del Garante non si applicano quando il
trattamento di dati sensibili è effettuato nell’esercizio
della professione di giornalista e per l’esclusivo
perseguimento delle relative finalità.
Deve essere infine sottolineato che nel
caso in esame la richiesta di accesso, per come è stata
formulata, non risulta affatto generica e che comunque
l’accesso deve essere consentito in maniera integrale e non
solo mediante presa visione
(Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.03.2013 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
L'edilizia parla una sola lingua. Un glossario
unico spiegherà l'iter per ogni intervento.
Palazzo Spada ha dato l'ok allo schema di decreto
Scia2. Abolite la Dia e la Cil.
Un glossario unico in edilizia che garantirà regole omogenee
e un linguaggio comune su tutto il territorio nazionale. E
che, soprattutto, individuerà il titolo giuridico necessario
per ciascuna tipologia di intervento.
La Cil (Comunicazione di inizio lavori), introdotta dal dl
40/2010, viene abolita e gli interventi ad essa assoggettati
sono ritenuti di attività libera. Quanto alla Comunicazione
asseverata (cosiddetta Cila), essa viene estesa anche al
restauro e al risanamento conservativo che non riguardano
parti strutturali dell'edificio. Va in soffitta anche la Dia
(Dichiarazione di inizio attività), sostituita da una Scia
con inizio posticipato dei lavori. E vengono semplificati i
procedimenti relativi alla certificazione di agibilità,
prevedendo un'apposita Segnalazione certificata di
agibilità.
E' quanto prevede lo schema di decreto legislativo cd “Scia
2”
(Atto
del Governo n. 322 - Schema di decreto
legislativo recante individuazione di procedimenti oggetto
di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio
attività (SCIA), silenzio-assenso e comunicazione e
definizione dei regimi amministrativi applicabili a
determinate attività e procedimenti),
già varato in via preliminare dal consiglio dei
ministri, che ha ricevuto il via libera dal Consiglio di Stato con il
parere
04.08.2016 n.1784.
Si tratta di
uno dei tanti tasselli attuativi della delega Madia che va a
completare la riforma avviata dal primo dlgs (cd “Scia 1”),
ossia il decreto legislativo n. 126/2016 in vigore dal 28
luglio scorso (si veda ItaliaOggi del 29/7/2016).
Ma là dove
il dlgs 126 si manteneva nel generico, disegnando la
disciplina generale applicabile alle attività private non
soggette ad autorizzazione espressa e soggette, invece, a
Segnalazione certificata di inizio attività, lo schema di
decreto “Scia 2” va nel concreto, effettuando una
ricognizione delle attività private nei settori
dell'edilizia, dell'ambiente e del commercio. In questo modo
viene data piena attuazione alla legge delega di riforma
della p.a., che richiedeva «la precisa individuazione» dei
procedimenti soggetti a Scia, silenzio-assenso,
autorizzazione espressa e comunicazione preventiva. Vediamo
le novità più rilevanti.
Glossario unico.
L'art. 1 comma 2 dello schema stabilisce
l'esigenza di «garantire omogeneità di regime giuridico in
materia di edilizia su tutto il territorio nazionale». A
tale scopo, demanda a un decreto del ministero delle
infrastrutture e trasporti l'adozione del «glossario unico».
Fino all'adozione del testo, le p.a. dovranno pubblicare sul
proprio sito web un glossario che consenta l'immediata
individuazione della tipologia dell'intervento e del
conseguente regime giuridico, indicando i documenti
necessari.
La misura piace al Consiglio di stato che nel parere ha
evidenziato come la necessità di omogeneizzare il linguaggio
sia «parte integrante della riforma».
Comunicazione di inizio lavori addio.
Viene abolita la
Comunicazione di inizio lavori (Cil) , introdotta nel 2010,
che scontava il difetto di lasciare ampi poteri sanzionatori
e repressivi alle amministrazioni comunali. Di fatto,
osserva palazzo Spada, «il legislatore aveva scelto di non
liberalizzare integralmente gli interventi soggetti a Cil, i
quali si caratterizzano per avere comunque un impatto verso
l'esterno, benché limitato ovvero temporaneo, introducendo
un regime a metà strada tra l'attività completamente libera
e la Dia».
Alla Cil si affiancava poi la Cil asseverata (Cila) per gli
interventi di manutenzione straordinaria che richiedeva
all'interessato la trasmissione agli uffici comunali della
comunicazione corredata da una relazione tecnica completa di
allegati progettuali e firma di un professionista abilitato.
Lo schema di decreto «Scia 2» semplifica il quadro normativo
per agevolare cittadini e imprese. Gli interventi sono
quattro. Viene abolita la Cil e gli interventi ad essa
assoggettati sono ritenuti attività libera. Viene inserito
tra gli interventi assoggettati a Cila anche il restauro e
il risanamento conservativo che non riguardi parti
strutturali dell'edificio. In terzo luogo, è abolita la Dia
in alternativa al permesso di costruire, sostituita da una
Scia con inizio posticipato dei lavori.
Per il Consiglio di
stato «si tratta di una semplificazione innanzitutto
terminologica, già in parte realizzata a livello regionale,
onde evitare il protrarsi dell'utilizzo di distinzioni
valide sul piano lessicale, ma non su quello concettuale».
Infine, è stato semplificato il procedimento relativo al
certificato di agibilità, prevedendo un'apposita
segnalazione certificata di agibilità.
In questo modo, si delinea un quadro di interventi edilizi
basato su 5 ipotesi: interventi in edilizia libera senza
adempimenti; interventi in attività libera ma che richiedono
la Cila; interventi assoggettati a Scia; interventi
assoggettati a permesso di costruire; interventi per i quali
è comunque possibile chiedere il permesso di costruire in
alternativa alla Scia. Il regime ordinario diviene quindi
quello della Cila e non più della Scia, fatte salve le
ipotesi espressamente assoggettate ad altri regimi.
I rilievi del Consiglio di stato si concentrano soprattutto
sulle sanzioni. Per palazzo Spada la sanzione pecuniaria
forfettizzata in 1.000 euro, prevista per la sola ipotesi di
Cila mancante, potrebbe risultare troppo lieve in alcuni
casi. Meglio sarebbe se fosse graduata ed estesa anche alle
altre ipotesi di irregolarità (lavori eseguiti in difformità
ovvero Cila incompleta o irregolare)
(articolo ItaliaOggi del 09.08.2016). |
VARI: Denuncia
per l'auto rigata. Mingiustizia.
Chi ha l'amara sorpresa di ritrovarsi danneggiata l'auto in
sosta sulla strada può presentare denuncia a un organo di
polizia. Questo reato resta infatti perseguibile d'ufficio e
non è stato modificato dalla recente depenalizzazione.
Lo ha chiarito il sottosegretario alla giustizia Cosimo
Maria Ferri il 05/07/2016 in commissione giustizia alla Camera,
in risposta a una interrogazione scritta.
Con l'entrata in
vigore dei dlgs nn. 7 e 8 del 15.01.2016 alcuni comandi
di polizia e carabinieri hanno iniziato a rifiutare di
ricevere le querele presentate dai proprietari di veicoli
oggetto di danneggiamento. Per chiarire la reale portata
dell'avvenuta depenalizzazione è dovuto intervenire il
governo.
La nuova formulazione dell'art. 635 del codice
penale è rimasta sostanzialmente immutata per quanto
riguarda il danneggiamento aggravato delle cose esposte per
necessità alla pubblica fede, come le vetture in sosta sulle
strade.
Per questo motivo il reato di danneggiamento di auto
in sosta resta strutturato in forma aggravata ed è procedibile
d'ufficio
(articolo ItaliaOggi del 09.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: P.a.,
documenti dematerializzati dal 12/8.
La digitalizzazione totale dei procedimenti e provvedimenti
amministrativi prevista per il venerdì 12 agosto è
specificamente rilevante per la trasparenza amministrativa,
più che per la forma degli atti da adottare.
Come è noto, dal 12 agosto scattano le regole tecniche
disposte dal dpcm del 13.11.02014 di attuazione del
Codice dell'amministrazione digitale, finalizzate alla dematerializzazione dei documenti amministrativi.
In molti stanno concentrando l'attenzione sulla necessità
che i documenti originali delle pubbliche amministrazioni
siano necessariamente prodotti in modalità informatica
nativa, completata con uno degli strumenti che assicurano l'immodificabilità:
la sottoscrizione con firma digitale ovvero con firma
elettronica qualificata; l'apposizione di una validazione
temporale; il trasferimento a soggetti terzi con posta
elettronica certificata con ricevuta completa; la
memorizzazione su sistemi di gestione documentale che
adottino idonee politiche di sicurezza; il versamento ad un
sistema di conservazione.
Tuttavia, la dematerializzazione si accompagna all'obbligo
di formare i fascicoli informatici di gestione dei
procedimenti, secondo le regole stabilite dall'articolo 41
del dlgs 82/2005, il cui comma 2-bis, in particolare,
dispone che «il fascicolo informatico è realizzato
garantendo la possibilità di essere direttamente consultato
ed alimentato da tutte le amministrazioni coinvolte nel
procedimento. Le regole per la costituzione,
l'identificazione e l'utilizzo del fascicolo sono conformi
ai principi di una corretta gestione documentale ed alla
disciplina della formazione, gestione, conservazione e
trasmissione del documento informatico, ivi comprese le
regole concernenti il protocollo informatico ed il sistema
pubblico di connettività, e comunque rispettano i criteri
dell'interoperabilità e della cooperazione applicativa».
Queste norme non sono fini a se stesse, cioè utili sono a un
diverso modo di produrre e conservare i documenti
amministrativi, ma, come detto prima, mirate a garantire
trasparenza piena e accessibilità all'attività
amministrativa. La normativa fin qui esaminata, infatti, è
da mettere in stretta correlazione con l'articolo 1, comma
30, della legge anticorruzione, la 190/2012, ai sensi del
quale le pubbliche amministrazioni «hanno l'obbligo di
rendere accessibili in ogni momento agli interessati,
tramite strumenti di identificazione informatica di cui
all'articolo 65, comma 1, del codice di cui al decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni,
le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti
amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle
relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e
allo specifico ufficio competente in ogni singola fase».
È evidente che l'obbligo di trasparenza imposto dalla
normativa anticorruzione presuppone l'esistenza di un
sistema di produzione dei documenti di carattere
informatico, con la garanzia dell'immodificabilità, ma
soprattutto l'esistenza di un sistema di gestione del flusso
procedimentale, utile per distinguere le varie fasi e capace
di rappresentare on-line, utilizzando strumenti telematici,
lo stato del procedimento. Il sistema dovrà completarsi con
modalità che consentano a ciascun interessato di
accreditarsi in modo univoco al sistema (tramite strumenti
come pin e user id e password) e accedere in visualizzazione
allo stato delle pratiche, per rendersi conto in tempo reale
dell'andamento e, anche, per accedere direttamente agli
originali o alle copie autenticate dei provvedimenti
adottati.
La «reingegnerizzazione» dei processi di cui molti
parlano, dunque, non sta tanto nella modalità con la quale
si producono i documenti, quanto, soprattutto, nella messa a
punto degli strumenti di accesso online, che la legge
anticorruzione pretende già da quattro anni
(articolo ItaliaOggi del 09.08.2016). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Acquisti centralizzati anche per gli enti locali.
Da domani primo stop alle gare fai-da-te ma solo i servizi
di pulizia sono disponibili per tutti.
Un altro giro di vite per Comuni e
Province sugli acquisti autonomi di beni e servizi. Da
domani, 9 agosto, scatta per loro l’obbligo di comprare
servizi come la pulizia degli immobili o la vigilanza solo
attraverso le convenzioni già attivate dai cosiddetti
soggetti aggregatori.
Altri 3 miliardi di spesa pubblica, dopo gli oltre 12
miliardi di quella sanitaria, diventano così a gestione
centralizzata. Con l’obiettivo di scendere dagli oltre
32mila punti di acquisto della Pa ai soli 33 soggetti
aggregatori, almeno per le prime 19 categorie monitorate.
Ma l’obbligo che scatta da domani non sarà operativo per
tutti dallo stesso momento. Perché il processo sia
completato occorrerà attendere ancora molti mesi: secondo il
piano delle iniziative pubblicato dagli stessi soggetti
aggregatori, l’ultima gara che metterà a disposizione questi
servizi verrà bandita solo a fine 2017. E i servizi saranno
disponibili dopo l’aggiudicazione, per la quale servono
altri mesi.
L’obbligo
Da domani entra a pieno regime il decreto del 24.12.2015 con
cui sono state individuate le prime 19 categorie
merceologiche da “aggredire” solo con spesa
centralizzata. La prima fase è scattata a febbraio e ha
coinvolto soprattutto gli enti del servizio sanitario
nazionale, oltre alle amministrazioni centrali. Da quella
data per 14 tra prodotti e servizi (per esempio, vaccini,
stent, defibrillatori e smaltimento rifiuti sanitari) gli
enti non possono più bandire gare in autonomia. Se la
fornitura è al di sopra dei 40mila euro (209mila per stent,
pacemaker e defibrillatori) devono prima “pescare”
nelle convenzioni attive a livello regionale del proprio
soggetto aggregatore.
Se manca la convenzione, devono rivolgersi direttamente a
Consip. E solo se anche Consip non ha la convenzione attiva
si può procedere in autonomia, rispettando le altre regole
di acquisto (si veda anche l’articolo in basso). Un percorso
da cui non si scappa: se la convenzione è disponibile,
l’Anticorruzione non rilascia il Cig, il Codice
identificativo gara, indispensabile per ogni appalto.
Da domani questo obbligo si amplia ad altre cinque categorie
di servizi: manutenzione e pulizia immobili, facility
management, guardiania e vigilanza armata. Per queste ultime
due la soglia di centralizzazione è di 40mila euro; per le
altre è di 209mila, da conteggiare su base annua. Le
amministrazioni coinvolte in questa seconda fase sono:
Comuni, Province, Camere di commercio, Iacp ed enti pubblici
non economici (si veda anche Il Sole 24 Ore del 1° agosto).
Dovranno rivolgersi, nell’ordine: alla città metropolitana
di riferimento (se esiste tra i soggetti aggregatori), poi
alla centrale regionale, sempre di riferimento, e in ultima
istanza a Consip.
Disponibilità e timing
L’unico settore già coperto completamente è quello della
pulizia immobili. Solo qui infatti è attiva (dal 2013) la
convenzione di Consip (si veda la tabella a fianco), il
fornitore di ultima istanza per tutti.
Il resto è abbastanza indietro: la pulizia è attiva in altre
tre Regioni (Emilia Romagna, Liguria e Molise); il facility
management e la manutenzione in un solo ambito
(rispettivamente Molise e città metropolitana di Genova).
Zero disponibilità, al momento, per guardiania e vigilanza
armata. Va detto che Consip ha già bandito le gare per tre
servizi su quattro nel 2015. Ma si tratta di procedure
complesse, di cui non si conosce la data di attivazione.
Pesano i tempi di gestione degli appalti, spesso penalizzati
ulteriormente da importanti contenziosi.
Quello di domani, comunque, sarà il debutto vero per le otto
città metropolitane e le due Province che sono state
qualificate come soggetti aggregatori, che con il focus
sulla sanità finora erano rimaste ai margini. Ma solo la
città di Genova è già operativa, almeno per la manutenzione
immobili. Le altre sono ancora in fase di lancio. Peraltro
diverse non hanno ancora programmato convenzioni in molti
dei servizi richiesti.
I risparmi attesi
Proprio a causa dell’attivazione a scacchiera, il ministero
dell’Economia, che coordina il tavolo dei soggetti
aggregatori, non può stimare da subito con precisione
l’impatto di queste misure. Ma i primi mesi di
sperimentazione sulla sanità stanno facendo affiorare
qualche cifra. Secondo il commissario alla spending review,
Yoram Gutgeld, il risparmio medio ottenibile con l’acquisto
centralizzato si aggira sul 30% dei prezzi (si veda Il Sole
24 Ore del 5 agosto). Che su un totale di spesa
centralizzata di 15 miliardi l’anno significherebbero oltre
quattro miliardi in meno.
Ma perché il risparmio sia a regime su tutte le Pa occorre
tempo. E non solo per completare la mappa dei prodotti
acquistati a minor prezzo. Anche per raggiungere in modo
capillare tutti i centri di spesa. Bisogna infatti che ogni
“vecchio” appalto vada a scadenza, prima di attivare
le nuove forniture. Solo allora l’acquisto a prezzi scontati
diventa realtà.
---------------
Appalti sempre meno autonomi.
Le regole. Ridotta a mille euro la fascia completamente
liberalizzata e dal 10 agosto arrivano i prezzi benchmark.
Anche se Comuni e
Province non troveranno già da domani gli strumenti di
acquisto centralizzato per le 19 categorie di beni e servizi
“rafforzate”, difficilmente avranno le mani libere
per procedere in autonomia agli appalti di servizi e
forniture.
Dentro e fuori dal perimetro delle 19 categorie
merceologiche, infatti, sono in vigore da anni regole che
impongono a tutte le amministrazioni, comprese quelle
locali, di rifornirsi almeno attraverso i mercati
telematici, che garantiscono, oltre ai risparmi sul prezzo,
anche tagli ai costi di gestione delle gare. Primo fra tutti
il Mepa, il Mercato elettronico della Pubblica
amministrazione, la grande piattaforma telematica gestita da
Consip per gli acquisti di piccola taglia e continuativi che
vede presenti più di sette milioni di prodotti. Nel 2015
sono passati dal Mepa circa 650mila ordini per un valore
totale di più di due miliardi di euro (+39% rispetto al
2014).
L’ultimo riordino della normativa sugli acquisti
centralizzati è scattato con il nuovo Codice appalti, dal 19
aprile scorso. Sommando queste disposizioni con quelle che
si sono accavallate (a volte in modo un po’ confuso) negli
anni, si ottiene il quadro dei (pochi) margini di autonomia
rimasti alle amministrazioni.
In pratica, solo i mini-acquisti fino a mille euro sono
completamente gestibili in autonomia. Al di sopra di questa
soglia cominciano i percorsi obbligati (si veda la scheda a
lato). Fino a 40mila euro, in realtà, il vincolo riguarda
solo le modalità di acquisto. Gli enti locali debbono
scegliere la via dei mercati elettronici: non solo il Mepa,
appunto, ma anche quelli di altre centrali di committenza,
anche a livello locale. Ma possono farlo sempre
singolarmente.
L’aggregazione è necessaria sopra i 40mila euro, per i
Comuni che non sono capoluogo di provincia. Questi devono
strutturarsi tramite i soggetti aggregatori o le centrali di
committenza o, ancora, attraverso l’unione di Comuni.
La stessa soglia fa scattare anche l’obbligo di
qualificazione della stazione appaltante. Ma il passaggio
non sarà attivo fino a che il ministero delle Infrastrutture
non avrà varato un decreto con i criteri.
Da mercoledì 10 agosto, poi, sarà ancora più difficile “smarcarsi”
dagli acquisti centralizzati: da quella data, infatti,
entrerà in vigore il decreto del Mef con i parametri
prezzo/qualità per 34 categorie di beni (tra cui
fotocopiatrici, Pc e tablet). Per tutte le amministrazioni
varrà da benchmark, sia per i prezzi, appunto, che per le
caratteristiche essenziali del bene da acquistare e che
dovranno essere rispettate in caso di acquisto autonomo
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, sul riciclo ordinario può decidere la
Regione. Confermato il potere delle autorità locali di
accordare il recupero.
Riutilizzo dei materiali. Il ministero chiarisce che non
occorre attendere nuove regole europee.
Anche in assenza
di regolamenti Ue o di decreti nazionali, le Regioni possono
concedere le autorizzazioni per il recupero non agevolato di
rifiuti che produce «end of waste», individuando i criteri
specifici ai quali la sostanza o l’oggetto devono rispondere
per cessare di essere rifiuti.
È questo, in estrema sintesi, il senso della
nota 01.07.2016 n. 10045 di prot. («Disciplina
della cessazione della qualifica di rifiuto - Applicazione
dell’articolo 184-ter Dlgs 03.04.2006 n. 152»),
inviata a tutte le Regioni italiane dal direttore generale
per i rifiuti e l’inquinamento del ministero dell’Ambiente.
Il documento ha offerto opportuni chiarimenti alle
amministrazioni che hanno la competenza al rilascio delle
autorizzazioni in forma ordinaria per la corretta gestione
dei rifiuti, con precisazioni necessarie per uniformare
l’attività amministrativa.
L’«end of waste» è il concetto che sta gradualmente
sostituendo quello di Mps (materie prime secondarie) e che
rappresenta l’esito finale del riciclo, vale a dire
–appunto– la «fine del rifiuto».
Un chiarimento atteso
Si è disincagliato in questo modo il settore nazionale del
riciclo dei rifiuti condotto in forma ordinaria. La nota
ministeriale ribadisce infatti che le caratteristiche
sull’«end of waste» –previste all’articolo 184-ter del Dlgs
152/2006 (Codice ambientale)– saranno individuate dalle
autorità regionali o provinciali competenti al rilascio
delle autorizzazioni ordinarie, senza bisogno di aspettare i
regolamenti Ue o i decreti nazionali. Il ministero è giunto
a tali conclusioni attraverso una lettura ragionata della
disciplina normativa di settore.
Alcune Regioni avevano d’altra parte chiesto spiegazioni sul
riparto delle competenze in tema di autorizzazioni ordinarie
per il riciclo dei rifiuti e sulla possibilità di
rilasciarne di nuove al di fuori dei regolamenti comunitari
emanati (rottami di ferro e acciaio, vetro e rame) o del
sistema del recupero agevolato (Dm 5 febbraio 1998, 161/2002
e 269/2005).
Le perplessità regionali nascevano dal fatto che la legge
116/2014 ha aggiunto il comma 8-sexies all’articolo 216 del
Dlgs 152/2006, concedendo sei mesi di tempo per adeguare le
autorizzazioni alle future norme sull’«end of waste». La
nota sottolinea adesso che si tratta solo di un sistema di
adeguamento (si veda l’altro articolo in pagina), ma molte
Regioni leggevano la questione diversamente.
Così, mentre l’Europa spinge sull’economia circolare e
l’allungamento del ciclo di vita del prodotto (anche se su
questo punto si genererà confusione, poiché l’attuale
definizione di rifiuto non cambierà), nel tempo le letture
locali hanno di fatto bloccato il riciclo in forma
ordinaria, non concedendo le autorizzazioni. Siccome si
ritenevano addirittura non competenti in materia,
aspettavano le norme tecniche di Bruxelles o del ministero
dell’Ambiente. Con il risultato che l’unico riciclo
possibile restava quello agevolato previsto dai citati
decreti.
Lo sblocco «interpretativo»
La nota ricorda quindi che nel corpo del Codice ambientale,
l’articolo 184-ter ha sostituito l’articolo 181-bis e il
nuovo testo cita espressamente le autorizzazioni ordinarie
rilasciate dalle Regioni o dalle Province (Aia compresa)
come gli atti idonei a legittimare il riciclo e a
individuare le caratteristiche dei materiali ottenuti dal
processo industriale.
Il provvedimento rammenta anche la norma di chiusura
(articolo 214, comma 7, Dlgs 152/2006) che legittima le
Regioni ad accordare il recupero di rifiuti non
autorizzabili in procedura semplificata.
Sulla scorta di tale ricostruzione normativa, la nota
ministeriale evidenzia le tre modalità di definizione dei
criteri «end of waste», gerarchicamente ordinate:
- con regolamento comunitario, ove emanato, di cui
all’articolo 6, comma 2, direttiva 2008/98/Ce;
- con decreto ministeriale, ove emanato, di cui all’articolo
184-ter, comma 2, Dlgs 152/2006;
- con singole autorizzazioni emanate dalle regioni o dagli
enti delegati (ex articoli 208, 209 e 211, Dlgs 152/2006 e
disciplina Aia), previo riscontro delle condizioni di cui
all’articolo 184-ter, comma 1.
Viene dunque richiamata anche la guida interpretativa della
direttiva 2008/98/Ce, adottata dalla commissione Ue nel
giugno 2012, secondo cui –quando non esistono regolamenti
sull’«end of waste»– gli Stati membri possono definire i
criteri per classi di rifiuti oppure per singolo caso. La
guida aggiunge inoltre che per le singole autorizzazioni non
sussiste l’obbligo di notifica alla commissione.
Ora, confortate da questa netta e importante presa di
posizione ministeriale, le Regioni e le Province non possono
non riattivarsi.
---------------
Il coordinamento tra autorizzazioni e
future norme Ue. Impianti. I titolari devono aggiornare i
permessi.
Sei mesi di tempo
per adeguare le autorizzazioni alle norme Ue che saranno
adottate sull’«end of waste». È il termine concesso dal
comma 8-sexies, articolo 216, del Dlgs 152/2006 (Codice
ambientale), che è stato aggiunto dalla legge 116/2014.
A parere di molte Regioni tale previsione avrebbe
riorientato la lettura degli articoli 208, 209 e 211 del
Codice e tolto la possibilità alle amministrazioni
(regionali e provinciali) di definire con l’autorizzazione
ordinaria i criteri di «fine del rifuto» per il singolo
caso.
Con la nota del 1° luglio scorso, il ministero ha invece
confermato che lo spirito di tale comma 8-sexies è solo
quello di garantire a chi era autorizzato per le Mps
(materie prime secondarie), in forma sia ordinaria che
semplificata, un passaggio “soft” di sei mesi verso l’«end
of waste» introdotta dalla direttiva 2008/98/Ce, provvedendo
all’adeguamento dell’autorizzazione già in essere. Per i
decreti nazionali, al contrario, il periodo di adeguamento
viene stabilito dagli stessi decreti.
Il comma 8-sexies è stato infatti aggiunto perché, se non ci
fosse una perfetta conformità tra la norma europea e
l’autorizzazione esistente, la diretta applicazione dei
futuri regolamenti Ue produrrebbe un blocco delle attività
degli impianti già autorizzati. Durante i sei mesi di
periodo transitorio, dunque, viene concesso agli impianti di
continuare l’attività nel rispetto dell’autorizzazione già
rilasciata. Tuttavia, il titolare dell’impianto deve
provvedere all’aggiornamento della propria autorizzazione,
affinché questa contenga le eventuali modifiche necessarie
per allineare la gestione dei rifiuti ai criteri dettati dal
regolamento.
Se, entro sei mesi dall’entrata in vigore dei futuri
regolamenti comunitari, non si ottiene il rilascio di una
nuova autorizzazione, le operazioni condotte nell’impianto
non portano alla cessazione della qualifica di rifiuti.
Pertanto, i rifiuti gestiti, per cessare di essere tali,
dovranno essere sottoposti a ulteriori trattamenti presso
impianti autorizzati.
Per questi motivi, la recente nota ministeriale conclude
affermando che il comma 8-sexies all’articolo 216 del Codice
ambientale non ha mutato né le modalità di individuazione
dei criteri di «end of waste», né il riparto delle relative
competenze. La lettura regionale avrebbe anche posto
l’Italia in contrasto con la direttiva 2008/98/Ce (che
spinge verso la “società del riciclaggio”), configurando una
violazione dell’ordinamento comunitario.
Le norme sul recupero agevolato si applicano solo a quello
condotto in forma semplificata e sono, ovviamente, parziali.
Inoltre, limitano le quantità di rifiuti che possono essere
riciclate, rendendole esigue rispetto alle capacità
impiantistiche installate. Quindi, in molte aree nazionali,
le imprese di settore venivano poste dinanzi
all’irragionevole scelta di buttare rifiuti preziosi in
discarica o di esportarli, oppure di delocalizzare. Uno
stallo che ha sicuramente creato terreno fertile per
l’abbandono di risorse definite rifiuti
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Da
venerdì 12 agosto atti pubblici solo telematici. La firma
digitale certifica la data e la provenienza del documento.
Innovazione. Entra in vigore dopo i 18 mesi di sospensione
l’addio definitivo alla carta.
Nel lungo percorso
di modernizzazione della pubblica amministrazione una tappa
fondamentale è quella che prevede, a partire dal prossimo 12
agosto, l’abbandono definitivo della carta a favore di una
gestione dei procedimenti amministrativi di propria
competenza solo attraverso strumenti informatici.
Sebbene l’appuntamento fosse noto da tempo, da quando cioè
il Dpcm del 13.11.2014 (attuativo del Codice
dell’amministrazione digitale) ha dettato le regole tecniche
per la dematerializzazione dei documenti, fissando un
termine di 18 mesi dalla sua entrata in vigore per
l’adeguamento, sono pochi gli enti pronti allo swicht off.
La digitalizzazione dei flussi documentali infatti
presuppone non solo un investimento in termini tecnologici
(per dotarsi degli strumenti hardware e software necessari),
ma anche organizzativo, attraverso la radicale ed integrale
revisione dei processi organizzativi volta a superare
abitudini consolidate e giuridico, mediante l’adeguamento
dei propri regolamenti.
Tutte le pubbliche amministrazioni dovranno formare gli
originali dei propri atti esclusivamente con modalità
informatiche, seguendo precise regole tecniche che ne
garantiscano qualità, sicurezza, integrità e
immodificabilità. La firma digitale assicurerà il legame del
documento con il firmatario dello stesso, così da
certificarne la provenienza, mentre la validazione temporale
(tramite marca temporale, Pec, eccetera) avrà lo scopo di
attribuire data e ora certa opponibili ai terzi.
Secondo l’Agid la validazione temporale del documento, pur
successiva alla sottoscrizione, deve avvenire nel più breve
tempo possibile, e questo imporrà agli enti –non senza
difficoltà- di «lavorare in tempo reale». Le amministrazioni
dovranno anche certificare la conformità delle copie
informatiche (ad esempio le scansioni) dei documenti
cartacei pervenuti agli uffici secondo le regole previste
dal medesimo decreto.
La dematerializzazione non deve essere intesa solo come
tendenza alla sostituzione della documentazione cartacea in
favore del documento digitale ma anche come gestione
totalmente informatica dei flussi documentali. Attraverso
l’apertura di un fascicolo informatico per ogni procedimento
gestito i documenti potranno essere consultati ed alimentati
da tutte le amministrazioni interessate. Per giungere a
questo risultato è necessario che gli enti procedano alla
stesura della mappa dei procedimenti che quotidianamente
vengono gestiti nelle ordinarie attività dell’ufficio e si
dotino di sistemi di classificazione e fascicolazione in
grado di garantire una ordinata conservazione e un rapido
rinvenimento dei documenti.
L’assenza di sanzioni in caso di mancato adeguamento alle
nuove disposizioni non deve far passare in secondo piano
l’importanza della scadenza, complice anche il periodo
estivo. È evidente infatti come il requisito formale nel
diritto amministrativo sia una condizione di legittimità
degli atti e continuare a produrre delibere, determine,
decreti, ordinanze, eccetera su carta senza rispettare le
regole tecniche imposte dalla legge espone le
amministrazioni al rischio di contenzioso sulla efficacia e
validità degli stessi, con conseguenti responsabilità da
parte dei soggetti coinvolti.
---------------
Controlli preventivi a tutto campo.
Contabilità. Le conseguenze operative delle nuove procedure
digitali.
Come riorganizzare i
processi interni è l’interrogativo che gli enti devono porsi
non solo per rispettare l’obbligo di digitalizzazione
introdotto dal prossimo 12 agosto, ma anche per ottenere
quelle economie da riorganizzazione che rappresentano la
vera sfida per gli enti locali. La riforma dei controlli
interni introdotta con il Dl 174/2012 ha assegnato al
responsabile di ragioneria un ruolo centrale nella tutela
degli equilibri di bilancio dell’ente, ed oggi l’obbligo di
produrre e gestire i documenti dell’ente esclusivamente con
modalità informatiche impone di rendere preventive le
verifiche contabili su questi atti.
Cosa fare allora per efficientare il processo di formazione
e garantire il rispetto dei nuovi obblighi informatici ed il
controllo contabile della ragioneria, da svolgersi in base
agli articoli 49, 147-bis e 183, comma 7, del Tuel?
L’aspetto più complesso risiede sicuramente nei rapporti tra
i servizi dell’ente in quanto, mentre nella fase di rilascio
del parere contabile agli organi deliberanti, questi possono
discostarsi motivatamente dal parere, ciò non si ritiene
applicabile anche al provvedimento dirigenziale o perlomeno
non così direttamente.
Proviamo allora a suggerire un percorso idoneo:
- rendere preventivi sia il controllo contabile (attinente
alla conformità a leggi e regolamenti contabili dell’atto)
che il controllo finanziario (attinente all’attestazione
della copertura finanziaria);
- definire nel regolamento di contabilità gli ambiti di
potere e di responsabilità del responsabile finanziario
rispetto agli altri responsabili di servizio, che chiarisca
con quali modalità le ragionerie debbano effettuare le loro
osservazioni in merito a presunte illegittimità contabili
dell’atto e come gli altri Responsabili se ne possano
discostare in caso di divergenza tra i soggetti;
- prevedere una forma di collaborazione attiva da parte
della ragioneria nei confronti dei vari servizi per
l’individuazione dei possibili tempi di pagamento;
adempimento richiesto dall’articolo 183, comma 8, del Tuel e
posto a carico del responsabile che adotta l’impegno di
spesa.
Mettere in discussione lo status quo di un ente comporta
inevitabilmente una serie di nuovi equilibri tra gli attori
organizzativi. Del resto il tema delle resistenze riveste
una particolare criticità, in quanto le numerose evidenze
empiriche sono concordi nell’attribuirgli il maggior peso
tra i fattori di insuccesso dei programmi di cambiamento
organizzativo.
È il momento quindi di attribuire un’anima ai nuovi
strumenti informatici di lavoro, per assegnare maggiore
forza a quei fattori che favoriscono il cambiamento e
garantendo nel contempo anche il mantenimento degli
equilibri di bilancio, a cui ogni operatore dell’ente
dovrebbe aspirare (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Relazione
di avvio in 1.342 Comuni. Amministratori. Gli obblighi dei
sindaci.
A settembre, 1342 sindaci dovranno
sottoscrivere la relazione di inizio mandato, prima
occasione per far capire se il neosindaco intende lottare
per il primato o per un ruolo gregario rispetto al suo
omologo uscente.
Si tratta di un impegno difficile, specie se «nudi e
crudi» in materia di politica di bilancio, ma di vitale
importanza. Nonostante ciò, è stato sottovalutato fin dal
suo esordio (2013), con conseguenze non affatto piacevoli a
fine sindacatura.
Rispetto al 2013, sono molte le le novità. È stata
introdotta la nuova disciplina sui controlli interni
(articoli 147-147-quinquies del Tuel) ed esterni (articoli
148-148-bis), con i quali misurarsi e sui quali relazionare.
Tantissimi sono i Comuni in dissesto o predissesto. È stato
insediato in Costituzione il concorso obbligatorio degli
enti locali al pareggio di bilancio. Tutti i Comuni hanno
goduto delle anticipazioni di liquidità messe a disposizione
dalla Cdp per saldare i fornitori e da ammortizzare in 30
anni.
A fronte di tutto questo non sono mancati i problemi, che
per lo più persistono e dei quali occorre tener conto nella
relazione. Su tutti, c’è la frequente inadeguatezza della
macchina comunale, con personale spesso inadatto ad
implementare le novità in arrivo dall’attuazione della
riforma Madia. Nondimeno sarà difficile assolvere agli
impegni contratti con i piani di rientro del predissesto,
cui spesso si è aderito con la speranza del solito
salvataggio statale: difficoltà, questa, accentuata dal
contemporaneo impegno alla restituzione delle anticipazioni
di liquidità che hanno indebitato i Comuni per un
trentennio.
Tutto questo senza contare le ulteriori pulizie di bilancio
costantemente rinviate, sui residui ancora inesigibili e sui
debiti fuori bilancio ancora occulti. Non solo. Occorrerà
dare soluzione a ciò che rappresenta il vero cancro dei
bilanci comunali, inguaiati da un accertamento a cui spesso
conseguono percentuali di riscossione infinitesimali. Fino a
quando non si risolverà il dramma dell’elusione e
dell’evasione a regime, le casse comunali non avranno
risorse sufficienti a sostenere il bilancio. Vanno messe al
bando, quindi, le politiche che rintracciano nella
tolleranza fiscale locale lo strumento più forte per drenare
consenso.
Dal dettaglio e dall’oggettività dei dati della relazione di
inizio mandato arriva l’occasione per determinare una nuova
modalità di gestione dei Comuni, indispensabile per
riportare in bonis il sistema autonomistico locale e per
soddisfare il bisogno di politiche sociali crescente con
l’aumentare della popolazione anziana (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016). |
ENTI LOCALI: Divieto
a metà per i dipendenti nei consigli delle controllate.
Partecipate.
L’articolo 11 del
Testo unico sulle partecipate
(Atto
del Governo n. 297 - Schema di decreto
legislativo recante testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica),
dedicato agli organi amministrativi e di controllo delle
società a controllo pubblico, introduce importanti novità
anche sulle inconferibilità e incompatibilità, iniziando
così a scalfire le disposizioni previste in primo luogo dal
Dlgs 39/2013 che, per stessa ammissione dell’Anac, ha ormai
bisogno di essere ripensato almeno per ciò che riguarda le
società e gli enti pubblici economici.
L’articolo 4, comma 4, del Dl 95/2012, aveva prima imposto
che la maggioranza degli amministratori fossero dipendenti
delle amministrazioni controllanti. Successivamente questa
presenza, con l’articolo 16 del Dl 90/2014, era stata resa
non più obbligatoria. Oggi, invece, l’articolo 11, comma 8,
arriva a vietare che nei Cda vi siano dipendenti delle
amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti. In base
allo stesso comma è invece ammesso che possano diventare
amministratori i dipendenti della società della
controllante, a condizione che i compensi vengano riversati
alla società di appartenenza.
Per il comma 12, anche il dipendente della società può
diventarne amministratore. In questo caso, può scegliere se
mantenere il compenso di amministratore e mettersi in
aspettativa o, viceversa, tenersi la retribuzione e
rinunciare all’indennità di amministratore.
Curioso che vi sia un trattamento diverso, visto che i due
casi sono analoghi. Resta il fatto che il comma 12 risolve
alcuni dubbi che sul tema si erano manifestati nel tempo,
determinando pareri difformi perfino nella giurisprudenza
contabile.
Gli amministratori della società controllante, secondo il
comma 11, possono essere nominati amministratori delle
controllate, se delle amministrazioni pubbliche abbiano il
controllo indiretto (ma di queste stiamo parlando, visto che
l’articolo è dedicato alle controllate), solo se vengono
attribuite deleghe di gestione diretta a carattere
continuativo o se la nomina risponde all’esigenza di rendere
disponibili alla controllata particolari e comprovate
competenze tecniche o, ancora, di favorire l’esercizio
dell’attività di direzione e coordinamento.
In pratica la presenza di amministratori della controllante
nella controllata è oggi sempre ammessa, così superando sia
le previsioni del Dlgs 39/2013, sia l’orientamento 11/2015
dell’Anac, ancora più giacobino del decreto stesso.
Tutte queste disposizioni si applicano solo alle controllate
ex articolo 2359 del Codice civile, e ciò può comportare che
perfino una società interamente pubblica non sia interessata
dall’articolo 11, se non limitatamente a quanto previsto dal
comma 16, che richiede al socio pubblico sopra il 10% di
proporre agli organi societari l’introduzione di misure
analoghe a quelle indicate ai commi 6 (compensi agli
amministratori) e 10 (compensi ai dipendenti).
Le modifiche che vengono introdotte, pur importanti, tendono
a risolvere casi particolari, e affrontano il tema delle
inconferibilità e delle incompatibilità in maniera
eterogenea, senza ripensare la questione in modo
sistematico; cosa che sarebbe invece necessaria per quanto
riguarda le società, dove il ruolo degli amministratori,
come rilevato dalla stessa Anac, non riveste natura
politica. Il rischio, infatti, è che il clima di caccia alle
streghe (e alle poltrone) comprometta il livello di
professionalità degli amministratori (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Terre da scavo, nuova gestione. Semplificazioni
per i cantieri, controlli ad hoc sui rischi. Le misure sono
contenute nel decreto approvato in via definitiva il
14.07.2016.
Semplificazioni burocratiche per i
cantieri che producono terre e rocce da scavo, nuovi
standard di qualità per il loro riutilizzo e controlli
preventivi sui rischi di nuove contaminazioni ambientali
legati alle attività di gestione più delicate.
Con l'approvazione definitiva da parte del consiglio dei
ministri del 14.07.2016 del relativo decreto
(Atto
del Governo n. 279 - Schema di decreto del
Presidente della Repubblica concernente regolamento recante
disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce
da scavo)
si avvicina
l'esordio della nuova disciplina sulle terre e rocce da
scavo.
Il contesto normativo.
Il provvedimento in arrivo (tecnicamente nella forma di
decreto del presidente della Repubblica) interviene
sull'ordinamento giuridico in forza del potere di
delegificazione ex dl n. 133/2014, incidendo anche su fonti
primarie ma lasciando immutate le norme di carattere
generale in materia previste dal dlgs 152/2006.
Le nuove regole si collocano dunque nel contesto del Codice
ambientale. Quest'ultimo prevede che (ex articolo 185) sono
esclusi dalla disciplina sui rifiuti:
- (ex comma 1, lettera b) il terreno compreso il suolo non
escavato, contaminato o meno (fermi restando gli eventuali
obblighi di bonifica), così come
- (ex lettera c) il suolo non contaminato e altro materiale
allo stato naturale escavato nel corso di attività di
costruzione riutilizzato pedissequamente in situ.
Può invece essere (ex comma 4) rifiuto, sottoprodotto o
materiale «end of waste» il suolo escavato non contaminato e
altro materiale allo stato naturale utilizzati in siti
diversi da quelli in cui sono stati escavati.
Sono da gestire come rifiuti, salve le disposizioni
particolari sulla bonifica dei siti di estrazione, le terre
escavate e contaminate.
Poggiata sul dlgs 152/2006 è altresì la nozione generale di
«contaminazione», laddove il nuovo dpr fonda le proprie
prescrizioni sui parametri (ex titolo V, parte IV del Codice
ambientale, in materia di bonifica dei siti contaminati)
relativi alle «concentrazioni soglia di contaminazione (Csc)»
e alle «concentrazioni soglia di rischio (Csr)», il
superamento delle ultime tra le quali rende il sito
contaminato.
Definizioni.
Sulla scia dell'uscente normativa, il nuovo dpr individua
come terre e rocce da scavo oggetto della particolare
disciplina il suolo escavato derivante da attività
finalizzate alla realizzazione di un'opera, comprensivo
dell'eventuale componente «matrici materiali di riporto».
In relazione a tale componente antropica (costituita dai
residui di produzione/consumo accumulatisi nel tempo) tre
sono le direttive dettate dal nuovo dpr.
In primo luogo, per la nozione di riporto si continuerà a
far riferimento alla definizione ex articolo 3, comma 1, dl
2/2012.
In secondo luogo, si specifica che le terre possono
contenere calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (Pcv),
vetroresina, miscele cementizie ed additivi per scavo
meccanizzato, purché con concentrazioni entro i limiti
previsti dalle colonne A e B, tabella 1, allegato 5, del
citato titolo V del Codice ambientale per specifica
destinazione d'uso.
In terzo luogo, si prevedono ulteriori prescrizioni
quali/quantitative ad hoc per dette componenti antropiche in
relazione a loro specifici riutilizzi (come più avanti
analizzato).
I soggetti interessati.
Il neo provvedimento individua, graduando i relativi oneri
burocratici, tra:
- «cantieri di piccole dimensioni», in cui sono prodotte
terre e rocce da scavo in quantità non superiori a 6 mila
metri cubi (su sezioni di progetto) anche nel corso di
attività/opere soggette a Via o Aia (rispettivamente,
valutazione di impatto ed autorizzazione integrata
ambientale);
- «cantieri di grandi dimensioni», in cui sono prodotte
terre e rocce da scavo in quantità superiori a 6 mila metri
cubi, a loro volta distinti nelle due sub categorie di
cantieri sottoposti ad Aia/Via e non sottoposti ad Aia/Via.
Gestione come sottoprodotti.
Il nuovo dpr stabilisce le norme per gestire le terre da
scavo fuori dall'ordinario regime dei rifiuti, dettando da
un lato prescrizioni generali da osservare per invocare la
deroga, dall'altro prevedendo regole complementari dirette a
singole tipologie di cantieri.
Tra tali disposizioni comuni trovano collocazione le
condizioni da soddisfare declinate dall'articolo 184-bis del
dlgs 152/2006 sui sottoprodotti. E tra queste ultime,
trovano posto specifici criteri di compatibilità ambientale,
che appaiono poter essere così riassumibili: in linea di
principio, le terre devono rispettare dei requisiti di
«qualità ambientale» che invocano il rispetto dei livelli di
«Csc» ex colonne A e B, tabella 1, allegato 5, titolo V
citato (con riferimento alla specifica destinazione d'uso
urbanistica o ai valori di fondo naturali); se le terre
contengono materiali di riporto, la componente di origine
antropica (inoltre) non deve superare il 20% e, previo test
di cessione ex dm 05/02/1998, rispettare (ad esclusione
dell'amianto, oggetto di regole ad hoc) i valori ex tabella
2, allegato 5, medesimo titolo V o comunque i valori di
fondo naturale stabiliti per il sito ed approvati dagli enti
di controllo; la componente amianto deve rispettare i
relativi valori ex tabella 1, allegato 5 citato (fatte salve
le specifiche disposizioni sull'amianto da affioramenti
geologici naturali, più avanti esposte).
Ancora di carattere generale le regole sul «deposito
intermedio» dei sottoprodotti in attesa di riutilizzo, che
ripropongono quelle dell'uscente normativa.
Sempre in linea con l'uscente normativa l'apposita
documentazione per il trasporto fuori sito dei materiali da
scavo sottoprodotti, con la novità di non imporre più ai
cantieri di grandi dimensioni la preventiva comunicazione
della movimentazione alle autorità competenti.
Ai più grandi cantieri sottoposti a Via/Aia è comunque
imposta la redazione del Piano di utilizzo, con possibilità
di poter però ora procedere all'avvio della gestione decorsi
90 giorni dalla sua trasmissione alle autorità. In luogo del
piano di utilizzo, per i cantieri di grandi dimensioni non
Via/Aia e quelli di piccole dimensioni è invece prevista la
più semplice dichiarazione (in autocertificazione) da
trasmettere alle Autorità 15 giorni prima dell'inizio dello
scavo.
Terre e rocce rientranti nel regime dei
rifiuti. Il
decreto detta specifiche regole per il deposito temporaneo
delle terre identificabili con i Codici Cer «17 05 03*” e
“17 05 04».
Rispetto all'ordinario istituto ex dlgs 152/2006, quello in
parola da un lato concede la possibilità di stoccare un
maggior quantitativo annuo di specifici residui (fino a 4000
metri cubi, di cui non oltre 800 di pericolosi) dall'altro
impone l'adozione di ulteriori misure per evitare la
contaminazione delle matrici ambientali.
Terre e rocce escluse da regime rifiuti.
In relazione alle terre escluse dal regime dei rifiuti ex
citato articolo 185, comma 1, lettera c), del dlgs 152/2006
si dovrà assicurare: l'assenza di contaminazione ricorrendo,
salve le regole sui test di cessione, alle procedure di
caratterizzazione previste dal nuovo dpr; il riutilizzo
esclusivo nel sito di produzione e dietro diretto controllo
delle autorità competenti delle terre e rocce da scavo
provenienti da affioramenti geologici naturali contenti
amianto oltre le relative specifiche soglie più sopra
menzionate (in relazione ai sottoprodotti); una verifica
preliminare della loro natura secondo precisi criteri dei
materiali generati nell'ambito di opere/attività sottoposte
a Via.
Terre e rocce da scavo da siti sub
bonifica. Nelle
attività di scavo sono imposti: caratterizzazione su base
significativa di campioni ed analisi concordate con le
competenti istituzioni; divieto di innalzamento dei livelli
di inquinamento; rimozione e gestione come rifiuti delle
fonti attive di contaminazione rilevate.
Il riutilizzo delle terre in situ è consentito: sempre, se
conformi ai parametri «Csc» e nella medesima area oggetto di
valutazione; se non conformi alle «Csc», ma comunque entro i
parametri «Csr», solo in ossequio alle prescrizioni delle
autorità competenti e con reimpiego inibito nelle sub-aree
meno inquinate.
Disposizioni transitorie.
Sono fatti salvi i piani di utilizzo approvati prima
dell'entrata in vigore del nuovo dpr così come i progetti
alla stessa data ancora sub procedura ai sensi della
previgente normativa (si veda la tabella pubblicata in
questa pagina).
Questi ultimi, tuttavia, possono transitare nella nuova
disciplina se entro 180 giorni dalla vigenza del nuovo
decreto viene trasmesso alle autorità competenti il
Piano/Dichiarazione di utilizzo adeguato alle neo regole.
La gestione fuori dal regime dei rifiuti è ammessa invece
per materiali già scavati, raccolti, depositati in cumuli,
utilizzati per reinterri, riempimenti o opere in terra nel
rispetto delle «Csc» ex colonne A e B, tabella 1, Allegato 5
citato, se entro 120 giorni da entrata in vigore del nuovo
dpr viene presentato il Piano di utilizzo (ove non già
prodotto) o la documentazione di caratterizzazione relativa
alle soglie di contaminazione
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: Con
la Pec le libertà a rischio.
Analisi.
La notificazione telematica è effettuata ad rem e non ad
personam, in violazione della libertà individuale
(soggettiva) e della corrispondenza (oggettiva). E questo la
mette a rischio di legittimità costituzionale.
L'art. 26, comma 2, del dpr 602/1973 prevede che la notifica
della cartella può essere eseguita, con le modalità di cui
al dpr 68/2015, a mezzo posta elettronica certificata,
all'indirizzo risultante dagli elenchi a tal fine previsti
dalla legge.
L'art. 6 del dlgs 82/2005 (Codice
dell'amministrazione digitale-Cad) prevede che le p.a.
«utilizzano la posta elettronica certificata per ogni
scambio di documenti e informazioni con i soggetti
interessati che ne fanno richiesta e che hanno
preventivamente dichiarato il proprio indirizzo di posta
elettronica certificata». A rigore di tale ultima norma è
necessaria, inderogabile ed essenziale una espressa ed
esplicita richiesta del soggetto interessato dal
procedimento.
La conferma giuridica sarebbe rinvenibile nel
collegamento esistente tra l'art. 2 del Cad il quale
prescrive che le disposizioni relative alla trasmissione dei
documenti informatici si applicano anche ai privati, ex art.
3, dpr 455/2000, e l'art. 3 stesso il quale prevede che le
norme del testo unico disciplinano altresì la produzione di
atti e documenti agli organi della pubblica amministrazione
nonché ai gestori di pubblici servizi, nei rapporti tra loro
e in quelli con l'utenza e ai privati che vi consentono.
A questo punto si potrebbe ritenere che la notifica tramite
Pec sarebbe uno strumento costituzionalmente illegittimo
poiché, in termini di sistema, non garantisce alcuna libertà
(al destinatario) al fine di poter scegliere modalità, tempi
e (quindi) dinamica di ricezione dell'atto o del documento
informatico o, viceversa, di poter esprimere un sacrosanto
rifiuto.
Violerebbe gli artt. 3, 13 e 15 della Costituzione
oltreché i diritti dell'uomo in materia di libertà
individuale ed alla corrispondenza. Il sistema Pec vigente
sarebbe caratterizzato da una impossibilità oggettiva di stadiazione
del momento cognitivo certo e perfetto per il destinatario
(in qualità di individuo titolare della libertà)
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016). |
APPALTI: Cabina di regia sugli appalti. Monitorerà l'attuazione del
Codice e riferirà all'Ue. In Unificata ok al dpcm che istituisce l'organismo di
raccordo con la Commissione europea.
Una cabina di regia sugli appalti. Con il compito di
monitorare lo stato di attuazione del codice (dlgs n.
50/2016), controllare l'applicazione della normativa europea
e informare la Commissione Ue sui casi di non corretta
applicazione e incertezza della disciplina. Non solo. La
cabina di regia dovrà relazionare all'esecutivo di Bruxelles
sul livello di partecipazione delle pmi agli appalti
pubblici e segnalare i casi di frode, corruzione, conflitto
di interessi e altre irregolarità.
Analoga segnalazione dovrà essere inviata all'Anac.
Il nuovo organismo, la cui istituzione è prevista dall'art.
212 del Codice appalti, è in dirittura d'arrivo dopo l'ok
della Conferenza unificata che mercoledì ha espresso parere
favorevole sullo schema di dpcm.
La cabina di regia sarà presieduta dal capo del dipartimento
affari giuridici e legislativi di palazzo Chigi, poltrona
ora occupata da Antonella Manzione, ex comandante della
polizia municipale di Firenze e fedelissima del premier
Matteo Renzi. Nell'organismo di controllo siederà con
funzioni di vicepresidente il capo dell'ufficio legislativo
del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, incarico
ora ricoperto da Elisa Grande.
Gli altri componenti dovranno
invece essere designati dalle rispettive amministrazioni di
appartenenza: un rappresentante arriverà dal dipartimento
politiche europee, due dal Mef, uno dall'Anac, tre dalle
regioni e province autonome, tre dalle autonomie locali, uno
dall'Agenzia per l'Italia digitale e uno dalla Consip.
Nessuno di loro riceverà compensi per il lavoro svolto
perché l'istituzione della cabina di regia dovrà essere a
costo zero per il bilancio dello stato. In sede di prima
attuazione, la cabina di regia dovrà riunirsi entro il 31.03.2017 e successivamente ogni tre anni.
Come detto, la task force sarà la struttura di riferimento
per la cooperazione con la Commissione europea a cui
riferirà in merito:
- ai contratti di servizi aggiudicati in base a un diritto
esclusivo;
- ai contratti e concorsi aggiudicati in base a norme
internazionali;
- alle informazioni in materia di convalida della firma
elettronica;
- alle difficoltà incontrate dalle imprese italiane
nell'aggiudicarsi appalti in paesi terzi.
La cabina di regia provvederà inoltre agli aggiornamenti in
materia di banche dati contenenti informazioni sugli
operatori economici che possono essere consultate dalle
stazioni appaltanti di altri stati membri.
Potrà anche consultare e ascoltare in audizione esperti del
settore degli appalti pubblici e delle concessioni, nonché
stipulare convenzioni e protocolli senza maggiori oneri a
carico dello stato
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Enti locali a metà del guado. Aiuti congiunturali e
strutturali. Ma restano nodi aperti.
Il dl 113 e la riforma degli equilibri, varati dalle camere,
hanno risolto diversi problemi.
Enti locali a metà del guado. I provvedimenti approvati
negli scorsi giorni dal parlamento, ovvero legge di
conversione del dl 113/2016 e modifica della legge 243/2012
sugli equilibri di bilancio, hanno risolto numerosi dei
problemi, in buona parte anche strutturali, che affliggono
sindaci e presidenti di provincia.
Ma rimangono ancora molte questioni aperte, che
richiederanno ulteriori interventi normativi, in particolare
per quanto concerne gli enti di area vasta ed i tributi
comunali.
Le buone notizie
Le novità del dl 113 sono perlopiù congiunturali e vanno
dalla riduzione delle sanzioni per gli enti che hanno
sforato il Patto 2015 all'istituzione di un fondo a sostegno
di quelli alle prese con contenziosi relativi a calamità o
cedimenti, dalla redistribuzione delle economie sul fondo di
solidarietà 2015 e 2016 agli interventi a favore delle
amministrazioni in dissesto e in predissesto.
Non mancano,
però, misure più strutturali, come la previsione di un
cofinanziamento statale alle spese per l'estinzione
anticipata dei mutui o l'ampliamento del turnover nei comuni medio-piccoli con una bassa incidenza della spesa di
personale. Sempre su quest'ultimo versante, spiccano anche
la cancellazione dell'obbligo di riduzione del rapporto fra
le uscite per stipendi e la spesa corrente complessiva e il
via libera alle nuove assunzioni in tutte le regioni in cui
è stato ricollocato almeno il 90% degli esuberi provinciali.
Decisamente strutturali, invece, sono i correttivi alla
legge 243, che mandano definitivamente in pensione il Patto
di stabilità interno e semplificano la griglia di obiettivi
che i bilanci locali devono rispettare, riducendoli a uno
(pareggio di competenza fra entrate e spese finali).
Cancellati, invece, gli altri vincoli (pareggio finale di
cassa e pareggio corrente di competenza e di cassa).
Rilevante anche la revisione delle sanzioni, che dovranno
essere proporzionate alla gravità delle violazioni e
utilizzate per premiare i virtuosi.
Le questioni aperte
Come detto, però, su altri fronti c'è ancora molto da
lavorare. I principali riguardano gli enti di area vasta ed
i tributi comunali. Sul primo, le toppe messe dal dl 113
sotto forma riduzione delle sanzioni Patto e di risorse
aggiuntive (48 milioni per il finanziamento delle funzioni
fondamentali e 100 milioni per la manutenzione straordinaria
della relativa rete viaria) non bastano a tenere in piedi i
bilanci disastrati delle ex-province. Sul secondo, occorre
ripensare l'intero quadro delle entrate dei comuni,
riaprendo il dossier della local tax (frettolosamente chiuso
giusto un anno fa) e riformando il sistema di perequazione
(che fa acqua da tutte le parti, come ripetutamente messo in
evidenza dalla Corte costituzionale e della magistratura
amministrativa).
Ma anche sui temi appena affrontati dalle camere non mancano
i dubbi. Ad esempio, restano da stabilire le modalità di
inclusione del fondo pluriennale vincolato nel saldo del
pareggio (come evidenziato nei giorni scorsi anche da una
puntuale interrogazione al ministro Pier Carlo Padoan
presentata dalla deputata Pd Simonetta Rubinato, che ha
chiesto di quantificare in tempi brevi la relativa
copertura) e quelle per la definizione delle intese
regionali che dal 2017 dovranno orientare l'utilizzo
dell'avanzo e del debito per finanziare gli investimenti
(forse non tutti hanno compreso che senza intesa non si
potrà fare nulla, essendo stata eliminata la clausola di
salvaguardia che consentiva «in ogni caso» di indebitarsi
nei limiti delle spese di rimborso prestiti stanziate a
bilancio).
Anche sul personale, infine, c'è la necessità di
razionalizzare una disciplina sempre più frammentaria e
disomogenea
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2016). |
APPALTI: Accordi tra comuni, un autogol. Domanda polverizzata
nonostante 33 soggetti aggregatori. L'Anac critica la chance per gli enti di consorziarsi per
acquisire lavori, beni e servizi.
Sono 33 i soggetti aggregatori della domanda, ma la
possibilità di stipulare accordi fra comuni ha di fatto reso
impossibile superare la situazione di estrema
polverizzazione della domanda.
È quanto afferma l'Autorità
nazionale anticorruzione nella relazione sull'anno 2015,
presentata a luglio, in cui si fa il punto sulla situazione
riguardante i cosiddetti «soggetti aggregatori della
domanda» cui devono fare riferimento ormai la maggior parte
delle stazioni appaltanti (la legge di Stabilità 2016 ha
ampliato il perimetro delle amministrazioni tenute alla
centralizzazione degli acquisiti inserendo anche gli enti
locali di cui all'art. 2 del Testo unico degli enti locali,
i loro consorzi e le associazioni)
L'analisi dell'Anac prende di mira gli accordi fra comuni
previsti dal quarto comma dell'articolo 9 del decreto-legge
24.04.2014, n. 66 (legge 23.06.2014, n. 89). In tale
norma si stabilisce il principio per cui i comuni non
capoluogo di provincia procedono all'attività di
acquisizione di lavori, beni e servizi o nell'ambito di un
apposito accordo consortile tra comuni, o avvalendosi dei
competenti uffici delle province, o ricorrendo ai soggetti
aggregatori medesimi (autorizzati ad operare in tale veste
dalla stessa Anac).
La previsione di accordi consortili tra comuni, nota
l'Autorità nella relazione, «ha di fatto generato,
contrariamente all'intento del legislatore, una
proliferazione di tali accordi che non consente di superare
la struttura estremamente polverizzata che caratterizza la
domanda delle amministrazioni». Sostanzialmente un autogol.
Di diverso tenore invece le considerazioni svolte per quanto
invece riguarda i primi tre commi della stessa norma che
prevedono l'istituzione, nell'ambito dell'Anagrafe unica
delle stazioni appaltanti, dell'elenco dei soggetti
aggregatori, per un numero massimo di 35, cui fanno parte
Consip spa e una centrale di committenza designata da
ciascuna regione. Qui tutto sembra essere andato per il
meglio anche se vi sono ancora elementi critici da superare.
Ad oggi sono stati autorizzati 33 soggetti aggregatori, con
una varietà di forme organizzative previste, tra centrali
uniche di committenza, stazioni uniche appaltanti vere e
proprie in-house di alcune regioni, ovvero strutture interne
alle medesime. L'eterogeneità, nota l'Autorità, è dovuta a
due fattori: la preesistenza di strutture che operavano già
come centrali di committenza e la previsione normativa che
non pone particolari restrizioni in termini organizzativi.
Sono presenti fra i 33 soggetti aggregatori, anche alcune
città metropolitane che hanno proceduto alla loro
costituzione in attuazione della legge 07.04.2014, n. 56.
L'Autorità mette in evidenza però diversi profili
problematici legati allo sviluppo e all'integrazione delle
banche dati, nonché al preventivo collegamento -in tempo
reale- tra il portale dei soggetti aggregatori del
ministero dell'economia e delle finanze (contenente i dati
di programmazione dei soggetti aggregatori) con la Banca
dati nazionali dei contratti pubblici. Manca ancora il
collegamento della programmazione dei soggetti aggregatori e
delle stazioni appaltanti con il Piano nazionale
anticorruzione (Pna)
Esistono, poi, problemi di classificazione delle stazioni
appaltanti, e di determinazione della corrispondenza tra
ciascuna categoria merceologica prevista dal decreto della
presidenza del consiglio dei ministri del 24 dicembre 2015 e
le relative classificazioni Cpv di derivazione europea (si
fa anche un esempio specifico e significativo: si pensi ad
esempio alla portata della categoria farmaci ovvero a quella
del facility management). Tutti problemi per i quali l'Anac
chiede l'istituzione di appositi tavoli tecnici
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Conto termico 2.0 è realtà. Le p.a. possono accedere alla
prenotazione degli incentivi.
Il Gse ha diffuso le regole applicative per i piccoli
interventi di efficienza energetica.
Il Conto termico 2.0 è finalmente operativo a pieno regime.
Il Gse ha infatti diffuso le regole applicative che
disciplinano le modalità di accesso al Conto Termico 2.0 per
gli interventi di piccole dimensioni di efficienza
energetica e di produzione di energia termica da fonti
rinnovabili.
Giunge così a compimento la riforma introdotta dal decreto
ministeriale 16 febbraio 2016, con le pubbliche
amministrazioni che possono quindi accedere alla procedura
di prenotazione degli incentivi attraverso il Portaltermico.
Le regole applicative stabiliscono le procedure di accesso
al meccanismo incentivante su prenotazione e a consuntivo, i
requisiti di conformità richiesti dal decreto e le modalità
di calcolo e di erogazione degli incentivi.
Gli enti pubblici potranno ottenere un acconto
Per gli interventi realizzati dalla pubblica
amministrazione, a esclusione delle cooperative di abitanti
e delle cooperative sociali, anche per il tramite di «Esco»,
è prevista l'erogazione in un'unica rata anche per incentivi
di importo superiore a 5 mila euro. Nel caso di accesso agli
incentivi mediante prenotazione, è prevista l'erogazione
dell'incentivo in due rate, una di acconto al momento di
comunicazione dell'avvio dei lavori e il saldo alla
conclusione dei lavori, a seguito della istanza di accesso
diretto post prenotazione.
L'importo della rata in acconto sarà pari al 50% del
beneficio complessivamente riconosciuto se la durata
dell'incentivo è di due anni, sarà pari ai 2/5 del beneficio
complessivamente riconosciuto se la durata dell'incentivo è
di cinque anni. La richiesta di incentivo tramite
prenotazione consentirà alle p.a. di ricevere entro 60
giorni dalla sottoscrizione della scheda-contratto un primo
acconto.
A conclusione dei lavori, entro 60 giorni, il Gse
erogherà in un'unica rata a saldo la parte residua
dell'incentivo. Le p.a. potranno richiedere un acconto nel
caso in cui siano in possesso di una diagnosi energetica, di
un contratto di prestazione energetica stipulato con una
«Esco», di un atto amministrativo attestante l'avvenuta
assegnazione dei lavori.
Incentivo a fondo perduto fino al 65%
Il Conto termico finanzia interventi di isolamento termico
di superfici opache delimitanti il volume climatizzato, la
sostituzione di chiusure trasparenti comprensive di infissi
delimitanti il volume climatizzato, la sostituzione di
impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti
di climatizzazione invernale utilizzanti generatori di
calore a condensazione, l' installazione di sistemi di
schermatura e/o ombreggiamento di chiusure trasparenti con
esposizione da Est-Sud-Est a Ovest, fissi o mobili, non
trasportabili.
Finanzia inoltre la sostituzione di impianti
di climatizzazione invernale esistenti con impianti a
maggior efficienza, e l'installazione di impianti solari
termici per la produzione di acqua calda sanitaria e/o ad
integrazione dell'impianto di climatizzazione invernale,
anche abbinati a sistemi di solar cooling e per la
sostituzione di scaldacqua elettrici con scaldacqua a pompa
di calore.
Grazie alla riforma, è possibile agevolare la trasformazione
degli edifici esistenti in «edifici a energia quasi zero»,
la sostituzione di sistemi per l'illuminazione d'interni e
delle pertinenze esterne degli edifici esistenti con sistemi
efficienti di illuminazione, l'installazione di tecnologie
di gestione e controllo automatico (building automation)
degli impianti termici ed elettrici degli edifici, ivi
compresa l'installazione di sistemi di termoregolazione e
contabilizzazione del calore.
È infine finanziabile la sostituzione di impianti di
climatizzazione invernale esistenti con sistemi ibridi a
pompa di calore. L'ammontare dell'incentivo erogato non può
eccedere in nessun caso il 65% delle spese sostenute e
ammesse). È previsto anche un contributo del 100% delle
spese per la Diagnosi energetica e per l'attestato di
prestazione energetica (Ape) per le p.a.
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Dati catastali, visure gratis per le società.
Semplificazione.
È stata estesa alle società e agli
enti la consultazione online gratuita delle banche dati
ipotecaria e catastale. In questa maniera anche le persone
giuridiche registrate ai servizi telematici Entratel e
Fisconline possono avere tutte le informazioni sul proprio
patrimonio immobiliare gratuitamente e senza recarsi in
ufficio.
Lo ha evidenziato l’agenzia delle Entrate in una nota
diramata ieri.
Il servizio, già attivo dal 31.03.2014 per le persone
fisiche, è rivolto ora anche alle persone giuridiche che
risultino anche in parte titolari del diritto di proprietà o
di altri diritti reali di godimento.
Consultando la banca dati catastale ipotecaria è possibile
ottenere: la visura catastale, sia per soggetto, sia per
immobile; la mappa con la particella dei terreni; la
planimetria del fabbricato; l’ispezione ipotecaria.
L’accesso alle informazioni di cui è effettuato tramite
soggetti appositamente incaricati secondo le regole già
previste per i suddetti servizi telematici.
Il servizio è attivo su tutto il territorio nazionale ad
eccezione delle province autonome di Trento e Bolzano e
della altra zone in cui vige il sistema tavolare (articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Codice appalti, 10 decreti in arrivo.
Qualificazione degli enti appaltanti, requisiti e livelli di
progettazione.
Lavori pubblici. Sprint del ministero delle Infrastrutture
sull'attuazione del Dlgs 50 del 18 aprile.
Sprint estivo per
l'attuazione della riforma appalti. Dopo le prime linee
guida approvate dall'Anac -sette già varate, tre ancora in
fase di gestazione- scende in campo il ministero delle
Infrastrutture, che si presenta al giro di boa di inizio
agosto con un nutrito pacchetto di provvedimenti in fase di
adozione finale.
In campo ci sono, in tutto, una decina di decreti, a
cominciare da due testi appena licenziati: le linee guida
per la compilazione del Documento di gara unico europeo e il
Dm, in coabitazione con la Giustizia, sui parametri da porre
a base delle gare di progettazione. Entrambi sono approdati
in Gazzetta ufficiale nei giorni scorsi.
Ma i cassetti degli uffici tecnici di Porta Pia sono carichi
di molto altro materiale. A cominciare dal nuovo sistema di
qualificazione delle stazioni appaltanti. Il decreto, che
attende il concerto del ministero dell'Economia, delinea i
contorni dell'albo che sarà gestito dall'Anac.
L'elenco sarà distribuito in quattro fasce di importo e
permetterà agli enti di poter gestire in proprio appalti di
valore crescente, sulla base del grado di competenza e
organizzazione dimostrata sul campo. La qualificazione,
modellata su quella che già esiste per le imprese, durerà
cinque anni. Ma per fare partire il nuovo sistema servirà un
ulteriore provvedimento dell'Anac, senza contare una lunga
fase transitoria: per 18 mesi chi farà domanda manterrà il
diritto di richiedere i Cig per avviare le gare.
In via di adozione, poi, c'è il pacchetto di testi dedicati
alla progettazione. Quello più importante riguarda la
riorganizzazione dei tre livelli: progetto di fattibilità,
definitivo ed esecutivo. Nel primo livello le novità più
pesanti: nella bozza licenziata dal Mit e all'attenzione dei
ministeri dell'Ambiente e dei Beni culturali, tutte le
indagini preliminari passeranno dal definitivo alla
fattibilità. In questo modo finisce l'era dei preliminari di
poche pagine, regolarmente smentiti dagli elaborati
successivi. Di conseguenza il perimetro del progetto
definitivo risulterà molto ridotto. Il terzo livello di
progettazione, invece, l'esecutivo, resterà simile a oggi,
ma con rafforzamento delle previsioni in materia di
manutenzione pluriennale delle strutture.
Novità importanti sono attese anche dal decreto dedicato ai
requisiti per l'affidamento dei servizi di ingegneria e
architettura, attualmente all'Anac per il suo parere:
porterà misure di favore per la partecipazione dei giovani
alle gare e scioglierà il nodo del contributo previdenziale
integrativo delle società di ingegneria, ribadendo la sua
natura obbligatoria.
Un altro provvedimento riguarda la Cabina di regia per
l'attuazione del Codice appalti, ormai in rampa di lancio:
sarà guidata dal capo dell'ufficio legislativo di Palazzo
Chigi, Antonella Manzione e avrà il compito di monitorare la
situazione del mercato in vista del decreto correttivo, in
calendario nel 2017.
Al via anche la commissione incaricata di gestire
l'introduzione del Bim (Building information modeling), la
tecnica che consente di anticipare gli effetti del cantiere
in fase di progetto, riducendo l'impatto di imprevisti e
varianti. Completano il quadro i decreti sulle categorie
superspecialistiche e sulla programmazione delle Pa, anche
loro in arrivo (articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I comuni tornano ad assumere. Niente paletti per scuole e
asili. Turnover soft nei mini-enti.
Il senato ha convertito in legge il dl enti locali. I
sindacati: resta il nodo dei precari.
Turnover soft nei piccoli comuni, assunzioni facilitate
nella scuola e nei servizi per l'infanzia, sanzioni
pecuniarie addolcite per i comuni e annullate del tutto per
province e città metropolitane non in regola con il patto di
stabilità 2015, risorse ai sindaci per estinguere i mutui in
anticipo e agli enti di area vasta per mettere in sicurezza
i conti.
Il decreto enti locali (dl 113/2016) convertito
ieri in legge dal senato (che con 165 voti favorevoli, 96
contrari e nessun astenuto ha votato la fiducia chiesta dal
governo) farà trascorrere un'estate più serena al mondo
delle autonomie. E non solo. Perché nel corso dell'iter alla
camera, il testo si è arricchito di molte ed eterogenee
modifiche che l'hanno reso una sorta di decreto omnibus,
anche a costo di creare qualche problema di
costituzionalità.
Il clou degli interventi è sicuramente rappresentato dalla
riapertura delle rateizzazioni con Equitalia e con l'Agenzia
delle entrate (a seguito di acquiescenza o accertamento con
adesione). Una chance che consentirà ai contribuenti
decaduti dal pagamento dilazionato di essere riammessi al
beneficio.
Nel provvedimento ha inoltre trovato posto la sanatoria
della proroga automatica al 2020 delle concessioni balneari.
In attesa del riordino della materia sulla base dei principi
Ue «conservano validità i rapporti già instaurati»: questa
la soluzione individuata dal governo per salvare gli
investimenti fatti dai privati, accogliendo al contempo i
rilievi della Corte di giustizia Ue. Per le compagnie aeree low-cost, infine, non ci sarà il temuto aumento delle tasse
di imbarco dei passeggeri che aveva portato qualche vettore
a minacciare il taglio dei collegamenti. L'aumento
dell'addizionale comunale sui diritti di imbarco viene
congelato dal 1° settembre fino al 31/12/2016.
Completa il quadro delle misure emergenziali, lo
stanziamento di 10 milioni di euro a favore dei familiari
delle vittime del disastro ferroviario di Andria-Corato e
dei feriti gravi.
«Con il via libera definitivo al decreto legge le province
raggiungono un sostanziale equilibrio», ha commentato il
sottosegretario agli affari regionali Gianclaudio Bressa.
«La misura ridimensiona il contributo alla finanza pubblica
di province e città metropolitane per l'anno 2016, dando
comunque certezza allo svolgimento delle funzioni
fondamentali. In particolare, l'importo di 650 milioni di
euro chiesto alle province in legge di Stabilità per il 2016
è stato compensato da 245 milioni di euro destinati alle
spese di manutenzione dei 130 mila chilometri di strade
provinciali e dei 5.100 istituti scolastici, da ulteriori 70
milioni di euro con cui si farà fronte al sostegno degli
studenti con disabilità, da 39 milioni di euro per il fondo
di riequilibrio dei bilanci provinciali e da 20 milioni di
euro per il personale in esubero che, nell'anno in corso,
continua a essere pagato dalle province».
Maggioranza e opposizione, dal canto loro, danno del decreto
un giudizio molto differente. Per la senatrice Magda Zanoni
(Pd), il provvedimento porta «un aiuto sostanziale ai
territori», mentre Andrea Mandelli (Forza Italia) ha
criticato le norme «microsettoriali e localistiche» di cui
il decreto è stato infarcito.
Per i sindacati il decreto «contiene luci e ombre». In una
nota congiunta Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl hanno apprezzato
il superamento dei vincoli sulle spese del personale e sul
settore scolastico-educativo. Tuttavia, lamentano, rimane
irrisolto il tema dei precari «per i quali non c'è al
momento alcuna prospettiva. Così come e' concreto il
rischio per migliaia di dipendenti di enti che hanno sforato
il patto di stabilità di vedersi il salario decurtato»
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2016). |
VARI: Patente sospesa, spada di Damocle.
Il ministero dell'interno: rischia grosso chi circola.
Il destinatario di un provvedimento di revisione della
patente rischia grosso se circola con la licenza sospesa di
validità. Soprattutto se si tratta di una misura di
carattere sanzionatorio derivante per esempio
dall'accertamento della guida alterata.
Lo ha chiarito il
ministero dell'interno con la
circolare
01.06.2016 n.
300/a/3953/16/109/55 di prot..
La circolazione con
patente sospesa è densa di incognite anche in relazione alle
diverse tipologie di sanzioni previste dal codice stradale
negli articoli 128 e 218. Per questo motivo il Viminale ha
diramato interessanti chiarimenti agli organi di polizia.
Innanzitutto l'art. 126-bis/6° cds tratta dell'ipotesi di
revisione della patente in conseguenza dell'azzeramento del
punteggio disponibile.
Spetta alla motorizzazione civile
notificare all'interessato l'azzeramento di punteggio con
invito a sottoporsi alla revisione delle licenza entro 30
giorni. Solo se l'utente stradale non ottempera all'obbligo
la motorizzazione disporrà, con un ulteriore provvedimento,
la sospensione della patente a tempo indeterminato. E per
chi non rispetterà l'inibizione scatteranno guai grossi.
Specifica infatti la nota che in tal caso si applicherà la
sanzione prevista dall'art. 128/2° cds ovvero una multa di
164 euro con la revoca definitiva della licenza.
La stessa
sanzione, prosegue la circolare, si applicherà alle
ulteriori diverse ipotesi di sospensione della patente a
tempo indeterminato contemplate dall'art. 128 cds ovvero
conseguenti alla revisione della licenza disposta per motivi
tecnici o di salute dell'autista. Attenzione però, in questo
caso la circolazione sarà vietata subito, senza necessità di
un ulteriore avviso. Per quanto riguarda le sanzioni
attenzione alla durata della sospensione. Se la misura è
stata disposta a tempo indeterminato ricade tutto nella
previsione appena esaminata.
Diversamente, se la sospensione
della patente viene disposta a tempo determinato, a titolo
di sanzione accessoria, il trasgressore ricadrà nella
diversa ipotesi sanzionatoria prevista dall'art. 218/6° cds.
Ovvero almeno 2.000 euro di sanzione con revoca della
patente e fermo del veicolo
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Catasto gratis per le società.
Estesa anche alle società e agli enti la consultazione
online gratuita delle banche dati ipotecaria e catastale.
Infatti, anche le persone giuridiche registrate ai servizi
telematici Entratel e Fisconline possono ora avere tutte le
informazioni sul proprio patrimonio immobiliare,
gratuitamente e senza recarsi in ufficio.
Lo ha reso noto ieri l'Agenzia delle entrate.
Il servizio, già attivo dal 31.03.2014 per le persone
fisiche, è rivolto alle persone giuridiche anche in parte,
del diritto di proprietà o di altri diritti reali di
godimento sui beni immobili.
Consultando le banche dati catastale ipotecaria è possibile
ottenere:
• la visura catastale, sia per soggetto che per immobile;
• la mappa con la particella terreni;
• la planimetria del fabbricato;
• l'ispezione ipotecaria.
Il servizio è attivo su tutto il territorio nazionale ad
eccezione delle provincie autonome di Trento e Bolzano e
delle altre zone in cui vige il sistema tavolare
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2016). |
ENTI LOCALI: Pareggio di bilancio flessibile. Le sanzioni proporzionate
all'entità della violazione. La Camera dei deputati ha approvato definitivamente il ddl.
Cosa cambia per gli enti.
Dal 2017, le sanzioni a carico degli enti che non
rispetteranno il pareggio di bilancio dovranno essere
proporzionate all'entità delle violazioni e destinate a
finanziare gli incentivi a favore delle amministrazioni
virtuose.
È una delle novità del disegno di legge di
modifica della l. 243/2012 sugli equilibri contabili delle
regioni e degli enti locali, approvato ieri in via
definitiva dalla Camera con 342 sì e 89 no (per
l'approvazione del provvedimento era necessaria la
maggioranza assoluta).
In materia di penalità, in effetti,
la maggior parte dei commentatori si è finora soffermata
esclusivamente sulla previsione che individua in un triennio
l'orizzonte temporale entro il quale chi ha sforato deve
rientrare. Fino ad oggi, invece, le sanzioni economiche sono
sempre state applicate per intero nell'anno successivo a
quello in cui è stata commessa (o accertata) l'infrazione.
A
dire il vero, però, il principio della pluriannualità è già
fissato dal testo attuale (art. 9, comma 2), e anzi il
correttivo appena licenziato da Montecitorio consente alla
legge dello Stato di disapplicarlo «al fine di assicurare il
rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione
europea». Il vero cambiamento sta nella riscrittura del
successivo comma 4, che impone al legislatore ordinario di
attenersi ai seguenti principi: a) proporzionalità fra premi
e sanzioni; b) proporzionalità fra sanzioni e violazioni; c)
destinazione dei proventi delle sanzioni a favore dei premi
agli enti del medesimo comparto che hanno rispettato i
propri obiettivi.
Quindi, dal prossimo anno, sarà giocoforza
rimettere mano alla disciplina vigente (identica, sotto
questo profilo, a quella collegata al vecchio Patto di
stabilità interno), che non solo impone sanzioni
evidentemente sproporzionate rispetto alle violazioni (si
pensi all'assurdità di bloccare le assunzioni anche se
l'ente, pur avendo rispettato l'obiettivo, ha tardato di un
solo giorno l'invio della certificazione) ma anche rispetto
ai premi per i virtuosi, oggi non previsti perché lo Stato
si incamera tutti i proventi. Ricordiamo, infatti, che la l
243 è una legge «rinforzata» di diretta attuazione della
Costituzione che, come tale, vincola le legge ordinaria.
Ciò
ovviamente vale anche per le altre novità, che riguardano il
definitivo superamento del vecchio Patto, la riduzione da
quattro ad uno (quello di competenza fra entrate e spese
finali) dei saldi-obiettivo, come già previsto per il 2016
dalla l. 208/2015, l'inclusione del fondo pluriennale
vincolato, l'introduzione di un mercato di spazi finanziari
nazionale per consentire il ricorso all'indebitamento ma
anche l'utilizzo degli avanzi di amministrazione (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conto termico, fondi a due vie. P.a., accesso
subito. Privati in 60 giorni dall'intervento. Le istruzioni
del Gse sull'incentivazione (900 mln ) per riqualificare gli
edifici.
Arrivano le regole applicative da parte del Gse (Gestore
servizi energetici) per l'accesso ai 900 milioni di euro
(700 per privati e imprese e 200 per p.a.) del conto termico
2.0. Dal 1° agosto, le pubbliche amministrazioni possono già
accedere alla procedura di prenotazione degli incentivi
attraverso l'applicazione internet portaltermico. Le imprese
e i privati intesi come persone fisiche possono presentare
la richiesta di incentivo entro 60 giorni dalla data di
conclusione dell'intervento, che non può superare i 90
giorni dalla data di effettuazione dell'ultimo pagamento.
Queste le istruzioni dettate dal Gse e contenute nella guida
operativa per accesso agli incentivi del conto termico 2.0.
Ricordiamo che il nuovo conto termico è disciplinato dal
decreto del 16.02.2016 ed è entrato in vigore il 31
maggio.
Si tratta di un meccanismo d'incentivazione che
consente di riqualificare gli edifici per migliorarne le
prestazioni energetiche, riducendo i costi dei consumi e
recuperando in tempi brevi parte della spesa sostenuta.
Possono accedere agli incentivi le pubbliche amministrazioni
e i soggetti privati (intesi, per esempio, come persone
fisiche, condomini e soggetti titolari di reddito di impresa
o di reddito agrario).
Due le modalità di accesso agli
incentivi : l'accesso diretto ( per gli interventi
realizzati dalle p.a. e dai soggetti privati) e la
prenotazione (per gli interventi ancora da realizzare da
parte delle p.a. e delle Esco (energy service company).
Accesso da parte delle p.a.
- Dal 1° agosto, le pubbliche
amministrazioni accedono alla procedura di prenotazione
degli incentivi attraverso il portaltermico. La richiesta di
incentivo tramite prenotazione consentirà alle p.a. di
ricevere entro 60 giorni dalla sottoscrizione della
scheda-contratto un primo acconto.
A conclusione dei lavori,
entro 60 giorni, il Gse erogherà in un'unica rata a saldo la
parte residua dell'incentivo. Le pubbliche amministrazioni
possono richiedere un acconto nel caso in cui siano in
possesso di una diagnosi energetica, di un contratto di
prestazione energetica stipulato con una Esco o di un atto
amministrativo attestante l'avvenuta assegnazione dei
lavori.
Accesso da parte dei privati
- Il soggetto responsabile, a
seguito della conclusione dell'intervento, deve presentare
la richiesta di concessione degli incentivi al Gse,
attraverso il portaltermico. La richiesta deve essere
presentata, a pena di esclusione, entro 60 giorni dalla data
di conclusione dell'intervento, che non può superare i 90
giorni dalla data di effettuazione dell'ultimo pagamento.
Per l'accertamento del rispetto della suddetta tempistica
non possono essere presi in considerazione i pagamenti
relativi alle prestazioni professionali. La data di
presentazione della richiesta è quella indicata nella
ricevuta rilasciata dal portaltermico al termine della
procedura informatica di invio dell'istanza (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'Ape vale dieci anni.
L'attestato di prestazione energetica (cosiddetto Ape) ha
una validità temporale massima di dieci anni a partire dal
suo rilascio. Ma a seguito di significativi interventi di
riqualificazione energetica che modificano la classe
energetica dell'edifico o dell'unità immobiliare, l'Ape deve
essere aggiornato qualora vi fosse la necessità di
utilizzarlo in un contratto di compravendita, nella stipula
di nuovi contratti di locazione e nell'esposizione dell'Ape
negli edifici pubblici.
Queste le nuove risposte fornite dal ministero dello
sviluppo economico (contenute in
70 faq
aggiornate al 01.08.2016) in materia di redazione
dell'attestato di prestazione energetica.
I tecnici del Mise con le nuove risposte forniscono
ulteriori chiarimenti per l'applicazione delle disposizioni
previste dal decreto ministeriale 26.06.2015 sulla
metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche e
dell'utilizzo delle fonti rinnovabili negli edifici nonché
dell'applicazione di prescrizioni e requisiti minimi in
materia di prestazioni energetiche degli edifici.
All'atto dell'emissione dell'Ape, se necessario, occorre
quindi far redigere il libretto di impianto e dotarlo degli
allegati richiesti compreso un valido rapporto di controllo
di efficienza energetica. Solo nel caso che l'impianto sia
distaccato dalla rete del gas o dichiarato dismesso o
disattivato (al catasto degli impianti termici se operante)
può mancare il rapporto di controllo di efficienza
energetica in corso di validità.
Nell'Ape, tra l'altro, nei casi in cui è istituito il
catasto regionale degli impianti termici, va indicato, nella
quarta pagina, il codice del catasto regionale dell'impianto
termico che implica la regolare registrazione e dotazione
del libretto di impianto e dei relativi allegati (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO: Limiti
al regolamento elaborato dal costruttore. Non valido
l’impegno verso disposizioni ancora da scrivere.
Cassazione. La disciplina esistente (se richiamata) può
essere accettata all’acquisto.
Le clausole del regolamento condominiale
predisposte dal costruttore dell’edificio che, spingendosi
oltre i possibili contenuti previsti dall’articolo 1138,
comma 1, Codice civile, impongano limiti ai poteri e alle
facoltà spettanti ai condòmini sulle singole unità
immobiliari -e sempre che siano enunciate in modo chiaro ed
esplicito- sono vincolanti per i successivi acquirenti delle
distinte porzioni dell’edificio.
Ma solo se ricorrono due alternative condizioni:
- o il regolamento deve essere trascritto nei registri
immobiliari (ma ciò suppone che esso possa intendersi, agli
effetti dell’articolo 2645 Codice civile, un atto
dispositivo della comproprietà);
- oppure, nel titolo di acquisto deve essere fatto espresso
riferimento al regolamento, pur senza ritrascriverlo
materialmente per intero, in maniera che esso possa
ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo operato
nel contratto, trattandosi comunque di integrare il
contenuto di un negozio soggetto a forma scritta essenziale
(Cassazione, sentenze 19798/2014 e 17886/2009).
Il richiamo, quindi, ha rilievo se operato con riferimento
ad un determinato regolamento già esistente al momento del
singolo atto di acquisto. Non vale, cioè, l’obbligo assunto
dall’acquirente, nel contratto di compravendita del singolo
appartamento, di rispettare un qualsiasi regolamento di
condominio da predisporsi in futuro a cura del costruttore
(Cassazione, sentenza 5657/2015).
Analogo problema di opponibilità ai successivi acquirenti si
pone per le clausole del regolamento di condominio che
dispongano deroghe ai criteri di ripartizione delle spese
condominiali, stabilite dagli articoli 1123 e seguenti del
Codice civile. Solo la trascrizione del regolamento, o lo
specifico richiamo nei titoli di acquisito, possono
procurare efficacia reale a tali convenzioni di
distribuzione delle spese condominiali.
Se quindi si vuole verificare la validità di simili clausole
del regolamento condominiale, predisposte dal costruttore
venditore ed accettate dagli acquirenti delle singole unità,
alla luce dell’articolo 33, comma 1, del Codice del consumo,
a parte la necessità di riscontrare, in concreto, la
sussistenza degli status soggettivi di “professionista”
e “consumatore” con riguardo ai contratti di acquisto
delle unità condominiali, è bene evidenziare come, per far
valere in giudizio la nullità delle eventuali clausole
vessatorie inserite nel regolamento predisposto dal
costruttore venditore e accettato dai partecipanti, non
sussiste la legittimazione processuale dell’amministratore
di condominio, ma occorre un’azione esperibile da (o nei
confronti di) tutti i condomini (Cassazione, sentenza
12342/1995).
---------------
Adesione a parte per le clausole
«future». Il punto critico. Chi compra prima della stesura
finale deve poi sottoscrivere espressamente le regole.
Quando il numero dei
condòmini è superiore a dieci è obbligatoria la formazione
di un regolamento per disciplinare l'uso delle cose comuni e
la ripartizione delle spese. Negli edifici di nuova
costruzione è il costruttore/venditore che, in genere, cura
la formazione dello “statuto condominiale”.
Una delle questioni sul tappeto è l'efficacia di tale
regolamento quando sia stato redatto dal costruttore dopo la
vendita dei primi appartamenti. In quest’ultimo caso, con
riguardo alla natura contrattuale di alcune delle norme lì
trasfuse -e, quindi, con riferimento a quelle in grado di
incidere con vincoli nella gestione della proprietà privata-
ci si è anche chiesti se i primi acquirenti ne sarebbero
affrancati. La risposta al quesito, a quanto pare, è
positiva.
La Cassazione (sentenza 856/2000) aveva previsto che «il
regolamento di condominio edilizio predisposto
dall’originario (ed unico) proprietario dell'edificio è
vincolante per gli acquirenti delle singole unità
immobiliari (purché richiamato ed approvato nei singoli atti
di acquisto) nella sola ipotesi che il relativo acquisto si
collochi in epoca successiva alla predisposizione del
regolamento stesso, e non nel periodo antecedente tale
predisposizione» .
In altri termini, non ha alcun effetto nei confronti degli
acquirenti la clausola del contratto di compravendita con la
quale gli stessi si impegnano all’assunzione dell’obbligo di
rispettare un regolamento futuro, in via di predisposizione
da parte del costruttore.
Il regolamento può vincolare l’acquirente solo se,
successivamente alla sua redazione, quest'ultimo vi presterà
volontaria adesione: mancando, diversamente, uno schema
negoziale definitivo, suscettibile di essere compreso per
comune volontà delle parti nell'oggetto del contratto.
A confermare l’assunto anche una recente sentenza del
Tribunale di Aosta (datata 16.03.2016). In questo caso gli
atti di compravendita dei condòmini che avevano fatto causa
erano stati stipulati in data precedente alla realizzazione
del regolamento e delle tabelle millesimali da parte del
venditore, per cui gli stessi ne hanno contestato –a quanto
pare efficacemente- la validità. non avendovi, in epoca
successiva, prestato alcuna volontaria adesione.
Ne consegue che il regolamento condominiale, qualora sia
predisposto dall'originario unico proprietario e prima che
il condominio si formi, costituisce un contratto ed assume
forza vincolante soltanto se venga accettato da tutti,
nessuno escluso, dei singoli acquirenti dei piani, mediante
specifici atti di adesione al complesso delle norme
predisposte (e previa trascrizione dei medesimi nei registri
tavolari).
Nel caso in cui il regolamento sia stato, invece, approntato
in epoca successiva alle prime compravendite immobiliari,
per essere efficace e vincolante nei confronti di quei
condòmini, occorre che essi esprimano a parte il proprio
esplicito consenso, nelle forme adeguate. Certamente, non
risulterà loro opponibile la clausola originaria
sull'impegno a rispettare il regolamento e le tabelle
millesimali di formazione futura (articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2016). |
TRIBUTI:
Immobili rurali, annotazioni catastali decisive.
La ctr Brescia sulle esenzioni fiscali.
Per i fabbricati rurali conta l'annotazione catastale sia
per l'ici sia per l'Imu. Se è stata presentata in catasto
l'autocertificazione che attesta la sussistenza dei
requisiti di legge entro il 30.09.2012, al titolare
dell'immobile rurale spetta l'esenzione Ici anche per i 5
anni precedenti. Alla stessa agevolazione hanno diritto i
possessori di fabbricati strumentali censiti nella categoria
D/10, perché l'inquadramento in questa categoria certifica
la loro ruralità.
È quanto ha stabilito la commissione tributaria regionale di
Milano, sezione staccata di Brescia, con la sentenza
n. 1014/2016.
Per i giudici d'appello, l'inserimento dell'annotazione di
ruralità negli atti catastali attesta i requisiti «a
decorrere dal quinto anno antecedente a quello di
presentazione della domanda», se prodotta entro il 30.09.2012.
Secondo la commissione regionale «per i
fabbricati aventi funzioni produttive connesse alle attività
agricole è acclarato il requisito della ruralità se censiti
nella categoria D/10». Per gli immobili strumentali non
accatastati nella suddetta categoria, invece, la ruralità va
riconosciuta in presenza della «specifica annotazione
ottenibile mediante domanda all'Agenzia del territorio».
Va sottolineato che la normativa sui fabbricati rurali è
piuttosto confusa. Nel corso di questi ultimi anni ci sono
stati vari interventi normativi e giurisprudenziali che
hanno contribuito a creare dubbi e incertezze. Da ultimo
l'articolo 2, comma 5-ter, del dl 102/2013, in sede di
conversione in legge (124/2013), ha stabilito che le domande
di variazione catastale, presentate dagli interessati per
ottenere l'annotazione di ruralità degli immobili, hanno
effetto retroattivo per i 5 anni antecedenti. L'efficacia di
questa disposizione di interpretazione autentica può
arrivare fino all'anno d'imposta 2006, considerato che i
contribuenti avrebbero potuto inoltrare le prime istanze di
variazione entro il 30.09.2011.
Il decreto del
ministero dell'economia e delle finanze del 26.07.2012
ha chiarito quali adempimenti devono porre in essere i
titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione
negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche
per l'Imu delle agevolazioni. Per quest'ultimo tributo sono
escluse dai benefici le unità immobiliari utilizzate come
abitazione
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Interessi
allo 0% per ritardi nei pagamenti commerciali.
Fissato allo 0 per cento per il periodo 1° luglio-31.12.2016
il saggio degli interessi da applicare a favore del
creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle
transazioni commerciali.
Lo si legge in un comunicato del ministero dell'economia e
delle finanze pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 178 di
ieri.
«Ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n.
231/2002, come modificato dalla lettera e) del comma 1
dell'art. 1 del decreto legislativo n. 192/2012, si comunica
che per il periodo 1º luglio-31.12.2016 il tasso di
riferimento è pari allo 0%», recita il comunicato che fa
riferimento alla norma del dlgs 231/2002 relativa alla
determinazione del saggio degli interessi: gli interessi
moratori sono determinati nella misura degli interessi
legali di mora.
Nelle transazioni commerciali tra imprese è consentito alle
parti di concordare un tasso di interesse diverso, entro
determinati limiti.
Il tasso di riferimento è determinato in questo modo: per il
primo semestre dell'anno cui si riferisce il ritardo, è
quello in vigore il 1° gennaio di quell'anno; per il secondo
semestre dell'anno cui si riferisce il ritardo, è quello in
vigore il 1° luglio di quell'anno.
Il ministero
dell'economia e delle finanze, come ha fatto ieri, dà
notizia del tasso di riferimento, curandone la pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana nel
quinto giorno lavorativo di ciascun semestre solare
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2016). |
APPALTI: Serve
un controllo in due tempi per il subappalto. L’intreccio. Le
disposizioni da rispettare.
Per applicare
correttamente il meccanismo dell’inversione contabile Iva, è
necessario fare attenzione agli intrecci tra due
disposizioni: quella contenuta nella lettera a) e quella
contenuta nella lettera a-ter) dell’articolo 17, comma 6,
del Dpr 633/1972.
Il reverse charge si applica, in primo luogo, a tutte
le prestazioni di servizi di pulizia, demolizione,
installazione di impianti e completamento relative a edifici
-elencati nella lettera a-ter)-, a prescindere dal fatto che
siano rese nel settore edile e a prescindere dal tipo di
contraenti (subappaltatore, appaltatore principale o
contraente generale). Inoltre, in base alla lettera a),
l’inversione contabile si applica alle prestazioni rese nel
settore edile, ma solo per alcuni tipi di contraenti: la
prestazione deve essere resa da un subappaltatore nei
confronti dell’impresa appaltatrice che si occupa della
costruzione o della ristrutturazione di un immobile o di un
altro subappaltatore.
Pertanto, mentre per applicare la lettera a-ter) occorre
considerare solo il tipo di prestazione effettuata, per
applicare la lettera a) bisogna badare, intanto, che il
prestatore sia un subappaltatore che svolge (come ha
precisato la circolare 37/E del 2006 dell’agenzia delle
Entrate), «anche se in via non esclusiva o prevalente,
attività identificate dalla sezione F della classificazione
delle attività economiche Ateco».
La sezione F, rubricata semplicemente «costruzioni»,
comprende i lavori generali di costruzione, i lavori
speciali di costruzione per edifici e opere di ingegneria
civile, i lavori di completamento di un fabbricato nonché i
lavori di installazione in esso dei servizi. Sono inoltre
inclusi, come ha chiarito sempre la circolare 37/E/2006, i
nuovi lavori, le riparazioni, i rinnovi e restauri, le
aggiunte e le alterazioni, la costruzione di edifici e
strutture prefabbricate in cantiere e anche le costruzioni
temporanee.
Pertanto, se ci si trova di fronte a un contratto complesso
contenente anche prestazioni che in base alla lettera a-ter)
andrebbero assoggettate a reverse charge ma che
-proprio per effetto della complessità contrattuale-
ricadono nelle ordinarie regole Iva, va fatta una seconda
riflessione. Cioè si deve verificare che non si tratti di
rapporti di subappalto fra subappaltatori o fra
subappaltatore e appaltatore: se la risposta è positiva, il
meccanismo dell’inversione contabile va applicato se le
parti contraenti svolgono una delle attività indicate nella
sezione F della classificazione Ateco.
Inoltre, per l’agenzia delle Entrate, il reverse charge
si applica ai rapporti tra subappaltatori o tra
subappaltatori e appaltatore nel settore dell’edilizia non
solo se il contratto è riconducibile alla tipologia
dell’appalto, ma anche se si tratta di un contratto di
prestazione d’opera (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Telecamere,
nullaosta necessario. Vietato installare impianti (anche
spenti) senza accordo sindacale o autorizzazione.
Jobs act. L’ispezione fa scattare l’ordine di rimozione o la
messa in regola oltre al pagamento di una sanzione
amministrativa.
L’installazione
delle telecamere in azienda senza accordo sindacale o
autorizzazione amministrativa fa scattare sempre la
prescrizione degli ispettori e poi la sanzione, persino a
impianti non funzionanti. Alla prassi già consolidata in
materia di impianti audiovisivi nei luoghi di lavoro dopo il
Jobs act si è aggiunto un importante tassello con la
nota 01.06.2016 n. 11241 di prot. del Ministero
del Lavoro.
La nota guarda alle ispezioni e alle sanzioni relative alle
telecamere installate senza accordo sindacale o senza
autorizzazione, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della
legge 300/1970. La questione affrontata verte sul
provvedimento di prescrizione che gli accertatori adottano
in sede ispettiva, nel momento in cui rilevino
l’installazione e l’impiego illecito di impianti audiovisivi
per finalità di controllo a distanza dei lavoratori in
orario di lavoro.
Le condizioni
La norma -modificata nell’ambito del Jobs act dall’articolo
23, comma 1, del Dlgs 151/2015- stabilisce due principi da
rispettare (rimasti intatti nella nuova formulazione):
- l’installazione di questi strumenti e –in genere– di
quelli dai quali derivi anche la possibilità di controllo a
distanza dell’attività dei lavoratori può avvenire
esclusivamente per esigenze organizzative e produttive
ovvero per la sicurezza del lavoro e per la tutela del
patrimonio aziendale;
- l’installazione non può avere luogo se non è preceduta da
apposito accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza
sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali
aziendali. Se in azienda non sono presenti rappresentanze
sindacali o in mancanza di accordo, gli impianti e gli
strumenti in oggetto possono essere installati solo dopo
aver richiesto autorizzazione alla Direzione territoriale
del Lavoro o, in alternativa -nel caso di imprese con unità
produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Dtl-
del ministero del Lavoro (nella piena operatività del Dlgs
149/2015 questi organismi saranno rispettivamente sostituiti
dalle sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale e dalla
sede centrale).
Peraltro, lo schema di decreto correttivo del Jobs act
sancisce che queste autorizzazioni hanno natura definitiva.
Il provvedimento ha ricevuto il via libera delle commissione
parlamentari e deve ora tornare in Consiglio dei ministri
per l’approvazione definitiva.
L’aspetto interessante su cui si sofferma la nota 11241 è
che si pone in violazione dei criteri descritti anche la
presenza di telecamere che –seppure installate– non siano
ancora state messe in funzione; così come non si mette al
riparo dalla violazione dell’articolo 4, della legge 300, il
datore di lavoro che ha preventivamente informato i
lavoratori. Allo stesso modo, sulla scorta della
giurisprudenza, non influisce il fatto che il controllo sia
discontinuo perché esercitato in locali dove i lavoratori
possono trovarsi solo saltuariamente.
Proprio seguendo il recente filone giurisprudenziale, il
Lavoro precisa come sia vietata anche l’installazione di
telecamere “finte” montate a scopo dissuasivo, poiché
questa condotta costituisce già di per sé un illecito,
indipendentemente dall’effettivo utilizzo dell’ impianto.
Sulla stessa linea interpretativa è sempre intervenuto il
Garante della privacy.
Prescrizione e sanzioni
La violazione è sanzionata con ammenda da 154 a 1.549 euro o
arresto da 15 giorni ad un anno, salvo che il fatto non
costituisca reato più grave.
Quindi, se l’ispettore rileva in loco l’installazione di
telecamere in assenza di uno specifico accordo con le
organizzazioni sindacali o dell’autorizzazione rilasciata
della Dtl, deve impartire una prescrizione (articolo 20, del
Dlgs 758/1994) al fine di porre rimedio all’irregolarità
attraverso la rimozione materiale degli impianti
audiovisivi, entro un termine assegnato: se, in questo lasso
di tempo, venisse siglato l’accordo sindacale o ottenuta
l’autorizzazione della Dlt, l’ispettore può ammettere il
datore al pagamento della sanzione amministrativa nella
misura pari ad un quarto del massimo dell’ammenda (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016). |
VARI: Le
direzioni locali dettano l’iter per il Gps a bordo.
Autovetture. Posizioni contrastanti tra Milano e Latina.
Dopo la riforma dell’articolo 4
dello Statuto dei lavoratori, è possibile installare gli
impianti di geolocalizzazione sulle vetture dei dipendenti
senza chiedere l’assenso preventivo del sindacato o
dell’autorità amministrativa, oppure questo strumento resta
soggetto alla procedura di autorizzazione?
A questa domanda le
strutture territoriali del ministero del Lavoro, con due
note ufficiali quasi contemporanee, hanno dato risposte in
parte differenti.
Con la nota 10.05.2016 n. 5689 di prot., la Direzione
interregionale di Milano ha dato una risposta positiva. La
nota -che affronta un caso specifico ma nel contempo offre
indirizzi a tutte le strutture del territorio- ricorda che,
ai sensi del nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori,
non è più necessario assoggettare ad autorizzazione
(sindacale o amministrativa) preventiva l’utilizzo di
strumenti di lavoro (e degli strumenti di registrazione
delle presenze e degli accessi in azienda).
Secondo la Direzione interregionale, nella nozione di
strumento di lavoro deve rientrare ogni strumento idoneo ad
assolvere complessivamente la funzione di mezzo necessario a
rendere l’attività lavorativa.
Applicando questi concetti ai rilevatori Gps, la nota
evidenzia che l’installazione sulle vetture aziendali non
richiede autorizzazione preventiva, qualora siano utilizzati
per soddisfare esigenze assicurative, produttive o di
sicurezza. Ciò in quanto gli impianti Gps e le vetture su
cui sono installati servono entrambi, inscindibilmente, a
rendere la prestazione di lavoro.
La nota ricorda, molto opportunamente, che questa
semplificazione procedurale non si traduce in un
ammorbidimento delle tutele del lavoratore. Il dipendente
mantiene inalterato il proprio diritto a non essere
controllato in maniera indebita oppure eccessiva, e in
aggiunta vede rafforzato il quadro delle garanzie poste a
sua tutela, in quanto l’utilizzo delle informazioni
acquisite mediante gli strumenti di controllo a distanza è
subordinata alla fornitura dell’informativa preventiva
prevista dall’articolo 13 del Codice privacy, nella quale
devono essere indicate le modalità con cui saranno svolti i
controlli.
Ma queste considerazioni non trovano posto in un altro
provvedimento quasi contemporaneo (Dtl Latina, atto
11.05.2016 n. 12519 di prot.), che riguarda la richiesta
di un’impresa di vigilanza, intenzionata ad installare sui
veicoli aziendali un impianto di localizzazione satellitare
proprio per lo svolgimento della vigilanza. Applicando alla
lettera il nuovo articolo 4 dello Statuto (come ricostruito
dalla Direzione interregionale del Lavoro di Milano), questo
impianto poteva essere considerato uno “strumento di
lavoro” e quindi poteva essere esonerato dall’
autorizzazione preventiva.
La Direzione di Latina rinuncia a far valere questa
semplificazione procedurale e, come se nulla fosse cambiato
anche dopo il Jobs Act, assoggetta (con esito positivo)
l’installazione alla procedura di autorizzazione. Questa
scelta, divergente da quella milanese, assume portata molto
più ristretta, in quanto non è accompagnata da una
ricostruzione teorica di carattere generale (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Cinque
soglie per gli acquisti. Dal 9 agosto al via i nuovi
obblighi di centralizzazione delle procedure.
Spending. Dalla manutenzione alla pulizia e alla vigilanza,
blocco automatico per gli iter fuori regola.
Entro pochi giorni scatta per gli enti
locali l’obbligo di acquisire una serie di tipologie di beni
e servizi, per valori superiori a determinate soglie,
facendo ricorso solo a Consip e agli altri soggetti
aggregatori.
Il Dpcm del 24.12.2015, che ha dato attuazione all’articolo
9, comma 3 della legge 89/2014 individuando le categorie di
beni e servizi per le quali è necessario rivolgersi alle
macro-centrali di committenza nazionale e regionali, diventa
efficace per le amministrazioni locali (ma anche per altri
soggetti, come le Camere di commercio) a partire dal 9
agosto: da quella data per tutte le acquisizioni rientranti
nella classificazione e superiori per valore alle soglie
rispettivamente indicate, le amministrazioni devono
rivolgersi ai soggetti aggregatori.
L’ambito soggettivo di applicazione del decreto è piuttosto
ampio, perché la disposizione legislativa di riferimento lo
estende a tutti gli enti locali nella classificazione del
Tuel, ma anche alle loro associazioni e ai consorzi, tanto
da risultare comprensivo anche delle aziende speciali che
abbiano assunto forma consortile.
Il Dpcm individua cinque categorie con differenti soglie, al
di sopra delle quali scatta l’obbligo di approvvigionamento
mediante i soggetti aggregatori.
Per la guardiania e la vigilanza armata la soglia è
correlata a quella per l’affidamento diretto, quindi
stabilita in 40mila euro, mentre per i servizi di facility
management, di manutenzione (immobili e impianti) e di
pulizia (immobili) il limite oltre il quale scatta il
ricorso a Consip e agli altri aggregatori è la soglia
comunitaria standard per beni e servizi, di 209mila euro.
Gli enti devono effettuare una verifica accurata dei loro
fabbisogni per questi servizi (collegandola anche alla
programmazione degli acquisti prevista dall’articolo 21 del
nuovo Codice dei contratti pubblici), dovendo considerare
che le soglie-limite sono da intendersi come importo massimo
annuo, a base d’asta, negoziabile autonomamente per ciascuna
categoria merceologica da parte delle singole
amministrazioni.
Il valore, pertanto, deve essere calcolato su base annuale e
con riferimento all’intera amministrazione, sommando i
fabbisogni dei vari centri di costo: ad esempio, in un
Comune di medie dimensioni, articolato in quattro settori,
il valore dei servizi di pulizia deve essere calcolato
sommando le esigenze delle singole unità organizzative.
Il frazionamento artificioso comporta la violazione
dell’obbligo, e rispetto a questo profilo è necessario
considerare che proprio rispetto ad alcune di queste
tipologie di servizi (pulizie e manutenzione, in
particolare) le amministrazioni, in caso di fabbisogno
superiore alla soglia-limite, devono ricondurre tutto il
valore all’approvvigionamento presso il soggetto
aggregatore, non avendo più margine per scorporarne una
parte da ricondurre alle procedure riservate alle
cooperative sociali di tipo B.
Qualora l’ente decidesse di forzare e di avviare una gara
per una delle tipologie di servizi compresi nel Dpcm per un
valore superiore alla soglia-limite corrispondente, non
potrebbe portare avanti la procedura, in quanto l’Anac non
rilascia il codice identificativo gara alle stazioni
appaltanti che non ricorrono ai soggetti aggregatori in
presenza dell’obbligo.
L’elenco delle iniziative poste in essere dai soggetti
aggregatori è reso disponibile sul portale
acquistinretepa.it e consente agli enti di verificare se tra
queste vi sono convenzioni o altri strumenti, ma anche di
rilevare se le tipologie di servizi sono rese disponibili in
forma aggregata o in forma singola.
Per poter meglio identificare i parametri configurativi del
facility management e della manutenzione, gli enti possono
confrontare i loro fabbisogni con le prestazioni e le
caratteristiche essenziali di queste attività definite dal
decreto del ministero dell’Economia del 21 giugno (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI:
Nelle partecipate il Cda diventa un’«eccezione».
Riforma Madia/1. Limiti agli amministratori.
Lo schema di Testo
unico delle partecipate atteso all’adozione in Consiglio dei
ministri (Atto
del Governo n. 297 - Schema di decreto
legislativo recante testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica)
conferma, salvo
qualche lieve novità, la disciplina speciale disegnata,
dalla precedente versione, con riferimento agli «organi
amministrativi e di controllo delle società a controllo
pubblico».
Le norme in questione valgono solo per le società a
controllo pubblico (articolo 2, lettera m) del Testo unico)
escluse le quotate e le società solo partecipate da una o
più amministrazioni.
Per queste ultime il nuovo articolo 11, comma 16, si limita
a prevedere che, se vi è un’amministrazione titolare di
partecipazione superiore al 10%, questa è tenuta a “proporre”
agli organi societari l’introduzione delle misure dettate
per le controllate ai commi 6 e 10, relative ai limiti al
compenso degli amministratori, divieto per i dirigenti di
bonus di fine rapporto o patti di non concorrenza
diversi da quelli previsti per legge o dai contratti
collettivi.
I componenti degli organi amministrativi delle società a
controllo pubblico, come prevede l’articolo 11, comma 1,
devono possedere i requisiti di onorabilità, professionalità
e autonomia stabiliti con decreto del presidente del
Consiglio dei ministri, su proposta del ministro
dell’Economia e delle finanze. Questi requisiti sono estesi,
nella nuova versione, anche agli organi di controllo.
Il comma 1 conferma poi le incompatibilità previste
dall’art. 12 del Dlgs 39/2013 (ribadite anche dal generale
richiamo del comma 15) e quelle previste dall’articolo 5,
comma 9, del Dl 95/2012.
È rimasto anche il divieto di nominare, quali
amministratori, i dipendenti delle amministrazioni
controllanti o vigilanti (comma 8), al posto
dell’incompatibilità generale che secondo la prima versione
del testo avrebbe chiuso ai dipendenti pubblici le porte dei
Cda a prescindere dal rapporto fra l’ufficio di provenienza
e la società.
In caso di controllo indiretto l’incompatibilità riguarda
gli amministratori della società controllante, a meno che
siano loro attribuite deleghe gestionali a carattere
continuativo oppure la nomina risponda all’esigenza di
rendere disponibili alla società controllata particolari e
comprovate competenze tecniche degli amministratori della
controllante, o ancora di favorire l’attività di direzione e
coordinamento (comma 11).
La regola è l’amministratore unico (comma 2), anche nelle
Srl (per le quali il comma 5 -in deroga all’articolo 2475,
comma 3, del Codice civile- non consente di affidare
l’amministrazione a due o più soci). Solo in presenza di
ragioni di adeguatezza organizzativa (in base a criteri
definiti con decreto del presidente del Consiglio)
l’assemblea può nominare un Cda composto da tre a cinque
membri, oppure disporre l’adozione del sistema monistico o
dualistico. In tal caso il numero complessivo dei componenti
degli organi di amministrazione e controllo non può essere
superiore a cinque (comma 3).
Per l’organo amministrativo collegiale, la scelta degli
amministratori va effettuata in base a criteri che
assicurino l’equilibrio tra i generi; e comunque (altra
novità) questo principio va assicurato almeno nella misura
di un terzo sul numero complessivo delle nomine effettuate
nell’arco dell’anno (comma 4).
Per statuto, poi, deve essere esclusa la carica di
vicepresidente, se non quale modalità di individuazione del
sostituto del presidente, senza compensi aggiuntivi (comma
9, lettere a e b). Sempre lo statuto deve stabilire che il
cda possa attribuire deleghe di gestione a non più di un
amministratore (ma è salva l’attribuzione di deleghe al
presidente se previamente autorizzata dall’assemblea); e
vietare l’istituzione di organi diversi da quelli previsti
dalle norme generali in tema di società (comma 9, lettera
d). La costituzione di comitati con funzioni consultive o di
proposta resta invece consentita nei limiti dei casi
previsti dalla legge (comma 13).
Infine, il comma 15 prevede espressamente, per gli organi di
amministrazione e controllo delle società in house,
l’applicazione del regime di prorogatio previsto dal
Dl 293/1994 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuovi tetti a compensi e indennità dei dirigenti.
Riforma Madia/2.
Accanto alle norme
sugli amministratori delle società controllate, il nuovo
Testo unico (Atto
del Governo n. 297 - Schema di decreto
legislativo recante testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica)
estende, anche se timidamente, alcune disposizioni anche
alle società miste, perché il socio pubblico che abbia più
del 10% di quota deve proporre agli organi societari
l’introduzione di misure analoghe a quelle indicate ai commi
6 (compensi agli amministratori) e 10 (compensi ai
dipendenti).
Si cerca così di evitare il caso, non solo teorico, che una
società pubblica al 100%, o comunque con partecipazione
superiore al 50%, possa non adeguarsi alla normativa, perché
tecnicamente definibile come non controllata. L’articolo 11
non riguarda comunque le società quotate né quelle che entro
il 30.06.2016 abbiano deciso di emettere altri strumenti
finanziari, quotati in mercati regolamentati (articolo 26,
comma 5).
L’articolo 11 esprime la preferenza del legislatore per
l’amministratore unico, ma fa rinvio a un successivo
decreto, da emanare entro sei mesi, per stabilire quando è
possibile disporre che la società sia amministrata da un
consiglio di amministrazione composto da tre o cinque
membri. La formulazione è tale che si ritiene non sia
necessario, né sarebbe possibile vista la tempistica,
adeguare lo statuto ai sensi dell’articolo 26, comma 1, non
trattandosi di previsione di legge.
È curioso osservare che dopo l’obbligo di avere dipendenti
delle amministrazioni pubbliche controllanti nel cda
previsto nel 2012 (articolo 4, comma 4, del Dl 95/2012) e la
facoltà di nominarli nel 2014 (modifica introdotta
dall’articolo 16 del Dl 90/2014), si arriva oggi, grazie
all’articolo 11, comma 8, al divieto che gli amministratori
siano dipendenti delle amministrazioni pubbliche
controllanti o vigilanti.
La norma interviene anche sui compensi, e questa volta non
solo su quelli degli amministratori ma anche sui quelli dei
dirigenti, per i quali sono anche esclusi indennità o
trattamenti di fine mandato diversi o ulteriori da quelli
previsti dalla contrattazione collettiva (articolo 11, comma
10) e la possibilità di stipulare patti di non concorrenza.
Nella prima stesura questo divieto era esteso anche agli
amministratori.
L’articolo 11, comma 6 richiede di emanare un decreto che
definisca gli «indicatori dimensionali quantitativi e
qualitativi» utili a individuare fino a cinque fasce di
società, stabilendo per ciascuna di queste il limite dei
compensi massimi omnicomprensivi per gli amministratori, per
i membri degli organi di controllo, per i dirigenti ed i
dipendenti, ovviamente nel limite massimo di 240mila euro
annui.
Il decreto stabilirà anche i criteri per la parte variabile
della retribuzione, che sarà commisurata al risultato
economico, ma attribuibile anche in caso di perdite, se non
dovute alla responsabilità dell’amministratore; quasi
sempre, quindi, visto che se si accertano responsabilità
degli amministratori ci sarà da attivarsi per ben altro. Il
decreto dovrà essere emanato entro 30 giorni dalla data di
entrata in vigore della riforma a meno che, nel frattempo,
non sia stato adottato il decreto previsto dal comma 672
della legge di Stabilità 2016, i cui termini sono già
scaduti e che non prevedeva limiti per il collegio
sindacale.
È da notare che «sono in ogni caso fatte salve le
disposizioni legislative e regolamentari che prevedono
limiti ai compensi inferiori a quelli previsti dal decreto
di cui al presente comma». Queste limitazioni, però,
vengono tutte abrogate dall’articolo 25, e il legislatore ne
è pienamente consapevole visto che l’articolo 11, comma 7,
precisa che fino all’emanazione del decreto di cui si parla
restano in vigore le regole dell’articolo 4, comma 4,
secondo periodo del Dl 95/2012 e del decreto 166/2013
dell’Economia (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Via
allo sportello unico online per le pratiche amministrative.
In vigore le nuove regole sulla Scia: le p.a.
devono attivare il servizio sul proprio sito.
Sportello unico per i procedimenti amministrativi. È il
modello organizzativo prescelto dal decreto legislativo n.
126 del 30.06.2016 (intitolato «attuazione della delega
in materia di segnalazione certificata di inizio attività -
«Scia», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 162 del 13.07.2016, in vigore dal 28.07.2016).
Questo il primo filone su cui si muove il decreto n. 126:
niente nomadismo procedimentale per cittadini e imprese alle
prese con una pratica amministrativa. Sarà la volta buona?
In effetti non è una novità assoluta: lo sportello unico è
conosciuto in edilizia e nel settore delle attività
produttive. Verrebbe da chiedersi che cosa cambia.
Cambia che il sistema si generalizza e vale per tutti i casi
in cui si può iniziare un'attività semplicemente mandando
una segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
Il decreto segue anche un altro filone: stop alle ricerche
affannose e a singhiozzo su documenti, allegati,
dichiarazioni da presentare. Mai più ansia da sorprese
burocratiche durante l'iter di una pratica: niente è più
disarmante del funzionario che rileva che manca qualche
documento e la pratica stessa non può essere evasa.
D'ora in avanti, tutto sul sito internet dell'ente pubblico:
istruzioni, fac-simile, elenco di ciò che serve. E su quanto
inserito sul sito il cittadino e l'impresa possono fare
affidamento.
Ma vediamo di analizzare il doppio binario dell'ennesimo
ritocco alla legge 241/1990.
Sportello unico Scia. Il decreto prevede un solo sportello,
di regola telematico, per la presentazione della Scia. Si
tratta di «one stop shop» anche per procedimenti connessi a
più p.a. e per Scia a servizio di altre Scia.
Nel dettaglio, il provvedimento parla di «concentrazione dei
procedimenti» (nuovo articolo 19-bis della legge 241/1990).
Vediamo cosa significa.
Significa che il cittadino deve trovare sul sito
istituzionale di ciascuna amministrazione lo sportello
unico, di regola telematico, al quale presentare la Scia,
anche in caso di procedimenti connessi di competenza di
altre amministrazioni o di diverse articolazioni interne
dell'amministrazione ricevente. Per favorire l'accesso del
cittadino possono essere istituite più sedi di tale
sportello.
Prima ipotesi: per lo svolgimento di un'attività soggetta a
Scia sono necessarie altre Scia, comunicazioni,
attestazioni, asseverazioni e notifiche; l'interessato potrà
presentare un'unica Scia allo sportello unico.
L'amministrazione che riceve la Scia la deve trasmettere
immediatamente alle altre amministrazioni interessate al
fine di consentire i controlli di loro competenza, il
controllo sulla sussistenza dei requisiti e dei presupposti
per lo svolgimento dell'attività e le indicazione di
eventuali determinazioni da assumere.
Seconda ipotesi: l'attività oggetto di Scia è condizionata
all'acquisizione di atti di assenso comunque denominati o
pareri di altri uffici e amministrazioni, o all'esecuzione
di verifiche preventive; l'interessato presenterà allo
sportello unico la sua istanza e la p.a. deve convocare una
conferenza dei servizi.
Con la norma in questione, il legislatore promette a
cittadini e imprese una cosa semplice: basta collegarsi al
sito per presentare la Scia e da lì in avanti è la p.a. che
deve adoperarsi per mandare avanti la pratica.
Scia, sospensioni con il contagocce. Un'altra novità
riguarda quelle situazioni in cui si è iniziata un'attività
previa presentazione di una Scia ma la pratica non è
regolare, anche se è regolarizzabile (magari un vizio
formale).
La norma attuale dice che se la Scia è irregolare, ma sia
possibile conformare l'attività intrapresa e i suoi effetti
alla normativa vigente, l'amministrazione competente, con
atto motivato, deve invitare il privato a provvedere,
disponendo sempre la sospensione dell'attività intrapresa e
prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un
termine non inferiore a 30 giorni per l'adozione di queste
ultime. In difetto di adozione delle misure stesse, decorso
il suddetto termine, l'attività si intende vietata.
Il decreto 126/2016 ci dice, invece, che se durante i
controlli sulla Scia emergono vizi regolarizzabili, non si
può sospendere l'attività, ma si apre un subprocedimento
finalizzato alla regolarizzazione.
La differenza è sostanziale: in un caso si smette di
lavorare per poi riaprire una volta messe le cose a posto;
con le norme nuove, invece, si regolarizza mentre si
prosegue a lavorare, senza intoppi nei rapporti con la
clientela.
La sospensione rimane nei casi più gravi: scatta, invece, in
presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la
tutela dell'interesse pubblico in materia di ambiente,
paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o
difesa nazionale. L'atto motivato interrompe il termine di
60 giorni (previsto per i controlli dell'ente competente),
che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato
comunica l'adozione delle misure.
---------------
Moduli standard per gli utenti.
Modelli e istruzioni per cittadini e imprese
dovranno essere pubblicati su internet.
La pubblica amministrazione deve fornire all'utenza
(cittadini o imprese) moduli standard chiari e completi
sulle circostanze da dichiarare e su eventuali documenti da
allegare alle pratiche.
Nel dettaglio i moduli unificati e standardizzati devono
definire esaustivamente, per tipologia di procedimento, i
contenuti tipici e la relativa organizzazione dei dati delle
istanze, delle segnalazioni e delle comunicazioni e della
necessaria documentazione.
Per l'edilizia e le attività produttive ci saranno modelli
standard a livello italiano.
I moduli con relative istruzioni devono essere pubblicati
sul sito internet dell'ente pubblico.
L'obbligo di trasparenza si spinge nel decreto n. 126/216 a
prevedere che nei casi in cui la documentazione debba essere
individuata dall'amministrazione procedente oppure fino
all'adozione dei moduli standard, le pubbliche
amministrazioni devono pubblicare sul proprio sito
istituzionale l'elenco degli stati, qualità personali e
fatti oggetto di dichiarazione sostitutiva, di
certificazione o di atto di notorietà, e delle attestazioni
e asseverazioni dei tecnici abilitati o delle dichiarazioni
di conformità dell'agenzia delle imprese, necessari a
corredo della segnalazione, indicando le norme che ne
prevedono la produzione.
Il significato è questo: o c'è il modulo standard o c'è
l'elenco dei contenuti da inserire nell'istanza dell'utenza.
Se i singoli enti non provvederanno ai modelli standard, si
attiva il potere sostitutivo, in salita, di regioni e stato.
Non disturbare il cittadino.
L'amministrazione deve stabilire prima che cosa serve,
pubblicando sul sito i modelli e da subito tutte le
dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni e simili d
allegare alla Scia.
Solo in via eccezionale la p.a. può chiedere documenti al
cittadino. Anzi c'è un solo caso residuale, e cioè la
mancata corrispondenza del contenuto dell'istanza,
segnalazione o comunicazione e dei relativi allegati
rispetto ai fatti che l'ente richiede in generale a corredo
delle istanze/segnalazioni.
Per il resto è vietata ogni richiesta di informazioni o
documenti ulteriori rispetto a quelli che sono indicati
preventivamente come necessari o di documenti in possesso di
una pubblica amministrazione.
In sostanza la p.a. deve essere analitica e precisa nella
elaborazione dei moduli standard. Al cittadino/impresa non
si possono cambiare le carte in tavola, dicendo che serve
qualcosa che non era indicato prima sul sito. Il modulo
standard è una promessa al cittadino/impresa.
Domicilio digitale. Tutti i cittadini hanno la possibilità
di indicare un indirizzo e-mail per ricevere tutte le
comunicazioni. Detto meglio, i moduli standard devono
prevedere, tra l'altro, la possibilità del privato di
indicare l'eventuale domicilio digitale per le comunicazioni
con l'amministrazione.
Illeciti disciplinari. Se non si fa la pubblicazione delle
dichiarazioni/attestazioni che servono per la singola
pratica, ci va di mezzo lo stipendio del funzionario
pubblico: la sanzione disciplinare è della sospensione dal
servizio con privazione della retribuzione da tre giorni a
sei mesi. Lo stesso se si chiedono documenti diversi da
quelli pubblicati.
Ricevuta di presentazione. Il decreto obbliga la p.a. a
rilasciare una ricevuta della segnalazione o istanza
presentata. Nella ricevuta si indica quando scatta il
silenzio-assenso o il termine di conclusione del
procedimento.
Per i termini non si può speculare sulla differenza tra
protocollazione dell'istanza e giorno (precedente) di
effettiva presentazione: le due date devono essere
identiche.
La ricevuta vale anche come comunicazione di avvio del
procedimento, purché contenga tutte le indicazioni di legge.
Il decreto precisa che istanze, segnalazioni o comunicazioni
producono effetti anche in caso di mancato rilascio della
ricevuta, ferma restando la responsabilità del soggetto
competente (per la mancata consegna).
Inoltre si chiarisce che nel caso di istanza, segnalazione o
comunicazione presentate ad un ufficio diverso da quello
competente, i termini per i controlli sulla Scia o di
maturazione del silenzio assenso decorrono dal ricevimento
dell'istanza, segnalazione o della comunicazione da parte
dell'ufficio competente.
Silenzio-assenso. Il decreto evidenzia che i termini del
silenzio-assenso decorrono dalla data di ricevimento della
domanda del privato.
Responsabilità del funzionario pubblico. Per evitare
equivoci il decreto n. 126/2016 preferisce dire
espressamente che è responsabile il funzionario pubblico che
ha lasciato correre una Scia o una istanza non conforme alla
normativa.
Non è che siccome le cose sono cristallizzate, il dipendente
pubblico inerte e colpevole non ne risponda.
Enti locali e regioni. Devono adeguare i propri regolamenti
alla nuova Scia entro il 01.01.2017.
----------------
Conferenza dei servizi, riunioni solo se
strettamente necessarie.
Conferenza dei servizi new style. Opere pubbliche e nulla
osta ai progetti di imprese e privati ai nastri di partenza
in cinque mesi.
È quanto prevede il decreto legislativo n. 127/2016
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13.07.2016)
recante norme per il riordino della disciplina in materia di
conferenza dei servizi, in attuazione dell'articolo 2 della
legge 07.08.2015, n. 124.
La conferenza dei servizi è una modalità per acquisire i
pareri o nulla osta di più enti coinvolti in un procedimento
amministrativo. Le pubbliche amministrazioni si riuniscono e
contestualmente dicono no o sì e a quali condizioni si può
realizzare un'opera pubblica o si deve rispondere a una
istanza di un privato o di un'impresa.
È chiaro che prima si sblocca un'opera e prima partono i
lavori così come è chiaro che prima arriva l'autorizzazione
e prima può essere iniziata un'opera privata: le imprese
hanno sempre da guadagnarci se la p.a. ottimizza la gestione
del tempo.
Anziché pronunciarsi uno alla volta, prima l'uno e poi
l'altro, tutti dunque si riuniscono e si prende una
decisione unica. Ci vogliono, però, regole su come si
convoca la conferenza, chi può intervenire, come si decide,
che succede se un ente rimane assente ecc.
Lo scopo della conferenza è quello di accorciare i tempi e a
questo risultato tende anche il dlgs n. 127/2016, che
apporta l'ennesimo ritocco alla legge 241/1990, nella parte
dedicata appunto alla conferenza dei servizi. Vediamo in
sintesi le novità.
Si abbattono i tempi lunghi attivando la conferenza
semplificata, che non prevede riunioni fisiche ma solo
l'invio di documenti per via telematica; la conferenza
simultanea con riunione (anche telematica) si svolge solo
quando è strettamente necessaria; l'assenso delle
amministrazioni che non si sono espresse si considera
acquisito; ciascun livello di governo parlerà con una sola
voce (la regola del rappresentante unico vale per ciascun
ente territoriale); il termine della conferenza, oggi di
fatto indefinito, viene stabilito perentoriamente in al
massimo cinque mesi.
Inoltre è stata prevista in conferenza la facoltà di
intervento dei privati destinatari della comunicazione di
avvio del procedimento.
È stata, poi, prevista la possibilità di attivare
direttamente la conferenza simultanea in modalità sincrona
su richiesta motivata di altre amministrazioni o del privato
interessato entro il termine previsto per richiedere
integrazioni istruttorie: in tal caso la riunione ha luogo
nei successivi 45 giorni.
Nei casi di conferenza simultanea sincrona che coinvolgono
amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della
salute dei cittadini il termine per la conclusione della
conferenza è elevato a 90 giorni
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Riscaldamento,
30% à la carte. L'assemblea condominiale decide come
ripartire le spese. Al via i correttivi del dlgs 141/2016 su
termoregolazione e contabilizzazione del calore.
Termoregolazione e contabilizzazione del calore: al via i
correttivi.
Il recentissimo dlgs n. 141/2016, entrato in
vigore lo scorso 26 luglio, ha mantenuto ferma la scadenza
del 31.12.2016 per l'obbligo di intervento sugli
impianti di riscaldamento condominiali, a pena di pesanti
sanzioni pecuniarie, ma ha rivisto alcune disposizioni del dlgs n. 102/2014, che a sua volta aveva recepito la
direttiva comunitaria n. 2012/27/Ue, proprio allo scopo di
superare i rilievi effettuati dalla Commissione europea
sulla normativa italiana.
Vediamo allora di sintetizzare di seguito le principali
novità del nuovo intervento legislativo in materia di
efficienza energetica, che è andato a incidere
principalmente sul criterio di riparto delle spese.
Termoregolazione e contabilizzazione del calore. Si calcola
che nelle maggiori città italiane il 17% delle famiglie
risieda in edifici costruiti prima del 1950, mentre il 60%
di esse viva in immobili costruiti tra il 1950 e il 1989.
Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta quindi di
edifici che presentano un costo energetico eccessivo e per
molti versi ingiustificato.
Di qui i numerosi interventi
normativi introdotti dal legislatore a partire dagli anni
'90 e, da ultimo, imposti a livello comunitario. Non ci sono
dati attendibili su quanto sia ampia la platea dei soggetti
interessati agli adempimenti in materia di contabilizzazione
del calore, ma si tratta sicuramente di milioni di immobili
che a oggi devono ancora essere messi in regola.
La normativa in questione, è bene ricordarlo, prevede che in
ogni condominio si proceda a verificare se sussista o meno
l'obbligo di introdurre sistemi di termoregolazione e
contabilizzazione del calore dell'impianto centralizzato.
Gli stessi, come ribadito dal decreto correttivo, non devono
ritenersi necessari in senso assoluto, ma soltanto a
condizione che i relativi interventi siano tecnicamente
possibili e determinino effettivamente un risparmio
energetico per il condominio. Eventuali casi di
impossibilità tecnica o di inefficienza in termini di costi
e sproporzione rispetto ai risparmi energetici potenziali
devono però essere individuati in un'apposita relazione
tecnica redatta dal progettista o da un tecnico abilitato.
Negli impianti costruiti fino al 1980, c.d. a distribuzione
verticale, le singole unità immobiliari si servono dei
montanti che raggiungono i locali di ogni piano
dell'edificio posti sulla stessa colonna. In questi casi,
come meglio evidenziato dal decreto correttivo, per la
misurazione individuale del calore si può fare ricorso alla
c.d. contabilizzazione indiretta, grazie all'installazione
dei ripartitori di calore e delle valvole termostatiche su
ogni singolo radiatore (sotto-contatori).
Dopo tale data,
invece, le nuove tecniche costruttive hanno portato alla
realizzazione dei c.d. impianti termici ad anello, nei quali
è possibile intercettare la mandata e il ritorno per ogni
unità immobiliare, rendendo quindi possibile la
contabilizzazione diretta mediante l'inserimento, al punto
di consegna, di un contatore di calore.
La ripartizione delle spese relative ai consumi energetici.
Come si anticipava, il nuovo provvedimento normativo è
intervenuto in particolare sulle modalità di suddivisione
delle spese relative al consumo di calore per il
riscaldamento e il raffreddamento delle unità immobiliari e
delle aree comuni, nonché per l'uso di acqua calda per
l'utilizzo domestico (sempre se prodotta in modo
centralizzato).
Il dlgs n. 102/2014 prevedeva sul punto che l'importo
complessivo avrebbe dovuto essere obbligatoriamente
suddiviso tra gli utenti finali in base a quanto previsto
dalla norma tecnica Uni 10200 e successivi aggiornamenti e
modifiche. Detta disposizione era però stata fin dall'inizio
oggetto di contestazione da una parte degli operatori del
settore e degli utenti, sia per l'imposizione della norma
Uni 10200 come metodo obbligatorio per la ripartizione delle
spese, sia per la necessità di dover richiedere a un
professionista termo-tecnico il calcolo dei nuovi millesimi
di fabbisogno di energia termica utile, da utilizzarsi in
sostituzione dei millesimi di proprietà e di quelli
tradizionali basati sulla potenza installata, sia infine per
l'assenza di coefficienti correttivi per mitigare l'impatto
delle dispersioni termiche nelle unità immobiliari situate
in posizione svantaggiata (per esempio per quelle all'ultimo
piano).
Proprio nel tentativo di venire incontro a queste
difficoltà, il decreto correttivo prevede ora che, ove la
norma tecnica Uni 10200 non sia applicabile o siano
comprovate, tramite apposita relazione tecnica asseverata,
differenze di fabbisogno termico per metro quadro tra le
unità immobiliari superiori al 50%, sia possibile
suddividere l'importo complessivo tra gli utenti finali,
attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi
prelievi volontari di energia termica.
In tal caso, gli
importi rimanenti possono essere ripartiti, a titolo
esemplificativo e non esaustivo (come riporta espressamente
l'art. 9, comma 5, lett. d) del novellato dlgs n. 102/2014),
alternativamente secondo i millesimi di proprietà, i metri
quadrati o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze
installate. Spetta quindi all'assemblea condominiale
decidere il criterio di riparto del rimanente 30% da
imputare a dispersione, mentre resta salva la possibilità,
per la prima stagione termica successiva all'installazione
dei dispositivi di contabilizzazione, che la suddivisione
venga effettuata in base ai soli millesimi di proprietà.
Il decreto correttivo specifica opportunamente che le
disposizioni in questione sono da intendersi come
facoltative nei condomini nei quali alla data del 26.07.2016 si sia già provveduto all'installazione dei dispositivi
di contabilizzazione del calore e si sia già provveduto alla
relativa suddivisione delle spese.
Le reazioni. Occorrerà quindi capire se le modifiche
introdotte dal legislatore delegato per andare incontro ai
rilievi operati dalla Commissione europea abbiano
effettivamente colpito nel segno.
Secondo Confedilizia si tratta di una soluzione non
perfetta, ma certamente migliorativa rispetto al carattere
vincolante del precedente sistema, che tanti problemi aveva
causato. Secondo l'associazione dei proprietari ne andrà
quindi verificata l'attuazione in concreto, insieme con le
altre novità del decreto correttivo, che confermano comunque
la necessità di analizzare caso per caso le situazioni dei
singoli edifici condominiali.
Alcuni operatori del settore ritengono infatti che il
lodevole intento del legislatore di apportare maggiore
chiarezza sull'argomento si sia però tradotto in una norma
che comporta ancora maggiore incertezza. Quanto, per
esempio, ai due casi nei quali secondo il decreto correttivo
si potrebbe prescindere dall'applicazione dei criteri di cui
alla norma Uni 10200, da una parte non è ben chiaro quali
siano le condizioni che potrebbero rendere la stessa
inapplicabile, dall'altra si fa notare come nella pratica
quasi sempre si registrino grosse differenze di fabbisogno
tra le unità immobiliari poste all'ultimo piano e quelle
site in posizione centrale, non essendo del resto chiaro
come si debba procedere per calcolare il differenziale del
50% individuato dal decreto correttivo
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A prescindere dal consolidato orientamento
secondo cui, in generale, la qualificazione di un atto
amministrativo deve essere operata sulla base del suo
effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti,
e non anche del nomen juris assegnatogli dall'Autorità
emanante, la riconducibilità, nell'unitaria categoria degli
atti di ritiro, delle due tipologie provvedimentali di
secondo grado dell'annullamento e della revoca
—fondate su presupposti diversi quanto alle ragioni
(rispettivamente, illegittimità od inopportunità) che
giustificano la rimozione di un provvedimento
amministrativo— consente di pervenire all'affermazione che
la qualificazione come revoca di un provvedimento di
autotutela motivato in relazione non già all'inopportunità,
ma all'illegittimità (per violazione della norma regolante
l'esercizio del potere) configura una imprecisione
emendabile e non invalidante.
---------------
Il Collegio non può che richiamare il costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui “ove l’atto impugnato
(provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una
ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano
irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure
dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte
dall’autorità emanante a rigetto della sua istanza”.
---------------
...
per l'annullamento
della determinazione n 12/16 emessa dal Comune di Nardodipace avente ad oggetto "revoca affidamento incarico
professionale per la valorizzazione e la cura dei luoghi di
culto".
...
6. Il ricorso è infondato.
7. Va preliminarmente qualificato il provvedimento oggetto
di gravame, adottato in autotutela dall’amministrazione
comunale, che lo ha denominato “revoca”.
Invero, a prescindere dal consolidato orientamento secondo
cui, in generale, la qualificazione di un atto
amministrativo deve essere operata sulla base del suo
effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti,
e non anche del nomen juris assegnatogli dall'Autorità
emanante (cfr. ex multis, Cons. St, sez. III, 15.06.2015
n. 2956; Cons. St., sez. IV., 15.04.2013, n. 2027), la
riconducibilità, nell'unitaria categoria degli atti di
ritiro, delle due tipologie provvedimentali di secondo grado
dell'annullamento e della revoca —fondate su presupposti
diversi quanto alle ragioni (rispettivamente, illegittimità
od inopportunità) che giustificano la rimozione di un
provvedimento amministrativo— consente di pervenire
all'affermazione che la qualificazione come revoca di un
provvedimento di autotutela motivato in relazione non già
all'inopportunità, ma all'illegittimità (per violazione
della norma regolante l'esercizio del potere) configura una
imprecisione emendabile e non invalidante (ex multis TAR
Catania, (Sicilia), sez. I, 04/11/2015, n. 2552).
8. Nel caso di specie, oggetto di esame è un atto di
annullamento d’ufficio ex art. 21-octies L. 241/1990 adottato
sul presupposto di diverse ragioni di illegittimità
dell’atto di primo grado -elencate sinteticamente nell’atto
e sopra riportate al punto 1.4- ognuna delle quali idonea a
sorreggerla, secondo la struttura dell’atto plurimotivato.
E a tal proposito, il Collegio non può che richiamare il
costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “ove
l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia
legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente
a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di
interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente
avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a
rigetto della sua istanza” (Consiglio di Stato, sez. VI, 12.10.2011,
n. 5517)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.08.2016 n. 1621 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
E' noto che il divieto di
rinnovo tacito ed espresso dei contratti pubblici
–espressamente previsto dall’art. 57, co. 7, D.lgs.
163/2006, applicabile ratione temporis- determinando una
ulteriore procedura negoziata senza previa pubblicazione del
bando è diretta espressione dei principi di tutela della
concorrenza, di derivazione europea.
Le norme, che si sono succedute nel tempo, derogatorie di
tale divieto generale o hanno determinato procedure di
infrazione aperte a carico dell’Italia; o sono state
direttamente disapplicate dai giudici nazionali, perché in
contrasto con la normativa europea; o sono ritenute di
stretta interpretazione, trattandosi di norme di carattere
eccezionale.
---------------
La qualificazione della fattispecie in esame prospettata nel
ricorso introduttivo come “rinnovo contrattuale”, con la
novazione oggettiva delle obbligazioni contrattuali,
piuttosto che come “proroga”, fondata sul mantenimento dei
patti e delle condizioni contrattuali, oltre ad essere
irrilevante ai fini dell’ambito di applicazione e della
ratio del divieto legale sopra riferito, non è comunque
rispondente al contenuto provvedimentale, poiché, con la
determinazione oggetto di annullamento n. 115 del
07.12.2015, si dispone una “conferma” del precedente
affidamento -a sua volta conferito, con determinazione n.
49/2015 come conferma di quello ancora precedente- per il
periodo annuale successivo alla precedente scadenza,
parametrando il prezzo alla diversa (doppia rispetto alla
precedente) durata annuale, senza operare alcuna altra
modifica contrattuale.
---------------
...
per l'annullamento
della determinazione n 12/16 emessa dal Comune di Nardodipace avente ad oggetto "revoca affidamento incarico
professionale per la valorizzazione e la cura dei luoghi di
culto".
...
6. Il ricorso è infondato.
...
9. Valore dirimente, in particolare -idonea a configurare
il motivo riscontrato quale vizio di illegittimità, e
conseguentemente il provvedimento di autotutela come
annullamento ex art. 21-octies L. 241/1990- assume la
ravvisata violazione di legge con riguardo al “divieto di
proroga” dei contratti, indicata, sia pure succintamente,
nella motivazione dell’atto oggetto di questo giudizio;
motivazione che, da un lato, è di per sé sufficiente a
sorreggere il provvedimento in autotutela; dall’altro, è
esente dalle doglianze sollevate da parte ricorrente (cfr.
ricorso introduttivo, pag. 4-5).
Nello specifico, la ricostruzione della vicenda
procedimentale e l’esito della istruttoria documentale
depongono nel senso che, con la determinazione n. 115 del 07.12.2015, adottata il medesimo giorno in cui veniva
comunicato all’ente locale il decreto di scioglimento del
Consiglio Comunale ex art. 143 TUEL, era stata decisa la
“proroga” per la terza volta dell’affidamento diretto
ottenuto originariamente dalla ditta ricorrente nel giugno
del 2014.
10. Ora, è noto che il divieto di rinnovo tacito ed espresso
dei contratti pubblici –espressamente previsto dall’art. 57, co. 7, D.lgs. 163/2006, applicabile
ratione temporis-
determinando una ulteriore procedura negoziata senza previa
pubblicazione del bando è diretta espressione dei principi di
tutela della concorrenza, di derivazione europea.
Le norme, che si sono succedute nel tempo, derogatorie di
tale divieto generale o hanno determinato procedure di
infrazione aperte a carico dell’Italia (cfr. parere motivato
della Commissione europea n. 2003 del 16.12.2003,
adottato in relazione all’art. art. 6, comma 2, ultimo periodo
della legge 24.12.1993); o sono state direttamente
disapplicate dai giudici nazionali, perché in contrasto con
la normativa europea (cfr. art. 1 d.l. 95/2012, come
modificato in sede di conversione dalla legge n. 135/2012;
Consiglio di Stato, sez. III, 30.01.2014, nn. 1486); o
sono ritenute di stretta interpretazione, trattandosi di
norme di carattere eccezionale (cfr Consiglio di Stato, sez.
III, 15.04.2016, n. 1532 in relazione alla specifica
norma di cui all’art. 6, comma 2, lett. b), del d.lgs. 115
del 2008 recante attuazione della direttiva 2006/32/CE
relativa all'efficienza degli usi finali di energia e i
servizi energetici e abrogazione della direttiva 93/76/CEE).
11. La qualificazione della fattispecie in esame prospettata
nel ricorso introduttivo come “rinnovo contrattuale”, con la
novazione oggettiva delle obbligazioni contrattuali,
piuttosto che come “proroga”, fondata sul mantenimento dei
patti e delle condizioni contrattuali, oltre ad essere
irrilevante ai fini dell’ambito di applicazione e della ratio del divieto legale sopra riferito, non è comunque
rispondente al contenuto provvedimentale, poiché, con la
determinazione oggetto di annullamento n. 115 del 07.12.2015, si dispone una “conferma” del precedente affidamento -a sua volta conferito, con determinazione n. 49/2015 come
conferma di quello ancora precedente- per il periodo
annuale successivo alla precedente scadenza, parametrando il
prezzo alla diversa (doppia rispetto alla precedente) durata
annuale, senza operare alcuna altra modifica contrattuale.
12. Il provvedimento gravato, con cui l’amministrazione ha
proceduto all’annullamento d’ufficio della “conferma” del
precedente affidamento risulta pertanto adeguatamente
motivato, anche solo sulla base di tale riscontrato vizio di
violazione di legge.
In conclusione, assorbite le altre censure attesa la natura
plurimotivata del provvedimento impugnato come enunciato
supra al punto 8, il ricorso va pertanto rigettato
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.08.2016 n. 1621 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Strisce blu: multa per la sosta con ticket
scaduto. Cassazione. Lasciare l’auto nel parcheggio oltre il
tempo pagato è illecito amministrativo e non inadempimento
contrattuale.
La sosta dell’auto nelle strisce blu
con il ticket scaduto merita la multa al pari di quanto
avviene quando l’automobilista non si munisce affatto di
“biglietto”. La permanenza oltre il tempo pagato è, infatti,
un illecito amministrativo e non un semplice inadempimento
contrattuale. L’infrazione, come avviene nell’omesso
acquisto del “biglietto” orario, si traduce in un’evasione
tariffaria in violazione dell’articolo 7 comma 15 del Codice
della strada.
La Suprema corte, con la
sentenza 03.08.2016 n. 16258, si discosta dai
pareri del ministero delle Infrastrutture, l’ultimo datato
2015 (n. 2074), con cui si è ribadito che la sanzione
prevista dal Codice della strada scatta solo in caso di
omesso acquisto del “biglietto” orario o per violazioni
relative alla sosta limitata o regolamentata, mentre
nell’ipotesi di sosta nelle aree in cui si può restare a
tempo indeterminato lo “sforamento” deve essere
considerato un inadempimento contrattuale. Una lettura con
la quale la Suprema corte non è d’accordo.
I giudici della Seconda sezione civile respingono il ricorso
di un automobilista contro la decisione del Tribunale che
aveva affermato la legittimità della multa inflitta al
ricorrente che aveva lasciato l’auto nelle strisce blu
un’ora in più rispetto al tempo indicato. Secondo il
ricorrente chi paga il ticket senza integrare il versamento
nelle ore successive non trasgredisce il Codice della strada
ma solo l’obbligazione contrattuale, che sorge nel momento
in cui si “compra” il ticket, regolata dal Codice
civile.
La Cassazione, a supporto della sua decisione, cita anche la
giurisprudenza della Corte di conti. I giudici contabili
(sezione giurisdizionale per la regione Lazio, sentenza
888/2012) hanno affermato che la mancata contestazione della
sanzione pecuniaria da parte dell’ausiliario del traffico
nel momento in cui è stata accertata la sosta del veicolo
senza ticket «oppure con tagliando esposto scaduto per
decorso del tempo pagato (che è pur sempre una fattispecie
di mancato pagamento che il codice della strada, senza
distinzioni sanziona), configura una ipotesi di danno
erariale per il Comune, rappresentato dal mancato incasso
dei proventi che sarebbero derivati dall’applicazione della
sanzione per violazione delle norma che disciplinano la
sosta in aree a pagamento)».
Anche per la Suprema corte, nel caso di sosta a pagamento su
suolo pubblico, se questa si protrae oltre l’orario per il
quale è stata corrisposta la tariffa, si violano le
prescrizioni dettate dall’articolo 7, comma 15 del Codice
della strada. La sosta nelle strisce blu a tempo scaduto,
dunque, ha natura di illecito amministrativo e non si
trasforma in un inadempimento contrattuale, «trattandosi,
analogamente al caso della sosta effettuata omettendo
l’acquisto del ticket orario, di una evasione tariffaria in
violazione della disciplina della sosta a pagamento su suolo
pubblico».
Una norma, conclude la Suprema corte, introdotta per
incentivare la rotazione e razionalizzare l’offerta di sosta
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Precari
della Pa, possibile il risarcimento del danno. Cassazione.
Nel pubblico impiego niente stabilizzazione.
Nessuna speranza di rapporto a tempo
indeterminato con la pubblica amministrazione per chi, per
più anni, ha prestato servizio temporaneo:
lo conferma la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- con
la
ordinanza 03.08.2016 n. 16226, relativa al
conducente di scuolabus in un Comune pugliese. L’unico
vantaggio, per chi ha prestato servizio a tempo determinato,
è un’indennità da 2,5 a 12 mensilità dell’ultima
retribuzione, senza dover dimostrare l’entità del danno
subìto e senza detrarre la percezione di altre entrate
durante il periodo di lavoro pubblico.
La Cassazione tende a giustificare il contrasto tra le norme
di diritto comunitario e nazionale che impongono la
trasformazione a tempo indeterminato di ciò che nasce
precario (direttiva 1999/1970 e legge 368/2001, articolo 5)
e i princìpi nazionali (articolo 97 della Costituzione) che
impongono l’accesso a posti di lavoro pubblici solo mediante
concorso. L’Ue obbliga lo Stato a garantire una tutela
effettiva (Corte di giustizia, 12.12.2013 in C-50/2013),
cioè il cittadino deve poter ottenere, tramite sentenza, una
stabilizzazione del rapporto precario. Ma ciò vale solo se
il datore di lavoro è un privato, perché nel pubblico
impiego è obbligatorio l’accesso tramite concorso.
L’impossibilità di ottenere l’assunzione si converte così in
un indennizzo, cioè una somma di danaro che bilancia il
vuoto di tutela rappresentato dall’impossibile
stabilizzazione. L’indennizzo va da un minimo di 2,5 ad un
massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto, importi che dovrebbero dissuadere il datore di lavoro
ma che nella realtà sono modesti: spesso si tratta di
rapporti pluriennali che avevano fatto maturare consistenti
aspettative.
La sentenza 16226/2016 riguarda l’autista di scuolabus
comunale precario da oltre 12 anni e la Cassazione,
cosciente dell’esiguità dell’importo riconosciuto al
dipendente, sottolinea che comunque il lavoratore non poteva
sperare in un rapporto a tempo indeterminato. Al più, la
prolungata precarietà del rapporto di lavoro con pubbliche
amministrazioni può aver condizionato scelte di tipo
personale, facendo perdere al lavoratore chances di
un’occupazione migliore (risarcibili se sono dimostrate).
L’indennizzo forfettario varia da 2,5 a 12 mensilità in
proporzione alla durata del contratto a tempo determinato,
alla gravità della violazione, alla tempestività della
reazione del lavoratore, allo sfruttamento di altre (perse)
occasioni di lavoro e di guadagno per la preferenza
accordata al rapporto con la pubblica amministrazione,
considerando infine anche le dimensioni del datore di
lavoro.
In sintesi, non è possibile illudersi di essere stabilizzati
senza concorso, ma finché il rapporto precario viene
rinnovato si può contare su un importo finale che peraltro è
più punitivo per l’amministrazione che risarcitorio per il
dipendente. In nessun caso il dipendente rischia la
restituzione di quanto percepito (articolo 1360 del Codice
civile), mentre l’indennizzo spetta anche nel caso in cui,
insieme al lavoro precario pubblico, si abbia una seconda (o
terza) attività (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Dall’Ordine niente danni al cliente.
Cassazione. Il parere di congruità sulla
parcella del professionista.
Il cliente del professionista non può
chiedere all’Ordine i danni a suo avviso provocati con il
parere sulla congruità delle parcelle applicate, se questo
non ha alcun nesso con il decreto ingiuntivo emesso nei suoi
confronti.
Le Sezioni unite
civili della Corte di Cassazione, con la
sentenza 02.08.2016 n. 16065, respingono il
ricorso di una società contro l’Ordine degli ingegneri
territoriale “accusato” di non essersi dotato di un
regolamento interno per mettere nero su bianco dei criteri
in base ai quali valutare la correttezza o meno delle
parcelle professionali applicate dagli iscritti.
La conseguenza di questa “approssimazione” -secondo
la difesa del ricorrente- aveva dato come risultato un via
libera dell’Ordine alle voci indicate perché giudicate in
linea con le tariffe, malgrado il supporto cartaceo fosse
del tutto irregolare a causa di notevoli lacune: dalla
diversità del committente all’assenza della firma del
progettista.
La Cassazione avalla però la decisione dei giudici di merito
di respingere il ricorso. Per il Tribunale la prospettata
responsabilità dell’Ordine non poteva essere basata sulla
mancata adozione di un regolamento interno per disciplinare
il visto di congruità, non essendo questo previsto dalla
legge. Quello che pesa nel verdetto sfavorevole alla società
è l’assenza di un nesso di causalità tra il parere
dell’Ordine professionale e l’adozione del decreto monitorio
con la conseguente iscrizione ipotecaria.
I giudici hanno precisato che il parere rilasciato
corrispondeva alla funzione istituzionale dell’organo
professionale, posta a tutela degli interessi degli
iscritti, della dignità della professione e dei diritti
degli stessi clienti. L’atto contestato si limitava al
controllo formale della corrispondenza con le tariffe di
quanto indicato nella parcella, senza avere alcun rilievo
sulla validità e sull’efficacia delle obbligazioni
reciproche.
Infine non corrispondeva al vero che l’ok era stato concesso
dall’Ordine territoriale degli ingegneri in assenza di
controllo e nella arbitrarietà più assoluta, essendo la
documentazione allegata dall’ingegnere frutto di un evidente
copia e incolla.
Per i giudici invece le “informazioni” fornite a
supporto della richiesta erano sufficienti per ricostruire
l’attività e le prestazioni svolte dall’ingegnere
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Il
Consiglio di stato demolisce le linee guida dell'Anac.
Il Consiglio di stato demolisce la soft law dell'Anac sul
codice degli appalti.
Il
parere 02.08.02016 n. 1767 reso dalla Commissione speciale di palazzo Spada anche se riferito a tre specifiche
linee guida dell'Autorità diretta da Cantone (su offerta
economicamente più vantaggiosa, responsabile unico del
procedimento e servizi di progettazione) mette a nudo tutte
le criticità, già in atto e potenziali, del nuovo sistema di
completamento delle norme del codice dei contratti, pensato
dal legislatore allo scopo di dare all'Anac poteri
probabilmente impropri.
Il parere del Consiglio di stato mette in evidenza da subito
come la giurisdizione amministrativa non intenda lasciare
spazi eccessivi all'Anac, preludio chiaro di futuri
contenziosi non di poca portata. Alcuni passaggi del parere
sono molto indicativi. Per esempio, quando il Consiglio di
stato affronta il tema delle linee guida di natura
«vincolante» conferma che esse «devono essere osservate, a
pena di illegittimità degli atti consequenziali» da parte
delle amministrazioni, ma sottolinea che sono possibili
«atti caducatori» in sede giurisdizionale.
È esattamente il
preannuncio che le amministrazioni (ma anche i privati)
potranno rivolgersi all'autorità giudiziaria amministrativa
per ottenere la caducazione (o rimozione) delle linee guida
vincolanti o di loro parti che risultino violare il
principio di legalità, cui deve conformarsi l'Anac. In un
secondo passaggio il Consiglio di stato è ancora più chiaro.
Riguarda il passaggio delle linee guida relative al Rup, ove
l'Anac afferma perentoriamente che «il ruolo di Rup è
incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4
del Codice)». Palazzo Spada letteralmente «bacchetta l'Anac»
rilevando che detta previsione è «in larga parte coincidente
con l'articolo 84, comma 4, del previgente Codice in
relazione al quale la giurisprudenza di questo Consiglio
aveva tenuto un approccio interpretativo di minor rigore,
escludendo forme di automatica incompatibilità a carico del Rup, quali quelle che le linee guida in esame intendono
reintrodurre (sul punto ex multis: Cons. stato, V, n.
1565/2015)».
Da qui la conclusione: «Non sembra
condivisibile che le linee guida costituiscano lo strumento
per revocare in dubbio (e in via amministrativa) le
acquisizioni giurisprudenziali»: una chiara affermazione
della volontà dei giudici amministrativi di affermare la
prevalenza dei giudicati su strumenti, quali le linee guida,
che sono e restano, spiega sempre il Consiglio di stato,
atti amministrativi (sebbene di natura generale, nel caso
delle linee guida vincolanti).
In quanto alle linee guida non vincolanti, estremamente
importante è il chiarimento fornito dal Consiglio di stato
sulla loro portata. Palazzo Spada precisa che le linee guida
non vincolanti non possono comprimere l'esercizio del potere
discrezionale delle amministrazioni, visto che hanno la
funzione di specificare spunti operativi di dettaglio per
l'applicazione delle norme. Le amministrazioni, allora,
conservano pienamente il potere discrezionale di adeguarsi o
meno alle indicazioni delle linee guida non vincolanti,
anche facendo specifico riferimento al caso concreto.
Il
Consiglio di stato precisa solo che laddove le
amministrazioni se esse intendano discostarsi dalle
indicazioni non vincolanti dell'Anac hanno l'onere di
«adottare un atto che contenga una adeguata e puntuale
motivazione, anche a fini di trasparenza, che indichi le
ragioni della diversa scelta amministrativa». E questo
persino qualora le linee direttive dovessero essere redatte
in modo da far apparire il loro contenuto come prescrittivo,
perché magari riproducono i contenuti dell'abolito dpr
207/2010.
Indirettamente, il parere del Consiglio di stato
suggerisce alle amministrazioni quando ricorrono i casi di
possibile discostamento dalle linee guida: allorché «la
peculiarità della fattispecie concreta giustifica una
deviazione dall'indirizzo fornito dall'Anac ovvero se sempre
la vicenda puntuale evidenzi eventuali illegittimità delle
linee guida nella fase attuativa».
L'ultima affermazione conferma la visione di palazzo Spada:
le linee guida sono e restano atti amministrativi, come
tali, dunque, a loro volta soggette al principio di legalità
e passibili di vizi di legittimità
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Videoriprese
anti-fannulloni. L'utilizzo è consentito se serve a
verificare una truffa. CASSAZIONE/
Il principio è valido anche quando non c'è l'obbligo di
timbrare.
La Cassazione dice stop ai fannulloni. È lecito l'uso di
videoriprese per controllare l'eventuale falsificazione
degli orari di entrata e di uscita dei lavoratori. Infatti,
le garanzie dello Statuto dei lavoratori non si applicano
quando il datore, mediante le apparecchiature, verifica un
reato, in questo caso una truffa. Ma non basta: il principio
è valido anche quando non sussiste l'obbligo di timbrare il
cartellino o il badge ma solo il foglio presenze.
È quanto sancito dalla Corte di Cassazione -Sez. II penale-
che, con la
sentenza 01.08.2016 n.
33567, ha respinto il ricorso di due dipendenti
comunali, accusati di truffa per aver falsificato gli orari
di entrata e uscita nell'ente locale.
In particolare i due avevano contestato la regolarità delle
telecamere apposte all'ingresso, rivendicando la violazione
delle garanzie dello Statuto del contribuente.
La seconda sezione penale ha però confermato l'intero
impianto accusatorio spiegando che in tema di
apparecchiature di controllo dalle quali derivi la
possibilità di verificare a distanza l'attività dei
lavoratori, le garanzie procedurali previste dall'art. 4,
secondo comma, dello Statuto dei lavoratori non trovano
applicazione quando si procede all'accertamento di fatti che
costituiscono reato.
Tali garanzie riguardano solo
l'utilizzabilità delle risultanze delle apparecchiature di
controllo nei rapporti interni, di diritto privato, fra
datore di lavoro e lavoratore; la loro eventuale
inosservanza non assume pertanto alcun rilievo nell'attività
di repressione di fatti costituenti reato, al cui
accertamento corrisponde sempre l'interesse pubblico alla
tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia
possibile identificare la persona offesa nel datore di
lavoro.
Ma non è ancora tutto. Con queste interessanti motivazioni
gli Ermellini hanno inoltre precisato che in tema di
allontanamento fraudolento dal luogo di lavoro, l'eventuale
insussistenza per i lavoratori di un vero e proprio obbligo
di vidimare il cartellino o la tessera magnetica delle
presenze giornaliere non esclude che, qualora tale
vidimazione sia comunque effettivamente compiuta, ma con
modalità fraudolente tali da indurre in inganno il datore di
lavoro, ricorrano gli estremi degli artifizi e raggiri che
integrano il delitto di truffa.
Infatti, non è la doverosità
della vidimazione a rendere quest'ultima, se falsificata,
idonea a trarre in inganno il datore di lavoro; al
contrario, anche una vidimazione meramente facoltativa di un
registro cartaceo o elettronico delle presenze in ufficio,
può ingenerare l'inganno di far risultare una presenza
falsamente attestata. Ove la vidimazione dell'ingresso e
dell'uscita dal luogo di lavoro sia meramente facoltativa,
il lavoratore può non ottemperare all'adempimento ma,
qualora vi ottemperi, la falsa indicazione dell'orario di
entrata o di uscita configura quindi un artifizio o un
raggiro.
Anche la Procura generale del Palazzaccio ha chiesto di
respingere il ricorso dei lavoratori
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2016).
---------------
MASSIMA
3. Esaminando il ricorso in relazione alle residue
censure, va trattata per prima la questione dell'elusione
dell'obbligo di timbratura del badge.
Sostengono in proposito i ricorrenti che l'istallazione di
sistemi di registrazione degli orari di accesso e di uscita
del personale dipendente, giacché utilizzabili in funzione
di controllo dell'osservanza da parte dei lavoratori dei
doveri di diligenza nel rispetto dell'orario di lavoro,
postula l'accordo con le rappresentanze sindacali o
un'autorizzazione ai sensi dell'art. 4, comma 2, dello
Statuto dei lavoratori; con la conseguenza che, in difetto
di tali presupposti, le relative risultanze sarebbero
illecite e quindi illegittimamente acquisite agli atti del
procedimento penale.
La doglianza è infondata per una pluralità di ragioni.
Anzitutto, non risulta da alcuna evidenza processuale
l'illegittimità dell'istallazione del sistema di rilevazione
elettronica delle presenze; la mancanza dell'accordo con le
rappresentanze sindacali aziendali costituisce una mera
asserzione dei ricorrenti, priva di riscontro oggettivo.
In secondo luogo,
le garanzie procedurali imposte dall'art. 4, secondo comma,
dello Statuto dei lavoratori (espressamente richiamato
dall'art. 114 del d.lgs. n. 196 del 2003, per
l'installazione di impianti e apparecchiature di controllo
richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero
dalla sicurezza del lavoro, dai quali derivi la possibilità
di verifica a distanza dell'attività dei lavoratori) si
applicano ai controlli c.d. "difensivi", ossia
diretti ad accertare l'inesatto adempimento delle
obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non,
invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al
rapporto stesso
(Sez. L, Sentenza n. 2722 del 23/02/2012, Rv. 621115; nella
specie la Corte ha escluso l'applicabilità delle garanzie
procedurali sopra indicate nel caso in cui il datore abbia
posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti
del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e
dell'immagine aziendale).
È quindi possibile affermare il seguente principio di
diritto:
in tema di apparecchiature di controllo dalle quali derivi
la possibilità di verificare a distanza l'attività dei
lavoratori, le garanzie procedurali previste dall'art. 4,
secondo comma, dello Statuto dei lavoratori non trovano
applicazione quando si procede all'accertamento di fatti che
costituiscono reato. Tali garanzie riguardano solo
l'utilizzabilità delle risultanze delle apparecchiature di
controllo nei rapporti interni, di diritto privato, fra
datore di lavoro e lavoratore; la loro eventuale
inosservanza non assume pertanto alcun rilievo nell'attività
di repressione di fatti costituenti reato, al cui
accertamento corrisponde sempre l'interesse pubblico alla
tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia
possibile identificare la persona offesa nel datore di
lavoro
(v. Sez. 6, n. 30177 del 04/06/2013 - dep. 12/07/2013,
Chielli e altri, Rv. 256640).
Infine, per rispondere ad altra specifica censura posta dai
ricorrenti, occorre rilevare che,
in tema di allontanamento fraudolento dal luogo di lavoro,
l'eventuale insussistenza per i lavoratori di un vero e
proprio obbligo di vidimare il cartellino o la tessera
magnetica delle presenze giornaliere non esclude che,
qualora tale vidimazione sia comunque effettivamente
compiuta, ma con modalità fraudolente tali da indurre in
inganno il datore di lavoro, ricorrano gli estremi degli
artifizi e raggiri che integrano il delitto di truffa.
Infatti,
non è la doverosità della vidimazione a rendere
quest'ultima, se falsificata, idonea a trarre in inganno il
datore di lavoro; al contrario, anche una vidimazione
meramente facoltativa di un registro cartaceo o elettronico
delle presenze in ufficio, può ingenerare l'inganno di far
risultare una presenza falsamente attestata. Ove la
vidimazione dell'ingresso e dell'uscita dal luogo di lavoro
sia meramente facoltativa, il lavoratore può non ottemperare
all'adempimento ma, qualora vi ottemperi, la falsa
indicazione dell'orario di entrata o di uscita configura
quindi un artifizio o un raggiro.
4. Parimenti infondata di rivela la doglianza relativa
all'utilizzabilità delle riprese audiovisive.
I ricorrenti sostengono che la segnalazione di fenomeni di
assenteismo riguardava altri due colleghi e che, pertanto,
le videoriprese in questione nei loro confronti non hanno
costituito uno strumento di ricerca della prova, ma un vero
e proprio mezzo di acquisizione della notitia criminis.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che
le videoregistrazioni di condotte non comunicative disposte
dalla Polizia nel corso delle indagini preliminari, in
luoghi riconducibili al concetto di domicilio, e quindi
generalmente meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 14
Cost., sono qualificabili come prova atipica disciplinata
dall'art. 189 cod. proc. pen., ed utilizzabili senza alcuna
necessità di autorizzazione preventiva del giudice, se le
riprese sono state eseguite con il consenso del titolare del
domicilio
(Sez. 2, n. 41332 del 07/07/2015 - dep. 14/10/2015, Zhou, Rv.
264889; v. pure Sez. 3, n. 37197 del 07/07/2010 - dep.
19/10/2010, P.M. in proc. L. e altro, Rv. 248563; Sez. 2, n.
1127 del 13/12/2007 - dep. 10/01/2008, Napolano, Rv.
238905).
La circostanza che dall'espletamento dell'attività di
indagine siano emersi elementi di colpevolezza anche a
carico di soggetti ulteriori rispetto a quelli
originariamente indagati non incide in alcun modo
sull'utilizzabilità della prova atipica così acquisita
neppure nei confronti dei nuovi indagati. |
ENTI
LOCALI - VARI: Agenti
(e autovelox) nascosti, multa addio.
Non è valida secondo la
Corte di Cassazione (Sez. II civile,
sentenza
29.07.2016 n. 15899) la
multa se gli agenti si nascondono e manca l'avviso
dell'autovelox.
La vicenda riguarda un automobilista che,
percorrendo la statale 195 del comune sardo di Pula, prese
una multa per aver guidato a 72 km/h superando il massimo
dei 50. L'uomo ricorse presso il giudice di pace di
Cagliari, spiegando che la segnalazione del controllo
elettronico della velocità era installata solo all'ingresso
del paese, oltre al fatto che l'autovettura degli agenti era
parcheggiata fuori dalla carreggiata e seminascosta dalla
vegetazione.
Ma il magistrato, con la sentenza 70/2008,
rigettò l'opposizione dell'automobilista che però propose
ricorso al Tribunale di Cagliari. Quattro anni dopo però i
giudici rigettarono il ricorso con la sentenza 80/2012. I
giudici sardi, basandosi sul secondo comma dell'art. 77 del
Codice della strada, spiegarono che il fatto riguardava solo
«i cartelli stradali prescrittivi, aventi la funzione di
garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, non
a quelli meramente informativi, come i cartelli sul
rilevamento elettronico della velocità».
Ma l'uomo riportò
le sue motivazioni in Cassazione, ritenendo irregolare la
collocazione di un unico cartello di preavviso di controllo
elettronico della velocità, installato all'ingresso del
comune di Pula, e non ripetuto per i successivi 20
chilometri. La motivazione principale consisteva nel fatto
che l'automobilista proveniva da un tratto di strada
successivo alla segnalazione, quindi non sarebbe stato
informato dell'autovelox. Soprattutto perché gli agenti
accertatori, con l'autovettura, erano nascosti alla sua
vista.
La Cassazione ha accolto l'opposizione dell'uomo perché «la
Pubblica amministrazione proprietaria della strada è tenuta
a dare idonea informazione, con l'apposito “in loco” di
cartelli indicanti la presenza di autovelox», citando il
nuovo comma 6-bis dell'articolo 142 del Codice della strada
il quale sancisce che «le postazioni di controllo sulla
rete stradale per il rilevamento della velocità devono
essere preventivamente segnalate e ben visibili, ricorrendo
all'impiego di cartelli o di dispositivi di segnalazione
luminosi»
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Al
parlamentare si deve trasparenza.
L'accesso ai documenti amministrativi funziona anche tra
Amministrazioni pubbliche e il singolo parlamentare può
richiederlo.
Questo è il principio di diritto enunciato dal TAR Lazio-Roma,
Sez. I, con
la
sentenza
28.07.2016 n. 8755.
La controversia è nata dal surreale episodio dei preziosi
orologi regalati dai sovrani sauditi, apparentemente «contesi»
tra gli ospiti della delegazione governativa italiana in
visita. Ciò ha indotto una senatrice della Repubblica
(nonché questore) a voler fare luce nella sconcertante
vicenda.
Dopo aver ricevuto dei «no» all'accesso, ha impugnato. Il
collegio ha affermato che anche un «soggetto pubblico»,
in cui va ricompreso il singolo parlamentare, può avvalersi
dell'istituto dell'accesso ai documenti. Ciò avviene
mediante la leva del principio di leale collaborazione che
opera tra le pubbliche amministrazioni.
I giudici hanno accolto il ricorso anche perché il
regolamento del Senato attribuisce ai Questori il compito di
sovrintendere al cerimoniale, e l'interessata aveva un
interesse diretto, concreto e attuale a verificare se ci
fossero state delle violazioni alle prescrizioni
protocollari, in particolare per quanto riguarda l'ordine
delle precedenze da osservare tra le cariche pubbliche.
I giudici non hanno tuttavia aderito alla domanda di
sopralluogo ove sono custoditi i doni di rappresentanza
ricevuti dal Governo italiano e custoditi a Palazzo Chigi
negli ultimi dieci anni, in quanto non attinenti ad atti già
formati e detenuti nella loro materialità
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
---------------
MASSIMA
2. Venendo all’esame del ricorso per l’accertamento e la
declaratoria dell’accesso ai documenti di cui all’istanza
del 14.01.2016, si osserva quanto segue.
2.1 Si osserva preliminarmente che l’art. 22 della legge
07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi) riconosce “a chiunque vi
abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi,
secondo le modalità stabilite dalla presente legge"
(1° comma); ai sensi del successivo art. 25, “il
diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione
di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i
limiti indicati dalla presente legge” (1° comma),
e “la richiesta di accesso ai documenti deve essere
motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che
ha formato il documento o che lo detiene stabilmente”
(2° comma).
Alla stregua della richiamata disciplina sul procedimento
amministrativo, i portatori di un interesse specifico
hanno diritto di accesso ai documenti amministrativi per la
tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo
per tali le situazioni giuridiche soggettive che presentino
un collegamento diretto e attuale con il procedimento
amministrativo cui la richiesta di accesso si riferisce.
D’altra parte, il concetto di interesse giuridicamente
rilevante, sebbene sia più ampio di quello di interesse
all’impugnazione, non è tale da consentire a chiunque
l’accesso agli atti amministrativi: il diritto di accesso ai
documenti amministrativi non si atteggia, infatti, come una
sorta di azione popolare diretta a consentire una sorta di
controllo generalizzato sull’Amministrazione, giacché, da un
lato l’interesse che legittima ciascun soggetto all’istanza,
da accertare caso per caso, deve essere personale e concreto
e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso,
dall’altro, la documentazione richiesta deve essere
direttamente riferibile a tale interesse oltre che
individuata o ben individuabile (Cons. Stato, VI Sez.,
17.03.2000 n. 1414; 03.11.2000 n. 5930).
In definitiva, hanno titolo all'accesso tutti i soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o
diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata la documento al quale è chiesto
l'accesso.
Sul versante passivo, va pure preliminarmente chiarito che
sono tenuti a consentire l'esercizio del diritto di
accesso ai documenti amministrativi detenuti tutti i
soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto
privato limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario,
compresi i gestori di pubblici servizi (art. 22, comma 1,
lett. e, ed art. 23 L. 07.08.1990 n. 241 e successive
modificazioni).
2.2 Invece, l'acquisizione di documenti amministrativi da
parte dei soggetti pubblici -salva l'ipotesi di cui
all'art. 43, comma 2, D.P.R. 28.12.2000 n. 445
(consultazione diretta da parte di una pubblica
amministrazione o gestore di servizio pubblico degli archivi
dell'amministrazione certificante per l'accertamento
d'ufficio di stati, qualità e fatti ovvero di dichiarazioni
sostitutive presentate dai cittadini)- è regolamentata
dal principio di leale collaborazione istituzionale (art.
22, comma 1, lett. b) e comma 5, legge n. 241/1990), per cui
–come affermato dalla giurisprudenza amministrativa- la
relativa esigenza deve trovare soluzione in rapporti di tipo
interorganico o intersoggetivo, avvalendosi a seconda dei
casi di soluzioni di coordinamento, vigilanza, direzione o
semplice collaborazione.
2.3 Peraltro, il principio di leale collaborazione
istituzionale viene interpretato dalla giurisprudenza
amministrativa nel senso che esso non possa escludere la
configurabilità in concreto del ricorso all’istituto
dell’accesso da parte di una pubblica amministrazione
(intesa ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. e) della legge
n. 241/1990 come “tutti i soggetti di diritto pubblico …”)
nei confronti di un’altra; e ciò è stato affermato, sia
nell’ipotesi in cui la prima si trovi in posizione di
soggetto amministrato rispetto alla seconda e in quanto tale
abbia titolo all'accesso alla stessa stregua di un soggetto
privato (così, Cons. Stato, V, 07.11.2008, n. 5573),
sia più in generale nell’ipotesi di soggetti pubblici
aspiranti a un’acquisizione documentale (id.,
27.05.2011, n. 3190) .
“Specialmente in presenza di un "sistema" di soggetti
pubblici tanto pletorico e disarmonico come quello nazionale”
-afferma il giudice di seconde cure– "non vi sarebbe
infatti ragione di ritenere riservato ai privati tale
istituto, che offre il non trascurabile vantaggio di uno
statuto di precise garanzie e di tutela giuridica anche in
sede giudiziale, e di abbandonare invece in toto i soggetti
pubblici che siano interessati ad ottenere un'ostensione
documentale alle incognite di una collaborazione spontanea
-inevitabilmente non sempre sollecita e puntuale-
dell'Amministrazione di volta in volta legittimata passiva …
a meno di non incorrere in un inopinato quanto illogico
ribaltamento di rapporti, in fatto di intensità di tutela,
tra interessi privati e pubblici. Atteso allora che l'art.
22, comma 1, lett. b) della legge n. 241/1990 annovera pur
sempre tra i soggetti "interessati" anche i portatori di
interessi pubblici, anche un "soggetto pubblico" può quindi
avvalersi, ove ritenga, dell'istituto dell'accesso ai
documenti (in tal senso, almeno in parte, cfr. C.d.S.,
V, 07.11.2008, n. 5573).”
2.4 Quando ciò accada, il richiamo legislativo al
principio di leale cooperazione istituzionale non è tuttavia
privo di valenza, atteso che “Tale canone, pur
nella sua elasticità, esige comportamenti coerenti e non
contraddittori, un confronto su basi di correttezza e
apertura alle altrui posizioni e al contemperamento degli
interessi, e, d'altro canto, non tollera atteggiamenti
dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o
insufficientemente motivati (cfr., tra le tante, C.
Cost. n. 379 del 27/07/1992 e n. 242 del 18/07/1997).
Lo stesso principio è allora suscettibile di rilevare non
solo come criterio orientativo per l'interpretazione
specifica delle norme generali in tema di accesso, ma anche
quale regola ulteriore, complementare e di diritto speciale,
ossia come canone aggiuntivo per stabilire se la singola
richiesta ostensiva del soggetto pubblico debba avere corso.
Canone che acquista precisione di contorni specialmente se
calato all'interno del particolare modulo relazionale di
diritto pubblico che (eventualmente) intercorra tra i
soggetti attivo e passivo dell'accesso, e che integra una
cornice di particolare ausilio per decifrare la misura della
cooperazione istituzionale dovuta” (C.d.S.,
V, 27.05.2011, n. 3190).
3. Tanto premesso in via generale, osserva il Collegio che,
alla luce delle richiamate disposizioni come interpretate
dalla giurisprudenza amministrativa, i suddetti presupposti
sono presenti nel caso di specie.
3.1 E invero, nella nozione di "soggetto pubblico"
va ricompreso anche il Parlamentare e, nello specifico,
il Senatore Questore. All’atto della richiesta di accesso,
l’odierna esponente risultava portatrice di un interesse
specifico e giuridicamente rilevante, dirigendosi la sua
richiesta nei confronti degli atti e documenti relativi ai
doni di rappresentanza ricevuti dal Governo italiano e
custoditi a Palazzo Chigi negli ultimi dieci anni e, nello
specifico, a quelli rivelati da il Fatto Quotidiano di
venerdì 08.01.2016, riguardanti i regali agli oltre 50
ospiti di Roma.
3.2 E l'interesse perseguito dalla ricorrente è certamente
meritevole di tutela, in quanto personale e concreto, non
emulativo né riconducibile a mera curiosità, né finalizzato
ad un generale controllo di legalità sull'azione
amministrativa, bensì strettamente legato alle sue funzioni
istituzionali e orientato al sindacato ispettivo di cui la
stessa è investita.
Invero, dalla lettura dei quotidiani è emerso che i delegati
italiani "si sono accapigliati" per i doni dei
sovrani sauditi, ovvero: i) cronografi dal valore di circa
3.000/4.000 euro; ii) Rolex da decine di migliaia di euro;
emergerebbe l’ipotesi di una violazione delle regole di
condotta da tenere nel corso di un cerimoniale e in
particolare l'ordine delle precedenze da osservare tra le
cariche pubbliche.
Poiché il regolamento del Senato attribuisce ai Questori il
compito di sovrintendere al cerimoniale, l'odierna esponente
ha un interesse diretto, concreto e attuale a richiedere
l'accesso agli atti per verificare se nel caso in questione
ci siano state effettivamente delle violazioni alle
prescrizioni protocollari relative al cerimoniale.
3.3 D’altra parte, la possibilità per gli organi
parlamentari di ricorrere a strumenti specifici d’indagine,
peraltro attribuiti all’organo collegiale, non esclude la
legittimazione del singolo al generale istituto
dell’accesso, nel ricorso dei presupposti sopra precisati.
Sul punto, giova rammentare anche un precedente parere
favorevole della Commissione per l’accesso (18.03.2014),
formulato su un’analoga richiesta avanzata dalla medesima
ricorrente nella sua funzione di Senatore Questore" e "rivolta
ufficialmente all'amministrazione …. nell’esercizio
dell'attività di sindacato ispettivo".
Contrariamente a quanto ritenuto nell’odierno caso, la
Commissione affermava l'applicabilità del "principio di
cui all'art. 22, comma 5, della legge n. 241 del 1990, in
forza del quale l'acquisizione dei documenti amministrativi
da parte di soggetti pubblici, si informa al principio di
leale cooperazione istituzionale” e che “Tale
principio, naturalmente, va inteso come un'accessibilità
maggiore rispetto a quella prevista dalla l. 241/1990”.
4. Alla luce delle esposte considerazioni, deve concludersi
che il diniego di accesso opposto ai documenti in questione
è illegittimo e pertanto, in accoglimento dei primi due
motivi di ricorso, va annullato, mentre deve essere
consentita alla ricorrente la visione dei documenti indicati
in motivazione. |
APPALTI SERVIZI: Nuova
gara tutta nuova. Il gestore uscente non può partecipare.
SERVIZI/ Una sentenza del Tribunale
amministrativo di Palermo.
In base al principio di rotazione, il gestore uscente del
servizio non può partecipare alla nuova gara d'appalto
affidata con procedura negoziata.
Lo ha affermato il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, con la
sentenza
27.07.2016 n. 1916.
Il collegio ha adottato una linea più rigorosa rispetto ad
altro filone giurisprudenziale che invece non chiude la
porta a tale possibilità. I giudici amministrativi hanno
accolto l'impostazione del ricorrente secondo cui
l'Amministrazione resistente non avrebbe potuto invitare
alla gara il precedente gestore del servizio né, tanto meno,
aggiudicare allo stesso il relativo appalto.
Il ragionamento dell'organo giudiziario è improntato alla
valorizzazione del principio di rotazione, contenuto
nell'art. 57, comma 6, codice dei contratti del 2006,
soprattutto in caso di un limitato numero di ditte che
partecipano alla selezione. Tale principio, si legge nella
sentenza, «costituisce una sorta di bilanciamento alla
possibilità di esperire una procedura negoziata, senza
previa pubblicazione di un bando, prevista dal medesimo art.
57».
Così, il principio da cui deriva la prescrizione della
rotazione -che si affianca a quello di trasparenza e di
parità di trattamento- «non è banale o secondario, e
costituisce la garanzia minima affinché possa essere
ritenuta compatibile con le regole di trasparenza e
concorrenzialità, che presidiano il settore degli appalti
pubblici, una procedura (quella negoziata) che, in sé,
contiene significative deroghe all'ordinario criterio di
aggiudicazione degli appalti»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato, per le ragioni che verranno
esplicitate.
Il collegio è consapevole che parte della giurisprudenza che
si è pronunziata sul comma 6° dell’art. 57 del D.Lgs. n.
163/2006 –puntualmente richiamata dai resistenti– tende a
ridurre il peso del precetto ivi contenuto, ritenendo che, a
fronte di una trasparente gestione della gara, non possa
ritenersi preclusa la possibilità di aggiudicare l’appalto
al precedente gestore del servizio che ne costituisce
l’oggetto.
Ritiene tuttavia che la disposizione in esame vada
interpretata in modo più rigoroso e che, comunque, la
specifica vicenda per cui è causa difficilmente possa essere
ricondotta ai principi dettati dalla giurisprudenza
richiamata dai resistenti.
Ritiene invero il collegio che il principio di rotazione,
contenuto al comma 6° dell’art. 57 del D.Lgs. n. 163/2006,
ed espressamente riportato nella lettera di invito invita
dall’amministrazione resistente per la gara in questione,
costituisca una sorta di bilanciamento alla possibilità di
esperire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione
di un bando, prevista dal medesimo art. 57.
Conseguentemente il principio da cui deriva la prescrizione
della “rotazione” non è banale o secondario, e
costituisce la garanzia minima affinché possa essere
ritenuta compatibile con le regole di trasparenza e
concorrenzialità, che presidiano il settore degli appalti
pubblici, una procedura che, in sé, contiene significative
deroghe all’ordinario criterio di aggiudicazione degli
appalti.
Anche dalla piana lettura della norma che viene in rilievo
emerge che il principio di rotazione si affianca a quello di
trasparenza e di parità di trattamento, e non può essere
eluso per il rispetto degli altri concorrenti principi che
devono essere seguiti nella procedura che viene in rilievo.
Peraltro nella vicenda per cui è causa il principio della
rotazione assume un valore ancor più pregnante a fronte del
limitato numero di ditte che hanno preso parte alla
selezione per cui è causa; pertanto, anche a voler seguire i
più permissivi principi a cui si ispira la giurisprudenza
invocata dai resistenti, difficilmente potrebbero essere
ritenute rispettate le garanzie minime previste dalle norme
di legge in materia.
Né la circostanza che l’avviso per l’individuazione delle
ditte interessate sia stato pubblicato sull’albo pretorio
costituisce motivo sufficiente per derogare al principio
della “rotazione”, normativamente prescritto, sia per
la limitata efficacia dello specifico strumento di
pubblicità utilizzato, sia in quanto, al successivo momento
dell’invio dell’invito alle ditte che avevano manifestato
interesse a partecipare alla gara -momento decisivo per la
valutazione dell’incidenza del principio di rotazione-
l’amministrazione avrebbe dovuto considerare che il loro
esiguo numero non era idoneo a consentire il pieno rispetto
alle garanzie di legge.
Alla luce di quanto precisato il ricorso deve essere accolto
e, per l’effetto, annullati i provvedimenti impugnati. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In tema di impugnazione di fonti normative secondarie, la
giurisprudenza amministrativa distingue due categorie di
atti regolamentari: gli atti regolamentari denominati “volizioni
preliminari” e quelli c.d. “volizione-azione”.
I regolamenti e gli atti generali
dell’Amministrazione sono impugnabili in via diretta solo in
presenza di disposizioni che ledano in via immediata le
posizioni soggettive dei destinatari, mentre negli altri
casi l’interesse a ricorrere si radica solo in presenza di
atti applicativi, e non in base a potenzialità lesive solo
ipotetiche o future.
In altre
parole, i vizi degli atti amministrativi generali risultano
immediatamente contestabili solo quando di per sé preclusivi
del soddisfacimento dell’interesse protetto, mentre
altrimenti sono deducibili come fonte di illegittimità
derivata dell’atto consequenziale, quando sia quest’ultimo a
venire impugnato –con l’atto presupposto- in quanto
concretamente lesivo.
---------------
In tema di impugnazione di fonti normative secondarie, la
giurisprudenza amministrativa
distingue due categorie di atti regolamentari.
Da un lato gli atti contenenti solo “volizioni preliminari”,
cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonei a produrre una
immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari;
detta tipologia di regolamenti andrà impugnata
necessariamente assieme ai relativi atti applicativi (cd.
tecnica della doppia impugnazione).
Dall’altro, gli atti regolamentari denominati “volizione-azione”, i quali contengono, almeno in parte, previsioni
destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali,
capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera
giuridica dei destinatari; gli stessi devono essere gravati
immediatamente, a prescindere dalla adozione di atti
applicativi.
Sul punto, si distingue i “… regolamenti c.d. volizioni
preliminari, che, caratterizzati da requisiti di generalità
e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e
programmatiche, che non si traducono in una immediata
incisione della sfera giuridica del destinatario, a nulla
rilevando che ciò possa accadere in futuro, e i regolamenti
c.d. volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte,
previsioni destinate alla immediata applicazione, in quanto
capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera
giuridica del destinatario. …”.
La distinzione è strumentale all’affermazione della operatività della regola della
immediata impugnazione unicamente nella seconda ipotesi
(regolamento volizione-azione), dovendosi nel primo caso
(regolamento volizione preliminare) far ricorso alla tecnica
della cd. doppia impugnazione congiunta di regolamento ed
atto applicativo lesivo.
In tal senso è stato ancora affermato: “I regolamenti possono essere autonomamente e
immediatamente impugnati solo quando contengano disposizioni
suscettibili di arrecare, in via diretta ed immediata,
un’effettiva e attuale lesione dell’interesse di un
determinato soggetto (c.d. regolamenti costituenti
“volizioni-azioni”), mentre se il pregiudizio è conseguenza
dell’atto di applicazione concreta, il regolamento deve
essere impugnato congiuntamente ad esso (c.d. regolamento
costituente “volizione preliminare”).”.
---------------
È stata infatti impugnata una norma della NN.TT.AA. al PUG
del Comune di Troia avente natura regolamentare, ma di per
sé priva di una autonoma e diretta capacità lesiva della
posizione giuridico soggettiva della ricorrente.
Come è noto, secondo Cons. Stato, Sez. V, 24.03.2014, n.
1448, “…I regolamenti e gli atti generali
dell’Amministrazione, infatti, sono impugnabili in via
diretta solo in presenza di disposizioni che ledano in via
immediata le posizioni soggettive dei destinatari, mentre
negli altri casi l’interesse a ricorrere si radica solo in
presenza di atti applicativi, e non in base a potenzialità
lesive solo ipotetiche o future (C.d.S., Sez. VI, 27.12.2010, n. 9406;
06.09.2010, n. 6463). In altre
parole, i vizi degli atti amministrativi generali risultano
immediatamente contestabili solo quando di per sé preclusivi
del soddisfacimento dell’interesse protetto, mentre
altrimenti sono deducibili come fonte di illegittimità
derivata dell’atto consequenziale, quando sia quest’ultimo a
venire impugnato –con l’atto presupposto- in quanto
concretamente lesivo (C.d.S., Sez. I, 07.06.2010, n.
3041). …”.
In tema di impugnazione di fonti normative secondarie, la
giurisprudenza amministrativa (cfr. ex plurimis TAR
Toscana, Firenze, Sez. III, 15.05.2013, n. 802)
distingue due categorie di atti regolamentari.
Da un lato gli atti contenenti solo “volizioni preliminari”,
cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonei a produrre una
immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari;
detta tipologia di regolamenti andrà impugnata
necessariamente assieme ai relativi atti applicativi (cd.
tecnica della doppia impugnazione).
Dall’altro, gli atti regolamentari denominati “volizione-azione”, i quali contengono, almeno in parte, previsioni
destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali,
capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera
giuridica dei destinatari; gli stessi devono essere gravati
immediatamente, a prescindere dalla adozione di atti
applicativi.
Sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 14.02.2005, n. 450
parimenti distingue i “… regolamenti c.d. volizioni
preliminari, che, caratterizzati da requisiti di generalità
e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e
programmatiche, che non si traducono in una immediata
incisione della sfera giuridica del destinatario, a nulla
rilevando che ciò possa accadere in futuro, e i regolamenti
c.d. volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte,
previsioni destinate alla immediata applicazione, in quanto
capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera
giuridica del destinatario. …”.
La distinzione è strumentale all’affermazione, da parte del
Consiglio di Stato, della operatività della regola della
immediata impugnazione unicamente nella seconda ipotesi
(regolamento volizione-azione), dovendosi nel primo caso
(regolamento volizione preliminare) far ricorso alla tecnica
della cd. doppia impugnazione congiunta di regolamento ed
atto applicativo lesivo.
In tal senso anche TAR Emilia Romagna, Parma, 08.03.2006, n. 95: “I regolamenti possono essere autonomamente e
immediatamente impugnati solo quando contengano disposizioni
suscettibili di arrecare, in via diretta ed immediata,
un’effettiva e attuale lesione dell’interesse di un
determinato soggetto (c.d. regolamenti costituenti
“volizioni-azioni”), mentre se il pregiudizio è conseguenza
dell’atto di applicazione concreta, il regolamento deve
essere impugnato congiuntamente ad esso (c.d. regolamento
costituente “volizione preliminare”).”.
Nella fattispecie in esame è stata impugnata una norma
regolamentare in sé recante una previsione generale ed
astratta, priva di una lesività diretta ed immediata
rispetto all’insieme degli interessi di cui è titolare la
società H3G S.p.A. nell’ambito territoriale del Comune di
Troia.
In altri termini, non essendoci stato un puntuale e
specifico atto applicativo della norma impugnata -in tesi asseritamente qualificata come lesiva, ma in sé recante solo
una previsione generale ed astratta- l’impugnazione così
come introdotta risulta destituita di uno dei suoi
presupposti fondanti, in particolare dal punto di vista
della sussistenza di un effettivo interesse a ricorrere
concretamente leso.
Da tanto necessariamente consegue che l’impugnazione, così
come svolta, risulta inammissibile (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 27.07.2016 n. 988 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va richiamato il consolidato orientamento
giurisprudenziale ai sensi del quale le norme che
disciplinano l’azione avverso il silenzio (artt. 31 e 117,
c.p.a.) abilitano anche colui che è formalmente
controinteressato in un procedimento sanzionatorio
urbanistico, ad agire per porre rimedio all'inerzia
dell'amministrazione che deve curare l'interesse pubblico,
ove sia provato che l’amministrazione medesima ha trascurato
di compiere gli atti necessari per la tutela dell'interesse
pubblico e sussista, parallelamente, un interesse derivante
da una situazione di “contiguità abitativa”.
---------------
Giurisprudenza costante, inoltre, a fronte dell'istanza del
privato volta a far sì che l’amministrazione concluda un
procedimento sanzionatorio, di cui sia già stato emesso un
ordine demolitorio relativamente ad opere la cui abusività è
stata in precedenza acclarata, l'inerzia serbata
dall'Amministrazione è da qualificarsi illegittima e
rimuovibile attraverso la procedura del silenzio attivabile
da chi vi abbia interesse.
---------------
...
per l'accertamento
della illegittimità della inerzia del Comune di Bari nel
dare attuazione alla ingiunzione di demolizione del
18.11.2014 e del silenzio serbato sulle istanze del
04.12.2015 e del 05.01.2016;
-
nonché per la condanna del Comune a portare a compimento il
procedimento sanzionatorio dell’abuso edilizio.
...
4.- Il ricorso è fondato.
4.a.- Preliminarmente debbono essere respinte le eccezioni
di inammissibilità sollevate dalle controinteressate.
In proposito è sufficiente richiamare il consolidato
orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale le norme
che disciplinano l’azione avverso il silenzio (artt. 31 e
117, c.p.a.) abilitano anche colui che è formalmente
controinteressato in un procedimento sanzionatorio
urbanistico, ad agire per porre rimedio all'inerzia
dell'amministrazione che deve curare l'interesse pubblico,
ove sia provato che l’amministrazione medesima ha trascurato
di compiere gli atti necessari per la tutela dell'interesse
pubblico e sussista, parallelamente, un interesse derivante
da una situazione di “contiguità abitativa” (v. TAR
Sicilia–Palermo, sez. III, 09.10.2013, n. 1773; TAR
Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 28.01.2011, n. 59;
TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.01.2010, n. 48).
Sussiste, pertanto, l’interesse legittimo della odierna
ricorrente a che l'Amministrazione comunale, titolare del
potere urbanistico di repressione degli illeciti
urbanistici, lo eserciti compiutamente fino all'avvenuta
eliminazione dell'illecito, incidendo, la perdurante
inerzia, nell’esercizio del potere di vigilanza e
repressione dell'abusivismo edilizio.
4.b.- Per giurisprudenza costante, inoltre, a fronte
dell'istanza del privato volta a far sì che
l’amministrazione concluda un procedimento sanzionatorio, di
cui sia già stato emesso un ordine demolitorio relativamente
ad opere la cui abusività è stata in precedenza acclarata,
l'inerzia serbata dall'Amministrazione è da qualificarsi
illegittima e rimuovibile attraverso la procedura del
silenzio attivabile da chi vi abbia interesse (cfr. ex plurimis, Cons. di Stato, n. 986/2011 e TAR Abruzzo-L'Aquila, n. 370/2013).
E’ per questo che deve affermarsi la legittimazione e
l’interesse della ricorrente ad ottenere un pronunciamento
del Comune di Bari, in considerazione della sua qualità di
confinante con la proprietà delle controinteressate e,
quindi, danneggiata dalla permanenza delle opere
abusivamente realizzate.
4.c.- Nel caso di specie risultano, inoltre, integrati i
presupposti richiesti per la formazione del cosiddetto
silenzio-inadempimento o silenzio-rifiuto e cioè, sia
l’obbligo di provvedere da parte della P.A. in base al
disposto dell’art. 2 della legge n. 241/1990 e successive
modifiche, sia il protrarsi dell’inerzia
dell’amministrazione oltre il termine per provvedere,
nonostante la formale (e ripetuta) diffida intimata dal
soggetto interessato.
Accertata, quindi, l’illegittimità del silenzio serbato
dall’amministrazione sull’istanza oggetto di diffida, deve
essere affrontata la questione relativa alla fondatezza
della pretesa azionata dalla ricorrente (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 27.07.2016 n. 983 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso in esame, alcun provvedimento espresso è
stato assunto dal Comune riferito all’istanza di sanatoria.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 dispone che <<Sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende rifiutata>>.
Ne consegue che, al decorso del termine di sessanta giorni
per la conclusione del procedimento di accertamento di
conformità, senza che l’amministrazione abbia adottato un
provvedimento espresso, il legislatore riconnette
espressamente la formazione di un provvedimento tacito di
diniego dell’istanza di sanatoria.
---------------
...
per l'accertamento
della illegittimità della inerzia del Comune di Bari nel
dare attuazione alla ingiunzione di demolizione del
18.11.2014 e del silenzio serbato sulle istanze del
04.12.2015 e del 05.01.2016;
-
nonché per la condanna del Comune a portare a compimento il
procedimento sanzionatorio dell’abuso edilizio.
...
5.- Le controinteressate, richiamando la sentenza n.
323/2016, sostengono che la pronuncia di improcedibilità del
ricorso avverso l’ordinanza di demolizione, per avvenuta
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai
sensi dell’art. 36 D.P.R. 380/2001, abbia determinato:
“l’inefficacia del precedente ordine di demolizione(…);
l’obbligo dell’amministrazione di emettere un nuovo
provvedimento di reiezione o di accoglimento dell’istanza di
sanatoria; l’obbligo dell’amministrazione di adottare gli
ulteriori eventuali provvedimenti sanzionatori qualora il
comune verifichi (implicitamente o esplicitamente) che non
sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere
abusive” (pag. 6 memoria delle controinteressate del
21.06.2016).
Tale ricostruzione è smentita dal tenore letterale della
medesima sentenza, nella quale espressamente si afferma che
“il provvedimento di rigetto, espresso o tacito, determinerà
certamente la riespansione dell’efficacia dell’ordinanza di
demolizione”.
5.a.- Nel caso in esame, alcun provvedimento espresso è
stato assunto dal Comune riferito all’istanza di sanatoria.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 dispone che <<Sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende rifiutata>>.
Ne consegue che, al decorso del termine di sessanta giorni
per la conclusione del procedimento di accertamento di
conformità, senza che l’amministrazione abbia adottato un
provvedimento espresso, il legislatore riconnette
espressamente la formazione di un provvedimento tacito di
diniego dell’istanza di sanatoria.
5.b.- Né risulta ostativa, alla formazione del tacito
provvedimento di rigetto della sanatoria, la nota del
28.01.2016, con cui il Comune di Bari ha comunicato il
preavviso di rigetto della medesima istanza, concedendo
termine per osservazioni ed integrazioni documentali.
La riferita nota, oltre ad essere stata adottata
successivamente al decorso del termine di legge, decorrente
dalla presentazione dell’istanza di sanatoria, avvenuta in
data 06.08.2015, non è stata seguita da alcun provvedimento
successivo, tanto meno da uno definitivo espresso, che non è
risultato adottato neanche alla data della udienza camerale,
come confermato dalla difesa del Comune.
Deve escludersi, pertanto, che il protrarsi dell’istruttoria
–genericamente sostenuta dalle controinteressate e dalla
difesa dell’amministrazione -e dell’inerzia dell’ente
locale– ben oltre il termine di legge- siano ostativi
all’intervenuta formazione del provvedimento tacito di
rigetto.
5.c.- Nella fattispecie, dunque, atteso il decorso del
termine di sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza,
l’accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. 380/2001
deve intendersi rigettato.
Alla luce di quanto sopra esposto, deve affermarsi che alla
data di proposizione del presente ricorso si era comunque
formato il silenzio-rigetto sull’istanza di permesso di
costruire in sanatoria presentata dalle sigg.re Se.–Di Sa., ai sensi del suddetto art. 36 del D.P.R. n. 380
del 2001, al Comune di Bari in data 06.08.2015.
5.d.- Ne consegue che deve riconoscersi sussistente
l’obbligo del Comune di Bari addivenire alla conclusione del
procedimento sanzionatorio, nei modi disciplinati dalle
previsioni del D.P.R. 380/2001, confacenti all’abuso di cui
alla citata ordinanza di demolizione n. 2014/01330 -
2014/130/00353 del 18.11.2014, nel termine di novanta
giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via
amministrativa della presente sentenza, con avvertenza che,
in caso di ulteriore inadempimento, si procederà, su istanza
di parte, alla nomina di un Commissario ad acta, con
aggravio di spese per l'Ente (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 27.07.2016 n. 983 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’impresa non «perde» la gara. Decisivi i
versamenti tardivi della Pa - Non c’è errore grave
nell’attività.
Consiglio di Stato. Illegittima l’esclusione da un appalto
per non aver pagato i dipendenti se non c’è colpa.
L’impresa affidataria che paga in
ritardo i dipendenti non può essere esclusa dall’appalto se
il ritardo è stato causato dalla stessa stazione appaltante.
In questo caso, infatti, la Pa non può contestarle alcun
«errore grave nell’esercizio dell'attività professionale»,
né paradossalmente provarlo per il solo fatto di essersi
sostituita alla ditta pagando gli arretrati direttamente ai
lavoratori poiché questa procedura -prevista dal Regolamento
del Codice appalti (articolo 5, Dpr 207/2010)- è solo una
forma di tutela per chi viene impiegato nelle gare
pubbliche.
A chiarirlo è il
Consiglio di Stato -sentenza
26.07.2016 n. 3375, V Sez.– dando ragione a una
società di vigilanza che, da gestore uscente di un servizio
di sorveglianza sugli immobili di un Comune, era stata
esclusa dalla nuova gara perché, in particolare, non era
ritenuta in regola col pagamento degli stipendi e quindi,
come riconosciuto in primo grado (Tar Bari 297/2016),
responsabile di una grave infrazione del rapporto di lavoro.
Ciò, però, non sulla base dei dati dell’Osservatorio Anac
come dettato dal Codice appalti (lettera e, comma 1,
articolo 38, Dlgs 163/2006), ma solo per l’attivato «intervento
sostitutivo» che consente alla Pa di by-passare gli
esecutori non paganti.
Per il collegio, poiché «la capacità finanziaria
dell’appaltatore è condizionata dalla puntualità dei
pagamenti da parte degli enti appaltanti» anche questi
ultimi, con le proprie decisioni, possono violare il
principio di buon andamento e imparzialità della Pa, facendo
perdere i «requisiti di ordine generale» richiesti
dal Codice appalti a concorrenti o affidatari di bandi
pubblici (articolo 38, Dlgs 163/2006).
Ne è un esempio il caso in esame: la Pa è stata «la causa
oggettiva dell’inadempimento dell’impresa» poiché, come
provato dagli atti comunali, aveva iniziato a pagare la
ricorrente in ritardo «o in concomitanza o in tempo poco
anteriore» alla nuova gara, nonostante fosse obbligata a
farlo entro il 10 del mese per consentirle di rispettare nel
giro di dieci giorni le note scadenze per il versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali e degli stipendi.
In questi casi poi la Pa non può escludere l’impresa uscente
nemmeno se i dipendenti hanno richiesto di pagargli
direttamente le somme non percepite detraendole dagli
importi contrattuali, poiché tale procedura «non è
funzionale» a dimostrare che ha commesso «grave
negligenza o malafede» o «errore grave»
nell’esercizio della professione come previsto dal Codice
appalti (lettera f, comma 1, articolo 38).
La caratteristica di questi motivi di esclusione è infatti
il «pregiudizio arrecato, a causa della negligenza o
dell’inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali,
alla fiducia che la stazione appaltante deve poter riporre
ex ante nell’impresa alla quale affidare un servizio di
interesse pubblico ed include, di conseguenza, presupposti
squisitamente soggettivi, incidenti sull’immagine della
stessa agli occhi della stazione appaltante» anche senza
l’accertamento penale.
Per provare questo danno è sufficiente la valutazione della
Pa, ma al giudice amministrativo spetta «un controllo ex
externo» per accertare «la mera pretestuosità del
giudizio di inaffidabilità dell’impresa» così come in
questo caso dove, non casualmente, i pagamenti erano stati
rispettati soltanto quando il Comune era stato puntuale o
quando Palazzo Spada li aveva “sbloccati” con
un’ordinanza cautelare (articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
2. Il Collegio ritiene che i ritardati
pagamenti delle retribuzioni da parte della stessa stazione
appaltante, implicano la possibilità per la stazione
appaltante di poter determinare con il proprio comportamento
la sussistenza di una ragione di esclusione, in contrasto
con il principio del buon andamento e dell’imparzialità
dell’azione amministrativa, tenuto conto che la capacità
finanziaria dell’appaltatore è condizionata dalla puntualità
dei pagamenti da parte degli Enti appaltante.
L’art. 12 del contratto di servizio tra Comune e Me.,
originaria affidataria del servizio, impone all’ente di
provvedere al pagamento delle prestazioni entro il 10 del
mese successivo, proprio per garantire a Me. di assolvere
gli obblighi di legge tempestivamente (entro il 16 pagamento
dei contributi previdenziali e assistenziali ed entro il 20
pagamento degli stipendi e dei salari).
Nel caso di specie, peraltro, il Comune ha iniziato a pagare
in ritardo in prossimità dell’indizione della gara, causando
proprio in relazione alla gara oggetto di questo giudizio un
ritardo di Me. nella corresponsione delle retribuzioni, come
risulta dalla documentazione fornita dall’appellante, non
specificamente confutata dalla parte controinteressata e
dallo schema riepilogativo dei pagamenti Comunali da gennaio
2014.
Da tale schema si evince, infatti, che i pagamenti sono
regolari fino a novembre 2015, quando cominciano a
manifestarsi i problemi con il Comune e vengono effettuate
le prime denunce ex art. 5 d.P.R. n. 207/2010, come si
evince dalla nota comunale del 13.02.2015).
Dallo stesso schema risulta evidente che i pagamenti ai
quali fa fronte Me. sono di importo maggiore rispetto a
quelli del Comune, con l’ovvia deduzione che Me., in caso di
ritardo nelle erogazioni comunali, subisce direttamente
conseguenze in ordine alla puntualità dei pagamenti verso i
propri dipendenti.
L’omesso pagamento da parte del Comune di oltre € 313.521,60
non poteva, dunque, che impedire la regolarità nel pagamento
delle retribuzioni, soprattutto considerato che tale ritardo
si è verificato o in concomitanza o in tempo poco anteriore
alla gara d’appalto per cui è causa.
Infatti, il Comune, dopo la predetta Ordinanza cautelare del
Consiglio di Stato 25.06.2015, n. 2860 ha sbloccato tutti i
pagamenti inevasi (cfr. nota prot. 16624 del 27.07.2015,
doc. 13 appellante), provvedendovi regolarmente, e l’appallante
ha potuto pagare gli stipendi regolarmente ai propri
dipendenti.
Nel caso in esame, inoltre, non vi è stato
alcun accertamento da parte del Comune circa l’inadempimento
dell’appellante, non essendo all’uopo sufficiente
l’attivazione della procedura di cui all’art. 5 d.P.R. n.
207/2010, che costituisce uno strumento di tutela dei
dipendenti dell’appaltatore, ma non è funzionale
all’accertamento ex art. 38, lett. f), del Codice degli
appalti.
Come ha già chiarito la Sezione (cfr., da ultimo, Consiglio
di Stato, sez. V, 28.09.2015, n. 4502),
l'elemento, che caratterizza la misura interdittiva di cui
all'art. 38, comma 1, lett. f), del Codice degli appalti è
il pregiudizio arrecato, a causa della negligenza o
dell'inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali,
alla fiducia che la stazione appaltante deve poter riporre
ex ante nell'impresa alla quale affidare un servizio
di interesse pubblico ed include, di conseguenza,
presupposti squisitamente soggettivi, incidenti
sull'immagine della stessa agli occhi della stazione
appaltante.
Ne consegue che, esclusa la natura sanzionatoria di detta
misura, l'ambito operativo prescinde dalla rilevanza penale
dei comportamenti ascritti e degli inadempimenti
contrattuali e dalla necessità di una sentenza penale di
condanna per i fatti contestati, venendo in rilievo
solamente la loro incidenza sull'elemento fiduciario che
connota i rapporti contrattuali con la Pubblica
amministrazione.
In questa prospettiva il requisito della grave negligenza e
malafede non presuppone il definitivo accertamento di tale
comportamento, essendo sufficiente la valutazione fatta
dalla stessa Amministrazione ed il giudice amministrativo,
nell'esame degli atti, non può rivalutare nel merito i fatti
già vagliati dall'Amministrazione nel provvedimento
impugnato, dovendosi limitare ad un controllo ex externo
onde accertare la mera pretestuosità del giudizio di
inaffidabilità dell'impresa.
Nel caso di specie, proprio le circostanze già evidenziate,
che inducono a ritenere che la stessa Stazione appaltante
sia stata la causa oggettiva dell’inadempimento
dell’impresa, implicano un giudizio di irragionevolezza
della valutazione di inadempimento compiuta
dall’Amministrazione in ordine ai fatti ascritti
all’appellante Me., con la conseguenza che la relativa
esclusione deve reputarsi illegittima, come già evidenziato
dalla citata Ordinanza cautelare di questo Consiglio di
Stato 25.06.2015, n. 2860.
2. La seconda esclusione dell’appellante Me. si basa su di
un certificato dell’Agenzia delle Entrate che rileva una
serie di debiti, oggetto di altrettante cartelle di
pagamento, a carico di Me. stessa.
Nessuna delle predette cartelle corrisponde, tuttavia a
debiti fiscali definitivamente accertati
Come è noto, nelle gare di appalto,
un’irregolarità contributiva può ritenersi definitivamente
accertata solo quando, alla data di scadenza del termine di
proposizione delle domande di partecipazione alla gara,
siano scaduti i termini per la contestazione
dell’infrazione, ovvero siano stati respinti i mezzi di
gravame proposti avverso la medesima
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.06.2011, n. 3912);
infatti, secondo la giurisprudenza formatasi in
materia comunitaria, il requisito della regolarità fiscale
può dirsi sussistente qualora, prima del decorso del termine
per la presentazione della domanda di partecipazione alla
gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata
accolta con l’adozione del relativo provvedimento
costitutivo
(Consiglio di Stato, Sez. V, 22.05.2015, n. 2570.
Pertanto, ai fini dell’integrazione del
requisito della regolarità fiscale di cui all’art. 38, comma
1, lettera g), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, non è sufficiente
che, entro il termine di presentazione dell’offerta, sia
stata presentata da parte del concorrente istanza di
rateazione del debito tributario, ma occorre invece che il
relativo procedimento si sia concluso con un provvedimento
favorevole. Deve pertanto ritenersi che non sia ammissibile
la partecipazione alla procedura di gara del soggetto che,
al momento della scadenza del termine di presentazione della
domanda di partecipazione, non abbia conseguito il
provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione
(cfr. Consiglio di Stato, Ad. Pl. 20.08.2013, n. 20).
Nel caso di specie, le Cartelle Es. n.
04320140008358341-36-bis – AI 2009 - € 29.259,96;
n.04320140008358341 – 36-bis – AI 2009 - € 578886,43 e
n.04320140008964558 – 36-BIS - AI 2010 pari a € 1.380.709,31
erano state oggetto di istanza di rateizzazione accordata da
Equitalia in data 4.9.2014 e successivamente impugnate
presso la Commissione Tributaria Provinciale di Foggia con
due distinti ricorsi depositati in data 18.08.2014 e
conclusisi con decisione del 10.6.2015 che ha visto
l’accoglimento dei ricorsi e l’annullamento degli atti
impugnati; la cartella Es. n. 043201400159151- 36-bis – AI
2010 - € 196.937,78 è stata oggetto di istanza di
rateizzazione concessa da Equitalia con provvedimento
dell’11.2.2015 in corso di pagamento e successivamente
impugnata dinanzi alla commissione Tributaria Provinciale di
Foggia e sospesa dal Giudice tributario.
Alla luce di quanto documentato è evidente che alla data del
20.04.2015, data di proposizione dell’offerta, l’appellante
Me. aveva già da tempo chiesto ed ottenuto la rateizzazione
dei pagamenti relativi alle posizioni debitorie predette e
che nei suoi confronti non poteva essersi realizzata alcuna
infrazione fiscale definitivamente accertata.
Ne deriva ulteriormente che non sussiste neppure l’ipotesi
di falsa dichiarazione ex lett. h) dell’art. 38 d.lgs. n.
163/2006, atteso che tale norma prevede l’esclusione se il
concorrente abbia reso falsa dichiarazione in sede di gara;
nel caso di specie, l’appellante Me. ha dimostrato di non
aver reso alcuna falsa dichiarazione in sede di gara e che
nessuna iscrizione potesse ritenersi a suo carico registrata
presso l’Osservatorio, posto che non esiste la violazione
definitivamente accertata da iscrivere.
4. Me. ha censurato anche la prima ragione di esclusione
relativa all’omessa dichiarazione di essere stata
destinataria di misura interdittiva antimafia.
In effetti risulta agli atti che l’appellante Me. è stata
destinataria di una interdittiva antimafia in data
06.03.2014 ma tale provvedimento prefettizio è stato
impugnato ed è stato dapprima sospeso cautelarmente
(ordinanza del Consiglio di Stato 06.11.2014, n. 5076) e poi
annullato definitivamente con sentenza del Consiglio di
Stato 23.04.2015, n. 2042.
Pertanto, al momento della redazione della dichiarazione da
parte del concorrente esso non aveva valore giuridico, in
quanto reso improduttivo di effetti, e, per ulteriore
conseguenza, nessun obbligo poteva incombere in capo alla
Me. in ordine alla dichiarazione dell’esistenza di tale
atto.
5. Quanto all’appello incidentale, nel quale l’appellante
Co. considera che il TAR avrebbe erroneamente ritenuta la
fondatezza di una delle censure avversarie che pur lo stesso
TAR ha dichiarato inammissibili, si può ora prescindere
dalla questione preliminare circa la correttezza dell’esame
del motivo nel merito, nonostante la pronuncia di
inammissibilità, atteso che il motivo sostanziale
corrisponde, in senso soltanto inverso, a quello riproposto
in appello dall’attuale appellante principale.
La questione riguarda l’omessa esclusione dell’appellante
incidentale Co. in seguito alla mancata dichiarazione in
gara circa l’esistenza di più risoluzioni di contratti
pubblici a suo carico per inadempimento e grave negligenza
contrattuale.
Come è noto, deve essere esclusa da una
gara pubblica l'impresa che non ha dichiarato di essere
stata destinataria, in passato, di un provvedimento di
risoluzione contrattuale adottato nei suoi confronti da
altra Pubblica amministrazione, atteso che l'art. 38 comma 1
lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 impone di dichiarare la
sussistenza di pregresse risoluzioni contrattuali a
prescindere dal fatto che la stazione appaltante sia la
stessa presso la quale si svolge il procedimento di scelta
del contraente od altra, giacché tale dichiarazione attiene
ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e
professionale che presiedono ai rapporti dei partecipanti
con la stazione appaltante
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 11.12.2014, n. 6105).
Peraltro, la falsa dichiarazione resa su un
dato sconosciuto alla P.A. impedisce il c.d. soccorso
istruttorio, anche nella versione post D.L. n. 90/2014,
posto che la dichiarazione contestata non può ritenersi
incompleta, ma contrastante con un dato reale.
Nel caso in esame, sussistono numerose pronunce di primo e
secondo grado del G.A. che hanno accertato la grave
negligenza di Co. nell’esecuzione dell’appalto.
In specifico, il Consiglio di Stato, con sentenza
15.06.2015, n. 2928 ha accertato la serietà
dell’inadempimento, la sua reiterazione nel tempo, la sua
incidenza sulle prestazioni di servizi che Co. avrebbe
dovuto effettuare.
Pertanto, l’appellante incidentale Co. doveva essere esclusa
dalla gara oggetto del presente giudizio, per intervenuto
accertamento definitivo in sede giurisdizionale (ex sentenza
citata del Consiglio di Stato n. 2928/2015)
dell’inadempimento contrattuale della stessa aggiudicataria
con riferimento al contratto con la società Na.Ho.,
inadempimento rilevante ai fini di cui all’art. 38, comma 1,
lett. f), d.lgs. n. 163/2006 e mai dichiarato dalla società
aggiudicataria in violazione dell’obbligo di chiarezza e di
veridicità, sanzionato con l’esclusione, per la quale
inosservanza non è possibile far ricorso all’istituto del
soccorso istruttorio (cfr. Cons. Stato n. 3950/2015; Cons.
Stato n. 4870/2015).
Sotto questo aspetto, deve essere rilevato che già nel
ricorso introduttivo di primo grado, parte appellante
eccepiva l’esistenza di un’iscrizione ANAC a carico
dell’appellata Co. della quale la commissione non aveva
ritenuto rilevante tener conto e rispetto alla quale non era
stato fornito accesso agli atti nonostante l’istanza Me..
Pertanto, le argomentazioni sviluppate nei motivi aggiunti
di primo grado in data 19.06.2015, ben lungi dal
configurarsi quali motivi di ricorso tardivi, come invece
eccepisce Cosmopol, costituiscono uno sviluppo ed una
precisazione di motivi di censura già sufficientemente
dettagliati nel ricorso di primo grado e si limitano a
specificare che l’appellata Co. non era stata esclusa dalla
gara nonostante il grave inadempimento contrattuale occorso
presso ANM di Napoli.
A tali motivi aggiunti di primo grado era stata allegata la
sentenza del Consiglio di Stato 15.06.2015, n. 2928 che
aveva accertato definitivamente che Co. era soggetto già
escluso legittimamente da una precedente gara per aver
assunto una condotta gravemente inadempiente, fornendo così
la prova decisiva a sostegno di una deduzione già facilmente
ricavabile dal contenuto, come detto, nel ricorso
introduttivi di primo grado.
Pertanto, l’appello incidentale su tale profilo è infondato
e, come tale, deve essere respinto, mentre deve essere
accolto lo speculare motivo di ricorso, reiterato in appello
dall’appellante principale.
Le ulteriori deduzioni contenute nell’atto di appello (che
reitera i motivi di ricorso contenuti nei motivi aggiunti di
primo grado) possono essere assorbite, per evidenti ragioni
connesse alla satisfattività del motivo accolto in questa
sede.
6. La domanda risarcitoria, peraltro, non dimostrata in
specifico, non può essere accolta, atteso che, per effetto
della presente sentenza, trattandosi di gara con soli due
concorrenti, l’appellante Me. consegue direttamene il bene
della vita cui aspira. |
PUBBLICO IMPIEGO: Sull'onorario
spazio ai contratti collettivi.
Le c.d. «propine» fanno parte della retribuzione
dell'avvocato dipendente pubblico e la loro determinazione è
rimessa esclusivamente alla contrattazione collettiva, non a
norme regolamentari.
Questo è quanto ha stabilito il TAR Liguria, Sez. II, con la
sentenza 26.07.2016 n. 847.
I dipendenti della regione
Liguria, avvocati regionali, avevano impugnato la delibera
avente ad oggetto disposizioni per la disciplina del
pagamento dei compensi professionali ai legali dipendenti
della giunta regionale. In particolare i dipendenti avevano
chiesto l'annullamento della norma regolamentare nella parte
in cui prevedeva di devolvere solo in parte le somme
recuperate al pagamento degli onorari degli avvocati.
Tale
disposizione contrastava con l'art. 9 del dl 90/2014 in quanto
tale norma non contempla la possibilità di devolvere solo in
parte le somme che, al contrario, dovrebbero essere devolute
per intero.
Il Tar Liguria accoglie il ricorso.
L'ordinamento e la disciplina del personale delle Regioni è
attribuito alla loro competenza legislativa esclusiva. Per
questo motivo una legge statale non può disciplinare in
maniera imperativa il rapporto di lavoro del personale delle
Regioni, né potrà autorizzare una fonte secondaria, quale il
regolamento, a disciplinare in via imperativa il rapporto di
lavoro del personale regionale.
Detto ciò i giudici
amministrativi rilevano che le cd «propine» facciano parte
della retribuzione dell'avvocato dipendente pubblico e non
costituiscano trattamento incentivante. Ciò comporta che la
relativa indicazione potrà essere determinata solo dalla
contrattazione collettiva.
A tal riguardo né l'art. 27 Ccnl
14/08/2000 né l'art. 37 del successivo Ccnl 23/12/1999
legittimano la decurtazione dei compensi dovuti agli
avvocati dipendenti. Infatti la prima norma nel prevedere
per l'intero l'attribuzione dei compensi professionali per
il caso di sentenza favorevole, rinvia alla contrattazione
decentrata integrativa la determinazione della correlazione
tra i compensi professionali a retribuzione di risultato.
La
seconda norma, invece, nel prevedere l'integrale
corresponsione nel caso di sentenza favorevole dei compensi
professionali legittima esclusivamente l'esclusione totale o
parziale dei dirigenti dalla retribuzione di risultato
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016). |
TRIBUTI:
Rifiuti, alberghi come case. Ctp Taranto.
I giudici di merito non si allineano alla tesi della
Cassazione sulla determinazione delle tariffe della tassa
rifiuti e non operano alcuna distinzione tra camere
d'albergo e abitazioni. Non c'è nulla che giustifichi un
diverso trattamento fiscale tra le due categorie di
immobili. Quindi, sono illegittime le tariffe degli alberghi
che i comuni hanno fissato in misura più elevata rispetto
agli immobili destinati a abitazione.
In questo senso si è espressa anche la commissione
tributaria provinciale di Taranto, I Sez., con la
sentenza 21.07.2016 n. 1791.
Per la commissione provinciale, che richiama una recente
pronuncia della commissione regionale della Puglia, «il dato
di comune esperienza supposto dalla Cassazione è, in realtà,
opinabile», poiché da una attenta lettura dell'articolo 68
del decreto legislativo 507/1993 «emerge,
inequivocabilmente, che il legislatore ha voluto assimilare,
in via di massima, gli alberghi alle abitazioni».
In realtà la posizione della Cassazione, alla quale anche i
giudici di merito si dovrebbero uniformare, è chiara da
tempo. Con la sentenza 16972/2015 ha stabilito che va
differenziata anche la tariffa per l'attività di B&B svolta
in una civile abitazione, rispetto alla tariffa abitativa
ordinaria. Ha però precisato che i B&B non sono assimilabili
agli alberghi, atteso che svolgono attività ricettiva in
maniera occasionale e in forma non imprenditoriale.
Tuttavia, con la sentenza sopra citata i giudici di
legittimità hanno confermato l'orientamento consolidato che
impone di differenziare sempre le tariffe per utenze
domestiche e non domestiche, e quindi quelle degli alberghi
da quelle delle abitazioni. Hanno sempre affermato il
principio secondo cui i comuni hanno il potere-dovere di
fissare le tariffe più elevate per gli alberghi rispetto a
quelle delle abitazioni.
Secondo la Cassazione (sentenza
302/2010) la maggiore capacità produttiva di un esercizio
alberghiero rispetto a una civile abitazione costituisce un
dato di comune esperienza
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il balcone aggettante, avente funzione
architettonica o decorativa, può essere compreso nel computo
delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano lo
preveda.
---------------
3. Con il primo ed unico motivo di doglianza, viene dedotta
violazione dell’art. 9, comma 1, del DM n. 1444/1968,
dell’art. 30 delle NTA del PRG e dell’art. 60 del
Regolamento Edilizio Comunale, poiché i nuovi balconi sul
lato Nord (di superficie raddoppiata rispetto ai precedenti)
presentano caratteristiche costruttive e architettoniche
tali da doversi computare nel calcolo della distanza dai
confini, attualmente di mt. 3,11 rispetto al minimo di mt.
5.
La censura è infondata.
Esaminando la documentazione fotografica che mostra i
balconi in questione praticamente ultimati anche nelle
finiture, l’odierno Collegio ritiene che, per quanto
ampliati rispetto ai precedenti, abbiano comunque conservato
le medesime caratteristiche strutturali e architettoniche
che avevano escluso, nell’ambito del precedente contenzioso,
la loro computabilità nel regime delle distanze.
Va quindi ribadito, anche in questo caso, che il balcone
aggettante, avente funzione architettonica o decorativa, può
essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in
cui una norma di piano lo preveda; norma che non sussiste
nella vicenda in esame (cfr. Cons. Stato Sez. VI, n.
11/2015; TAR Marche, n. 941/2013 e giurisprudenza ivi
richiamata).
4. Conclusivamente il ricorso va in parte dichiarato
inammissibile e in parte respinto perché infondato (TAR
Marche,
sentenza 19.07.2016 n. 437 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Parte
civile, il legale non paga. Mancata costituzione neutra se
non c'è pregiudizio. Sentenza della Cassazione interviene su
un caso di responsabilità professionale.
Nel caso in cui non vi sia pregiudizio per l'assistito,
l'avvocato non sarà responsabile della mancata costituzione
di parte civile.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez.
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza
18.07.2016 n. 14644.
Tizio conveniva in giudizio l'avvocato Caio, e ne chiedeva
la condanna al risarcimento del danno (nella misura di euro
250.000,00) per responsabilità professionale, conseguente
alla mancata reiterazione, da parte dello stesso avvocato,
della richiesta di costituzione di parte civile in favore di
Tizio in un procedimento penale dinanzi alla Pretura,
costituzione che era stata dichiarata inammissibile.
L'avvocato Caio proponeva a sua volta domanda
riconvenzionale ex art. 96 cpc primo comma chiedendo il
risarcimento del danno all'immagine.
La sentenza di primo grado rigettava le domande di entrambe
le parti.
La Corte d'appello rigettava la domanda del ricorrente,
concordando con il Tribunale laddove questo aveva escluso la
sussistenza del nesso causale tra la condotta dell'avvocato
e i danni che sarebbero derivati alla parte lesa dalla
impossibilità di agire, in sede penale, per il loro
risarcimento stante la possibilità, per la parte lesa dal
reato, di ottenere il medesimo risultato attraverso
l'esperimento dell'azione risarcitoria dinanzi al giudice
civile.
Veniva accolta, invece, la riconvenzionale dell'avvocato
Caio, ritenendo l'azione proposta non solo temeraria ma
anche foriera di danni per il professionista, condannando
Tizio a corrispondergli l'importo di euro 10 mila a titolo
di risarcimento del danno
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Paletti ai permessi in sanatoria. Interventi solo
se conformi alla disciplina urbanistica.
Lo hanno ribadito in una sentenza i giudici della
sesta sezione del Consiglio di stato.
Il permesso in sanatoria ex art. 36 del dpr n. 380 del 2001
è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica e edilizia vigente al
momento sia della realizzazione del manufatto e sia della
presentazione della domanda.
Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza
18.07.2016 n. 3194.
I supremi giudici amministrativi hanno, altresì, evidenziato
come inoltre la cosiddetta «sanatoria giurisprudenziale»
vada a generare un atto atipico con effetti provvedimentali
e tale atto va a collocarsi al di fuori di qualsiasi
previsione normativa e che pertanto non può assolutamente
ritenersi ammesso nel nostro ordinamento.
Infatti, lo stesso ordinamento è contrassegnato dal
principio di legalità dell'azione amministrativa e dal
carattere tipico dei poteri esercitati dall'amministrazione,
alla stregua del principio di nominatività, poteri che non
possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere
di attribuzioni riservate all'amministrazione.
E inoltre, a favore della incompatibilità tra la cosiddetta
«sanatoria giurisprudenziale» e il dettato normativo di cui
all'art. 36 del T.u. n. 380 del 2001 secondo i giudici è
possibile trovare adeguato riscontro in argomenti
interpretativi letterali e logico-sistematici, oltre che
attinenti ai lavori preparatori.
Anche se lo stesso Consiglio di stato, adunanza generale,
sezione atti normativi, 29.03.2001, protocollo n.
52/2001, segnala come «in via generale va sottolineato come
l'accertamento di conformità sia ancora riferito, come
prevedeva l'originaria disposizione dell'art. 13 della lr
47/1985, alla sola concessione, mentre, dopo l'evoluzione
normativa successiva alla legge n. 47, esso deve essere
esteso anche alla denuncia d'inizio attività. Si rileva
inoltre che, pur non potendosi, in astratto, contestare la
necessità del duplice accertamento di conformità, nella
prassi l'applicazione del principio viene disattesa,
ritenendosi illogico ordinare la demolizione di un quid che,
allo stato attuale, risulta conforme alla disciplina
urbanistica vigente e che pertanto, potrebbe ottenere, a
demolizione avvenuta, una nuova concessione».
Nella stessa sentenza in commento, poi, i giudici di palazzo
Spada hanno osservato come in caso di provvedimento
plurimotivato il rigetto della doglianza tesa a contestare
una delle ragioni giustificatrici dell'atto lesivo comporta
la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame
delle censure ulteriori volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici dell'atto medesimo, atteso che, seppur tali
ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro
accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente a ottenere l'annullamento del
provvedimento lesivo, che resterebbe supportato
dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente e legittimo
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il
giudice può adeguare l'onorario. Discrepanze nella parcella
dell'avvocato.
Nel caso in cui il valore della causa risulti essere
manifestamente diverso da quello indicato dal codice di
procedura civile, il giudice avrà un generale potere
discrezionale per adeguare la misura dell'onorario
all'effettiva importanza della prestazione.
Lo hanno affermato i giudici della II Sez. sezione civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
15.07.2016 n. 14539.
Il thema decidendum prendeva le mosse da un ricorso al
tribunale col quale l'avvocato Tizio chiedeva ingiungersi al
«Consorzio Alfa» il pagamento di una somma di denaro oltre
interessi maturati e maturandi e spese della procedura monitoria.
Esponeva che aveva svolto attività professionale su incarico
e per conto del «Consorzio» nel giudizio che il
«Raggruppamento Beta» spa aveva intrapreso nei confronti
dello stesso «Consorzio» onde ottenerne la condanna al
risarcimento di asseriti danni quantificati; che, benché
sollecitata, controparte non aveva provveduto al pagamento
delle spettanze.
Il «Consorzio» proponeva opposizione.
Costituitosi, il ricorrente invocava a sua volta il rigetto
dell'opposizione.
Rappresentava che a fronte di una richiesta di risarcimento
danni il «Consorzio» era rimasto soccombente per la minor
somma.
Disposta la trasformazione del rito, con ordinanza il
tribunale revocava l'ingiunzione opposta; condannava
l'opponente a corrispondere la minor somma per diritti e per
onorari, oltre rimborso forfetario, Iva, cassa ed interessi;
compensava integralmente le spese del procedimento.
Osservava il tribunale che era da applicare l'art. 6 della
tariffa civile secondo il quale: «nella liquidazione degli
onorari a carico del cliente può aversi riguardo al valore
effettivo della controversia quando esso risulti
manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice
di procedura civile»; che invero nella fattispecie era
«manifesta la sproporzione tra il valore indicato nel petitum dell'atto di citazione introduttivo del giudizio
civile nel quale l'avvocato ha prestato la propria attività
professionale in favore del Consorzio (...) e il valore del
credito effettivamente liquidato dal Tribunale all'esito del
giudizio in favore della parte attrice»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
(a) le istanze di accesso riguardano
pratiche edilizie nelle quali il ricorrente ha,
rispettivamente, la qualifica di controinteressato
(sanatoria di abusi commessi dal proprietario confinante) e
la qualifica di destinatario (ordinanza di sospensione di
lavori abusivi propri).
In entrambi i casi il ricorrente è legittimato ad accedere
all’intera documentazione (tecnica e amministrativa) per
difendere i propri interessi sostanziali (tutela nei
confronti delle opere invasive del vicino; salvaguardia
delle opere eseguite nel proprio edificio);
(b) l’oggetto del diritto di accesso non è limitato ai
provvedimenti finali ma coinvolge tutti gli atti
endoprocedimentali, comunque denominati o classificati dagli
uffici comunali. Sono quindi compresi, a titolo
esemplificativo, gli accertamenti, le ispezioni, le
relazioni tecniche, le direttive e le comunicazioni tra
uffici, e anche gli atti non formati dall’amministrazione,
qualora siano utilizzati o nominati nel procedimento, come
gli esposti provenienti dai privati e le consulenze chieste
a professionisti esterni;
(c) nel rispetto dei principi generali fissati dall’art. 24, commi
6 e 7, della legge 07.08.1990 n. 241, la sottrazione
all’accesso deve essere giustificata dall’esigenza di
proteggere dati sensibili o interessi particolarmente
qualificati (epistolari, sanitari, professionali,
finanziari, industriali, commerciali).
L’attività repressiva degli abusi edilizi non interferisce
normalmente con dati o interessi di questo tipo, e dunque si
deve ritenere integralmente accessibile, fermo restando
l’obbligo di oscurare i punti della documentazione che
rivelino incidentalmente qualcuna delle predette
informazioni;
(d) le disposizioni dei regolamenti comunali sull’accesso che
stabiliscono limiti più rigorosi sono illegittime, e devono
essere disapplicate, in quanto contrastanti con l’obbligo di
trasparenza dell’amministrazione e con il diritto dei
privati ad acquisire ogni documento amministrativo in
relazione al quale venga dimostrato un interesse attuale;
(e) il fatto che sulle pratiche edilizie siano in corso indagini
penali non trasforma la natura dei documenti, e non
trasmette agli stessi un vincolo di segretezza. L’abuso
edilizio riguarda la realtà materiale dei lavori eseguiti e
non il riflesso di tali lavori riprodotto nella
documentazione amministrativa, la quale dunque rimane
pubblica e accessibile durante le indagini penali
esattamente come in origine.
Gli adempimenti in sede penale procedono in modo
indipendente, anche con un’autonoma valutazione degli atti
amministrativi, ma non ostacolano il diritto di difesa dei
privati nei confronti dell’amministrazione o dei terzi;
(f) nel caso in esame, oltretutto, l’accesso è stato negato (per
una parte della documentazione) anche dopo che la Procura
della Repubblica di Brescia aveva dato il proprio
nulla-osta, ossia quando non poteva più esservi alcun dubbio
sull’assenza di profili di riservatezza;
(g) l’istanza di accesso non può essere respinta per genericità
quando il privato non sia in grado di elencare puntualmente
i documenti di proprio interesse. Occorre tenere distinta
l’asimmetria informativa dall’accesso esplorativo. La parte
che dispone di minori informazioni, ossia il privato, ha
soltanto l’onere di chiarire (con una descrizione priva di
tecnicismi) l’oggetto sostanziale su cui intende raccogliere
le informazioni contenute nei documenti amministrativi.
Spetta poi alla parte che possiede le maggiori informazioni,
ossia agli uffici amministrativi, interpretare correttamente
e lealmente le indicazioni fornite dal privato, rendendo
agevole l’individuazione e l’acquisizione dei documenti
rilevanti;
(h) nello specifico, questa forma di collaborazione è mancata. Al
ricorrente è stato chiesto di precisare i documenti con un
dettaglio oggettivamente inesigibile, ed è stata imposta una
durata del procedimento di accesso irragionevole e del tutto
sproporzionata.
Anche l’interlocuzione con gli uffici è stata resa
difficile, a causa del ripetuto utilizzo della formula
dell’incompetenza dell’addetto allo sportello. Questo
comportamento contraddice uno dei principi dell’attuale
organizzazione amministrativa, ossia l’obbligo di mettere in
relazione i cittadini con un funzionario investito del
potere di rispondere direttamente alle istanze presentate.
---------------
...
per l'accesso agli atti richiesti con istanza pervenuta al Comune il 19.12.2015, e negati con provvedimento del segretario
generale, responsabile dell’Area Tecnico-Manutentiva, del 12.01.2016;
...
1. Il ricorrente Mi.Za. è proprietario di un edificio
residenziale situato nel Comune di Marone, in località
... (mappali n. 461-468-469-470/p-1415). Il fabbricato
confina (in parte in aderenza) con l’edificio residenziale
della controinteressata Ma.La.Za. (mappali n.
467-2870). I due edifici hanno una corte in comune (mappale
n. 466). L’area è classificata in zona A (Nuclei di antica
formazione).
2. Tra il ricorrente e la controinteressata sono insorte due
controversie civilistiche riguardanti, rispettivamente, la
mancata osservanza delle distanze legali (in un intervento
di ristrutturazione eseguito dalla controinteressata) e la
proprietà della corte comune.
3. In data 23.02.2015 il segretario generale, operando
come responsabile dell’Area Tecnico-Manutentiva, ha
rilasciato alla controinteressata un permesso di costruire
in sanatoria, relativo alle opere descritte nell’ordinanza
di demolizione n. 68/2014. Tali opere (realizzate sul
mappale n. 467) erano state segnalate come abusive dal
ricorrente, ed erano fino a poco tempo prima oggetto di un
tentativo di composizione bonaria tra il ricorrente, da un
lato, e la controinteressata e altri soggetti dall’altro.
4. Ritenendo che l’accertamento di conformità fosse in
contrasto con la disciplina urbanistica dei nuclei di antica
formazione, il ricorrente ha formulato istanza di accesso in
data 05.03.2015, chiedendo copia del permesso di costruire
in sanatoria, dell’ordinanza di demolizione n. 68/2014, e di
tutta la documentazione tecnica relativa a tali
provvedimenti.
5. Il segretario generale, con nota del 12.03.2015, ha
sospeso l’esame dell’istanza, rappresentando la necessità di
ottenere il nulla-osta dell’autorità giudiziaria, in quanto
era stata avviata un’indagine penale sugli abusi edilizi.
Contestualmente, il segretario generale ha invitato il
ricorrente a descrivere meglio gli atti richiesti, per poter
formulare la domanda di nulla-osta all’autorità giudiziaria.
6. Il ricorrente, tramite il tecnico di fiducia, ha
replicato, in data 02.04.2015, di non essere in grado di
descrivere gli atti senza averli prima potuti visionare. In
data 13.04.2015 il tecnico di fiducia del ricorrente ha
comunque fornito una descrizione più ampia degli atti che
verosimilmente potevano far parte della pratica della
sanatoria edilizia.
7. Un sollecito è stato inviato dal legale del ricorrente in
data 30.04.2015.
8. Il segretario generale ha chiesto il nulla-osta alla
Procura della Repubblica di Brescia con nota del 06.05.2015 (“chiede a codesta Autorità Giudiziaria di esprimere il
proprio parere circa l’opportunità e l’ammissibilità
giuridica [dell’accesso] a detti atti”).
9. Poco dopo, il Comune, con ordinanza del segretario
generale n. 30 del 30.07.2015, ha sospeso i lavori che
il ricorrente stava eseguendo all’interno e all’esterno
dell’edificio di proprietà. L’ordinanza fa riferimento alle
difformità dai titoli edilizi accertate dai funzionari
comunali nei sopralluoghi eseguiti nei mesi di marzo, aprile
e luglio 2015. Questa vicenda si è poi sviluppata con
l’adozione da parte del segretario generale dell’ordinanza
n. 35 del 04.09.2015, che ha ingiunto al ricorrente di
rimuovere le opere abusive. Contro l’ordine di demolizione
il ricorrente ha proposto impugnazione davanti al TAR
Brescia (ricorso n. 2411/2015).
10. In data 31.07.2015 il tecnico di fiducia del
ricorrente ha chiesto copia dell’ordinanza di sospensione n.
30/2015 e dei presupposti verbali di sopralluogo.
11. A fronte dell’inerzia degli uffici comunali, il legale
del ricorrente ha inviato un sollecito in data 25.08.2015. Il tecnico di fiducia ha reiterato l’istanza di
accesso in data 26.08.2015.
12. Il tecnico comunale, in una relazione del 02.09.2015 indirizzata al sindaco, si è dichiarato incompetente a
rilasciare copia di quanto richiesto, in mancanza di una
formale autorizzazione del segretario comunale.
13. Il segretario comunale, in data 08.09.2015, ha
chiesto il nulla-osta della Procura della Repubblica di
Brescia anche a proposito dell’istanza di accesso del 31.07.2015.
14. Dopo che la Procura ha concesso il nulla-osta
relativamente a questa seconda istanza di accesso (17.09.2015), il segretario generale, con nota del 25.09.2015, ha invitato il tecnico di fiducia del
ricorrente a ritirare la documentazione richiesta (verbali
di sopralluogo).
15. A questo punto, il legale del ricorrente, con nota del
28.09.2015, si è attivato direttamente presso la
Procura, chiedendo il nulla-osta anche per la prima istanza
di accesso, ossia quella formulata ancora il 05.03.2015,
riguardante la sanatoria degli abusi edilizi della controinteressata. La Procura, in data 20.10.2015, ha
concesso il nulla-osta, confermando inoltre quello già
rilasciato al Comune il 17.09.2015 per l’istanza di
accesso riguardante i presunti abusi del ricorrente.
16. Il tentativo del ricorrente di ottenere copia di quanto
richiesto è stato però frustrato dalle nuove resistenze del
tecnico comunale, il quale anche in data 22.10.2015 si
è dichiarato incompetente in mancanza di specifica
autorizzazione del segretario generale. L’unico atto autorizzativo disponibile era la citata nota del 25.09.2015, relativa alla seconda istanza di accesso (v.
relazione del tecnico comunale del 26.10.2015
indirizzata al sindaco). Il ricorrente si è però rifiutato
di prestare acquiescenza a un accesso parziale (v.
dichiarazioni verbalizzate dalla Polizia Locale il 22.10.2015).
17. Il legale del ricorrente ha quindi fatto pervenire
un’ulteriore diffida al Comune in data 19.12.2015.
18. Rispondendo alla diffida, il segretario generale, con
provvedimento del 12.01.2016, ha negato l’accesso,
affermando che “la richiesta avanzata riguarda atti endoprocedurali, in quanto trattasi di atti istruttori
interni di natura riservata”.
19. Il ricorrente ha quindi proposto l’azione di accesso ex
art. 116 cpa, con atto notificato il 16.02.2016 e
depositato il 24.02.2016.
20. Il Comune non si è costituito in giudizio. Si è invece
costituito personalmente il segretario generale, chiedendo
la reiezione del ricorso.
21. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) le istanze di accesso riguardano pratiche edilizie nelle
quali il ricorrente ha, rispettivamente, la qualifica di
controinteressato (sanatoria di abusi commessi dal
proprietario confinante) e la qualifica di destinatario
(ordinanza di sospensione di lavori abusivi propri).
In
entrambi i casi il ricorrente è legittimato ad accedere
all’intera documentazione (tecnica e amministrativa) per
difendere i propri interessi sostanziali (tutela nei
confronti delle opere invasive del vicino; salvaguardia
delle opere eseguite nel proprio edificio);
(b) l’oggetto del diritto di accesso non è limitato ai
provvedimenti finali ma coinvolge tutti gli atti
endoprocedimentali, comunque denominati o classificati dagli
uffici comunali. Sono quindi compresi, a titolo
esemplificativo, gli accertamenti, le ispezioni, le
relazioni tecniche, le direttive e le comunicazioni tra
uffici, e anche gli atti non formati dall’amministrazione,
qualora siano utilizzati o nominati nel procedimento, come
gli esposti provenienti dai privati e le consulenze chieste
a professionisti esterni;
(c) nel rispetto dei principi generali fissati dall’art. 24,
commi 6 e 7, della legge 07.08.1990 n. 241, la sottrazione
all’accesso deve essere giustificata dall’esigenza di
proteggere dati sensibili o interessi particolarmente
qualificati (epistolari, sanitari, professionali,
finanziari, industriali, commerciali).
L’attività repressiva
degli abusi edilizi non interferisce normalmente con dati o
interessi di questo tipo, e dunque si deve ritenere
integralmente accessibile, fermo restando l’obbligo di
oscurare i punti della documentazione che rivelino
incidentalmente qualcuna delle predette informazioni;
(d) le disposizioni dei regolamenti comunali sull’accesso
che stabiliscono limiti più rigorosi sono illegittime, e
devono essere disapplicate, in quanto contrastanti con
l’obbligo di trasparenza dell’amministrazione e con il
diritto dei privati ad acquisire ogni documento
amministrativo in relazione al quale venga dimostrato un
interesse attuale;
(e) il fatto che sulle pratiche edilizie siano in corso
indagini penali non trasforma la natura dei documenti, e non
trasmette agli stessi un vincolo di segretezza. L’abuso
edilizio riguarda la realtà materiale dei lavori eseguiti e
non il riflesso di tali lavori riprodotto nella
documentazione amministrativa, la quale dunque rimane
pubblica e accessibile durante le indagini penali
esattamente come in origine.
Gli adempimenti in sede penale
procedono in modo indipendente, anche con un’autonoma
valutazione degli atti amministrativi, ma non ostacolano il
diritto di difesa dei privati nei confronti
dell’amministrazione o dei terzi;
(f) nel caso in esame, oltretutto, l’accesso è stato negato
(per una parte della documentazione) anche dopo che la
Procura della Repubblica di Brescia aveva dato il proprio
nulla-osta, ossia quando non poteva più esservi alcun dubbio
sull’assenza di profili di riservatezza;
(g) l’istanza di accesso non può essere respinta per
genericità quando il privato non sia in grado di elencare
puntualmente i documenti di proprio interesse. Occorre
tenere distinta l’asimmetria informativa dall’accesso
esplorativo. La parte che dispone di minori informazioni,
ossia il privato, ha soltanto l’onere di chiarire (con una
descrizione priva di tecnicismi) l’oggetto sostanziale su
cui intende raccogliere le informazioni contenute nei
documenti amministrativi.
Spetta poi alla parte che possiede
le maggiori informazioni, ossia agli uffici amministrativi,
interpretare correttamente e lealmente le indicazioni
fornite dal privato, rendendo agevole l’individuazione e
l’acquisizione dei documenti rilevanti;
(h) nello specifico, questa forma di collaborazione è
mancata. Al ricorrente è stato chiesto di precisare i
documenti con un dettaglio oggettivamente inesigibile, ed è
stata imposta una durata del procedimento di accesso
irragionevole e del tutto sproporzionata.
Anche
l’interlocuzione con gli uffici è stata resa difficile, a
causa del ripetuto utilizzo della formula dell’incompetenza
dell’addetto allo sportello. Questo comportamento
contraddice uno dei principi dell’attuale organizzazione
amministrativa, ossia l’obbligo di mettere in relazione i
cittadini con un funzionario investito del potere di
rispondere direttamente alle istanze presentate.
22. In conclusione, il ricorso deve essere accolto.
23. La pronuncia comporta, da un lato, l’accertamento
dell’illegittimità del diniego opposto dal segretario
generale, e dall’altro la condanna del Comune alla consegna
di copia di tutta la documentazione relativa alle istanze di
accesso presentate dal ricorrente.
24. Per tale adempimento è fissato il termine di 20 giorni
dal deposito della presente sentenza. Preliminarmente, nel
termine di 10 giorni dal deposito della presente sentenza,
gli uffici comunali faranno pervenire al ricorrente una nota
con la quantificazione delle spese di riproduzione e
l’indicazione delle modalità di pagamento.
È facoltà del
ricorrente chiedere, entro 20 giorni dalla consegna della
documentazione, un appuntamento presso gli uffici comunali
per effettuare visure o approfondimenti, in particolare
sugli atti eventualmente citati in quelli consegnati in
copia.
25. Le spese seguono la soccombenza, e sono liquidate in €
2.500, oltre agli oneri di legge.
26. Il contributo unificato è a carico dell’amministrazione
ai sensi dell’art. 13 comma 6-bis.1 del DPR 30.05.2002
n. 115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 13.07.2016 n. 994 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Scuola
senza Imu solo se non ci guadagna su.
ISTITUTI RELIGIOSI/ Commissione tributaria Taranto.
I criteri previsti per l'Imu dal decreto ministeriale che
fissa i requisiti per gli enti non commerciali per fruire
dell'esenzione si applicano anche all'Ici. Tuttavia, al di
là del quantum richiesto per le rette scolastiche, un
istituto religioso che svolge attività didattica ha diritto
all'esenzione Ici, Imu e Tasi se le entrate servono solo a
coprire i costi di gestione e raggiungere il pareggio di
bilancio.
Per gli istituti religiosi che svolgono esclusivamente
attività di insegnamento, dunque, non ha alcuna rilevanza
accertare se la retta versata dagli alunni sia meramente
simbolica oppure copra le spese.
L'importante è che l'attività sia svolta senza fine di
lucro.
È quanto ha affermato la commissione tributaria provinciale
di Taranto, III Sez., con la sentenza 11.07.2016 n. 1679.
Secondo i giudici tributari, l'ente religioso possiede i
requisiti per lo svolgimento dell'attività didattica con
modalità non commerciali «così come interpretati anche dal
decreto del Mef n. 200/2012». Il pagamento di una retta da
parte degli alunni che frequentano i corsi scolastici «non
trasforma affatto l'attività da non commerciale a
commerciale, stante l'assenza di uno scopo di lucro». Le
entrate devono almeno coprire le spese per evitare che
l'attività sia in perdita.
Pertanto, ricorda la commissione, per gli istituti religiosi
che svolgono «esclusivamente attività di insegnamento e/o di
oratorio, non ha nemmeno alcuna rilevanza accertare se la
retta versata dagli alunni sia meramente simbolica oppure
copra le spese (personale, utenze...)».
La Cassazione (sentenza 14225/2015), invece, sulla questione
ha assunto una posizione diversa, sostenendo che le scuole
paritarie gestite da un ente ecclesiastico sono soggette al
pagamento dell'Ici, e quindi anche dell'Imu e della Tasi, se
gli utenti pagano un corrispettivo, nonostante le rette
richieste siano modeste e la gestione operi in perdita.
L'attività didattica non si può ritenere svolta in forma non
commerciale, ancorché si tratti di un ente religioso, poiché
non è a titolo gratuito. Per integrare il fine di lucro è
sufficiente che con i ricavi si tenda a perseguire il
pareggio di bilancio.
Per i giudici di piazza Cavour, l'attività didattica
esercitata dall'ente religioso rientra tra quelle esenti, ma
non è svolta in forma non commerciale. In realtà, se per la
scuola paritaria gli utenti pagano un corrispettivo, anche
qualora la gestione operi in perdita, l'agevolazione non può
essere riconosciuta. E per integrare il fine di lucro è
sufficiente l'idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a
perseguire il pareggio di bilancio.
Ha inoltre chiarito (sentenza 4342/2015) che le disposizioni
sull'Imu non sono applicabili all'Ici per l'esenzione degli
immobili posseduti dagli enti non commerciali. L'evoluzione
della norma che riconosce i benefici fiscali per una parte
dell'immobile, per esempio, non può avere effetti
retroattivi
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2016). |
APPALTI: Il
delegato dell'impresa fa conoscere l'esclusione. Sentenza
del Tar Campania.
Se un delegato dell'impresa che concorre a un appalto
presenzia alla seduta in cui viene esclusa l'impresa, i
termini per impugnare l'esclusione decorrono da quel
momento.
Lo afferma il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la
sentenza 08.07.2016 n. 3487 relativamente a una
gara per l'affidamento del servizio di manutenzione e
custodia del cimitero comunale.
L'affermazione del collegio campano poggia sul presupposto
che la presenza di un delegato dell'impresa concorrente
nella seduta in cui la commissione giudicatrice aveva deciso
l'esclusione comporta la piena conoscenza dell'atto lesivo
ai fini della decorrenza del termine di legge per
l'impugnazione, nel caso concreto la piena conoscenza
dell'atto di estromissione della ditta ricorrente era da
ricondurre all'08.03.2016, data in cui l'impresa aveva
presenziato alle operazioni di gara con un proprio
rappresentante il quale era stato direttamente informato
delle ragioni dell'espulsione e così messo in condizione di
contestarne il fondamento. Prova ne sia (della conoscenza)
che il giorno successivo era stata presentata anche la
richiesta di revoca del provvedimento.
I giudici non possono
quindi che respingere il ricorso contro l'esclusione
presentato il 6 giugno. Va segnalato che oggi il nuovo
codice dei contratti pubblici, all'articolo 204, comma 1,
lettera b), prescrive che il ricorso contro l'esclusione va
proposto nei trenta giorni decorrenti dalla pubblicazione
del provvedimento «sul profilo della stazione appaltante».
I
giudici hanno poi ritenuto inammissibile anche la censura
relativa alla posizione della ditta aggiudicataria di cui il
soggetto escluso (ricorrente) aveva eccepito la presunta
carenza di uno dei requisiti di partecipazione alla
selezione. In particolare era stato contestato nel ricorso
l'illegittima ammissione alla gara della ditta
aggiudicataria in quanto carente di idonea iscrizione
camerale (per la carenza dell'iscrizione per l'attività di
custodia cimiteriale).
In questo caso il Tar richiama un
consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui il
soggetto definitivamente escluso dalla gara non è
legittimato ad impugnare le ulteriori fasi della procedura
concorsuale perché versa in condizioni analoghe a chi ne è
rimasto estraneo
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2016).
---------------
MASSIMA
Ritenuto:
- che, per costante giurisprudenza (v., ex multis,
Cons. Stato, Sez. VI, 15.12.2014 n. 6156),
quanto alla decorrenza del termine decadenziale per
impugnare un atto di esclusione dalla gara, assume rilievo
il momento in cui il rappresentante dell’impresa ha avuto
conoscenza della sua esclusione nel corso della seduta
pubblica alla quale egli partecipava in base a delega e con
presenza fatta constare a verbale, posto che la presenza di
un delegato della concorrente nella seduta in cui la
commissione giudicatrice ha deciso l’esclusione comporta
ex se la piena conoscenza dell’atto lesivo ai fini della
decorrenza del termine di legge per l’impugnazione suddetta;
- che nella fattispecie, pertanto, la piena conoscenza
dell’atto di estromissione della ditta ricorrente dalla
procedura selettiva va fatta risalire all’08.03.2016, avendo
la stessa presenziato alle operazioni di gara con un proprio
rappresentante –appositamente delegato–, il quale è stato
direttamente informato delle ragioni dell’espulsione e così
messo in condizione di contestarne il fondamento, come si
evince anche dalla richiesta di revoca presentata il giorno
successivo;
- che tardiva, di conseguenza, si presenta l’impugnativa
dell’atto di esclusione, immediatamente lesivo, notificata
all’Amministrazione comunale solo il 06.06.2016;
- che, in ragione di ciò, inammissibile risulta l’ulteriore
censura relativa alla posizione della ditta aggiudicataria
–circa la presunta carenza di uno dei requisiti di
partecipazione alla selezione–, alla luce del consolidato
indirizzo giurisprudenziale secondo cui il
soggetto definitivamente escluso dalla gara non è
legittimato ad impugnare le ulteriori fasi della procedura
concorsuale perché versa in condizioni analoghe a chi ne è
rimasto estraneo
(v., da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 29.04.2016 n. 1650); |
ATTI AMMINISTRATIVI: E-mail,
chi non legge ne risponde. Sentenza
sugli imprenditori e la posta certificata (pec).
La responsabilità per la mancata lettura di una
comunicazione o notifica ricevuta a mezzo Pec (Posta
elettronica certificata) è da attribuire all'imprenditore,
se conseguente ad una sua carenza relativamente alla
manutenzione e controllo della casella di posta. Ne consegue
che non è immune da censure il soggetto (imprenditore) che
non legga la Pec in quanto pervenuta erroneamente nella
posta indesiderata. Ciò dal momento che è da considerarsi
normale diligenza e norma di prudenza verificare tutti i
messaggi, anche quelli archiviati come indesiderati, e
dotarsi di adeguati sistemi anti intrusione.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione, VI Sez. civile
nella
sentenza 07.07.2016 n. 13917
(pres. V. Ragonesi, rel. F.A. Genovese).
La vicenda aveva origine dal ricorso avverso una sentenza di
fallimento promosso da un imprenditore, il quale sosteneva
di non avere potuto prendere visione della notificazione
dell'avviso di udienza in quanto la comunicazione, inviata
appunto a mezzo Pec dalla cancelleria del tribunale avanti
al quale era in corso il procedimento, sarebbe stata
archiviata automaticamente nella posta indesiderata per un
mal funzionamento del programma antivirus.
La Corte ha respinto il ricorso affermando che ai fini di
una notifica telematica occorre avere riguardo unicamente
alla sequenza procedimentale stabilita dalla legge e quindi
dal lato del mittente alla ricevuta di accettazione, che
prova l'avvenuta spedizione di un messaggio di posta
elettronica certificata e per quanto riguarda il
destinatario alla ricevuta di consegna, che dimostra che il
messaggio di posta elettronica certificata è pervenuto
all'indirizzo dichiarato dal destinatario e ne certifica il
momento dell'avvenuta ricezione.
La Corte di cassazione ha aggiunto che è onere della parte
che eserciti l'attività di impresa non solo munirsi di un
indirizzo Pec, ma anche assicurarsi del corretto
funzionamento dello stesso, senza che si possa ritenere
questo un onere che richieda una diligenza straordinaria.
La Corte, infine, tratteggia l'onere per l'impresa, e il
personale a ciò dedicato, di assicurarsi della la corretta
manutenzione e controllo della casella di posta elettronica
certificata. Trattasi di un onere cui non è possibile
derogare
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2016).
---------------
MASSIMA
- che, infatti, la cattiva manutenzione
della posta della destinataria, presso la cui casella si
sarebbero accumulate ben 1.500 messaggi nella casella «posta
indesiderata», assieme a numerose e-mail accantonate in
modalità «spam», avrebbero dimostrato, oltre che una
cattiva manutenzione per difetto di un valido antivirus,
anche un completo disinteresse della destinataria sia
rispetto alla posta in arrivo sia riguardo alla vigilanza
sul funzionamento del proprio programma gestionale;
...
c) ad esse, non possono opporsi, come fa la ricorrente, esigenze di
sostanziale migliore comodità, per la debitrice, della
ricezione della notifica in via ordinaria e tradizionale (e
cioè a mezzo dell'ufficiale giudiziario o a mezzo della
posta in formato cartaceo) in quanto è
onere della parte che eserciti l'attività d'impresa,
normativamente obbligata
[ex art. 16, comma 6, del decreto-legge 29.11.2008, n. 185,
convertito nella legge 28.01.2009, n. 2; ex lege
28.01.2009, n. 2; ex art. 5 Decreto Legge n. 179/2012
convertito nella Legge n. 221/2012] a
munirsi di un indirizzo PEC e ad assicurarsi del corretto
funzionamento della propria casella postale certificata, se
del caso delegando tale controllo, manutenzione o assistenza
a persone esperte del ramo (i cui costi, palesemente
inerenti all'attività dell'impresa, sono in qualche modo
riconducibili alle spese rilevanti ed afferenti al proprio
bilancio di esercizio), e senza che tali problematiche
possano integrare né oneri straordinari di diligenza
(secondo mezzo) né un serio sospetto di
illegittimità costituzionale della relativa disciplina
(quarto mezzo), nella parte in cui non prevede una nuova
notifica dell'avviso di convocazione che si renderebbe
certamente necessario ove si registrasse un'anomalia nella
comunicazione telematica dell'avviso, proprio come prevede
l'ultima parte del terzo comma dell'art. 15 LF che, in tal
modo, allontana l'ombra dell'illegittimità costituzionale di
siffatto sistema di notificazione stabilendo i casi in cui
debba procedersi attraverso i mezzi tradizionali di consegna
dell'avviso;
d) che, infatti, pur non potendosi escludere in linea di massima ed
in astratto che, pur non registrando il sistema di ricezione
dell'invio dell'avviso alcuna anomalia, possa darsi
un'ipotesi di forza maggiore (vis cui resisti non potest),
tale caso è comunque da escludersi nella specie, proprio in
ragione delle allegazioni della stessa parte, poiché
l'evenienza si rende ascrivibile a un non diligente utilizzo
della posta elettronica, ricevuta dalla società in bonis;
e) che infatti non appare immune da censure il
caso di colui che, come si ammette da parte della stessa
ricorrente, non controlli il contenuto delle e-mail
pervenute nella casella della posta elettronica, sia pure
archiviate fra quelle considerate dal proprio programma
gestionale come
«posta
indesiderata», essendo norma di prudenza eseguire anche
tale tipo di verifica, com'è regola di una diligente prassi
aziendale;
f) che, peraltro, l'obbligo di diligenza da parte
dell'impresa dotata di una casella PEC si estende sia
all'utilizzo dei dispositivi di vigilanza e di controllo,
dotati di misure ami intrusione, sia al controllo di tutta
la posta in arrivo, quand'anche indesiderata; |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso,
la valutazione è in astratto.
La valutazione che la pubblica amministrazione è chiamata a
svolgere circa la sussistenza o meno dell'interesse
all'accesso deve essere effettuata «in astratto» e senza
alcun apprezzamento circa la validità probatoria della
documentazione richiesta o la fondatezza della domanda
giudiziale eventualmente proponibile.
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del TAR Puglia-Bari con la
sentenza
07.07.2016 n. 895.
Pertanto, l'accesso, in quanto strumentale ad imparzialità e
trasparenza dell'azione amministrativa (art. 22, comma 2,
legge n. 241/1990) nei confronti sia di titolari di
posizioni giuridiche qualificate che di portatori di
interessi diffusi e collettivi (art. 4, dpr n. 184/2006),
dovrà in ogni caso essere assicurato a prescindere
dall'effettiva utilità che il richiedente ne possa trarre e,
dunque, risulterà essere ammissibile anche nel caso in cui
siano decorsi i termini per l'impugnazione o se la pretesa
sostanziale che sottende l'accesso risulti infondata.
Nel caso sottoposto all'attenzione del Tar con ricorso la
Tizio s.p.a. impugnava la nota inviata dall'amministrazione
intimata in riscontro alla propria istanza di accesso e
chiedeva che il tribunale amministrativo ordinasse
all'Amministrazione l'esibizione dei documenti richiesti.
I giudici amministrativi baresi hanno, altresì osservato che
da quanto detto sopra discende che l'esercizio del diritto
di accesso non sarà assolutamente precluso nemmeno
dall'inoppugnabilità degli atti oggetto dell'istanza di
ostensione, purché l'accesso non si trasformi in uno
strumento di controllo generalizzato e di «ispezione
popolare».
Inoltre nella sentenza in commento si è trattato anche il
tema dell'interesse alla riservatezza osservando che esso è
notoriamente destinato a recedere quando l'istanza di
accesso venga esercitata per la diretta difesa giudiziale di
un interesse non emulativo ma giuridicamente e concretamente
apprezzabile.
Inoltre, è consolidato l'orientamento
giurisprudenziale ai sensi del quale «la partecipazione ad
una gara comporta che la documentazione, come quella
relativa ai requisiti di partecipazione di un concorrente
fuoriesca dalla sfera del suo riservato dominio, per porsi
su un piano di valutazione comparativa rispetto a quella
depositata da altri concorrenti (ex multis, cfr. Tar
Basilicata, sez. I sent. n. 905 del 27/12/2014)»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
4 - Il Collegio ritiene che il ricorso in esame meriti
accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
La ricorrente ha partecipato ad una gara d’appalto e ha
impugnato gli atti ad essa relativi.
4.a.-
Gli atti di cui si chiede l’ostensione sono strumentali alla
verifica del possesso della controinteressata dei requisiti
di partecipazione alla gara in questione.
Sussiste, pertanto, la legittimazione al ricorso, in base al
combinato disposto dell’art. 24 della l. n. 241 del 1990 e
dell’art. 13 del d.lgs. n. 163 del 2006, nonché in base ai
principi affermati dalle Adunanze Plenarie n. 4 del 2011 e
n. 9 del 2014.
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale (così,
sul punto, ad esempio, TAR Toscana, Sez. I, sent. n. 442 del
21.03.2013),
la valutazione che la pubblica amministrazione è chiamata a
svolgere circa la sussistenza o meno dell'interesse
all'accesso deve essere effettuata “in astratto” e
senza alcun apprezzamento circa la validità probatoria della
documentazione richiesta o la fondatezza della domanda
giudiziale eventualmente proponibile. Ne discende che
l’esercizio del diritto di accesso non è precluso nemmeno
dall'inoppugnabilità degli atti oggetto dell'istanza di
ostensione, purché l'accesso non si trasformi in uno
strumento di controllo generalizzato e di “ispezione
popolare”.
Né è ostativo all’accoglimento dell’odierno ricorso il fatto
che il riferito giudizio pendente sia stato definito dalla
Sezione I di questo TAR con la suindicata sentenza n. 789
del 23.06.2016, che allo stato non è, peraltro, coperta dal
giudicato.
Deve ritenersi che permanga in capo alla ricorrente
l’interesse all’accesso in quanto sulla scorta di una
valutazione prognostica, allo stato attuale non può
escludersi sotto un profilo oggettivo l’utilità, ricavabile
dalla conoscenza degli atti di cui all’istanza, per le
esigenze difensive perseguite.
L'accesso, in quanto strumentale ad imparzialità e
trasparenza dell'azione amministrativa (art. 22, comma 2, L.
n. 241/1990) nei confronti sia di titolari di posizioni
giuridiche qualificate che di portatori di interessi diffusi
e collettivi (art. 4 DPR n. 184/2006), deve comunque essere
assicurato a prescindere dall'effettiva utilità che il
richiedente ne possa trarre e, dunque, è ammissibile anche
quando siano decorsi i termini per l'impugnazione o se la
pretesa sostanziale che sottende l'accesso sia infondata.
Ne deriva che l’argomento opposto dall’amministrazione
intimata nella nota gravata non è idoneo a paralizzare
l’istanza di accesso.
4.b.-
Quanto all’interesse alla riservatezza
(con riferimento specifico alla controinteressata intimata e
non costituita in giudizio)
occorre rilevare che esso è notoriamente destinato a
recedere quando l’istanza di accesso venga esercitato per la
diretta difesa giudiziale di un interesse, come nella
fattispecie in esame, non emulativo ma giuridicamente e
concretamente apprezzabile. Inoltre, è consolidato
l’orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale la
partecipazione ad una gara comporta che la documentazione,
come quella relativa ai requisiti di partecipazione di un
concorrente fuoriesca dalla sfera del suo riservato dominio,
per porsi su un piano di valutazione comparativa rispetto a
quella depositata da altri concorrenti
(ex multis, cfr TAR Basilicata, sez. I sent. n. 905
del 27.12.2014).
4.c.- Ne consegue che il ricorso deve trovare accoglimento,
con obbligo a carico dell’Amministrazione di attivare il
procedimento per il rilascio di tutti documenti oggetto
dell’istanza, i quali potranno essere messi a disposizione
della ricorrente.
L’accesso, mediante estrazione di copia, andrà consentito
entro il termine di trenta giorni decorrente dalla
comunicazione, o se anteriore, dalla notificazione della
presente decisione. |
ESPROPRIAZIONE:
- “Non può essere accolta la domanda di
retrocessione del bene espropriato ai sensi dell'art. 60,
comma 1, l. 25.06.1865 n. 2359 ove l'istante non abbia
correttamente assolto l'onere procedimentale -previsto
dall'art. 61, comma 3, l. n. 2359, cit. nel caso di
inadempienza dell'ente espropriante all'obbligo di
pubblicare l'elenco dei beni inservibili- di domandare al
prefetto territorialmente competente la dichiarazione di
inservibilità dei beni all'opera pubblica.
Infatti, il diritto alla retrocessione parziale dei beni non
utilizzati per la realizzazione dell'opera pubblica nasce
solo se ed in quanto l'amministrazione, con valutazione
discrezionale, al cospetto della quale la posizione
soggettiva del privato è di interesse legittimo, abbia
dichiarato che il fondo non serve più all'opera pubblica”;
- “La richiesta di restituzione di aree comprese nel piano
parcellare ma non trasformate integra un'ipotesi di
retrocessione parziale, non attuabile ove non sia
intervenuta e non sia stata neppure richiesta la
dichiarazione di inservibilità da parte
dell'amministrazione" .
---------------
Per quanto concerne le domande avanzate dai ricorrenti di
declaratoria della decadenza della dichiarazione di pubblica
utilità e conseguentemente dell’inefficacia del decreto di
esproprio relativo al terreno de quo, oggetto di esproprio
per la realizzazione di una centrale termoelettrica a
carbone, si rileva che le domande medesime sono fondate
esclusivamente sull’assunto della ricorrente secondo cui non
sarebbe stato rispettato dall’Ente espropriante il termine
finale per la realizzazione dell’opera, con conseguente
decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e
conseguente inefficacia del decreto di esproprio.
Tale assunto è espresso nell’atto di citazione di fronte al
tribunale civile di Sassari del marzo 1993, nel quale si dà
atto che l’espropriazione del bene è avvenuta “…nei termini
previsti. Non così è invece accaduto per il rispetto del
termine finale per la realizzazione dell’opera. Ai sensi
dell’art. 3 del decreto ministeriale del 07.10.1982 e
degli artt. 1 e 3 del decreto ministeriale 20.07.1983, nonché
i relativi richiami alle norme in vigore il termine fissato
nella dichiarazione di pubblica utilità per la realizzazione
dell’opera erano il 1988 per la prima sezione e il 1989 per
la seconda.”
Precisano altresì i ricorrenti: “Né a quanto è dato sapere
vi è stata una proroga di tali termini.”.
Al riguardo, deve prendersi atto che tali termini sono stati
invece prorogati -come esattamente eccepito dalla parte
resistente- in un primo tempo sino al 31.12.1992 in
forza di provvedimento ministeriale del 23.12.1988 e
successivamente con decreto ministeriale dell’industria del
16.07.1990 che ha stabilito un’ulteriore proroga dal di
51 mesi per cui il termine per la realizzazione dell’opera
scadeva al 15.10.1994, con la conseguenza che al
momento della proposizione dell’atto di citazione in
questione non erano ancora scaduti i termini in questione.
Nel ricorso in riassunzione dinanzi al Tar Sardegna,
depositato in data 15.12.2008, i ricorrenti si
limitano a chiedere la “declaratoria di illegittimità e
invalidità” del Decreto del Ministero dell’industria, del
commercio e dell’artigianato del 16.07.1990, o la
disapplicazione dello stesso, senza tuttavia avanzare -nel
ricorso notificato alle controparti- alcuno specifico
motivo di illegittimità del decreto in questione che ha
prorogato il termine per la realizzazione dell’opera, per
cui la domanda medesima risulta inammissibile, con
conseguente rigetto delle domande in esame avanzate dai
ricorrenti di declaratoria della decadenza della
dichiarazione di pubblica utilità e conseguentemente
dell’inefficacia del decreto di esproprio relativo al
terreno de quo.
Per quanto concerne invece l’ulteriore domanda avanzata dai
ricorrenti di “retrocessione del terreno della superficie di
ha 3.79.40, così come individuato nella relazione di c.t.u.
distinto al N.C.T. alla partita 2377 con parte del mappale
30 del foglio 14 del Comune di Sassari - Nurra”, la stessa
deve essere disattesa in quanto non risulta essere stato
attivato dai ricorrenti il procedimento ai fini della
dichiarazione di inservibilità delle aree in questione,
quale necessario adempimento al fine di poter ottenere la
retrocessione del terreno in questione.
Devono infatti trovare applicazione, anche nel caso di
specie, i principi giurisprudenziali secondo cui:
-
“Non può essere accolta la domanda di retrocessione del bene
espropriato ai sensi dell'art. 60, comma 1, l. 25.06.1865
n. 2359 ove l'istante non abbia correttamente assolto
l'onere procedimentale -previsto dall'art. 61, comma 3, l.
n. 2359, cit. nel caso di inadempienza dell'ente
espropriante all'obbligo di pubblicare l'elenco dei beni
inservibili- di domandare al prefetto territorialmente
competente la dichiarazione di inservibilità dei beni
all'opera pubblica; infatti, il diritto alla retrocessione
parziale dei beni non utilizzati per la realizzazione
dell'opera pubblica nasce solo se ed in quanto
l'amministrazione, con valutazione discrezionale, al
cospetto della quale la posizione soggettiva del privato è
di interesse legittimo, abbia dichiarato che il fondo non
serve più all'opera pubblica” (TAR Lazio–Latina, sez.
I, 04.07.2007 n. 478);
-
“La richiesta di restituzione di aree comprese nel piano
parcellare ma non trasformate integra un'ipotesi di
retrocessione parziale, non attuabile ove non sia
intervenuta e non sia stata neppure richiesta la
dichiarazione di inservibilità da parte dell'amministrazione"
(TAR Calabria-Reggio Calabria, 03.02.2003 n. 33).
Fermo restando il rilievo sopra espresso, il collegio
ritiene comunque condivisibili anche gli ulteriori rilievi
espressi a tale riguardo dalla parte resistente in ordine
alla circostanza che il terreno dei ricorrenti risulta
comunque utilizzato quale area accessoria e pertinenziale
che, in quanto sita a monte del gruppo tecnologico di
produzione, è stata oggetto di vasti interventi di
livellamento e realizzazione di canalette e risulta
“ricompreso in un’area vitale per il funzionamento e la
salvaguardia della centrale medesima”.
sso Consulente tecnico d’ufficio
che nella propria relazione di perizia del 31.10.2000
afferma che “…il terreno in oggetto oltre ad avere subito
una significativa trasformazione fisica, risulta inserito in
un contesto più ampio (area di pertinenza della centrale) e
come tale, parte di un disegno organico di strade, lotti,
recinzioni, cavidotti interrati ecc., funzionali ed
interagenti con il resto dell’area di pertinenza. Modificare
la destinazione d’uso dell’area in oggetto per un uso
agricolo, comporterebbe inevitabilmente lo stravolgimento
dell’organizzazione dell’intera area di pertinenza con
brusche interruzioni di strade, di recinzioni, modifiche di
lotti interni con la costituzione di reliquati
inutilizzabili, tagli di cavidotti ecc. In sintesi
dall’esame della documentazione fotografica agli atti e alla
luce dei sovralluoghi a suo tempo effettuati, l’area in
oggetto appare indissolubilmente vincolata al resto
dell’area di pertinenza ….omissis….”.
Dalla rilevata inammissibilità e infondatezza delle domande
sopra esaminate avanzate dai ricorrenti, consegue il rigetto
delle domande di risarcimento del danno avanzate dai
medesimi nei confronti di parte resistente.
Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie
argomentazioni della parte ricorrente, stante l'infondatezza
e inammissibilità delle domande avanzate, il ricorso deve
essere in parte dichiarato inammissibile e, nella restante
parte, deve essere respinto, sia avuto riguardo alla domande
di accertamento e declaratoria, sia avuto riguardo alle
domande di risarcimento del danno (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 07.07.2016 n. 579 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione
impatto ambientale/2 Imprescindibile il dato scientifico.
La valutazione di impatto ambientale ha il fine di
sensibilizzare l'autorità decidente, attraverso l'apporto di
elementi tecnico–scientifici idonei ad evidenziare le
ricadute sull'ambiente derivanti dalla realizzazione di una
determinata opera, a salvaguardia dell'habitat.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato (Sez. V) con la
sentenza
06.07.2016 n. 3000.
A parere dei giudici di palazzo Spada tale valutazione non
si limita ad una generica verifica di natura tecnica circa
l'astratta compatibilità ambientale, ma porta verso una
naturale e complessiva quanto approfondita analisi di tutti
gli elementi incidenti sull'ambiente del progetto
unitariamente considerato, per valutare in concreto il
sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità
socio–economica perseguita (si vedano: Cons. stato, sez. IV,
22.01.2013, n. 361; 09.01.2014, n. 36).
Inoltre,
nella sentenza in commento, si è evidenziato come il
procedimento per la Valutazione d'impatto ambientale (Via) e
quello per il rilascio dell'Autorizzazione integrata
ambientale (Aia) siano procedimenti preordinati verso la
realizzazione di momenti accertativi diversi ed autonomi (e
possano avere quindi un'autonoma efficacia lesiva, che
consente l'impugnazione separata dei rispettivi
provvedimenti conclusivi: Cons. stato, sez. V, 26.01.2015, n. 313).
Pertanto a buon diritto si potrebbe negare l'autorizzazione
integrata ambientale anche in presenza di una valutazione di
impatto ambientale positiva, poiché quest'ultima è di per sé
idonea ad esprimere un giudizio definitivo sull'intervento
proposto (si veda: Cons. stato, sez. V, 17.10.2012, n.
5295), mentre una valutazione di impatto ambientale negativa
va a precludere il rilascio dell'autorizzazione integrata
ambientale. Il thema decidendum sul quale i giudici
del Consiglio di Stato sono stati chiamati ad esprimersi
vedeva la s.r.l. Tizia titolare di un impianto per lo
smaltimento dei rifiuti speciali non pericolosi nel Comune.
Il Tar con sentenza accogliendo il suo ricorso annullava la
determinazione con la quale il dirigente del Settore
Ambiente, Energie e Aree Protette della Provincia aveva
negato, sulla base dei pareri indicati in motivazione e
delle risultanze della conferenza di servizi, il rilascio
dell'autorizzazione per l'ampliamento della discarica
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
---------------
MASSIMA
6.1.2. Come puntualizzato dalla giurisprudenza,
la valutazione di impatto ambientale ha il fine di
sensibilizzare l’autorità decidente, attraverso l’apporto di
elementi tecnico–scientifici idonei ad evidenziare le
ricadute sull’ambiente derivanti dalla realizzazione di una
determinata opera, a salvaguardia dell’habitat
(Cons. Stato, sez. V, 17.10.2012, n. 5295; sez. IV,
17.09.2013, n. 4611): essa non si limita ad
una generica verifica di natura tecnica circa l’astratta
compatibilità ambientale, ma implica una complessiva ed
approfondita analisi di tutti gli elementi incidenti
sull’ambiente del progetto unitariamente considerato, per
valutare in concreto il sacrificio imposto all’ambiente
rispetto all’utilità socio–economica perseguita
(Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 361; 09.01.2014, n.
36).
...
6.1.3. In ogni caso, poiché il procedimento
per la valutazione d'impatto ambientale (VIA) e quello per
il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale (AIA)
sono preordinati ad accertamenti diversi ed autonomi
(e possano avere quindi un'autonoma efficacia lesiva, che
consente l'impugnazione separata dei rispettivi
provvedimenti conclusivi: Cons. Stato, sez. V, 26.01.2015,
n. 313), ben potrebbe essere negata
l’autorizzazione integrata ambientale anche in presenza di
una valutazione di impatto ambientale positiva, poiché
quest’ultima è di per sé idonea ad esprimere un giudizio
definitivo sull’intervento proposto
(Cons. Stato, sez. V, 17.10.2012, n. 5295),
mentre una valutazione di impatto ambientale
negativa preclude il rilascio dell'autorizzazione integrata
ambientale. |
VARI:
Il cliente deve monitorare il commercialista.
La violazione delle norme tributarie, suscettibile di
sanzione da parte della legge, richiede che il comportamento
addebitato sia posto in essere con dolo, o anche solo con
colpa. Il contribuente, a cui venga contestata la mancata
presentazione della dichiarazione dei redditi, non può
considerarsi esente da colpa per il solo fatto di aver
incaricato un professionista delle relative adempienze,
dovendo egli dimostrare, al fine di escludere ogni profilo
di negligenza, di avere svolto atti diretti a controllare la
loro effettiva esecuzione, prova superabile soltanto a
fronte di un comportamento fraudolento del professionista,
finalizzato a mascherare il proprio inadempimento.
Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con l'ordinanza
05.07.2016 n. 13709.
Nel caso di specie il contribuente deduceva la
violazione e falsa applicazione dell'art. 6, comma 3, del dlgs
472/1997, essendo stata dimostrata la colpa del
professionista incaricato per la relativa presentazione. La
censura, secondo i giudici di legittimità, era però
infondata. I giudici affermano infatti che l'affidamento al
professionista del mandato a trasmettere per via telematica
la dichiarazione all'Agenzia delle entrate non esonera il
soggetto obbligato alla dichiarazione fiscale a vigilare
affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto. Anche
laddove sia provata la denuncia presentata dalla società e
il rinvio a giudizio del professionista autore della
condotta criminosa contestata, tali fatti non sarebbero
sufficienti a eliminare la responsabilità del contribuente.
A prescindere infatti dalle eventuali responsabilità penali
o civilistiche, ciò di cui il contribuente è chiamato a
rispondere è la responsabilità fiscale di quanto da lui
dovuto per l'anno relativamente al quale ha omesso di
presentare la dichiarazione. L'intermediario risponderà per
le proprie violazioni e sarà sottoposto alle specifiche
sanzioni previste; ma queste saranno comunque diverse
rispetto a quelle a carico del contribuente, solo soggetto
di imposta e solo «referente» di fronte all'Erario. Il
contribuente, eventualmente potrà poi esperire azione di
responsabilità civile verso il professionista effettivamente
inadempiente
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2016).
---------------
MASSIMA
Con il terzo motivo si denunzia la violazione e falsa
applicazione dell'art. 6 Dlgs. 472/1997 in relazione
all'art. 360, n. 3), cpc, non essendosi i giudici di appello
pronunciati sull'eccepita illegittimità delle sanzioni
applicate per omessa presentazione della dichiarazione dei
redditi relativa all'anno 2007, essendo stata allegata la
colpa del professionista incaricato per la relativa
presentazione.
Pure tale censura appare infondata.
Questa Corte ha già affermato, in generale, con riguardo
alla volontarietà del comportamento sanzionabile, che "ai
sensi del D.lgs. 472/1997 art. 5, la
violazione delle norme tributarie suscettibile di sanzione
da parte della legge richiede che il comportamento
addebitato sia posto in essere con dolo o anche colpa; il
contribuente a cui venga contestata la mancata presentazione
della dichiarazione dei redditi e l'omessa tenuta delle
ss.cc. obbligatorie non può considerarsi esente da colpa per
il solo fatto di aver incaricato un professionista delle
relative adempienze, dovendo egli altresì allegare e
dimostrare, al fine di escludere ogni profilo di negligenza,
di avere svolto atti diretti a controllare la loro effettiva
esecuzione, prova nel caso concreto superabile soltanto a
fronte di un comportamento fraudolento del professionista,
finalizzato a mascherare il proprio inadempimento"
(Cass. 12473/2010).
La Corte, anche in sede penale, ha confermato il consolidato
principio di diritto secondo cui
l'affidamento ad un commercialista del mandato a trasmettere
per via telematica la dichiarazione alla competente agenzia
delle Entrate non esonera il soggetto obbligato alla
dichiarazione fiscale a vigilare affinché tale mandato sia
puntualmente adempiuto
(Cass. 675/2015; 18448/2015; cfr. anche Cass. pen.
16958/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune può rilasciare concessioni edilizie,
fatti salvi i diritti di terzi, ma laddove sia a conoscenza,
come nella fattispecie, trattandosi di atti (licenza
edilizia e convenzione) provenienti dallo stesso Comune e di
giudizio reso nei suoi confronti, di situazioni
incompatibili facenti capo ad altro soggetto deve tenerne
conto –fermo restando che non può dirimere questioni
privatistiche- con la conseguenza che il provvedimento di
diniego rientra nell’invocata ipotesi di cui all’art.
21-octies.
---------------
II. – Il Collegio ritiene l’appello fondato quanto alla
critica volta ad evidenziare l’insussistenza del vizio di
carenza istruttoria sul cui rilievo poggia la sentenza
gravata.
Il diniego di concessione edilizia è motivato con la
considerazione che la volumetria afferente l’area in
questione era già stata sfruttata per la realizzazione del
programma costruttivo della cooperativa Pro Domo poiché
inserita la convenzione di detto programma. In altre parole,
il Comune ha ritenuto che il fondo non disponesse della
volumetria occorrente alla realizzazione del progetto
presentato, in ragione di precedente edificazione realizzata
da altro soggetto.
Il Condominio riferisce che la Cooperativa Pro Domo ha
ottenuto dal Comune di Palermo licenza edilizia in data
26.02.1976 n. 210 per la realizzazione di sette palazzine per
una volumetria complessiva di mc. 45.783.
Dalla stessa esposizione dei fatti contenuta nelle difese
degli appellanti emerge che con atto di convenzione del
02.04.1977, debitamente registrato, l’Amministrazione comunale
ha concesso alla Cooperativa Pro Domo il diritto di
proprietà su un’area comprensiva delle particelle di cui si
discute, atta complessivamente alla edificazione di mc.
46.700 circa e che, in seguito alla concessione da parte del
Comune, nel 1982, delle stesse tre particelle di cui si
discute alla Cooperativa Celo 1, la Cooperativa Pro Domo
aveva attivato un contenzioso che aveva visto la soccombenza
del Comune e della Cooperativa Celo 1 (sentenza n. 2190/85
del Tar, confermata dal C.G.A. con decisione n. 176/86).
Orbene, il Comune può rilasciare concessioni edilizie, fatti
salvi i diritti di terzi, ma laddove sia a conoscenza, come
nella fattispecie, trattandosi di atti (licenza edilizia e
convenzione) provenienti dallo stesso Comune e di giudizio
reso nei suoi confronti, di situazioni incompatibili facenti
capo ad altro soggetto deve tenerne conto –fermo restando
che non può dirimere questioni privatistiche (tra parti che,
entrambe, affermano di aver mantenuto il possesso delle
aree)- con la conseguenza che il provvedimento di diniego
rientra nell’invocata ipotesi di cui all’art. 21-octies.
A fronte dell’elemento ostativo evidenziato
dall’amministrazione, i sigg. Co. non hanno fornito prova
che residuasse cubatura sufficiente alla realizzazione
dell’edificio progettato.
La riserva dell’amministrazione in ordine all’indagine sulla
effettuazione o meno dell’espropriazione del terreno non
incide sull’aspetto dell’edificazione realizzata e dunque
del già avvenuto sfruttamento di cubatura che giustifica il
diniego.
Non giova agli appellati obiettare che la delibera 31.07.1974
prevedeva l’assegnazione alla Cooperativa Pro Domo di un
isolato atto alla edificazione di 42.000 mc. di costruzione,
in quanto la successiva convenzione del 1977, atto efficace,
ha disposto diversamente, includendo le aree in discussione
e contemplando maggior cubatura realizzabile. Gli appellanti
riferiscono di avere chiesto la retrocessione.
Non ritiene il Collegio che i sopralluoghi disposti
dall’amministrazione in corso di giudizio siano sintomatici
della carenza dell’istruttoria, effettuata in reazione alle
risultanze documentali, in quanto è tesa a verificare
aspetti ulteriori attinenti ad eventuali aumenti di
volumetria realizzata rispetto a quella autorizzata con la
concessione edilizia.
Per le ragioni esposte l’appello va accolto, potendosi
dichiarare assorbite le censure non esaminate (C.G.A.R.S.,
sentenza 05.07.2016 n. 192 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Valutazione impatto ambientale/1 L'Autorizzazione
cammina insieme.
La procedura di Via (Valutazione impatto ambientale), non
può essere vista come totalmente separata dalla successiva
Aia (Autorizzazione integrata ambientale). L'impatto
ambientale di un'opera o di un impianto non potrebbe infatti
essere compiutamente inquadrato senza prendere in
considerazione gli approfondimenti tecnici che conducono al
rilascio dell'Aia e alla contestuale formulazione dei limiti
relativi alla produzione di inquinanti.
Lo hanno affermato i giudici della
I Sez. del TAR Marche con la
sentenza
02.07.2016 n. 429.
I giudici amministrativi marchigiani hanno, altresì,
evidenziato come l'Aia rappresenti la sede privilegiata per
quanto riguarda la valutazione della conformità agli
strumenti programmatori, anche in considerazione del fatto
che il dpcm 27.12.1988, stabilisce che la contrarietà
ad atti di programmazione non può impedire il rilascio della
Via.
Sebbene il Consiglio di stato, con la sentenza
19/03/2012 n. 154, abbia stabilito che, se pure dopo il dlgs
n. 128 del 2010, si è giunti ad una nuova formulazione del
dlgs. n. 152 del 2006, in particolare dell'articolo 10,
volta al massimo coordinamento delle due procedure, secondo
i giudici di Ancona emerge tuttavia con la massima chiarezza
che è restata ferma la loro diversità di funzione,
specificata in particolare nelle lettere b) e c) dell'art.
4, comma 4, del detto decreto legislativo, in quanto
orientate, la Via alla verifica del progetto, e l'Aia alla
verifica dell'attività riguardo a particolari impianti
«salve le disposizioni sulla valutazione di impatto
ambientale».
Ed inoltre, nella sentenza in commento, è stato evidenziato
come però, in ogni caso, come la Via, anche l'Aia
rappresenti uno strumento a carattere preventivo e globale,
da rilasciarsi a seguito di un'istruttoria in cui vengono
valutati tutti i possibili impatti di una determinata
attività sull'ambiente (si veda: Tar Calabria Catanzaro
08.11.2011 n. 1345), così come esplicitamente previsto dall'
art. 7, comma 2, del dlgs n. 59 del 2005.
Sul punto, ancora,
si è osservato come le considerazioni relative
all'urbanistica e agli strumenti di programmazione non
risultino essere affatto estranee al procedimento di Via,
pur trovando la più approfondita valutazione nella
successiva autorizzazione unica
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Cartelle notificate via Pec nulle.
Le cartelle di pagamento notificate via Pec sono nulle. La
posta elettronica certificata non offre le garanzie tipiche
della raccomandata tradizionale, poiché non contiene
l'originale della cartella, ma solo una copia informatica
priva di sottoscrizione e attestazione di conformità;
inoltre, tale modalità di notificazione non garantisce la
piena prova dell'effettiva consegna del documento al
destinatario, attestando unicamente l'immissione del
documento nella casella Pec, a prescindere da ogni verifica
sulla effettiva apertura e lettura del messaggio.
Sono i principi nella
sentenza 01.07.2016 n. 992/01/16 della Ctp di Latina (presidente Ventriglia, relatore Gina
Antoniani).
Il collegio era chiamato a pronunciarsi su un ricorso
proposto contro una intimazione di pagamento notificata via
Pec, avente come presupposto delle cartelle di pagamento,
talune delle quali notificate con modalità elettronica. La
Ctp di Latina ha accolto il ricorso, rilevando determinate
criticità sulla notifica via Pec, che incidono tanto
sull'impugnata intimazione, quanto sulle presupposte
cartelle.
Due i profili evidenziati dai giudici tributari. In primis,
la notifica via Pec non offre le garanzie della raccomandata
tradizionale, poiché contiene in allegato una semplice copia
in formato pdf della cartella, senza firma digitale né
attestazione di conformità all'originale; attestazione che,
peraltro, potrebbe essere apposta soltanto da un pubblico
ufficiale, categoria in cui non rientra il concessionario
per la riscossione.
Una siffatta copia della cartella,
dunque, non può avere alcun valore giuridico poiché non c'è
garanzia che il documento inoltrato sia identico
all'originale che, invece, con la notifica tradizionale,
finisce sempre nelle mani del destinatario.
Sotto altro
profilo, la Ctp critica la notifica via Pec perché non
garantisce in maniera adeguata l'effettiva conoscenza
dell'atto da parte del destinatario: mentre con la notifica
tradizionale, tale funzione è assolta dal postino o
dall'incaricato alla notificazione, che si assicura di
recapitare il plico con le modalità stabilite dalla legge,
nel caso della Pec la consegna del messaggio è fornita da un
sistema informatico che garantisce soltanto la disponibilità
del documento nella casella di posta elettronica, e non
anche l'apertura del messaggio e l'effettiva lettura.
Alla
luce delle predette considerazioni, la Ctp ha ritenuto
inesistente la notifica della intimazione impugnata e nulle
le notificazioni delle cartelle presupposte, eseguite per il
tramite della posta elettronica certificata.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Le cartelle di pagamento di Equitalia notifícate tramite Pec
sono nulle. La posta elettronica certificata, infatti, non
offre le garanzie tipiche della raccomandata tradizionale,
perché non contiene l'originale della cartella, ma solo una
copia informatica, priva peraltro di alcuna attestazione di
conformità. [omissis]
Trattasi di notifica di atti che
incidono sulla sfera patrimoniale del cittadino contribuente
il quale ha, costituzionalmente, diritto alla piena e
legittima conoscenza di ogni atto che riporti una pretesa
tributaria, di conoscere l'an e il quantum della pretesa e
di approntare, eventualmente, le proprie difese. Ne consegue
che l'amministrazione finanziaria, affinché la pretesa
tributaria diventi certa e esigibile, deve garantire, al
destinatario della stessa, la conoscenza attraverso una
regolare e legittima procedura notificatoria degli atti
impositivi.
Il sistema di notifica delle cartelle di pagamento a mezzo
Pec (ma anche degli altri atti emessi dall'agente della
riscossione e/o dalle Agenzie delle entrate), come
attualmente disciplinati fanno ritenere che tale notifica
sia affetta da nullità insanabile, contrariamente a quanto
affermato nella normativa e dal codice dell'amministrazione
digitale. La posta elettronica certificata non offre più le
stesse garanzie della raccomandata tradizionale. [omissis]
La seconda criticità della posta certificata è che essa non
garantisce la piena prova dell'effettiva consegna del
documento al destinatario. Invece, con il sistema
tradizionale della notifica cartacea, tale circostanza è
garantita dal postino, dall'ufficiale giudiziario o dal
messo notificatore in quanto pubblici ufficiali e, come
tali, capaci di dare «fede privilegiata» alla propria
attestazione di consegna (sia essa la relata di notifica o
il registro di consegne delle raccomandate a.r.).
Nel caso della Pec, l'attestazione di spedizione e
d'immissione della mail nella casella del destinatario è
fornita solo da un sistema informatico automatizzato, privo
quindi di alcuna garanzia di certezza per il contribuente.
Il gestore della posta certificata garantisce soltanto la
disponibilità del documento nella casella di posta
elettronica del destinatario, a prescindere da ogni
possibile verifica della effettiva apertura e lettura del
messaggio. Ebbene, la semplice disponibilità di un documento
nella casella Pec non equivale all'avvenuta consegna del
documento al destinatario, il quale potrebbe non leggerla
per svariate ragioni non sempre dipendenti dalla propria
volontà.
Rispetto al sistema raccomandata, la Pec lascia incerto
l'esito della sua ricezione oltre che la data di effettiva
avvenuta conoscenza del messaggio, alterando il dies a quo
per eventuali contestazioni successive. [omissis ]
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Revoca
contributi non dal Tar. Le controversie sono fuori dalla
giurisdizione esclusiva. Lo
ribadiscono i giudici del Tribunale amministrativo regionale
dell'Emilia Romagna.
Le controversie in materia di attribuzione (e, quindi, di
revoca) di contributi o agevolazioni finanziarie non
rientrano nella giurisdizione esclusiva di cui il giudice
amministrativo dispone in materia di concessioni di beni
pubblici ai sensi dell'art. 133, lett. b), cod. proc. amm..
Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna, con la
sentenza
30.06.2016 n. 688.
Già le sezioni unite della Cassazione (19.05.2008, n.
12641), come ricordato dai giudici amministrativi bolognesi
nella sentenza in commento, hanno avuto modo di chiarire la
differente struttura delle concessioni di beni e delle
erogazioni di denaro, in quanto, «anche se il denaro è
annoverabile nella categoria dei beni, la concessione a
privati di benefici pubblici presuppone l'uso temporaneo da
parte dei privati di detti beni per una finalità di pubblico
interesse, mentre il finanziamento implica un tipo di
rapporto giuridico del tutto diverso, in forza del quale il
finanziato acquisisce la piena proprietà del denaro
erogatogli ed eventualmente assume l'obbligo di restituirlo
in tutto o in parte ad una determinata scadenza».
Inoltre, a parere del Tar andrebbe a confermare
l'inesistenza di una giurisdizione esclusiva estesa a tutta
la materia dei finanziamenti pubblici anche la legge 24.12.2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione
dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa
e delle politiche dell'Unione europea), che nel testo
dell'art. 133 del codice del processo amministrativo ha
inserito la lettera z-sexies, attributiva al giudice
amministrativo della giurisdizione esclusiva solo nelle
«controversie relative agli atti e ai provvedimenti che
concedono aiuti di stato in violazione dell'articolo 108,
paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i
provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di
recupero di cui all'articolo 14 del regolamento (Ce) n.
659/1999 del Consiglio del 22.03.1999, a prescindere
dalla forma dell'aiuto e dal soggetto che l'ha concesso».
E pertanto mancando delle norme speciali, la giurisdizione
in materia di contributi e agevolazioni finanziarie sarà
soggetta agli ordinari criteri di riparto, con il
conseguente possibile concorso, a seconda del tipo di
controversia e di situazione soggettiva dedotta, delle
giurisdizioni ordinaria, amministrativa e tributaria
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
---------------
MASSIMA
2. Il Collegio si interroga d’ufficio sulla appartenenza
della controversia alla giurisdizione del giudice
amministrativo. Di possibili profili di inammissibilità del
ricorso per difetto di giurisdizione le parti sono state
rese edotte, ai sensi dell’art. 73 c.p.a., alla pubblica
udienza del 28.06.2016, come da verbale.
Il Collegio richiama alcuni principi
stabiliti dall’adunanza plenaria, con sentenza n. 6/2014, in
tema di riparto di giurisdizione nelle controversie aventi
per oggetto i contributi pubblici.
In particolare, per quanto può rilevare nella controversia
in esame, la citata sentenza dell’Adunanza plenaria ha
stabilito che:
– le controversie in materia di attribuzione (e, quindi, di
revoca) di contributi o agevolazioni finanziarie non
rientrano nella giurisdizione esclusiva di cui il giudice
amministrativo dispone in materia di concessioni di beni
pubblici ai sensi dell’art. 133, lett. b), cod. proc. amm.
(la decisione richiama, in proposito, la pronuncia delle
Sezioni Unite della Cassazione 19.05.2008, n. 12641, in cui
è stata chiarita la differente struttura delle concessioni
di beni e delle erogazioni di denaro, in quanto, anche se il
denaro è annoverabile nella categoria dei beni, la
concessione a privati di benefici pubblici presuppone l’uso
temporaneo da parte dei privati di detti bene per una
finalità di pubblico interesse, mentre il finanziamento
implica un tipo di rapporto giuridico del tutto diverso, in
forza del quale il finanziato acquisisce la piena proprietà
del denaro erogatogli ed eventualmente assume l’obbligo di
restituirlo in tutto o in parte ad una determinata
scadenza);
– alla sussistenza della giurisdizione amministrativa
osterebbe, comunque, la riserva, prevista dallo stesso art.
133, lett. b), cod. proc. amm., a favore della giurisdizione
ordinaria di tutte le questioni patrimoniali inerenti a
compensi vantati dal concessionario, qualunque sia il
nomen in concreto utilizzato (“canoni, indennità ed
altri corrispettivi”);
– conferma dell’inesistenza di una giurisdizione esclusiva
estesa a tutta la materia dei finanziamenti pubblici si trae
anche dalla legge 24.12.2012, n. 234 (Norme generali sulla
partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione
della normativa e delle politiche dell'Unione europea), che
nel testo dell’art. 133 del codice del processo
amministrativo ha inserito la lettera z-sexies, attributiva
al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva solo
nelle «controversie relative agli atti ed ai
provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione
dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul
funzionamento dell'Unione europea e le controversie aventi
ad oggetto gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione
di una decisione di recupero di cui all'articolo 14 del
regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22.03.1999, a
prescindere dalla forma dell'aiuto e dal soggetto che l’ha
concesso»; ciò significa che in assenza di norme
speciali, la giurisdizione in materia di contributi e
agevolazioni finanziarie è soggetta agli ordinari criteri di
riparto, con il conseguente possibile concorso, a seconda
del tipo di controversia e di situazione soggettiva dedotta,
delle giurisdizioni ordinaria, amministrativa e tributaria.
Sulla base di tali argomentazioni e di altre ancora, per le
quali si rinvia alla decisione di cui trattasi, l’Adunanza
plenaria ha ritenuto di riconfermare il tradizionale e
consolidato indirizzo giurisprudenziale, condiviso sia dalle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza
25.01.2013, n. 1776; 24.01.2013, n. 1710; 07.01.2013, n.
150; 20.07.2011, n. 15867; 18.07.2008, n. 19806; 26.07.2006,
n. 16896; 10.04.2003, n. 5617), sia dal Consiglio di Stato
(cfr., da ultimo, A.p. 29.07.2013, n. 13), secondo cui
il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e
giudice amministrativo in materia di controversie
riguardanti la concessione e la revoca di contributi e
sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del
generale criterio di riparto fondato sulla natura della
situazione soggettiva azionata. Pertanto, sempre per quanto
qui rileva, sussiste sempre la giurisdizione del giudice
ordinario quando il finanziamento è riconosciuto
direttamente dalla legge, mentre alla pubblica
amministrazione compete soltanto la verifica circa
l’effettiva esistenza dei relativi presupposti senza margini
di apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid,
il quomodo dell’erogazione
(cfr. Cass., SS. UU., 07.01.2013, n. 150).
Nel caso in esame, l’amministrazione deve soltanto
verificare la sussistenza o meno dei “titoli all’aiuto”
in capo al richiedente, il quale vanta pertanto una
situazione di diritto soggettivo e non già di interesse
legittimo.
Ne consegue l’inammissibilità del ricorso per difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo. Il processo potrà
proseguire dinanzi al competente giudice ordinario ai sensi
dell’art. 11 cod. proc. amm., nei modi e nei termini ivi
indicati. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'illegittima ordinanza di demolizione di un abuso
edilizio risalente a ben 52 anni addietro.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale
prevalente in materia, secondo il quale "l'ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato alla constatata
abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione
delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di
un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione,
non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto".
Tuttavia, l'orientamento sopra esposto, seppure prevalente,
non è affatto pacifico.
Invero, esiste un ulteriore filone giurisprudenziale, finora
sempre ritenuto preferibile dal Collegio, in quanto più
sensibile alle esigenze del privato, che afferma la
necessità di una congrua e più articolata motivazione sul
pubblico interesse, in considerazione del notevole lasso di
tempo trascorso tra la sanzione e l’abuso, diverso da quello
al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato, in
particolare quando abbia ingenerato un affidamento del
privato: “In tali casi, infatti, per il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi
dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza,
si ritiene che si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato, in relazione alla quale l'esercizio
del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla
tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello del ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato”.
---------------
Tenuto conto che gli abusi edilizi contestati sono stati
eseguiti a una distanza di 52 anni, da un soggetto diverso
dall’attuale proprietaria, l’Amministrazione comunale,
rimasta per tutto quel tempo inerte, avrebbe dovuto
puntualmente motivare sull'interesse pubblico al ripristino
dei luoghi e congruamente ponderare l'interesse della
ricorrente al mantenimento della situazione consolidatasi e
il conseguente affidamento derivante dal protrarsi della
propria inerzia nell'esercizio del pur configurabile potere
repressivo.
L’ordinanza di ripristino è priva di motivazione sul punto.
Infatti, in nessuna parte di tale ordinanza sono state
esternate le ragioni di pubblico interesse sottese
all’adottato ordine di ripristino dello stato dei luoghi,
differenti dal mero ripristino della legalità, essendosi
limitata l’Amministrazione comunale a rilevare che “è
necessario provvedere ai sensi di legge onde garantire un
ordinato sviluppo urbanistico del territorio nonché il
rispetto della normativa in materia urbanistica”.
---------------
Nel ricorso notificato in data 19.09.2014 la ricorrente
censura l’ordinanza ripristino n. 450/2014 dd. 30.05.2014 per
violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 7 della L.P.
22.10.1993 n. 17 ed eccesso di potere per difetto di
motivazione. In particolare la ricorrente afferma che il
Comune, con l’ordinanza di ripristino n. 450/2014 dd.
30.05.2014, avrebbe sanzionato degli abusi edilizi risalenti
al 1962.
A causa dell’inerzia prolungata del Comune di
Merano (la distanza tra la realizzazione degli abusi e
l’atto repressivo del Comune è di 52 anni) si sarebbe
ingenerata in capo alla ricorrente So.Sc. una
posizione di affidamento al mantenimento delle opere di cui
trattasi. L’Amministrazione comunale avrebbe quindi dovuto
motivare congruamente le ragioni di pubblico interesse,
diverse dal mero ripristino della legalità, idonee a
giustificare il sacrificio del contrapposto interesse
privato.
Mancando completamente una motivazione in tal senso
l’ordinanza di ripristino sempre secondo la ricorrente,
sarebbe illegittima.
La censura è fondata.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale
prevalente in materia, secondo il quale "l'ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato alla constatata
abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione
delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di
un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione,
non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto" (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702; nello stesso senso, da
ultimo: Sez. VI, n. 13/2015; Sez. IV, n. 3182/2013; Sez. VI,
n. 6072/2012; Sez. IV, n. 2592/2012; Sez. IV n. 4403/2011;
Sez. IV n. 79/2011; Sez. IV n. 5509/2009; Sez. IV n.
2529/2004; TAR Lazio 22.3.2016, n. 3604).
Tuttavia, l'orientamento sopra esposto, seppure prevalente,
non è affatto pacifico.
Invero, esiste un ulteriore filone giurisprudenziale, finora
sempre ritenuto preferibile dal Collegio, in quanto più
sensibile alle esigenze del privato, che afferma la
necessità di una congrua e più articolata motivazione sul
pubblico interesse, in considerazione del notevole lasso di
tempo trascorso tra la sanzione e l’abuso, diverso da quello
al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato, in
particolare quando abbia ingenerato un affidamento del
privato: “In tali casi, infatti, per il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi
dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza,
si ritiene che si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato, in relazione alla quale l'esercizio
del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla
tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello del ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato” (cfr. TRGA Bolzano, 09.10.2013, n. 298; n. 116/2014; n. 223/2011; n. 243/2010;
n. 173/2006; nello stesso senso, Cons. Stato, Sez. VI, n.
1393/2016; Sez. VI, n. 2512/2015; Sez. V, n. 3847/2013; Sez.
IV, n. 1016/2014; Sez. IV, n. 4607/2009; Sez. V, n.
883/2008, Sez. V, n. 3270/2006; TAR Campania, Salerno, 08.03.2013, n. 634; TAR Campagna, Napoli, sez. II,
13.12.2013, n. 5730; TAR Campagna, Napoli, sez. II,
22.11.2013, n. 5317; TAR Campagna, Napoli, sez. II, 03.05.2013, n. 2287; TAR Campagna, Napoli, sez. II,
07.01.2014,
n. 17; TAR Puglia, Bari, 11.02.2013, n. 206; TAR
Puglia–Lecce, sez. III, 03.01.2014, n. 1; TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 12.07.2012 n. 1219; TAR Lazio, Latina,
23.01.2012, n. 41; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 10.10.2012,
n. 1255; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 05.04.2013, n. 421;
TAR Piemonte, Torino, sez. II, 27.10.2011, n. 1135; TAR
Marche, Ancona, sez. I, 01.08.2011, n. 634; TAR Piemonte,
Torino, sez. I, 06.06.2011, n. 578; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 07.08.2012, n. 2180).
Nel caso di specie, è incontestato che gli abusi accertati
dal Comune di Merano sono stati realizzati nell’anno 1962
dal dante causa della ricorrente Gi.Mi., in
difformità della licenza edilizia dd. 28.06.1962, prot. n.
7715. Dalla relazione tecnica del 26.05.2014, a firma
dell’ing. Ug.Ma., allegata al progetto in sanatoria dd.
16.06.2014 emerge, infatti, che gli abusi realizzati in
difformità dalla licenza edilizia dd. 28.06.1962, prot. n.
7715, risalgono alla seconda metà del 1962 e sono stati
accatastati nell’anno 1974.
Orbene, tenuto conto che gli abusi edilizi contestati sono
stati eseguiti a una distanza di 52 anni, da un soggetto
diverso dall’attuale proprietaria So.Sc.,
l’Amministrazione comunale, rimasta per tutto quel tempo
inerte, avrebbe dovuto puntualmente motivare sull'interesse
pubblico al ripristino dei luoghi e congruamente ponderare
l'interesse della ricorrente al mantenimento della
situazione consolidatasi e il conseguente affidamento
derivante dal protrarsi della propria inerzia nell'esercizio
del pur configurabile potere repressivo.
L’ordinanza di ripristino è priva di motivazione sul punto.
Infatti, in nessuna parte di tale ordinanza sono state
esternate le ragioni di pubblico interesse sottese
all’adottato ordine di ripristino dello stato dei luoghi,
differenti dal mero ripristino della legalità, essendosi
limitata l’Amministrazione comunale a rilevare che “è
necessario provvedere ai sensi di legge onde garantire un
ordinato sviluppo urbanistico del territorio nonché il
rispetto della normativa in materia urbanistica”.
Orbene, chiarito quanto sopra, il ricorso merita
accoglimento in parte qua, sotto il profilo del difetto di
motivazione, in ordine all’interesse pubblico al ripristino,
in presenza di affidamento della ricorrente, riconducibile
al fatto che le opere abusive sono state realizzate in un
periodo risalente nel tempo (52 anni fa).
Sono fatti salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’Amministrazione (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 30.06.2016 n. 217 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
basta la Dia se la ristrutturazione comporta una nuova
costruzione. Non basta la Dia (denuncia di inizio attività)
se la ristrutturazione edilizia comporta una nuova
costruzione. LA CASSAZIONE SI E'
ESPRESSA SULLA RICOSTRUZIONE.
La ristrutturazione attuata attraverso la demolizione e la
ricostruzione dell'edificio preesistente impone il
mantenimento della medesime volumetria e sagoma (articolo 3,
comma primo, lett. d), Dpr. n. 380 del 2001), diversamente
si dà luogo a «nuova costruzione», che necessità di un
permesso a costruire.
È con l'ordinanza 24.06.2016 n. 32086
(udienza) che la Corte di Cassazione (Sez. VII penale) si è
pronunciata in merito al titolo da utilizzare per la
ristrutturazione edilizia attuata attraverso la demolizione
e la successiva ricostruzione di un manufatto preesistente.
La «semplice ristrutturazione» si verifica ove gli
interventi comportano una modifica esclusivamente interna e
abbiano interessato un edificio del quale sussistano e
rimangano inalterate le componenti essenziali, quali muri
perimetrali e le strutture orizzontali. Mentre è ravvisabile
la «ricostruzione» allorché dell'edificio esistente siano
venute meno, per evento naturale o per volontaria
demolizione dette componenti (muri perimetrali e strutture
orizzontali) e l'intervento si traduca nell'esatto
ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione
rispetto all'originarie dimensioni dell'edificio e in
particolare senza aumenti della volumetria.
In presenza di tali aumenti, si verte, in ipotesi di «nuova
costruzione», come tale sottoposta alla disciplina delle
distanze e alla presentazione del permesso di costruire
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è manifestamente infondato.
Per quanto riguarda il primo ed il secondo motivo, che
possono essere esaminati congiuntamente in quanto riguardano
entrambi la sussistenza del reato ascritto alla ricorrente
ed il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, deve rilevarsi che la Corte d'appello ha
chiaramente e logicamente illustrato le ragioni sia della
affermazione di responsabilità della ricorrente (fondata
sulla disposizione di lavori comportanti l'abbassamento del
piano di calpestio del seminterrato, mediante sbancamento
del terreno, con un aumento dell'altezza interna da metri
2,50 a metri 2,75, e la posa dei ferri di armatura per la
realizzazione di un balcone, comportanti modifica della
volumetria, della sagoma e del prospetto dell'edificio,
dunque richiedenti il permesso di costruire), sia della
sussistenza dell'elemento psicologico del reato (non escluso
dal ripristino dello stato dei luoghi), sia del diniego
delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale
della pena, in ragione della zona in cui insiste il
manufatto (dichiarata di notevole interesse pubblico) e
della tipologia delle opere.
Tale motivazione risulta del tutto corretta ed immune dai
vizi denunciati, invero in modo generico, dalla ricorrente,
in quanto, una volta accertata l'entità delle opere,
comportanti la parziale demolizione del seminterrato
preesistente, la Corte territoriale ha correttamente
applicato il principio costantemente affermato da questa
Corte, secondo cui
la ristrutturazione attuata attraverso demolizione e
ricostruzione dell'edificio preesistente impone il
mantenimento delle medesime volumetria e sagoma (art. 3,
comma primo, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001), diversamente
dandosi luogo a "nuova costruzione", assentibile
unicamente con permesso a costruire (nella specie mancante)
e non anche con denuncia di inizio attività
(Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010, Cavallo, Rv. 246757). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Soggetto responsabile dell'abuso
edilizio - Valutazione del comproprietario non committente -
Disconoscimento del concorso del proprietario del terreno
non committente dei lavori - Artt. 19, 31, c. 9, e 44, lett.
b), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del
concorso del proprietario del terreno non committente dei
lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art.
44 è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla
commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli
non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Pertanto, non è sufficiente, per escludere il concorso nel
reato, che il proprietario del terreno non abbia
commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario
non committente vada esente da responsabilità occorre
qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso
non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle
condizioni di impedirne l'esecuzione.
Abuso edilizio - Soggetti responsabili -
Individuazione del comproprietario non committente -
Elementi oggettivi e soggettivi - Art. 44, lett. b), d.P.R.
n. 380/2001.
In tema di reati edilizi, l'individuazione del
comproprietario non committente quale soggetto responsabile
dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi
di natura indiziaria:
- piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo,
interesse specifico ad edificare la nuova costruzione,
rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore
dell'opera abusiva ed il proprietario;
- eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo
durante l'effettuazione dei lavori;
- lo svolgimento di attività di materiale vigilanza
sull'esecuzione dei lavori;
- la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in
sanatoria;
- il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in
definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti,
positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi
integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione,
anche morale; all'esecuzione delle opere, tenendo presente
pure la destinazione finale della stessa (Cass. Sez. 3,
27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi;
10.08.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756,
Capasso; 02.03.2004, n. 9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319,
Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121,
Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del
21/03/2013; Sez. 3, n. 52040 dell'11/11/2014).
Abuso edilizio - Responsabilità -
Valutazione del comproprietario non committente.
La valutazione del comproprietario non committente quale
soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al
sindacato di legittimità della Suprema Corte, in quanto
comporta un giudizio di merito che non contrasta ne' con la
disciplina in tema di valutazione della prova né con le
massime di esperienza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26428 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato di costruzione abusiva - Ordine di
demolizione dell'opera - Estinzione per prescrizione -
Effetti.
In materia edilizia, l'estinzione del reato di costruzione
abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione
dell'opera, indipendentemente da una espressa statuizione di
revoca, atteso che tale ordine è una sanzione amministrativa
di tipo ablatorio che trova la propria giustificazione nella
accessorietà alla sentenza di condanna (Cass. Sez. 3, n.
10/02/2006, Cirillo; Sez. 3, n. 8409 del 30/11/2006, dep.
28/02/2007; Sez. 3, n. 756 del 02/12/2010, dep. 14/01/2011;
Sez. 3, n. 50441 del 27/10/2015) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26428 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire - Interventi eseguiti in
assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali -
Demolizione delle opere - Natura di sanzione amministrativa
di tipo ablatorio - Fattispecie.
Confisca dell'area adibita a discarica abusiva - Limiti -
Estinzione del reato - Art. 256, comma 1, lett. a), e 3
d.lgs. 152/2006 - Artt. 31, c. 9, e 44, lett. b), d.P.R. n.
380/2001 - Art. 444 c.p.p..
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi
eseguiti in assenza di permesso di costruire ovvero in
totale difformità o con variazioni essenziali - (che
riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo
comma della legge n. 47 del 1985) prevede, infatti,
testualmente che "per le opere abusive di cui al presente
articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il
reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere
stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio
(non di una pena accessoria, né di una misura di sicurezza
patrimoniale), caratterizzata dalla natura giurisdizionale
dell'organo istituzionale al quale ne è attribuita
l'applicazione, la cui catalogazione fra i provvedimenti
giurisdizionali trova ragione giuridica proprio nella sua
accessività alla "sentenza di condanna".
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come
presupposto -diversamente da quanto già previsto dalla
stessa L. n. 47 del 1985, art. 19 ed attualmente dal D.P.R.
n. 380 del 2001, art. 44, comma 2, per la confisca dei
terreni abusivamente lottizzati- la pronuncia di una
sentenza di condanna o ad essa equiparata e non il mero
accertamento della commissione dell'abuso edilizio, come nel
caso di sentenza di estinzione per prescrizione (vedi Cass.,
Sez. 3 16.02.1998, n. 4100, ric. Maniscalco).
Nella specie, quindi, la declaratoria di estinzione del
reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge
l'ordine di demolizione impartito con la sentenza impugnata.
Con riferimento alla confisca, va osservato che non può
essere disposta la confisca dell'area adibita a discarica
abusiva, in caso di estinzione del reato (nella specie, per
prescrizione), né a norma dell'art. 256, comma terzo, d.lgs.
n. 152 del 2006, né a norma dell'art. 240, comma secondo,
cod. pen. (Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687; Sez.
3 n. 13741, 22.03.2013, non massimata).
Il d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 3, stabilisce,
infatti, che unicamente alla sentenza di condanna o alla
sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. consegue la
confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica
abusiva se di proprietà dell'autore o del compartecipe al
reato (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26428 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Area adibita a discarica abusiva - La
declaratoria di estinzione del reato di costruzione abusiva
per prescrizione travolge anche la confisca.
Un'area adibita a discarica abusiva non rientra certamente
tra le ipotesi di cui all'art. 240, comma 2, cod. pen., sia
perché la realizzazione e la gestione di una discarica, se
debitamente autorizzata, è lecita, sia perché la
disposizione che la prevede consente la soggezione a
confisca obbligatoria solo se l'area appartenga all'autore o
al compartecipe al reato (Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013).
Nella specie, quindi, la declaratoria di estinzione del
reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge anche
la confisca disposta con la sentenza impugnata (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26428 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici - Sanatoria degli abusi edilizi
- Termini e condizioni - C.d. doppia conformità - Sanatoria
"giurisprudenziale" o "impropria" - Esclusione - Artt. 36 e
44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi
edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del
d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni,
deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e
può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le
condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. 380
del 2001 e, precisamente, la doppia conformità delle opere
alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della
realizzazione del manufatto, che al momento della
presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi
la possibilità di una legittimazione postuma di opere
originariamente abusive che, solo successivamente, in
applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale"
o "impropria", siano divenute conformi alle norme
edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica
(Cass. Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci; in senso
analogo, Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, Micolucci).
Divieto legale di rilasciare un permesso
in sanatoria - Sanatoria impropria o giurisprudenziale -
Effetti e limiti - Giurisprudenza amministrativa e di
legittimità - Art. 36 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di sanatoria giurisprudenziale il divieto legale di
rilasciare un permesso in sanatoria anche quando, dopo la
commissione dell'abuso, vi sia una modifica favorevole dello
strumento urbanistico, sia giustificato della necessità di "evitare
che il potere di pianificazione possa essere
strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non
punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)" oltre
che dall'esigenza di "disporre una regola senz'altro
dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perché in
tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque
disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una
modifica favorevole dello strumento urbanistico" (Cons.
Stato, Sez. 5, 17/03/2014, n. 1324; conf. Sez. 5,
27.05.2014, n. 2755) (c.d. "sanatoria giurisprudenziale"
in base alla quale si ritengono sanabili le opere che, non
conformi alla disciplina urbanistica ed alle previsioni
degli strumenti di pianificazione, lo siano divenute
successivamente e che sarebbe insensato demolire quando, a
demolizione avvenuta, potrebbero essere legittimamente
assentite).
Pertanto, confermando che la sanatoria impropria sarebbe
comunque improduttiva di effetti estintivi dei reati
urbanistici, si è presa in considerazione la sua rilevanza
con riferimento specifico all'ordine di demolizione,
rilevando, previo richiamo ai principi generali di buon
andamento e di economia dell'azione amministrativa invocato
dalla giurisprudenza amministrativa favorevole, che
l'eventuale suo rilascio renderebbe inapplicabile l'ordine
di demolizione, osservando, sostanzialmente, che sarebbe
insensato procedere alla demolizione di ciò che può poi
essere legittimamente ricostruito (Cass. Sez. 3, n. 14329,
07/04/2008; Sez. 3, n. 40969, 11/11/2005; Sez. 3, n. 1492,
09/02/1998; Sez. 3, n. 3082, 21/01/2008; Sez. 3, n. 24451,
21/06/2007).
Sentenza di condanna e ordine di
demolizione del manufatto abusivo - Rilascio del permesso di
costruire in sanatoria - Verifiche del giudice - Legittimità
dell'atto concessorio - Doppia conformità.
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito con
la sentenza di condanna, non è caducato in modo automatico
dal rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovendo
il giudice controllare la legittimità dell'atto concessorio
sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti
per la sua emanazione (e quindi, nella specie, della doppia
conformità, non sussistente) e dei requisiti di forma e
sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del
potere di rilascio (Cass. Sez. 3, n. 40475 del 28/09/2010,
Ventrici).
Abusivismo edilizio - Principio della
"doppia conformità" - Natura e finalità.
Il principio della "doppia conformità" risulta
finalizzato a "garantire l'assoluto rispetto della
"disciplina urbanistica ed edilizia" durante tutto l'arco
temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la
presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento
di conformità", aggiungendo, e richiamando la
giurisprudenza amministrativa, che la sanatoria, che si
distingue dal condono vero e proprio, "è stata
deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi
"formali", ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo,
rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione
della sanatoria in esame, "anche di natura preventiva e
deterrente", finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in
modo da escludere letture "sostanzialiste" della norma che
consentano la possibilità di regolarizzare opere in
contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente
al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi
solo al momento della presentazione dell'istanza per
l'accertamento di conformità" (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26425
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permanenza del reato di edificazione abusiva -
Elementi, presupposti e termini - Definizione del rustico
completo e del tempus commissi delicti - Lavori ultimati ai
fini della condonabilità.
In materia urbanistica, ai soli fini del condono edilizio
corrisponde alla realizzazione del rustico completo di
tamponature laterali e copertura (Cass. Sez. 3, n. 28233 del
14/06/2011, Aprea), mentre, ai fini dell'individuazione del
tempus commissi delicti, corrisponde al completamento
del manufatto, comprese le rifiniture esterne e interne (di
recente, sulla cessazione della permanenza, Sez. 3, n. 29974
del 06/05/2014, Sullo: "La permanenza del reato di
edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione
della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa
volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori
abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo
l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello
della emissione della sentenza di primo grado"; in
applicazione del principio, la Corte ha aggiunto che, ai
fini dell'individuazione del momento di cessazione dei
lavori, il completamento dell'opera con tutte le rifiniture
interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico,
che, se utile nella normalità dei casi, non consente di
escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia
terminata anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso
anzidetto, come ad esempio quando risulti l'ininterrotto
utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione
delle utenze necessarie).
Infatti, come disposto dall'art. 31, comma 2, L. n. 47 del
1985, si intendono come ultimati, ai fini della
condonabilità, "gli edifici nei quali sia stato eseguito
il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle
opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non
destinate alla residenza, quando esse siano state completate
funzionalmente" (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26425
- link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Con
l'autotutela cessa la materia del contendere.
La materia del contendere può dirsi cessata quando viene a
mancare l'oggetto della lite, come avviene quando l'atto
fiscale impugnato è annullato in autotutela. Le sezioni
unite della Corte hanno escluso che, in un processo
dipendente come quello sugli avvisi Ici, il classamento
possa essere fatto oggetto di accertamento incidentale.
Scelta ora recepita dall'art. 39, co 1-bis, dlgs n.
546/1992, che ha consacrato in legge l'istituto della
sospensione necessaria per pregiudizialità interna. Il
giudice di merito avrebbe quindi dovuto annullare gli avvisi
Ici in quanto fondati su atti di classamento non più
esistenti, senza avere il potere di compiere alcun
accertamento catastale ai sensi dell'art. 34 cpc.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con
la
sentenza 17.06.2016 n. 12570.
Nel caso all'esame il Territorio attribuiva a un immobile
adibito a caserma della polizia stradale e a un immobile
adibito a cabina elettrica le categorie catastali D/7 e D/1.
Il comune notificava avvisi Ici, poi impugnati dalla
contribuente contestualmente all'attribuzione di rendita.
Nelle more del giudizio il Territorio provvedeva in
autotutela alla rettifica delle categorie, da D/1 e D/7 a
E/3, chiedendo che fosse dichiarata cessata la materia.
La Ctp, tuttavia, non dichiarava la cessata materia, ordinando
all'Agenzia di produrre la documentazione relativa al
procedimento di rettifica. L'Agenzia rettificava allora, di
nuovo, le categorie catastali, attribuendo alla caserma la
cat, B/1 e alla cabina elettrica la cat. D/1, e opponendosi
alla declaratoria di cessata materia in precedenza
richiesta.
La Ctp respingeva i ricorsi con sentenza poi
confermata dalla Ctr, la quale affermava che la Ctp non era
tenuta a dichiarare la cessazione della materia del
contendere in modo automatico e ciò sia a causa della
illegittimità del primo provvedimento di autotutela e sia
comunque a causa del suo «superamento».
La contribuente ricorreva infine in cassazione, eccependo
che i giudici avevano deciso in mancanza di interesse delle
parti e comunque oltre la domanda. La Corte riteneva il
ricorso fondato, non rilevando l'annullamento
dell'attribuzione della Cat E/3, dato che gli atti di
classamento non esistevano più
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi paesaggistici - Natura di reato di pericolo
- Principio di offensività - Attitudine della condotta posta
in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto -
Danno al paesaggio ed all'ambiente - Individuazione ex ante
della potenzialità lesiva degli interventi - DIRITTO
URBANISTICO - Diversità di tutela con la disciplina
urbanistica ed edilizia - Art. 181-c.1, 142-lett. f) e 146
D.Lvo n.42/2004 - Artt. 185-c.2-lett. d), 184 e 256-c.1
D.Lgs. n. 152/2006.
In tema di abusi paesaggistici, il principio di offensività
opera in relazione alla attitudine della condotta posta in
essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto
la natura di reato di pericolo della violazione non richiede
la causazione di un danno e la incidenza della condotta
medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure
qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la
compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito. [Cass.
Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 (dep. 16/03/2015), Murgia;
Cass. Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon].
Pertanto, l'individuazione della potenzialità lesiva di
detti interventi deve essere effettuata mediante una
valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non
già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente,
bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a
ledere il bene giuridico tutelato e che, proprio per tali
ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte
dell'ente preposto alla tutela del vincolo per ogni
intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati
dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Configurabilità del reato paesaggistico
- Integrazione della fattispecie - Presupposti - Interventi
in zone vincolate - Assenza del controllo e della
autorizzazione amministrativa indipendentemente dal
risultato sulle bellezze naturali.
Il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta
consista nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione
i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza
l'azione dell'uomo, siano venuti meno, restituendo ai luoghi
l'originario assetto (Cass. Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013,
Simeon).
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi
in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione
amministrativa indipendentemente dal risultato sulle
bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai fini
dell'integrazione della fattispecie, la mancanza di danno
ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela
del vincolo (Cass. Sez. 3, n. 10463 del 25/01/2005, Di
Cesare).
Reati incidenti su beni paesaggistici
vincolati - Introduzione di vincoli paesaggistici
generalizzati - Fondamento - Valutazione che l'integrità
ambientale è un bene unitario - Bene paesaggistico e tutela
ambientale - Unicità del valore estetico-culturale.
La ratio della introduzione di vincoli paesaggistici
generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella
valutazione che l'integrità ambientale è un bene unitario,
che può risultare compromesso anche da interventi minori e
che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza e che la
severità del relativo trattamento sanzionatorio trova
giustificazione nella entità sociale dei beni protetti e nel
ricordato carattere generale, immediato ed interinale, della
tutela che la legge ha inteso apprestare di fronte alla
urgente necessità di reprimere comportamenti tali che
possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili
all'integrità ambientale.
I reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge
hanno introdotto una tutela del paesaggio (per vaste
porzioni del territorio individuate secondo tipologie
paesistiche, ubicazioni o morfologiche), improntata a
integrità e globalità, implicante una riconsiderazione
assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in
attuazione del valore estetico-culturale.
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta
sostanziale identità dei valori in gioco, il bene
paesaggistico non può essere considerato qualcosa di avulso
dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta nella
norma è sufficientemente determinata
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2016 n. 25041
- tratto da www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici e paesaggistici - Realizzazione
di opere in variazione essenziale rispetto all'opera
assentita - Violazioni paesaggistiche ed urbanistiche -
Penale responsabilità del proprietario e committente delle
opere, del direttore dei lavori e del titolare della ditta
esecutrice dei lavori - Correlazione tra accusa e sentenza -
Artt. 44, lett. e), d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1-bis,
d.lgs. 42/2004.
La realizzazione di opere in variazione essenziale rispetto
all'opera assentita fa emergere la penale responsabilità, ai
sensi degli artt. 44, lett. e), d.P.R. 380/2001 e 181, comma
1-bis, d.lgs. 42/2004, del proprietario e committente delle
opere, del direttore dei lavori e del titolare della ditta
esecutrice dei lavori. Nella fattispecie, la pratica
edilizia non conteneva rappresentate le scale e su un lato
dell'edificio erano state realizzate quattro aperture
laddove nel permesso non ne era contemplata nessuna, mentre,
su un altro lato ne erano state realizzate sette in luogo
delle cinque previste.
Pertanto, non sussiste alcun problema di correlazione tra
contestazione e sentenza, sia perché la contestazione
enunciava l'assenza del permesso di costruire (e del
nulla-osta della autorità preposta al vincolo), sia perché,
in fatto, era espressamente contestata la (specifica)
realizzazione di scale e finestre non contemplate dal
permesso stesso.
Violazione dei titoli abilitativi ab
origine validi ed esistenti - Principio di correlazione tra
accusa e sentenza - Reato di esecuzione di lavori in assenza
del permesso di costruire e in assenza della concorrente
autorizzazione paesaggistica - Configurabilità.
Non è nulla, per violazione del principio di correlazione
tra accusa e sentenza, la pronuncia con la quale l'imputato,
che sia stato tratto a giudizio per rispondere del reato di
esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire e
in assenza della concorrente autorizzazione paesaggistica,
sia stato invece condannato per aver violato i titoli
abilitativi ab origine validi ed esistenti, perché,
all'eventuale riconoscimento della valida esistenza di
questi ultimi, non osta, in caso di riscontrata violazione
delle loro statuizioni, la possibilità di ritenere integrati
i reati urbanistici e paesaggistici contestati, sia quando
dalla riscontrata violazione degli originari titoli
scaturisce la necessità di ritenere che, come nel caso di
specie (implicante realizzazione di parti esterne aggiuntive
del fabbricato non contemplate dal permesso e la modifica
delle facciate), per il tipo di intervento realizzato, fosse
indispensabile per il privato richiedere ed ottenere il
titolo mancante, sia quando si riconosca che i titoli
abilitativi esistevano ed erano validi, ma che essi sono
stati violati in ordine alle loro prescrizioni circa
l'esecuzione, in difformità da essi, dell'intervento
assentito.
Non vi è pertanto mutamento dell'accusa quando i due fatti
-quello contestato e quello ritenuto- si trovino tra loro in
rapporto di continenza.
Inosservanza di un titolo abilitativo
valido ed efficace e dell'autorizzazione paesistica - Minus
rispetto ad una costruzione totalmente abusiva.
L'inosservanza di un titolo abilitativo valido ed efficace e
parallelamente dell'autorizzazione paesistica si risolve, in
fase esecutiva, in un minus rispetto ad una
costruzione eseguita in radicale difetto del permesso di
costruire o dell'autorizzazione paesaggistica e ciò, a
maggior ragione, nel caso ove sono state precisamente
individuate e fatte rientrare nel contenuto
dell'imputazione, con conseguente possibilità per l'imputato
di esercitare pienamente il diritto di difesa(cfr. Sez. 3,
n. 15820 del 25/11/2014, Picariello) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2016 n. 24334
- link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Pensiline fotovoltaiche, una destinazione
speciale.
Le pensiline dotate di pannelli fotovoltaici destinate a
parcheggio presenti nelle aree di servizio autostradali non
hanno una autonomia reddituale del bene e sono
classificabili come edifici a destinazione particolare.
Quanto sopra è contenuto nella
sentenza 27.05.2016 n. 204/02/16 della Ctp di Rieti
secondo cui tali pensiline non producono energia
fotovoltaica per la loro natura accessoria e secondaria
della stessa, risultando classificabili nella categoria E/9.
Nel caso in esame la società autostrade ha impugnato
l'avviso di accertamento con cui l'ufficio finanziario ha
attribuito la categoria D/1 (opifici) al manufatto adibito a
pensilina per il parcheggio dotato di copertura di pannelli
fotovoltaici e presente in una tratta autostradale. La
società ricorrente ha eccepito l'erronea qualificazione
fatta dall'ufficio invocando la categoria E/9 (edifici a
destinazione particolare non compresi nelle categorie del
gruppo E), evidenziando la strumentalità del bene rispetto
all'esercizio dell'attività e l'irrilevanza della produzione
dell'energia fotovoltaica stante il carattere assolutamente
accessorio e secondario della stessa.
La Commissione
tributaria, accogliendo il ricorso della società, ha
ritenuto che secondo quanto previsto dall'art. 61 dpr
1142/1949 il classamento consiste nell'individuare la
destinazione ordinaria e le caratteristiche influenti sul
reddito nonché nel collocare il bene tra le categorie e
classi prestabilite per la zona censuaria avvalendosi di
confronti con le unità tipo.
I giudici hanno ritenuto, quindi, non corretta la
classificazione nella categoria D/1 in luogo di quella
richiesta dalla società ricorrente (E/9), ponendo in risalto
l'assenza di una significativa autonomia reddituale e
funzionale del bene in questione e il significativo nesso di
strumentalità dello stesso con l'esercizio della tratta
autostradale. A ciò va aggiunta la natura demaniale del bene
e la qualità di concessionaria del servizio autostradale.
Né ai fini dell'attribuzione della categoria catastale fatta
dall'ufficio, assumono rilevanza la presenza di pannelli
fotovoltaici di copertura della pensilina e la produzione di
energia elettrica. I pannelli, infatti, sono privi di
autonomia funzionale. Allo stesso modo la produzione di
energia elettrica è assolutamente marginale alle
caratteristiche oggettive funzionale del bene
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2016). |
TRIBUTI:
Tosap, non è esente l’area di manovra di un
distributore. Tributi locali. Occupazione di suolo non
occasionale.
L’occupazione di aree pubbliche
destinate alla manovra e all’accesso dei veicoli da
rifornire, da parte di un esercizio di distribuzione di
carburante, è soggetta a Tosap perché consiste nella
sottrazione di spazi alla pubblica disponibilità.
Lo afferma la Ctr di
Palermo, nella sentenza 11.04.2016 n. 1362/25/2016
(presidente Pillitteri, relatore Vincenti), in linea con le
precedente pronunce della Suprema Corte.
La vicenda nasce dal caso di un’impresa di distribuzione di
carburante che, oltre all’area adibita alla erogazione,
occupa un’ampia zona destinata a zona di manovra per
l’accesso dei veicoli. Dopo aver ricevuto gli accertamenti
Tosap del Comune, l’impresa ha proposto ricorso eccependo l’intassabilità
degli spazi in questione, trattandosi di occupazioni
occasionali.
Al riguardo, è opportuno ricordare che sono esenti da Tosap
«le occupazioni occasionali di durata non superiore a
quella che sia stabilita nei regolamenti di polizia locale e
le occupazioni determinate dalla sosta dei veicoli per il
tempo necessario al carico e allo scarico delle merci»
(articolo 49, lettera d) del Dlgs 507/1993).
La Ctr ha rigettato la richiesta del contribuente,
richiamando la sentenza 17591/2009 della Cassazione. Il
collegio siciliano ha preso in analisi quanto disposto
dall’articolo 48 del Dlgs 507/1993, che detta le regole
specifiche per l’applicazione della Tosap agli impianti di
distribuzione di carburanti, prevedendo che il tributo sia
commisurato alla capacità del serbatoio sotterraneo.
Questa peculiare misura include, convenzionalmente,
l’occupazione del sottosuolo e quella del suolo stradale
effettuata con le sole colonnine montanti per la
distribuzione di carburanti, per l’acqua e l’aria compressa,
nonché con un chiosco che insiste su una superficie nel
complesso non superiore a 4 metri quadrati.
È stato dunque osservato, in sintonia con la Suprema corte,
che per le occupazioni diverse da quelle sopra descritte, o
in eccesso rispetto all’estensione prevista, occorre
applicare la Tosap secondo le regole ordinarie.
Quanto all’esenzione, le occupazioni in esame non possono in
realtà essere qualificate come occasionali, perché
riguardano utilizzi di suolo pubblico continuativi nel corso
della giornata.
Il presupposto per l’applicazione della Tosap, inoltre, è
rappresentato dall’utilizzo esclusivo da parte del singolo
di uno spazio pubblico sottratto all’uso della collettività.
Il fatto materiale dell’occupazione effettuata
nell’interesse del privato, secondo quest’accezione, è
quindi sufficiente a rendere dovuta la tassa.
Nel caso in questione, se fossero state delimitate da
catenelle o altri mezzi idonei a inibirne l’uso pubblico
durante gli orari di apertura, le aree interessate non
avrebbero potuto sfuggire alla tassazione. Né rileva, in
proposito, che negli orari di chiusura gli spazi tornino a
essere pienamente fruibili: perché questo, al contrario,
rafforza la tesi dell’occupazione “sottrattiva”
effettuata dall’impresa, e sostenuta dagli uffici comunali
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia, opere più convenienti. Niente oneri
sull'impresa per lavori soggetti a Scia o Cila.
Breve ricognizione giurisprudenziale, a
partire da una sentenza del Tar Campania.
Sì ai lavori senza gli oneri di costruzione. Il comune deve
essere condannato a restituire le somme versate dal privato
per i lavori laddove le opere edilizie realizzate risultano
soggette a semplice Scia (Segnalazione certificata di inizio
attività) o Cila (Comunicazione inizio lavori asseverata) e
dunque non implicano un incremento del carico urbanistico: a
ottenere la rifusione del denaro è la società che gestisce
il centro commerciale, tenuta a effettuare di continuo
lavori di allestimento nei punti vendita che dà in affitto,
con abbattimento di tramezzi e rifacimento di pavimenti
secondo le esigenze del commerciante che subentra nella
locazione.
È quanto emerge dalla
sentenza
07.04.2016 n. 1769,
pubblicata dall'VIII Sez. del TAR Campania-Napoli.
Secondo l'amministrazione locale gli interventi eseguiti
sono di vera e propria ristrutturazione: nei negozi del mall
di provincia si rifanno bagni e controsoffitti e si
costruiscono vere e proprie pareti, per quanto di
cartongesso.
Ma anche a voler aderire alla tesi del comune le opere
realizzate non richiedono comunque il permesso di costruire
o la Dia sostitutiva: manca infatti l'incremento per il
volume complessivo degli immobili, oltre che della
destinazione d'uso o della sagoma. E il principio vale
sempre quando l'organismo edilizio ottenuto alla fine dei
lavori non è almeno in parte diverso dal precedente: il che
accade laddove ci si limita a rifare pavimenti e
controsoffitti o ad adeguare il bagno oppure gli impianti
idraulici ed elettrici.
In ogni caso, secondo i giudici, nella specie i lavori
risultano comunque assimilabili a interventi di manutenzione
straordinaria. E senza cambio di destinazione d'uso non si
può scaricare sul privato i costi sociali degli oneri di
urbanizzazione visto che manca la trasformazione di cui
avvantaggiarsi. Anche per le opere di ristrutturazione
edilizia, soggette al regime del permesso di costruire, il
pagamento degli oneri concessori è dovuto soltanto nel caso
in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico
urbanistico. Insomma: all'ente locale non resta che pagare
le spese di giudizio.
Gli oneri di urbanizzazione costituiscono da sempre un
problema per l'ufficio tecnico del comune. Ecco alcuni
precedenti giurisprudenziali.
Onere di motivazione.
Per l'amministrazione scatta lo stop
quando non sa spiegare come è arrivata, per esempio, a
determinare la somma chiesta alla spa che intende
ristrutturare l'immobile con cambio di destinazione a
industriale a commerciale.
È quanto emerge dalla
sentenza
06.07.2016 n. 1498, pubblicata dalla II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro.
Il ricorso della società che intende riconvertire lo
stabilimento è accolto rispetto alla carenza di motivazione
del provvedimento adottato dall'amministrazione locale;
un'omissione che peraltro continua anche in corso di causa:
anche dopo la richiesta ad hoc del collegio l'ente locale
non riesce infatti a motivare la sua istruttoria e, dunque,
a rendere ragione del motivo per cui ha adottato la sua
tabella A per addebitare gli oneri di urbanizzazione
all'impresa che procede alla ristrutturazione.
L'azienda è costretta a ricorrere al giudice perché non ha
contezza del procedimento seguito dal punto di vista
tecnico, istruttorio e contabile. E invece nel processo
amministrativo incombe sull'ente l'onere di leale e fattiva
collaborazione all'attività istruttoria disposta dal
giudice; risultato: il comportamento processuale del comune
che invece si sottrae all'obbligo e omette in modo
ingiustificato di ottemperare alle ordinanze istruttorie è
valutabile dal giudice ai fini dell'articolo 116 Cpc,
secondo un principio oggi riconosciuto dall'articolo 64,
comma 4, Cpa. Spese di giudizio compensate per la
peculiarità della questione.
Attività prevalente. I precedenti di giurisprudenza
consentono di affermare che i conteggi devono essere
precisi.
Dopo i lavori al capannone, per esempio, il comune rimborsa
alla concessionaria auto il costo di costruzione per la
superficie relativa all'officina: l'attività artigianale,
infatti, paga solo gli oneri di urbanizzazione, mentre
l'amministrazione locale non spiega perché di fronte a
strutture separate si dovrebbe applicare il criterio
dell'attività prevalente né dove starebbe l'accessorietà di
meccanici ed elettrauto rispetto alla vendita delle
macchine.
È quanto emerge dalla
sentenza
26.05.2015 n. 589, pubblicata
dalla II Sez. del TAR Veneto.
Da una parte la concessionaria, dall'altra l'officina, il
gommista e l'autolavaggio che servono anche marche di auto
diverse dalle case produttrici trattate dallo showroom. La
società ha pagato 366 mila euro di oneri di costruzione ma
ora ne ottiene indietro 244 mila più interessi, senza
rivalutazione.
Decisive la Dia-Scia e le planimetrie
depositate in giudizio: la vendita di auto risulta separata
dalla riparazione e ricorrere al criterio della prevalenza
come fa il comune rischia di sottostimare l'attività
commerciale cui è dedicata una superficie più modesta di
quella artigianale.
Nessun dubbio che l'officina lavori a pieno ritmo sotto
l'insegna «meccanico elettrauto gommista»: lo testimoniano i
consistenti obiettivi di vendita nei pezzi di ricambio
fissati nei contratti e la certificazione Inps relativa
all'industria meccanica. Insomma: il conteggio degli oneri
edilizi deve essere compiuto in maniera distinta rispetto ai
diversi utilizzi del fabbricato. Spese compensate per metà
data la novità della questione.
----------------
Sta all'amministratore calcolare gli
esborsi.
Il comune non può far gravare sul proprietario della
villetta il calcolo degli oneri di costruzione e
urbanizzazione, pena il mancato rilascio del permesso a
costruire necessario all'ampliamento progettato. E ciò
perché le «schede parametriche» pretese dal settore
urbanistica dell'ente locale costituiscono comunque un
presupposto del computo degli esborsi che spetta
all'amministrazione e non al cittadino: le condizioni poste
al rilascio del titolo edilizio possono essere tecniche o
strutturali ma non anche di natura burocratica.
È quanto
emerge dalla
sentenza
17.06.2016 n. 1503, pubblicata dalla II Sez. del TAR Campania-Salerno.
Accolto il ricorso del proprietario del terreno contro il
provvedimento che sospende l'istruttoria per la concessione
edilizia. Il comune minaccia che la pratica sarà archiviata
se entro trenta giorni l'interessato non presenterà i dati
richiesti: la superficie utile, che serve per determinare il
costo di costruzione, e il volume vuoto per pieno, che è
necessario per computare gli esborsi per l'urbanizzazione.
Le schede richieste sono tuttavia strumentali a un compito
che spetta unicamente all'ufficio dell'ente. È vero: se il
proprietario del fondo non paga i costi di costruzione o gli
oneri di urbanizzazione, può scattare l'esazione coattiva
della pretesa creditoria del comune e la conseguente
irrogazione di sanzioni. Ma il testo unico dell'edilizia non
prevede in caso d'inosservanza anche la sospensione del
titolo edilizio.
Insomma: l'amministrazione non può pretendere che la
redazione dell'atto sia predisposta dall'interessato. Spese
di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Legali pubblici come i privati. Chi perde la
causa con la p.a. paga gli oneri riflessi.
È quanto emerge da una sentenza del Tribunale
amministrativo dell'Emilia-Romagna.
L'avvocato dell'ente non è diverso da quello del libero
foro: dunque il privato che perde la causa intentata contro
il Comune deve pagare gli oneri riflessi previdenziali e
tributari, determinati nella misura di legge, in luogo di
Cap e Iva.
È quanto emerge dalla
sentenza
03.02.2016 n. 151, pubblicata dalla II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Criteri di ragionevolezza.
Trova ingresso la domanda
dell'ente locale nei confronti del privato che si vede
bocciare il ricorso dopo lo stop dell'amministrazione al
condono. Nella memoria di replica la parte privata contesta
la debenza degli oneri riflessi: nel corso dell'udienza
pubblica il difensore del Comune risponde chiedendo di poter
depositare una sentenza e un articolo che si occupano della
questione (deve presumersi tratto da una rivista giuridica).
L'istanza trova ingresso e il legale dell'ente locale
ottiene soddisfazione: è ragionevole, osservano i giudici,
equiparare i professionisti dell'avvocatura pubblica a
quelli del libero foro per l'attività che svolgono in
giudizio, fermi restando i rapporti interni tra l'avvocato
pubblico e l'ente datore di lavoro.
Insomma: quando a vincere la causa è un'amministrazione
pubblica difesa da un avvocato iscritto all'elenco speciale,
la formula «oltre oneri accessori di legge»
utilizzata di solito nel dispositivo deve essere intesa nel
senso che il soccombente deve corrispondere gli oneri
riflessi al posto del contributo previdenziale obbligatorio
dell'imposta sul valore aggiunto dovuti all'avvocato
privato. Al privato non resta che pagare 12 mila euro di
spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016). |
AGGIORNAMENTO AL 13.08.2016 |
ã |
Costituzione c.d. "Ufficio di Piano" e
liquidazione incentivo alla progettazione:
DANNO
ERARIALE!! |
Quanti comuni, nella redazione del proprio P.R.G.
(Piano Regolatore Generale) o P.G.T. (Piano di
Governo del Territorio, in Lombardia), hanno
costituito il c.d. "Ufficio di Piano"
conferendo l'incarico professionale, comunque,
all'esterno dell'ente.
Ebbene, ecco -di seguito- un prima sentenza della Corte
dei Conti (a noi nota), in materia di
pianificazione, che dispone agli indebiti
percettori (dell'incentivo ex d.lgs. 163/2006) di
restituire il conquibus intascato. |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Costituzione
del c.d. "Ufficio di Piano" e liquidazione
incentivo alla progettazione: danno erariale.
La giurisprudenza contabile è assestata nel
senso di escludere che l'incentivo possa erogarsi
indiscriminatamente a qualsiasi atto di pianificazione
territoriale, dovendosi l’attenzione dell’interprete
rivolgere, prescindendo dal nomen juris impiegato, al suo
specifico contenuto, che deve risultare strettamente
connesso alla realizzazione di un’opera pubblica.
---------------
Le contestazioni della Procura debbono essere
condivise sulla base di altre, dirimenti considerazioni.
Anzitutto,
la circostanza che siano stati costituiti dei
gruppi di lavoro per la redazione dei progetti in esame,
formati da numerosi professionisti esterni remunerati
dall’amministrazione, ingenera serie perplessità sulla
necessità della partecipazione delle professionalità interne
dell’ente, numericamente esigue e destinate al disimpegno
delle numerose attività istituzionali.
E proprio in ordine al contributo partecipativo reso
meritano condivisione le deduzioni critiche mosse
dall’attore pubblico, che ha stigmatizzato l’obiettiva
assenza di un tangibile apporto delle professionalità
interne, le quali sono sempre in via del tutto generica ed
apodittica identificate con la locuzione “ufficio di piano”.
Non può affermarsi, come propugnato dalle difese, che tale
generica perifrasi sa stata impiegata sol perché, data la
loro nota esiguità, le professionalità interne fossero
chiaramente identificabili. Come la giurisprudenza delle
Sezioni del controllo ha più volte posto in evidenza,
la
norma in esame deve intendersi riferita a casi tassativi e
limitati, proprio perché fortemente derogatoria al principio
di onnicomprensività e di riserva di contrattazione
collettiva del trattamento economico del dipendente pubblico
e, dunque, da ritenersi norma di stretta interpretazione.
E
tale rigore non può che essere assistito, in omaggio ai
principi di trasparenza ed efficienza dell’azione
amministrativa e di sempre più esteso controllo (anche
sociale) di essa, dal presidio della conoscibilità, sì da
rendere percepibile in ogni caso di impiego di risorse
pubbliche (anche riferite alle componenti retributive del
personale) la loro concreta destinazione.
Pertanto, atteso
che i piani operativi integrati erano differenti e, per
ciascuno di essi, deve essere reso percepibile il contributo
di professionalità (specificamente remunerato) dei
dipendenti che vi abbiano partecipato, non può ritenersi che
un indefinito richiamo alla struttura interna di riferimento
possa soddisfare quel livello minimo di chiarezza ed intelligibilità che la norma implicitamente richiede ai fini
della liquidazione dello specifico compenso.
A tal riguardo,
non è condivisibile la posizione che ritiene che il
personale interno dell’ente abbia reso un’attività non di
mero supporto ed ausilio -come invece appare documentalmente provato dalla circostanza che, secondo le
convenzioni sottoscritte, l’ufficio di piano doveva rendere
“supporto informativo”- ma di concreta partecipazione e
contributo scientifico alla realizzazione dei progetti.
Infatti, non soltanto, non è possibile distinguere il
contributo delle professionalità interne (corrispondenza
interna, elaborati grafici provvisori, incarichi di
progettazione e studio riferiti a singole aree -o
eventuali, ulteriori partizioni interne, ad esempio, per
settore scientifico, materia o territorio- singolarmente
assegnati a ciascun dipendente nell’ambito del gruppo di
lavoro che se ne sia avvalso, in ragione della sua
competenza specifica) di cui non vi è prova ma, per di più,
le note rilasciate dai responsabili scientifici dei progetti
risultano appiattite su locuzioni ripetitive e stereotipate,
sostanzialmente sovrapponibili in termini di contenuto e,
come tali, non idonee a scalfire il quadro prima descritto.
---------------
In ordine all’elemento psicologico della colpa grave
contestato ai convenuti, esso deve ritenersi integrato dalla
condotta disattenta e superficiale da essi tenuta che, nella
qualità rivestita, avrebbero dovuto impedire che l’ente
danneggiato sopportasse una spesa esorbitante rispetto allo
stanziamento iniziale, per effetto del riconoscimento di
somme non dovute ai dipendenti dai quali, peraltro, non si
peritavano di assumere alcuna informazione in relazione agli
incarichi concretamente svolti, dando corso senza alcuna
responsabile verifica, ai pagamenti contestati con formula
stereotipa ed acritica, con atteggiamento di inescusabile
trascuratezza per le finanze pubbliche ed in aperta
violazione dello stesso art. 13 del regolamento interno
secondo cui si “provvede
all’assegnazione degli incentivi…verificando l’attività
effettivamente svolta”.
---------------
La domanda della Procura Regionale si palesa fondata nei
limiti di cui appresso.
Anzitutto, merita di essere evidenziato come la portata
applicativa della norma di cui si lamenta un’erronea
applicazione in questa sede (cioè l’art. 92, comma 6, del d.leg.vo n. 163/2006) sia stata approfondita dalla
giurisprudenza contabile, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7 della
Sezione delle Autonomie cui, per la sua
portata di atto di orientamento generale, seppur non
vincolante per le sezioni giurisdizionali, ai sensi
dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n.
174 (conv. con modif. dalla legge 07.12.2012, n. 213)
il Collegio reputa opportuno richiamarsi.
Infatti, l’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti
disponeva che “Il trenta per cento della tariffa
professionale relativa alla redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato è ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al
comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto”.
In proposito, si rileva come la
definizione di “atto di pianificazione comunque denominato”
sia stata alternativamente ricostruita, da un lato, “nel
senso che il diritto all’incentivo sussiste solo nel caso in
cui l’atto di pianificazione sia collegato strettamente ed
in modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica,
oppure nel senso che l’anzidetto diritto si configuri anche
nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione
generale, ancorché non puntualmente connessi alla
realizzazione di un’opera pubblica.
Occorre rammentare
l’esistenza di un consolidato indirizzo
giurisprudenziale…con riferimento tanto alla progettazione
di tipo urbanistico (adozione di PRG, variante urbanistica,
piano di intervento) quanto ad altri atti di pianificazione
(piani per l’ambiente, piani per il servizio rifiuti, per il
turismo, per i trasporti, per l’innovazione tecnologica
ecc.). Indirizzo che collega direttamente alla realizzazione
di un’opera pubblica la redazione degli atti di
pianificazione per i quali possa trovare applicazione la
previsione di cui al citato comma 6 e, dunque, la
corresponsione dell’incentivo, consistente nel trenta per
cento della relativa tariffa professionale.
Su una linea interpretativa prossima a quella espressa dalle
Sezioni regionali di controllo si collocano i pareri sulla
normativa, resi dall’AVCP, che, peraltro, parzialmente
discostandosi dall’anzidetto indirizzo
giurisprudenziale, ha ritenuto di poter
ricomprendere nell’ambito della definizione anche
gli atti di pianificazione urbanistica, in quanto,
sia pure mediatamente, gli stessi afferiscono la
progettazione di opere o impianti pubblici o di uso
pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel
tessuto urbano.
Nell’ambito della giurisprudenza delle Sezioni
Regionali di controllo formatasi sulla questione in
esame le Sezioni Riunite per la Regione Siciliana,
in sede consultiva, con il
parere 03.01.2013 n. 2, hanno,
hanno precisato che, pur dovendosi riconoscere alla
fonte regolamentare comunale la funzione esplicativa
richiesta dalla genericità dell’espressione usata
dal legislatore, per “atto di pianificazione
comunque denominato” deve intendersi “qualsiasi
elaborato complesso, previsto dalla legislazione
statale o regionale, composto da parte
grafica/cartografica, da testi illustrativi e da
testi normativi, finalizzato a programmare, definire
e regolare, in tutto o in parte, il corretto assetto
del territorio comunale, coerentemente con le
previsioni normative e con la pianificazione
territoriale degli altri livelli di governo.
In tale specifico contesto,
pertanto, l’assoggettabilità ad incentivo discende,
innanzitutto, dal contenuto tecnico documentale degli
elaborati, che richiede necessariamente l’utilizzo di
specifiche competenze professionali reperite esclusivamente
all’interno dell’ente. In secondo luogo... si ritiene che
l’attività di pianificazione debba essere contestualizzata
nell’ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di
necessaria strumentalità con l’attività di progettazione di
opere pubbliche”.
Contrario avviso rispetto all’indirizzo interpretativo
prevalente è stato espresso dalla Sezione Regionale di
controllo per il Veneto, in alcune recenti delibere, ove si
afferma che “con l’utilizzo della locuzione atto di
pianificazione comunque denominato, lungi dall’autorizzare
interpretazioni restrittive, il legislatore ha inteso
utilizzare una dizione sufficientemente generale ed aperta,
tale da consentire di ascrivere all’ambito oggettivo della
norma ogni atto di pianificazione, prescindendo dal suo
collegamento diretto con la progettazione di un’opera
pubblica”, concludendosi per un’applicazione dell’istituto
premiale estesa ad ogni atto di pianificazione “anche di
carattere mediato”.
La Sezione Veneto, nelle predette deliberazioni,
discostandosi dalla giurisprudenza prevalente delle Sezioni
regionali di controllo, afferma che la previsione di cui
all’art. 92, comma 6, contiene un’esplicita norma di
incentivazione che deroga al principio di onnicomprensività
della retribuzione del pubblico dipendente e rappresenta,
comunque, un’ipotesi derogatoria distinta rispetto a quella
introdotta dal comma 5. …Premesso il quadro
giurisprudenziale - quale sommariamente ricostruito - la
Sezione ritiene condivisibili gli argomenti su cui si fonda
l’indirizzo interpretativo maggioritario, che riconosce di
“palmare evidenza” il riferimento della definizione “atto di
pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori
pubblici e di conseguenza reputa l’ambito applicativo della
stessa, apparentemente ampio ed indefinito, in realtà,
limitato esclusivamente all’attività progettuale e tecnico
amministrativa direttamente collegata alla realizzazione di
opere e lavori pubblici.
La Sezione considera dirimente, innanzitutto, l’argomento
che attiene all’interpretazione sistematica delle
disposizioni in esame e che ha riguardo alla collocazione
delle stesse (sedes materiae) all’interno del Capo IV
“Servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria”- Sez.
I “Progettazione interna ed esterna e livelli di
progettazione”- del Codice dei Contratti ed al fatto che le
stesse siano immediatamente precedute dall’art. 90 rubricato
“progettazione interna ed esterna alle amministrazioni
aggiudicatrici in materia di lavori pubblici". Disposizione
quest’ultima che affida la progettazione preliminare,
definitiva ed esecutiva di lavori agli Uffici tecnici delle
stazioni appaltanti o, in alternativa, a liberi
professionisti e che, al comma 6, limita la possibilità da
parte delle amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere a
professionalità esterne ai soli casi di carenza in organico
di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i
tempi della programmazione dei lavori, o, infine,
nell’ipotesi di lavori di speciale complessità. Il
successivo art. 91 disciplina le procedure di affidamento.
L’art. 92 rubricato “corrispettivi, incentivi per la
progettazione e fondi a disposizione delle stazioni
appaltanti” completa quanto disposto dai precedenti
articoli, mantenendosi nell’alveo della disciplina della
progettazione dei lavori pubblici. All’esegesi della norma
in esame, oltre al criterio sistematico, dianzi illustrato,
soccorre la ricostruzione dell’evoluzione storica della
disciplina degli incentivi alla progettazione, attraverso la
quale si può riconoscere nel testo vigente la riproduzione
di disposizioni contenute nella legge 11.02.1994, n.
109 e specificatamente nell’art. 18 in materia di incentivi
e spese per la progettazione. Disposizione quest’ultima che
ha subito nel corso degli anni diverse modifiche, fino alla
formulazione introdotta dall’art. 12 della legge 17.05.1999, n. 144 e sostanzialmente ripresa nel testo dell’art. 92
del Codice dei contratti. … Le disposizioni di cui ai commi
5 e 6 del citato art. 92 esprimono, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle
amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in
prestazioni d’opera professionale e, pertanto, ove non
ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per
l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni
devono fare ricorso a personale dipendente, al quale
applicheranno le regole generali previste per il pubblico
impiego; il cui sistema retributivo è basato sui due
principi cardine di onnicomprensività della retribuzione,
sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n.
165, nonché di definizione contrattuale delle componenti
economiche, fissato dal successivo art. 45, comma 1.
Principi alla luce dei quali nulla è dovuto oltre il
trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito
dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una
prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio.
Il legislatore, con le disposizioni in esame, ha voluto
riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni
aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando
agli anzidetti principi.
In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92 ai commi 5 e
6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di
incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati
principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni
singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento
e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga
riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque
denominato, da ripartire fra i dipendenti
dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto,
entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche.
La norma deve essere considerata, dunque, norma di stretta
interpretazione, non suscettibile di applicazione in via
analogica… Ai fini della riconoscibilità del diritto al
compenso incentivante, la corretta interpretazione delle
disposizioni in esame considera determinante, non tanto il
nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il
suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente
connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero
quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un
mero atto di pianificazione generale, che costituisce il
presupposto per l’erogazione dell’incentivo. Pertanto, ove
tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la
deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di
onnicomprensività e di definizione contrattuale delle
componenti del trattamento economico, alla luce dei quali,
nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale
ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al
dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei
suoi doveri d’ufficio” (Corte dei conti, Sezione delle
Autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Come si vede la giurisprudenza contabile è assestata nel
senso di escludere che tale incentivo possa erogarsi
indiscriminatamente a qualsiasi atto di pianificazione
territoriale, dovendosi l’attenzione dell’interprete
rivolgere, prescindendo dal nomen juris impiegato, al suo
specifico contenuto, che deve risultare strettamente
connesso alla realizzazione di un’opera pubblica.
In
effetti, come peraltro incidentalmente riconosciuto dalla
Procura Regionale, non pare possa ragionevolmente affermarsi
che gli atti in narrativa non siano suscettibili di essere
annoverati fra gli atti di pianificazione connessi alla
realizzazione di un’opera pubblica, alla luce delle
indicazioni delle norme regionali e delle stesse norme di
attuazione del P.T.C.P., che (art. IV. 2) risultando
“finalizzati alla realizzazione di interventi sul territorio
che richiedono: - progettazioni interdisciplinari ed il
concorso di piani settoriali; - l’azione coordinata e
integrata della Provincia, di uno o più comuni, ed
eventualmente di altri enti pubblici interessati
dall’esercizio delle funzioni di pianificazione generale e
di settore”, ... ai sensi del successivo comma 2 “precisano,
anche attraverso disposizioni normative, gli interventi
delineati [dal P.T.C.P.], i soggetti che li promuovono e li
attuano e indicano in linea di massima i tempi e le risorse
necessarie per la loro realizzazione”.
Di conseguenza, essi
incidono direttamente sugli assetti territoriali di
riferimento con evidenti prospettive pianificatorie anche
per la progettazione di opere pubbliche.
Tuttavia, le contestazioni della Procura debbono essere
condivise sulla base di altre, dirimenti considerazioni.
Anzitutto,
la circostanza che siano stati costituiti dei
gruppi di lavoro per la redazione dei progetti in esame,
formati da numerosi professionisti esterni remunerati
dall’amministrazione, ingenera serie perplessità sulla
necessità della partecipazione delle professionalità interne
dell’ente, numericamente esigue e destinate al disimpegno
delle numerose attività istituzionali, come rammentato dalle
difese. E proprio in ordine al contributo partecipativo reso
meritano condivisione le deduzioni critiche mosse
dall’attore pubblico, che ha stigmatizzato l’obiettiva
assenza di un tangibile apporto delle professionalità
interne, le quali sono sempre in via del tutto generica ed
apodittica identificate con la locuzione “ufficio di piano”.
Non può affermarsi, come propugnato dalle difese, che tale
generica perifrasi sa stata impiegata sol perché, data la
loro nota esiguità, le professionalità interne fossero
chiaramente identificabili. Come la giurisprudenza delle
Sezioni del controllo ha più volte posto in evidenza,
la
norma in esame deve intendersi riferita a casi tassativi e
limitati, proprio perché fortemente derogatoria al principio
di onnicomprensività e di riserva di contrattazione
collettiva del trattamento economico del dipendente pubblico
e, dunque, da ritenersi norma di stretta interpretazione. E
tale rigore non può che essere assistito, in omaggio ai
principi di trasparenza ed efficienza dell’azione
amministrativa e di sempre più esteso controllo (anche
sociale) di essa, dal presidio della conoscibilità, sì da
rendere percepibile in ogni caso di impiego di risorse
pubbliche (anche riferite alle componenti retributive del
personale) la loro concreta destinazione.
Pertanto, atteso
che i piani operativi integrati erano differenti e, per
ciascuno di essi, deve essere reso percepibile il contributo
di professionalità (specificamente remunerato) dei
dipendenti che vi abbiano partecipato, non può ritenersi che
un indefinito richiamo alla struttura interna di riferimento
possa soddisfare quel livello minimo di chiarezza ed intelligibilità che la norma implicitamente richiede ai fini
della liquidazione dello specifico compenso.
A tal riguardo,
non è condivisibile la posizione che ritiene che il
personale interno dell’ente abbia reso un’attività non di
mero supporto ed ausilio -come invece appare documentalmente provato dalla circostanza che, secondo le
convenzioni sottoscritte, l’ufficio di piano doveva rendere
“supporto informativo”- ma di concreta partecipazione e
contributo scientifico alla realizzazione dei progetti.
Infatti, non soltanto, non è possibile distinguere il
contributo delle professionalità interne (corrispondenza
interna, elaborati grafici provvisori, incarichi di
progettazione e studio riferiti a singole aree -o
eventuali, ulteriori partizioni interne, ad esempio, per
settore scientifico, materia o territorio- singolarmente
assegnati a ciascun dipendente nell’ambito del gruppo di
lavoro che se ne sia avvalso, in ragione della sua
competenza specifica) di cui non vi è prova ma, per di più,
le note rilasciate dai responsabili scientifici dei progetti
risultano appiattite su locuzioni ripetitive e stereotipate,
sostanzialmente sovrapponibili in termini di contenuto e,
come tali, non idonee a scalfire il quadro prima descritto.
Inoltre, deve affermarsi come anche il parametro adottato
per il calcolo dell’incentivo si riveli erroneo e conduca,
inevitabilmente, ad una duplicazione di spesa per l’ente
provinciale.
In proposito, basti osservare che, a titolo esemplificativo
(il metodo di calcolo è stato applicato allo stesso modo per
ciascuna delle procedure in argomento) la determinazione n.
3984 del 29.12.2008 approvava una spesa complessiva pari ad
Euro 130.000,00 a fronte della quale la successiva determina
n. 2733 del 18.08.2009 ha liquidato Euro 100.000 di compenso
per gli esperti, oltre ad Euro 3.000,00 (in misura massima)
per ciascuno di essi (pari a sei unità) per rimborso spese,
per una spesa complessiva che, sommata ai 39.000 Euro (30%
della tariffa professionale) riconosciuti ai dipendenti)
ictu oculi sfora lo stanziamento complessivo iniziale. E
senza considerare che i compensi venivano riconosciuti, non
solo in assenza di ogni documentato impegno (come per i
professionisti) ma, addirittura, fuori dalle previsioni
normative, anche ai dipendenti dell’ufficio finanziario
dell’ente, assolutamente privi di qualsiasi legittimazione.
Il danno, quindi, deve essere identificato, per le ragioni
anzidette, nelle somme quantificate dalla Procura regionale
in relazione ai compensi riconosciuti ai dipendenti
dell’ente da parte dei convenuti, nelle rispettive qualità
ed in conseguenza della sottoscrizione delle determine di
liquidazione dei relativi pagamenti.
In ordine all’elemento psicologico della
colpa grave
contestato ai convenuti, esso deve ritenersi integrato dalla
condotta disattenta e superficiale da essi tenuta che, nella
qualità rivestita, avrebbero dovuto impedire che l’ente
danneggiato sopportasse una spesa esorbitante rispetto allo
stanziamento iniziale, per effetto del riconoscimento di
somme non dovute ai dipendenti dai quali, peraltro, non si
peritavano di assumere alcuna informazione in relazione agli
incarichi concretamente svolti, dando corso senza alcuna
responsabile verifica, ai pagamenti contestati con formula
stereotipa ed acritica, con atteggiamento di inescusabile
trascuratezza per le finanze pubbliche ed in aperta
violazione dello stesso art. 13 del regolamento interno
(deliberazione n. 755/2007) secondo cui si “provvede
all’assegnazione degli incentivi…verificando l’attività
effettivamente svolta”.
Da tanto detto e non rilevando alcuna incertezza circa la
sicura riconducibilità, idonea a radicare l’ulteriore
elemento del nesso causale, del contestato danno ai
provvedimenti dirigenziali prima indicati, che tali
esorbitanti spese hanno ordinato, deriva l’accoglimento
della domanda attrice per l’intero importo di danno.
Si deve comunque prendere in considerazione, al fine di
valutare in concreto quanto del suddetto danno sia equo
porre a carico dei responsabili, il rilievo avanzato dalla
difesa circa il fatto che, pur nell’ambito di un’attività
esternalizzata, i collaboratori abbiano comunque svolto
un’azione di sostegno e di supporto ai professionisti
esterni nella attività di redazione degli atti di
pianificazione.
Sul punto, il Collegio ritiene che di tale
attività vada tenuto conto, potendo essa essersi tradotta in
un impegno eccedente gli ordinari doveri d’ufficio. Tale
considerazione, che certamente non presenta alcuna valenza
ai fini della applicabilità di quanto disposto dall’art. 1,
comma 1-bis, della legge n. 20 del 1994, come modificato
dalla legge n. 639/1996, perché non è ravvisabile alcun
vantaggio conseguito dall’Amministrazione (ma, semmai, una
maggiore utilitas per i professionisti esterni), consente,
tuttavia, a questo Giudice di esercitare, per tale aspetto,
il potere di cui all’art. 52 del R.D. 12.07.1934, n.
1214, e di ridurre l’addebito del danno.
Il Collegio, in applicazione del potere riduttivo, condanna
il convenuto Be. ed il convenuto Bi., al
pagamento, rispettivamente, di € 25.000,00
(venticinquemila/00) e di € 60.000,00 (sessantamila/00)
in favore dell’amministrazione provinciale di Foggia,
comprensivi entrambi -sempre in via di riduzione equitativa- anche degli accessori maturati sino alla data di deposito
in Segreteria della domanda introduttiva del giudizio.
Sulle
somme prima indicate saranno dovuti gli interessi in misura
legale, calcolati a decorrere dalla data del deposito,
presso la segreteria della Sezione, della domanda
introduttiva del giudizio (01.12.2015) sino al soddisfo. Di
eventuali recuperi medio tempore effettuati dovrà tenersi
conto in sede esecutiva della presente decisione.
In applicazione della regola della soccombenza -art. 91, 1°
comma, ed art. 97 c.p.c.- le spese di giudizio a favore
dell’Erario devono essere poste a carico dei convenuti e
separatamente liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione
Puglia, definitivamente pronunciando, ogni avversa istanza,
eccezione e deduzione respinta, così provvede:
- accoglie la domanda risarcitoria proposta nei confronti
dei convenuti e, per l’effetto, li condanna, al pagamento in
favore dell’amministrazione provinciale di Foggia, delle
seguenti somme:
►
€. 25.000,00 a carico di Be.Po.;
►
€. 60.000,00 a carico di Bi.St.,
comprensive degli accessori maturati sino alla data di
deposito in Segreteria della domanda introduttiva del
giudizio, oltre agli interessi in misura legale, calcolati a
decorrere dalla data del deposito, presso la segreteria
della Sezione, della domanda introduttiva del giudizio
(01.12.2015) sino al soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia,
sentenza 14.07.2016 n. 253). |
Sull'istituto della proroga "straordinaria"
ed "ordinaria" dei termini relativamente ai
titoli edilizi abilitativi. |
EDILIZIA PRIVATA:
Proroga straordinaria una tantum ex lege 98/2013.
La proroga dei titoli edilizi disposta dall’articolo 30,
commi 3 e 4, del decreto legge 21.06.2013, n. 69,
convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98
presenta carattere eccezionale e derogatorio rispetto al
sistema, poiché la durata limitata nel tempo dei titoli
edificatori risponde a esigenze di certezza e di tutela
dell’interesse pubblico e della stessa potestà
pianificatoria dei comuni.
Esigenze, queste, che sarebbero tutte frustrate dalla
previsione della possibilità del protrarsi a tempo
indeterminato delle attività comportanti la trasformazione
del territorio. L’operatività del nuovo istituto è pertanto
–coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un
periodo determinato, e le relative previsioni sono valevoli
una tantum.
---------------
La proroga del termine dei lavori c.d. ordinaria, prevista
dall’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è
applicabile alla denuncia di inizio attività, per la quale è
possibile soltanto –eccezionalmente, e in virtù di una
espressa previsione di legge– la proroga prevista
dall’articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2001.
Su questo punto, l’improrogabilità dei termini per
l’ultimazione dei lavori oggetto di d.i.a. –beninteso,
ordinariamente, e al di fuori dell’ambito di applicazione
dell’istituto introdotto una tantum dal decreto legge n. 69
del 2013– costituisce un tratto caratterizzante
dell’istituto della denuncia di inizio di attività,
chiaramente delineato dalla disciplina normativa di fonte
statale e regionale, come del resto affermato dalla
giurisprudenza.
Al riguardo, è sufficiente tenere presente che:
- l’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel
prevedere la proroga “ordinaria” dei termini dei lavori, si
riferisce espressamente al solo permesso di costruire;
- l’articolo 23, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 380 del
2001, dopo aver previsto che la denuncia di inizio attività
sia “sottoposta al termine massimo di efficacia pari a tre
anni” (così il primo periodo), stabilisce esplicitamente che
“La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è
subordinata a nuova denuncia” (così il secondo periodo);
- l’articolo 42, comma 6, della legge regionale n. 12 del
2005 parimenti dispone che “I lavori oggetto della denuncia
di inizio attività devono essere iniziati entro un anno
dalla data di efficacia della denuncia stessa ed ultimati
entro tre anni dall'inizio dei lavori. La realizzazione
della parte di intervento non ultimata nel predetto termine
è subordinata a nuova denuncia (...)”.
---------------
Per altro verso, la non prorogabilità, ordinariamente, dei
termini di ultimazione dei lavori oggetto di denuncia di
inizio attività è suffragata anche da un ulteriore argomento
a contrario, evincibile proprio dalla previsione
dell’articolo 30, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013.
Il legislatore ha infatti evidentemente reputato
indispensabile introdurre una previsione ad hoc per rendere
applicabile l’istituto della proroga ex lege anche nei
confronti della denuncia di inizio attività. Ciò che
conferma che il differimento dei termini della d.i.a. non è
ordinariamente previsto.
Il regime giuridico così delineato risulta, peraltro, non
irragionevole –in considerazione della natura e dei
caratteri della denuncia di inizio attività– né
discriminante rispetto a quello, diverso, stabilito per il
permesso di costruire, atteso altresì che costituisce pur
sempre una facoltà dell’interessato scegliere di richiedere
quest’ultimo titolo, in luogo di avvalersi dell’istituto
della d.i.a..
---------------
1. La ricorrente I.M.C. Im.Mi.Co. s.r.l. ha presentato al
Comune di Milano, in data 29.07.2010, una denuncia di inizio
attività ai sensi dell’articolo 41 della legge regionale n.
12 del 2005 (ossia in alternativa al permesso di costruire:
c.d. superdia).
Con nota del 23.08.2013, la società ha comunicato
all’Amministrazione di valersi della proroga biennale del
termine di ultimazione dei lavori, prevista dall’articolo 30
del decreto legge n. 69 del 2013, convertito dalla legge n.
98 del 2013.
Il 27.07.del 2015 la medesima I.M.C. ha comunicato
nuovamente la proroga del termine di fine lavori, ancora ai
sensi dell’articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2013.
Il Comune ha a questo punto emesso il provvedimento datato
07.09.2015, con il quale ha reso noto che la richiesta di
proroga non poteva essere accolta, perché la legge consente
una sola proroga; ha comunicato inoltre la sospensione di
efficacia del titolo edilizio e ha ordinato di tenere
sospese le opere fino alla presentazione di un nuovo titolo
abilitativo e all’avvenuta regolarizzazione degli obblighi
del committente e del responsabile dei lavori.
2. Il provvedimento è stato impugnato da I.M.C. nel presente
giudizio.
In particolare, la società ha allegato che:
I) il diniego sarebbe basato unicamente su un’interpretazione
restrittiva dell’articolo 30 del decreto legge n. 69 del
2013, interpretazione in base alla quale la proroga sarebbe
consentita una sola volta; il Comune avrebbe, tuttavia,
dovuto valutare la sussistenza dei presupposti per concedere
la proroga sulla base della disciplina ordinaria, contenuta
all’articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001, e –a tal fine– sarebbe stato onere
dell’Amministrazione riqualificare corrispondentemente
l’istanza presentata dall’odierna ricorrente;
II) violazione dell’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990,
per la mancata comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza.
...
6. Il ricorso è infondato.
7. La Sezione ha già avuto modo di affermare che la proroga
dei titoli edilizi disposta dall’articolo 30, commi 3 e 4,
del decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 presenta
carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema,
poiché la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori
risponde a esigenze di certezza e di tutela dell’interesse
pubblico e della stessa potestà pianificatoria dei comuni;
esigenze, queste, che sarebbero tutte frustrate dalla
previsione della possibilità del protrarsi a tempo
indeterminato delle attività comportanti la trasformazione
del territorio. L’operatività del nuovo istituto è pertanto
–coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un
periodo determinato, e le relative previsioni sono valevoli
una tantum (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
22.07.2015, n. 1764).
Il provvedimento impugnato ha quindi correttamente affermato
che la proroga non potesse essere reiterata.
8. Sotto altro profilo, non può condividersi la tesi della
ricorrente, secondo la quale l’Amministrazione avrebbe avuto
l’onere di riqualificare la comunicazione presentata dalla
società, trattandola come una ordinaria istanza di proroga
del termine di ultimazione dei lavori, ai sensi
dell’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ad avviso del Collegio, il Comune non avrebbe dovuto, e
neppure potuto, riqualificare la comunicazione della parte,
nel senso voluto dalla ricorrente. E ciò per la dirimente
ragione che la proroga del termine dei lavori c.d.
ordinaria, prevista dall’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del
2001, non è applicabile alla denuncia di inizio attività,
per la quale è possibile soltanto –eccezionalmente, e in
virtù di una espressa previsione di legge– la proroga
prevista dall’articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2001.
Anche su questo punto deve richiamarsi alla già citata
sentenza n. 1764 del 2015 di questa Sezione, ove si è
evidenziato che l’improrogabilità dei termini per
l’ultimazione dei lavori oggetto di d.i.a. –beninteso,
ordinariamente, e al di fuori dell’ambito di applicazione
dell’istituto introdotto una tantum dal decreto legge
n. 69 del 2013– costituisce un tratto caratterizzante
dell’istituto della denuncia di inizio di attività,
chiaramente delineato dalla disciplina normativa di fonte
statale e regionale, come del resto affermato dalla
giurisprudenza (v. Cons. Stato, Sez. IV, 11.12.2013, n.
5969, che conferma la sentenza di questa Sezione,
08.03.2013, n. 619).
Al riguardo, è sufficiente tenere presente che:
- l’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel
prevedere la proroga “ordinaria” dei termini dei
lavori, si riferisce espressamente al solo permesso di
costruire;
- l’articolo 23, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 380 del
2001, dopo aver previsto che la denuncia di inizio attività
sia “sottoposta al termine massimo di efficacia pari a
tre anni” (così il primo periodo), stabilisce
esplicitamente che “La realizzazione della parte non
ultimata dell'intervento è subordinata a nuova denuncia”
(così il secondo periodo);
- l’articolo 42, comma 6, della legge regionale n. 12 del
2005 parimenti dispone che “I lavori oggetto della
denuncia di inizio attività devono essere iniziati entro un
anno dalla data di efficacia della denuncia stessa ed
ultimati entro tre anni dall'inizio dei lavori. La
realizzazione della parte di intervento non ultimata nel
predetto termine è subordinata a nuova denuncia (...)”.
Per altro verso, la non prorogabilità, ordinariamente, dei
termini di ultimazione dei lavori oggetto di denuncia di
inizio attività è suffragata anche da un ulteriore argomento
a contrario, evincibile proprio dalla previsione
dell’articolo 30, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013.
Il legislatore ha infatti evidentemente reputato
indispensabile introdurre una previsione ad hoc per
rendere applicabile l’istituto della proroga ex lege
anche nei confronti della denuncia di inizio attività. Ciò
che conferma che il differimento dei termini della d.i.a.
non è ordinariamente previsto.
Il regime giuridico così delineato risulta, peraltro, non
irragionevole –in considerazione della natura e dei
caratteri della denuncia di inizio attività– né
discriminante rispetto a quello, diverso, stabilito per il
permesso di costruire, atteso altresì che costituisce pur
sempre una facoltà dell’interessato scegliere di richiedere
quest’ultimo titolo, in luogo di avvalersi dell’istituto
della d.i.a.
9. Vi è, peraltro, anche un’altra ragione per la quale era
in ogni caso preclusa all’Amministrazione la possibilità di
trattare la comunicazione di I.M.C. come una istanza di
proroga ai sensi dell’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del
2001.
Deve infatti osservarsi che la proroga ordinaria –oltre ad
essere riservata, come detto, al solo permesso di costruire–
è comunque subordinata alla sussistenza dei precisi
presupposti stabiliti dai commi 2 e 2-bis del predetto
articolo 15; presupposti il cui ricorrere deve essere
allegato e dimostrato dalla parte richiedente.
Nel caso di specie, I.M.C. si è limitata a dichiarare di
volersi avvalere della proroga ex lege, per cui il
Comune non si sarebbe potuto sostituire in nessun caso alla
società nel ricercare le ragioni legittimanti un eventuale
differimento dei termini di efficacia del titolo edilizio.
10. Quanto alla mancata comunicazione del preavviso di
provvedimento negativo, la giurisprudenza ha avuto modo di
chiarire che la previsione dell'articolo 10-bis della legge
n. 241 del 1990 deve essere interpretata alla luce del
successivo articolo 21-octies, comma 2, il quale impone al
giudice di valutare il contenuto del provvedimento e di non
annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non
abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo
(v. ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n.
2298; C.G.A.R.S., 16.04.2013, n. 409; Cons. Stato, Sez. VI,
02.02.2012, n. 585).
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Amministrazione
non si sarebbe potuta determinare diversamente, essendo il
potere esercitato del tutto vincolato dalle previsioni di
legge sopra richiamate.
E’ quindi irrilevante il mancato invio del preavviso di
provvedimento negativo.
11. In conclusione, il ricorso deve essere integralmente
respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.08.2016 n. 1569 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istituto della proroga straordinaria,
introdotto in via di eccezione dall’art. 30, comma
3, del decreto legge n. 69 del 2013, prevede alcune
rilevanti peculiarità rispetto alla proroga
ordinaria.
Il legislatore ha, invero, espressamente stabilito:
- che il prolungamento dell’efficacia del titolo
edilizio non sia subordinato alla valutazione, da
parte del Comune, della sussistenza dei rigorosi
presupposti di cui all’articolo 15, comma 2, del
d.P.R. n. 380 del 2001, ma operi a prescindere da
ogni verifica in ordine alle circostanze che
determinano il mancato rispetto del termine
originariamente previsto;
- che, conseguentemente, il Comune sia chiamato
unicamente a controllare, a seguito della
comunicazione del privato, che quest’ultimo abbia
dichiarato di avvalersi della proroga in presenza di
tutte le condizioni stabilite direttamente dalla
norma primaria;
- che, in particolare, l’operatività della proroga
sia subordinata alla circostanza che l’intervento
non si ponga in contrasto con gli strumenti
urbanistici approvati o anche solo adottati;
- che la proroga operi anche per gli interventi
oggetto di denuncia di inizio di attività o di
segnalazione certificata di inizio di attività,
secondo quanto espressamente previsto dall’articolo
4 del medesimo articolo 30 del decreto legge n. 69
del 2013 (“La disposizione di cui al comma 3 si
applica anche alle denunce di inizio attività e alle
segnalazioni certificate di inizio attività
presentate entro lo stesso termine”).
La proroga è quindi prevista e direttamente disposta
dalla legge, che la condiziona unicamente al
ricorrere delle condizioni tipizzate dalla norma
primaria e alla presentazione, da parte del soggetto
interessato, di un’apposita comunicazione.
Invero, si tratta di una previsione di carattere
eccezionale e derogatorio rispetto al sistema,
poiché la durata limitata nel tempo dei titoli
edificatori risponde a esigenze di certezza e di
tutela dell’interesse pubblico e della stessa
potestà pianificatoria dei comuni; esigenze, queste,
che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della
possibilità del protrarsi a tempo indeterminato
delle attività comportanti la trasformazione del
territorio.
L’operatività del nuovo istituto è pertanto
–coerentemente– circoscritta dallo stesso
legislatore a un periodo determinato, e le relative
previsioni sono valevoli una tantum.
---------------
La proroga di cui all’articolo 30, comma 3, del
decreto legge n. 69 del 2013 opera ex lege, purché
ricorra la duplice condizione della conformità
urbanistica e della dichiarazione dell’interessato
di volersi avvalere del differimento dei termini di
efficacia del titolo edilizio.
Conseguentemente, il Comune è tenuto unicamente a
compiere una verifica –a contenuto interamente
vincolato– in ordine all’effettiva sussistenza dei
predetti presupposti.
---------------
6. Osserva il Collegio che la ricorrente, con la
propria nota del 26.10.2015, ha comunicato al Comune
di volersi avvalere della proroga di cui
all’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69
del 2013.
Disposizione, questa, in base alla quale “Salva
diversa disciplina regionale, previa comunicazione
del soggetto interessato, sono prorogati di due anni
i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di
cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati nei
titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi
antecedentemente all'entrata in vigore del presente
decreto, purché i suddetti termini non siano già
decorsi al momento della comunicazione
dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi
non risultino in contrasto, al momento della
comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti
urbanistici approvati o adottati. È altresì
prorogato di tre anni il termine delle
autorizzazioni paesaggistiche in corso di efficacia
alla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto”.
7. L’istituto della proroga straordinaria,
introdotto in via di eccezione dalla suddetta
disposizione normativa, prevede alcune rilevanti
peculiarità rispetto alla proroga ordinaria.
Il legislatore ha, invero, espressamente stabilito:
- che il prolungamento dell’efficacia del titolo
edilizio non sia subordinato alla valutazione, da
parte del Comune, della sussistenza dei rigorosi
presupposti di cui all’articolo 15, comma 2, del
d.P.R. n. 380 del 2001, ma operi a prescindere da
ogni verifica in ordine alle circostanze che
determinano il mancato rispetto del termine
originariamente previsto;
- che, conseguentemente, il Comune sia chiamato
unicamente a controllare, a seguito della
comunicazione del privato, che quest’ultimo abbia
dichiarato di avvalersi della proroga in presenza di
tutte le condizioni stabilite direttamente dalla
norma primaria;
- che, in particolare, l’operatività della proroga
sia subordinata alla circostanza che l’intervento
non si ponga in contrasto con gli strumenti
urbanistici approvati o anche solo adottati;
- che la proroga operi anche per gli interventi
oggetto di denuncia di inizio di attività o di
segnalazione certificata di inizio di attività,
secondo quanto espressamente previsto dall’articolo
4 del medesimo articolo 30 del decreto legge n. 69
del 2013 (“La disposizione di cui al comma 3 si
applica anche alle denunce di inizio attività e alle
segnalazioni certificate di inizio attività
presentate entro lo stesso termine”).
La proroga è quindi prevista e direttamente disposta
dalla legge, che la condiziona unicamente al
ricorrere delle condizioni tipizzate dalla norma
primaria e alla presentazione, da parte del soggetto
interessato, di un’apposita comunicazione.
Come già evidenziato dalla Sezione, si tratta di una
previsione di carattere eccezionale e derogatorio
rispetto al sistema, poiché la durata limitata nel
tempo dei titoli edificatori risponde a esigenze di
certezza e di tutela dell’interesse pubblico e della
stessa potestà pianificatoria dei comuni; esigenze,
queste, che sarebbero tutte frustrate dalla
previsione della possibilità del protrarsi a tempo
indeterminato delle attività comportanti la
trasformazione del territorio. L’operatività del
nuovo istituto è pertanto –coerentemente–
circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo
determinato, e le relative previsioni sono valevoli
una tantum (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
22.07.2015, n. 1764).
...
12. Ciò posto, sono pure infondate le allegazioni
–contenute nel secondo motivo di ricorso– con le
quali la ricorrente sostiene che il provvedimento
impugnato non avrebbe adeguatamente indicato le
ragioni di contrasto dell’intervento con la vigente
pianificazione urbanistica.
Come sopra detto, il Comune ha evidenziato che il
progetto asseverato con la denuncia di inizio
attività non rispetta le previsioni morfologiche
specificamente dettate per i nuclei di antica
formazione, contenute all’articolo 13, comma 3,
lett. a) del Piano delle Regole del PGT.
Tale previsione –secondo quanto riportato dalla
stessa parte nel proprio ricorso– dispone che gli
interventi siano consentiti laddove assicurino il “mantenimento
o ripristino delle cortine edilizie o completamento
del fronte continuo; la costruzione in cortina deve
arrivare sino alla linea di altezza dell’edificio
più basso adiacente alla costruzione; laddove
quest’ultimo fosse più basso rispetto all’altezza
esistente è fatto salvo il mantenimento dell’altezza
esistente”.
Si tratta di indicazioni chiare e specifiche, in
relazione alle quali deve ritenersi del tutto
agevole per la ricorrente individuare i punti di
discordanza del proprio progetto.
Peraltro, Pa. s.r.l. non ha neppure allegato, nel
presente giudizio, che l’intervento oggetto della
denuncia di inizio attività effettivamente rispetti
tutte le prescrizioni ora richiamate. Per cui il
contrasto rilevato dal Comune deve ritenersi
sostanzialmente incontestato.
13. La parte ha infatti incentrato le proprie difese
–in particolare, nel primo motivo di ricorso– sulla
circostanza che la conformità alle previsioni
sopravvenute del PGT sarebbe stata attestata dalla
stessa Amministrazione in un proprio precedente
provvedimento.
In questa prospettiva, Pa. s.r.l. ha sostenuto che
il provvedimento impugnato, nell’affermare oggi la
mancanza di tale conformità, si porrebbe in
contrasto con la precedente determinazione assunta
dallo stesso Comune.
Il Collegio osserva, tuttavia, che il vizio di
eccesso di potere –di cui la contraddittorietà con
precedenti provvedimenti rappresenta una figura
sintomatica– è configurabile solo in presenza di
attività discrezionali, e non invece a fronte di un
potere del tutto vincolato, quale quello esercitato
dal Comune nel caso di specie.
Si è già detto, infatti, che la proroga di cui
all’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69
del 2013 opera ex lege, purché ricorra la
duplice condizione della conformità urbanistica e
della dichiarazione dell’interessato di volersi
avvalere del differimento dei termini di efficacia
del titolo edilizio. Conseguentemente, il Comune è
tenuto unicamente a compiere una verifica –a
contenuto interamente vincolato– in ordine
all’effettiva sussistenza dei predetti presupposti.
Nel caso di specie, secondo quanto sopra rimarcato,
il Comune ha convincentemente indicato le ragioni
per le quali l’intervento è da ritenere non
compatibile con la disciplina urbanistica vigente.
E ciò costituisce motivazione necessaria e
sufficiente per dichiarare l’inammissibilità e
l’inefficacia della comunicazione di proroga del
titolo edilizio, senza che possa assumere alcuna
rilevanza qualsivoglia precedente valutazione
espressa dalla stessa Amministrazione.
14. In definitiva, per tutte le ragioni sin qui
esposte, il ricorso deve essere respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.08.2016 n. 1568 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La durata limitata nel tempo dei titoli
edificatori costituisce un principio cardine
dell’intero sistema della disciplina urbanistica.
Si tratta, infatti, di una regola che risponde non
solo all’esigenza di assicurare la realizzazione
ordinata ed entro tempi certi delle trasformazioni
assentite con il titolo edilizio, prevenendo
situazioni di degrado legate alla presenza di
costruzioni non ultimate, ma anche alla necessità di
tutelare l’interesse pubblico a consentire quelle
sole trasformazioni del territorio che corrispondono
alle esigenze attuali della collettività, quali
individuate dalla pianificazione urbanistica
vigente. Esigenza, questa, che verrebbe
irrimediabilmente frustrata dalla possibilità del
protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di
realizzazione degli interventi edilizi, una volta
che le trasformazioni assentite siano ritenute non
più rispondenti all’interesse pubblico.
In tale prospettiva, la declaratoria di decadenza
del permesso di costruire è un “provvedimento che ha
carattere strettamente vincolato all’accertamento
del mancato inizio e completamento dei lavori entro
i termini stabiliti dal richiamato art, 15, comma 2,
(rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del
titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura
ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l’inerzia del titolare a
darvi attuazione".
E –specularmente– la proroga del permesso di
costruire, in quanto comporta un prolungamento del
termine ordinario di efficacia del titolo edilizio,
può essere consentita nei soli casi e modi previsti
dalle richiamate previsioni dell’articolo 15 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Deve rilevarsi che il comma 2 dell’articolo 15
stabilisce espressamente che, decorsi i termini di
inizio e di conclusione dei lavori, “il permesso
decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta
una proroga”, la quale può essere concessa nelle
ipotesi previste dalla legge, tra le quali il
verificarsi di “fatti sopravvenuti, estranei alla
volontà del titolare del permesso”.
Il legislatore ha quindi espressamente stabilito che
la proroga possa essere concessa solo se sia stata
richiesta prima della scadenza del titolo edilizio,
e ciò anche nei casi di forza maggiore o di c.d.
factum principis, che sono sostanzialmente
riconducibili nel novero dell’ampia casistica dei
“fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del
titolare del permesso”, prevista dalla disposizione
normativa richiamata.
In questo senso si è del resto pronunciata la
giurisprudenza, la quale ha avuto modo di rimarcare
che “il termine di durata del permesso edilizio non
può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo
al contrario sempre necessaria, a tal fine, la
presentazione di una formale istanza di proroga, cui
deve comunque seguire un provvedimento da parte
della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il
titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del
rispetto del termine, e solamente nei casi in cui
possa ritenersi sopravvenuto un factum principis
ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore”.
Anche questa Sezione è pervenuta alle medesime
conclusioni laddove si è ritenuto che –nonostante
secondo una parte della giurisprudenza la
sussistenza di una causa di forza maggiore impedisca
ex se la decadenza del titolo edilizio– è tuttavia
“preferibile ritenere, come fa altra giurisprudenza,
che, anche laddove si sia in presenza del cd. factum
principis o di cause di forza maggiore,
l'interessato che voglia impedire la decadenza del
titolo edilizio per il mancato tempestivo inizio dei
lavori è pur sempre onerato della proposizione di
una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo
stesso; proroga che deve essere accordata con atto
espresso dell'Amministrazione”.
---------------
L’onere di richiedere la proroga prima che il titolo
edilizio venga a scadenza costituisce, a ben vedere,
un portato necessario dell’assetto complessivo del
sistema, posto che la decadenza matura
automaticamente alla scadenza del termine e –ferma
la necessità che l’Amministrazione la dichiari
espressamente– essa opera di diritto.
La concessione della proroga esclusivamente mediante
un provvedimento espresso è, allora, prescritta dal
legislatore al fine di soddisfare due concorrenti
esigenze: da un lato, quella di assicurare –a
beneficio, anzitutto, del titolare del permesso di
costruire– la certezza, in ogni momento, dei termini
di efficacia del titolo edilizio; dall’altro,
quella di consentire all’Amministrazione di valutare
la sussistenza dei presupposti della proroga e la
sua eventuale durata. Sotto quest’ultimo profilo, la
Sezione ha avuto modo di rimarcare, infatti, che
“l’atto di proroga, previsto dall’art. 15, secondo
comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, a differenza
dell'accertamento dell'intervenuta decadenza, è atto
di esercizio di discrezionalità amministrativa, che
presuppone l'accertamento delle circostanze dedotte
dal privato e il loro apprezzamento in termini di
evento oggettivamente impeditivo dell'avvio della
edificazione”.
Tali conclusioni trovano ulteriore conferma nel
nuovo comma 2-bis dell’articolo 15 del d.P.R. n. n.
380 del 2001, introdotto dal decreto legge n. 133
del 2014.
La disposizione, infatti, reca un’ipotesi di proroga
vincolata del permesso di costruire, “qualora i
lavori non possano essere iniziati o conclusi per
iniziative dell'amministrazione o dell'autorità
giudiziaria rivelatesi poi infondate”.
Tuttavia, nonostante in tale fattispecie la proroga
sia sempre dovuta, per espressa previsione di legge,
la disposizione non prevede che essa operi
automaticamente, ma stabilisce che debba essere
“comunque accordata”. Anche in questo caso è quindi
pur sempre necessario che il differimento dei
termini venga disposto dall’Amministrazione con un
provvedimento espresso, benché interamente
vincolato.
---------------
Non può trovare accoglimento il primo motivo di
impugnazione, con il quale la parte allega che
l’obbligo di effettuare la bonifica costituirebbe
una ipotesi di forza maggiore o di factum principis,
tale da determinare l’automatica sospensione del
termine per ultimare i lavori fino alla
certificazione dell’esito positivo delle operazioni.
Come detto, infatti, è bensì condivisibile
l’affermazione secondo la quale la “scoperta” della
necessità di operare la bonifica, a causa di
pregresse attività inquinanti non dipendenti dal
titolare del permesso di costruire, potrebbe
astrattamente dare luogo, sussistendone i
presupposti, a una ipotesi di forza maggiore, tale
da giustificare la proroga dei termini di efficacia
del permesso di costruire.
Deve però escludersi, per le ragioni sopra esposte,
che il prolungamento della scadenza del titolo possa
operare automaticamente, in assenza di un’apposita
istanza di proroga da parte dell’interessato, che
possa mettere l’Amministrazione in condizione di
valutare se effettivamente sussista un evento,
estraneo alla volontà del titolare del permesso di
costruire, tale da impedire l’esecuzione delle
opere, nonché –in caso affermativo– di stabilire
l’entità della proroga da concedere.
Tale istanza però è del tutto mancata nel caso di
specie.
Sicché, non può assumere alcuna rilevanza la
circostanza che l’Amministrazione fosse a conoscenza
dello svolgimento della bonifica, poiché tale
conoscenza non poteva di per sé comportare uno
slittamento automatico del termine di ultimazione
dei lavori, in assenza di un provvedimento espresso
e motivato che avesse disposto in tal senso.
---------------
Si è già detto che le ipotesi di proroga del titolo
edilizio sono di stretta interpretazione, in quanto
consentono di superare i termini ordinari di
efficacia del permesso di costruire, posti a
presidio di rilevanti esigenze di interesse
pubblico. Conseguentemente, non è dato individuare
ipotesi di prolungamento di tali termini che non
siano tipizzate dalla legge.
Vero è, semmai, che le cause di forza maggiore e di
factum principis rientrano –come pure evidenziato–
tra i fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del
titolare del permesso di costruire, che giustificano
il rilascio della proroga.
Ciò in quanto i fatti qualificabili come forza
maggiore o factum principis legittimano la proroga
unicamente ove siano sopravvenuti dal punto di vista
del titolare del permesso di costruire, nel senso
che rilevano solo se si verifichino o vengano
scoperti da questo soggetto dopo il rilascio del
titolo, benché le loro cause possano risalire (e
spesso risalgano) a un momento precedente.
In definitiva, deve ribadirsi che la proroga non può
operare automaticamente, quale che ne sia la causa.
---------------
8. Il Collegio ritiene, a un più meditato esame, di
non poter confermare le conclusioni provvisoriamente
raggiunte in sede cautelare. E ciò in quanto, benché
la necessità di operare la bonifica del sito possa
astrattamente rientrare tra le cause di forza
maggiore tali da impedire lo svolgimento dei lavori,
deve tuttavia ritenersi che la proroga del titolo
edilizio non possa operare automaticamente, essendo
necessario un apposito provvedimento,
tempestivamente richiesto all’Amministrazione, al
fine di disporre il differimento dei termini di
efficacia del permesso di costruire.
9. Occorre tenere presente, al riguardo, che la
disciplina dell’efficacia temporale e della
decadenza del permesso di costruire è contenuta
all’articolo 15 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Le previsioni concernenti la proroga del titolo
edilizio sono state recentemente modificate
dall'articolo 17, comma 1, lett. f) del decreto
legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164.
In particolare, la proroga del titolo edilizio è
regolata dalle previsioni dei commi 2 e 2-bis del
richiamato articolo 15, in base ai quali: “2. Il
termine per l'inizio dei lavori non può essere
superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello
di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
completata, non può superare tre anni dall'inizio
dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade
di diritto per la parte non eseguita, tranne che,
anteriormente alla scadenza, venga richiesta una
proroga. La proroga può essere accordata, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti,
estranei alla volontà del titolare del permesso,
oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà
tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio
dei lavori, ovvero quando si tratti di opere
pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari.
2-bis. La proroga dei termini per l'inizio e
l'ultimazione dei lavori è comunque accordata
qualora i lavori non possano essere iniziati o
conclusi per iniziative dell'amministrazione o
dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate.”.
Deve osservarsi, in proposito, che la durata
limitata nel tempo dei titoli edificatori
costituisce un principio cardine dell’intero sistema
della disciplina urbanistica. Si tratta, infatti, di
una regola che risponde non solo all’esigenza di
assicurare la realizzazione ordinata ed entro tempi
certi delle trasformazioni assentite con il titolo
edilizio, prevenendo situazioni di degrado legate
alla presenza di costruzioni non ultimate, ma anche
alla necessità di tutelare l’interesse pubblico a
consentire quelle sole trasformazioni del territorio
che corrispondono alle esigenze attuali della
collettività, quali individuate dalla pianificazione
urbanistica vigente. Esigenza, questa, che verrebbe
irrimediabilmente frustrata dalla possibilità del
protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di
realizzazione degli interventi edilizi, una volta
che le trasformazioni assentite siano ritenute non
più rispondenti all’interesse pubblico (v. TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 04.05.2016, n. 864;
nello stesso senso anche Id., 22.07.2015, n. 1764).
In tale prospettiva, la declaratoria di decadenza
del permesso di costruire è un “provvedimento che
ha carattere strettamente vincolato all’accertamento
del mancato inizio e completamento dei lavori entro
i termini stabiliti dal richiamato art, 15, comma 2,
(rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del
titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura
ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l’inerzia del titolare a
darvi attuazione (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 974
del 23.02.2012; n. 2915 del 2012)” (Cons. Stato,
Sez. III, 04.04.2013, n. 1870). E –specularmente– la
proroga del permesso di costruire, in quanto
comporta un prolungamento del termine ordinario di
efficacia del titolo edilizio, può essere consentita
nei soli casi e modi previsti dalle richiamate
previsioni dell’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del
2001.
10. Ciò posto, deve rilevarsi che il comma 2
dell’articolo 15 stabilisce espressamente che,
decorsi i termini di inizio e di conclusione dei
lavori, “il permesso decade di diritto per la
parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla
scadenza, venga richiesta una proroga”, la quale
può essere concessa nelle ipotesi previste dalla
legge, tra le quali il verificarsi di “fatti
sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del
permesso”.
Il legislatore ha quindi espressamente stabilito che
la proroga possa essere concessa solo se sia stata
richiesta prima della scadenza del titolo edilizio,
e ciò anche nei casi di forza maggiore o di c.d.
factum principis, che sono sostanzialmente
riconducibili nel novero dell’ampia casistica dei “fatti
sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del
permesso”, prevista dalla disposizione normativa
richiamata.
In questo senso si è del resto pronunciata la
giurisprudenza, la quale ha avuto modo di rimarcare
che “il termine di durata del permesso edilizio
non può mai intendersi automaticamente sospeso,
essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine,
la presentazione di una formale istanza di proroga,
cui deve comunque seguire un provvedimento da parte
della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il
titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del
rispetto del termine, e solamente nei casi in cui
possa ritenersi sopravvenuto un factum principis
ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore”
(così Cons. Stato, Sez. III, n. 1870 del 2013, cit.;
v. anche Id., Sez. IV, 23.02.2012, n. 974).
Anche questa Sezione è pervenuta alle medesime
conclusioni, in particolare nella recente sentenza
n. 201 del 29.01.2016. In tale precedente, si è
ritenuto che –nonostante secondo una parte della
giurisprudenza la sussistenza di una causa di forza
maggiore impedisca ex se la decadenza del
titolo edilizio (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II,10.02.2012,
n. 188)– è tuttavia “preferibile ritenere, come
fa altra giurisprudenza, che, anche laddove si sia
in presenza del cd. factum principis o di cause di
forza maggiore, l'interessato che voglia impedire la
decadenza del titolo edilizio per il mancato
tempestivo inizio dei lavori è pur sempre onerato
della proposizione di una richiesta di proroga
dell’efficacia del titolo stesso; proroga che deve
essere accordata con atto espresso
dell'Amministrazione”.
11. L’onere di richiedere la proroga prima che il
titolo edilizio venga a scadenza costituisce, a ben
vedere, un portato necessario dell’assetto
complessivo del sistema, posto che la decadenza
matura automaticamente alla scadenza del termine e
–ferma la necessità che l’Amministrazione la
dichiari espressamente– essa opera di diritto (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 22.09.2014, n. 4765; Id., Sez.
III, n. 1870 del 2013, cit.).
La concessione della proroga esclusivamente mediante
un provvedimento espresso è, allora, prescritta dal
legislatore al fine di soddisfare due concorrenti
esigenze: da un lato, quella di assicurare –a
beneficio, anzitutto, del titolare del permesso di
costruire– la certezza, in ogni momento, dei termini
di efficacia del titolo edilizio; dall’altro, quella
di consentire all’Amministrazione di valutare la
sussistenza dei presupposti della proroga e la sua
eventuale durata. Sotto quest’ultimo profilo, la
Sezione ha avuto modo di rimarcare, infatti, che “l’atto
di proroga, previsto dall’art. 15, secondo comma,
del d.P.R. n. 380 del 2001, a differenza
dell'accertamento dell'intervenuta decadenza, è atto
di esercizio di discrezionalità amministrativa, che
presuppone l'accertamento delle circostanze dedotte
dal privato e il loro apprezzamento in termini di
evento oggettivamente impeditivo dell'avvio della
edificazione. (cfr., TAR Friuli-Venezia Giulia, sez.
I, 22.04.2015, n. 186)” (così TAR Lombardia,
Milano, n. 201 del 2016, cit.).
12. Tali conclusioni trovano ulteriore conferma nel
nuovo comma 2-bis dell’articolo 15 del d.P.R. n. n.
380 del 2001, introdotto dal decreto legge n. 133
del 2014.
La disposizione, infatti, reca un’ipotesi di proroga
vincolata del permesso di costruire, “qualora i
lavori non possano essere iniziati o conclusi per
iniziative dell'amministrazione o dell'autorità
giudiziaria rivelatesi poi infondate”. Tuttavia,
nonostante in tale fattispecie la proroga sia sempre
dovuta, per espressa previsione di legge, la
disposizione non prevede che essa operi
automaticamente, ma stabilisce che debba essere “comunque
accordata”. Anche in questo caso è quindi pur
sempre necessario che il differimento dei termini
venga disposto dall’Amministrazione con un
provvedimento espresso, benché interamente
vincolato.
13. Nel solco dei principi ora esposti, il ricorso è
da ritenere infondato.
14. Non può, anzitutto, trovare accoglimento il
primo motivo di impugnazione, con il quale la parte
allega che l’obbligo di effettuare la bonifica
costituirebbe una ipotesi di forza maggiore o di
factum principis, tale da determinare
l’automatica sospensione del termine per ultimare i
lavori fino alla certificazione dell’esito positivo
delle operazioni.
14.1 Come detto, infatti, è bensì condivisibile
l’affermazione secondo la quale la “scoperta”
della necessità di operare la bonifica, a causa di
pregresse attività inquinanti non dipendenti dal
titolare del permesso di costruire, potrebbe
astrattamente dare luogo, sussistendone i
presupposti, a una ipotesi di forza maggiore, tale
da giustificare la proroga dei termini di efficacia
del permesso di costruire.
Deve però escludersi, per le ragioni sopra esposte,
che il prolungamento della scadenza del titolo possa
operare automaticamente, in assenza di un’apposita
istanza di proroga da parte dell’interessato, che
possa mettere l’Amministrazione in condizione di
valutare se effettivamente sussista un evento,
estraneo alla volontà del titolare del permesso di
costruire, tale da impedire l’esecuzione delle
opere, nonché –in caso affermativo– di stabilire
l’entità della proroga da concedere.
Tale istanza però è del tutto mancata nel caso di
specie.
14.2 Per questa ragione, non può assumere alcuna
rilevanza la circostanza che l’Amministrazione fosse
a conoscenza dello svolgimento della bonifica,
poiché tale conoscenza non poteva di per sé
comportare uno slittamento automatico del termine di
ultimazione dei lavori, in assenza di un
provvedimento espresso e motivato che avesse
disposto in tal senso.
14.3 Sotto altro profilo, non può darsi rilievo alla
circostanza –richiamata anche nel terzo motivo di
ricorso– che la causa di forza maggiore, consistente
nell’inquinamento dell’area comportante l’obbligo di
bonifica, preesistesse al rilascio del titolo
edilizio.
Secondo la tesi di Ce. –diffusamente illustrata
negli scritti difensivi depositati in prossimità
dell’udienza– l’onere di richiedere la proroga del
permesso di costruire sussisterebbe soltanto nella
fattispecie espressamente contemplata dall’articolo
15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia in
presenza di cause sopravvenute al rilascio del
titolo. Ove, invece, si sia in presenza di cause
preesistenti, si verificherebbe la sospensione
automatica dei termini di efficacia del permesso di
costruire.
Si tratta di una prospettazione che non può essere
condivisa.
Si è già detto, infatti, che le ipotesi di proroga
del titolo sono di stretta interpretazione, in
quanto consentono di superare i termini ordinari di
efficacia del permesso di costruire, posti a
presidio di rilevanti esigenze di interesse
pubblico. Conseguentemente, non è dato individuare
ipotesi di prolungamento di tali termini che non
siano tipizzate dalla legge.
Vero è, semmai, che le cause di forza maggiore e di
factum principis rientrano –come pure
evidenziato– tra i fatti sopravvenuti, estranei alla
volontà del titolare del permesso di costruire, che
giustificano il rilascio della proroga.
Ciò in quanto i fatti qualificabili come forza
maggiore o factum principis legittimano la
proroga unicamente ove siano sopravvenuti dal punto
di vista del titolare del permesso di costruire, nel
senso che rilevano solo se si verifichino o vengano
scoperti da questo soggetto dopo il rilascio del
titolo, benché le loro cause possano risalire (e
spesso risalgano) a un momento precedente.
14.4 In definitiva, deve ribadirsi che la proroga
non può operare automaticamente, quale che ne sia la
causa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.08.2016 n. 1564 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
13.08.2013-13.08.2016
Tre anni senza di Te ... non c'è giorno che non Ti
pensi.
T. |
NOVITA' NEL SITO |
● Inserito il nuovo bottone
dossier ZONA SISMICA E CEMENTO ARMATO. |
IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ferie non godute sempre indennizzate.
La sentenza della corte di giustizia europea.
I lavoratori hanno diritto, ogni anno, ad almeno quattro
settimane di ferie, indipendentemente dallo stato di salute.
Quando cessa il rapporto di lavoro, il lavoratore ha diritto
ad avere un'indennità economica sostitutiva se non è
riuscito a fruire delle ferie a prescindere da ogni altra
motivazione.
Lo stabilisce la corte di giustizia Ue nella
sentenza
20.07.2016 - causa C/341/15.
La vicenda riguarda un dipendente pubblico di Vienna,
collocato a riposo a sua richiesta, dal 01.07.2012. Tra
il 15.11.2010 e il 30.06.2012 egli non si è
presentato sul posto di lavoro; per un mese e mezzo (dal 15.11. al 31.12.2010), è stato in congedo per
malattia. Dal 01.01.2011 si attenuto, conformemente a
una convenzione conclusa con il suo datore di lavoro, a non
presentarsi sul posto di lavoro, continuando però a
percepire lo stipendio.
Dopo il pensionamento, il lavoratore ha chiesto il pagamento
dell'indennità per ferie annuali non godute, sostenendo di
essersi nuovamente ammalato poco prima del pensionamento. Il
datore di lavoro ha respinto la richiesta, sostenendo che,
ai sensi della normativa sul lavoro pubblico, un lavoratore
che, di propria iniziativa, cessa il rapporto di lavoro, in
particolare chiedendo di essere collocato a riposo, non ha
diritto all'indennità per ferie non godute. Il lavoratore ha
quindi fatto ricorso al tribunale di Vienna, il quale ha
chiesto alla Corte Ue di pronunciarsi sulla compatibilità
della normativa nazionale (Vienna) con i principi della
direttiva Ue 2003/88.
La Corte Ue rammenta che la direttiva prevede che ogni
lavoratore ha diritto a beneficiare di ferie annuali
retribuite di almeno quattro settimane e che il diritto alle
ferie annuali retribuite costituisce un principio
particolarmente importante del diritto sociale dell'Ue.
Quando cessa il rapporto di lavoro e dunque la fruizione
effettiva delle ferie annuali retribuite non è più
possibile, la direttiva prevede che il lavoratore abbia
diritto a un'indennità finanziaria per evitare che, a causa
di tale impossibilità, non riesca in alcun modo a
beneficiare di tale diritto, neppure in forma pecuniaria.
Secondo la corte Ue, in particolare, la direttiva contrasta
con una normativa nazionale (come quella di Vienna), che
priva del diritto a un'indennità economica per ferie annuali
retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto sia
cessato a seguito della domanda di pensionamento e che non è
stato in grado di usufruire del suo diritto alle ferie prima
della fine di tale rapporto di lavoro. L'indennità spetta,
dunque, per i periodi accertati di malattia.
La Corte aggiunge che il diritto alle ferie annuali ha una
duplice finalità, ossia consentire al lavoratore di
sospendere l'esecuzione dei compiti attribuitigli in forza
del suo contratto di lavoro e di beneficiare di un periodo
di relax e svago. Al fine di assicurare l'effetto
utilizzato, sancisce il seguente principio: un lavoratore il
cui rapporto di lavoro sia cessato e che, in forza di un
accordo concluso con il suo datore di lavoro, pur
continuando a percepire lo stipendio, fosse tenuto a non
presentarsi sul posto di lavoro durante un periodo
determinato precedente il suo pensionamento, non ha diritto
all'indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite
non godute durante tale periodo, salvo che egli non abbia
potuto usufruirne a causa di una malattia
(articolo ItaliaOggi del 21.07.2016).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione)
dichiara:
L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 04.11.2003,
concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario
di lavoro, deve essere interpretato nel senso che:
– esso osta a una normativa nazionale, come quella di cui
al procedimento principale, che priva del diritto
all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non
godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato a
seguito della sua domanda di pensionamento e che non sia
stato in grado di usufruire di tutte le ferie prima della
fine di tale rapporto di lavoro;
– un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento,
all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non
godute per il fatto di non aver esercitato le sue funzioni
per malattia;
– un lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato e che,
in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro,
pur continuando a percepire il proprio stipendio, fosse
tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro per un periodo
determinato antecedente il suo pensionamento non ha diritto
all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non
godute durante tale periodo, salvo che egli non abbia potuto
usufruire di tali ferie a causa di una malattia;
– spetta, da un lato, agli Stati membri decidere se
concedere ai lavoratori ferie retribuite supplementari che
si sommano alle ferie annuali retribuite minime di quattro
settimane previste dall’articolo 7 della direttiva 2003/88.
In tale ipotesi, gli Stati membri possono prevedere di
concedere a un lavoratore che, a causa di una malattia, non
abbia potuto usufruire di tutte le ferie annuali retribuite
supplementari prima della fine del suo rapporto di lavoro,
un diritto all’indennità finanziaria corrispondente a tale
periodo supplementare. Spetta, dall’altro lato, agli Stati
membri stabilire le condizioni di tale concessione.
---------------
Un lavoratore che ponga fine egli stesso al proprio
rapporto di lavoro ha diritto a un’indennità finanziaria se
non ha potuto usufruire di una parte o della totalità delle
ferie annuali retribuite
(leggi anche il
comunicato stampa 20.07.2016 n. 81/16). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: applicazione CCNL nell'ambito degli appalti
pubblici
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
nota 26.07.2016 n. 14775 di prot.). |
SICUREZZA LAVORO: Oggetto:
Istruzioni per l'esecuzione in sicurezza di lavori su alberi
con funi
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
circolare 22.07.2016 n. 23). |
VARI:
Oggetto Coperture Assicurative R.c.a. -
Dematerializzazione contrassegni e documenti assicurativi -
Accertamenti e sanzioni applicabili ai sensi degli artt.
180,181, e 193 del C.d.S. (IVASS,
nota 01.06.2016 n. 111471). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 dell'11.08.2016, "Modifiche
alla deliberazione del Consiglio regionale 12.05.2009, N.
VIII/834 ‘Programma di qualificazione e ammodernamento della
rete di distribuzione dei carburanti’ in attuazione
dell’art. 83 della l.r. n. 6/10" (deliberazione
C.R. 28.07.2016 n. 1200). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U.
10.08.2016 n. 186 "Designazione di 37 zone speciali di
conservazione (ZSC) della regione biogeografica alpina e di
101 ZSC della regione biogeografica continentale insistenti
nel territorio della Regione Lombardia, ai sensi dell’art.
3, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica
08.09.1997, n. 357" (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 15.07.2016). |
APPALTI: G.U.
01.08.2016 n. 178 "Saggio degli interessi da
applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei
pagamenti nelle transazioni commerciali (periodo 1º luglio -
31.12.2016)" (Ministero dell'Economia e delle
Finanze,
comunicato).
---------------
Interessi di mora: comunicato il tasso
per il secondo semestre 2016.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze con un comunicato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 178 dell'01.08.2016,
indica il tasso di riferimento da applicare a favore del
creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle
transazioni commerciali, che per il periodo 1º
luglio-31.12.2016, è pari allo 0%.
Con un comunicato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 178
del 1° agosto 2016, il Ministero dell’Economia e delle
Finanze, indica il tasso di riferimento da applicare a
favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle
transazioni commerciali.
Per il periodo 1º luglio-31.12.2016, il tasso di riferimento
è pari allo 0%.
Ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 231/2002,
come modificato dalla lettera e) del comma 1 dell'art. 1 del
decreto legislativo n. 192/2012, il saggio degli interessi
di mora da applicare, è determinato in misura pari al saggio
d'interesse maggiorato di otto punti percentuali, pertanto
per il secondo semestre 2016 gli interessi legali moratori
complessivi sono determinati in misura pari all’8,00%
(commento tratto da www.ipsoa.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Digitalizzazione dei documenti: le ragioni del flop
(12.08.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma della dirigenza: l’inganno della “meritocrazia”
(11.08.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Riforma della dirigenza: lo slogan della licenziabilità per
nascondere l’intento della politicizzazione (10.08.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Offerta economicamente più vantaggiosa: le contraddizioni
con l’esigenza di un progetto esecutivo (07.08.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Riforma dei segretari comunali e della dirigenza: l'apporto
propagandistico della stampa (07.08.2016 -
link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti. Relazione finale. Modello di data base (per
smanettoni con stampa-unione) (29.07.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti. Come costruire una determinazione a contrattare.
Parti essenziali del provvedimento (con esempi) (29.07.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Dgue in formato word a moduli con campi editabili
(28.07.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
M. De Paolis,
Accordo bonario nell’attività contrattuale della PA
(Azienditalia - Enti Locali n. 7/2015).
---------------
L’accordo bonario è lo strumento con il quale le stazioni
appaltanti pubbliche pongono fine a controversie insorte
durante lo svolgimento di contratti con oggetto lavori,
opere, servizi e forniture contribuendo a rendere
maggiormente efficiente l’esercizio della funzione pubblica
in un contesto economico-finanziario connotato da una
persistente crisi economica che obbliga gli amministratori a
scelte oculate. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
M. De Paolis,
Responsabilità amministrativa per lite temeraria
(Azienditalia - Enti Locali n. 6/2015).
---------------
La lite
temeraria può coinvolgere anche la Pubblica Amministrazione
nelle sue diverse articolazioni generando la responsabilità
amministrativa e il danno erariale quando l’agire in
giudizio risulti ingiustificato e abbia determinato una
spesa per l’Erario recuperabile attraverso la Corte dei
conti direttamente dal soggetto che ha operato con dolo o
colpa grave. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
M. De Paolis,
Responsabilità per transazione nelle attività della PA
(Azienditalia - Enti Locali n. 5/2015).
---------------
La transazione rappresenta lo strumento negoziale
attraverso cui la PA, al pari dei soggetti privati (persone
fisiche e giuridiche), pone fine o previene costose liti in
sede giudiziaria tutelando l’interesse pubblico e
salvaguardando al contempo l’Erario a condizione che vengano
rispettati i canoni della razionalità, della logica, della
convenienza e della correttezza gestionale. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
M. De Paolis,
Peculato d’uso e peculato mediante profitto dell’errore
altrui (Azienditalia - Enti Locali n. 4/2015).
---------------
L’evoluzione delle tecnologie di comunicazione (computers,
internet, telefoni cellulari) e il persistente uso delle
autovetture di servizio, nonostante una parziale riduzione
per esigenze di bilancio, hanno concentrato l’oggetto del
reato di peculato d’uso prevalentemente sui predetti servizi
e beni ampiamente utilizzati nei diversi settori in cui
opera la PA. |
LAVORI PUBBLICI:
M. Pollini,
Leasing in costruendo. Legislazione, giurisprudenza e
principi contabili (Azienditalia - Enti Locali
n. 4/2015).
----------------
La legislazione ha dato largo spazio al leasing in
costruendo quale strumento per realizzare investimenti da
parte delle Pubbliche Amministrazioni utilizzando anche
capitali privati. La Magistratura contabile ha tuttavia
frenato l’utilizzo di questo prodotto finanziario ed i
principi dettati in sede di armonizzazione contabile degli
Enti territoriali hanno ulteriormente, ed in maniera
pesante, posto ostacoli all’utilizzo del prodotto stesso.
Con il presente scritto si mettono in luce le contraddizioni
venutesi a creare nell’importante materia e si esprime
l’auspicio di un definitivo chiarimento. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
M. De Paolis,
Reato di peculato ordinario (Azienditalia -
Enti Locali n. 3/2015).
---------------
Il contrasto alla corruzione nella PA transita anche
attraverso la lotta al reato di peculato poco pubblicizzato
dagli organi di informazione, ma che, essendo facilmente
praticabile dai pubblici ufficiali e dagli incaricati di un
pubblico servizio, risulta estremamente diffuso nelle varie
articolazioni del peculato ordinario, d’uso e mediante
profitto dell’errore altrui. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Enti locali e Soggetti aggregatori.
Dal prossimo 9 agosto anche gli enti locali, nonché loro
consorzi e associazioni, sono tenuti al ricorso ai Soggetti
aggregatori per gli affidamenti nelle categorie del DPCM
24.12.2015 (05.08.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Elenco dei soggetti aggregatori (delibera
04.08.2016 n. 784 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori
pubblici; ulteriori indicazioni interpretative a seguito
dell’entrata in vigore del d.lgs n. 50/2016 (comunicato
del Presidente 03.08.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Codice Identificativo Gara. Chiarimenti sulle
tempistiche per la corretta acquisizione dei CIG e modalità
operative.
Pubblicati due comunicati del Presidente che forniscono
chiarimenti sulle varie tempistiche per la corretta
acquisizione dei CIG e sulle modalità operative per
l’acquisizione dei medesimi, introducendo una voce in più
tra le motivazioni obbligatorie per gli acquisiti effettuati
nelle categorie merceologiche che prevedono il ricorso ai
Soggetti aggregatori.
Per questo motivo il Comunicato sulle modalità operative
aggiorna il comunicato del 10.02.2016:
●
comunicato del Presidente 13.07.2016 – tempistiche
acquisizione CIG
●
comunicato del Presidente 13.07.2016 –
modalità operative acquisizione CIG (link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Valutazione offerte, un salto in avanti le linee guida Anac.
Appalti. Più responsabilità per le Pa.
Lo scorso 21
giugno il Consiglio dell'Autorità nazionale Anticorruzione (Anac)
ha approvato la
linea guida del nuovo codice degli appalti e
delle concessioni sull’offerta economicamente più
vantaggiosa.
Due le principali novità riportate per la valutazione degli
elementi quantitativi delle offerte (ad esempio il prezzo),
la prima di metodo e tecnica, la seconda indice di un cambio
culturale a lungo atteso. In primis, l’esplicita possibilità
di utilizzo di formule di aggiudicazione cosiddette
indipendenti in alternativa alle tradizionali formule
interdipendenti per il calcolo del punteggio
economico-tecnico. In secundis, il riconoscimento di un
potere discrezionale per le stazioni appaltanti
nell’individuare formule per l’attribuzione dei punteggi
anche al di là dei limiti indicati nella linea guida stessa,
purché non determinino esiti illogici o irrazionali.
L’Anac ha effettuato una attenta analisi dei contributi
pervenuti nella fase di consultazione pubblica, e in
particolare anche del gruppo di ricerca economica sugli
appalti dell’Università di Roma Tor Vergata che ha
sottolineato come l’uso pedissequo di formule di
aggiudicazione interdipendenti come quelle sinora indicate
dal Dpr 207/2010 abbia talvolta favorito il successo di
strategie di offerta “coordinate” da parte dei concorrenti.
Tali formule, facendo dipendere i punteggi ottenuti dalla
singola impresa da una qualche statistica (ad esempio la
media) della distribuzione della totalità delle offerte,
sono manipolabili per natura rendendo in contesti già proni
ai cartelli, più conveniente la formazione di accordi
collusivi a danno dei contribuenti.
Inoltre, non consentendo
alle imprese offerenti di calcolare ex ante il proprio
punteggio, accentuano l'incertezza in gara non permettendo
alle stesse di valutare ottimamente il mix prezzo-qualità da
offrire. Le formule indipendenti, che oggi grazie alla
lungimiranza dell'Anac sono «esplicitamente» a diposizione
delle stazioni appaltanti, risolvono i problemi sopra
elencati facendo dipendere il punteggio ottenuto da
un'offerta dalle sole caratteristiche della stessa.
Certo, tali formule richiedono un'accurata stima dei valori
a base d'asta e/o soglia, circostanza che soprattutto per le
stazioni appaltanti poco professionalizzate ne ha
scoraggiato l'utilizzo. Ma sta proprio in ciò il salto
culturale che l’Anac impone alle stesse ovvero un uso
responsabile della discrezionalità che deve accompagnarsi ad
un incremento delle competenze necessarie all’utilizzo degli
strumenti più innovativi per effettuare acquisti efficaci e
trasparenti.
È un cambio di paradigma per questo Paese che
passa da un approccio prescrittivo e diffidente nei
confronti delle capacità delle stazioni appaltanti ad un
orientamento di soft-regulation dell’Anac che le
responsabilizza fornendogli allo stesso tempo gli strumenti
per operare con efficacia.
Per l'approvazione definitiva delle linee guida si è in
attesa del parere del Consiglio di Stato e delle Commissioni
di Camera e Senato competenti. Auspicando che non si
alterino gli orientamenti adottati, per ora registriamo
l’attivismo di un regolatore nazionale in linea con le
best-practice del settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Il programma biennale degli acquisti.
DOMANDA:
In riferimento al Nuovo Codice degli appalti si chiede di
sapere se il programma biennale degli acquisti di beni e
servizi deve essere già previsto all'interno del DUP già per
la programmazione degli anni 2016-2017 od in quella degli
anni 2017-2018.
RISPOSTA:
L’articolo 21 comma 1, del Dlgs 50/2016, stabilisce che “le
amministrazioni aggiudicatrici adottano il programma
biennale degli acquisti di beni e servizi e il programma
triennale dei lavori pubblici, nonché i relativi
aggiornamenti annuali. I programmi sono approvati nel
rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il
bilancio”.
Questa disposizione si ritiene che sia applicabile a
decorrere dall’esercizio 2017, e cioè, il programma biennale
per l’acquisto di beni e servizi relativo agli esercizi
2017–2018 deve essere una componente del prossimo bilancio
preventivo.
Ciò sta a significare che il DUP relativo al periodo
2017-2019, che doveva essere presentato al Consiglio entro
il 31/07/2016, doveva anche contenere la previsione di
questo programma biennale. Si segnala, però, che come è
risaputo il DUP può essere aggiornato entro il 15/11 (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO:
La locazione dell'immobile comunale.
DOMANDA:
L’ente intende concedere in locazione una porzione immobile
per uso socio-sanitario all'interno di una RSA - casa di
riposo.
Si chiede che tipo di gara espletare anche in termini di
pubblicità, tenuto conto che la locazione immobile è appalto
escluso codice art. 17, ma l’affidamento verrà aggiudicato
con l’offerta economicamente più vantaggiosa che terrà conto
del canone e che premi anche l’idea di gestione (es. centro
per malati terminali o per dialisi ecc.) e che pertanto la
gestione successiva potrebbe avere un valore economico
importante per il privato attualmente non definibile di
rilevanza pubblica anche se la gestione rimarrà privata.
RISPOSTA:
Come noto, i contratti di compravendita o locazione di
immobili stipulati dalle pubbliche amministrazioni sono
sottratti all’applicazione delle norme codicistiche. In tal
caso, infatti, non avendo il contratto ad oggetto lavori,
servizi o forniture, l’amministrazione procedente agisce
iure privatorum, al di fuori dell’ambito di applicazione
del codice dei contratti pubblici. Inoltre, diversamente
dagli appalti, il contratto di affitto è riconducibile nel
novero dei contratti attivi, secondo la tradizionale
distinzione operata dalla legge di contabilità generale
dello Stato.
Per completezza si rileva che l’ipotesi non ricade neppure
nella definizione di cui alla lett. a) dell’art. 17 del
(nuovo) codice degli appalti (d.lgs. 50/2016) concernente
gli appalti e le concessioni di servizi esclusi, giacché la
stessa si riferisce solo alle fattispecie nelle quali la
stazione appaltante stipula un contratto di locazione nella
veste di conduttore. Inoltre, anche a voler inquadrare la
fattispecie de quo come concessione, in quanto gestione di
un servizio di rilevanza pubblica (centro per malati
terminali o per dialisi ecc) con un ritorno economico
importante, si ricorda che le disposizioni del codice non si
applicano alle concessioni aventi ad oggetto attività non
contemplate nell’all. II, tra cui i servizi sociali,
culturali e sportivi.
L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto
lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte,
dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, avviene
nel rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed
efficienza energetica (art. 4). Le modalità per procedere ad
una locazione attiva dovrebbero pertanto essere stabilite
dal regolamento dei contratti o da altro eventuale atto
regolamentare che si è dato l’ente; e la scelta del
contraente deve comunque avvenire nel rispetto del principio
della concorrenza.
Pertanto, in ogni caso, il responsabile del provvedimento,
deve dare informazione sul sito dell’amministrazione
attraverso la pubblicazione di un bando, nel quale si
precisano le condizioni (soggetti che possono accedere
all’affitto, eventuali priorità, durata del contratto di
affitto, criteri per l’affidamento del contratto, ecc) ed i
tempi entro i quali fare pervenire le offerte (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ L'accesso batte la
privacy. La riservatezza non giustifica il diniego.
Ma il consigliere comunale è tenuto a
rispettare il segreto d'ufficio.
Sono ostensibili, da parte dell'amministrazione comunale, i
documenti concernenti il rilascio di titoli abilitativi,
studi di fattibilità, documenti dello Sportello unico delle
attività produttive e dell'ufficio Edilizia
privata-urbanistica richiesti dai consiglieri comunali ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000?
L'istanza di accesso ai documenti rientranti in tale elenco
può essere riscontrata negativamente in ragione delle
eventuali pretese risarcitorie dei soggetti privati
coinvolti, eventualmente danneggiati dalla diffusione delle
notizie in possesso della amministrazione?
L'art. 43, comma 2, riconosce al consigliere comunale un
diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai
documenti amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del comune di residenza, ai sensi dell'art. 10 del
decreto legislativo n. 267/2000 che, più in generale, nei
confronti della pubblica amministrazione come disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi con
parere espresso nella seduta del 28.02.2012 ha
affermato che «il diritto di accesso riconosciuto ai
consiglieri degli organi elettorali locali ex art. 43
decreto legislativo n. 267/2000 è strettamente funzionale
all'esercizio del proprio mandato, alla verifica e al
controllo del comportamento degli organi istituzionali
decisionali dell'ente territoriale, ai fini della tutela
degli interessi pubblici, e si configura come peculiare
espressione del principio democratico dell'autonomia locale
e della rappresentanza esponenziale della collettività»
(Cons. stato sez. V, 08/11/2011, n. 5895).
In tale ottica, al consigliere comunale non può essere
opposto alcun diniego, altrimenti gli organi di governo
dell'ente sarebbero arbitri di stabilire essi stessi
l'estensione del controllo sul proprio operato.
La giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel
senso di ritenere che l'ampia prerogativa a ottenere
informazioni è riconosciuta ai consiglieri comunali senza
che possano essere opposti profili di riservatezza, restando
fermi, tuttavia, gli obblighi di tutela del segreto e i
divieti di divulgazione di dati personali, nei casi
specificamente determinati dalla legge, come previsto dal
sopra richiamato art. 43.
Anche il Tar Lombardia, sezione di Milano, con sentenza n.
2363 del 23/09/2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei
consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune in
quanto «non è in dubbio che possa essere ostensibile
anche documentazione che, per ragioni di riservatezza, non
sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti,
essendo il consigliere tenuto al segreto d'ufficio»
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
È all'Inail, non al sindacato, che bisogna rivolgersi per i
danni. È infortunio in itinere anche se il prof è in permesso
sindacale.
Un docente che mentre si stava recando, con un permesso
sindacale, in una scuola per tenere un'assemblea sindacale,
è rimasto coinvolto senza sua responsabilità, come accertato
dai vigili urbani intervenuti in loco, in un incidente
stradale riportando danni sia alla sua auto che alla sua
persona.
Oltre all'assicurazione auto chi è tenuto a
indennizzarlo per le lesioni subite, l'Inail, il Miur o il
sindacato del quale è un dirigente?
Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione civile,
sez. lavoro, la n. 13882/2016, afferma che un infortunio
accorso ad un lavoratore mentre in qualità di sindacalista
si stava recando ad una assemblea sindacale va equiparato-
sussistendo le condizioni previste dall'Inail e restando
fermi i limiti imposti dalla norma- all'infortunio in
itinere e di conseguenza le lesioni riportate a seguito
dell'evento vanno indennizzate ai sensi dell'art. 12 del
decreto legislativo n. 38/2000 direttamente dall'Inail,
previa denuncia da parte dell'organizzazione sindacale di
cui l'infortunato è un dirigente
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Parentele e affinità Come si calcolano.
Nel contratto sulle utilizzazioni e assegnazioni è previsto
che la precedenza nei movimenti debba essere riconosciuta
anche personale docente destinatario dell'art. 33, commi 5 e
7, della citata legge n. 104/1992 che sia unico parente o
affine entro il secondo grado ovvero entro il terzo grado,
qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap
in situazione di gravità abbiano compiuto 65 anni di età
oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o
siano deceduti o mancanti.
Vorrei sapere come si calcolano i
gradi di parentela in linea retta e collaterali e affinità e
i riferimenti normativi.
La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da
uno stesso stipite (articolo 74 e seguenti del codice
civile). Lo stipite è un parente in comune che le abbia
generate oppure che abbia generato i parenti dai quali
discendono. Per esempio, nel caso di due fratelli, lo
stipite è il padre; nel caso di due cugini lo stipite è il
nonno; nel caso di zio e nipote, lo stipite è il nonno.
La
parentela viene calcolata in due direzioni: in linea retta e
in linea collaterale (articolo 75 del codice civile). Due
parenti si dicono tali in linea retta se uno dei due è lo
stipite (per esempio, padre e figlio) oppure se lo stipite
di uno dei due si trova in un'altra generazione (per
esempio, nonno e nipote: lo stipite è il bisnonno del
nipote, che è il padre del nonno).
Due parenti si dicono, invece, collaterali se lo stipite si
trova in una generazione superiore a quella di entrambi, ma
non discendono l'una dall'altra (per esempio zio e nipote:
lo stipite è il nonno del nipote che è anche il padre dello
zio).
Il grado di parentela si calcola contando le generazioni
comprendendo lo stipite e poi sottraendolo. Per esempio,
padre a figlio sono parenti di primo grado. Ciò vale sia per
la parentela in linea retta che per quella collaterale.
Quanto al legame di affinità, esso è il legame del coniuge
con i parenti dell'altro coniuge (articolo ItaliaOggi del 26.07.2016). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per le assunzioni dedalo di procedure a seconda dei profili.
Personale. Le ricadute delle «aperture» sul turn-over.
La morsa del
blocco delle assunzioni inizia ad allentarsi. La Funzione
pubblica dà il via libera alle ordinarie facoltà assunzionali per le regioni nelle quali gli esuberi degli
enti di area vasta e della Croce Rossa sono annullati o
ridotti al lumicino; in linea con questa previsione, la
legge di conversione del decreto enti locali prevede il
riavvio del turn-over negli enti locali delle regioni in cui
il 90% degli esuberi provinciali sia stato ricollocato.
Ma
questo significa che, al quadro già complicato della
normativa sul reclutamento di dipendenti negli enti locali,
si aggiunge un ulteriore tassello. In pratica, gli addetti
all’ufficio personale devono distinguere le disposizioni da
applicare secondo il profilo professionale che è necessario
e l’ambito territoriale su cui operano.
La questione prende le mosse dalla legge di stabilità 2015,
la quale obbligava gli enti locali a destinare le facoltà
assunzionali 2015 e 2016, sia nella percentuale stabilita
sia nel suo complemento a 100, al ricollocamento dei
dipendenti degli enti di area vasta dichiarati in esubero.
Il rigore della norma ha spinto le amministrazioni locali a
manifestare forti proteste, ottenendo, l’estate scorsa, un
primo sblocco per maestre ed educatrici, ritenute figure
infungibili, e per gli stagionali della polizia locale.
La legge di stabilità 2016 ha portato tre novità: la
ricollocazione del personale soprannumerario della Croce
Rossa anche presso Comuni e Regioni, l’indisponibilità dei
posti di dirigente vacanti al 15.10.2015 e le modalità
di chiusura delle operazioni di riassorbimento del personale
soprannumerario degli enti di area vasta e della Cri,
affidando il compito alla Funzione Pubblica.
Una prima comunicazione in tal senso, di fine febbraio, ha
sbloccato il reclutamento del solo personale della polizia
municipale e limitatamente alle regioni Basilicata, Emilia
Romagna, Marche Lazio, Piemonte e Veneto.
Con la
nota 18.07.2016 n. 37870 di
prot., il Dipartimento apre le
maglie in maniera più significativa.
All’elenco delle
regioni che possono assumere vigili urbani aggiunge la
Puglia e il Molise. Ma il passaggio significativo consiste
nel dare il via libera alle assunzioni nelle regioni Emilia
Romagna, Lazio, Marche e Veneto, e negli enti locali del
loro territorio. Queste amministrazioni potranno procedere,
secondo i vincoli di legge e le disponibilità finanziarie,
alle assunzioni riferite agli anni 2015 e 2016, recuperare
le annualità antecedenti al 2015, assumere a tempo
determinato e dar corso alla mobilità. Sicuramente la
previsione fa sorgere immediatamente una serie di problemi
applicativi.
Le facoltà assunzionali, sia del biennio
2015/2016 sia anteriori al 2015 (i cosiddetti “resti”)
devono essere state incluse nel programma triennale del
fabbisogno di personale, come richiede dalla Corte dei
Conti? In caso di risposta affermativa, si doveva procedere
in allora o si può, oggi, rivedere la programmazione del
2015 per inserire resti e facoltà assunzionali non presenti?
E ancora, i resti utilizzabili si riferiscono al triennio
antecedente il 2015 (2012/2014 e quindi, cessazioni
2011/2013) oppure l’anno di riferimento è il 2016 ed il
triennio è il 2013/2015? Sono queste le prime domande che
sorgono spontanee.
La questione, dunque, non è finita: a fronte di un problema
che si risolve nascono altri mille dubbi. Una cosa è certa:
il ripristino delle ordinarie facoltà assunzionali permette
agli enti locali di poter utilizzare liberamente tutti gli
strumenti a disposizione: mobilità, scorrimento di
graduatorie, nuovi concorsi pubblici, eccetera. Ma, scelta
la via del concorso pubblico, non si può prescindere
dall’esperire le procedure di mobilità volontaria e
obbligatoria previste rispettivamente dagli articoli 30 e
34-bis del Dlgs 165/2001.
Infine attenzione al profilo
professionale: come detto, norme diverse sono previste se
vengono assunti dirigenti, maestre ed educatrici, agenti di
polizia locali o dipendenti con altre mansioni. Il panorama
rimane sufficientemente intricato (articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Valutazione, prorogati i componenti degli Oiv.
In attesa della piena operatività del nuovo regolamento
sulla misurazione e valutazione della performance delle
pubbliche amministrazioni, per i componenti degli Organismi
indipendenti di valutazione (Oiv) oggi in scadenza, si può
prorogare il mandato fino all'entrata in vigore del decreto
ministeriale con cui saranno definiti i requisiti per
l'iscrizione al nuovo elenco Oiv. In seconda battuta, è
altresì possibile procedere ad una nuova nomina, con le
modalità finora seguite, ma con una durata non superiore a
quella prevista dalla disciplina previgente.
E' quanto precisa il dipartimento della funzione pubblica,
con la
nota-circolare 14.07.2016 n. 37249 di prot. con la quale si fa chiarezza sulle
novità introdotte in materia dal dpr n. 105/2016, fornendo
un'interpretazione delle disposizioni contenute all'articolo
6, comma 5, di tale dpr, che regola la nomina degli Oiv.
Come
noto, con il regolamento sopra citato, pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 17 giugno scorso ed emanato in
attuazione dell'articolo 19, comma 10, del decreto legge
n. 90/2014, si è dato avvio al processo di riordino delle
funzioni in materia di misurazione e valutazione della
performance delle p.a.
L'articolo 6, in dettaglio, reca
nuove disposizioni in materia di organizzazione e
funzionamento degli Oiv, prevedendo l'istituzione di un
apposito elenco nazionale, tenuto dal Dipartimento della
funzione pubblica. Tuttavia, precisa la nota di palazzo
Vidoni, l'elenco degli Oiv non sarà immediatamente
operativo, in quanto occorrerà attendere (entro centoventi
giorni dall'entrata in vigore del citato dpr n. 105/2016,
ovvero il 30.10.2016) un apposito decreto del ministero
della semplificazione.
Decreto nel quale saranno messi nero
su bianco i requisiti di competenza, esperienza ed integrità
che devono possedere gli iscritti all'elenco nazionale degli Oiv. Fermo restando che le nuove disposizioni si intendono
applicate a partire dai rinnovi degli organismi successivi
all'entrata in vigore del predetto dm e che i componenti
degli organismi già nominati restino in carica fino alla
naturale scadenza del loro mandato.
Si pone, pertanto, il problema della disciplina dei
componenti Oiv in caso di scadenza nella fase transitoria
che precede l'emanazione del dm semplificazione. Sul punto,
palazzo Vidoni ha precisato, in risposta a numerosi quesiti
pervenuti dalle amministrazioni, che in caso di scadenza
dell'Oiv e, in attesa della piena operatività della nuova
disciplina, è demandato alla singola amministrazione la
corretta procedura da seguire.
In ogni caso, la stessa funzione pubblica suggerisce di
prorogare i componenti uscenti fino all'entrata in vigore
del citato decreto ministeriale, oppure di procedere alla
nomina dei nuovi componenti secondo le modalità sino ad oggi
eseguite, ma con una durata non superiore a quella prevista
dalla disciplina previgente
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2016). |
CORTE DEI CONTI |
PATRIMONIO:
Iniziative di partenariato pubblico-privato nei processi
di valorizzazione dei beni culturali (Corte dei Conti,
Sez. centrale di controllo sulla gestione delle
amministrazioni dello Stato,
deliberazione 04.08.2016 n. 8).
---------------
Si legga di interesse:
IL QUADRO NORMATIVO
Sommario: 1. La sponsorizzazione: definizione e
tipologie. - 2. Il contratto di sponsorizzazione nel d.lgs.
12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici). - 3. Il
contratto di sponsorizzazione nel d.lgs. 22.01.2004, n. 42
(codice dei beni culturali e del paesaggio). - 3.1. La
disciplina speciale dei contratti di sponsorizzazione di
lavori, servizi e forniture aventi ad oggetto beni
culturali. - 4. Le linee guida ministeriali (d.m.
19.12.2012). - 5. La circolare n. 28 del 17.06.2016. - 6. Il
trattamento fiscale. - 7. Gli aspetti finanziari. - 8. La
finanza di progetto (project financing). - 9. Osservazioni. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
In merito all’obbligo imposto dall’art. 1, comma 512 della
legge 28/12/2015, n. 208 (Legge di Stabilità 2016) di
provvedere agli approvvigionamenti di beni e servizi
informatici e di connettività esclusivamente attraverso
il mercato elettronico.
Gli enti locali risultano esonerati dal
far ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione solamente per gli acquisti di beni e
servizi di carattere generico e di limitato importo
(sotto la soglia dei 1.000 Euro) poiché, negli altri casi,
di acquisto dei medesimi beni di importo pari o superiore ai
1.000 Euro e fino al limite della soglia di rilievo
comunitario, sono tenuti “… a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri
mercati elettronici..ovvero al sistema telematico messo a
disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo
svolgimento delle relative procedure…”.
---------------
Per gli acquisti di beni e
servizi informatici e di connettività vige invece un
diverso regime, in quanto la recente normativa,
considerandoli una speciale categoria merceologica cui
vengono destinate specifiche disposizioni di legge, impone,
senza alcuna distinzione di valore, il ricorso alle
convenzioni Consip o dei soggetti aggregatori.
Invero, l’art. 1, comma 512, della legge n. 208 del
28.12.2015 è da considerarsi norma speciale rispetto al più
generico art. 1, comma 450, della legge n. 296 del
27.12.2006, come novellato dall’art. 1, comma 502, della
suddetta legge n. 208/2015, così che per l’acquisto di beni
e servizi informatici, anche di importo inferiore ai 1.000
Euro, è necessario che gli enti locali rispettino la
procedura prevista dal richiamato comma 512, ed il complesso
di norme dettate per il settore informatico dai commi
513-520 della Legge di stabilità 2016.
----------------
Il Sindaco del Comune di Narni (TR) ha inoltrato a
questa Sezione Regionale di Controllo una richiesta di
parere, per il tramite del Consiglio delle Autonomie
Locali dell’Umbria, relativa all’interpretazione della
normativa che impone agli enti locali di provvedere agli
approvvigionamenti di beni e servizi informatici e di
connettività di qualunque importo esclusivamente tramite i
soggetti individuati dall’art.1, comma 512, della legge
28.12.2015, n. 208 (Legge di Stabilità 2016).
Il Comune chiede in particolare se per i detti acquisti
possa, in alternativa, applicarsi la normativa che obbliga
le amministrazioni a fare ricorso al mercato elettronico
della pubblica amministrazione solamente per le forniture di
beni e servizi al di sopra della soglia dei 1.000 Euro,
introdotta dall’art. 1, comma 502, della medesima Legge di
Stabilità 2016.
...
Nel merito il Comune chiede di conoscere l’avviso della
Sezione relativamente all’interpretazione dei commi 502 e
512 dell’art. 1 della legge 28.12.2015 n. 208 (Legge di
Stabilità 2016), interrogandosi sulla possibilità di
acquistare la particolare categoria merceologica dei beni e
servizi informatici (comma 512) secondo le diverse
previsioni dettate per l’acquisto di generici beni e servizi
tout court (comma 502), per i quali ultimi gli enti
sono obbligati a fare ricorso al mercato elettronico della
pubblica amministrazione solamente per gli acquisti al di
sopra della soglia di 1.000 Euro.
In altri termini il Comune chiede se sia possibile
acquistare beni e servizi informatici, di valore inferiore
alla soglia dei 1.000 Euro, evitando il tramite di Consip
Spa e degli altri soggetti indicati dal richiamato comma
512.
In proposito occorre premettere che il citato art. 1, comma
502, della legge 28.12.2015, n. 208 (Legge di Stabilità
2016) ha modificato l'articolo 1, comma 450, della legge
27.12.2006, n. 296, come segue:
b) al primo periodo, dopo le parole: «per gli acquisti di
beni e servizi» sono inserite le seguenti: «di
importo pari o superiore a 1.000 euro e»;
c) al secondo periodo, dopo le parole: «per gli acquisti
di beni e servizi di importo» sono inserite le seguenti:
«pari o superiore a 1.000 euro e».".
Ne è derivato che l’art. 1, comma 450, appena detto, a
seguito della novella, risulta del seguente tenore: “450.
Le amministrazioni statali centrali e periferiche…..per gli
acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a
1.000 euro e al di sotto della soglia di rilievo
comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione di cui
all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto
del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del
presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,….
per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o
superiore a 1.000 euro e inferiore alla soglia di rilievo
comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri
mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo
328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla
centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle
relative procedure…”.
A sua volta, il comma 512, dell’art. 1 della citata Legge di
stabilità 2016 dispone: “512. Al fine di garantire
l'ottimizzazione e la razionalizzazione degli acquisti di
beni e servizi informatici e di connettività, fermi restando
gli obblighi di acquisizione centralizzata previsti per i
beni e servizi dalla normativa vigente, le amministrazioni
pubbliche e le società inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, provvedono
ai propri approvvigionamenti esclusivamente tramite Consip
SpA o i soggetti aggregatori, ivi comprese le centrali di
committenza regionali, per i beni e i servizi disponibili
presso gli stessi soggetti. Le regioni sono autorizzate ad
assumere personale strettamente necessario ad assicurare la
piena funzionalità dei soggetti aggregatori di cui
all'articolo 9 del decreto-legge 24.04.2014, n. 66,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n.
89, in deroga ai vincoli assunzionali previsti dalla
normativa vigente, nei limiti del finanziamento derivante
dal Fondo di cui al comma 9 del medesimo articolo 9 del
decreto-legge n. 66 del 2014.”.
Dal quadro normativo appena descritto emerge che
gli enti locali risultano esonerati dal far ricorso
al mercato elettronico della pubblica amministrazione
solamente per gli acquisti di beni e servizi di carattere
generico e di limitato importo (sotto la soglia dei 1.000
Euro) poiché, negli altri casi, di acquisto dei medesimi
beni di importo pari o superiore ai 1.000 Euro e fino al
limite della soglia di rilievo comunitario, sono tenuti “…
a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici..ovvero
al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale
regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative
procedure…”.
Per gli acquisti di beni e servizi
informatici e di connettività vige invece un diverso regime,
in quanto la recente normativa, considerandoli una speciale
categoria merceologica cui vengono destinate specifiche
disposizioni di legge, impone, senza alcuna distinzione di
valore, il ricorso alle convenzioni Consip o dei soggetti
aggregatori.
Ciò emerge dalla interpretazione letterale della norma (è
previsto l’approvvigionamento di tali beni “esclusivamente”
tramite i soggetti indicati dal legislatore, così escludendo
altre modalità di acquisto autonomo –comma 512), ma anche
dalla interpretazione sistematica dell’intero corpo
normativo dedicato al settore informatico (commi 513-520
dell’art. 1 della Legge di stabilità 2016).
Più in dettaglio si contempla la possibilità di
approvvigionamento al di fuori delle modalità previste dal
citato comma 512 solamente in alcuni casi (autorizzazione
motivata dell’organo di vertice amministrativo, solo per
beni non disponibili o idonei o nei casi di necessità ed
urgenza, con comunicazione all’Anac e all’Agid- comma 516).
Inoltre la mancata osservanza delle disposizioni dettate in
materia rileva ai fini della responsabilità disciplinare e
per danno erariale (comma 517). Per il settore sanitario
sono previsti criteri uniformi per gli acquisti informatici
(comma 520).
La specialità della normativa riferita al settore
informatico si evince anche dalle finalità dichiarate dal
legislatore (“…garantire l'ottimizzazione e la
razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi
informatici e di connettività…“) e dallo scopo (di
realizzare “...un risparmio di spesa annuale...”),
oltreché dagli incentivi previsti (“Le regioni sono
autorizzate ad assumere personale strettamente necessario ad
assicurare la piena funzionalità dei soggetti
aggregatori...in deroga ai vincoli assunzionali previsti
dalla normativa vigente...”).
Da tutto quanto sopra esposto deriva conclusivamente che
l’art. 1, comma 512, della legge n. 208 del
28.12.2015 è da considerarsi norma speciale rispetto al più
generico art. 1, comma 450, della legge n. 296 del
27.12.2006, come novellato dall’art. 1, comma 502, della
suddetta legge n. 208/2015, così che per l’acquisto di beni
e servizi informatici, anche di importo inferiore ai 1.000
Euro, è necessario che gli enti locali rispettino la
procedura prevista dal richiamato comma 512, ed il complesso
di norme dettate per il settore informatico dai commi
513-520 della Legge di stabilità 2016
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 28.04.2016 n. 52). |
NEWS |
VARI: Patente
guida. Punti finiti, revisione immediata.
Il conducente che esaurisce i punti della patente deve
richiedere tempestivamente alla motorizzazione di poter
sostenere l'esame di revisione della licenza di guida, con
tanto di rilascio di foglio rosa. Ma per chi non si presenta
poi alle prove scatterà la sospensione della patente oppure
la revoca per i più negligenti.
Lo hanno chiarito i Trasporti con circolare 22.07.2016 n. 16729
di prot., in vigore dal 03.11.2016.
Il 01.07.2016
sono entrati in vigore i nuovi programmi d'esame per gli
esami di teoria per la revisione delle patenti di guida e
della carta di qualificazione del conducente. Per sostenere
l'esame di revisione, specifica la nota, il candidato dovrà
presentare una domanda, redatta su un modello ad hoc, con
allegata una copia del provvedimento di revisione e il
certificato medico, se richiesto.
La richiesta ha validità
annuale, specifica il ministero. Alla scadenza l'interessato
dovrà presentare una nuova istanza se non ha ancora superato
entrambe le prove. La domanda dovrà essere presentata entro
30 giorni dal ricevimento del provvedimento di revisione
della licenza di guida, prosegue la circolare. Pena la
sospensione della patente di guida fino al superamento delle
prove.
Gli esami di revisione della licenza di guida si
svolgeranno in due giorni diversi. Prima quello teorico, con
revoca della patente in caso di mancato superamento. La
prova pratica, conseguente al superamento di quella teorica,
verrà invece disposta successivamente, previo rilascio del
foglio rosa per consentire al conducente di esercitarsi alla
guida con un istruttore a fianco. Se il candidato non
riuscirà a superare la prova pratica scatterà la revoca
della licenza e il conducente potrà eventualmente tentare di
conseguire nuovamente tutte le categorie, o solo alcune.
La
revisione della carta di qualificazione del conducente,
infine, scatterà all'esaurimento totale del punteggio
speciale a disposizione dei conducenti professionali. Se il
conducente risulta titolare sia della cqc trasporto cose che
persone scatterà il programma d'esame attinente alla materia
in cui il trasgressore ha commesso più violazioni
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2016). |
VARI: Polizza
ancora in auto per evitare la multa.
La polizia stradale non può sequestrare un veicolo per
mancata copertura assicurativa sulla base di una semplice
visura al portale dell'automobilista. Occorre sempre
approfondire l'accertamento richiedendo dati al proprietario
o alla compagnia assicurativa.
Lo ha evidenziato l'Ivass con la
circolare
01.06.2016 n. 111471 di prot. (Oggetto: Coperture
Assicurative R.c.a. - Dematerializzazione contrassegni e
documenti assicurativi - Accertamenti e sanzioni applicabili
ai sensi degli artt. 180,181, e 193 del C.d.S.).
La cessazione dell'obbligo di esposizione del
contrassegno assicurativo, entrata in vigore il 19.10.2015, ha avviato una serie di riflessioni operative tra le
forze dell'ordine che hanno inevitabili ricadute anche sui
comportamenti degli autisti.
Se da una parte l'utente
stradale ha il beneficio di non dover più esporre sul
parabrezza il contrassegno, dall'altro sono aumentati i
rischi di essere trovati in difetto e spesso per motivazioni
assolutamente indipendenti dalla volontà dell'automobilista.
Questo perché innanzitutto le banche dati che attestano la
regolarità della copertura assicurativa non sono ancora
aggiornate. Poi perché alcune compagnie consentono una
estensione della copertura assicurativa per periodi di tempo
superiori alle due settimane di rito.
Per cercare di
rimettere un po' di ordine nel settore, l'organo di
coordinamento dei servizi di polizia stradale ha diramato
alcune istruzioni operative che evidenziano la necessità di
avere sempre al seguito il certificato di assicurazione da
esibire alla polizia. Ma è anche consigliabile portarsi
dietro l'attestazione di avvenuto pagamento del premio e
copia del contratto. Perché rispetto alle indicazioni del ced i documenti risulteranno sempre prevalenti.
Per ribadire
queste indicazioni l'Istituto per la vigilanza sulle
assicurazioni ha diramato la circolare in commento. Non è
possibile effettuare il sequestro di un veicolo per mancata
copertura assicurativa verificata solo on-line. Perché la
banca dati rc auto disponibile sul portale
dell'automobilista non è aggiornatissima.
Prima di
effettuare una multa e un sequestro occorre richiedere
all'automobilista il certificato di assicurazione o altri
documenti, specifica l'Ivass. E in caso di mancata
corrispondenza del dato cartaceo con il ced occorrerà
procedere ad ulteriori approfondimenti
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Taglia-tempi,
decide tutto Renzi. Discrezionalità ampia sui procedimenti
da velocizzare. Le novità del decreto approvato dal cdm.
Poteri sostitutivi se i termini non vengono rispettati.
Investimenti, strategici e non, nelle mani del premier.
Il
dpr per la semplificazione e l'accelerazione dei
procedimenti amministrativi, approvato in via definitiva il
28.07.2016 dal governo, affida alla discrezionalità
della presidenza del consiglio dei ministri il potere di
adottare qualsiasi atto o nulla osta per la realizzazione di
insediamenti produttivi e infrastrutture.
L'accelerazione delle procedure si realizza attraverso una
riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti
amministrativi, propedeutici alla realizzazione dei
progetti, ma anche attraverso l'avocazione nelle mani del
capo del governo dell'adozione di qualsiasi atto necessario
(se i tempi non vengono rispettati).
Le norme individuano il potere sostitutivo in capo al
presidente del consiglio dei ministri quale espressione di
una discrezionalità pura e non tecnica. Ma vediamo di
esaminare i punti nodali del decreto.
Corsia preferenziale
La corsia preferenziale riguarda tutti i procedimenti
amministrativi riguardanti rilevanti insediamenti
produttivi, opere di rilevante impatto sul territorio o
l'avvio di attività imprenditoriali suscettibili di avere
positivi effetti sull'economia o sull'occupazione.
Potrà trattarsi di uno stabilimento, di una bretella
stradale o di un'impresa ecc.
E magari tutte queste iniziative hanno bisogno di una
autorizzazione o di una licenza, di un permesso o di un
nulla osta, magari ambientale, sanitario o di sicurezza.
Si noti, il catalogo delle opere/attività, potenzialmente
beneficiarie della corsia preferenziale, è molto ampio: è
sufficiente una mera «suscettibilità» di positivi effetti
sull'economia a giustificare le deroghe alle regole
ordinarie.
Così è, anche se il decreto prevede la definizione di
criteri della selezione dei progetti: rimane il fatto che la
discrezionalità è ampia.
Individuazione interventi
I canali sono due. Il primo riguarda le opere descritte
negli atti di programmazione delle pubbliche amministrazione
e che rischiano di rimanere lettera morta.
Il secondo canale viaggia in parallelo e fa scattare le
procedure sprint per nuovi progetti (mai inseriti in atti
programmatori): qui basta la segnalazione al presidente del
consiglio.
Dopo avere raccolto tutte le nomination, con decreto del
capo del governo, si selezionano gli interventi che
effettivamente fruiranno del percorso agevolato.
Il calendario
Entro fine gennaio di ogni anno ciascun ente seleziona gli
interventi da candidare alla riduzione dei termini.
Entro fine febbraio la presidenza del consiglio dei ministri
individua i progetti ulteriori. Entro il successivo 31 marzo
sono individuati i singoli progetti collocati ai nastri di
partenza.
Countdown
Per gli interventi prescelti, il bonus (giuridico) si misura
in termini di tempo e si chiama riduzione dei termini dei
procedimenti. Fino al 50% rispetto ai termini ordinari per
la localizzazione, progettazione e realizzazione delle opere
e degli insediamenti e l'avvio delle attività. La p.a.,
dunque, deve correre.
Potere sostitutivo
E se questo non basta, qualunque amministrazione potrà
essere sostituita, dall'alto, dal presidente del consiglio
(anche se formalmente previa deliberazione del governo).
Il premier, se vuole, potrà delegare la firma di
autorizzazione, nulla osta e altri atti e prima di avocare
le funzioni deve mandare una diffida all'amministrazione
lumaca.
Se l'intervento interessa un territorio locale, di regola
(ma non c'è un obbligo) il capo del governo delegherà il
presidente della regione o il sindaco.
Inoltre il premier, accentratore della competenza, avrà a
disposizione il personale pubblico di alta professionalità,
chiamato a supportare il capo del governo nei procedimenti
amministrativi avocati.
Le disposizioni relative alla riduzione dei termini dei
procedimenti ed al potere sostitutivo del presidente del
consiglio dei ministri possono applicarsi sia rispetto a
tutti i procedimenti e gli atti necessari per la
realizzazione dell'intervento, sia rispetto a singoli
procedimenti e atti a esso preordinati
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2016). |
SICUREZZA LAVORO: Più
sicurezza per chi lavora con campi elettromagnetici.
Più sicurezza per chi opera a stretto contatto con campi
elettromagnetici, ad esempio nel settore sanitario o
militare.
Queste le sostanziali novità contenute nel
decreto
legislativo di recepimento della direttiva 2013/35/Ue
approvato ieri, in via definitiva, dal governo. Disciplina
che andrà a modificare il testo unico in materia di
sicurezza, ovvero il dlgs 81/2008, al fine di fornire le
prescrizioni minime di sicurezza e di salute.
Nessuna
incidenza invece per le comuni attività informatiche. La
relazione tecnica del decreto, infatti, al fine di escludere
maggiori oneri per la p.a., rileva che le comuni attività
non comportano rischi di esposizione. Ciò in quanto le
attrezzature elettriche ed elettroniche maggiormente
utilizzate nel lavoro d'ufficio quali pc, stampanti,
attrezzature informatiche, centri di calcolo, sistemi wi-fi,
metal detector, lettori magnetici, ecc., risultano
automaticamente conformi ai requisiti di protezione della
direttiva 2013/35/Ue sulla base delle norme del mercato
interno europeo e della marcatura Ce, indipendentemente dal
numero di attrezzature presenti nell'ambiente di lavoro.
Esposizioni potenzialmente rilevanti sotto il profilo
protezionistico sono invece possibili in attività specifiche
del settore sanitario, in particolare con riferimento agli
operatori addetti ad attrezzature di risonanza magnetica (Rm),
a macchine per diatermia (per esempio, radarterapia e
marconiterapia), o agli operatori che eseguono sul paziente
la stimolazione magnetica transcranica. Il nuovo decreto
potrà riguardare anche, per le esposizioni potenzialmente
rilevanti, gli addetti all'installazione e manutenzione di
sistemi radianti di potenza per le telecomunicazioni
(sistemi Vhf, ponti radio, ecc.).
Per quanto riguarda il
personale che lavora presso impianti militari operativi o
che partecipa ad attività militari, peraltro, il governo ha
precisato che, fermo restando le modifiche al dlgs 81/2008,
un sistema di protezione equivalente a quanto prevede la
direttiva Ue è costituito dalle particolari norme di tutela
tecnico-militare per la sicurezza e la salute del personale,
all'interno del dpr 90/2010, ovvero il T.u. in materia di
ordinamento militare
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2016). |
APPALTI: Appalti,
vale il contratto leader. Per i lavoratori conta dove si
svolgono le prestazioni. I
chiarimenti del Minlavoro. Via alle verifiche in relazione
al personale occupato.
Ai lavoratori impiegati in appalti pubblici si applica il
contratto collettivo leader in relazione al settore e alla
zona in cui si svolgono le prestazioni, ossia il contratto
nazionale e territoriale stipulato da sindacati e
associazioni di categorie comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale.
Lo precisa, tra l'altro, il Ministero del lavoro nella
nota 26.07.2016 n. 14775 di prot., con cui dà il via libera alla verifica
del rispetto dei contratti collettivi in relazione al
personale occupato nell'ambito di appalti pubblici.
Appalti sotto controllo.
La necessità dei controlli, spiega il ministero, è prevista
da diverse norme. Innanzitutto perché il mancato rispetto
dei contratti comporta (all'impresa) l'impossibilità di
fruire di qualsiasi beneficio normativo e contributivo,
compreso l'esonero contributivo (legge Stabilità 2015) e lo
sgravio per le nuove assunzioni (legge Stabilità 2016).
E
poi perché consente di accertare il regolare versamento dei
contributi obbligatori, in quanto individua l'imponibile (i
contributi, infatti, vanno pagati nell'importo determinato
sulle retribuzioni dei contratti collettivi), anche ai fini
della responsabilità solidale.
Quale contratto.
Il ministero spiega che il dlgs n. 50/2016 ha stabilito
inequivocabilmente l'applicazione del «contratto leader in
relazione al settore e alla zona in cui si eseguono le
prestazioni». Si tratta, aggiunge il ministero, della
conferma dell'indirizzo già seguito precedentemente e
confermato anche dall'Anac.
L'importanza del contratto
leader, peraltro, deriva anche dal ruolo che svolge
nell'iter di approvazione dell'appalto: costituisce,
infatti, il parametro di riferimento per la determinazione
del costo del lavoro sia nella fase progettuale dell'appalto
per determinarne i costi (art. 23, comma 16, del dlgs n.
50/2016), e sia nella fase di aggiudicazione dell'appalto
per l'individuazione delle c.d. offerte anomale (art. 97 del
dlgs n. 50/2016).
In particolare, è considerata anormalmente
bassa con conseguente esclusione del partecipante allargata,
l'offerta che contempli un costo del personale inferiore ai
minimi salariali retributivi indicati in apposite tabelle
predisposte annualmente dallo stesso ministero del lavoro.
Cooperative.
Nel settore cooperativo, spiega ancora la circolare, opera
una particolare disposizione per cui, negli appalti, «in
presenza di una pluralità di contratti collettivi della
medesima categoria, le società cooperative che svolgono
attività ricomprese nell'ambito di applicazione di quei
contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori i
trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli
dettati dai contratti collettivi stipulati dalle
organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più
rappresentative a livello nazionale nella categoria» (art.
7, comma 4, del dl n. 248/2007 convertito dalla legge n.
31/2008). Tale disposizione opera fino alla completa
attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di
società cooperativa.
Responsabilità solidale.
Infine, il contratto leader ha rilevanza anche ai fini della
responsabilità solidale in relazione agli obblighi
contributivi e retributivi non correttamente assolti da
parte dell'appaltatore o del subappaltatore. La nuova
disciplina (art. 105 del dlgs n. 50/2016), infatti,
stabilisce due tipologie di responsabilità: la prima, in via
esclusiva del contraente principale nei confronti della
stazione appaltante; la seconda, in solido
dell'aggiudicatario con il subappaltatore.
Tale
responsabilità, conclude il ministero, va applicata alla
luce della disposizione che individua (appunto) il contratto
leader quale parametro di riferimento per la definizione
degli obblighi di natura contributiva e retributiva oggetto
della responsabilità solidale
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Asl,
politica fuori dalle nomine. Procedimenti rilevanti, tempi
dimezzati. Forestali addio. Dal cdm via libera definitivo a
un poker di decreti attuativi della riforma Madia.
Nomina e revoca dei vertici delle Asl sulla base di criteri
meritocratici e non politici. Anche se le regioni
continueranno ad avere voce in capitolo nella scelta dei
direttori generali. Corsia preferenziale per i procedimenti
amministrativi riguardanti rilevanti insediamenti
produttivi, opere di interesse generale o avvio di attività
suscettibili di avere ricadute positive sull'economia.
Per
tutti questi progetti, di rilevante impatto sul territorio,
palazzo Chigi potrà ridurre i tempi della burocrazia fino al
50%. Le forze di polizia si riducono da 5 a 4, con
l'assorbimento dei forestali all'interno dei carabinieri. E
le autorità portuali vengono riorganizzate per renderle più
competitive e «agevolare la crescita dei traffici delle
merci e delle persone». Dai 57 porti di interesse nazionale
si passa a 15 autorità portuali con cda snelli (tre o cinque
componenti).
Il consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva
altri quattro tasselli attuativi della riforma del ministro
Marianna Madia. È invece slittato al prossimo cdm il via
libera finale al Testo unico sulle partecipate.
Nomina vertici delle Asl.
Che l'obiettivo del dlgs sia
ambizioso, lo si capisce dall'incipit della relazione
illustrativa: «Slegare la nomina dei direttori generali
dalla fiducia politica per agganciarla a una valutazione di
profilo tecnico finalizzata alla selezione delle
professionalità maggiormente competenti». Per realizzare
questo scopo viene creato un elenco nazionale, tenuto dal
ministero della salute, in cui saranno inseriti i soggetti
che per formazione accademica e esperienza professionale
riterranno di avere i numeri giusti per entrare a farne
parte, partecipando all'apposito avviso pubblico di
selezione per titoli che verrà pubblicato in G.U. L'elenco
verrà aggiornato ogni due anni e chi vi ha trovato posto vi
resterà iscritto per quattro anni.
Da questo elenco le regioni dovranno scegliere i papabili a
ricoprire il ruolo di direttore generale. Tuttavia, la
decisione finale spetterà a una commissione in cui
continuerà a sedere un esperto designato dalla regione. Con
il rischio, paventato anche dal Consiglio di stato, «di
riproporre logiche politiche in grado di influenzare la
scelta». Il richiamo di palazzo Spada è però rimasto
inascoltato nel testo del decreto approvato dal cdm. L'unica
modifica sostanziale è rappresentata dall'ampliamento della
rosa all'interno della quale sarà scelto il candidato da
proporre al governatore regionale per la nomina. Non sarà
più una terna, ma una rosa di nomi non inferiore a tre e non
superiore a cinque.
Una volta scelto dal presidente regionale, il direttore
generale delle Asl resterà in carica per un periodo compreso
tra i tre e i cinque anni. Ma i suoi risultati saranno
monitorati a distanza di 24 mesi dalla nomina. In caso di
mancato raggiungimento degli obiettivi o in presenza di una
situazione di grave disavanzo, o ancora, in caso di
manifesta violazione di legge o regolamenti o degli obblighi
di trasparenza, la regione dichiarerà l'immediata decadenza
dall'incarico con risoluzione del contratto. In caso di
valutazione positiva, il rapporto proseguirà.
Procedimenti amministrativi.
I principali provvedimenti amministrativi potranno contare
su una corsia preferenziale che porterà fino al dimezzamento
dei tempi. È quello che il premier Matteo Renzi, in
conferenza stampa ha orgogliosamente ribattezzato «projet du
président», visto che l'istituto è stato mutuato
dall'esperienza francese.
La procedura, disegnata dal dpr approvato ieri, prevede che
entro il 31 gennaio di ogni anno ciascun ente territoriale
possa individuare un elenco di progetti di rilevante impatto
sul territorio, tra quelli già inseriti nel programma
triennale dei lavori pubblici, e chiedere a palazzo Chigi di
applicare ad essi la riduzione dei termini fino al 50%.
Entro il 28 febbraio la presidenza del consiglio potrà
individuare anche ulteriori progetti da velocizzare. Entro
il 31 marzo con dpcm saranno individuati i progetti, tra
quelli proposti, che beneficeranno della accelerazione dei
termini
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2016). |
ENTI LOCALI: Il parlamento è con Anpci.
Nasce l'intergruppo Amici dei piccoli comuni.
Il ministro Costa promette: nessun obbligo di fusione per i
mini-enti.
Deputati e senatori si schierano con l'Anpci. E stringono
un'alleanza trasversale e bipartisan per vigilare in
parlamento su norme ed emendamenti in modo che non ledano
l'autonomia dei piccoli comuni.
È questa la
ratio che ha
portato il 19 luglio scorso a Roma alla costituzione
dell'Intergruppo parlamentare dei piccoli comuni a cui hanno
aderito per il momento una quarantina tra deputati e
senatori di tutte le forze politiche.
L'iniziativa è stata presentata nel corso dell'incontro
promosso dall'Anpci il cui titolo («Piccoli Comuni problema
o risorsa per l'Italia?») spiega bene il grande equivoco che
si sta vivendo in questo momento in Italia sul ruolo dei
mini-enti.
Sempre più essenziale per la vita economica e sociale del
paese, per la salvaguardia del territorio, per la
prevenzione del dissesto idrogeologico, per la tutela del
patrimonio di tipicità su cui si fonda tutto il made in
Italy, eppure continuamente al centro di attacchi da parte
della politica nazionale, ormai convinta che l'unica strada
di sopravvivenza per i piccoli comuni sia quella, spesso
senza ritorno, dell'associazionismo forzoso attraverso
unioni e fusioni.
«Non accettiamo lo spreco di denaro pubblico per unioni e
fusioni, ma vogliamo libertà di associazionismo e libertà di
costituire convenzioni, con la possibilità da parte dei
sindaci dei piccoli comuni di valutare caso per caso in
funzione delle specificità del territorio e delle persone
che vi vivono le scelte più opportune per gestire al meglio
i servizi in applicazione dei costi standard», ha osservato
la presidente dell'Anpci, Franca Biglio nella sua relazione
introduttiva davanti a una folta platea di sindaci,
amministratori, segretari comunali, dirigenti locali e
operatori dei media.
Alla platea di sindaci che ha gremito la Sala della Regina
di Montecitorio, deputati e senatori hanno spiegato le
ragioni che li hanno portati ad abbracciare la causa dell'Anpci.
Fabrizio Di Stefano, deputato di Forza Italia e promotore
della nascita dell'Intergruppo, ha rimarcato che deputati e
senatori si schierano con l'Anpci perché i piccoli comuni
sono una grande risorsa per la vita economica e sociale del
paese. E soprattutto hanno bilanci virtuosi, cosa che spesso
non può dirsi per altri settori dello stato.
Il senatore Paolo Arrigoni (Lega) ha rivendicato di «essersi
impegnato a dire, in tutte le fasi della legislazione, no
alle fusioni anche contro l'ipotesi di indirizzi diversi del
suo partito». Mentre Patrizia Terzoni (M5S) ha evidenziato
l'importanza della proposta di legge Realacci-Terzoni per la
salvaguardia dei piccoli comuni, all'esame del parlamento,
soprattutto nella parte in cui assegna maggiori risorse
finanziarie da parte dello stato ai mini-enti per
scongiurare il fenomeno dello spopolamento, la morte di
intere zone del Paese, la cancellazione dei servizi, il
peggioramento della qualità della vita.
È poi intervenuto il parlamentare cuneese Mino Taricco (Pd)
che ha ribadito la sua ferma contrarietà a ogni forma di
fusione forzata. Tuttavia, secondo Taricco, è indispensabile
interrogarsi su come, mantenendo le identità dei piccoli
comuni, si possano ottenere due finalità fondamentali: il
contenimento della spesa e la garanzia della qualità dei
servizi ai cittadini.
Sono anche intervenuti il presidente nazionale di
Federanziani, Roberto Messina, e il vicepresidente del
Sindacato unitario farmacie rurali, Luigi Sauro. Il primo ha
invitato a raccogliere le firme per un'eventuale proposta di
iniziativa popolare che miri a chiedere l'abrogazione di
tutte quelle norme che non consentono più ai piccoli comuni
di esercitare il loro importante ruolo in qualità di
istituzione più vicina al cittadino. Tra queste la legge
Delrio (n. 56/2014) che prevede unioni obbligatorie legate a
una soglia di abitanti tale da renderla di impossibile
applicazione.
Luigi Sauro ha invece sottolineato che tra i servizi minimi
alla persona va annoverato anche quello che riguarda
l'assistenza territoriale H24 anziché H16, nonché
l'assistenza farmaceutica nei piccoli comuni, oggi serviti
da 6 mila farmacie che possono lavorare soltanto se tutelate
dal governo centrale e, soprattutto, finanziate dalle
regioni a cui spetta erogare sussidi alle farmacie rurali in
modo da integrare il loro reddito che altrimenti sarebbe da
fallimento.
Dopo gli interventi dei sindaci e dei segretari comunali, è
toccato al ministro degli affari regionali, Enrico Costa,
tirare le fila della discussione. Il ministro ha preso un
impegno formale: «non possiamo accettare nessuna
legislazione né statale né regionale che obblighi i piccoli
comuni alle fusioni. Le forme associative debbono essere
libere e saranno i piccoli comuni, con i sindaci in testa, a
trovare la convenienza delle aree omogenee e, all'interno di
queste, vedere che cosa mettere insieme, anche poche
funzioni, distinguendo tra funzioni e servizi».
Costa ha
anche parlato del braccio di ferro in corso tra ministero e
Poste Italiane per la chiusura di 441 uffici postali e la
distribuzione della corrispondenza a giorni alterni nei
piccoli comuni. Della questione si occuperà presto la Corte
di giustizia Ue dopo la richiesta di parere sollevata dal
Tar Lazio. Il ministro, infine, si è impegnato a far sì che
le regioni mettano a disposizione dei comuni più piccoli
spazi finanziari inutilizzati (si veda ItaliaOggi del
20/07/2016).
I parlamentari amici dei piccoli comuni hanno suggellato
l'appartenenza all'Intergruppo apponendo al risvolto della
giacca la spilla con il logo dell'Anpci, offerta dal
presidente di Confindustria Cuneo, Franco Biraghi. La
presidente Biglio ha chiuso i lavori ringraziando
l'onorevole Di Stefano per la costituzione dell'Intergruppo
e il ministro Costa per gli impegni assunti, oltre che per
aver consentito che l'Anpci tornasse ad assistere ai lavori
della Conferenza unificata anche solo in qualità di uditori
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2016). |
VARI: Leasing, perde l’immobile chi non paga sei rate.
Ddl concorrenza. Delega al Governo su Uber-Ncc.
Perde
l’immobile in leasing chi non paga almeno sei canoni mensili
o due canoni trimestrali.
Approvato in commissione Industria
al Senato l’emendamento al disegno di legge concorrenza (Atto
Senato n. 2085) che
definisce il «grave inadempimento» che, con l’eccezione
della prima casa, fa tornare gli immobili alla base quindi
alla banca o alla finanziaria.
L’emendamento dei relatori -Luigi Marino di Ap e Salvatore
Tomaselli del Pd- fa riferimento al «mancato pagamento di
almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non
consecutivi o un importo equivalente per i leasing
immobiliari, ovvero quattro canoni mensili anche non
consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti
di locazione finanziaria».
Per il leasing sulla prima casa,
invece, continuano a valere le disposizioni previste dalla
legge di stabilità 2016, che nulla prevedono circa l’entità
dell’inadempimento che legittima la risoluzione demandando
evidentemente alle singole pattuizioni.
L’emendamento approvato ieri specifica poi che, in caso di
inadempimento, la banca o la finanziaria può vendere o
riallocare l’immobile ma dovrà farlo «sulla base di
pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti
specializzati». O, quando non è possibile far riferimento a
questi valori, sulla base di una stima effettuata da un
perito scelto dalle parti di comune accordo nei venti giorni
successivi alla risoluzione del contratto o, in caso di
mancato accordo, scelto dal concedente in una rosa di almeno
tre operatori comunicati alla controparte.
Al cliente deve essere corrisposto quanto ricavato dalla
vendita dedotti i canoni scaduti e non pagati, i canoni a
scadere, solo in linea capitale, il prezzo pattuito per
l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, le spese
anticipate per il recupero del bene. Resta il diritto di
credito nei confronti dell’utilizzatore «quando il valore
realizzato con la vendita o altra collocazione del bene»
risulta comunque inferiore all’ammontare dell’importo dovuto
dal cliente.
Insieme alla norma sul leasing, la commissione Industria
ieri ha approvato l’emendamento che prevede una delega al
governo per disciplinare entro un anno mediante decreto
legislativo il settore degli «autoservizi pubblici non di
linea», come taxi, noleggio con conducente ma anche nuove
piattaforme basate sulle «app» come Uber. Via libera anche
alla soppressione, dal 01.01.2017, della Cassa
conguaglio Gpl le cui funzioni passano all’Organismo
centrale di stoccaggio italiano.
Ancora irrisolti invece i nodi relativi alle modifiche sugli
sconti Rc auto e alla delega sull’obbligo di installare
scatole nere. Su questi temi non sono ancora arrivati i
pareri della commissione Bilancio e a questo punto l’esame
della commissione Industria riprenderà direttamente lunedì
prossimo (articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Professionisti, spazio nelle p.a..
Consorzi tra autonomi per concorrere negli appalti.
Il ddl partite Iva approvato in commissione. Più welfare
dalle Casse per chi è in crisi.
Nuove funzioni ai liberi professionisti (per ridurre il
contenzioso giudiziario, ma pure per certificare
«l'adeguatezza dei fabbricati alle norme di sicurezza ed
energetiche»), finora appannaggio della pubblica
amministrazione, nonché la chance di riunirsi in consorzi
per ottenere appalti e incarichi privati. E un salto di
qualità in termini assistenziali per le Casse previdenziali
private, che potranno ampliare le proprie tutele
(finanziarie e sociali) erogate agli iscritti, qualora si
ritrovassero in particolari condizioni di difficoltà.
A
prevedere queste novità il disegno di legge sul lavoro
autonomo e agile (Atto
Senato n. 2233), che è stato approvato ieri dalla
commissione lavoro del senato; il testo, che estende
protezioni e inserisce agevolazioni e semplificazioni
normative a beneficio dei rappresentanti delle varie
categorie professionali, secondo fonti parlamentari, pur
essendo pronto per l'esame dell'aula, non riuscirà ad
approdarvi per la votazione che dopo la pausa estiva, a
settembre.
In quello che è stato definito il secondo
tassello del «Jobs act», rivolto alla componente non
subordinata del mercato occupazionale e produttivo, sono
state inserite, durante il passaggio nell'organismo di
palazzo Madama, misure di concreto «sostegno», fra cui, come
ha sottolineato il relatore Maurizio Sacconi (Ap), quella
che valorizza il «principio di sussidiarietà» e il
«carattere di terzietà» degli autonomi, grazie alla delega
al governo che farà sì che, entro 12 mesi dall'approvazione
della disciplina, debbano essere individuate «funzioni delle
pubbliche amministrazioni che le professioni ordinistiche
potranno svolgere con maggiore celerità»; nel dettaglio, fra
i compiti che potranno essere devoluti quelli «finalizzati
alla deflazione del contenzioso giudiziario» e per la
«certificazione dell'adeguatezza dei fabbricati alle norme
di sicurezza ed energetiche, anche attraverso l'istituzione
del fascicolo del fabbricato».
Nel contempo, per rendere più «soft» gli adempimenti in
materia di sicurezza sul lavoro (facilitando così
soprattutto chi pratica la professione da solo, in una
struttura di ristrette dimensioni), è stato disposto che i
rischi per la salute e sicurezza negli studi «sono da
equiparare a quelli nelle abitazioni»; pertanto, si andrà
verso una semplificazione degli obblighi «meramente
formali», anche attraverso «forme di unificazione
documentale».
A giudizio di Sacconi è di rilievo pure la norma sulle Casse
previdenziali, che le autorizza (con il consenso dei loro
organi di vigilanza) a esercitare «altre prestazioni
sociali, finanziate da un'apposita contribuzione
facoltativa», rivolte agli iscritti che hanno subito «una
significativa riduzione del reddito professionale per
ragioni non dipendenti dalla propria volontà, o che siano
stati colpiti da gravi patologie»; la galassia pensionistica
dei professionisti, aveva, comunque, voluto precisare il
presidente dell'XI commissione, «già svolge queste
funzioni», tuttavia occorre andare verso un «welfare della
persona» e che sia «sempre più modulare, nel tempo, per quel
che attiene alle prestazioni» assistenziali (si veda anche
ItaliaOggi del 15/06/2016).
Nel disegno di legge, poi, sul
fronte delle tutele è stato stabilito che «la gravidanza, la
malattia e l'infortunio dei lavoratori autonomi che prestano
la loro attività in via continuativa» per il cliente «non
comportano l'estinzione del rapporto di lavoro», la cui
esecuzione, su richiesta di chi svolge l'incarico, «rimane
sospesa, senza diritto al corrispettivo, per un periodo non
superiore a 150 giorni per anno solare, fatto salvo il venir
meno dell'interesse del committente».
Inoltre, per
«consentire la partecipazione ai bandi e concorrere
all'assegnazione di incarichi e appalti privati» viene
riconosciuta la possibilità agli autonomi di «costituire
reti di esercenti la professione» e di partecipare alle reti
di imprese (le cosiddette «reti miste», disciplinate dalla
legge 33/2009), oltre a dare vita a consorzi stabili e
associazioni temporanee di professionisti.
Per Marina
Calderone, presidente Cup, «ci sono diversi motivi di
soddisfazione: il pieno coinvolgimento degli organismi di
rappresentanza, la piena previsione della sussidiarietà
quale elemento caratterizzante il rapporto tra ordini e
p.a., la possibilità di avvio delle azioni di welfare
professionale, che possono risultare di grande ausilio in
momenti di difficoltà della vita di ogni professionista»
(articolo ItaliaOggi del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Sei rate non pagate, leasing ko.
Il concedente può procedere alla vendita del bene.
Lo prevede un emendamento approvato al ddl concorrenza. Uber,
delega al governo.
Perde il bene chi non paga sei rate del leasing.
«Costituisce grave inadempimento dell'utilizzatore il
mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni
trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente
per i leasing immobiliari, ovvero quattro canoni mensili
anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri
contratti di locazione finanziaria».
È quanto prevede un
emendamento dei relatori al ddl concorrenza (Atto
Senato n. 2085) approvato ieri
dalla commissione industria del senato.
In caso di
risoluzione del contratto per l'inadempimento
dell'utilizzatore «il concedente procede alla vendita o
ricollocazione del bene sulla base dei valori risultanti da
pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti
specializzati» e «quando non è possibile far riferimento ai
predetti valori, procede alla vendita sulla base di una
stima effettuata da un perito scelto dalle parti di comune
accordo nei venti giorni successivi alla risoluzione del
contratto o, in caso di mancato accordo nel predetto
termine, da un perito indipendente scelto dal concedente in
una rosa di almeno tre operatori esperti, previamente
comunicati all'utilizzatore, che può esprimere la sua
preferenza vincolante ai fini della nomina entro dieci
giorni dal ricevimento della predetta comunicazione».
Il
perito, precisa la disposizione, deve essere «indipendente
quando non è legato al concedente da rapporti di natura
personale o di lavoro tali da compromettere l'indipendenza
di giudizio. Nella procedura di vendita o ricollocazione il
concedente si attiene a criteri di celerità, trasparenza e
pubblicità adottando modalità tali da consentire
l'individuazione del migliore offerente possibile con
obbligo di informazione dell'utilizzatore».
Queste
disposizioni non si applicano al nuovo Leasing prima casa,
che mantiene le sue specifiche garanzie del cliente fissate
per legge che, fra l'altro, prevedono la sospensione del
pagamento dei canoni fino a 12 mesi, su richiesta
dell'utilizzatore, in caso di perdita del lavoro anche non
subordinato.
«La locazione finanziaria è uno degli strumenti
che sta concretamente contribuendo alla ripartenza
dell'economia, sui quali il governo ha riposto molte
aspettative come dimostra la recente introduzione del
Leasing prima casa», commenta Corrado Piazzalunga,
presidente di Assilea, Associazione italiana del leasing,
«ora il quadro si completa con regole certe e strumenti di
tutela del cliente che renderanno la locazione finanziaria
ancora più competitiva».
La norma proposta definisce
chiaramente la «locazione finanziaria» come il contratto con
il quale la banca o l'intermediario finanziario iscritto
nell'albo si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene
su scelta e secondo le indicazioni dell'utilizzatore, che ne
assume tutti i rischi, anche di perimetro, e lo fa mettere a
disposizione per un dato tempo verso un determinato
corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di
costruzione e della durata del contratto.
Alla scadenza del contratto l'utilizzatore ha diritto di
acquistare la proprietà del bene a un prezzo prestabilito
ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l'obbligo
di restituirlo
(articolo ItaliaOggi del 28.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Scia con controlli neutri.
Non vanno interrotte le attività del cittadino.
In vigore da oggi dlgs su segnalazione certificata e
conferenza servizi.
I controlli sulla Scia non sospendono l'attività: la
pubblica amministrazione deve indicare a cittadino e impresa
come regolarizzare, ma senza smettere di lavorare.
È quanto prevede il decreto legislativo n. 126/2016
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 luglio e in
vigore da oggi, recante norme in materia di segnalazione
certificata di inizio attività (Scia).
Il decreto, attuativo della legge delega 124/2015, prevede
che si potrà presentare presso un unico ufficio, anche in
via telematica, un unico modulo valido in tutto il
territorio italiano. I moduli unificati devono prevedere la
possibilità del privato di indicare l'eventuale domicilio
digitale per le comunicazioni con l'amministrazione. L'ente
competente allo specifico procedimento deve rendere la vita
facile a cittadini e imprese pubblicando sul proprio sito
istituzionale il modulo unico.
Sul sito si devono indicare
tutti i documenti e le dichiarazioni che servono per il
procedimento. Il decreto ripete una regola, già presente
nell'ordinamento amministrativo, per cui non si possono
chiedere al cittadino documenti ulteriori rispetto a quelli
previsti.
In dettaglio la p.a. può chiedere all'interessato
informazioni o documenti solo in caso di mancata
corrispondenza del contenuto dell'istanza, segnalazione o
comunicazione e dei relativi allegati a quanto indicato sul
sito.
È vietata ogni richiesta di informazioni o documenti
ulteriori e anche di documenti in possesso di una pubblica
amministrazione Si deve creare, poi, unico ufficio a cui
rivolgersi, che avrà il compito di interagire con tutti gli
altri uffici e amministrazioni interessate. La richiesta di
documenti ulteriori è considerata inadempienza del
funzionario pubblico, sanzionabile sotto il profilo
disciplinare.
Il decreto prevede altre garanzie per il cittadino e
l'impresa. Quando presentano istanze, segnalazioni o
comunicazioni hanno diritto a una ricevuta che costituisce
comunicazione di avvio del procedimento. La ricevuta deve
indicare i termini entro i quali l'amministrazione è tenuta
a rispondere o entro i quali il silenzio
dell'amministrazione equivale ad accoglimento dell'istanza.
Nel corso dei controlli, a seguito di presentazione della
Scia, la p.a. non può di regola sospendere l'attività
cominciata: il provvedimento di sospensione è limitato ai
soli casi di attestazioni non veritiere o di coinvolgimento
di interessi sensibili (come ambiente, paesaggio). Inoltre
nel caso di Scia unica la possibilità di iniziare subito
l'attività è circoscritta ai casi in cui non siano
presupposte autorizzazioni o altri titoli espressi. Infine
grazie a una disposizione transitoria regioni ed enti locali
hanno tempo fino al 01.01.2017 per adeguarsi.
CONFERENZA
DEI SERVIZI
Entra in vigore, oggi 28.07.2016, anche il decreto
legislativo 127/2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
del 13.07.2016, recante norme per il riordino della
disciplina in materia di conferenza dei servizi (articoli 14
e seguenti della legge 241/1990).
Il decreto abbatte i tempi lunghi attivando la conferenza
semplificata, che non prevede riunioni fisiche ma solo
l'invio di documenti per via telematica. L'altro tipo di
conferenza (la conferenza simultanea) con riunione (anche
telematica) si svolge solo quando è strettamente necessaria.
Si prevede che l'assenso delle amministrazioni che non si
sono espresse si considera acquisito e ciascun ente
territoriale avrà un solo rappresentate. Cosa molto
importante: il termine della conferenza, oggi di fatto
indefinito, viene stabilito perentoriamente in al massimo 5
mesi. In conferenza potranno intervenire i privati
destinatari della comunicazione di avvio del procedimento
(articolo ItaliaOggi del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Un polo unico per visite fiscali.
Rughetti: competenze trasferite all'Inps.
Un polo unico delle visite fiscali, con competenze e risorse
trasferite dalle Asl all'Inps e una sostanziale
equiparazione di trattamento tra lavoro pubblico e privato.
Ad anticipare i piani del governo è stato il sottosegretario
alla Funzione pubblica, Angelo Rughetti in audizione in
commissione lavoro alla camera.
Il polo unico della medicina fiscale prevede la costituzione
di due «squadre» di medici Inps. I medici presenti nelle
cosiddette liste speciali ad esaurimento, come già previsto,
effettueranno «le visite mediche di controllo domiciliare»,
andando a casa del dipendente pubblico che si è dichiarato
malato per verificare l'effettivo stato di salute.
A un'altra squadra di camici bianchi per la quale si
attingerà alla selezione fatta dall'Inps per 900 nuovi
medici) saranno affidate «attività di istruttoria» e
«l'espletamento di visite ambulatoriali», con focus sulla
fase che precede il controllo domiciliare e su tutto il
contorno (certificazioni di malattia, verbali delle visite).
L'obiettivo è di realizzare controlli mirati ed efficaci
tenendo distinti i due compiti (istruttoria e controllo
domiciliare) in modo da massimizzare il «tasso di
rendimento» delle visite.
Rughetti ha anche annunciato un ulteriore intervento del
governo sui procedimenti disciplinari. Dopo il dlgs sui
cosiddetti «furbetti del cartellino» che porterà alla
sospensione del dipendente fraudolento entro 48 ore
all'eventuale licenziamento in un mese, l'esecutivo «sta
lavorando per fare in modo che nel Testo unico sul pubblico
impiego ci siano altri procedimenti disciplinari che abbiano
una corsia preferenziale rispetto al procedimento penale».
«Oggi», ha spiegato Rughetti, «i due percorsi sono
sovrapposti e questo danneggia la verità, perché per
arrivare alla fine del procedimento amministrativo, tra
datore di lavoro e lavoratore, devo aspettare la conclusione
di quello penale. Noi vorremmo che fossero distinti»
(articolo ItaliaOggi del 28.07.2016). |
SICUREZZA LAVORO: Inail, nei lavori su alberi le funi sono l'extrema ratio.
I lavori su alberi con funi possono avvenire soltanto se è
impossibile l'accesso e posizionamento di piattaforme
elevabili.
A stabilirlo, tra l'altro, le linee guida messe a
punto dall'Inail e pubblicate dal Ministero del lavoro con
la
circolare 22.07.2016 n. 23.
«I lavori su alberi», spiegano le
linee guida, «possono esporre gli addetti a rischi gravi per
la loro salute e sicurezza, e in particolare al rischio di
caduta dall'alto che purtroppo determina ogni anno un
significativo numero d'infortuni con conseguenze spesso
mortali».
Dati dell'osservatorio dell'Inail del settore
agricolo e forestale, non esaustivi, dicono che nel corso
del 2015 si sono verificati 38 eventi infortunistici
determinati da cadute da alberi, dei quali 11 con
conseguenze letali. Molti di questi infortuni hanno
coinvolto soggetti non esperti e mentre svolgevano
operazioni di raccolta di frutti o potatura di alberi in
palese non ottemperanza alle disposizioni de Capo II del
Titolo IV del T.u. sicurezza.
Le linee guida sono nate
proprio per rispondere all'esigenza di una definizione del
complesso di elementi che concorrono alla corretta gestione
dei rischi, tenendo presente la distinzione fra quello che è
l'uso scorretto ragionevolmente prevedibile e le vere
situazioni di rischio che si generano nelle lavorazioni in
quota su alberi.
Tra l'altro, stabiliscono che, in
conformità al comma 4 dell'art. 111 del T.u. sicurezza, i
lavori su alberi con funi possono essere effettuati solo se
le caratteristiche del sito e la struttura della pianta sono
tali da garantire il rispetto delle condizioni di sicurezza
e se, nel seguente ordine prioritario, ricorra almeno una
delle seguenti condizioni:
- impossibilità di accesso e/o posizionamento con altre
attrezzature di lavoro;
- impossibilità di utilizzo di sistemi di protezione
collettiva;
- necessità di modifiche sostanziali del sito ove è posto il
luogo di lavoro che si rilevano non accettabili dal punto di
vista ambientale;
- durata limitata nel tempo dell'intervento.
Le linee guida sono consultabili sul sito web del ministero
del lavoro e su quello dell'Inail
(articolo ItaliaOggi del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Gare, ingegneri in campo.
Un software per il calcolo dei corrispettivi.
Le istruzioni del Cni sull'affidamento dei contratti
pubblici relativi ai Sia.
Una guida per l'affidamento di servizi di ingegneria e
architettura, un software per il calcolo dei corrispettivi a
base di gara e gli elaborati da chiedere in gara e una bozza
di contratto per l'affidamento della progettazione
definitiva ed esecutiva.
È questo il contenuto del
documento, sia pure provvisorio, predisposto dal Consiglio
nazionale degli ingegneri che ha pubblicato l'aggiornamento
del testo «Affidamento dei contratti pubblici attinenti ai
servizi di ingegneria e architettura» alla luce del nuovo
quadro normativo in materia di contratti pubblici (dlgs
50/2016) e delle linee guida dell'Autorità nazionale
anticorruzione.
Il documento, che è disponibile sul sito
www.tuttoingegnere.it, verrà aggiornato quando le linee
guida Anac saranno divenute definitive dato che l'Autorità
le ha inviate come «proposte» al Consiglio di stato e alle
commissioni parlamentari per avere un parere peraltro non
obbligatorio. Intanto, da ieri, è possibile scaricare il
programma che consente di calcolare il corrispettivo da
porre a base di gara e, in automatico, tutti gli elaborati
previsti dal Codice per «il Progetto del servizio di
ingegneria e architettura».
Il software è predisposto anche
per l'elaborazione del bando-tipo, appena lo stesso sarà
predisposto dall'Anac come preannunciato nel documento Air
(Analisi dell'impatto della regolazione) delle linee guida
Sia e delle procedure per la gestione della gara. In
sostanza viene pubblicato un esempio di affidamento per la
progettazione definitiva ed esecutiva di un nuovo polo
scolastico di cui si prefigurano la relazione
tecnico-illustrativa, il calcolo degli importi per
l'acquisizione dei servizi, il prospetto economico degli
oneri complessivi relativi ai servizi.
In particolare
vengono applicate le modalità di calcolo dei corrispettivi
con riferimento al decreto ministeriale 143/2013 che l'Anac
ritiene ancora obbligatorio almeno finché non saranno in
vigore i nuovi parametri di riferimento messi a punto dal
ministero della giustizia di concerto con il ministero delle
infrastrutture, previsti dal comma 8 dell'articolo 24 del
nuovo codice dei contratti pubblici.
Infatti, per il decreto
50/2016, i nuovi corrispettivi ministeriali saranno invece
facoltativi per le stazioni appaltanti. Viene quindi
applicato, all'esempio preso in considerazione (3, 4 milioni
di lavori per un totale di corrispettivi per i due livelli
di progettazione pari a 363.000 euro), le fasi prestazionali
previste per ogni diversa categoria d'opera con la distinta
analitica delle singole prestazioni e con i relativi
Parametri «Q» di incidenza, desunti dalla tavola Z-2
allegata al dm 143/2013.
Inoltre, è allegata anche una bozza
di schema di contratto coerente con l'opera da progettare
previsto per una delle ipotesi di affidamento previste dal
nuovo codice dei contratti pubblici, cioè fra stazione
appaltante e professionista iscritto all'albo (ma esistono
anche i raggruppamenti temporanei di progettisti, i consorzi
stabili, le società tra professionisti e le società di
ingegneria). Nelle parti precedenti sono riportati i
contenuti delle proposte di linee guida Anac
(articolo ItaliaOggi del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Regolamento
edilizio, una Babele. Più facile scrivere la Costituzione.
Nulla di fatto dopo 21 mesi, per approvare la Carta ne
bastarono 18.
Dice tutto, a
proposito
della deriva imboccata
dalla burocrazia
made in Italy, un paragone.
In 18 mesi, settant'anni
fa, abbiamo fatto la Costituzione;
in 21, oggi, non siamo in
grado di scrivere nemmeno un
regolamento edilizio uguale
per tutti i Comuni italiani. Altri
tempi, certo. Ma anche altra
classe dirigente.
La Carta costituzionale
fu scritta dall'Assemblea
costituente, che con
tempi contingentati e una volontà
di ferro riuscì a superare
barriere ideologiche apparentemente
insormontabili. La redazione
del regolamento edilizio
unico, previsto dalla legge
Sblocca Italia, è invece affidata
a un pool di burocrati tanto
eterogenei quanto litigiosi, e
siamo adesso appena all'elenco
delle cosiddette «definizioni
uniformi».
Per capirci: si sono
messi finalmente d'accordo
sulle parole, convenendo che
il «sottotetto» è «lo spazio
compreso tra l'intradosso della
copertura dell'edificio e
l'estradosso del solaio del piano
sottostante». Oppure che
un «locale o spazio coperto
avente le caratteristiche di loggiato,
balcone, terrazza o portico,
chiuso sui lati da superfici
vetrate o con elementi trasparenti
e impermeabili, parzialmente
o totalmente
apribili» si identifica con il termine
«veranda».
E non è stata una passeggiata.
Sul concetto di superficie,
per esempio, la Regione Lombardia
ha piantato una grana tale che alla fine di definizioni
ne sono venute fuori ben sei:
superficie lorda, totale, complessiva,
utile, calpestatile e
accessoria. Dove, per avere
un'idea dell'imbuto in cui i burocrati
incaricati di semplificare
si sono infilati, la differenza
fra «totale» e «complessiva
», parole che a prima vista
sembrerebbero indicare la
stessa cosa, è che la seconda è
la somma della superficie
«utile» (differente da quella
«calpestatile», ovvio) più il 6o
per cento di quella «accessoria».
Il regolamento edilizio unico
comunale, previsto dalla
cosiddetta legge Sblocca Italia
approvata dal Parlamento l'il
novembre 2014, potrebbe rappresentare
un'autentica rivoluzione
mettendo fine una volta
per tutte al dedalo incredibile
di norme locali in un Paese dove
ognuno degli oltre ottomila
Comuni ha proprie regole per
stabilire come si tirano su i
muri, quanto può essere grande
una stanza da letto o un
cortile, come si deve calcolare
la grandezza di un ambiente.
Con prescrizioni surreali. A Lamezia le porcilaie non
possono essere costruite a meno di 30 metri dalle
abitazioni. A Catanzaro è obbligatorio depositare le tinte
in cantiere prima della verniciatura per consentire la
verifica della rispondenza al progetto. A Bologna tollerano
un'eccedenza costruttiva del 2 per cento rispetto al
progetto; a Pescara del 3 per cento: a Lucca quattro
centimetri per lunghezze da otto centimetri a due metri; a
Firenze 10 centimetri rispetto alla scala 1:100. A Fiumicino è
possibile fare i cortili solo nei
condomini non popolari.
Mentre a Piacenza è tassativo
prevedere uno spazio di 30
metri quadrati per i giochi dei
bambini ogni nove alloggi...
Ventuno mesi, dicevamo, ci
sono voluti solo per stabilire
come chiamare le cose. Ora si
è arrivati all'intesa sulle definizioni,
che fa «auspicare» alla
ministra della Semplificazione
e della Pubblica amministrazione
Marianna Madia «che lo
schema tipo» del regolamento
edilizio «si concluda rapidamente
». Auguri. Ma se il
buongiorno si vede dal mattino,
come dimostra il caso surreale
delle sei definizioni di
superficie, è d'obbligo incrociare
le dita.
Non sfugge affatto la complessità
della questione. Né che non si può evitare, in casi
come questi, di ascoltare tutte
le campane. Il problema però è
di fondo: ogni volta che si vuole
fare una riforma si commette
sempre il medesimo errore.
Quello di farla fare ai burocrati.
Perché affidare a loro il compito
di riformare se stessi è come
chiedere al tacchino di organizzare
il pranzo di Natale.
Ogni semplificazione vera
toglie inevitabilmente a una
burocrazia congegnata come
la nostra (malissimo) un pezzetto
di potere: il rischio è dunque
che le semplificazioni non
procedano o che dietro una
semplificazione si nasconda in
realtà una nuova complicazione.
Tanto più vero, questo, se la
riforma riguarda temi sui quali
si intrecciano competenze di
più burocrazie. In questo caso
specifico le burocrazie statali,
regionali e comunali. Un delirio
di interessi contrapposti
ben rappresentati nel pool incaricato
di sciogliere i nodi del
regolamento edilizio unico. Il
bello è che tutto questo meccanismo
infernale rientra nell'agenda
governativa battezzata,
pensate un po', «Italia Semplice». Gli ottimisti che l'hanno
congegnato hanno scritto
nel sito ufficiale che doveva essere
tutto finito «entro novembre
2015» (articolo Corriere della Sera del 27.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Parte la corsa della nuova Scia. Disciplina più semplice per
autoriparatori, impiantisti, mediatori e imprese di pulizia.
Semplificazioni. Da domani in vigore una parte delle
disposizioni che sono state introdotte con il decreto
legislativo 126/2016.
Attività
economiche, ora è più facile la fase di partenza. Il decreto
legislativo 126/2016, uno dei decreti della riforma Madia,
agevola gli adempimenti ai privati che devono utilizzare la
Scia inserendo nella procedura alcune disposizioni che
entreranno in vigore il 28 luglio e altre che saranno
operative entro il 01.01.2017.
Le novità riguardano sia la Scia per le attività economiche
o produttive, sia quella per gli interventi edilizi ma è la
prima quella più attesa per garantire agli imprenditori
adempimenti più semplici e più certi.
L’articolo 2 del Dlgs si applica dal 28 luglio a tutte le
Scia, di competenza statale, regionale e di enti locali. Per
fornire informazioni esaustive ai cittadini e alle imprese,
ma sopratutto per assicurare adempimenti certi e uniformi,
per ciascun tipo di attività diventa obbligatorio lo
strumento della modulistica unificata che deve indicare
anche gli eventuali documenti da allegare.
I moduli saranno adottati,in relazione alle attività di
propria competenza, dai ministeri e, tramite accordi nella
Conferenza Stato-Regioni, dalle Regioni e dagli enti locali.
I moduli riguarderanno le attività che si iniziano con
autorizzazione, con Scia e con comunicazione preventiva e
saranno pubblicati sui siti delle Pa competenti per
procedimento.
Consapevole della impossibilità di raggiungere a breve
questi risultati il decreto impone alle Pa di pubblicare nel
frattempo sul loro sito dal 28 luglio, per ciascuna attività
economica, l’elenco delle condizioni e requisiti per
iniziarla o modificarla, precisando quelli che devono essere
autocertificati dall’imprenditore o asseverati da tecnici
abilitati.
Queste informazioni, di fatto, sono da tempo a disposizione
sui siti di parecchi enti. Il decreto, per evitare che gli
enti aggiungano oneri non previsti, impone di indicare la
fonte normativa di ciascun obbligo.
Dispone poi che possono essere chiesti al privato
informazioni e documenti diversi da quelli presenti nei
moduli solo nel caso in cui il contenuto degli atti inviati
dal privato non corrisponde alle indicazioni del modulo.
La violazione delle norme sulla pubblicità già dal 28 luglio
è un illecito disciplinare per il funzionario addetto, con
rischio di sospensione dal servizio e privazione della
retribuzione da tre a sei mesi.
L’articolo 3 del Dlgs interviene su tre temi rilevanti che
impattano in particolare sulla procedura della Scia. Questo
articolo, però, si applica dal 28 luglio solo per le
attività economiche regolate da norme statali (quelle
gestite dalle Camere di commercio come autoriparatori,
impiantisti, mediatori, imprese di pulizia); per le attività
disciplinate da Regioni e enti locali le novità dovranno
essere recepite entro il 01.01.2017.
La prima novità riguarda la possibilità (che forse va intesa
come obbligo) per il privato di “concentrare” i vari
adempimenti eventualmente imposti per l’inizio
dell’attività (nella legge 241/1990 è stato inserito un nuovo
articolo 19-bis). La seconda riguarda i casi in cui l’ente,
che ha riscontrato una Scia carente dei requisiti, può
sospendere l’attività. La terza riguarda l’obbligo di
controllo delle Scia per il dipendente pubblico addetto alla
ricezione.
In tema di concentrazione degli adempimenti sono previste
due ipotesi:
-
un’attività economica è soggetta a Scia (per esempio
comunale), ad altre Scia (per esempio edilizia) e ad
attestazioni rilasciate da altri enti. In questo caso il
privato presenta una Scia unica all’ente competente e può
iniziare immediatamente l’attività;
-
un’attività economica è soggetta alla Scia (per esempio del
Comune) e al preventivo rilascio di pareri di altri enti o
all’esecuzione di verifiche preventive.
In questo caso il privato deve inviare con la Scia anche
l’istanza per il rilascio del parere e della verifica e può
iniziare l’attività non subito ma dopo il rilascio del
parere.
Riguardo al tema della sospensione della attività, qualora
al controllo della Scia si evidenzi una carenza di
requisiti, il nuovo comma 3 dell’articolo 19 della legge
241/1990 assegna i seguenti poteri all’ente che riceve la
segnalazione.
Se la carenza può essere eliminata dal privato lo invita a
provvedere entro un termine non inferiore a trenta giorni e
nel frattempo è consentita la prosecuzione della attività
ad eccezione di due casi: quando il privato ha inviato
attestazioni false e quando trattasi di attività che
comporta pericoli per l’ambiente, la salute, i beni
culturali e il paesaggio.
In tema di sanzioni il Dlgs integra l’articolo 21 della
legge 241/1990 stabilendo che è responsabile il pubblico
“dipendente che non abbia agito tempestivamente” quando la
Scia non sia conforme a legge. Si deduce che la verifica
deve riguardare tutte le Scia e non solo alcune a campione.
---------------
In arrivo l’elenco delle «regolamentate».
Riforme in cantiere. Un decreto già passato in prima lettura
al Consiglio dei ministri risolve il problema del perimetro
di applicazione delle disposizioni.
Quando
entrerà in vigore il decreto legislativo approvato in via
preliminare il 15 giugno dal Consiglio dei ministri si sarà
in gran parte risolta anzitutto una questione rimasta aperta
dalla legge 241/1990 che ha assillato imprese, professionisti,
Pa giudici e studiosi: a quali attività economiche si poteva
applicare prima la Dia e poi la Scia. Forse anche per questo
il decreto è stato,seppure impropriamente, denominato Scia
2.
L’articolo 5 della legge 124/2015 ha delegato il Governo non
solo a fissare le regole generali sull’utilizzo di quattro
tipi di procedimenti: Scia, autorizzazione espressa,
silenzio assenso, comunicazione preventiva, ma anche a
individuare le attività economiche soggette a tali
procedimenti e non solo alla Scia.
Il decreto legislativo 126/2016 sarà quindi affiancato da un
decreto con allegato l’elenco delle attività definite
“regolamentate” perché il loro avvio o modifica sono
subordinati a determinate condizioni che saranno dichiarate
dagli imprenditori tramite i quattro procedimenti denominati
anche regimi amministrativi.
Riguardo il procedimento della comunicazione la norma
precisa che l’attività a essa subordinata può iniziare solo
dopo la sua ricezione da parte dell’ente competente. La
comunicazione non va confusa con la “comunicazione unica”
che è uno strumento utilizzato per gli adempimenti al
registro imprese.
Il Governo tiene conto del fatto che la “precisa
individuazione” delle attività è estremamente difficile e
che l’elenco dovrà essere aggiornato periodicamente con
l’evoluzione delle normative di settore (articolo 3, comma
6).
L’interrogativo che si porranno Pa e utenti è il seguente:
come devono comportarsi, per le materie di loro competenza,
Stato, Regioni e enti locali nel caso riscontrino attività
non indicate nell’elenco? L’articolo 2, comma 2, precisa che
queste attività «possono essere ricondotte» a quelle
elencate e questa decisione delle Pa deve essere
pubblicizzata nel proprio sito. C’è però il rischio che le
amministrazioni tendano a comprendere negli elenchi anche
attività economiche che vanno classificate come “libere” e
non regolamentate.
L’articolo ora citato precisa che le amministrazioni
«possono» e non «devono» trovare una corrispondenza con le
attività elencate, ma questo aspetto dovrà essere reso più
esplicito.
L’elenco delle attività riportato nell’Allegato A è
suddiviso in tre sezioni:
I - attività commerciali e assimilabili
II - edilizia
III - ambiente
L’elenco non riporta solo l’attività, il procedimento (o
regime amministrativo) e la normativa ma anche gli
adempimenti con altre autorità. Si tratta di una
impostazione di notevole praticità e utilità per gli enti e
gli utenti.
Con il termine attività vengono indicate anche operazioni
relative ad attività iniziate: trasferimenti, sub-ingressi
tra imprese,eccetera. Emerge poi che i procedimenti non sono
solo quattro perché sono così qualificati anche la Scia
Unica, la comunicazione asseverata, la Cila (comunicazione
inizio lavori asseverata).
Nella sezione I sono elencate 82 attività. Per esercitare il
commercio compreso quello su aree pubbliche e le attività di
bar e ristorazione solo in cinque casi marginali è prevista
l’autorizzazione espressa.
Nella sezione II sono elencate 105 attività , comprese
quelle di edilizia libera. Notevole è lo sforzo per chiarire
in dettaglio gli adempimenti.
Nella Sezione III sono elencate 37 attività; di queste 17
sono soggette ad autorizzazione ma ben 11 a sola
comunicazione.
Gli articoli 5 e 6 del Dlgs introducono semplificazioni da
tempo attese che sono recepite negli elenchi: la cessazione
del commercio su aree private non richiede alcuna
comunicazione; occorre solo la Scia per aprire un bar anche
nelle zone finora soggette a “tutela” dal comune; quando una
attività è soggetta sia a norme commerciali sia di pubblica
sicurezza e si applica la Scia questa funge anche da
autorizzazione di Ps
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Condominio alla verifica delle valvole.
Nuovi obblighi.
Da ieri ogni condominio deve verificare se sussista
l'obbligo di introdurre sistemi di termoregolazione e
contabilizzazione del calore. Questo perché da ieri è
entrato in vigore il dlgs n. 141/2016, che modifica e
integra il provvedimento (dlgs n. 102/2014), che impone la
verifica suddetta.
Questi «sistemi, va sottolineato, non
sono obbligatori in senso assoluto, ma, in linea con lo
spirito della normativa, solo a condizione che determinino
efficienza e risparmio energetico», spiega Confedilizia in
una nota.
Il nuovo provvedimento interviene, in particolare, sulle
modalità di suddivisione delle spese connesse al consumo di
calore per il riscaldamento, il raffreddamento delle unità
immobiliari e delle aree comuni nonché per l'uso di acqua
calda per il fabbisogno domestico. Secondo il provvedimento
originario, l'importo complessivo doveva essere suddiviso
tra gli utenti finali in base alla norma tecnica UNI 10200.
Ma per risolvere i problemi scaturenti da tale unica
modalità di suddivisione, rilevati in particolare nelle
estremità degli edifici, il decreto correttivo consente ora
–ove tale norma tecnica non sia applicabile o siano
comprovate, tramite relazione tecnica, determinate
differenze di fabbisogno termico– di suddividere l'importo
complessivo attribuendo una quota di almeno il 70% agli
effettivi prelievi volontari di energia termica.
In tal
caso, gli importi rimanenti potranno essere ripartiti, «a
titolo esemplificativo e non esaustivo», secondo i
millesimi, i metri quadri o i metri cubi utili, oppure
secondo le potenze installate. Mentre resta salva la
possibilità, per la prima stagione termica successiva
all'installazione dei dispositivi in questione, che la
suddivisione venga effettuata in base ai soli millesimi.
«Si
tratta», rileva ancora Confedilizia, «di una soluzione non
perfetta, ma certamente migliorativa rispetto alla vincolatività del precedente sistema, che tanti problemi
aveva causato. Ne andrà verificata l'attuazione in concreto,
insieme con le altre novità del provvedimento correttivo,
che confermano –comunque– la necessità di analizzare caso
per caso le situazioni dei singoli condomini»
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2016). |
APPALTI: La soft regulation è vincente.
Procedure più snelle, efficienti e trasparenti per gli
appalti. Le osservazioni della Fondazione Inarcassa sulle linee guida
approvate dall'Anac.
A pochi mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del
nuovo Codice degli appalti, l'Anac (Autorità nazionale
anticorruzione), presieduta da Raffaele Cantone, ha
approvato le prime linee guida attuative del decreto.
Infatti, il testo, pubblicato il 19 aprile scorso, prevede
il superamento del Regolamento di esecuzione e l'adozione,
da parte dell'Anac e del ministero delle infrastrutture e
dei trasporti, di atti di indirizzo e linee guida di
carattere generale, da approvarsi previo parere delle
competenti commissioni parlamentari.
Tale sistema di soft regulation risponde a un preciso
disegno del legislatore volto a semplificare le procedure,
rendere più trasparente ed efficace l'azione amministrativa,
garantire maggiore concorrenza e affidabilità degli
esecutori e ridurre il contenzioso. I documenti, sottoposti
a consultazione pubblica, hanno ricevuto contributi da parte
di pubbliche amministrazioni, associazioni di categoria,
ordini professionali, nonché operatori economici e liberi
professionisti.
Anche Fondazione Inarcassa, braccio
operativo sui temi della professione creato da Inarcassa, ha
presentato all'Anac le proprie osservazioni. Il documento di
consultazione presentava, infatti, diversi elementi di
interesse, in particolare per quanto attiene a quel
complesso disorganico di disposizioni del nuovo Codice che
costituiscono la disciplina di riferimento per l'affidamento
dei servizi di architettura e ingegneria.
Numerosi sono stati i suggerimenti pervenuti dalla
Fondazione e accolti dall'Autorità. «Non possiamo che
riconoscere il grande impegno e lavoro portato avanti dall'Anac
sul Codice», spiega il presidente Andrea Tomasi, «c'è stata
grande attenzione e collaborazione da parte dell'Autorità
con tutte le parti chiamate a contribuire al miglioramento
delle linee guida e, nonostante alcuni punti non siano in
linea con le nostre aspettative, siamo molto soddisfatti del
risultato».
Di seguito proponiamo una breve analisi dei
punti ritenuti cruciali dalla Fondazione.
Il direttore dei lavori. Il documento «Direttore dei
lavori», sottoposto a pubblica consultazione, ha ricevuto 53
contributi da parte dei soggetti interessati. L'Anac ha
riconosciuto «una espressa autonomia del Direttore dei
lavori nell'impartire all'impresa affidataria gli ordini di
servizio sugli aspetti tecnici ed economici del contratto,
nel rispetto, naturalmente, delle eventuali disposizioni di
servizio impartite dal Responsabile unico del procedimento (Rup)
al Direttore dei lavori».
L'Autorità ha accolto la richiesta
di chiarire le modalità di conferimento dell'incarico di
Coordinatore per la sicurezza e, laddove il direttore
nominato non possegga i necessari requisiti, è possibile
l'affidamento dell'incarico a un terzo, diverso da un
direttore operativo dell'Ufficio di direzione lavori, ai
sensi dell'art. 31, comma 8, del Codice. La Fondazione aveva
inoltre suggerito di chiarire che le figure di responsabile
della sicurezza per l'esecuzione e quella di direttore dei
lavori non dovessero essere coincidenti. Si rileva, infatti,
che la funzione del coordinatore per l'esecuzione dei lavori
è attività del tutto autonoma rispetto ai compiti e alle
responsabilità del Direttore del lavori.
Per una chiara
suddivisione dei ruoli e delle relative responsabilità,
quindi, la funzione di direttore dei lavori e quella di
coordinatore della sicurezza per l'esecuzione siano, di
norma, disgiunte. Ciò anche in aderenza alle indicazioni
delle direttive comunitarie che auspicano il frazionamento
degli appalti e la suddivisione dei contratti.
Responsabile unico del procedimento.
Le funzioni del Rup
sono disciplinate all'articolo 31 del Codice. L'Anac, a
proposito dei titoli di studio di cui è necessario che il
responsabile sia in possesso, propone una variazione di
competenza, professionalità ed esperienza, direttamente
proporzionale all'importo dell'appalto.
Quindi:
a) per gli importi inferiori a 500.000 euro il Rup deve
essere almeno in possesso di un diploma rilasciato da un
istituto tecnico superiore di secondo grado al termine di un
corso di studi quinquennale, abilitato all'esercizio della
professione e iscritto nel relativo albo e possedere
un'anzianità di servizio ed esperienza di almeno tre anni
nell'ambito dell'affidamento di appalti e concessioni di
lavori;
b) per gli importi compresi tra 500.000 euro e 1.000.000 di
euro il Rup, con esperienza almeno di cinque anni, deve
essere in possesso di una laurea triennale in architettura,
ingegneria, scienze e tecnologie agrarie, scienze e
tecnologie forestali e ambientali, scienze e tecnologie
geologiche o equipollenti e abilitazione all'esercizio della
professione, abilitato all'esercizio della professione e
iscritto nell'apposita sezione del relativo albo
professionale;
c) per gli importi pari o superiori a 1.000.000 di euro il
Rup, con esperienza di cinque anni, deve essere in possesso
di una laurea magistrale o specialistica nelle materie di
cui al punto b), abilitazione all'esercizio della
professione e iscrizione al relativo albo professionale. L'Anac
chiarisce che per i lavori di particolare complessità (a
elevato contenuto tecnologico, di significativa innovatività,
con particolari condizioni climatiche, geologiche e
ambientali, per la ristrutturazione, manutenzione e
costruzione di beni ambientali e culturali) e a prescindere
dall'importo del contratto, il Rup deve possedere la
qualifica di Project Manager, oltre ai requisiti di cui al
punto c).
In questo caso, la Fondazione ha osservato che, nel caso di
appalto di lavori di importo superiore a 1.000.000 di euro
e/o di affidamento dei servizi di ingegneria e architettura
di importo superiore a 100.000 euro, il Rup debba essere
abilitato alla professione di ingegnere o di architetto con
laurea magistrale. Inoltre si ritiene che il Rup non debba
mai coincidere con le figure del progettista, del
coordinatore della sicurezza in fase di progettazione, del
direttore lavori e del coordinatore della sicurezza in fase
di esecuzione. Tale coincidenza, infatti, verrebbe a
determinare un palese conflitto di interessi controllato/controllore che, soprattutto nella realizzazione di lavori
pubblici, risulta quanto mai «inopportuno».
Inoltre, l'Anac ha respinto la richiesta di alcuni
stakeholder di prevedere la coincidenza delle figure del Rup
e del progettista/direttore dei lavori/direttore
dell'esecuzione per soglie di importo inferiore a 1.000.000
di euro.
Servizi di architettura e ingegneria. La
linea guida sui
servizi di ingegneria e architettura fissa le regole e i
requisiti per la partecipazione alle gare di progettazione
ed è stata trasmessa dall'Anac al Parlamento, lo scorso 7
luglio.
Successivamente è stata assegnata alle Commissioni
lavori pubblici di Camera e Senato per l'espressione del
parere sul contenuto. Tema centrale, la determinazione del
corrispettivo: l'Anac ha condiviso la sollecitazione giunta
da parte della Fondazione e di tutte le rappresentanze dei
professionisti di porre a base d'asta obbligatoriamente gli
importi derivanti dai parametri del dm 143/2013.
In tal
senso si erano anche espresse le Commissioni parlamentari in
sede di parere sul nuovo codice. Al fine di una maggiore
trasparenza e correttezza e per consentire ai concorrenti di
verificare l'importo, l'Anac precisa che «è obbligatorio
riportare nella documentazione di gara il procedimento
adottato per il calcolo dei compensi posti a base di gara,
inteso come elenco dettagliato delle prestazioni e dei
relativi corrispettivi».
L'Autorità, inoltre, chiarisce che la stazione appaltante
può chiedere soltanto la prestazione di una copertura
assicurativa per la responsabilità civile professionale, per
i rischi derivanti dallo svolgimento delle attività di
competenza ma non anche la cauzione provvisoria per i
concorrenti agli incarichi di progettazione, redazione del
piano di sicurezza e coordinamento e dei compiti di supporto
al Rup (art. 93, comma 10).
Per quanto riguarda
l'affidamento degli incarichi, infine, per quelli di importo
inferiore a 100.000 euro, la Fondazione ritiene opportuno
che la rosa dei partecipanti venga estesa a un minimo di
dieci operatori, invece di cinque. Per gli incarichi di
importo pari o superiore a 100.000 euro, la Fondazione,
relativamente alla presenza nei gruppi concorrenti di uno o
più giovani professionisti, osserva che sarebbe opportuno
precisare se ciò debba avvenire obbligatoriamente
all'interno del raggruppamento o possano essere indicati nel
gruppo di lavoro quali facenti parte dell'organico del
concorrente anche quali collaboratori coordinati e
continuativi.
Circa il rimando, per questa fascia, ai
requisiti previsti per il sopra soglia, in virtù anche
dell'auspicio normativo tendente a favorire la
partecipazione di strutture professionali piccole o medie e
nell'ottica di differenziare i vari livelli, si ritiene che
per questo ambito di gara sia esclusa la possibilità di
richiesta di un fatturato minimo annuo.
Infine, per gli affidamenti di importo superiore alla soglia
di rilevanza comunitaria, la Fondazione, considerata la
disastrosa situazione di crisi in cui versa il settore,
preferirebbe che la previsione circa il fatturato globale
per i servizi di ingegneria e di architettura espletati
negli ultimi tre esercizi antecedenti la pubblicazione del
bando (per un importo massimo pari al doppio dell'importo a
base di gara), venga modificata con una previsione che tale
requisito venga esteso ai tre migliori esercizi nell'ultimo
decennio.
Inoltre, l'ulteriore previsione di limitare all'ultimo
decennio la valenza del proprio curriculum professionale non
ha una giustificazione sostanziale. Infatti, l'esperienza
professionale maturata non decade temporalmente, anzi
incrementa nel tempo. Quindi, in linea generale, si chiede
che venga stralciata la limitazione decennale in favore di
una ventennale
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Documento di gara per tutte le aggiudicazioni.
Appalti. In «Gazzetta» le linee guida che adeguano il Dgue
alle nuove gare italiane - Escluso solo l’affidamento
diretto entro i 40mila euro.
Le stazioni
appaltanti devono utilizzare il documento di gara unico
europeo (Dgue) per tutte le procedure di aggiudicazione, sia
sopra che sottosoglia, con l’unica eccezione
dell’affidamento diretto entro i 40.000 euro.
Il ministero
delle Infrastrutture ha definito le linee-guida per
l’adeguamento del Dgue comunitario alle specificità del
nuovo codice dei contratti pubblici, con un comunicato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di venerdì 22 luglio.
Le linee-guida (per le quali si prevede un periodo di
sperimentazione applicativa per recepire eventuali elementi
ulteriori) stabiliscono che il formulario deve essere
utilizzato per tutte le procedure di affidamento di appalti
di lavori, servizi e forniture, nonché per quelle relative
alle concessioni, sia di valore pari o superiore sia
inferiore alle soglie comunitarie. L’unica eccezione
all’utilizzo obbligatorio del Dgue è prevista per gli
affidamenti diretti entro i 40.000 euro, per i quali le
amministrazioni possono decidere se far rendere le
dichiarazioni sui requisiti con tale modello o con modelli
semplificati definiti in proprio.
Sino al 18.04.2018 (data dalla quale il Dgue dovrà
essere solo in forma elettronica) le stazioni appaltanti
possono utilizzare il format cartaceo allegato alle
linee-guida del Ministero oppure ricorrere al servizio di
compilazione elettronica della Commissione europea, anche se
questo è possibile solo per affidamenti di valore superiore
alle soglie comunitarie. Gli operatori economici possono
riutilizzare il documento, se le informazioni rese non sono
cambiate. Il Dgue, inoltre, è obbligatorio anche per le
dichiarazioni che devono essere rese dai subappaltatori per
dimostrare l’assenza di motivi di esclusione.
Per facilitare
la compilazione del modello, le amministrazioni
aggiudicatrici devono indicare nei documenti di gara tutte
le informazioni che gli operatori economici devono inserire
nel Dgue: i disciplinari di gara, pertanto, dovranno avere
una sezione specificativa degli elementi da ricondurre al
documento, soprattutto per chiarire alcuni aspetti inerenti
i requisiti di capacità scelti dalla stazione appaltante (articolo Il Sole 24 Ore del 26.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, un modello per le gare.
Obbligatorio sopra i 40 mila euro. Dal 2018 solo online.
In G.U. le linee guida del Mininfrastrutture per la
compilazione del formulario.
In vigore il nuovo modello unico per partecipare alle gare
per l'affidamento di contratti pubblici. È obbligatorio per
partecipare a tutti gli affidamenti oltre i 40.000 euro.
Servirà ad attestare il possesso dei requisiti di ordine
generale e speciali, sarà possibile applicarlo anche nelle
procedure negoziate e andrà compilato soltanto in formato
elettronico dal 2018 e sarà riutilizzabile.
È quanto si
desume dalla lettura del comunicato del ministero delle
infrastrutture dei trasporti pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 170 del 22.07.2016 riguardante le linee
guida per la compilazione del modello di formulario di
Documento di gara unico europeo (Dgue), approvato con il
regolamento di esecuzione 2016/7 della Commissione europea
del 05.01.2016.
Si tratta del formulario che ogni
stazione appaltante deve allegare agli atti di gara per
permettere al concorrente che presenta la domanda di
partecipazione o l'offerta (a seconda della procedure di
aggiudicazione) di autodichiarare il possesso dei requisiti
di ammissione alla gara.
Le linee guida ministeriali
pubblicate venerdì risolvono il problema di adattamento del
documento europeo alle specificità del nostro codice anche
se, correttamente, ritengono sperimentale la prima fase di
applicazione e prefigurano «ulteriori integrazioni». Il
ministero chiarisce che il Dgue si applicherà a tutte le
procedure: aperte, ristrette, procedure competitive con
negoziazione, dialoghi competitivi o partenariati per
l'innovazione.
Il documento potrà essere utilizzato nei casi
di procedura negoziata senza previa pubblicazione di un
bando di gara di cui all'art. 63 del Codice, comma 2,
lettera a), cioè quando non sono state presentate offerte o
offerte appropriate in una precedente gara. Negli altri casi
di procedura negoziata senza bando, spetterà alla stazione
appaltante valutare discrezionalmente se utilizzarlo.
Analoga valutazione potrà riguardare l'eventuale
applicazione per contratti di importo inferiore a 40.000
euro (il Dgue vale infatti sia sopra sia sotto la soglia
Ue).
Il formulario per il Dgue, opportunamente adattato, può
anche essere utilizzato per presentare le dichiarazioni del
subappaltatore ai fini dell'autorizzazione al subappalto. Il
ministero invita anche a consultare, per la compilazione, la
guida online della Commissione europea e precisa che il Dgue
presentato in una procedura precedente può essere utilizzato
nuovamente ma soltanto se le informazioni sono ancora
valide. Nelle istruzioni ministeriali si specifica, fra le
altre cose, che in caso di consorzi stabili, il Dgue è
compilato, separatamente, dal consorzio e dalle consorziate
esecutrici indicate.
Per quanto riguarda l'avvalimento viene
anche chiarito che nel Dgue non deve essere inclusa la
dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria (con cui
quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la
stazione appaltante a mettere a disposizione, per tutta la
durata dell'appalto, le risorse necessarie di cui è carente
il concorrente); la dichiarazione deve quindi essere
allegata al Dgue
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Dlgs Scia, la data del protocollo non conta.
Rivoluzionato il computo dei termini dei procedimenti
amministrativi. Le amministrazioni dovranno riorganizzarsi
in maniera profonda, per affondare l'impatto del dlgs
126/2016 (il cosiddetto «decreto Scia» in vigore dal 28
luglio), che ha riformato in maniera rilevante le previsioni
della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo,
incidendo appunto sul computo dei termini e sul
silenzio-assenso.
Fondamentale è la previsione contenuta nel
nuovo articolo 18-bis, comma 1, della legge 241/1990.
L'articolo stabilisce che le amministrazioni dovranno
rilasciare una ricevuta possibilmente telematica che attesti
l'avvenuta presentazione di istanze, segnalazioni o
comunicazioni, indicando anche i termini entro i quali
occorre rispondere o si forma il silenzio-assenso.
La norma
precisa che «la data di protocollazione dell'istanza,
segnalazione o comunicazione non può comunque essere diversa
da quella di effettiva presentazione. Le istanze,
segnalazioni o comunicazioni producono effetti anche in caso
di mancato rilascio della ricevuta, ferma restando la
responsabilità del soggetto competente». Pertanto, il
decorso dei termini entro i quali concludere il procedimento
parte non più dalla protocollazione di istanze, segnalazioni
o comunicazioni, bensì appunto dalla data della loro
materiale presentazione.
La data del protocollo, quindi,
perde rilievo ai fini del procedimento amministrativo. Essa
continua a comprovare fino a querela di falso che un certo
documento è entrato nel patrimonio archivistico dell'ente,
ma non può essere considerata il punto di partenza dei
procedimenti a istanza di parte o soggetti a segnalazione:
conterà la data nella quale il cittadino si è attivato per
presentare appunto l'atto di iniziativa procedimentale.
La
ricevuta di cui parla il nuovo articolo 18-bis della legge
241/1990 ha proprio lo scopo di documentare l'evento che dà
avvia al procedimento. Lo scopo è evitare che le
amministrazioni possano giocare sui termini, ritardando ad
arte la protocollazione per guadagnare tempo. La ricevuta
della presentazione delle istanze, oltre a determinare il dies
a quo per il computo dei termini, se contiene le
informazioni di cui all'articolo 8 della legge 241/1990,
riguardanti la struttura amministrativa competente, il
responsabile del procedimento e i termini per rispondere,
corrisponderà alla comunicazione di avvio del procedimento
ai sensi dell'articolo 7.
Il decreto Scia ha modificato anche l'articolo 20, comma 1,
della legge 241/1990, norma dedicata al silenzio-assenso. La
novella al testo chiarisce che il silenzio-assenso si forma
allo spirare del termine finale previsto dalla legge o dalle
norme regolamentari per adottare il provvedimento, qualora
l'amministrazione sia rimasta inerte e il termine decorre «dalla
data di ricevimento della domanda del privato» e,
dunque, anche in questo caso non dalla protocollazione.
Allo scopo di evitare che le amministrazioni provino
comunque a ritardare l'attivazione dei procedimenti, ad
esempio non rilasciando la ricevuta richiesta dal nuovo
articolo 18-bis della legge 241/1990, esso stabilisce che «le
istanze, segnalazioni o comunicazioni producono effetti
anche in caso di mancato rilascio della ricevuta, ferma
restando la responsabilità del soggetto competente».
Dunque, anche in assenza del rilascio della ricevuta,
qualora il cittadino che abbia presentato l'istanza riesca
comunque a dimostrare la data della presentazione potrà
sempre eccepire la formazione del silenzio assenso o,
comunque, la violazione del termine anche ai fini
dell'eventuale attivazione del danno da ritardo e il «soggetto
competente» (dirigente o responsabile di servizio
preposto alla direzione della struttura amministrativa che
ha ricevuto l'istanza) sarebbe chiamato a rispondere per
responsabilità dirigenziale connessa alla violazione dei
termini, sia di danni erariali
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, l'Ape ora si calcola con Docet.
Software enea.
Enea ha realizzato il nuovo software gratuito «docet» per la
redazione degli attestati di prestazione energetica degli
edifici residenziali esistenti.
Il modello informatico è stato aggiornato con i contenuti
delle nuove norme Uni/Ts 11300 relative alle prestazioni
energetiche degli edifici e Uni 10349 sui dati climatici
relativi al riscaldamento e raffrescamento degli edifici.
Docet è uno strumento di simulazione a bilanci mensili per
la certificazione energetica degli edifici esistenti, spiega
un comunicato Enea dello scorso 23 luglio.
Le norme UNI/TS 11300 (parte 4, 5 e 6) e UNI 10349 (parti 1,
2 e 3) entrate in vigore lo scorso 29 giugno garantiscono il
necessario aggiornamento dei sistemi di calcolo della
prestazione energetica degli edifici. Con l'entrata in
vigore delle nuove regole i certificatori energetici hanno
più obblighi da rispettare per la redazione dell'Ape.
Si pensi alle stime dei consumi derivanti da ascensori,
scale mobili e marciapiedi mobili (per le categorie di
edifici dove la stima è prevista), da calcolare secondo la
UNI/TS 11300-6
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarti
vegetali, cambio di rotta. Torna il regime dei
sottoprodotti. Norme Ue in conflitto.
Il collegato agricoltura riporta i residui verdi urbani
fuori dal regime dei rifiuti.
Cambio di rotta del legislatore nazionale su sfalci e
potature da aree verdi urbane, riportati ex lege sotto il
regime dei sottoprodotti mediante la riscrittura di quelle
disposizioni del Codice ambientale introdotte nel 2010
proprio per sancirne, invece, l'assoggettamento in via
generale alla disciplina sui rifiuti in ossequio alle norme
comunitarie di settore.
La novità è arrivata con
l'approvazione definitiva avvenuta il 06.07.2016 della
legge recante «Deleghe al governo e ulteriori disposizioni
in materia di semplificazione, razionalizzazione e
competitività dei settori agricolo, agroalimentare, della
pesca e dell'acquacoltura», atto che appare riportare il
tenore dell'articolo 185 del dlgs 152/2006 (recante le
deroghe al regime dei rifiuti) alla versione precedente alle
modifiche introdotte dal dlgs 205/2010 disallineandolo così,
come emerso anche nel relativo dibattito parlamentare,
dall'attuale direttiva 2008/98/Ce.
Le nuove disposizioni. In base alla riformulazione della
lettera f), comma 1, articolo 185 del dlgs 152/2006 prevista
dalla nuova legge, non rientrano nel campo di applicazione
della Parte quarta del Codice ambientale (e dunque, sotto il
regime dei rifiuti): «la paglia, gli sfalci e le potature
provenienti dalle attività di cui all'articolo 184, comma 2,
lettera e), e comma 3, lettera a), nonché ogni altro
materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso
destinati alle normali pratiche agricole e zootecniche o
utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la
produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori
del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi,
mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né
mettono in pericolo la salute umana».
Il requisito della provenienza. Oltre agli scarti verdi
derivanti da attività agricole e agroindustriali, in base
alla novellato e citato testo del dlgs 152/2006 sono
gestibili fuori dalla disciplina dei rifiuti, concorrendo
precise condizioni (come più avanti esposto), anche i
residui vegetali provenienti da aree verdi urbane.
Tecnicamente, la novità viene inserita nell'articolo 185,
comma 1, lettera f) del Codice ambientale mediante il secco
rimando normativo, ossia tramite la specificazione che la
«paglia, gli sfalci e le potature» esclusi (o meglio,
escludibili) dal campo di applicazione della disciplina sui
rifiuti sono quelli «provenienti dalle attività di cui
all'articolo 184, comma 2, lettera e), e comma 3, lettera
a)» dello stesso dlgs 152/2006.
Il rinvio è all'articolo del Codice ambientale (il 184) che
reca la classificazione dei rifiuti in base all'origine
(distinguendoli tra urbani e speciali) e alla pericolosità
(distinguendoli tra pericolosi e non). Il comma 2, lettera
e), del suddetto articolo 184 individua nell'ambito degli
urbani, appunto, i «rifiuti vegetali provenienti da aree
verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali»; mentre il
successivo comma 3 lettera a) colloca invece tra gli
speciali «i rifiuti da attività agricole e agroindustriali,
ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2135 c.c.».
Il requisito della naturalità e non pericolosità.
L'equiparazione degli scarti verdi urbani a quelli
agricoli/forestali si riflette anche sotto il profilo delle
condizioni di inoffensività che i primi devono rispettare
per potere essere esclusi dal regime dei rifiuti. In tale
prospettiva appare infatti dover essere letta la successiva
disposizione del rinnovato articolo 185, comma 1, lettera f),
del dlgs 152/2006, laddove si precisa che sono escluse dal
regime dei rifiuti la paglia, gli sfalci e le potature (così
come più sopra individuati) «nonché ogni altro materiale
agricolo o forestale naturale non pericoloso».
Nonostante la non felice formulazione del testo da parte del
legislatore nazionale (che ha semplicemente innestato
l'aggettivo «ogni» sulla preesistente disposizione: si veda
la tabella in questa stessa pagina riportata), il valore
trasversale di tale indefettibile condizione di innocuità
appare essere suffragato da due considerazioni: la necessità
di una interpretazione sistematica delle norme (che ove non
condotta potrebbe far sembrare illogico anche il precedente
citato richiamo integrativo effettuato dall'articolo 185 in
esame, che parla di «materie», all'articolo 184, che parla
invece di «rifiuti»); il consolidato orientamento della
giurisprudenza sia comunitaria che nazionale che impone
sempre il rispetto del principio di precauzione in materia
ambientale e quindi l'interpretazione restrittiva delle
norme che dispongono deroghe
al severo regime dei rifiuti.
Ragion per cui ove non
completamente «naturale» e altresì «pericoloso»
(plausibilmente per essere frammisto a materiali di altro
genere) anche il residuo vegetale da aree verdi urbane sarà
comunque da gestire secondo la disciplina dei rifiuti (con
conseguente rispetto del regime autorizzatorio sotteso),
essendo illecita ogni diversa condotta.
Il requisito della destinazione d'uso. Parallelamente
all'allargamento del requisito di provenienza appare
arrivare anche quello di destinazione. L'esclusione dal
regime dei rifiuti varrà infatti anche per i suddetti scarti
vegetali (naturali non pericolosi) che saranno destinati
alle normali pratiche zootecniche oltre che (come già
previsto per i materiali agricoli dalla precedente versione
dell'articolo 185, e ora pure per quelli da verde urbano)
all'utilizzo in agricoltura, nella silvicoltura, o per la
produzione di energia da biomassa.
L'ambito spaziale di (ri)utilizzo. Allargato, infine,
l'ambito spaziale di gestione fuori dal regime dei rifiuti
(sempre ricorrendo gli altri citati requisiti) dei residui
verdi in questione. Il novellato 185 prevede infatti che la
deroga operi anche per gli scarti portati al di fuori del
luogo di produzione o oggetto di cessione a terzi.
Le condizioni tecniche di utilizzo. Nel riformulato come nel
precedente tenore dell'articolo 185, comma 1, lettera f), il
riutilizzo degli scarti verdi (fuori dal regime dei rifiuti)
dovrà comunque avvenire «mediante processi o metodi che non
danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute
umana».
I rapporti con la disciplina Ue. L'esaminata novella appare,
come accennato, ablare gli effetti del dlgs 205/2010 con il
quale si era proceduto alla riformulazione (anche) del
citato articolo 185, comma 1, lettera f), del dlgs 152/2016 per
renderlo compatibile con il tenore dell'articolo 2, comma 1,
lettera f) dell'attuale direttiva 2008/98/Ce (in materia,
appunto, di materiale vegetale escludibile dalla disciplina
dei rifiuti).
Il tutto, dunque, secondo una sequenza normativa nazionale
che nel solo arco temporale in parola ha visto transitare
gli scarti verdi urbani da sottoprodotti «ex lege» a rifiuti
(con la possibilità, comunque, di dimostrarne caso per caso
l'eleggibilità al suddetto regime di deroga secondo i
criteri generali del dlgs 152/2006) e poi ancora, di nuovo,
a sottoprodotti per legge.
E questo, oltre al rischio di una procedura di infrazione
comunitaria nel breve termine, anche con la prospettiva di
uno scollamento del riformulato dlgs 152/2006 con la futura
direttiva Ue sui rifiuti, il cui testo attualmente all'esame
delle competenti Istituzioni prevede sugli scarti verdi
disposizioni pedisseque a quelle dell'attuale e citata
direttiva 2008/98/Ce
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti di climatizzazione a prova di
condominio. Installazione ed efficienza: le regole per non
sbagliare. Fino al 31/12 le detrazioni Irpef.
Con l'arrivo del caldo occorre confrontarsi con i piccoli e
grandi problemi legati all'installazione e all'utilizzo
degli impianti di raffrescamento dell'aria. Ecco allora una
panoramica delle principali questioni da affrontare.
L'efficienza energetica. L'impianto di condizionamento deve
in primo luogo essere mantenuto in perfetta efficienza, per
evitare salati consumi di elettricità e rischi per la
salute. L'Enea, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie,
l'energia e lo sviluppo economico sostenibile, ha
recentemente messo online 10 consigli pratici sull'utilizzo
efficiente e sostenibile dei climatizzatori, in modo da
poter raffrescare gli ambienti in modo ottimale, senza
eccessive spese in bolletta.
Occorre in primo luogo avere cura di optare per un modello
di condizionatore in classe energetica A o superiore,
preferendo gli apparecchi dotati di tecnologia inverter, che
adeguano la potenza all'effettiva necessità e riducono i
cicli di accensione e spegnimento della macchina. Tra
l'altro, fino al 31 dicembre di questo anno, se l'impianto è
dotato di una pompa di calore si può usufruire di una
significativa detrazione dall'Irpef.
È poi importante collocare il climatizzatore nella parte
alta della parete di ciascuna delle stanze che si intendono
rinfrescare: l'aria fredda tende a scendere e, in tal modo,
si mescola più facilmente con quella calda che tende a
salire. Bastano due o tre gradi in meno della temperatura
esterna per rendere piacevole il soggiorno in un locale e
spesso basta semplicemente attivare la funzione di
deumidificazione, perché è l'umidità presente nell'aria che
fa percepire una temperatura molto più alta di quella reale.
L'utilizzo del timer e la c.d. funzione notte consentono di
ridurre al minimo il tempo di accensione della macchina. È
infine importante una corretta pulizia e manutenzione
dell'impianto. I filtri dell'aria e le ventole devono essere
puliti alla prima accensione stagionale e almeno ogni due
settimane.
I suggerimenti in tabella sono stati curati dagli esperti
Enea.
Il luogo. Spesso possono sorgere difficoltà in relazione al
luogo in cui collocare il motore esterno dell'impianto di
condizionamento. Di norma quest'ultimo viene posizionato sul
balcone dell'appartamento in proprietà esclusiva, in modo da
non creare disturbo a nessuno.
Nel caso in cui però manchi
il balcone, l'unità esterna dovrà necessariamente essere
applicata sulla facciata dell'edificio. In questo caso
occorre che l'installazione sia eseguita senza recare danno
alle parti comuni dell'edificio, tenuto conto del fatto che
l'art. 1122 c.c. stabilisce che il condomino nel piano o
porzione di piano di sua proprietà non può eseguire opere
che rechino danno alle parti comuni e alle proprietà degli
altri condomini.
La giurisprudenza, con specifico
riferimento ai condizionatori, ha poi precisato che deve
intendersi per danno alle cose comuni anche il pericolo,
purché attuale e non solo ipotetico, connesso al rischioso
funzionamento o alla realizzazione imperfetta di un
impianto. Occorre ricordare come la legge n. 220/2012 di
riforma del condominio abbia inserito a pieno titolo la
facciata nella più ampia categoria delle parti comuni, con
la conseguenza per cui ogni condomino può utilizzarla per
trarne una maggiore utilità, senza ovviamente ledere il pari
diritto degli altri comproprietari.
L'installazione in facciata del corpo motore del
condizionatore in genere non crea particolari problemi di
statica e di sicurezza, ma può fare sorgere controversie in
tema di estetica dell'edificio. Si ripropone, in questi
casi, l'annosa questione dell'impatto visivo che il
manufatto può avere sul decoro dello stabile.
Il c.d. decoro architettonico consiste nell'estetica data
dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che
caratterizzano l'edificio e imprimono al medesimo una
determinata fisionomia: si tratta quindi di un bene comune,
il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità
estetica delle modifiche che si intendono apportare.
È necessario sottolineare che si deve parlare di decoro
architettonico non solo in relazione a edifici di
particolare pregio, ma anche in relazione a costruzioni
popolari che, comunque, hanno una loro linea, che può quindi
essere danneggiata da opere che la modifichino, anche quando
le stesse siano state eseguite per assicurare particolari
utilità per l'uso o il godimento delle unità immobiliari di
proprietà esclusiva dei singoli condomini. In ogni caso
l'alterazione del decoro può correlarsi alla realizzazione
di opere che, pur se minime, vadano a mutare l'originario
aspetto anche soltanto di singoli elementi o punti del
fabbricato.
Un condomino può certo installare in facciata un
condizionatore di piccole dimensioni che non vada a
stravolgere l'armonia del caseggiato, soprattutto se, per
colore e posizione, sia destinato a essere poco visibile. Al
contrario, se un condomino installa un motore del
condizionatore di enormi dimensioni su una parte esterna
dell'edificio e nelle immediate vicinanze di alcune
finestre, si determina un'alterazione del decoro
architettonico e, di conseguenza, un deprezzamento
dell'intero fabbricato, che il giudice può liberamente
quantificare, senza bisogno di particolare motivazione.
Questo principio vale anche in caso di installazione
effettuata sulla facciata interna dell'edificio e
indipendentemente dal fatto che siano già presenti in
facciata opere e manufatti oppure altri condizionatori, pur
di minori dimensioni, o contatori del gas con le relative
tubazioni: tali circostanze, secondo la giurisprudenza,
quand'anche arrechino un pregiudizio all'estetica
dell'edificio, non per questo legittimano l'ulteriore
aggravio che il condizionatore di per sé può provocare al
decoro dell'immobile.
---------------
Immissioni sì purché tollerabili.
Per l'installazione dei condizionatori non è richiesto il
rispetto delle norme di legge in tema di distanze:
l'impianto può quindi occupare parte del muro perimetrale
della proprietà del vicino o essere sistemato in adiacenza
della proprietà del condomino limitrofo.
Tuttavia lo stesso non può generare immissioni intollerabili
in direzione della proprietà dei vicini (cioè si deve
evitare la fuoriuscita rilevante di vapore o acqua calda o
la produzione di rumori insopportabili). Per quanto riguarda
il rumore, in giurisprudenza è stato precisato che eccedono
la normale tollerabilità le immissioni sonore che superino
di tre decibel la c.d. rumorosità di fondo, intesa come il
complesso dei rumori di origine varia (spesso non
esattamente individuabili) presenti nel contesto ambientale
in esame. Accertata l'intollerabilità delle immissioni da
rumore proveniente dalle macchine di condizionamento
dell'aria, ai danneggiati spetta il risarcimento del danno
in relazione al periodo nel quale la situazione di disagio
sia perdurata.
Non è poi raro che scatti anche la condanna penale nei
confronti di coloro che installano condizionatori rumorosi
nelle proprie abitazioni o nei luoghi nei quali svolgono le
rispettive attività professionali. Si parla, in questi casi,
di disturbo alla quiete delle persone che abitano alloggi
limitrofi, anche nel caso in cui a lamentarsi dei rumori sia
soltanto uno dei nuclei familiari residenti nel condominio.
In un caso affrontato dai giudici di legittimità, ad
esempio, è stata comminata una multa pecuniaria di 200 euro
al gestore di un centro commerciale responsabile di aver
montato dei condizionatori le emissioni dei quali erano
percepite fino al quarto piano del condominio sovrastante.
In questo caso l'imprenditore è stato condannato anche a
risarcire i danni morali subiti dai condomini che
precedentemente lo aveva denunciato.
I limiti: regolamento di condominio e comunale. Se però una
norma del regolamento di condominio vieta espressamente
l'installazione di condizionatori in facciata, il singolo
condomino non può che attenersi a tale disposizione.
Essa però è valida solo se contenuta in un regolamento
predisposto dal costruttore del caseggiato (c.d.
contrattuale) e accettata dai singoli proprietari degli
appartamenti negli atti di acquisto oppure deliberata dalla
totalità dei condomini. Questo significa che in tali casi il
singolo condomino non può installare un condizionatore in
facciata nemmeno se è stato autorizzato dall'assemblea con
una delibera approvata a maggioranza.
In ogni caso, prima di installare un impianto sul muro
condominiale, è importante verificare anche che non siano
previste limitazioni nei regolamenti comunali: questi
ultimi, infatti, possono prevedere, ad esempio, il divieto
di installare condizionatori sulle pareti esterne degli
edifici del centro storico. In via generale ogni condomino
può eseguire nella porzione di sua proprietà esclusiva tutte
le opere che ritiene opportune, purché non siano anche solo
potenzialmente capaci di arrecare un danno alle parti comuni
dell'edificio.
Per evitare possibili controversie è comunque consigliabile
che il condomino che intende installare tali apparecchi,
prima di dare l'avvio ai lavori, si faccia carico di
avvisare preventivamente l'amministratore.
Quest'ultimo, a sua volta, è tenuto a sottoporre la
questione all'assemblea e a spiegare ai condomini che non si
può impedire l'installazione dell'impianto ove non sia
alterata la destinazione della facciata o di altra parte
comune e non sia impedito agli altri partecipanti di fare
ugualmente uso degli spazi condominiali.
L'assemblea, però, può legittimamente rifiutare il placet
preventivo al condomino che, ad esempio, voglia occupare una
rilevante porzione del muro perimetrale con un motore di
grandi dimensioni, impedendo così agli altri condomini ogni
possibilità di utilizzare ugualmente la facciata (per
installare un altro condizionatore, una targa, una tubazione
ecc.)
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Riqualificazioni,
bonus 65% a maglie larghe. Il vademecum dell'enea sui lavori
incentivati.
Gli interventi ammessi al bonus del 65% per la
riqualificazione globale dell'edificio comprendono qualsiasi
intervento o insieme sistematico di interventi che incida
sulla prestazione energetica dell'edificio. Quindi, a titolo
meramente esemplificativo, sono agevolabili gli interventi
di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale
anche con generatori di calore non a condensazione, gli
impianti di cogenerazione, trigenerazione e gli interventi
di coibentazione o di sostituzione di finestre non aventi i
requisiti tecnici prescritti dell'articolo 1, comma 345,
della legge finanziaria 2007.
Sono alcune delle indicazioni che emergono da un
vademecum
Enea per i lavori incentivati aggiornato alla fine di giugno
2016 contenente i requisiti tecnici e la documentazione da
inviare per usufruire del bonus.
Il vademecum è composto da
nove schede tecniche: serramenti e infissi, caldaie a
condensazione, caldaie a biomassa (comma 344 legge
finanziaria 2007), pannelli solari, pompe di calore,
coibentazione parete e copertura, riqualificazione globale,
schermature solari e caldaie a biomassa (comma 347 legge
finanziaria 2007).
Vediamo alcuni degli spunti più
interessanti.
Generatori di calore a biomassa (articolo 1, comma 344 della
legge finanziaria 2007).
Gli interventi relativi
all'installazione di generatori di calore a biomasse negli
immobili devono assicurare un indice di prestazione
energetica per la climatizzazione invernale non superiore ai
valori limite riportati in tabella all'allegato «A» al dm
11.03.2008.
Inoltre il rendimento utile nominale minimo non
deve essere inferiore all'85% e per i soli edifici ubicati
nelle zone climatiche C (comuni che presentano un numero di
gradi-giorno maggiore di 900 e non superiore a 1.400), D
(comuni che presentano un numero di gradi-giorno maggiore di
1.400 e non superiore a 2.100), E (comuni che presentano un
numero gradi-giorno maggiore di 2.100 e non superiore a
3.000), F (comuni che presentano un numero di gradi-giorno
maggiore di 3.000) le chiusure apribili ed assimilabili
(porte, finestre e vetrine anche se non apribili), che
delimitano l'edificio verso l'esterno o verso locali non
riscaldati, devono rispettare i limiti massimi di trasmittanza di cui alla tabella 4a dell'allegato C al dlgs.
n. 192 del 2005.
La rispondenza ai requisiti sopra elencati
deve essere riportata nell'asseverazione compilata dal
tecnico abilitato e dichiarata nella richiesta di detrazione
da trasmettere ad Enea.
Schermature solari.
Nel caso di installazione delle
schermature solari alla data della richiesta di detrazione
65%, l'immobile deve essere «esistente», ossia
accatastato o con richiesta di accatastamento in corso, deve
essere in regola con il pagamento di eventuali tributi e in
caso di ristrutturazione senza demolizione, se essa presenta
ampliamenti, non è consentito far riferimento al comma 344,
della legge finanziaria 2007 ma ai singoli commi 345, 346 e
347 della legge finanziaria 2007 solo per la parte non
ampliata
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Un
filtro ai pareri. Richieste alla sezione autonomie.
Il dl enti locali punta a ridurre i contrasti
interpretativi.
Un filtro alle richieste di parere dirette alla Corte dei
conti. E un argine alla marea di interpretazioni, spesso
discordanti, fornite dai giudici contabili.
È quanto prevede una norma (art. 10-bis) inserita dalla
camera in sede di conversione al decreto enti locali (dl
113/2016) (Atto
Camera n. 3926), che modifica l'art. 7, comma 8, della c.d. legge
La Loggia (legge 131/2003).
Quest'ultima attualmente prevede solo la facoltà di
richiedere pareri in materia di contabilità pubblica alle
sezioni regionali della Corte dei conti da parte o delle
singole regioni, ovvero dei singoli enti locali. Questi
ultimi devono passare per il tramite del consiglio delle
autonomie locali solo se tale organo è stato istituito,
altrimenti possono procedere da soli.
A tale modalità, per così dire singolare, il correttivo ne
affianca una collettiva, introducendo la possibilità di
richiedere pareri direttamente alla sezione delle autonomie
(ossia alla sezione centrale di cui fanno parte tutti i
presidenti delle sezioni regionali di controllo e che svolge
compiti di coordinamento nei confronti dell'azione delle
medesime), con la intermediazione necessaria, per le
richieste delle regioni, della conferenza delle regioni e
delle province autonome o della conferenza dei presidenti
delle assemblee legislative e, per quelle degli enti locali,
della conferenza unificata.
Tale meccanismo punta a temperare il fenomeno della
proliferazione di pareri in sede regionale e limitare i casi
di difformità di indirizzo.
In effetti, la funzione consultiva svolta dai giudici
contabili, sebbene in molti casi si sia rivelata utile,
porta non di rado a contrasti interpretativi che hanno
l'effetto di disorientare gli operatori e richiedono un
intervento ex post proprio da parte della sezione delle
autonomie in funzione nomofilattica, che però spesso arriva
a distanza di mesi. Basti pensare, per citare i casi più
recenti, alla querelle della spettanza dei diritti di rogito
ai segretari comunali o alle tante questioni concernenti i
limiti alla spesa per il personale flessibile, su cui le
sezione regionali si sono divise fra di loro.
Al contrario, attraverso un'azione di individuazione delle
questioni di maggiore interesse e significatività da parte
delle conferenze, si dovrebbero produrre tempestivamente
pronunce con effetto risolutivo da parte della sezione
centrale titolare del potere di coordinamento in materia.
La modifica si pone in rapporto di logica coerenza e
continuità con la disciplina dettata dall'art. 6, comma 4,
del dl 174/2012, nel testo modificato dal dl 91/2014,
secondo il quale «al fine di prevenire o risolvere contrasti
interpretativi rilevanti per l'attività di controllo o
consultiva o per la risoluzione di questioni di massima di
particolare rilevanza, la sezione delle autonomie emana
delibera di orientamento alla quale le sezioni regionali di
controllo si conformano»
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Tavolo
tecnico sulle discariche. Per accertare le effettive colpe
dei sindaci.
Un tavolo tecnico che farà chiarezza sulle effettive
responsabilità dei comuni in merito alle mancate bonifiche
delle discariche abusive.
Lo ha deciso la Conferenza Unificata di ieri nelle more
della sospensione della diffida ad adempiere che per il
momento ha scongiurato il pericolo per i sindaci di
provvedere alle bonifiche di tasca propria, dopo la condanna
da parte dell'Ue e il conseguente riversamento dell'obbligo
a carico dei comuni.
L'Unificata ha accolto la richiesta dell'Anci di verificare
caso per caso le situazioni in cui i comuni non sono stati
messi nelle condizioni di operare la bonifica dei siti.
«Abbiamo contestato al governo la situazione in cui si
trovano diversi comuni», ha detto il vicepresidente vicario Anci Paolo Perrone al temine della riunione, «che in alcuni
casi non hanno potuto bonificare per fondi mai arrivati
dalle regioni o perché non potevano intervenire essendo i
siti in questione di interesse nazionale. Oppure, come nel
caso di Lecce, la bonifica è stata fatta prima che fosse
emessa la sentenza ma la sanzione è arrivata ugualmente.
Abbiamo chiesto quindi un tavolo per verificare casi
eclatanti di non responsabilità a carico dei comuni perché
non è giusto che vengano comminate sanzioni, pesantissime
per molti enti, soprattutto quelli più piccoli».
«Abbiamo
poi chiesto», ha aggiunto Perrone, «di rivedere come
ripartire questo onere anche coinvolgendo le regioni che, in
molti casi, sono responsabili di non aver fornito per tempo
le risorse per procedere alle bonifiche».
La Conferenza unificata di ieri ha dato il via libera anche
al riparto dei 70 milioni di euro per il 2016 a favore di
regioni ed enti locali per l'assistenza degli alunni con
disabilità fisica o sensoriale e per il supporto
organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con
handicap o in situazioni di svantaggio. Il riparto dei fondi
terrà conto per il 60% del numero di studenti disabili
presenti negli istituti scolastici, secondo le statistiche
del Miur, mentre il restante 40% verrà calcolato in base
alla spesa storica media 2012-2014 dichiarata da ciascun
ente
(articolo ItaliaOggi del 23.07.2016). |
VARI: Cani
e gatti, vietate le cinture in auto.
Sono fuori legge le cinture di sicurezza per cani e gatti
trasportati sui veicoli.
Lo ha affermato il Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti con il parere 13.07.2016 n. 4372 di prot..
L'art. 169, comma 6, del codice della strada prevede che si
possa trasportare liberamente un animale domestico, purché
non costituisca impedimento o pericolo per la guida.
Inoltre, è consentito trasportare animali domestici anche in
numero superiore, purché siano custoditi in apposita gabbia
o contenitore o nel vano posteriore al posto di guida
appositamente diviso da rete o altro analogo mezzo idoneo
che, se installati in via permanente, devono essere
autorizzati dal competente ufficio provinciale della
Direzione generale della Motorizzazione civile.
Secondo il ministero dei trasporti, la locuzione «altro
analogo mezzo idoneo» non ha una portata generica tale da
includere anche le cinture di sicurezza per cani e gatti, ma
deve essere interpretata esclusivamente con riferimento alla
rete di separazione del vano posteriore al posto di guida.
Pertanto, i sistemi di ritenuta consistenti nelle cinture di
sicurezza non possono essere ritenuti legittimi. Gli
automobilisti dovranno prestare molta attenzione a tale
parere ministeriale, perché in caso di errata sistemazione
sul veicolo, eventuali lesioni agli animali domestici
trasportati potrebbero configurare anche estremi di reato
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Boccata
d'ossigeno per gli enti. Alleggeriti turnover e sanzioni,
più facile estinguere i mutui. Tutte le novità del decreto
legge 113/2016 approvato in prima lettura dalla camera.
Alleggerimento del turnover nei comuni medio-piccoli e delle
sanzioni per quelli che hanno sforato il Patto 2015.
Introduzione di una compartecipazione statale alle spese
sull'estinzione anticipata dei mutui e dei prestiti
obbligazionari.
Sono queste le principali novità per gli enti locali
introdotte al dl 113/2016 dalla Camera (Atto
Camera n. 3926) che ieri pomeriggio
ha dato il via libera in prima lettura al provvedimento con
271 voti favorevoli, 109 contrari e 2 astenuti, dopo che in
mattinata il governo aveva incassato il voto di fiducia da
Montecitorio con 343 sì e 165 no.
Ora il provvedimento
passa al senato per il varo definitivo prima della pausa
estiva anche se è improbabile che palazzo Madama possa
apportare ulteriori modifiche al testo. Vediamo le
principali novità.
Turnover.
Fra le misure più rilevanti spicca l'allenamento
del turnover a favore dei comuni medio-piccoli: fino alla
soglia dei 10 mila abitanti, gli enti che nell'anno
precedente hanno registrato un rapporto
dipendenti-popolazione inferiore a quello individuato per
gli enti in dissesto potranno assumere fino al 75% (a fronte
del 25% fissato dall'ultima legge di stabilità) della spesa
dei cessati nell'anno precedente. Resta fermo il limite del
100% per gli enti che fino allo scorso anno erano esenti dal
Patto.
Sanzioni Patto.
Il secondo capitolo su cui si sono
registrate le maggiori aperture è quello delle sanzioni per
la violazione del Patto 2015. In aggiunta al condono delle
sanzioni economiche già previsto per gli enti di area vasta,
è stato introdotto uno sconto anche a favore dei comuni, che
subiranno un taglio pari al 30% (anziché al 100%) dello
sforamento.
La medesima penalità verrà ridotta di un importo
pari alla spesa per edilizia scolastica sostenuta negli
scorsi 12 mesi, purché non già oggetto di altre fattispecie
di esclusione, sulla base dei dati che i comuni interessati
dovranno comunicare alla Ragioneria generale dello Stato
entro 30 giorni dall'entrata in vigore della legge di
conversione del dl.
Niente assunzioni senza bilanci.
Regioni, province, città
metropolitane e municipi che non rispettano i termini
previsti per l'approvazione del preventivo, del rendiconto e
del bilancio consolidato, o che non inviano nei termini tali
documenti alla Banca dati delle pubbliche amministrazioni,
non potranno effettuare assunzioni a qualsiasi titolo e con
qualsiasi tipologia contrattuale, compresi i rapporti di co.co.co. e di somministrazione.
Anche i procedimenti di
stabilizzazione in atto saranno congelati e non sarà
possibile neppure stipulare contratti di servizio con
privati per eludere la sanzione del blocco. La prima
applicazione di queste novità avverrà a partire dal bilancio
di previsione 2017-2019 e dal rendiconto e bilancio
consolidato del 2016.
Fondi alle province.
Alle province sono stati attribuiti 48
milioni per l'esercizio delle funzioni fondamentali e 100
milioni di fondi Anas per la manutenzione della rete viaria.
Ripartiti gli importi dei sacrifici che province e città
metropolitane devono garantire per concorrere agli obiettivi
di finanza pubblica. Il totale resta invariato (2 mld per il
2016), ma viene così suddiviso: 1,295 miliardi a carico
delle province, 504 milioni a carico delle città
metropolitane e 200 milioni a carico delle province di
Sicilia e Sardegna.
Come precisato nella relazione
illustrativa, il riparto è stato effettuato secondo una
metodologia che tiene conto della divergenza tra spesa
storica e spesa standard per le funzioni fondamentali,
nonché dei principi sanciti dalla Corte costituzionale che
con la sentenza n. 65/2016 ha sottolineato la necessità che i
tagli siano «sostenibili» e che le risorse assegnate alle
province non scendano al di sotto di una certa soglia oltre
la quale «la spesa non sarebbe ulteriormente comprimibile».
Estinzione anticipata dei mutui.
Montecitorio ha stanziato
14 mln per il 2016 e 48 milioni di euro per ciascuno degli
anni 2017 e 2018 al fine di consentire l'erogazione di
contributi per l'estinzione anticipata, totale o parziale,
di mutui e prestiti obbligazionari da parte dei comuni. Per
il 2016 la dotazione finanziaria della misura potrà essere
incrementata, fino a un massimo di ulteriori 26 milioni, con
le risorse provenienti dall'applicazione ai comuni della
sanzioni finanziarie per il mancato rispetto del patto di
stabilità 2015.
In questo modo le risorse complessive messe sul piatto per
finanziare l'estinzione anticipata dei mutui potrebbero
salire a 136 milioni. Le richieste vanno trasmesse per
quest'anno entro il 31 ottobre e dal prossimo entro il 31
marzo
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni
a rischio per il 2015. Dl enti
locali.
Pericolo blocco delle assunzioni per le amministrazioni che
nel 2015 hanno sforato il limite del rapporto fra spese di
personale e spese correnti. Il correttivo introdotto dal
decreto enti locali, infatti, potrebbe non essere
sufficiente.
Il dl 113/2016 ha abrogato la lettera a) dell'art. 1, comma
557, della legge 296/2006, che secondo la Corte dei conti
(si vedano, in particolare, le deliberazioni della Sezione
delle autonomie nn. 16/20216 e 27/2015) imponeva agli enti
già soggetti al Patto (ossia tutti quelli dai 5.000 abitanti
in su) di ridurre l'incidenza della spesa di personale sulla
spesa corrente rispetto al valore medio registrato negli
anni 2011-2013.
Tale lettura ha posto numerose e rilevanti criticità: per
esempio, se negli anni benchmark si sono sostenute spese di
natura eccezionale o non ricorrente e poi le uscite sono
tornate al loro livello fisiologico, rispettare l'obiettivo
può essere complicato. E la stessa cosa accade se un ente
decide (magari per migliorare efficacia ed efficienza) di
esternalizzare un servizio prima svolto in forma diretta.
Gli stessi giudici contabili avevano stigmatizzato tali
distonie, ma per correggerle occorreva un intervento del
legislatore, che adesso è finalmente arrivato.
Tutto bene,
quindi? Non proprio, purtroppo. Infatti, l'abrogazione del
parametro normativo su cui si basava la lettura restrittiva
della Corte, conformemente ai principi generali, vale solo
pro futuro, per cui nel 2015, a rigore, il vincolo era e
rimane cogente. Da qui, in caso di sforamento,
l'applicabilità delle sanzione prevista dal comma 557-ter
mediante rinvio all'art. 76, comma 4, del dl 112/2008, che
vieta di assumere nell'anno successivo alla violazione.
Si tratta, ovviamente, di una stortura che andrebbe sventata
in sede di conversione del decreto anche se ormai i giochi
sembrano fatti perché il testo non sarà modificato nel
passaggio in senato
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Conferenza
di servizi, si cambia. Partecipazione via e-mail e chiusura
entro 45 giorni. Le nuove regole che entreranno in vigore il
28 luglio e che faranno risparmiare due settimane.
Al via la conferenza di servizi «asincrona», da chiudere
entro un mese e mezzo con tutti i pareri e nulla osta; un
unico soggetto referente per le amministrazioni statali
periferiche; niente silenzio assenso in caso di valutazione
di impatto ambientale per opere di competenza statale.
Sono questi alcuni dei contenuti principali delle nuove
regole per lo svolgimento delle conferenze di servizi,
previste nel decreto legislativo 30.06.2016, n. 127
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13.07.2016, n.
162, che entreranno in vigore il 28 luglio prossimo e
riguarderanno le procedure avviate successivamente a questa
data.
La nuova disciplina, che riformula gli articoli da 14 a
14-quinquies della legge 241/1990 sul procedimento
amministrativo, prevede una prima modalità di conferenza
istruttoria indetta (facoltativamente) dall'amministrazione
procedente, anche su richiesta di un'altra amministrazione o
di un privato, che serve per l'esame contestuale degli
interessi pubblici (e privati) coinvolti.
Questa conferenza si dovrà svolgere necessariamente in
modalità asincrona: non si terrà alcuna riunione con
presenza fisica dei partecipanti attorno a un tavolo, ma
verranno messe in campo soltanto comunicazioni via posta
elettronica tra i soggetti interessati. Il termine per
l'indizione della conferenza semplificata è di cinque giorni
decorrenti dall'inizio del procedimento d'ufficio o dal
ricevimento della domanda se ad attivarla è un soggetto
privato o un'altra amministrazione. Entro il termine massimo
di 15 giorni si potranno chiedere chiarimenti o
integrazioni. Al massimo entro 45 giorni (ma si raddoppiano
nel caso in cui siano coinvolti enti per la tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale beni culturali o
salute dei cittadini) dovranno essere espressi tutti i
pareri.
Alla fine il risparmio rispetto alla precedente disciplina
sarà di 15 giorni. Se nessuno si dovesse esprimere e se i
pareri non dovessero pervenire nei termini, la legge presume
che si sia concretizzato un assenso incondizionato; saranno
invece tali da configurare un parere negativo soltanto i
dissensi non superabili che dovranno essere formulati in
modo chiaro e analitico.
Se invece andrà tutto bene la conferenza si concluderà
positivamente entro cinque giorni dalla scadenza dei termini
con una decisione positiva.
La legge non esclude la possibilità di una conferenza
simultanea, cioè con la presenza dei rappresentanti delle
amministrazioni intorno al tavolo, quando i pareri non siano
univoci o se non si siano concretizzati in assenso o diniego
netti. In questo caso la conferenza simultanea dovrà
svolgersi nei 10 giorni precedenti la scadenza. I
partecipanti potranno o essere presenti fisicamente o in via
telematica (anche teleconferenza).
Dopo che
l'amministrazione avrà illustrato gli elementi essenziali
della conferenza, entro i 45 giorni successivi si dovrà
tenere la conferenza che, a sua volta, si dovrà concludere
entro altri 45 giorni. Ogni amministrazione parteciperà alla
riunione con un unico rappresentante, con l'innovazione
introdotta dal decreto di un unico soggetto, preventivamente
designato dalla presidenza del consiglio o dalla prefettura,
che dovrà esprimere il parere di tutte amministrazioni
statali coinvolte nella conferenza.
Quando si tratti di progetti di particolare complessità e di
insediamenti produttivi di beni e servizi l'amministrazione
potrà indire una conferenza preliminare, che costituisce
quindi la terza tipologia di conferenza, prima della
presentazione del progetto definitivo
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Chi subentra nell'appalto può modificare i
contratti. Con la legge comunitaria
n. 122/2006 che supera la Biagi.
In caso di subentro in un appalto sarà possibile applicare
al personale trattamenti retributivi diversi dal precedente
contratto.
È questo l'effetto dell'entrata in vigore, a partire da
domani, della legge comunitaria n. 122/2006 che, oltre a
prevedere la norma sulla sede legale delle Soa, stabilisce
anche alcune nuove norme in materia di appalti e rapporti di
lavoro ad essi connessi.
Attualmente, la materia è
disciplinata dalla cosiddetta legge Biagi (d.lgs. 276/2003) in
una disposizione (art. 29, comma 3) che impedisce
l'applicazione della normativa sul trasferimento di aziende
qualora si tratti di subentro di un appaltatore in un
precedente contratto di appalto.
La normativa civilistica (articolo 2112) sul trasferimento
di azienda prevede che i rapporti di lavoro in capo al
datore di lavoro cedente proseguano, senza soluzione di
continuità, con il cessionario, il quale deve garantire il
mantenimento dei diritti acquisiti dal personale trasferito
e l'applicazione dei trattamenti economici e normativi
previsti dai contratti collettivi in vigore presso il
cedente, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti
da altri contratti collettivi dello stesso livello.
La disciplina della legge Biagi impedisce che il soggetto
subentrante sia costretto a mantenere le stesse condizioni
contrattuali ai lavoratori utilizzati nel precedente
contratto e assunti dal subentrante. In altre parole, una
cosa è il trasferimento di azienda, altra cosa è il subentro
in un contratto di appalto.
La ratio del decreto 267 è quella di non costringere il
nuovo appaltatore a prendersi comunque in carico, alle
stesse condizioni, le maestranze impegnate nel contratto di
appalto.
Su questa disposizione si è però appuntata l'attenzione
dell'Unione europea che ha avviato negli anni scorsi una
procedura di infrazione, non giunta al deferimento di fronte
alla corte di giustizia, ma comunque tesa a censurare il
divieto di mantenere gli stessi diritti agli operai quando
si sia in presenza di fattispecie quali il subentro in un
appalto che, per quanto giuridicamente diverso, ha elementi
propri o simili al trasferimento di azienda disciplinato a
livello europeo dalla direttiva 23/2001.
Salomonicamente, la norma approvata con la legge europea
dall'Italia, pur mantenendo ferma la distinzione fra i due
istituti, di fatto ammorbidisce il divieto della legge Biagi
e rende meno rigida l'approvazione del divieto.
In particolare, la disposizione prevede l'inapplicabilità
della disciplina sul trasferimento di azienda se il
personale viene acquisito da una impresa che ha già
operativa una struttura organizzativa e operativa e che vi
sia una situazione di discontinuità rispetto all'impresa
precedente.
Quindi, in questi casi chi assume il personale non sarebbe
tenuto ad assicurare le stesse condizioni che avrebbe dovuto
rispettare in caso di trasferimento di azienda, ma potrebbe
applicare condizioni contrattuali diverse. La disciplina
della legge comunitaria risulta applicabile sia in caso di
acquisizione di personale per obbligo di legge, sia in caso
di acquisizione prevista dal contratto collettivo nazionale
di lavoro
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., si riaprono le assunzioni in 4 regioni.
Diciannove mesi circa per sbloccare solo parzialmente e solo
in 4 regioni le assunzioni, uscendo dalle maglie del blocco
imposto dal processo di ricollocazione del personale
sovrannumerario delle province.
C'è voluto oltre un anno e mezzo perché vedesse la luce il
primo provvedimento del dipartimento della funzione pubblica
finalizzato a riaprire finalmente i processi assunzionali
negli enti locali, congelati da lunghissimo tempo a causa
dell'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014. Le regioni
«fortunate» sono Emilia Romagna, Marche, Lazio e Veneto,
nelle quali per le amministrazioni si ripristina la
possibilità di assumere, ovviamente nel rispetto degli altri
vincoli non connessi alla legge Delrio.
Era il gennaio del 2015 quando venne approvata la circolare
interministeriale di ministero delle riforme e ministero
degli affari regionali 1/2015, che aveva immaginato un iter
ben diverso e molto più celere. Secondo la circolare, già a
marzo 2015 avrebbe dovuto vedere la luce il decreto
ministeriale necessario a fissare i criteri della mobilità
dei dipendenti in sovrannumero. Le cose sono andate ben
diversamente.
Il blocco delle assunzioni si è trascinato
molto più a lungo e ancora vale per la grande maggioranza
del territorio nazionale (è noto che nelle regioni del Sud
le disponibilità segnalate dagli enti sono in numero
inferiore alla quantità di dipendenti in soprannumero delle
province): il decreto ministeriale è stato approvato solo
nel settembre 2015 e vari malfunzionamenti della piattaforma mobilita.gov ha fatto slittare fino a gennaio 2016 il
caricamento dei posti disponibili.
Di fatto, la gran parte
dei 24 mesi disponibili ai sensi dell'articolo 1, commi 424
e 425, della legge 190/2014 per ricollocare i dipendenti
provinciali in soprannumero, al netto dei collocamenti in
pensione anticipati, è andata in fumo, senza ottenere il
risultato.
Si tenga presente che la Funzione pubblica dà atto che nelle
4 regioni ove si sbloccano le assunzioni, ciò avviene perché
il personale provinciale è stato interamente ricollocato o è
ancora da ricollocare in numero esiguo: di fatto, dunque, si
ammette che in realtà l'intento molte volte sottolineato dal
governo, cioè non lasciare a casa nessun dipendente
provinciale promovendone anche la mobilità per rafforzare le
dotazioni di amministrazioni carenti, risulta tutt'altro che
rispettato.
Al luglio del 2016, a pochi mesi, quindi, dalla
scadenza dell'01.01.2017, quando i dipendenti in soprannumero
saranno destinati alla disponibilità, cioè 24 mesi a
stipendio ridotto fino a circa il 70% e col rapporto di
lavoro sospeso in vista della risoluzione del lavoro, sono
ancora 16 le regioni che attendono lo sblocco e nelle stesse
4 nelle quali le assunzioni sono finalmente «libere» resta
una coda. Sicché gli enti che hanno dichiarato disponibilità
di posti nella piattaforma mobilita.gov, non potranno
coprirli con nuovi concorsi, ma mediante il sistema di
mobilità riservato ai dipendenti provinciali.
Ovviamente, lo sblocco delle assunzioni consentirà di
acquisire il personale a tempo indeterminato nel rispetto
dei vincoli finanziari vigenti: per il 2016, le assunzioni
sono ammesse entro il 25% della spesa corrispondente al
personale non avente qualifica dirigenziale cessato l'anno
precedente, a meno che l'ente non risulti particolarmente
virtuoso perché con un'incidenza della spesa di personale
sulla spesa corrente inferiore al 25% e, quindi, solo per il
2016, autorizzato ad assumere entro il 100% della spesa
dovuta a cessazioni.
Le assunzioni a tempo determinato debbono rispettare i
limiti imposti dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010:
non superare, cioè, la spesa affrontata nel 2009. Il
provvedimento della Funzione pubblica ha, inoltre, sbloccato
le assunzioni limitatamente alla polizia locale nelle
regioni Molise e Puglia
(articolo ItaliaOggi del 21.07.2016). |
PATRIMONIO: Ambulanti, né proroghe né incentivi.
Il governo non può e non vuole concedere alcuna proroga agli
ambulanti delle concessioni su aree pubbliche, in scadenza
tra un anno. Né può manifestare la propria disponibilità
alla revisione tout court della disciplina in materia, per
disapplicare la direttiva Bolkestein. E questo per due
motivi:
1) perché vuole evitare l'apertura di una procedura di
infrazione, a cura dell'Unione europea, per violazione dei
principi contenuti nella direttiva Bolkestein;
2) perché ciò sarebbe non coerente con il generale indirizzo
del governo e del parlamento, ribadito nei molteplici
interventi normativi di liberalizzazione e di
semplificazione, volto ad eliminare le forme di tutela
corporativa degli operatori esistenti a favore della libertà
d'impresa e dei principi della concorrenza.
Il risultato dell'interrogazione posta ieri dal deputato Pd,
Lorenzo Becattini, in commissione attività della camera, non
è stato, quindi, quello sperato. E la risposta in via
immediata resa dal sottosegretario allo sviluppo economico,
Ivan Scalfarotto, non lascia scampo.
Certamente non ha
aiutato, nel senso auspicato dal parlamentare, la sentenza
del 14 luglio scorso della Corte di giustizia Ue, che ha
ritenuto non compatibile con il diritto comunitario le
proroghe automatiche fino al 2020 delle concessioni in
essere di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali per
attività turistico ricreative, in assenza di qualsiasi
procedura di selezione tra i potenziali candidati.
Del resto la questione non è nuova, ha precisato il Mise.
Sin dal dlgs 59/2010 di recepimento della direttiva
2006/123/Ce, ci sono state analoghe richieste presentate sia
da parte delle associazioni di categoria interessate, sia di
origine parlamentare nelle quali, come nel caso posto, si
sosteneva la possibilità di non applicare al commercio su
area pubblica, l'art. 12 della citata direttiva (e correlato
art. 16 del dlgs 59/2010); con la conseguente possibilità di
proroga automatica dei titoli in essere.
Tuttavia, ha sottolineato Scalfarotto, la stessa Commissione
europea, in risposta a specifici quesiti posti da alcuni
stati, si era espressa chiaramente in senso opposto (cfr.
per tutte la risposta all'interrogazione scritta 3434/2010).
Fermo restando, quindi, che la direttiva non consente di
escludere il suolo pubblico dall'applicazione dei principi
comunitari, il legislatore nazionale consapevole delle
specificità del comparto ha previsto una proroga automatica
ed una fase transitoria con decorrenza dal 7 maggio del
prossimo anno.
C'è stata, pertanto, da parte della Conferenza unificata tra
stato, regioni ed enti locali, la volontà di coniugare i
principi dell'ordinamento europeo con la necessità di
modulare le nuove regole sulla base di una tempistica che
consentisse di non determinare conseguenze immediate e
dannose sul comparto; e individuando anche criteri in grado
di valorizzare l'esperienza degli operatori, riconoscendo un
valore significativo all'anzianità di esercizio dei
medesimi.
Ma ulteriori proroghe sono impensabili anche se a proporle
sono le regioni. Soprattutto in considerazione del fatto che
nella materia della tutela della concorrenza quest'ultime
non hanno alcuna competenza
(articolo ItaliaOggi del 21.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Da domani telefonini e tablet usati ritirati gratis dai
grandi negozi.
Via libera al ritiro uno contro zero dei tecnorifiuti di
piccolissime dimensioni (tipo cellulari e tablet) presso i
punti vendita con superficie superiore a 400 mq.
Da domani,
22 luglio, entra in vigore il decreto n. 121/2016, in G.U. n.
157 del 7 luglio, che obbliga i «maxi» distributori di
apparecchiature elettriche ed elettroniche a istituire un
sistema di informazione e ritiro gratuito dei prodotti
giunti a fine vita e a predisporre un sistema di deposito e
trasporto dei miniRaee nel rispetto delle formalità per la
corretta gestione dei rifiuti.
Il decreto chiama in causa,
attraverso l'adesione volontaria, anche i distributori con
punti vendita al dettaglio di superficie inferiore ai 400 mq
e i distributori a distanza (e-commerce). La possibilità,
per il cittadino, di consegnare il proprio «rifiuto» al
rivenditore senza necessità di acquistare un prodotto
equivalente riguarda i Raee provenienti da nuclei domestici,
di dimensioni inferiori ai 25 cm, e coinvolge anche i «Raee
dual use», quelli di origine commerciale o di altro tipo,
analoghi per natura e quantità ai domestici (si veda
ItaliaOggi Sette del 18 luglio).
Le novità in sintesi. Nei punti vendita dovranno essere
affisse le informazioni sulla gratuità del servizio di
ritiro. Il ritiro dovrà essere effettuato all'interno dei
locali del punto vendita o in luoghi in prossimità, tramite
contenitori ad hoc, che dovranno essere periodicamente
svuotati. Successivamente i miniRaee verranno raggruppati in
un luogo di deposito preliminare per i successivi raccolta e
trasporto. In questa fase sono previsti alcuni oneri
documentali (compilazione modulistica all'atto di
svuotamento, sottoscrizione ecc.).
Per il deposito preliminare le aziende potranno avvalersi
dei luoghi per il ritiro «uno contro uno». I tecnorifiuti
dovranno essere trasportati, dai distributori o da terzi che
agiscano in loro nome, in centri di raccolta, centri
accreditati di preparazione per il riutilizzo o impianti
autorizzati, previa iscrizione all'Albo gestori ambientali e
nel rispetto dei previsti oneri documentali.
Le imprese. «Siamo convinti che l'1 contro 0 possa
rappresentare una svolta», ha dichiarato Danilo Bonato, d.g.
di Remedia, «e contribuire in modo significativo
all'incremento delle quantità di Raee gestiti in Italia».
«Siamo pronti a fare la nostra parte», sottolinea Davide
Rossi, d.g. Aires Confcommercio, «e a sottoporre al ministro
Galletti un vademecum che possa fugare ogni dubbio o
interpretazione errata delle norme da parte dei retailer»
(articolo ItaliaOggi del 21.07.2016). |
SICUREZZA LAVORO: Ai
professionisti la certificazione della sicurezza.
Il ddl Sacconi. Il presidente della Commissione Lavoro del
Senato presenta una semplificazione del Testo unico del
2008.
Superare il Testo
unico di salute e sicurezza sul lavoro, che «si caratterizza
per un’eccessiva complessità legislativa e attuativa» -il Dlgs 81 del 2008 si compone di 306 articoli e 51 allegati-
per passare «attraverso la semplificazione, da un approccio
formalistico a uno pratico e sostanziale».
Questo è l’obiettivo del Ddl
(Atto
Senato n. 2489)
depositato ieri in commissione
Lavoro al Senato dal presidente Maurizio Sacconi (Ap), con
la firma di Serenella Fucksia (Gruppo misto), che si compone
di 22 articoli e 5 allegati.
«Il presupposto dell’attuale
disciplina sono la produzione industriale seriale
meccanizzata e le mansioni lavorative standardizzate -sottolinea Sacconi- per questo si prevede un’applicazione
omologa a tutti i luoghi produttivi, a prescindere dalle
dimensioni e dai dati infortunistici di riferimento. È ora
di voltare pagina, il contesto è cambiato, l’economia
globale è sottoposta a cambiamenti veloci e imprevedibili
indotti dalle nuove tecnologie digitali».
Il Ddl prevede l’attività di supporto garantita dai medici
del lavoro o da altri professionisti esperti in materia di
salute e sicurezza sul lavoro, che sotto la propria
responsabilità, potranno certificare la correttezza delle
misure di prevenzione e protezione in azienda. La platea è
composta da professionisti con un ordine di riferimento o
esperti che svolgono professioni relative alla salute e
sicurezza, iscritti a un elenco presso il ministero del
Lavoro (previa verifica del possesso di determinati
requisiti professionali e di esperienza).
L’affidamento al
soggetto terzo della certificazione, spiega la relazione al Ddl, «permetterà una notevolissima riduzione della
documentazione necessaria per dimostrare l’adempimento agli
obblighi di legge da parte del datore di lavoro».
Quanto al datore di lavoro, il Ddl prevede che non possa
ritenersi responsabile se ha ottemperato ai propri obblighi
ma l’evento è risultato dovuto a «circostanze a lui
estranee, eccezionali e imprevedibili, o a eventi
eccezionali, le cui conseguenze non sarebbero state comunque
inevitabili, nonostante il datore di lavoro si sia
comportato in modo diligente». Si prevede che in
materia di salute e sicurezza la colpa va ritenuta «colpa di
organizzazione», con la conseguenza che essa viene meno ove
l’imprenditore dimostri di aver provveduto a organizzare
l’azienda in modo corretto rispetto alle esigenze di tutela
dei propri lavoratori.
Corollario di tutto ciò è che il
datore di lavoro che dimostri il proprio diligente
comportamento -con l’adozione e l’efficace attuazione della
normativa- «non può rispondere penalmente in caso di
infortunio che sia derivato da grave negligenza del
dirigente, del preposto o del lavoratore». Gli organi di
vigilanza e la magistratura potranno intervenire nei casi in
cui la certificazione venga resa in modo fraudolento, con
grave colpa professionale o per mezzo di false
dichiarazioni.
Per evitare problemi nel passaggio tra i due
diversi “modelli” di gestione della salute e sicurezza, si
prevede un periodo transitorio triennale nel quale al datore
di lavoro è consentito anche di dimostrare di avere, in
tutto o in parte, adempiuto ai propri obblighi del Dlgs
81/2008. Si incentiva, anche economicamente, l’adozione e
l’efficace attuazione delle misure di prevenzione e
protezione in azienda, lasciando al ministero del Lavoro e
all’Inail l’individuazione delle modalità per permettere
alle aziende virtuose di avere un «sensibile» sgravio sui
premi da pagare.
Quanto al recepimento di direttive comunitarie in materia di
salute sul lavoro, esso dovrà avvenire nel rispetto dei soli
livelli inderogabili di tutela previsti dalle stesse
direttive, e con un decreto ministeriale saranno individuati
i livelli di regolazione da eliminare. Le sanzioni saranno
razionalizzate.
Infine nell’attività di vigilanza gli
ispettori potranno impartire disposizioni esecutive -contro
cui è possibile fare ricorso-, in caso di inosservanza è
previsto l’arresto fino a 12 mesi o fino a 10mila euro di
multa per ciascuna disposizione (articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, dlgs corretto (diritti esclusivi no).
Nuovo codice appalti rettificato con 173 correzioni formali
ed errori di punteggiatura; limata di un euro le soglie per
affidamenti di servizi di ingegneria e architettura;
soppressa la norma che consentiva alle amministrazioni di
imporre condizioni per la riservatezza delle informazioni
fornite nell'appalto.
Sono questi alcuni degli elementi contenuti nelle correzioni
formali al decreto 50/2016 (il nuovo codice dei contratti
pubblici entrato in vigore il 19.04.2016) previste
nell'avviso di rettifica di cui al Comunicato relativo al
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante: «Attuazione
delle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture».
L'avviso di rettifica, in G.U. n. 164 del 15.07.2016,
contiene 173 correzioni di errori formali e di
punteggiatura. Fra queste va segnalata l'eliminazione della
parola «pari» dagli articoli 31, comma 8 e 157, comma
2, che disciplinano gli affidamenti di incarichi di servizi
tecnici di importo fino a 40.000 e fino a 100.000 euro.
Sopravvivendo quindi la parola «inferiore a», il
risultato è che l'affidamento diretto sarà possibile fino a
39.999 euro e la procedura al di sotto dei 100.000 euro, con
scelta fra cinque operatori economici sarà ammessa fino a
99.999 euro.
Da rilevare anche la soppressione del comma 7 dell'articolo
53 che testualmente recitava: «Le stazioni appaltanti
possono imporre agli operatori economici condizioni intese a
proteggere il carattere di riservatezza delle informazioni
che le amministrazioni aggiudicatrici rendono disponibili
durante tutta la procedura di appalto».
È invece rimasta la poco chiara frase di cui all'articolo
18, comma 1, lettera b) «Ai fini della presente lettera
il concetto di diritto esclusivo non include i diritti
esclusivi», alla quale risulta arduo dare un senso
compiuto
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a contratto senza limiti. Manager fiduciari fuori
dai paletti sul personale flessibile.
In commissione alla camera via libera al decreto enti
locali. Probabile la fiducia.
La commissione bilancio della camera ha approvato un
emendamento al disegno di legge di conversione del dl
113/2016 (decreto enti locali), che modifica l'articolo 9,
comma 28, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010,
aggiungendovi la specificazione che «sono in ogni caso
escluse dalle limitazioni previste dal presente comma le
spese sostenute per le assunzioni a tempo determinato ai
sensi dell'articolo 110, comma 1, del decreto legislativo 13.08.2000, n. 267».
La disposizione è stata reclamata a gran voce dagli enti
locali, che, forti di interpretazioni più che discutibili
della Corte dei conti, avevano assunto dirigenti e
responsabili di servizio per via fiduciaria, utilizzando a
piene mani appunto l'articolo 110 del Tuel.
È bene ricordare
che il quantitativo di dirigenti a contratto (che
spessissimo sono funzionari «promossi» a dirigenti senza
concorso, esattamente come avvenuto nelle Agenzie) è molto
vicino al 30% della dotazione: per questa ragione il dl
90/2014 modificò il testo dell'articolo, elevando al 30% la
quota di dirigenti «a cooptazione», mentre nelle altre
amministrazioni il limite è del 10%.
Con la modifica che il parlamento si accinge ad approvare si
dà un'altra spinta ai comuni a persistere nella strada
dell'assunzione di dirigenti «di fiducia», escludendoli dal
computo dei limiti alla spesa del personale flessibile.
Limiti, invece, che restano in piedi per la provvista del
personale da adibire alla concreta gestione dei servizi
frontali.
Una scelta che dimostra in maniera chiara l'intreccio
evidente tra dirigenti «a contratto», selezionati con
procedure che rimettono all'arbitrio dei sindaci la
selezione finale del soggetto più vicino politicamente e,
appunto, la politica, segnando un punto di rottura nel
difficile equilibrio tra dovere della dirigenza di attuare
l'indirizzo politico-amministrativo e la terzietà che i
dirigenti dovrebbero avere rispetto alla politica, non solo
per rispettare l'articolo 98 della Costituzione, ma anche
per il semplice rispetto delle cautele delle regole contro
il conflitto di interessi discendenti dalla normativa
anticorruzione
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2016). |
PATRIMONIO: I sindaci rischiano sulle buche.
Il nuovo codice della strada non ammette alcuna eccezione.
Se gli incidenti capitano per questo motivo, per loro
possono scattare le porte del carcere.
La rivolta dei sindaci. Colpiti dagli avvisi di garanzia
firmati a profusione dai Pm per sviste burocratiche (le
mazzette e i favoritismi sono tutt'altra cosa) ora rischiano
di venire travolti dalle buche nelle strade. La legge da
poco approvata dal parlamento sul reato di omicidio stradale
prevede il carcere per il sindaco se l'incidente è provocato
o favorito da un difetto della strada.
I primi cittadini, esasperati per questa nuova tegola sulle
loro teste, chiedono che la legge appena entrata in vigore
venga subito cambiata e la mobilitazione è assolutamente
bipartisan perché c'è davvero il rischio che si aprano le
celle. Perciò hanno sollevato anche una intricata questione
giuridico-politica: segnaleranno ai presidenti delle Regioni
e ai ministri le opere da realizzare chiedendo il relativo
finanziamento.
Se i soldi non arriveranno i sindaci scaricheranno le
responsabilità su chi non ha accolto le loro richieste. Non
sarà facile, perché la legge prevede espressamente la
responsabilità dei sindaci ma essi sostengono che la
chiamata di correo è una legittima difesa e soprattutto un
modo per fare pressione affinché il parlamento intervenga.
Dice il sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani (Pd): «Chiedere
ai sindaci di fare gratis i presidenti delle nuove Province,
non dare loro i soldi per i bilanci e poi affibbiare loro
reati da 18 anni di reclusione, significa cadere nel
ridicolo o nel drammatico. Vorrà dire che faremo una
chiamata di correo nei confronti del ministro Pier Carlo Padoan. Prima di parlare di responsabilità bisognerebbe
almeno mettere totalmente fuori dal patto di stabilità la
manutenzione delle strade. A Ferrara si spenderanno
quest'anno 900mila euro di manutenzione ma non riusciremo
mai a riasfaltare tutti i nostri 800 chilometri».
La protesta accomuna grandi e piccole città. Aggiunge
Riccardo Szumski, sindaco di Santa Lucia di Piave (Treviso):
«Il reato di omicidio stradale è giusto concettualmente ma
si rischiano pene maggiori di un omicidio normale e si
mettono in concorrenza di responsabilità gli amministratori
comunali, penalmente responsabili di persona e non come
ente».
L'introduzione del reato di omicidio stradale era stato
salutato con unanime soddisfazione e con i proclami delle
associazioni dei consumatori. Ma era sfuggita ai più quella
parte della norma che manda in prigione i sindaci. A farli
uscire dal torpore è stata una circolare del ministero
dell'Interno che ha specificato come «non solo chi causa
l'incidente mortale alla guida di un veicolo ma anche chi
non abbia garantito la sicurezza delle strade potrà essere
accusato di omicidio stradale».
Sindaci, assessori, manager
e tecnici delle aziende incaricate sono avvisati, con l'aggravante che essendo l'omicidio un reato ascrivibile solo
alle persone e non agli enti genericamente preposti sono
loro che personalmente saranno chiamati sul banco degli
imputati. Il reato, prosegue la circolare: «ricorre in tutti
i casi di omicidio che si sono consumati sulle strade ( )
anche se il responsabile non è un conducente di veicolo e
questo perché le norme del Codice della strada disciplinano
anche i comportamenti posti a tutela della sicurezza
stradale relativi alla manutenzione e costruzione delle
strade».
Le associazioni dei consumatori ritengono sia giusto che a
pagare siano anche gli amministratori locali e quindi sono
favorevoli alla norma e non condividono la rivolta dei
sindaci. Dice Fabio Galli, presidente del Codacons: «Era ora
che venissero riconosciute le responsabilità degli enti
locali in tutti quei casi in cui il pessimo stato
dell'asfalto determina incidenti e provoca morti, d'ora in
poi se un automobilista o un motociclista muore a seguito di
un incidente provocato da una buca sull'asfalto, il gestore
risponderà personalmente del reato e la regola vale per
sindaci, amministratori e per gli stessi ingegneri
responsabili dei lavori che rischiano di finire in carcere
se non garantiranno un adeguato livello di sicurezza».
Dalla Puglia gli rispondono due sindaci foggiani,
Gianfilippo Mignogna (Biccari) e Guerino De Luca (Castelnuovo
della Daunia) che hanno firmato un documento: «Legge alla
mano, per evitare incriminazioni penali tutti i soggetti
investiti dall'obbligo di manutenere le strade dovrebbero
intensificare lavori, interventi e riparazioni. Anche
perché, nella dinamica processuale, nel gioco di legali e
periti, in un attimo si potrebbe passare dalla
responsabilità del conducente incauto, ubriaco o distratto a
quella, quantomeno concorrente, del povero (in tutti i
sensi) sindaco di turno. Ma è stato considerato che le
Amministrazioni comunali non hanno un euro per colpa,
principalmente dei tagli dei trasferimenti statali? Qualcuno
ha ricordato ai legislatori seduti sulle loro comodissime
poltrone rosse che le strade non si riparano senza soldi in
bilancio?».
C'è anche chi minaccia di chiudere le strade, come il
sindaco di Parabita (Lecce), Alfredo Cacciapaglia. In
Emilia-Romagna è addirittura il partito di Matteo Renzi ad
avere presentato una risoluzione in consiglio regionale in
cui si chiede al presidente della giunta, il pidiessino
Stefano Bonaccini di «agire, insieme al ministero
dell'Interno, per ridefinire la responsabilità degli
amministratori locali nei casi di omicidio stradale».
Infine anche l'Anci, su sollecitazione dei sindaci ha preso
ufficialmente posizione. ve l'immaginate Beppe Sala oppure
Luigi De Magistris o Virginia Raggi in manette perché un
automobilista ha sbandato per una buca?
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente assunzioni senza bilanci.
Stanziati 110 milioni per pagare le penali dei mutui.
DL ENTI/ Organici congelati per chi non approva preventivo,
rendiconto e consolidato.
Niente assunzioni senza bilanci. E arriva un fondo per il
pagamento delle penali per l'estinzione anticipata dei mutui
dei comuni. Regioni, province, città metropolitane e
municipi che non rispettano i termini previsti per
l'approvazione del preventivo, del rendiconto e del bilancio
consolidato, o che non inviano nei termini tali documenti
alla Banca dati delle pubbliche amministrazioni, non
potranno effettuare assunzioni a qualsiasi titolo e con
qualsiasi tipologia contrattuale, compresi i rapporti di
co.co.co. e di somministrazione. Anche i procedimenti di
stabilizzazione in atto saranno congelati e non sarà
possibile neppure stipulare contratti di servizio con
privati per eludere la sanzione del blocco.
Lo prevede un
emendamento del governo depositato ieri in commissione
bilancio della camera dove sono proseguiti fino a tarda
notte i lavori sul decreto enti locali (dl 113/2016) (Atto
Senato n. 2495).
I
deputati hanno dato il via libera alla costituzione di un
fondo per il pagamento delle penali per l'estinzione
anticipata dei mutui degli enti locali (si veda ItaliaOggi
del 16/7). Il Fondo avrà una dotazione di 14 mln per
quest'anno e di 48 milioni per ciascuno degli anni 2017 e
2018.
Disco verde anche all'emendamento ponte sulle concessioni
balneari, a rischio dopo la bacchettata della Corte di
giustizia Ue che ha stigmatizzato l'assenza di gare per la
selezione dei candidati. L'emendamento presentato dal
relatore al decreto legge, Antonio Misiani (Pd) prevede che
le autorizzazioni per lo svolgimento di attività
turistico-ricettive sulle coste, assegnate fino al 31.12.2020, restino in vigore fino al riordino della
materia da parte del governo. Riordino che dovrebbe essere
portato sotto forma di ddl delega in uno dei prossimi
consigli dei ministri.
«E' il primo passo verso la revisione
organica della disciplina, che terrà conto della
professionalità, dell'esperienza e dei sacrifici di chi da
anni si dedica ad attività di impresa nell'ambito del
turismo balneare», ha commentato il ministro per gli affari
regionali, Enrico Costa.
Province. Con un ulteriore emendamento del governo vengono
ripartiti gli importi dei sacrifici che province e città
metropolitane devono garantire per concorrere agli obiettivi
di finanza pubblica. Il totale resta invariato (2 miliardi
per il 2016), ma viene così suddiviso: 1,295 miliardi a
carico delle province, 504 milioni a carico delle città
metropolitane e 200 milioni a carico delle province di
Sicilia e Sardegna.
Come precisato nella relazione
illustrativa, il riparto è stato effettuato secondo una
metodologia che tiene conto della divergenza tra spesa
storica e spesa standard per le funzioni fondamentali,
nonché dei principi sanciti dalla Corte costituzionale che
con la sentenza n. 65/2016 ha sottolineato la necessità che i
tagli siano «sostenibili» e che le risorse assegnate alle
province non scendano al di sotto di una certa soglia oltre
la quale «la spesa non sarebbe ulteriormente comprimibile».
Ripartito anche l'ammontare complessivo dei 495 milioni
destinati dalla legge di stabilità 2016 (legge n. 208/2015)
al finanziamento delle spese per viabilità e edilizia
scolastica. Alle province andranno 245 milioni di euro,
mentre alle città metropolitane 250 milioni. Ripartito anche
il fondo di 39,6 milioni finalizzato al mantenimento della
situazione finanziaria corrente per il 2016.
Rateazioni fiscali. Come anticipato su ItaliaOggi del 16/7
l'emendamento di Antonio Castricone e Rocco Palese sulle
rateazioni fiscali rischia di essere spacchettato. La prima
parte, sulla riapertura delle rateazioni con Equitalia, non
incontrando ostacoli né nel concessionario unico della
riscossione né nel governo, si avvia verso una sicura
approvazione.
Discorso diverso per la seconda parte che
riguarda la possibilità di rateizzare fino a 72 rate (più
ulteriori 72) i pagamenti delle «ingiunzioni fiscali». Sul
punto ci sarà da superare le resistenze dell'Agenzia delle
entrate e del Mef per il momento orientati a esprimere
parere negativo su questo aspetto dell'emendamento.
Aiuti alle imprese cerealicole. Un emendamento del governo
aiuta le imprese cerealicole in crisi, colpite da un crollo
dei prezzi del grano e dei cereali in genere (quotazioni mai
così giù dal 2010, pari alla metà di quelle di fine 2014,
con 300 mila imprese a rischio chiusura). Le imprese che
producono frumento e affini, destinati ad alimentare capi di
bestiame, il cui latte è utilizzato per la produzione
lattiero casearia, avranno a disposizione un fondo ad hoc.
Il nuovo strumento è dichiaratamente orientato a
reintrodurre i cereali nei mangimi, col fine di aumentare la
qualità dei latticini. Il budget ammonta a 3 mln di euro per
il 2016 e 7 mln per il 2017. Gli interventi finanziati
dovranno sottostare al regime de minimis; cioè al
massimo saranno erogati 200 mila euro a impresa agricola nel
triennio
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Niente contatori di calore? Multa.
Dal 2017 il condomino non in regola paga fino a 2.500 euro.
La stretta in un dlgs varato dal Consiglio dei ministri.
Niente obbligo se non c'è beneficio.
Entro il 31.12.2016 in ogni condominio si dovrà
verificare se sussista l'obbligo di introdurre sistemi di
termoregolazione e contabilizzazione del calore e, in caso
positivo, di modificare in tal senso gli impianti di
riscaldamento esistenti. Pena l'applicazione, per chi non
rispetta l'obbligo di installare i contabilizzatori, di
multe, che andranno da 500 fino a 2.500 euro a condomino.
Salvo che non dimostrino l'impossibilità tecnica
d'installazione degli stessi o la loro inefficacia economica
attestata da una relazione tecnica a cura di un progettista
o di un tecnico abilitato.
Queste le più importanti novità
contenute nel
dlgs correttivo del dlgs n. 102/204 di
recepimento della direttiva 2012/27/Ue sull'efficienza
energetica, approvato in via definitiva dal Consiglio dei
ministri del 14 luglio scorso.
Nei condomini allacciati ad una rete di teleriscaldamento o
in cui l'impianto di riscaldamento è centralizzato è
necessario installare, entro il 31.12.2016, dei
contatori di calore sui termosifoni che ripartiscano le
spese in base al reale consumo della singola utenza. La
norma prescrive che l'importo complessivo deve essere
suddiviso tra gli utenti finali, in base alla norma tecnica
Uni 10200.
Alla prescrizione sulla suddivisione delle spese,
è però possibile derogare, se si provano, tramite apposita
relazione tecnica asseverata, differenze di fabbisogno
termico tra le unità immobiliari del condominio superiori al
50%. In questo caso, sarà possibile dividere l'importo
complessivo tra gli utenti finali attribuendo una quota di
almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari di energia
termica e suddividendo gli importi rimanenti secondo altri
metodi (millesimi, metri quadri, metri cubi o altro).
L'obbligo di installazione dei contabilizzatori di calore
non si applica quando l'installazione dello stessi non è
tecnicamente possibile, non è efficiente in termini di costi
o non è proporzionata rispetto ai risparmi energetici
potenziali. Tale impossibilità o inefficienza dovrà, però,
essere dimostrata attraverso una relazione tecnica a cura di
un progettista o di un tecnico abilitato.
Proprietario immobile.
Il proprietario di un'unità immobiliare, che non provvede a
installare sistemi di termoregolazione e contabilizzazione
del calore individuale, per misurare il consumo di calore in
corrispondenza di ciascun corpo scaldante posto all'interno
dell'unità immobiliare, è soggetto alla sanzione
amministrativa pecuniaria che va da 500 euro a 2.500 euro
per ciascuna unità immobiliare.
Tali sanzioni pecuniarie non si applicano nel caso in cui un
tecnico abilitato o un progettista attestino che
l'installazione di questi sistemi non è efficiente in
termini di costi
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Finalità e portata del principio di rotazione delle imprese
nelle procedure negoziate.
Si tratta di stabilire se l’applicazione del principio di
rotazione escluda, come ritenuto dalla stazione appaltante,
la possibilità di invitare alla procedura anche il gestore
uscente in una situazione in cui quest’ultimo ha gestito
ininterrottamente il servizio per sei anni sulla base di
successivi affidamenti.
La giurisprudenza, condivisa dal Tribunale, precisa che, nel
contesto dell’art. 125 del d.l.vo 2006 n. 163, il principio
della rotazione, “imposto con riferimento alla procedura di
cottimo fiduciario, appare concepito dal legislatore come
una contropartita o un bilanciamento” del carattere
tendenzialmente “sommario” in cui consiste questa
particolare “procedura negoziata”.
La marcata discrezionalità che connota questo tipo di
procedura è temperata da alcuni princìpi, “quali la
trasparenza (che implica il dovere di una previa
formulazione e comunicazione dei criteri della scelta, etc.)
e, appunto, la rotazione (per evitare che il carattere
discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di
favoritismo)”. In tale contesto, il principio della
rotazione va inteso “come esclusione dall’invito di un
operatore già interessato ad un rapporto contrattuale con la
stessa azienda”.
Insomma, la rotazione per essere effettiva comporta, quanto
meno, l’esclusione dall’invito di coloro che siano risultati
aggiudicatari di precedenti procedure dirette
all’assegnazione di un appalto avente lo stesso oggetto di
quello da aggiudicare, così da escludere la possibilità di
reiterati affidamenti al medesimo operatore, con
frustrazione del principio di tutela della concorrenza..
Vero è che una parte della giurisprudenza sostiene che il
principio di rotazione, in determinate circostanze tali da
escludere in concreto la possibilità di un’alterazione della
concorrenza, può essere applicato in maniera elastica, nel
senso che “un’episodica mancata applicazione del criterio
non vale ex se ad inficiare gli esiti di una gara già
espletata, una volta che questa si sia conclusa con
l'aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza
invitato a simili selezioni, tanto più quando sia
comprovato, come nel caso di specie, che la gara sia stata
effettivamente competitiva e si sia conclusa con
l'individuazione dell'offerta più vantaggiosa per la
stazione appaltante", tuttavia nel caso di specie non
sussistono queste peculiari condizioni.
---------------
... per l’annullamento
1) quanto al ricorso principale:
- del provvedimento prot. n. 5289 del 10.07.2015 con cui
l’amministrazione ha negato a Si. la partecipazione alla
procedura negoziata per l'affidamento dell'appalto relativo
al servizio di preparazione pasti e "servizi ausiliari"
presso l'asilo nido per gli anni 2015/2016 e 2016/2017 (CIG
630 I 089FIF);
- di tutti gli atti antecedenti e conseguenti comunque
connessi o presupposti, tra cui il provvedimento prot. n.
5572/2015 del 21/07/2015, la lettera di invito, la
determinazione a contrarre n. 12/2015, il verbale della gara
negoziata del 14/07/2015, l'aggiudicazione provvisoria
approvata con determina dirigenziale n. 18 del 22/07/2015,
l'aggiudicazione definitiva;
- nonché per la dichiarazione di inefficacia del contratto;
- nonché per la condanna della stazione appaltante al
risarcimento del danno;
...
3) Deve essere esaminata per prima, in ragione della sua
priorità logica e giuridica, la censura –formulata con il
ricorso principale e ribadita nei ricorsi per motivi
aggiunti– con la quale Si. lamenta l’erronea applicazione
del principio di rotazione, evidenziando come, a seguito
della presentazione della richiesta di essere invitata a
partecipare alla gara, la stazione appaltante avrebbe dovuto
invitarla e consentirle di partecipare, nonostante fosse il
gestore uscente.
La precedenza logica e giuridica della doglianza deriva dal
fatto che, solo in caso di sua fondatezza, è configurabile
l’interesse di Si. a contestare gli atti successivi della
procedura e a formulare ulteriori censure relative alle
concrete modalità di svolgimento della gara -modalità
successive alla fase della trasmissione delle lettere di
invito e di ammissione delle offerte- mentre, qualora la
contestazione risulti infondata, Si. non sarebbe titolare di
un interesse concreto ed attuale a contestare le modalità di
conduzione della gara, trattandosi di una procedura cui non
avrebbe comunque potuto partecipare.
La censura proposta non può essere condivisa.
Sul piano fattuale va evidenziato che, dalla documentazione
prodotta in giudizio e senza alcuna contestazione, emerge
che la ricorrente ha gestito ininterrottamente il servizio
di cui si tratta in ciascuno degli anni scolastici compresi
tra il 2009 e il 2015, sulla base di successive procedure di
cottimo fiduciario, via via indette dal comune resistente.
Sul piano giuridico va, invece, ribadito, come già precisato
in sede cautelare, che l’appalto di cui si tratta, oltre ad
essere di valore inferiore alla soglia di rilevanza
comunitaria, rientra tra quelli compresi nell’allegato IIb
del codice degli appalti, sicché ad esso sono riferibili, ai
sensi dell’art. 20 del d.l.vo 2006 n. 163, i principi
relativi alla disciplina degli appalti pubblici, oltre che
le disposizione degli artt. 65, 68 e 225 del d.l.vo 2006 n.
163.
La stazione appaltante, in esercizio del potere
discrezionale di cui dispone nella scelta del tipo di gara
da effettuare e tenuto conto del valore dell’appalto, ha
deciso di procedere mediante cottimo fiduciario, secondo i
principi dell’art. 125 del d.l.vo n. 163/2006.
Tale disposizione prevede testualmente che l’aggiudicazione
mediante “cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei
principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento,
previa consultazione di almeno cinque operatori economici,
se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati
sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di
operatori economici predisposti dalla stazione appaltante…”.
L’amministrazione ha rispettato la previsione normativa
nella parte in cui stabilisce i principi che governano la
procedura del cottimo fiduciario -peraltro reiteratamente
applicata anche negli anni precedenti con aggiudicazione
alla ricorrente del servizio di cui si tratta– atteso che la
gara rientra nei limiti di valore previsti, sono stati
invitati a partecipare almeno cinque operatori del settore
ed è stata prevista l’applicazione dei principi suindicati,
tra i quali quello della rotazione.
Si tratta, allora, di stabilire se l’applicazione del
principio di rotazione escluda, come ritenuto dalla stazione
appaltante, la possibilità di invitare alla procedura anche
il gestore uscente in una situazione in cui quest’ultimo ha
gestito ininterrottamente il servizio per sei anni sulla
base di successivi affidamenti.
La giurisprudenza, condivisa dal Tribunale, precisa che, nel
contesto dell’art. 125 del d.l.vo 2006 n. 163, il principio
della rotazione, “imposto con riferimento alla procedura
di cottimo fiduciario, appare concepito dal legislatore come
una contropartita o un bilanciamento” del carattere
tendenzialmente “sommario” in cui consiste questa
particolare “procedura negoziata”. La marcata
discrezionalità che connota questo tipo di procedura è
temperata da alcuni princìpi, “quali la trasparenza (che
implica il dovere di una previa formulazione e comunicazione
dei criteri della scelta, etc.) e, appunto, la rotazione
(per evitare che il carattere discrezionale della scelta si
traduca in uno strumento di favoritismo)”. In tale
contesto, il principio della rotazione va inteso “come
esclusione dall’invito di un operatore già interessato ad un
rapporto contrattuale con la stessa azienda” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. III, 12.09.2014, n. 4661; Consiglio
di Stato, sez. V, 16.01.2015, n. 65; Consiglio di Stato,
sez. V, 25.02.2016, n. 760).
Insomma, la rotazione per essere effettiva comporta, quanto
meno, l’esclusione dall’invito di coloro che siano risultati
aggiudicatari di precedenti procedure dirette
all’assegnazione di un appalto avente lo stesso oggetto di
quello da aggiudicare, così da escludere la possibilità di
reiterati affidamenti al medesimo operatore, con
frustrazione del principio di tutela della concorrenza (in
argomento TAR Lazio Roma, sez. III, 19.11.2012, n. 9506).
Vero è che una parte della giurisprudenza sostiene che il
principio di rotazione, in determinate circostanze tali da
escludere in concreto la possibilità di un’alterazione della
concorrenza, può essere applicato in maniera elastica, nel
senso che “un’episodica mancata applicazione del criterio
non vale ex se ad inficiare gli esiti di una gara già
espletata, una volta che questa si sia conclusa con
l'aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza
invitato a simili selezioni, tanto più quando sia
comprovato, come nel caso di specie, che la gara sia stata
effettivamente competitiva e si sia conclusa con
l'individuazione dell'offerta più vantaggiosa per la
stazione appaltante" (Consiglio di Stato, sez. VI,
28.12.2011, n. 6906), tuttavia nel caso di specie non
sussistono queste peculiari condizioni.
E’ dirimente la circostanza che la ricorrente abbia gestito
per sei anni scolastici consecutivi il servizio, ottenendo
sei successivi affidamenti del medesimo appalto e sono
proprio queste circostanze a dimostrare come, nel caso
concreto, la salvaguardia del principio di concorrenza
impone un’applicazione rigorosa del criterio della
rotazione, applicazione cui si sono uniformate le
determinazioni comunali impugnate.
In definitiva, la decisione –espressa con il provvedimento
dell’amministrazione n. 5289 del 10.07.2015, oggetto del
ricorso principale- di non invitare alla gara la ricorrente
è la conseguenza di un’applicazione del principio di
rotazione coerente con l’interpretazione giurisprudenziale
suindicata e funzionale alla tutela dei principio generale
della concorrenza, cui soggiace anche l’assegnazione del
servizio de qua.
Va, pertanto, ribadita l’infondatezza della censura in esame
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.08.2016 n. 1594 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il lavoratore deve verificare l’invio del certificato di
malattia.
Cassazione. Va chiesto il relativo codice al medico.
Rientra tra
gli obblighi del dipendente, assente dal lavoro per
malattia, non solo avvisare tempestivamente il datore di
lavoro in merito alla propria assenza, ma anche verificare
che la procedura telematica di trasmissione del certificato
di malattia all’Inps da parte del medico curante sia
avvenuta correttamente. In mancanza di questo adempimento,
laddove sia emerso che l’Inps non ha ricevuto il certificato
di malattia e che, quindi, il datore di lavoro non abbia
potuto effettuare il relativo controllo, risulta pienamente
legittimo il licenziamento disciplinare intimato per una
prolungata assenza ingiustificata.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha espresso questo principio con la
sentenza
22.07.2016 n. 15226, nella quale è stato precisato che il
lavoratore è esonerato dall’obbligo di inviare il
certificato di malattia in forma cartacea, in quanto questa
incombenza è stata sostituita dalla trasmissione telematica
all’Inps da parte del medico curante, ma non dall’obbligo di
accertarsi che la procedura informatica abbia avuto esito
regolare, eventualmente richiedendo il numero di protocollo
telematico che identifica il certificato di malattia.
Mentre in passato era onere del lavoratore consegnare in
azienda il certificato di malattia rilasciato dal medico
curante entro il termine fissato dal contratto collettivo
applicato nell’impresa (per esempio 48 ore dall’insorgenza
dello stato morboso), oggi la trasmissione avviene
direttamente da parte del medico mediante invio telematico
all’Inps. La difesa del dipendente ha valorizzato questo
mutato scenario per concludere che il dipendente era esente
da censura rispetto alla mancata trasmissione dell’attestato
medico di assenza per malattia.
La Corte d’appello di Cagliari non è stata dello stesso
avviso, ritenendo legittimo il licenziamento per assenza
ingiustificata oltre i quattro giorni lavorativi, sul
duplice presupposto, da un lato, che il dipendente non ha
avvisato l’azienda della sua assenza e, d’altro lato, che è
preciso onere del lavoratore accertarsi che la trasmissione
informatica all’Inps del certificato di malattia da parte
del medico curante sia avvenuta regolarmente.
La gravità sul piano disciplinare dell’assenza
ingiustificata è confermata dal fatto che il dipendente,
dopo il periodo iniziale di assenza ingiustificata (30
agosto - 07.09.2012), in relazione al quale non è
avvenuta la trasmissione telematica del certificato, ha
giustificato la continuazione della malattia per un
ulteriore periodo (fino al 30 settembre) sulla base di un
certificato medico redatto il 14 settembre.
La Corte territoriale ha ritenuto privo di valore il
certificato, in quanto attestante retroattivamente uno stato
di malattia insorto svariati giorni prima della visita del
medico curante. Si è ritenuta, in questo senso,
l’irregolarità della certificazione retroattiva sull’assunto
che il medico non può validamente certificare stati morbosi
preesistenti che non siano stati accertati direttamente,
bensì unicamente riferiti dal paziente.
La Corte di cassazione fa proprie le conclusioni maturate
nel giudizio di merito e conferma, in particolare, che la
richiesta al medico di emettere il certificato non esaurisce
l’obbligo di diligenza cui è tenuto il lavoratore, in quanto
il dipendente ha l’onere di controllare che il medico abbia
effettivamente adottato la procedura informatica di
trasmissione all’Inps, se del caso richiedendo il numero di
protocollo telematico identificativo (articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2016).
---------------
MASSIMA
2.4. E' infondato anche il quarto motivo.
La Corte ha osservato che la massima sanzione era
legittimata dalle previsioni della contrattazione
collettiva, che la ricollega all'assenza ingiustificata
protratta oltre i 4 giorni consecutivi.
Nella valutazione complessiva della gravità dell'addebito in
rapporto alla personalità della lavoratrice, operando il
necessario giudizio di adeguatezza della sanzione, di
competenza del giudice di merito, ha valutato poi le
ulteriori circostanze contestuali e successive al fatto
contestato, traendone conferma della gravità della mancanza.
2.5. Anche il quinto motivo è infondato.
La Corte
ha valutato la deposizione della dott.ssa Ba.,
contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ma
ha ritenuto che l'avere richiesto al medico il
certificato non esaurisse l'obbligo di diligenza della
lavoratrice, considerato che restano comunque fermi
l'obbligo contrattualmente previsto del lavoratore di
segnalare tempestivamente al datare di lavoro la propria
assenza e l'onere di controllare l'effettivo azionamento da
parte del medico della procedura di trasmissione telematica
del certificato, anche eventualmente richiedendo il numero
di protocollo telematica identificativo del
certificato/attestato di malattia.
Il motivo patrocina pertanto una rivalutazione del merito
della causa, sulla base delle stesse risultanze già valutate
dalla Corte territoriale, non consentita in sede di
legittimità, specie considerato che al presente giudizio si
applica ratione temporis la formulazione dell'art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c. introdotta dall'art. 54 del D.L.
22.06.2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L.
07.08.2012, n. 134, che ha ridotto al "minimo
costituzionale" il sindacato di legittimità sulla
motivazione, nel senso chiarito dalle Sezioni Unite con la
sentenza n. 8053 del 2014. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Processo
amministrativo, i termini sono perentori.
I termini previsti dall'art. 73 comma 1, cod. proc. amm. per
il deposito in giudizio di documenti (fino a 40 giorni
liberi prima dell'udienza) sono perentori e, in quanto tali,
non possono essere superati neanche ove sussistesse accordo
delle parti.
È quanto ribadito dai giudici della VI Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza
18.07.2016 n. 3192.
I giudici di palazzo Spada hanno, altresì, osservato che il
deposito tardivo di memorie e documenti è ammesso in via del
tutto eccezionale nei soli casi di dimostrazione
dell'estrema difficoltà di produrre l'atto nei termini di
legge, siccome previsto dall'art. 54 comma 1, dello stesso
cod. proc. amm..
Ed inoltre, si è preliminarmente evidenziato nella sentenza
in commento come la disciplina della produzione documentale
nel processo amministrativo risulti essere espressamente
prevista dagli articoli 73, comma 1, e 54, comma 1, c.p.a.:
«Le parti possono produrre documenti fino a 40 giorni
liberi prima dell'udienza, memorie fino a 30 giorni liberi e
presentare repliche, ai nuovi documenti e alle nuove memorie
depositate in vista dell'udienza, fino a venti giorni liberi»;
e «la presentazione tardiva di memorie o documenti può
essere eccezionalmente autorizzata, su richiesta di parte,
dal collegio, assicurando comunque il pieno rispetto del
diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti,
qualora la produzione nel termine di legge sia risultata
estremamente difficile»
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).
---------------
MASSIMA
3. Il Collegio ritiene che l’appello sia fondato e vada
accolto con riferimento, in via decisiva e assorbente, al
primo motivo di appello, con il quale è stata dedotta la
lesione del diritto di difesa e la violazione del principio
del contraddittorio, in relazione al disposto di cui
all’art. 73, comma 1, del cod. proc. amm., con la
conseguente riforma della sentenza impugnata e il rinvio
della causa al giudice di primo grado ai sensi dell’art.
105, comma 1, del cod. proc. amm. affinché il Tar si
pronunci nuovamente sul ricorso garantendo il pieno rispetto
del contraddittorio, previa riassunzione del processo con le
modalità e nei termini stabiliti dal cod. proc. amm..
In via preliminare e in termini generali va rammentato che
la disciplina della produzione documentale nel processo
amministrativo è prevista dagli articoli 73, comma 1, e 54,
comma 1, c.p.a.: “Le parti possono produrre documenti
fino a quaranta giorni liberi prima dell'udienza, memorie
fino a trenta giorni liberi e presentare repliche, ai nuovi
documenti e alle nuove memorie depositate in vista
dell'udienza, fino a venti giorni liberi”; e “la
presentazione tardiva di memorie o documenti può essere
eccezionalmente autorizzata, su richiesta di parte, dal
collegio, assicurando comunque il pieno rispetto del diritto
delle controparti al contraddittorio su tali atti, qualora
la produzione nel termine di legge sia risultata
estremamente difficile”.
Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha
puntualizzato che “i termini previsti
dall'art. 73, comma 1, cod. proc. amm. per il deposito in
giudizio di documenti (fino a quaranta giorni liberi prima
dell'udienza) sono perentori e, in quanto tali, non possono
essere superati neanche ove sussistesse accordo delle parti,
essendo il deposito tardivo di memorie e documenti ammesso
in via del tutto eccezionale nei soli casi di dimostrazione
dell'estrema difficoltà di produrre l'atto nei termini di
legge, siccome previsto dall'art. 54 comma 1, dello stesso
cod. proc. amm.”
(Cons. Stato, sez IV, n. 916 del 2013); comunque, “nel
caso di produzione fuori termine da parte
dell'Amministrazione di documenti che, attenendo alla causa,
possono essere acquisiti d'ufficio dal giudice, tali
documenti possono essere trattenuti, ma fatta salva la
facoltà dell'interessato di chiedere termini per
controdedurre”
(così Cons. Stato, sez. III, n. 6129 del 2012; inoltre, sul
carattere perentorio del termine di 40 e di 30 giorni liberi
prima dell’udienza, per produrre documenti e per depositare
memorie v. anche Cons. Stato, III, n. 1335 del 2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
parere della Soprintendenza ex artt. 146 e 167 dlgs 42/2004.
L'evoluzione normativa, che ha
trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di
cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del
termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo
potere può e deve essere adottato”, osservando che
“nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello
pregresso basato su una relazione di controllo e quello
attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del
vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato
punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante
a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
– (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo
costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e
la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i
richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro
ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso
tempo certo e non superabile.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto
dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito
della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi
privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo
di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi,
peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca
comunque tout court l’espressione, affermando che “un
siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato”.
---------------
Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
Soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l’amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”.
Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a
seguito del decorso del più volte richiamato termine per
l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da
parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in
assoluto privato della possibilità di rendere un parere;
tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio
valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo.
Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria.
---------------
Ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla
possibilità per l’amministrazione statale di rendere il
parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla
perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente
obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del
titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione,
valgano anche per l’analoga fattispecie del parere
soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo
della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n.
42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del
vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione
(postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo
parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un
termine perentorio.
Pertanto, deve essere condivisa la pronuncia del giudice di
primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di
mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione
amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e
di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti
o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza
del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto
anche oltre il termine perentorio e dal dovere
dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia
esserne vincolata….”.
---------------
L’appello non è meritevole di favorevole considerazione alla
luce della più recente giurisprudenza della Sezione, che è
condivisa dal Collegio (cfr. Cons. Stato, VI, 15.03.2013, n.
1561; sez. VI, 28.10.2015, n. 4927).
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione
normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha
inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto
di esercizio del relativo potere può e deve essere
adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli
normativi (quello pregresso basato su una relazione di
controllo e quello attuale basato su un modello di
sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha
inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
-
(da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a
un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
– (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in
massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti
giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere
esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine
certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non
superabile”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto
dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito
della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi
privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo
di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi,
peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca
comunque tout court l’espressione, affermando che “un
siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra
l’altro, le seguenti considerazioni:
“Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
Soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l’amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”.
Sussiste, quindi, un univoco
indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più
volte richiamato termine per l’espressione del parere
vincolante (rectius, conforme) da parte della
Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto
privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il
parere in tal modo espresso perderà il proprio valore
vincolante e dovrà essere autonomamente valutato
dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del
resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente
l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in
tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici,
una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la
possibilità per l’organo statale di incidere attraverso
l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda
autorizzatoria”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi,
relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di
rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge
ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con
conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al
rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata
valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del
parere soprintendentizio reso in materia di accertamento
postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n.
42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del
vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione
(postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo
parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un
termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve,
pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo
grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra
le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate
con la perentorietà del termine, e di valutazione degli
specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è
costituito, quindi, dalla permanenza del potere del
Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il
termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di
tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il
termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs.
n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale
amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non
poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il
parere negativo della soprintendenza, ma doveva,
eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto
espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo
era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla
legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato
difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale
il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di
accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime
semplicemente la doverosità del diniego a seguito del
carattere vincolante del parere e non anche una autonoma
valutazione dello stesso anche in termini di condivisione (l’atto di diniego n. 3/2014 del
04.04.2014 così recita:
“Ritenuto di non provvedere al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, atteso che il parere della
stessa Soprintendenza è vincolante per la definizione della
proposta in questione”).
In conclusione, pertanto, l’appello proposto dal Ministero
deve essere rigettato, con conseguente conferma della
sentenza appellata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.07.2016 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Autovelox non tarato, le sanzioni in soffitta.
Niente infrazioni se l'autovelox non è a norma.
La
sospensione della patente e il pagamento della sanzione per
eccesso di velocità sono annullati se i misuratori degli
autovelox non vengono calibrati, come stabilito venerdì
scorso dalla II Sez. civile della Corte di Cassazione con
sentenza
15.07.2016 n. 14543, che ha accolto il ricorso di un
automobilista romano per le presunte infrazioni commesse a
Vigevano, nella provincia di Pavia.
La vicenda risale al
2012 quando il Tribunale della cittadina pavese respinse il
ricorso dell'automobilista Gi.An., che
riteneva malfunzionanti le apparecchiature di rilevamento
della velocità ed eccessivo il chilometraggio orario
rilevato.
Ma i giudici di piazza Cavour, come riferito da
Studio Cataldi, hanno ritenuti illegittimi sia il verbale
notificato che la sospensione della patente perché gli
autovelox non sono stati periodicamente calibrati. Con
questa decisione la Consulta ha ricordato la sentenza
113/2015, in cui dichiarava illegittimo l'articolo 45 del
Codice della strada che prevede l'omologazione o il
certificato di conformità per attestare il corretto
funzionamento dell'autovelox, escludendo quindi la sua
taratura periodica.
«Con il motivo in esame viene in sostanza riproposta»,
spiegano i giudici, «la nota questione della necessaria e
obbligatoria taratura cui devono essere sottoposti tutti gli
strumenti di misurazione e accertamento della velocità».
La mancata calibratura periodica degli autovelox, spiegano
gli Ermellini, porterebbe ad un risultato paradossale in cui
«una qualunque bilancia di un mercato rionale è soggetta a
periodica verifica della taratura, nel mentre non lo è una
complessa apparecchiatura, come quella per la verifica della
velocità, che svolge un accertamento irrepetibile e fonte di
gravi conseguenze per il cittadino proprietario e/o
conducente di veicolo».
In conclusione i porporati hanno aggiunto che «deve
ritenersi affermato il principio che tutte le
apparecchiature di misurazione della velocità devono essere
periodicamente tarate e verificate nel loro corretto
funzionamento, che non può essere dimostrato o attestato con
altri mezzi quali le certificazioni di omologazione e
conformità»
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Parcelle, non serve nota spese. Per dimostrare
che il compenso è al di sotto dei minimi. AVVOCATI/ Per la
Cassazione è sufficiente descrivere in modo succinto le
prestazioni.
Nel caso in cui a un avvocato vengano liquidati compensi al
di sotto dei minimi, per verificare tale violazione in
appello non sarà necessario produrre la nota spese.
Lo hanno stabilito i giudici della VI-2 Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
13.07.2016 n. 14342.
Nel processo di appello del caso sottoposto all'attenzione
dei giudici di piazza Cavour, il giudice si era espresso in
questi termini: «la parte appellante non produce alcuna nota
spese e non specifica le voci e gli importi considerati in
ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in
onore (...) tale difetto vale a giustificare la statuizione
di inammissibilità dell'appello, in ragione della inidoneità
delle censure a consentire, comunque, la rideterminazione
dei compensi professionali».
Gli Ermellini hanno, quindi,
osservato come dal punto di vista sostanziale l'avvocato che
si era rivolto alla Cassazione si era doluto con l'appello
dell'evidente inadeguatezza della liquidazione delle spese
operata dal primo giudice, effettuata globalmente e
palesemente al di sotto dei minimi tariffari applicabili.
Pertanto, a parere dei giudici della suprema corte,
dall'evidenza di tali doglianze sarebbe stato possibile
consentire all'appellante di «prospettare le censure in
termini sintetici, senza ulteriormente dettagliare le
attività svolte, avendo sufficientemente descritto nello
svolgimento del processo (risultante comunque dagli atti),
le attività che necessariamente erano state espletate per
giungere alla pronuncia della sentenza di primo grado».
Inoltre, nel caso di specie, tutte le indicazioni necessarie
per individuare il valore della causa erano state fornite
dall'avvocato in sede di appello, ed era apparso chiaro come
la selezione della tariffa professionale applicabile (e dei
relativi importi quanto meno nella loro misura minima) fosse
attuabile in modo del tutto agevole attraverso il tipo di
controversia e le date di inizio e di fine del giudizio.
Né, secondo i giudici della Cassazione, era necessario
depositare una nota spese, che avrebbe invece imposto al
giudice di operare l'ulteriore analitico esame di tutte le
voci esposte. Pertanto, gli Ermellini hanno concluso
osservando che il giudice d'appello, a fronte di censure che
in sintesi indicavano la liquidazione effettuata al di sotto
dei minimi e in modo largamente insufficiente, avrebbe
dovuto verificare se, applicando i minimi inderogabili alle
attività necessariamente svolte per l'espletamento della
causa, sussistesse o meno la violazione indicata.
Qualora la verifica avesse dato esito positivo (in pratica
la violazione dei minimi inderogabili) e in assenza di
notula lo stesso giudici di appello avrebbe poi dovuto
procedere ad una liquidazione secondo tariffa e con riguardo
alle attività effettivamente e necessariamente svolte con
esclusione di tutte le altre non documentate (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
APPALTI: Controllore-controllato,
il rapporto va provato. Per
escludere le imprese dalle gare.
La situazione di controllo di una impresa su di un'altra può
integrare la presunzione di un unico centro decisionale e
quindi legittimare l'esclusione dalla gara delle imprese che
si trovino in tale rapporto, ma deve essere riconosciuta la
possibilità di prova contraria.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V,
con la
sentenza 11.07.2016 n. 3057 che riprende la
tematica del collegamento sostanziale al fine di definire i
casi di imputazione ad un unico centro decisionale.
La sentenza richiama la decisione del 19.05.2009, in
C-538/10, della Corte di giustizia europea che precisò che
«la semplice constatazione dell'esistenza di un rapporto di
controllo tra le imprese considerate, risultante
dall'assetto proprietario o dal numero dei diritti di voto
che possono esercitarsi nelle assemblee ordinarie, non è
sufficiente affinché l'amministrazione aggiudicatrice possa
escludere automaticamente tali imprese dalla procedura di
aggiudicazione dell'appalto, senza verificare se un tale
rapporto abbia avuto un impatto concreto sul loro rispettivo
comportamento nell'ambito di questa procedura».
Nel nostro
ordinamento in caso di controllo societario ai sensi
dell'art. 2359 codice civile., vige una presunzione legale
di collegamento ai sensi della lettera m-quater dell'art. 38
dlgs n. 163 del 2006 (oggi lettera m del comma 5
dell'articolo 80 del decreto 50/2016).
Pertanto i giudici escludono che la concreta incidenza delle
offerte concordate sull'esito della selezione costituisca un
elemento strutturale dell'ipotesi prefigurata dal
legislatore (controllo societario).
Per i magistrati la formulazione della norma integra una
ipotesi di pericolo presunto e l'influenza determinante
sull'individuazione della migliore offerta non è nella
disponibilità delle imprese sostanzialmente collegate, ma
dipende da variabili indipendenti rispetto alla loro
volontà, quali in particolare il numero delle partecipanti e
l'entità dei ribassi, comunque non idonee ad elidere il
disvalore della condotta volta ad alterare la competizione.
Si tratta quindi di una presunzione iuris tantum di unicità
del centro decisionale, suscettibile di prova contraria
(articolo ItaliaOggi del 29.07.2016).
---------------
MASSIMA
9. Tutto ciò precisato in fatto, va ricordato, in
diritto, che questa Sezione ha recentemente affermato che
è
legittimo il provvedimento di esclusione da una procedura di
gara per collegamento sostanziale dedotto da una pluralità
di indici, consistenti in legami parentali dei rispettivi
rappresentanti, nell’analogia nelle modalità di
presentazione delle offerte e nella coincidenza tra sedi o
residenze dei titolari delle due diverse imprese
(sentenza 02.05.2013 n. 2397).
Quella ora citata costituisce solo
l’ultima pronuncia di un filone giurisprudenziale ormai
consolidato, del quale vanno ricordate in particolare le
decisioni della VI Sezione di questo Consiglio di Stato, 22.02.2013, n. 1091 ed
08.05.2012, n. 2657).
10. Erra inoltre il Tribunale amministrativo a ritenere
necessario, a fronte del sospetto di collegamento
sostanziale, il sub-procedimento di verifica in
contraddittorio con le imprese interessate.
Infatti, in contrario l’amministrazione appellante rileva in
modo condivisibile che, anche alla luce dell’assenza di
deduzioni sul punto da parte dell’impresa ricorrente in
primo grado, l’esito di tale sub-procedimento non avrebbe
potuto condurre ad un esito diverso dall’espulsione delle
due imprese. Da questa visuale, nel caso di specie si può
quindi ravvisare al più una violazione procedimentale non
invalidante ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, primo
periodo, l. 07.08.1990, n. 241.
11. Peraltro, come già affermato da questa Sezione nella
sentenza 15.05.2013, n. 2631, sopra richiamata, nella
decisione del 19.05.2009, in C-538/10,
la Corte di
Giustizia delle Comunità europee ha affermato non la
necessità di assicurare il contraddittorio in relazione ad
una fattispecie di imprese in collegamento sostanziale, ma
in un caso di controllo societario ai sensi dell’art. 2359
Cod. civ., per il quale vige una presunzione legale di
collegamento ai sensi della più volte citata lettera m-quater dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
Al riguardo,
il giudice comunitario precisò che
il principio di
proporzionalità impone di «accertare se il rapporto di
controllo in questione abbia esercitato un’influenza sul
contenuto delle rispettive offerte depositate dalle imprese
interessate nell’ambito di una stessa procedura di
aggiudicazione pubblica» (§ 32). Ciò è ulteriormente
chiarito nel seguente passaggio (del medesimo § 32): «la
semplice constatazione dell’esistenza di un rapporto di
controllo tra le imprese considerate, risultante
dall’assetto proprietario o dal numero dei diritti di voto
che possono esercitarsi nelle assemblee ordinarie, non è
sufficiente affinché l’amministrazione aggiudicatrice possa
escludere automaticamente tali imprese dalla procedura di
aggiudicazione dell’appalto, senza verificare se un tale
rapporto abbia avuto un impatto concreto sul loro rispettivo
comportamento nell’ambito di questa procedura».
12. Per contro, l’accertamento della diversa fattispecie del
collegamento sostanziale avviene necessariamente in concreto
ed in relazione alla singola procedura tra due imprese anche
formalmente estranee.
Quindi, sotto questo fondamentale profilo la fattispecie
oggetto del presente giudizio si distingue dal controllo
societario, il quale si fonda invece sul dato formale e
generale del legame partecipativo; ma –alla luce dei
principi affermati da quella sentenza della Corte di
giustizia– non esclude che da esso nessun pregiudizio sia
derivato per l’inderogabile principio di segretezza delle
offerte.
Il principio di diritto ricavabile dalla sentenza della
Corte di giustizia in esame è in altri termini quello
secondo cui
il controllo societario può integrare un
presunzione iuris tantum di unicità del centro decisionale,
suscettibile di prova contraria
(in questa linea cfr. le
citate pronunce della Sezione VI di questo Consiglio di
Stato 22.02.2013, n. 1091 ed 08.05.2012, n. 2657).
13. Al contrario, l’accertamento in questione è basato su
una valutazione svolta in concreto sulla pluralità di
elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, di cui si è
detto sopra, e non è stato affatto contestato dall’impresa
ricorrente in questo giudizio.
14. Meritevole di censura è anche il capo della sentenza di
primo grado che dall’obbligo, sancito dall’art. 38, comma 2,
ultimo inciso, del Codice dei contratti pubblici, di
comminare l’esclusione di imprese in collegamento
sostanziale solo dopo l’apertura delle buste contenenti
l’offerta economica, ha desunto che dovesse verificarsi in
concreto l’incidenza delle stesse offerte sull’esito della
gara.
Innanzitutto, come correttamente osserva il Comune di
Milano, tale incidenza è nel caso di specie pienamente
sussistente. Essa deriva dall’adozione del criterio
selettivo del massimo ribasso e dal conseguente calcolo
della soglia di anomalia attraverso la media aritmetica dei
ribassi presentati.
Inoltre, la stessa incidenza non è esclusa dalla
circostanza, che qui non ricorre, che i ribassi offerti
dalle due imprese sospettate di collegamento sostanziale si
sono collocati sulle “ali” escluse dal suddetto calcolo.
15. Sotto un diverso profilo, l’assunto del Tribunale
amministrativo trascura che la funzione svolta dalla
previsione di cui al citato art. 38, comma 2, è di
assicurare che l’accertamento del collegamento sostanziale
avvenga sulla base di un quadro probatorio concreto e
puntuale, tale per cui l’ipotesi l’iniziale di sospetto
collegamento possa essere eventualmente smentito dalla
presentazione di due offerte economiche del tutto
divergenti, da ciò potendosi inferire l’assenza di vulnus al
principio di segretezza.
16. La medesima deduzione della sentenza di primo grado
conduce infine ad esiti sproporzionati, sotto il profilo
dell’aggravio procedimentale, rispetto all’esigenza di non
precludere la partecipazione ad imprese che in concreto non
abbiano concordato l’offerta da presentare in sede di gara.
17. Del resto, come di recente specificato da questa V
Sezione (sentenza 01.08.2015, n. 3772),
la fattispecie
prevista dalla più volte citata lett. m-quater dell’art. 38
del Codice dei contratti pubblici è caratterizzata come un
“pericolo presunto” (con una terminologia di derivazione
penalistica), coerentemente con la sua funzione di garanzia
di ordine preventivo rispetto al superiore interesse alla
genuinità della competizione che si attua mediante le
procedure ad evidenza pubblica.
Pertanto,
si deve escludere
che la concreta incidenza delle offerte concordate
sull’esito della selezione costituisca un elemento
strutturale dell’ipotesi prefigurata dal legislatore, tant’è
vero che la formulazione della norma non autorizza una
simile lettura ed in ogni caso, l’influenza determinante
sull’individuazione della migliore offerta non è nella
disponibilità delle imprese sostanzialmente collegate, ma
dipende da variabili indipendenti rispetto alla loro
volontà, quali in particolare il numero delle partecipanti e
l’entità dei ribassi, comunque non idonee ad elidere il
disvalore della condotta volta ad alterare la competizione.
18. Alla luce di tutto quanto finora rilevato legittimamente
il Comune di Milano ha escluso l’Im.Co.Ed.
di Li.Ge. e la Ed.Tr.El.Co.Ge.
per sostanziale collegamento.
19.
Del pari legittima, in forza della sottoscrizione del
Patto di Integrità allegato al capitolato speciale da parte
delle imprese,
è l’escussione della cauzione provvisoria e
la segnalazione all’Autorità di Vigilanza sui contratti
pubblici
(in termini: Cons. Stato, V, 09.09.2011, n.
5066).
A questo specifico riguardo, ed a confutazione del motivo di
ricorso riproposto dall’impresa appellata in questa sede ai
sensi dell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., la citata
pronuncia di questa Sezione ha chiarito che
in virtù della
stipula del citato patto l’incameramento della cauzione
costituisce un rimedio a fronte di un inadempimento
contrattuale, e precisamente, nel caso di specie,
dell’impegno assunto dall’impresa partecipante alla gara di
non falsare la concorrenza. Ne consegue che, al di là della
formulazione letterale della clausola, l’accertata
violazione dell’impegno legittima di per sé l’adozione del
rimedio, senza necessità di esternare a sostegno dello
stesso alcuna motivazione. Questa si addice infatti ad
un’attività provvedimentale nel quale vengano in rilievo
interessi contrapposti da contemperare e non già quando solo
si reagisca all’altrui inadempimento di obblighi pattizi.
20. Pertanto, in accoglimento dell’appello ed in riforma
della sentenza di primo grado, deve essere respinto il
ricorso colà proposto. Le spese del doppio grado di giudizio
seguono la soccombenza nei rapporti tra il Comune e
l’impresa originaria ricorrente e sono liquidate in
dispositivo. Nei rapporti tra l’amministrazione appellante e
l’ANAC deve invece essere disposta la compensazione, non
essendo ravvisabile alcuna soccombenza. |
APPALTI SERVIZI: Ammissione
a gara, conta la sentenza in giudicato.
«Sleale». È estromessa dalla gara per l'aggiudicazione di un
servizio pubblico l'azienda che in passato risulta
«pizzicata» in una vicenda di appalto di mera manodopera,
vietato dalla legge. E benché i dirigenti della società
siano stati assolti in sede penale dall'accusa di
interposizione fittizia. Ciò che conta è la sentenza civile
passata in giudicato che accerta come l'impresa in passato
abbia utilizzato una società schermo per risparmiare sui
contributi previdenziali: si tratta infatti di una
«violazione grave» che legittima l'esclusione dalla
procedura di appalto della società che oggi si candida a
gestire lo scuolabus del Comune.
È quanto emerge dalla
sentenza
07.07.2016 n. 956 del TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II.
Colpa professionale
Deve rassegnarsi la compagnia dei bus: sarà un concorrente
ad accompagnare i bambini a scuola la mattina nel territorio
interessato dal bando. E ciò perché alcuni lavoratori sono
riusciti a far dichiarare la sussistenza di un rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato con l'azienda:
nella gestione di alcune linee di trasporto pubblico locale
si è scoperta una somministrazione di manodopera vietata
tramite due società schermo.
L'assoluzione in sede penale non è decisiva perché il
procedimento riguardava fatti almeno in parte diversi.
Legittima l'estromissione decisa per «grave errore
professionale»: il ricorso all'appalto di manodopera
consente di utilizzare i lavoratori come propri dipendenti
senza riconoscere loro il trattamento economico più
favorevole che sarebbe dovuto
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).
---------------
MASSIMA
Rilevato:
- che la ricorrente AP.Es. S.p.a. contesta in questa sede il
provvedimento, meglio indicato in epigrafe, con il quale è
stata esclusa dalla procedura indetta dal Comune di
Roverbella come bando 11.04.2016 prot. n. 4053, CIG
664361113C per affidare con il metodo del massimo ribasso
sulla base d’asta il servizio di trasporto scolastico per
gli alunni delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria
di primo grado site nel territorio comunale dal 01.09.2016
al 30.06.2020 (doc. 2 ricorrente, copia bando di gara; doc.
1 ricorrente, copia provvedimento di esclusione);
- che in particolare l’esclusione è motivata dall’aver
commesso una “grave infrazione” a obbligo derivante
da rapporti di lavoro, ovvero un “grave errore
professionale” (doc. 1 ricorrente, copia offerta), in
dichiarata applicazione dell’art. 38, lettere e) ed f), del
d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
In concreto, la AP. era stata convenuta in giudizio davanti
al Giudice ordinario da alcuni lavoratori i quali,
formalmente dipendenti di due diverse società, certe SI.RE.
s.r.l. e Fe. S.n.c., avevano chiesto l’accertamento della
sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato con la stessa AP.. In proposito, avevano
sostenuto che il subappalto esistente fra l’AP. e le loro
datrici di lavoro per la gestione di alcune linee di
trasporto pubblico locale avrebbe invece integrato una non
consentita somministrazione di mera manodopera.
In primo grado, gli attori avevano visto respingere la
domanda con sentenza T. Mantova 04.05.2010 n. 133, l’avevano
però vista accogliere con la sentenza di appello A. Brescia
18.01.2011 n. 635, confermata da ultimo da Cass. Sez. Lav.
17.05.2016 n. 10057 (doc.ti 9 e 10 ricorrente, copie
sentenze di appello e di cassazione). La stazione appaltante
ha allora ritenuto che i fatti appena esposti integrino
causa di esclusione dalla gara;
- che a sostegno dell’impugnazione la AP.Es. deduce tre
censure, riconducibili ad un unico motivo, di violazione del
citato art. 38, lettere e) ed f), d.lgs. 163/2006, e
sostiene in sintesi che non si tratterebbe di fatto tanto
grave da giustificare l’esclusione, atteso anche che, per
gli stessi fatti, è intervenuta assoluzione in sede penale
dei propri dirigenti, come da sentenza T. Mantova 24.12.2013
n. 1175 (doc. 11 ricorrente, copia di essa). Evidenzia
comunque di non aver potuto produrre la sentenza di
cassazione alla stazione appaltante perché coeva alla
domanda di partecipazione (ricorso, p. 22);
- che le controparti non si sono costituite;
- che il ricorso è infondato e va respinto.
Appare non manifestamente illogico
qualificare “grave violazione” delle norme sul lavoro
l’aver posto in essere un non consentito appalto di mera
somministrazione di lavoro, che è fatto astrattamente di
rilievo anche penale.
Tramite questa figura, com’è noto, ci si serve di una
società schermo per avvalersi della prestazione di un
lavoratore come se fosse proprio dipendente, senza però
riconoscergli il trattamento economico e normativo più
favorevole che al proprio dipendente spetterebbe, con
atteggiamento improntato a complessiva slealtà.
In proposito, va osservato che, contrariamente a quanto dice
la difesa (ricorso p. 8 dodicesimo rigo), il procedimento
penale riguardava fatti almeno in parte diversi, ovvero un
subappalto con altra società, certa T. S.a.s. e che, a
prescindere dalla sentenza di ultimo grado, i fatti relativi
al giudizio civile in corso erano ben noti alla AP. stessa
(ricorso, p. 8, ove si dà atto dell’ottemperanza alla
decisione di appello, pur a ricorso per cassazione
pendente); |
APPALTI: Appalti,
oneri di sicurezza condizione per partecipare.
La mancata indicazione degli oneri di sicurezza interni in
un'offerta di una concorrente è legittimo motivo
d'esclusione in quanto espressamente richiesto dalla legge.
La mancata indicazione può essere oggetto di soccorso
istruttorio, in quanto relativo ad un profilo dell'offerta
economica che, come noto, non può in alcun modo essere
integrata.
È questo l'importante principio stabilito dal TAR Campania-Salerno, I
Sez., nella recente
sentenza
06.07.2016 n. 1604
con la quale è stato chiarito un punto di potenziale
contrasto tra la vecchia disciplina in materia di appalti e
il codice recentemente entrato in vigore.
A fare chiarezza, secondo i giudici di Salerno, è l'art. 95,
comma 10, che recita: «Nell'offerta economica l'operatore
deve indicare i propri costi aziendali concernenti
l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro. Il nuovo dlgs n. 50/2016
pone fine all'annosa questione relativa all'obbligo
d'indicazione degli oneri di sicurezza interni o aziendali
da parte di un concorrente, che tanto ha occupato la
giurisprudenza in vigenza del precedente Codice (dlgs n.
163/2006)».
Come noto in passato, stante la distinzione fra oneri da
interferenza (espressamente relativi a quello specifico
appalto e obbligatoriamente da indicarsi da parte della p.a.
appaltante in lex specialis) e oneri di sicurezza interni o
aziendali (tipici di ogni azienda in quanto legati al costo
che ciascuna sostiene per il rispetto della normativa sulla
sicurezza) questi ultimi, nel dlgs n. 163/2006, erano
previsti solo all'art. 87, comma 4 (relativamente alla
verifica di anomalia delle offerte) nonché, letteralmente,
richiesti esclusivamente per gli appalti di forniture di
beni e servizi.
Da tale formulazione legislativa ne era scaturito un
contenzioso che aveva portato, solo nel 2015, ad un
rilevante numero di pronunce dello stesso Consiglio di Stato
fino a giungere alle due pronunce dell'Adunanza plenaria
(20/03/2015 n. 3 e 02/11/2015, n. 9) a dimostrazione della
difficoltà interpretativa di una normativa così mal scritta.
A fare chiarezza si diceva, secondo il Tar Salerno, vi è ora
l'art. 95, comma 10
(articolo ItaliaOggi del 30.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Con ricorso notificato il 15.06.2016 e ritualmente
depositato il 25 giugno successivo, la Società Se.No.
S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,
impugna gli atti di cui in epigrafe, invocandone
l’annullamento.
Premette che la Centrale Unica di Committenza Comuni di
Bracigliano e Forino ha indetto una gara d'appalto per
l’affidamento in concessione del servizio di trasporto e
smaltimento dei rifiuti provenienti dalla raccolta
differenziata sul territorio della città di Bracigliano. La
ricorrente espone di essere esclusa da tale selezione per
non avere indicato, nell’offerta economica, l’importo degli
oneri per la sicurezza aziendale.
Deduce, pertanto, i seguenti vizi:
- violazione e falsa applicazione degli artt. 46, co. 1–bis
e 75, co. 1–6, del D.Lgs. n. 163 del 2006, eccesso di potere
per errore sui presupposti di fatto e di diritto, difetto di
istruttoria, difetto di motivazione, violazione dell’art. 3,
l. n. 241/1990.
Si costituisce, tra i soggetti evocati, la Centrale Unica di
Committenza, al fine di resistere.
Alla camera di consiglio del 05.07.2016, rese edotte le
parti e sussistendone i presupposti di legge, il ricorso è
introitato in decisione semplificata.
Il ricorso è infondato.
Va, infatti, rilevato che, avuto riguardo a quanto statuito
dall’art. 216, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, in relazione
alla data di pubblicazione (22.04.2016) del bando, trova
applicazione tale corpus normativo e, segnatamente,
l’art. 95, comma 10, che così statuisce:
“Nell'offerta economica l'operatore deve indicare
i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle
disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di
lavoro”. Invero, tale disposizione configura un preciso
ed ineludibile obbligo legale in sede di predisposizione
dell’offerta economica.
Tanto è sufficiente per la reiezione del gravame. |
TRIBUTI: Ici
e Imu su aree pertinenziali. Siti tassati se accatastati
separatamente dal fabbricato. Il principio nella sentenza n.
1844 della Ctr Bologna che vale anche ai fini della Tasi.
Si restringono sempre di più le maglie per l'intassabilità
delle aree edificabili che sono ritenute dai contribuenti
pertinenze dei fabbricati. La questione non è di poco conto
perché la regola ha implicazioni ad ampio raggio e produce
effetti sia per i tributi locali, Ici, Imu e Tasi, sia per i
tributi erariali.
La Commissione tributaria regionale di Bologna, Sez. XII,
con la sentenza 04.07.2016 n. 1844, infatti, ha
affermato che un'area edificabile pertinenziale è soggetta
al pagamento dell'Ici, ma il principio vale anche per Imu e
Tasi, se accatastata separatamente dal fabbricato.
Dunque, è necessario un accatastamento unitario dei due
immobili, con l'attribuzione di un'unica rendita.
Sulla questione de qua ci sono poche certezze poiché la
Cassazione ha più volte modificato il proprio orientamento.
Ha comunque stabilito che l'accatastamento separato dei due
immobili non è d'impedimento all'intassabilità dell'area
come pertinenza del fabbricato. Tesi che è in netto
contrasto con quanto sostenuto da tempo dall'Agenzia delle
entrate.
Per quanto concerne le condizioni richieste per evitare
l'assoggettamento a imposizione delle aree pertinenziali non
c'è stata nel corso dell'ultimo decennio un'uniformità di
vedute né all'interno della Cassazione né tra i giudici di
merito.
La Cassazione, anche con la recente sentenza 8367/2016, non
ha imposto l'accatastamento unitario tra area e fabbricato,
ma ha precisato che tra i due immobili deve sussistere «un
vincolo d'asservimento durevole, funzionale o ornamentale
delle aree al fabbricato, con il fine di migliorarne le
condizioni d'uso, la funzionalità e il valore».
E la prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale grava
sul contribuente. Del resto, sottolineano i giudici di
legittimità, la mera «scelta» pertinenziale avrebbe l'unica
funzione di eludere il prelievo, per ottenere un risparmio
fiscale. Quindi, darebbe luogo a un abuso del diritto.
Le prese di posizione della Cassazione. Con la sentenza
5755/2005 la Cassazione ha stabilito che quando si tratta di
pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze
catastali, ma la destinazione di fatto.
L'area che costituisce, di fatto, pertinenza di un
fabbricato non è soggetta a Ici, come area edificabile,
anche se iscritta autonomamente al catasto.
Con questa pronuncia non ha posto alcun vincolo o
adempimento a carico del contribuente.
Successivamente ha riconosciuto il beneficio solo nei casi
in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo
dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di
variazione (sentenza 19638/2009).
Sia in passato che con l'ultima pronuncia (8367/2016) ha
sempre ritenuto irrilevante la circostanza che un'area
pertinenziale e una costruzione principale siano censite
catastalmente in modo distinto, al fine di poter essere
assoggettate a tassazione come un unico bene.
Il vincolo pertinenziale, però, deve essere visibile e va
rilevato dallo stato dei luoghi, altrimenti i due immobili
sono soggetti a imposizione autonomamente.
Sempre la Cassazione, con la sentenza 17035/2004, richiamata
nella motivazione della sentenza 19638/2009, aveva chiarito
che per le aree pertinenziali non si introduce alcuna
particolare e nuova accezione di pertinenza, ma,
semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va
fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale,
dall'articolo 817 del Codice civile.
Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze le
cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento
di un'altra cosa.
Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole
destinazione della cosa accessoria a servizio o ornamento di
quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di
creare la destinazione.
Il contrasto tra i giudici di merito. Le divergenze emergono
soprattutto tra i giudici di merito sul trattamento fiscale
delle aree pertinenziali. Di segno opposto, in effetti, è la
pronuncia della Ctr di Milano rispetto a quella emanata
dalla Ctr di Bologna. La Ctr di Milano, sezione XIX, con la
sentenza 14/2016, ha stabilito che un terreno può essere
qualificato pertinenziale anche se non è accorpato
catastalmente a un fabbricato.
La «graffatura», vale a dire l'unione dei due beni immobili
in catasto, agevola l'attività di controllo dell'ente
impositore, ma non può essere considerata decisiva per
attribuire al terreno natura pertinenziale.
Per i giudici lombardi, il fatto che un terreno non sia
censito al catasto urbano unitamente al fabbricato destinato
ad abitazione non può comportare il disconoscimento delle
agevolazioni «prima casa», contrariamente a quanto sostenuto
dall'Agenzia delle entrate. In realtà, secondo la
commissione regionale, «la normativa in materia di imposta
di registro non prevede alcuna limitazione tassativa
rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale
di un fabbricato, ai fini di potere fruire delle cosiddette
agevolazioni «prima casa», ma solo una elencazione
esemplificativa»
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti, moralità senza riserve. Requisiti anche
dalla società che ha la maggioranza.
Il Consiglio di stato sul caso della partecipazione di
un'impresa detenuta da altra.
La dichiarazione dei requisiti di moralità dev'essere
rilasciata anche del legale rappresentante della società che
possiede la maggioranza della società che partecipa ad una
gara.
Così il Consiglio di Stato, Sez. III, nella
sentenza 23.06.2016 n. 2813.
L'art. 38, c. 1, lett. c), dlgs 163/2006 prevede l'obbligo di
dichiarazione circa il possesso dei requisiti di moralità
anche del «socio unico persona fisica», nonché del «socio di
maggioranza in caso di società con meno di quattro soci».
Nel caso di specie, i soci che possedevano la concorrente
erano due (quindi non un socio unico) e quello di
maggioranza era una persona giuridica, ragion per cui da un
lato detto socio avrebbe dovuto esser obbligato (in quanto
«di maggioranza») a depositare la dichiarazione ex art. 38
ma, dall'altro, in quanto si trattava non di una persona
fisica, ciò non sarebbe stato possibile a meno di prevedere
che doveva essere il suo Legale Rappresentante a rilasciare
detta dichiarazione (sebbene ciò non risulti espressamente
previsto ex lege).
Il Consiglio di stato ha stabilito come
risulti «priva di razionale giustificazioni la limitazione
della verifica sui reati ex art. 38, dlgs 163/2006 solo con
riguardo al socio unico persona fisica o al socio di
maggioranza persona fisica per le società con meno di
quattro soci, atteso che la garanzia di moralità del
concorrente che partecipa a un appalto pubblico non può
limitarsi al socio persona fisica, ma deve interessare anche
il socio persona giuridica per il quale il controllo ha più
ragione di essere, trattandosi di società collegate in cui
potrebbero annidarsi fenomeni di irregolarità elusive degli
obiettivi di trasparenza perseguiti».
Ciò in quanto la ratio
della norma è di «garantire l'integrità morale del
concorrente, sia se persona fisica che persona giuridica».
Il Cds ha osservato che il legislatore da una lato parla di
«socio unico persona fisica», dall'altro esplicita che il
«socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro
soci», senza minimamente accennare se detto socio debba
avere natura fisica o giuridica.
Da tutto questo deriva che
quando una società ha meno di 4 soci, il suo socio di
maggioranza dev'essere accertato e se detto risulta, a sua
volta, una persona giuridica, è necessario allora applicare
la stessa tutela che si adotta per le persone fisiche,
ovvero è necessario che nei suoi confronti si accerti la
sussistenza del possesso dei requisiti di moralità
relativamente al suo legale rappresentante ed,
eventualmente, al suo socio di maggioranza
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
2. Osserva la Sezione in via preliminare che
non è ragionevole ed anche priva di razionale
giustificazione la limitazione della verifica sui reati ex
art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 solo con riguardo al
socio unico persona fisica o al socio di maggioranza persona
fisica per le società con meno di quattro soci, atteso che
la garanzia di moralità del concorrente che partecipa a un
appalto pubblico non può limitarsi al socio persona fisica,
ma deve interessare anche il socio persona giuridica per il
quale il controllo ha più ragione di essere, trattandosi di
società collegate in cui potrebbero annidarsi fenomeni di
irregolarità elusive degli obiettivi di trasparenza
perseguiti.
Se lo spirito del Codice dei contratti
pubblici è improntato ad assicurare legalità e trasparenza
nei procedimenti degli appalti pubblici, occorre garantire
l’integrità morale del concorrente sia se persona fisica che
persona giuridica.
In caso contrario, verrebbe violato il principio della par
condicio dei concorrenti in quanto una società concorrente
con socio unico o socio di maggioranza che sia persona
fisica sarebbe soggetto alla dichiarazione e non invece un
concorrente che sia persona giuridica.
Peraltro il problema della irragionevolezza della norma
relativa alla causa di esclusione ex art. 38, comma 1, lett.
c), del Codice dei contratti pubblici, è circoscritta alla
sola ipotesi testuale del socio unico persona fisica e non è
pertanto rilevante nella specie, ove come detto Bi. spa,
società quotata, è titolare del 99.9827% del capitale
sociale dell’appellante, ma è partecipata da altri soggetti
per una quota dello 0,0173% e, dunque, non è socio unico.
3. Infatti, l’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. cit.,
nell’attuale versione novellata dall’art. 4, comma 2, lett.
b), l. n. 106/2011, estende il novero dei soggetti delle
società di capitali di cui occorre accertare la moralità
professionale ai fini dell’ammissione alle gare pubbliche al
“socio unico persona fisica” ed al “socio di
maggioranza in caso di società con meno di quattro soci”.
Il dato testuale della norma indica che, con riferimento al
“socio di maggioranza”, il legislatore non ha incluso
alcuna specificazione in relazione alla natura giuridica del
socio, con la conseguenza che si avvalora l’opzione
ermeneutica per la quale l’espressione testuale vale tanto
per la persona fisica, quanto per la persona giuridica, in
conformità ad un approccio sostanzialistico alla normativa
che attribuisce rilievo ai requisiti di moralità di tutti i
soggetti che condizionano la volontà degli operatori che
stipulano contratti con la pubblica amministrazione, a
prescindere dalla circostanza che siano persone fisiche o
giuridiche, in ossequio ai principi di lealtà, correttezza,
trasparenza e buona amministrazione.
Sotto questo profilo, ad orientare l’interprete, non deve
esser sottovalutato l’argomento antielusivo utilizzato dal
TAR a sostegno della sua decisione, atteso che
la locuzione “socio di maggioranza”,
contenuta nell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs.
12.04.2006, n. 163 (come novellato sul punto dall’art. 4
decreto legge 13.05.2011, n. 70 convertito, con
modificazioni, nella legge 12.07.2011 n. 106), è riferibile
anche al socio di maggioranza, persona giuridica e non solo
persona fisica, per evitare la facile elusione della
disciplina legislativa, facile elusione a maggior ragione
prospettabile nella specie, in cui il socio di maggioranza
ha pressoché la totalità delle quote dell’offerente.
4. Peraltro, come osserva correttamente il controinteressato,
a sostegno della tesi sopraindicata milita il
contenuto dell’art. 45 della Direttiva 2004/18/CE. Tale
norma, infatti, nell’imporre l’esclusione dalla
partecipazione agli appalti pubblici del candidato o
dell’offerente che abbia riportato condanne per talune
ipotesi di reato, dispone: “in funzione del diritto
nazionale dello Stato membro in cui sono stabiliti i
candidati o gli offerenti, le richieste riguarderanno le
persone giuridiche e/o le persone fisiche, compresi, se del
caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che
eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di
controllo del candidato o dell’offerente”.
Pertanto, non solo il diritto dell’Unione
non osta alla verifica della sussistenza dei requisiti
morali rispetto alle persone giuridiche e non solo alle
persone fisiche, ma impone di effettuare il controllo ne
confronti di ogni soggetto che, nella sostanza, “eserciti
il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del
candidato o dell’offerente”,
come nell’ipotesi in esame, in cui certamente il Presidente
del Consiglio di amministrazione della Bi. spa, la quale ha
la quasi totalità delle quote dell’offerente, è nella
posizione di esercitare anche un potere di decisione e di
controllo nei confronti dell’offerente medesima.
Infatti, il soggetto che possieda il 99,9827% della società
appellante, con meno di quattro soci, ha un “significativo”
se non esclusivo, “ruolo decisionale e gestionale
societario” nell’ambito della stessa e, come tale,
soggiace all’obbligo di accertamento della verifica dei
requisiti morali in capo ai soggetti muniti di poteri di
rappresentanza e direzione tecnica in seno allo stesso.
5. Per quanto riguarda la valutazione dell’incidenza del
reato sulla moralità professionale, si deve rilevare che
devono condividersi le conclusioni assunte
dall’Amministrazione, atteso che la “gravità” dei
reati per i quali sono stati condannati in via definitiva i
Consiglieri della Bi. spa emerge sia all’evidenza dalla
motivazione addotta dalla sentenza di condanna del Tribunale
di Imperia del 28.12.2004 per la mancata concessione delle
attenuanti generiche, sia dal fatto che gli stessi hanno
continuato a gestire l’impianto oggetto del processo senza
rispettare le prescrizioni e gli ordini dell’Autorità, sia
dal mancato adempimento delle prescrizioni cui il Giudice
aveva subordinato la concessione della sospensione
condizionale della pena, sia dall’insussistenza della
declaratoria di estinzione del reato de quo e dalla
loro mancata riabilitazione.
Peraltro, il lasso di tempo trascorso dai fatti che hanno
originato il giudizio è stato preso in considerazione ed è
stato valutato non rilevante ai fini di escluderne
l’incidenza sul giudizio di moralità professionale in modo
non irragionevole, atteso che è trascorso un periodo di gran
lunga inferiore se si considera la data del passaggio in
giudicato delle sentenze di condanna e se si considera
l’entità delle condanne che bilanciano ampiamente, secondo
una valutazione di spettanza dell’Amministrazione non
macroscopicamente irragionevole, il periodo di tempo
trascorso dalla condanna. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Albero
abbattuto, l'ente mostra le carte in un mese.
Quel pino marittimo va abbattuto. Il sindaco del comune
ordina di provvedere con urgenza. Ma il punto è che l'albero
si trova nel piazzale privato a uso pubblico di un
condominio della località balneare. E l'arbusto con la sua
ombra dà sollievo dalla calura estiva a più di un
appartamento. Uno dei proprietari esclusivi non ci sta:
chiede di vedere le carte in base alle quali
l'amministrazione ha rilevato lo «stato di pericolo» in
cortile. E l'ente non può negare l'accesso ai documenti
perché il singolo condominio ne ha diritto in base alla
legge sulla trasparenza. Risultato: l'amministrazione dovrà
tirare fuori la pratica entro un mese.
È quanto emerge dalla
sentenza
21.06.2016 n. 7232, pubblicata dalla
Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Posizione qualificata
La perizia dell'agronomo attesta che il pino può cadere da
un momento all'altro. E le spese dell'abbattimento ricadono
sui tutti i proprietari. Il condomino vuole consultare tanto
la relazione del professionista quanto il parere
dell'ufficio tecnico del Comune. E in quanto proprietario
esclusivo dell'appartamento risulta titolare di una
posizione qualificata in base articolo 22 della legge
241/1990.
È la stessa amministrazione locale a riconoscere in
modo implicito che l'istanza del singolo condomino è
legittima perché attiva il subprocedimento, avvisando
l'amministratore. Il punto è che poi il Comune non
ottempera: dovrà ora per ordine del giudice perché risulta
il silenzio-rigetto formatosi in relazione all'istanza di
ostensione.
E se nel frattempo l'albero è stato abbattuto è ragionevole
credere che la causa continuerà
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
APPALTI: Storia di tangenti. Ditta da risarcire.
Se l'espulsione dalla gara è per mafia.
Danno curriculare oltre che lucro cessante all'impresa che
si vede togliere l'appalto perché è finita al centro di
un'inchiesta penale. E ciò perché l'informativa antimafia
che consente all'amministrazione il recesso dal contratto si
rivela, a ben vedere, frettolosa: il procedimento penale si
apre per reati comuni, per quanto gravi, che denotano
tuttavia una mera mala gestio amministrativa, senza rivelare
l'inquinamento della criminalità organizzata; il tutto in
un'area pure a grosso rischio come la provincia di Napoli.
È
quanto emerge dalla
sentenza
27.05.2016 n. 2750, pubblicata dalla I Sez. del TAR Campania-Napoli.
Pubblico e privato. È vero: una delle persone che si ritrova
alla sbarra è figlia di un pregiudicato per camorra e moglie
di una persona sottoposta a misura cautelare per reati di
criminalità organizzata. Ma è soltanto una coimputata
dell'amministratore della srl: la circostanza può aiutare a
inquadrare meglio la figura privata del manager, tuttavia i
vincoli personali non hanno influenza diretta sulla società,
che si era aggiudicata il servizio di trasporto scolastico
del Comune all'esito di una procedura negoziata.
I reati
contestati nel processo in corso sono concussione, abuso
d'ufficio, corruzione, falsità ideologica e appalti
truccati: non emergono però cointeressenze da parte dei
clan. In particolare nella contestazione della turbativa
d'asta il delitto non c'è l'ombra dei clan di Gomorra.
Insomma: all'azienda deve essere riconosciuto il danno
perché non ha potuto arricchire il curriculum professionale
con la gestione del servizio negata dall'ente: ha infatti
patito un pregiudizio alla sua capacità di competere sul
mercato; il ristoro è liquidato equitativamente.
Dopo il nuovo appalto bandito dall'ente, il mancato guadagno
della società risulta risarcito anche tenendo conto dei
costi sostenuti dall'impresa. Stop anche al provvedimento
che autorizza l'amministrazione a incamerare la polizza
fideiussoria. Alla prefettura non resta che pagare le spese
di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2016). |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti prescritta in 5 anni dalla cartella.
Dopo la notifica della cartella di pagamento relativa alla
tassa comunale sui rifiuti, l'agente della riscossione ha a
disposizione cinque anni di tempo per riscuotere le somme o
per notificare atti interruttivi: altrimenti, la pretesa si
estingue ed è possibile formulare l'eccezione in sede di
impugnazione dell'intimazione di pagamento.
È quanto si legge nella
sentenza
06.05.2016 n. 3940/05/16 della Ctp di Milano,
depositata lo scorso 6 maggio.
Un condominio del capoluogo meneghino proponeva ricorso
contro l'intimazione di pagamento notificata da Equitalia,
basata su sette cartelle di pagamento di pagamento relative
alla Tarsu. Tutte le cartelle erano state notificate oltre 5
anni prima rispetto all'intimazione, ed erano divenute
definitive per mancata impugnazione; il condominio eccepiva
l'intervenuta prescrizione della pretesa.
Si costituiva in giudizio l'Agente della riscossione,
sostenendo che la prescrizione, dopo la cartella di
pagamento, fosse decennale, a prescindere dalla natura del
credito in esazione.
La Ctp di Milano ha accolto il ricorso, osservando in primis
che la definitività amministrativa della pretesa,
determinata dalla mancata impugnazione della cartella di
pagamento, non è mai equiparabile alla definitività di una
sentenza che, ai sensi dell'articolo 2953 del codice civile,
produce l'effetto di dilatare il termine di prescrizione a
10 anni. Per cui, il termine di prescrizione, dopo la
notifica della cartella, rimane quello proprio del tributo a
cui la stessa si riferisce.
Nel caso di specie, osserva la Ctp, deve rilevarsi che la
tassa comunale sui rifiuti si configura quale prestazione
periodica e, come tale, soggetta alla prescrizione
quinquennale stabilita dall'articolo 2948, comma 4, del
codice civile, secondo cui «si prescrivono in cinque anni (
) 4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve
pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi».
Il collegio richiama una sentenza della Cassazione (n.
4283/2010) nella quale si afferma che i tributi locali sono
elementi strutturali di un rapporto sinallagmatico,
caratterizzati da una causa debendi di tipo continuativo,
suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo, in
relazione alla quale l'utente è tenuto ad una erogazione
periodica.
All'accoglimento del ricorso, la Ctp ha fatto seguire la
condanna alle spese in capo all'Agente della riscossione.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'applicazione del termine breve di cinque anni
(in luogo di quello ordinario di dieci anni) è stata
affermata dalla Cassazione con sentenza del 23.02.2010. In particolare la Cassazione sostiene che i tributi
locali (a differenza di quelli erariali) sono «prestazioni
periodiche» e, come tali, rientrano nell'ambito di
applicazione dell'articolo 2948, comma 4, del Codice civile,
che stabilisce appunto la prescrizione quinquennale.
I
tributi locali (tassa per lo smaltimento rifiuti, per
l'occupazione di suolo pubblico, per concessione di passo
carrabile, contributi di bonifica) -dice la Corte- sono
«elementi strutturali di un rapporto sinallagmatico
caratterizzati da una ''causa debendi'' di tipo continuativo
suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo in
relazione alla quale l'utente è tenuto a una erogazione
periodica, dipendente dal prolungarsi sul piano temporale
della prestazione erogata dall'ente impositore, o dal
beneficio dallo stesso concesso» (Cassazione, sezione
tributaria civile, sentenza 23.02.2010, numero 4283).
Con riferimento all'asserita prescrizione e/o decadenza
della pretesa tributaria, il Collegio rileva che il
Concessionario della Riscossione, nelle proprie
controdeduzioni al ricorso, non ha prodotto documentazione
attestante l'intervenuta notifica di eventuali atti
interruttivi del termine della prescrizione. Ritiene il
Collegio che la pretesa oggetto del presente ricorso,
trattandosi di tasse locali, è assoggetta al termine di
prescrizione previsto dall'art. 2948 del Codice Civile,
ossia il termine di prescrizione breve di cinque anni in
quanto trattasi di prestazioni periodiche. Inoltre a parere
del Collegio non ha effetto sul termine di prescrizione la
sospensione che era stata decretata dall'art. 1 -comma 623-
della Legge 27/12/2013 n. 147.
Ne discende quindi che l'eccezione di prescrizione della
pretesa tributaria, a parere del Collegio, va accolta.
Precisa che per le cartelle esattoriali presupposto
dell'atto impugnato vale il termine breve di cinque anni,
atteso che la prestazione tributaria non può che essere
reputata alla stregua di una prestazione periodica.
Pertanto l'attività dell'Agente della riscossione è soggetta
esclusivamente al termine ordinario di prescrizione con la
conseguenza che una volta notificata la cartella di
pagamento è possibile attivare le procedure di riscossione
coattiva entro cinque anni dalla data di notifica della
cartella stessa. Circostanza che nel caso non si è
verificata. Si ritiene che nessun atto interruttivo del
termine di prescrizione risulta peraltro notificato alla
data di decadenza della cartella di pagamento [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
TRIBUTI:
Terreno edificabile solo di fatto.
La destinazione d'uso non è sufficiente, da sola, a
qualificare come edificabile un terreno. L'edificabilità,
infatti, deve essere effettiva; in caso di mancata
edificabilità effettiva, il terreno non può mai essere
ritenuto edificabile.
È quanto si legge nella
sentenza
18.04.2016 n. 103/02/16 emessa dalla sezione seconda
della Commissione tributaria provinciale di Lecco.
La vertenza riguarda un avviso di liquidazione con cui le
Entrate di Lecco intendevano rettificare i valori dichiarati
in sede di una compravendita. Il contribuente nel ricorso
presentato alla Commissione tributaria provinciale, di Lecco
tra gli altri motivi, eccepiva anche dei vizi di merito.
Infatti, relativamente alle aree oggetto di compravendita
esiste una inedificabilità sostanziale che ne caratterizza,
appunto, il requisito sostanziale dell'edificabilità.
Nel
corso degli ultimi anni abbiamo assistito all'evoluzione del
principio secondo cui l'edificabilità di un terreno sia
strettamente legata con la destinazione urbanistica
assegnata allo stesso dagli strumenti urbanistici. Il
principio, espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione
nella sentenza n. 25506/2006, secondo cui tutti i terreni
inseriti nel Piano Regolatore generale di un comune vanno
considerati, a tutti gli effetti, edificabili, ha trovato
alcune deroghe espresse.
La Corte di cassazione, nella
sentenza n. 8609/2011, ha stabilito che i terreni inseriti
nel Piano regolatore generale come edificabili ma che siano
assoggettati al rispetto delle fasce stradali e ferroviarie
vadano equiparati, ai fini fiscali, alle aree agricole in
considerazione del fatto che gli stessi non sono, agli
effetti pratici, utilizzabili ai fini edificatori.
Lo stesso principio è stato applicato per i terreni in
trattazione nella sentenza di cui al commento. Secondo i
giudici provinciali di Lecco, infatti, «i terreni
compravenduti sono inseriti nelle zone
classificate quali «Rga» distinte dalle zone classificate «Rg»
per le quali è consentita l'effettiva edificabilità. Per
questi terreni inseriti nelle zone «Rga» (residenziali in
genere in zona A) non si applicano gli indici di
edificabilità, mentre conservano la destinazione d'uso».
Ne
deriva la sostanziale inedificabilità dei terreni
compravenduti, circostanza che, di fatto, rende del tutto
inattendibile il calcolo effettuato dall'ufficio; né possono
ritenersi giustificati i richiami agli altri atti registrati
per la comparazione, laddove manchi il requisito sostanziale
della edificabilità.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
I sigg.ri [omissis], hanno impugnato, con unico ricorso
ritualmente notificato e iscritto a ruolo, l'avviso
notificato loro dall'Agenzia delle entrate di Lecco, con
cui, il citato Ente ha rettificato il valore della
compravendita immobiliare dichiarato in sede di atto
notarile e ha provveduto alla liquidazione delle imposte di
registro, catastali e ipotecarie relative.
I ricorrenti, con
l'atto introduttivo del giudizio, lamentano: l'inesistenza
dell'avviso di rettifica per inesistenza giuridica della
notificazione; nel merito, la nullità dell'atto impugnato
per illegittimità e infondatezza dello stesso. I ricorrenti
hanno concluso chiedendo l'annullamento dell'atto. L'Ufficio
fiscale si è costituito regolarmente in giudizio,
contestando gli assunti dei ricorrenti, sostenendola
legittimità dell'accertamento e chiedendo, con le
conclusioni, il rigetto del ricorso. [omissis]
Nel merito,
il ricorso è fondato. Le norme tecniche di attuazione del Prg. vigente, prodotte dai ricorrenti, stabiliscono al punto
21.1.3, alcune prescrizioni tecniche in ordine agli indici
urbanistici di edificabilità nella zona in cui ricadono i
terreni oggetto del contratto di compravendita sul cui
valore vi è contestazione.
Tali indici appaiono riferiti
alle zone classificate quali «Rg» distinte dalle zone
classificate «Rga» per le quali è, invece stabilito che:
«Per le aree individuate con Rga (residenziali in genere in
zona A) non si applicano gli indici sopraesposti mentre
conservano efficacia le sole destinazioni d'uso».
Alla luce di tale disposizione e della non contestata
zonizzazione (Rga) dei mappali 1392 e 1393 la parziale)
sussiste, nella fattispecie, la sostanziale inedificabilità
dei terreni oggetto del contratto di compravendita. Appare
pertanto, del tutto inafferente il calcolo effettuato
dall'ufficio, al fine di giungere alla rettifica dei valori
indicati nel citato atto; né possono ritenersi giustificati
i richiami ad altri atti registrati per effettuare la
comparazione, laddove manca il requisito sostanziale della
edificabilità.
In conclusione stante: la conformazione dei
terreni, si tratta di terreni in pendio; la sussistenza dei
vincoli di destinazione, elementi sui quali non vi è
contestazione, nonché la non edificabilità degli stessi, il
valore dichiarato in compravendita, deve ritenersi congruo.
Il ricorso va pertanto, accolto. Le spese di giudizio
seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La commissione accoglie il ricorso. Condanna l'Agenzia delle
entrate al pagamento delle spese di giudizio, in favore dei
ricorrenti, che liquida in 2.576,00 oltre Iva, cpa, c.u.e il
15% per spese generali. [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016). |
APPALTI: Appalti, subentro con eccezioni.
In vigore le norme che circoscrivono i nuovi obblighi verso
il personale «assorbito».
Trasferimenti d’azienda. Struttura organizzativa propria e
discontinuità gli elementi chiave per applicare la legge
comunitaria.
La normativa
sul trasferimento di azienda (articolo 2112 del Codice
civile) con l’obbligo per l’impresa che subentra in un
appalto di mantenere gli stessi diritti ai lavoratori
acquisiti, non si applica quando il personale impegnato
nell’appalto sia «assorbito» da un’ impresa dotata di una
propria struttura organizzativa ed operativa e siano
presenti elementi di discontinuità nell’esecuzione del
servizio che determinino una specifica identità di impresa.
Dal 23 luglio il subentro nell’appalto conosce nuove regole.
Da quella data, infatti, è in vigore il comma 3
dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 (come riformato
dall’articolo 30 della legge 122/2016, la legge europea
2016. La modifica legislativa vuole rispondere alla
richiesta della Commissione europea secondo cui la
precedente formulazione dell’articolo 29 del decreto 276
(che escludeva l’applicazione dell’articolo 2112 del Codice
civile in caso di subentro nell’appalto) restringeva in modo
illegittimo l’ambito di applicazione delle regole sul
trasferimento di azienda, anche in caso di subentro.
Il nuovo terzo comma dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003
prevede che: «L’acquisizione di personale già impiegato
nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore
dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in
forza di legge, di contratto collettivo o di clausola del
contratto di appalto, ove siano presenti elementi di
discontinuità che determinino una specifica identità di
impresa, non costituisce trasferimento di azienda o di ramo
di azienda».
La norma intende “sterilizzare” l’applicazione della
normativa sul trasferimento di azienda (e delle relative
procedure sindacali ove applicabili per legge) quando
l’acquisizione del personale avviene da parte di un
appaltatore che, da una parte, è “dotato di una propria
struttura organizzativa ed operativa e, dall’altra, quando,
l’azienda subentrante ha una specifica identità di impresa.
In attesa di maggiori chiarimenti da parte della
giurisprudenza e della prassi, si può ritenere, ad esempio,
che l’esclusione non si applichi quando l’impresa
subentrante non è dotata (o ne è dotata in maniera poco
rilevante) della struttura organizzativa necessaria per
espletare il servizio appaltato. La struttura quindi viene
acquisita dall’appaltatore “uscente”.
In altre parole,
l’obbligo di garantire lo stesso trattamento economico e
contrattuale ai lavoratori acquisiti (che scatta con le
regole sul trasferimento d’azienda) non trova applicazione
tutte le volte in cui il nuovo appaltatore ha già una
propria struttura organizzativa e operativa per rendere il
servizio oggetto dell’appalto, anche se con i “vecchi”
dipendenti riassunti.
In più , è necessaria la presenza di elementi di
discontinuità che determinino una specifica identità di
impresa. Ma come deve essere interpretato questo ulteriore
requisito? Sempre in attesa di chiarimenti amministrativi e
giurisprudenziali, si può pensare che la discontinuità sia
presente tutte le volte in cui il servizio viene
riorganizzato e realizzato in modo nuovo dalla nuova
impresa.
In effetti l’identità di impresa si può desumere non solo
dalla cessione di beni materiali, ma anche immateriali,
compresa la metodologia organizzativa.
Può ritenersi, ad esempio, discontinuo il servizio
ambientale ovvero il servizio di pulizia reso dall’impresa
subentrante che, oltre a introdurre metodi di raccolta o di
pulizia differenti, organizzi e svolga la raccolta ovvero il
servizio di pulizia con strumenti nuovi, ad esempio, facendo
partecipare i lavoratori ad uno specifico corso di
formazione. Vedremo come verrà applicata la normativa e
quali saranno le interpretazioni giurisprudenziali che, alla
luce della genericità della disposizione, potrebbero essere
tra loro diverse, a discapito dalla certezza del diritto.
---------------
Il gruppo omogeneo dei dipendenti mantiene i diritti.
Il caso. Il passaggio a un’altra unità.
La cessione di
un gruppo di dipendenti ad un’altra impresa, purché dotati
di particolari competenze e stabilmente coordinati e
organizzati tra loro, così da rendere le loro attività
interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben
individuabili, configura una cessione di azienda con
conseguente applicazione dell’articolo 2112 del Codice
civile.
È quanto contenuto nella
sentenza 12.04.2016 n. 7121 della
Corte di Cassazione, Sez. lavoro, i cui principi, nella
sostanza, trovano conferma nella nuova normativa sulla
successione negli appalti in vigore dal 23.07.2016 (si
veda l’articolo a fianco).
I giudici della suprema Corte hanno evidenziato come, anche
in questo caso, il rapporto di lavoro continua con il
cessionario che conserva tutti i diritti che ne derivano
così come previsto dall’articolo 2112. Ai fini del
trasferimento d’azienda questa normativa postula che il
complesso organizzato dei beni dell’impresa -nella sua
identità obiettiva- sia passato ad un diverso titolare in
forza di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno
della successione in senso ampio, dovendosi così prescindere
da un rapporto contrattuale diretto tra l’imprenditore
uscente e quello che subentra nella gestione.
Il trasferimento d’azienda è, pertanto, configurabile anche
in ipotesi di successione nell’appalto di un servizio,
sempre che si abbia un passaggio di beni di non trascurabile
entità, e tale da rendere possibile lo svolgimento di una
specifica impresa (Cassazione 16.05.2013, n. 11918;
Cassazione 13.04.2011 n. 8460).
Si configura come trasferimento d’azienda anche
l’acquisizione di un complesso stabile organizzato di
persone quando non occorrono mezzi patrimoniali per
l’esercizio dell'attività economica (Corte di giustizia 06.09.2011, causa C 108/10).
La giurisprudenza comunitaria, in particolare, si è
orientata verso una interpretazione del requisito
dell’identità dell’entità economica trasferita che prenda in
considerazione il complesso delle circostanze di fatto che
caratterizzano l’operazione, fra le quali rientrano, in
particolare, il tipo di impresa, la cessione o meno di
elementi materiali, il valore degli elementi immateriali al
momento della cessione, la riassunzione o meno delle parti
più rilevanti del personale ad opera del nuovo imprenditore
così come il grado di somiglianza delle attività esercitate
prima e dopo la cessione.
Seguendo questo ordine di idee, quindi, la Cassazione, in
linea con la giurisprudenza comunitaria, ritiene che sia
configurabile un trasferimento di un ramo di azienda anche
nel caso in cui la cessione abbia ad oggetto anche solo un
gruppo di dipendenti dotati di particolari competenze che
siano stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, così
da rendere le loro attività interagenti ed idonee a tradursi
in beni e servizi ben individuabili. In presenza di questi
elementi si realizza, pertanto, una successione legale del
contratto di lavoro -e non una mera cessione- che non
necessita del consenso del contraente ceduto ex articolo
1406 del Codice civile (da ultimo Cassazione, sentenza 28.04.2014, n. 9361).
---------------
Gli indici rivelano i contratti «genuini».
Giurisprudenza. La Cassazione specifica in quali circostanze
l’affidamento nasconde interposizioni vietate.
La bussola per
distinguere l’appalto legittimo dall’interposizione di
manodopera (vietata) arriva sempre più dalla giurisprudenza
che precisa i contorni della normativa di riferimento
(articolo 29, comma 1, del Dlgs 276/2003).
Così, ad esempio, la Cassazione ha chiarito che il divieto
di intermediazione ed interposizione di manodopera nelle
prestazioni di lavoro, caratterizzati dall’affidamento ad un
appaltatore esterno di tutte le attività, anche strettamente
attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente,
opera tutte le volte in cui l’appaltatore mette a
disposizione del committente una prestazione lavorativa,
rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli
compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali
retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione
della continuità della prestazione), senza una reale
organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un
risultato produttivo autonomo.
Non è necessario, infatti, per realizzare un’ipotesi di
intermediazione vietata, che l’impresa appaltatrice sia
fittizia, atteso che, una volta accertata l’estraneità
dell’appaltatore all’organizzazione e direzione del
prestatore di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, rimane
priva di rilievo ogni questione legata al rischio economico
e alla sua autonoma organizzazione.
È questo il principio affermato dalla Corte di cassazione a
proposito dell’individuazione della fattispecie dell’appalto
di servizi lecito rispetto all’interposizione di manodopera
vietata (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 24.11.2015, n. 23962).
Il Dlgs 276 prevede che il contratto di appalto si distingue
dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei
mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche
risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del
servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere
organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori
utilizzati nell’appalto. Non solo: nell’appalto vero e
proprio l’appaltatore assume il rischio d’impresa.
Nel corso del tempo la giurisprudenza ha elaborato degli
indici di non genuinità dell’appalto. Indici rilevatori
della mancanza di organizzazione, ad esempio sono:
l’inesistenza di un’organizzazione di tipo imprenditoriale;
la mancanza dell’effettivo esercizio del potere direttivo
sui lavoratori; l’impiego di capitali, macchine e
attrezzature dell’appaltante; la natura delle prestazioni
svolte che esula da quelle dell’appalto, afferendo a
mansioni tipiche dei dipendenti del committente; il
corrispettivo pattuito in base alle ore effettive di lavoro
e non riguardo all’opera compiuta o al servizio eseguito,
ovvero corresponsione della retribuzione direttamente da
parte del committente.
Gli indici rivelatori del rischio di impresa sono: l’avere
un’attività imprenditoriale che viene esercitata
abitualmente; svolgere una propria attività produttiva in
maniera evidente e comprovata; operare per conto di
differenti imprese da più tempo o nel medesimo arco
temporale considerato.
L’illiceità dell’appalto non è senza conseguenze. Oltre a
sanzioni di carattere amministrativo, infatti, sul piano
organizzativo, i lavoratori potranno ottenere la
costituzione di un rapporto di lavoro direttamente nei
confronti dell’effettivo datore di lavoro, con salvezza
delle retribuzioni e della contribuzione versata dal datore
di lavoro fittizio come disposto dallo stesso articolo 29
del Dlgs 276/2003 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.201). |
AGGIORNAMENTO ALL'08.08.2016 |
ã |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Pubblicato il Catalogo degli apparecchi per
accedere al Conto termico con procedura semplificata
(ANCE di Bergamo,
circolare 29.07.2016 n. 143). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nota di Lettura LR 33/2015 “Disposizioni in materia di
opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone
sismiche” e DGR n. X/5001 30.03.2016 “Approvazione delle
linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle
funzioni trasferite ai comuni in materia sismica" (ANCI
Lombardia,
nota 22.07.2016).
---------------
ANCI Lombardia,
circolare 28.07.2016 n. 119/2016 (link a
www.anci.lombardia.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 32 dell'08.08.2016, "Definizione
dei servizi, degli standard qualitativi e delle dotazioni
minime obbligatorie degli ostelli per la gioventù, delle
case e appartamenti per vacanze, delle foresterie lombarde,
delle locande e dei bed and breakfast e requisiti
strutturali ed igienico-sanitari dei rifugi alpinistici ed
escursionistici in attuazione dell’art. 37 della legge
regionale 01.10.2015, n. 27 (Politiche regionali in materia
di turismo e attrattività del territorio lombardo)" (regolamento
regionale 05.08.2016 n. 7). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 05.08.2016 "Realizzazione
degli interventi di bonifica ai sensi dell’art. 250 del
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 – Programmazione
economico-finanziaria 2016/2017 (1°provvedimento)" (deliberazione
G.R. 02.08.2016 n. 5523). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI
LOCALI:
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge
24.06.2016, n. 113, recante misure finanziarie urgenti per
gli enti territoriali e il territorio - Nota di lettura
sulle norme di interesse dei Comuni (ANCI-IFEL,
05.08.2016).
---------------
(Atto
Senato n. 2495). |
EDILIZIA PRIVATA:
Segnalazione certificata di inizio attività - SCIA D.LGS.
30.06.2016 N. 126 - Istruzioni tecniche, linee guida, note e
modulistica (ANCI, agosto 2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La nuova disciplina della Conferenza di servizi - D.LGS.
30.06.2016 N. 127 - Istruzioni tecniche, linee guida, note e
modulistica (ANCI, luglio 2016). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Progettazione, il nuovo DM parametri non prevede
l'obbligatorietà per le Pa.
Per le pubbliche amministrazioni l'uso dei nuovi parametri
rimane facoltativo. Fondazione Inarcassa: “Si crea così
un conflitto tra il decreto ministeriale e le linee guida
dell’Anac” (...continua) (29.07.2016 - link a www.casaeclima.com). |
INCARICHI PROGETTUALI:
DAL CNI UN VADEMECUM PER I SERVIZI DI INGEGNERIA
E ARCHITETTURA.
Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri ha aggiornato il
documento relativo all’affidamento dei contratti pubblici
attinenti i Sia. Messo a disposizione anche un software che
consente il calcolo dei corrispettivi e l’elaborazione della
documentazione prevista (27.07.2016).
L’AFFIDAMENTO DEI CONTRATTI PUBBLICI ATTINENTI AI SERVIZI DI
INGEGNERIA E ARCHITETTURA ALLA LUCE DEL NUOVO QUADRO
NORMATIVO IN MATERIA DI CONTRATTI PUBBLICI: D.LGS. 50/2016 E
LINEE GUIDA ANAC. |
APPALTI:
M. A. Sandulli,
Nuovi limiti alla
tutela giurisdizionale in materia di contratti pubblici (27.07.2016
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Considerazioni generali: nuovo Codice
dei contratti, certezza delle regole e conseguenze della
loro violazione. 1.1 Segue: il ruolo della dottrina e le
linee guida dell’ANAC. 2. Le nuove regole del contenzioso.
2.1. Premessa. L’ambito di applicazione. 2.2. Le novità di
carattere generale: l’eliminazione dello standstill
procedimentale per i contratti sotto soglia. 2.3. Segue: I
nuovi limiti della tutela cautelare. 2.4. I nuovi limiti di
tutela contro gli atti di ammissione alle procedure di gara. |
EDILIZIA PRIVATA: Slide
Convegno: "La nuova legge regionale 33/2015 e la nuova
zonazione sismica" tenutosi il 04.05.2016 presso
l'Ufficio Territoriale Regionale di Brescia:
-1-
l.r. 12.10.2015 n. 33 - Disposizioni in materia di opere o
di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche
-2-
La zonazione sismica e l’aggiornamento delle zone sismiche
in Regione Lombardia
-3-
Delibera Giunta Regionale 30.03.2016 - n. X/5001 -
«Approvazione delle linee di indirizzo e coordinamento per
l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni in materia
sismica»
-4-
D.G.R. n. 5001 del 30.03.2016 - Approvazione delle linee di
indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle funzioni
trasferite ai comuni in materia sismica (artt. 3, comma 1, e
13, comma 1, della l.r. 33/2015)
-5-
Il sistema informativo integrato per la gestione delle
pratiche sismiche
-6-
Titoli abilitativi all’edificazione, costruzione di opere
pubbliche e l.r. 33/2015 |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
M. L. Maddalena,
IL CONTRIBUTO DEI PRIVATI NELLA VALORIZZAZIONE DEI BENI
CULTURALI E TUTELA DEL “VALORE CULTURALE” COME BENE
IMMATERIALE
(Gazzetta Amministrativa
n. 3-4/2015).
---------------
Il tema della valorizzazione dei beni culturali, e del
concorso dei privati in essa, è divenuto cruciale negli
ultimi tempi, anche a causa della riduzione delle risorse
economiche e di mezzi destinati al patrimonio culturale,
cosicché l’apporto dei privati e dei loro contributi, sia
sul piano economico che delle idee, è divenuto essenziale. |
APPALTI SERVIZI:
R. Fragale,
IN HOUSE E ATTIVITA’ PREVALENTE: IL CONSIGLIO DI STATO
SOLLEVA DUE QUESITI ALLA CORTE DI GIUSTIZIA
(Gazzetta Amministrativa
n. 3-4/2015).
---------------
Con l’ordinanza del 20.10.2015 n. 4793, il Consiglio di
Stato ha sollevato alla Corte di Giustizia due questioni
pregiudiziali sul requisito dell’attività prevalente. La
prima riguarda gli affidamenti disposti da
un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti
pubblici non soci. La seconda, invece, gli affidamenti nei
confronti di enti soci, disposti prima del perfezionamento
del requisito del controllo analogo. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E. Gai,
L’ACCESSO AGLI ATTI RELATIVI AI RAPPORTI DI DIRITTO PRIVATO
(Gazzetta Amministrativa
n. 3-4/2015).
---------------
Il diritto di accesso agli atti dei gestori di servizio
pubblico è riservato soltanto agli utenti del servizio?
---------------
Sommario: 1. Inquadramento normativo: l’accesso agli
atti dei soggetti di diritto privato. 2. La recente
evoluzione giurisprudenziale e la rimessione all’Adunanza
Plenaria. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
P. Turco,
LA RIFORMA MADIA SUL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
(Gazzetta Amministrativa
n. 3-4/2015).
---------------
La l. 07.08.2015, n. 124 recante le Deleghe al Governo in
materia di riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche.
---------------
Sommario: 1. La Riforma Madia. Introduzione. 2. La
Conferenza dei servizi. 3. Silenzio-assenso. 4. Autotutela e
termine ragionevole. 4A. Efficacia ed esecutività del
provvedimento. |
APPALTI:
S. Napolitano,
LA TEORIA DEL “SUBAPPALTO NECESSARIO”: IL RECENTE DIBATTITO
ALLA LUCE DEI DIVERSI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
(Gazzetta Amministrativa
n. 3-4/2015).
---------------
Giunge all’attenzione dell’Adunanza Plenaria, la questione
relativa all’indicazione del nominativo dei subappaltatori
in sede di offerta da parte dei concorrenti di una gara di
appalto, i quali abbiano dichiarato di voler subappaltare
parte delle prestazioni oggetto dell’affidamento, per le
quali non risultino in possesso della richiesta
qualificazione.
---------------
Sommario: 1. La normativa di riferimento in materia
di subappaltabilità. 2. Il contrasto giurisprudenziale. 3.
L’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria. |
EDILIZIA PRIVATA:
F. R. Marcacci Balestrazzi,
LA V.I.A. E L’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA IN TEMA DI
IMPIANTI DA FONTI RINNOVABILI: DUE NORME A CONFRONTO, ALLA
LUCE DEL RECENTE INTERVENTO DEL TAR PUGLIA
(Gazzetta Amministrativa
n. 3-4/2015).
---------------
In tema di “autorizzazione unica” agli impianti da fonti
rinnovabili (ex art. 12, d.lgs. n. 387/2003), il via libera
alla Valutazione di impatto ambientale (Via) non comprende
l’autorizzazione paesaggistica: quest’ultima - salvo leggi
regionali di coordinamento - è sempre atto autonomo a tutela
dei beni culturali.
---------------
Sommario: 1. Brevi cenni sulla V.I.A.. 2. Brevi cenni
sull’autorizzazione paesaggistica. 3. Un ibrido:
l’autorizzazione unica agli impianti da fonti rinnovabili ex
art. 12, d.lgs. n. 387/2003. 4. Zone vincolate e impianti
per fonti rinnovabili. 5. Impianti da fonti rinnovabili e
tutela del paesaggio: le oscillazioni della giurisprudenza
amministrativa. 6. Intervento chiarificatore del giudice
amministrativo in tema di autorizzazione unica agli impianti
da fonte rinnovabile. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
P. Cerbo,
L’affidamento dei “servizi legali” fra giurisprudenza
nazionale e nuova direttiva appalti (Urbanistica
e appalti n. 12/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
B. Graziosi,
Appunti sulla demolizione edilizia “abdicativa” (Urbanistica
e appalti n. 11/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Scarcella,
Nuovi volumi e ristrutturazione edilizia: necessario il PdC
(Urbanistica e appalti n. 11/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. De Pauli,
Polizza fideiussoria a garanzia degli oneri di
urbanizzazione e giurisdizione del G.A. (Urbanistica
e appalti n. 11/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
S. R. Masera,
La VAS per la zonizzazione acustica (Urbanistica
e appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
E Boscolo,
L’inammissibilità dell’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria: riaffermazione del principio e questioni sempre
aperte (Urbanistica e appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
V. Gastaldo,
La natura e l’onere di motivazione delle sanzioni pecuniarie
in materia edilizia (Urbanistica e appalti n.
11/2013). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Modalità di presentazione delle proposte di deliberazione da
parte dei consiglieri comunali.
La disciplina sulle modalità di
presentazione e discussione delle proposte di deliberazione
dei consiglieri da sottoporre al consiglio comunale è
rimessa al regolamento sul funzionamento del consiglio.
Il Consigliere comunale chiede un parere in merito alla
procedura da seguire per la presentazione di una proposta di
deliberazione da sottoporre al consiglio comunale. Più in
particolare, desidera sapere se un consigliere possa
presentare direttamente in consiglio comunale una proposta
di deliberazione il cui allegato 'ha già completato
l'iter nella commissione competente.'
[1]
In via preliminare, si osserva che, ai sensi dell'articolo
38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, la
disciplina sulle modalità di presentazione e discussione
delle proposte di deliberazione da sottoporre al consiglio
comunale è rimessa al regolamento sul funzionamento del
consiglio.
L'articolo 23 del regolamento consiliare comunale, rubricato
'Iniziativa delle proposte dei consiglieri comunali' nel
prevedere il diritto di iniziativa dei consiglieri su ogni
argomento di competenza del consiglio comunale detta la
procedura da seguire per la presentazione delle proposte di
deliberazione. A tal fine, è previsto che la proposta di
deliberazione sia inviata al presidente del consiglio il
quale procederà, in conformità alle disposizioni
regolamentari, al suo inoltro al segretario generale e,
successivamente, se l'istruttoria precedentemente instaurata
su tale proposta si è conclusa favorevolmente, alla
commissione consiliare competente (articolo 23, commi 2 e
4).
Una deroga a tale procedura è prevista dal medesimo articolo
23, al comma 5, il quale recita: 'La procedura di cui ai
commi precedenti non è necessaria qualora la proposta si
configuri quale atto di indirizzo al sindaco e alla giunta
rispetto all'esercizio delle loro funzioni, comprese le
nomine, le designazioni presso enti, aziende ed istituzioni,
nonché l'ordinamento degli uffici e dei servizi'.
Atteso che la fattispecie descritta pare non rientrare nella
deroga di cui all'articolo 23, comma 5, del regolamento
consiliare, si ritiene che la proposta di deliberazione in
riferimento debba essere effettuata con le modalità indicate
al comma 2 del medesimo articolo ovverosia mediante il suo
invio al presidente del consiglio.
---------------
[1] Si riportano testualmente le parole utilizzate nel
quesito (05.08.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO:
Riduzione del canone di locazione passiva. Immobili ad uso
istituzionale.
Trattando delle previsioni di riduzione
del canone di locazione passiva, di cui all'art. 3 del D.L.
95/2012 conv. in L. 135/2012, la Corte dei conti, chiamata a
stabilire che cosa debba intendersi per 'immobili
istituzionali', dopo aver premesso di poter fornire solo
«indicazioni di carattere generale che andranno poi calate
nella realtà comunale», ha affermato che «Gli immobili
destinati ad uso istituzionale sono tutti quelli adibiti
allo svolgimento di funzioni, servizi o attività gestite
dall'amministrazione per far fronte alle proprie finalità,
quali determinate dalla legge e dallo statuto», precisando
che «In generale, quindi, occorre valutare se l'immobile sia
destinato all'esercizio delle funzioni istituzionali
dell'ente e sarà cura del Comune individuare specificamente
a quali immobili riferire la disposizione in oggetto».
Il Comune, che intende rinnovare un contratto di locazione
passiva concernente un edificio concesso in uso ad alcune
associazioni presenti sul territorio e adibito a sedi
sociali, ritiene che al contratto medesimo debba trovare
applicazione la riduzione del canone prevista, per gli
immobili 'a uso istituzionale', dall'articolo 3,
comma 4 [1],
del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 convertito, con
modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, sul
presupposto che 'l'utilizzo dei locali a favore delle
associazioni è espressione della più ampia funzione
amministrativa relativa all'associazionismo, di cui l'ente
locale è titolare'.
Poiché il locatore eccepisce che l'utilizzo dell'immobile
non sarebbe finalizzato all'espletamento di funzioni
istituzionali, il Comune chiede di conoscere se la propria
diversa interpretazione sia condivisibile.
Sulla questione volta a stabilire che cosa debba intendersi
per 'immobili istituzionali' si segnala l'intervento
della Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per
la Toscana [2]
la quale, dopo aver premesso che «sul punto non possono
che essere fornite indicazioni di carattere generale che
andranno poi calate nella realtà comunale», ha affermato
che «Gli immobili destinati ad uso istituzionale sono
tutti quelli adibiti allo svolgimento di funzioni, servizi o
attività gestite dall'amministrazione per far fronte alle
proprie finalità, quali determinate dalla legge e dallo
statuto; tali, a titolo esemplificativo, quelli dove si
trovano la sede degli uffici, delle aziende o delle scuole
comunali».
La Corte ha, inoltre, chiarito che «In generale, quindi,
occorre valutare se l'immobile sia destinato all'esercizio
delle funzioni istituzionali dell'ente e sarà cura del
Comune individuare specificamente a quali immobili riferire
la disposizione in oggetto».
---------------
[1] Si riporta, di seguito, il testo del comma 4, come
modificato, da ultimo, dall'articolo 24, comma 4, lett. a),
del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89:
«Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con
riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad
oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle
Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto
nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3,
della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità
indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le
società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono
ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per
cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla
data dell'entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente
si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o
rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di
locazione si inserisce automaticamente nei contratti in
corso ai sensi dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle
eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il
diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si
applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo
alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il
rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in
presenza e coesistenza delle seguenti condizioni:
a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il
pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d'uso, per il
periodo di durata del contratto di locazione;
b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle
esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli
esiti dei piani di razionalizzazione di cui dell'articolo 2,
comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ove già definiti,
nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle
strutture previste dalle norme vigenti.».
Si rammenta che il comma 7 del medesimo articolo, nel testo
sostituito dall'articolo 24, comma 4, lett. b), del D.L.
66/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 89/2014, ha
disposto l'estensione delle previsioni contenute nei commi
da 4 a 6 a tutte le altre amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165, in quanto compatibili.
[2] V. deliberazione n. 265/2014/PAR del 17.12.2014 (01.08.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Richiesta di accesso agli atti.
Qualora l'accesso ai documenti
amministrativi sia motivato dalla cura o dalla difesa di
propri interessi giuridici, esso tendenzialmente prevale
sull'esigenza di riservatezza del terzo.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di
accesso ad una pratica edilizia avanzata da uno studio
legale, nell'ambito di una pratica di divorzio dallo stesso
seguita.
Di seguito si riepilogano i fatti verificatisi al fine di
fornire un quadro il più possibile completo della vicenda:
nell'ambito di una causa legale di divorzio l'avvocato di
parte avanza richiesta di accesso agli atti inerenti
l'edificazione di un immobile dell'altro coniuge al fine di
estrarre copia della documentazione ritenuta utile per
dimostrare quali siano le caratteristiche dello stesso; il
Comune, previa notifica al controinteressato il quale nega
il proprio consenso all'accesso, [1]
intendendo respingere la richiesta di ostensione ai
documenti richiesti, comunica all'istante, quale motivo che
osta all'accoglimento della domanda, il fatto che la stessa
'non indica puntualmente i documenti da visionare per la
dimostrazione di un interesse diretto, concreto ed attuale
collegato ad una situazione che sia giuridicamente tutelata
e connessa al documento oggetto di richiesta di accesso'.
[2]
In conseguenza di un tanto, il richiedente l'accesso rinnova
la propria istanza specificando che la stessa ha ad oggetto
'copia della planimetria dell'abitazione e pertinenze;
certificato dell'attestazione energetica e di quei documenti
correlati che possano certificare che la casa rientra nella
categoria delle case Clima Golg A'. Quale motivazione
viene addotta la necessità di dimostrare le capacità
reddituali dell'obbligato al fine della determinazione della
corresponsione di un assegno di divorzio.
[3]
In via generale, si fa presente che compito dello scrivente
Ufficio è fornire una consulenza giuridico- amministrativa
su questioni di interesse per gli enti locali, non potendo
invece lo scrivente sostituirsi in scelte di esclusiva
competenza dell'amministrazione che gestisce un determinato
procedimento amministrativo.
Di conseguenza, di seguito, si forniscono una serie di
considerazioni generali che possano orientare l'Ente nella
decisione da assumere in relazione alla fattispecie
concreta.
L'articolo 22, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241,
precisa, alla lettera a), che per 'diritto di accesso'
si intende il «diritto degli interessati di prendere
visione e di estrarre copia di documenti amministrativi»
e, alla lettera b), che per 'interessati' debbano
intendersi «tutti i soggetti privati, compresi quelli
portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso».
In via generale, si rileva la sussistenza della
legittimazione alla richiesta all'accesso agli atti da parte
del legale il quale agisce in nome e per conto del soggetto
'interessato'. In tal senso si è espressa la
giurisprudenza la quale ha, al riguardo, affermato che: 'L'avvocato
che sia già munito di mandato difensivo conferito con le
forme d'uso (quali munito di "ogni più ampio potere di
legge") così come può senz'altro rivolgere al Giudice adìto
un'istanza istruttoria diretta all'acquisizione di
documenti, allo stesso modo deve reputarsi abilitato a
perseguire tale risultato presentando direttamente, nella
propria qualità, un'istanza di accesso all'Amministrazione
controparte del giudizio già pendente (artt. 22 ss. legge n.
241/1990). Questo sempre che si tratti dell'acquisizione di
atti che siano obiettivamente connessi all'oggetto
dell'impugnativa precedentemente proposta'
[4].
La giurisprudenza, nel declinare i requisiti che la
richiesta di accesso deve possedere ai fini del suo
accoglimento ha affermato che: 'La nuova configurazione
del diritto di accesso garantisce il diritto di coloro che
abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata a determinati documenti, di prenderne visione ed
estrarne copia, nel rispetto del delicato equilibrio tra le
esigenze di tutela di situazioni giuridicamente tutelate e
la riservatezza dei terzi.
Tuttavia, la domanda di accesso, per essere accoglibile,
deve rispondere ad una serie di requisiti, e, segnatamente:
a) deve avere un oggetto determinato o quanto meno
determinabile, e non può essere generica; b) deve riferirsi
a specifici documenti e non può comportare la necessità di
un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto
destinatario della richiesta; c) deve essere finalizzata
alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il
richiedente è portatore; d) non può essere uno strumento di
controllo generalizzato dell'operato della p.a., ovvero del
gestore di pubblico servizio nei cui confronti l'accesso
viene esercitato; e) non può essere un mezzo per compiere
una indagine o un controllo ispettivo, cui sono
ordinariamente preposti organi pubblici, perché in tal caso
nella domanda di accesso è assente un diretto collegamento
con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti'.
[5]
Ai fini della fattispecie in esame rileva, altresì, il
disposto di cui all'articolo 24, comma 7, della legge
241/1990 il quale recita: 'Deve comunque essere garantito
ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti
dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei
limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini
previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo
30.06.2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo
stato di salute e la vita sessuale.'
La giurisprudenza, al riguardo, ha in diverse occasioni
affermato che 'qualora l'accesso ai documenti
amministrativi sia motivato dalla cura o dalla difesa di
propri interessi giuridici, esso tendenzialmente prevale
sull'esigenza di riservatezza del terzo'
[6] e che
'il problema del bilanciamento delle contrapposte
esigenze delle parti interessate, difesa e cura dei propri
interessi, da parte del richiedente, da un lato, e diritto
di riservatezza dei terzi, dall'altro, è stato quindi
risolto dal legislatore dando prevalenza al diritto di
accesso, ai sensi dell'art. 24, comma 7, cit., ferme le
limitazioni per i dati sensibili e giudiziari'
[7].
In altri termini, 'nei rapporti tra riservatezza e accesso
agli atti della P.A. la prima in generale recede quando
l'accesso sia funzionale alla tutela ed alla difesa di
propri interessi giuridici' [8].
Nello stesso senso si è espressa anche la Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi la quale, nella seduta
del 15.03.2011, ha affermato che: «La norma di
salvaguardia di cui all'art. 24, comma 7, l. n. 241/1990
secondo la quale 'Deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici' è stata riconosciuta di generale
applicazione dalla giurisprudenza del giudice amministrativo
e di questa Commissione».
Quanto, poi, all'aspetto concernente il potere/dovere del
Comune di sindacare l'idoneità della motivazione avanzata
dal richiedente l'accesso ai fini dell'ottenimento della
documentazione richiesta si osserva che la giurisprudenza ha
affermato che 'allorquando venga presentata una richiesta
di accesso documentale motivata con riferimento alla
necessità di tutelare i propri interessi nelle competenti
sedi giudiziarie o amministrative, anche nel caso in cui non
sia certo che, successivamente, tali atti siano
effettivamente utilizzabili in tali sedi, l'accesso non può
essere denegato. Infatti, l'apprezzamento sull'utilità o
meno della documentazione richiesta in ostensione non spetta
né all'Amministrazione destinataria dell'istanza ostensiva
né allo stesso giudice amministrativo adito con l'actio ad
exibendum, ma soltanto all'interessato che agisce per la
tutela dell'interesse giuridicamente rilevante, sotteso alla
pregressa domanda di accesso'. [9]
Con riferimento a richieste di accesso agli atti volte
all'ostensione di documenti ritenuti necessari per la
determinazione dell'assegno di mantenimento in cause di
separazione e divorzio la giurisprudenza ha affermato che:
'Il diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di
riservatezza di terzi, ove sia esercitato per consentire la
cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente
protetti e concerna un documento amministrativo
indispensabile a tali fini, la cui esigenza non possa essere
altrimenti soddisfatta: di conseguenza, in capo al coniuge
separato sussiste, nei confronti dell'Agenzia delle Entrate,
il diritto di accesso alle dichiarazioni dei redditi del
convivente more uxorio dell'altro coniuge. Tale istanza di
accesso documentale, infatti, essendo rivolta a dimostrare
la capacità di reddito del convivente del coniuge separato,
è funzionale ad esonerare il richiedente dall'obbligo di
corresponsione dell'assegno di mantenimento. Né il diritto
di accesso viene meno per aver il medesimo richiedente
sollecitato il giudice civile ad acquisire le dichiarazioni
dei redditi in questione, atteso che l'art. 210 c.p.c.
[10]
prevede la facoltà dell'ordine istruttorio e non anche la
sua obbligatorietà'. [11]
In altra similare occasione il giudice amministrativo ha
affermato che: 'E' illegittimo il diniego di accesso agli
atti relativi agli stipendi o emolumenti corrisposti
dall'amministrazione, adottato a fronte dell'istanza
avanzata al dichiarato fine di conoscere i dati
sull'attività lavorativa svolta e sulla retribuzione
percepita dal coniuge, dati che il ricorrente assume utili
per ottenere una determinazione giudiziale a sé più
favorevole nella determinazione della misura dell'assegno di
mantenimento, sia nel procedimento di modifica delle
condizioni economiche della separazione, sia nell'ambito
dell'instaurando procedimento di divorzio, considerato che
la documentazione richiesta non coinvolge la conoscenza di
dati sensibili. [...]'. [12]
Sul tema dell'ostensibilità di documenti relativi a beni del
coniuge nei confronti del quale è in corso una procedura
giudiziale di divorzio si è espressa anche la Commissione
per l'accesso ai documenti amministrativi
[13] affermando
che: 'Prevale il diritto all'accesso dell'istante, che ha
richiesto, al fine di dimostrare le fonti di reddito della
moglie nell'ambito della procedura giudiziale di divorzio,
all'Agenzia delle Entrate di prendere visione del contratto
di locazione stipulato dal coniuge. Sussistono tutti gli
elementi (interesse diretto attuale e concreto e necessità
di tutela giudiziaria della propria posizione giuridica) per
poter accedere ai documenti richiesti all'Agenzia delle
Entrate, non solo sotto forma di visione ma anche di
estrazione di copia. Del resto, costituisce giurisprudenza
consolidata quella secondo la quale il diritto di accesso ai
documenti amministrativi è prevalente rispetto alla tutela
della privacy del terzo, quando sussista l'esigenza
dell'accedente di curare e difendere i propri interessi
giuridici, come del resto prevede l'art. 24, comma 7, l. n.
241/1990. Tuttavia, l'amministrazione investita della
richiesta di accesso -trattandosi di documenti concernenti
una terza persona controinteressata- dovrà avere cura di
notificare tale istanza a quest'ultima, avvertendola che
un'eventuale sua opposizione dovrà comunque recedere a
fronte del diritto dell'istante'.
---------------
[1] Le motivazioni addotte dal controinteressato
consistono nel fatto che la richiesta di accesso sarebbe, da
un lato 'generica senza l'indicazione degli atti di cui vi è
necessità di visione ed estrazione copia' e, dall'altro che
i documenti richiesti sarebbero 'inconferenti e
inammissibili nel processo di divorzio indicato'.
[2] Ai sensi dell'articolo 10-bis della legge 07.08.1990, n.
241: 'Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile
del procedimento o l'autorità competente, prima della
formale adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all'accoglimento della domanda. [...]'
[3] Ai sensi dell'articolo 10-bis della legge 241/1990 entro
il termine di dieci giorni dal ricevimento della
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza, l'istante ha il diritto di presentare per
iscritto le sue osservazioni, eventualmente corredate da
documenti.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 30.09.2013, n.
4839.
[5] Cons. Giust. Amm. Sic., sentenza del 10.06.2011, n. 420.
Nello stesso senso si veda, Consiglio di Stato, sez. IV,
sentenza del 04.04.2011, n. 2118. Quanto alla giurisprudenza
di primo grado, tra le altre, si vedano, TAR Piemonte,
Torino, sez. I, sentenza del 18.02.2016, n. 207 e TAR
Sicilia, Palermo, sez. II, sentenza del 02.12.2013, n. 2330.
[6] TAR Puglia, Bari, sez. III, sentenza del 05.05.2016, n.
584.
[7] Cons. Giust. Amm. Sic., sentenza del 09.06.2014, n. 310.
[8] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 28.07.2015, n.
3741.
[9] TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, sentenze del
22.09.2015, n. 1022 e del 23.02.2016, n. 174. Nello stesso
senso si veda, anche, TAR Campania, Napoli, sez. VI,
sentenza del 15.04.2015, n. 2107 ove si afferma che: 'Nel
caso in cui l'accesso ai documenti amministrativi sia
invocato per la cura o per la difesa degli interessi
giuridici dell'istante, ex art. 24, comma 7, L. n. 241/1990,
il Giudice dell'accesso non può che compiere una valutazione
in astratto della necessità difensiva evidenziata
dall'istante medesimo e della pertinenza del documento, non
potendo giungere sino a sindacare la concreta utilità della
documentazione ai fini della vittoriosa conclusione di quel
giudizio'. Anche il TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez.
I, nella sentenza del 10.02.2016, ha rilevato che: 'In sede
di giudizio sull'accesso agli atti della P.A. il Giudice non
deve verificare la fondatezza della posizione soggettiva
alla cui cura è finalizzata la denegata istanza di
ostensione, ma deve limitarsi ad appurare che questa non sia
manifestamente pretestuosa o del tutto scollegata ai
documenti richiesti'.
[10] L'articolo 210 c.p.c., rubricato 'Ordine di esibizione
alla parte o al terzo', recita: 'Negli stessi limiti entro i
quali può essere ordinata a norma dell'articolo 118
l'ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo,
il giudice istruttore, su istanza di parte può ordinare
all'altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un
documento o altra cosa di cui ritenga necessaria
l'acquisizione al processo.
Nell'ordinare l'esibizione, il giudice dà i provvedimenti
opportuni circa il tempo, il luogo e il modo
dell'esibizione.
Se l'esibizione importa una spesa, questa deve essere in
ogni caso anticipata dalla parte che ha proposta l'istanza
di esibizione'.
[11] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 20.09.2012,
n. 5047. Nello stesso senso si veda, anche, Consiglio di
Stato, sez. IV, sentenza del 14.05.2014, n. 2472 ove si
afferma che: 'Il coniuge ha diritto, anche in pendenza del
giudizio di separazione o divorzio, di accedere alla
documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale dell'altro
coniuge, detenuta dall'amministrazione finanziaria, al fine
di difendere i propri interessi giuridici attuali e
concreti. [...]'.
[12] TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, sentenza del
18.09.2006, n. 1711.
[13] Parere espresso dalla Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi nella seduta del 31.05.2011 (29.07.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
LAVORI PUBBLICI: I
costi di prevenzione «pesano» negli appalti. Scompare il
piano sostitutivo nei cantieri con unica impresa.
Sicurezza. Con il
Codice la congruità diventa elemento di valutazione delle
offerte.
L’appaltatore
non dovrà più mettere a punto il piano sostitutivo di
sicurezza se nel cantiere manca il coordinatore per la
sicurezza. Il nuovo Codice appalti (Dlgs 50/2016) ha
cancellato quest’onere, previsto per i cantieri in cui è
presente una sola impresa dal 19 aprile scorso.
Il decreto apporta una serie di modifiche e pone alcune
conferme rispetto agli obblighi in materia di sicurezza sul
lavoro.
Resta in primo luogo invariato il rapporto di specialità tra
Codice appalti e Testo unico sicurezza (Dlgs 81/2008): il
secondo trova applicazione anche per gli appalti pubblici,
solo in mancanza di una specifica norma del Dlgs 50/2016,
che invece se presente prevale.
Le garanzie
Sempre in tema di sicurezza sul lavoro, l’articolo 80, comma
5, lettera a), dispone che la stazione appaltante «possa
dimostrare con qualunque mezzo adeguato la presenza di gravi
infrazioni debitamente accertate delle norme in materia di
salute e sicurezza sul lavoro». Una norma ampia che
sembrerebbe far rientrare nel proprio raggio d’azione tutte
le ipotesi di infrazioni accertate, anche se non in forma
definitiva quali cause di esclusione dalla gara.
L’altra novità introdotta dal decreto è nella verifica delle
offerte anomale. Ora l’amministrazione deve valutare anche
la congruità degli oneri aziendali per la sicurezza sul
lavoro, che vanno indicati nell’offerta. Al comma 6 si
precisa che: «non sono ammesse giustificazioni in relazione
a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla
legge o da fonti autorizzate dalla legge. Non sono, altresì,
ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di
sicurezza».
Per essere ammessi alle procedure di appalto, il concorrente
deve garantire alla Pa committente di aver adottato tutte le
misure possibili per adeguarsi alla normativa, scoraggiarne
la violazione ed evitare così infortuni (con le ipotesi di
omicidio colposo a seguito della violazione delle norme
antinfortunistiche, ex articolo 589 del Codice penale,
lesioni gravissime occorse nelle medesime circostanze, ex
articolo 590 del Codice penale, o omicidio colposo in
attività a maggior rischio, ex articolo 55 del Dlgs
50/2016).
Uno strumento efficace in tal senso può essere l’adozione
del modello di organizzazione e gestione della sicurezza.
In relazione poi al riparto di responsabilità tra
appaltatore-subappaltante e subappaltatore, il comma 14
dell’articolo 105, prevede espressamente che l’affidatario,
ossia l’originario appaltatore che ha subappaltato i lavori,
corrisponda «i costi della sicurezza e della manodopera,
relativi alle prestazioni affidate in subappalto, alle
imprese subappaltatrici senza alcun ribasso», e la stazione
appaltante, sentiti il direttore dei lavori, il coordinatore
della sicurezza in fase di esecuzione o il direttore
dell’esecuzione, deve verificare l’effettiva applicazione
della disposizione. Infine, nell’ultimo periodo del comma 14
si precisa che l’affidatario è solidalmente responsabile con
il subappaltatore per tutti gli adempimenti in materia di
sicurezza sul lavoro che gravano su quest’ultimo, in quanto
effettivo esecutore dei lavori.
Gli oneri cancellati
Altra novità del Codice appalti è rappresentata, come
anticipato, dalla cancellazione dell’obbligo, in capo
all’appaltatore, di redigere il Pss (Piano sostitutivo di
sicurezza), in assenza di coordinatori per la sicurezza per
uno specifico cantiere. Così il ruolo di coordinatore per
l’esecuzione torna ad essere affidato al direttore dei
lavori, salvo che questi non sia privo dei requisiti
professionali necessari.
L’articolo 101 comma 2, invero,
precisa che per le attività di coordinamento, direzione e
controllo tecnico-contabile dell’esecuzione dei contratti
pubblici relativi a lavori, la Pa committente, prima di
aprire le procedure di affidamento, deve individuare un
direttore dei lavori, il quale potrà essere coadiuvato da
direttori operativi e ispettori di cantiere. Il direttore
dei lavori deve anche verificare periodicamente il possesso
e la regolarità, da parte dell’esecutore e subappaltatore,
della documentazione prevista dalla normativa vigente in
relazione agli obblighi verso i dipendenti e segnalare le
violazioni di cui all’articolo 105 in materia di sicurezza
sul lavoro al responsabile del procedimento.
L’articolo 30 del Codice appalti prevede la possibilità di
subordinare il principio di economicità all’esigenza di
tutelare la salute dei lavoratori.
Infine l’articolo 95 introduce un nuovo criterio di
aggiudicazione dell’appalto: non in base al massimo ribasso
(ancora applicato in casi residuali), bensì all’offerta
economicamente più vantaggiosa, facendo peraltro riferimento
-tra gli altri- al possesso da parte dell’impresa delle
attestazioni in materia di sicurezza e salute dei
lavoratori, come la Oshas 18001. Una novità che costituisce
meccanismo premiale per le aziende che investono sulla
gestione della sicurezza sul lavoro (articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: MiniRaee,
via al ritiro gratuito. Distributori tenuti anche a
informativa e deposito. Le novità
previste dal decreto 31.05.2016 n. 121 pubblicato in G.U.
del 7 luglio.
Operative dal 22.07.2016 le regole che consentiranno ai
distributori di nuove «Aee» (apparecchiature elettriche ed
elettroniche) di effettuare il ritiro uno contro zero dei
Raee inferiori a 25 cm (come smartphone, macchine
fotografiche digitali, laptop) provenienti dai nuclei
domestici in modo semplificato (ossia in deroga
all'ordinario regime autorizzativo sui rifiuti previsto dal
dlgs 152/2006), dettate dal decreto del ministero
dell'ambiente del 31.05.2016 n. 121 (in G.U. del 07/07/2016,
n. 157).
Il contesto normativo.
Le nuove norme, che interessano sia i distributori obbligati
al suddetto ritiro, che quelli che vorranno adottarlo in via
facoltativa (tra cui i venditori online di Aee), arrivano in
attuazione del comma 3, articolo 11, del dlgs 49/2014, e si
affiancano (con rilevanti punti di contatto) a quelle sul
ritiro gratuito degli altri Raee domestici all'atto
dell'acquisto di equivalenti beni (c.d. uno contro uno), che
restano disciplinati dai commi 1 e 2, medesimo articolo, e
dal dm 65/2010.
Quali Raee.
Oggetto della disciplina semplificativa sono i tecno-rifiuti
che soddisfano entrambe le seguenti condizioni:
- sono di «piccolissime dimensioni» (ossia con dimensioni
esterne inferiori ai 25 cm, ex art. 4, dlgs 49/2014);
- provengono da nuclei domestici. Tale ultima disposizione
appare tuttavia dover esser letta alla luce dell'articolo 4,
comma 1, lettera l), del dlgs 49/2014, in base al quale sono
considerati domestici anche i cd. «Raee dual use», ossia
quelli «di origine commerciale, industriale, istituzionale e
di altro tipo, analoghi, per natura e quantità, a quelli
originati dai nuclei domestici».
I soggetti interessati.
Duplice il novero dei soggetti interessati dall'esordiente
regime semplificato:
- in quanto obbligati dal dlgs 49/2014 al «one on zero», i
distributori di Aee con superficie di vendita al dettaglio
degli stessi di almeno 400 mq;
- in quanto ammessi in via facoltativa al medesimo ritiro,
sia i distributori con superficie di vendita inferiore che i
venditori a distanza, per i quali ultimi è prevista la
possibilità di avvalersi dei luoghi di ritiro e deposito
allestiti dai distributori con punti di vendita fisici.
Il ritiro: informazione al pubblico.
I distributori dovranno preventivamente informare gli
utilizzatori sulla gratuità del ritiro senza obbligo di
equivalente acquisto secondo le modalità previste dal neo dm
121/2016.
Luoghi e modalità.
Il ritiro dovrà essere effettuato all'interno dei locali del
punto vendita o in luoghi di pertinenza situati in
prossimità.
I distributori potranno però rifiutarlo in caso di rischio
di contaminazione per il personale, evidente mancanza dei
componenti essenziali o presenza di rifiuti diversi dai Raee
(con l'obbligo per i detentori di conferirli direttamente ai
centri di raccolta).
Tecnicamente, il ritiro dovrà avvenire tramite contenitori
messi a disposizione degli utilizzatori finali presso gli
esercizi commerciali e rispondenti a precise caratteristiche
tecniche, assicurandone lo svuotamento periodico con
successivo raggruppamento dei Raee nel luogo di «deposito
preliminare» a successivi raccolta e trasporto.
Gli oneri documentali previsti in tale fase coincidono con:
- compilazione, all'atto dello svuotamento, del modulo
previsto dall'allegato 1 al nuovo decreto;
- sua numerazione progressiva, sottoscrizione, conservazione
ed allegazione in copia al documento ex allegato B per il
successivo trasporto a centri/impianti di trattamento.
Deposito preliminare alla raccolta.
Il successivo deposito dei Raee provenienti dai suddetti
luoghi di ritiro dovrà rispettare precise caratteristiche
tecniche di sicurezza ambientale ed umana. La durata massima
è dettata dalla tempistica sul prelievo dei Raee al fine del
loro trasporto verso i centri/impianti, che dovrà avvenire:
ogni sei mesi o, in alternativa, quando il quantitativo
raggiunge mille kg, e comunque entro l'anno di deposito. I
distributori che già effettuano il ritiro «uno contro uno»
di Raee potranno utilizzare relativi luoghi di deposito e
regole tecniche (ex art. 11, comma 2, del dlgs 49/2014) anche
per i piccolissimi tecno-rifiuti ricevuti «uno contro zero»,
godendo così dei più larghi margini quantitativi di
stoccaggio.
Trasporto a centri/impianti di trattamento.
Dovrà essere effettuato da distributori o terzi che agiscono
in loro nome previa iscrizione nella categoria 3-bis (o
altra che la comprenda, ex Dm 120/2014) dell'Albo gestori
ambientali ed esclusivamente dal luogo di raggruppamento (il
deposito sopra citato) ad uno dei centri o impianti ex
articolo 7 del nuovo decreto.
Il trasporto dovrà essere accompagnato dal documento ex
allegato 2 al nuovo Dm, come integrato dai moduli di
movimentazione interna ex allegato 1. Il documento di
trasporto così completato dovrà essere tenuto in maniera
simile al tradizionale formulario di trasporto rifiuti,
dunque con la sua redazione in triplice esemplare,
numerazione, sottoscrizione e conservazione da parte dei
soggetti coinvolti (compreso l'impianto di destinazione); ma
con la peculiarità di avere valore sostitutivo della tenuta
dei registri di carico/scarico ex dlgs 152/2006.
Resteranno
comunque affidate agli accordi di programma stipulati ex
articolo 16, dlgs 49/2014 le peculiari modalità di ritiro e
raccolta dei Raee detenuti dai distributori analogamente a
quanto già accade per l'uno contro uno
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia,
nullaosta a due vie. Previste l'esenzione o l'autorizzazione
semplificata. Via libera della
Conferenza unificata al dpr che regola i piccoli interventi
paesaggistici.
Parere positivo dalla Conferenza unificata per la
«velocizzazione» delle procedure di piccoli interventi
paesaggistici senza autorizzazione. Saranno esentati
dall'autorizzazione paesaggistica gli interventi volti al
miglioramento dell'efficienza energetica, all'adeguamento
antisismico, all'eliminazione delle barriere architettoniche
(compresa l'installazione di un servoscala o ascensore
esterno) che non comportino elementi emergenti dalla sagoma.
La
Conferenza unificata del 07.07.2016 ha dato il via
libera definitivo al dpr del ministero beni culturali
recante il «regolamento relativo all'individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura semplificata».
Opere libere da nullaosta paesaggistico. Il regolamento
definisce nell'allegato «A» gli interventi e le opere non
soggetti ad autorizzazione paesaggistica, tra i quali
rientrano:
• opere interne che non alternano l'aspetto esteriore degli
edifici, comunque denominate ai fini urbanistico-edilizi,
anche ove comportanti mutamento della destinazione d'uso;
• interventi sui prospetti o sulle coperture degli edifici,
purché eseguiti nel rispetto degli eventuali piani del
colore vigenti nel comune e delle caratteristiche
architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle
finiture esistenti;
• interventi che abbiano finalità di consolidamento statico
degli edifici, compresi quelli per il miglioramento o
adeguamento antisismico che non comportano modifiche alle
caratteristiche morfo-tipologiche, ai materiali di finitura
o rivestimento, o alla volumetria e all'altezza
dell'edificio;
• interventi indispensabili per l'eliminazione delle
barriere architettoniche, quali la realizzazione di rampe
esterne per il superamento di dislivelli non superiori a 60
cm, l'installazione di apparecchi servoscala esterni, nonché
la realizzazione, negli spazi pertinenziali interni non
visibili dallo spazio pubblico, di ascensori esterni o di
altri manufatti simili;
• installazioni di impianti tecnologici esterni a servizio
dei singoli edifici non soggette ad alcun titolo edilizio
(condizionatori e impianti di climatizzazione, caldaie,
parabole, antenne);
• installazione di pannelli solari (temici o fotovoltaici);
• installazione di micro generatori eolici di altezza
complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non
superiore a 1 metro, in edifici non vincolati;
• installazione di dispositivi di sicurezza anticaduta sulle
coperture degli edifici.
Autorizzazione semplificata. Nell'allegato «B» del dpr in
commento viene invece regolamentata l'autorizzazione
semplificata e rapida per 42 tipologie di interventi
considerati a impatto lieve sul territorio. Tra questi
rientrano:
• incrementi di volume non superiori al 10% della volumetria
della costruzione originaria e comunque non superiori a 100
m3, eseguiti nel rispetto delle caratteristiche
architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle
finiture esistenti;
• realizzazione o modifica di aperture esterne o finestre a
tetto riguardanti beni vincolati purché eseguiti nel
rispetto delle caratteristiche architettoniche,
morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti;
• modifiche delle facciate mediante realizzazione o
riconfigurazione di aperture esterne o di manufatti quali
cornicioni, ringhiere, parapetti;
• interventi sulle finiture esterne, con rifacimento di
intonaci, tinteggiature o rivestimenti esterni, modificativi
di quelli preesistenti;
• realizzazione, modifica o chiusura di balconi o terrazze;
• realizzazione o modifica sostanziale di scale esterne;
• interventi di adeguamento antisismico o finalizzati al
contenimento dei consumi energetici, comportanti innovazioni
nelle caratteristiche morfo-tipologiche, ovvero nei
materiali di finitura o di rivestimenti preesistenti;
• interventi necessari per il superamento di barriere
architettoniche che comportano la realizzazione di rampe per
superamento di dislivelli superiori a 60 cm, o la
realizzazione di ascensori esterni o di manufatti che
alterino la sagoma dell'edificio e siano visibili dallo
spazio pubblico.
Saranno assoggettate a procedimento semplificato di
autorizzazione paesaggistica le istanze di rinnovo
rilasciate ai sensi dell'articolo 146 del codice dei beni
culturali, scadute da non più di un anno e relative a
interventi in tutto o in parte non eseguiti, a condizione
che il progetto risulti conforme a quanto precedentemente
autorizzato e alle specifiche prescrizioni di tutela
eventualmente sopravvenute.
Qualora con l'istanza di rinnovo vengono chieste anche
variazioni progettuali che comportano interventi di non
lieve entità, si applicherà il procedimento autorizzatorio
ordinario.
---------------
Compilazione telematica e con relazione.
L'istanza di autorizzazione paesaggistica relativa agli
interventi di lieve entità è compilata in maniera
telematica, secondo il modello semplificato (allegato «C» al
regolamento in commento) ed è corredata da una relazione
paesaggistica semplificata , redatta da un tecnico
abilitato.
Nella relazione sono indicati: i contenuti
precettivi della disciplina paesaggistica vigente nell'area;
è descritto lo stato attuale dell'area interessata
dall'intervento; è attestata la conformità del progetto alle
specifiche prescrizioni d'uso dei beni paesaggistici, se
esistenti; è descritta la compatibilità del progetto stesso
con i valori paesaggistici che qualificano il contesto di
riferimento e sono altresì indicate le eventuali misure
paesaggistiche previste.
L'istanza di autorizzazione paesaggistica e la relativa
documentazione sono presentate allo sportello unico
dell'edilizia. All'istanza andrà allegata la seguente
documentazione: il permesso di costruire (articolo 20, dpr 06.06.2001 n. 380); la comunicazione di inizio attività o
la segnalazione certificata di inizio attività. L'istanza di
autorizzazione paesaggistica può essere richiesta
preventivamente oppure contestualmente alla segnalazione o
alla comunicazione.
In tal caso, l'interessato, può dare
inizio ai lavori solo dopo la comunicazione da parte dello
sportello unico per l'edilizia dell'avvenuta acquisizione
dell'autorizzazione paesaggistica ovvero dell'esito positivo
della conferenza di servizi; la dichiarazione di inizio
attività. In tali casi, ove l'autorizzazione non sia
allegata all'istanza, il termine di 30 giorni per l'inizio
dei lavori, decorre dal rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica ovvero dall'esito positivo della conferenza
dei servizi.
Il procedimento autorizzatorio semplificato si conclude con
un provvedimento, adottato entro il termine tassativo di
sessanta giorni dal ricevimento della domanda da parte
dell'amministrazione procedente, che è immediatamente
comunicato al richiedente. L'amministrazione procedente,
ricevuta la domanda, verifica preliminarmente se
l'intervento non rientri nelle fattispecie escluse
dall'autorizzazione paesaggistica di cui all'allegato «A»
del regolamento in commento, oppure se sia assoggettato al
regime autorizzatorio ordinario (articolo 146, codice beni
culturali).
In tali casi comunica al richiedente, rispettivamente che
l'intervento non è soggetto ad autorizzazione o richiede le
necessarie integrazioni documentali, ai fini del rilascio
dell'autorizzazione ordinaria
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Insegna della farmacia sorvegliata speciale.
Le insegne delle farmacie possono anche essere di colore
vivace ma quando sono posizionate vicino ai segnali e ai
semafori non devono creare interferenze e devono essere
posizionate parallelamente al senso di marcia dei veicoli.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
26.05.2016 n.
3139 di prot..
Un comune ha richiesto chiarimenti circa il corretto
posizionamento di insegne luminose in prossimità di impianti
semaforici, stante la particolare tecnologia a led che rende
molto brillanti le nuove insegne farmaceutiche. A parere del
ministero oltre all'art. 23 del codice della strada occorre
prestare particolare attenzione agli artt. 50 e 51 del
regolamento stradale.
In particolare l'art. 23 del codice specifica che qualsiasi
insegna non deve arrecare disturbo alla circolazione ovvero
deve essere evitata qualsiasi interferenza con la guida.
Stante l'obbligatorietà dell'insegna farmaceutica da un lato
e la necessità di salvaguardare la sicurezza della
circolazione stradale dall'altro, il comune ha richiesto
istruzioni di dettaglio.
L'art. 50 del regolamento del codice stradale, specifica la
nota centrale, prevede che dentro ai centri abitati trovi
applicazione il locale regolamento anche in riferimento
all'apposizione delle insegne farmaceutiche. In buona
sostanza è nella piena facoltà del comune adottare
provvedimenti che limitino l'intensità e la direzionalità
dei fasci luminosi emessi dall'impianto pubblicitario.
Per garantire la sicurezza della circolazione il primo
cittadino può sempre imporre ulteriori restrizioni
all'esercente anche in considerazione della resa cromatica
degli impianti. Ma prima di tutto andrà verificata la
corrispondenza delle installazioni con le previsioni del
codice stradale ed in particolare con le distanze minime
previste dall'art. 51 del regolamento stradale.
Queste distanze, prosegue il parere ministeriale, potranno
essere derogate solo nel caso in cui l'insegna di esercizio
sia collocata parallelamente al senso di marcia e in
aderenza a un fabbricato esistente. In pratica quindi se
l'insegna è perpendicolare al traffico non potrà essere
posizionata a ridosso di un incrocio o di un semaforo
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Via l’agibilità, arriva la segnalazione del tecnico.
Commercio ed edilizia. In approvazione il correttivo al
decreto 126/2016 sulla Scia: la responsabilità si sposta sul
professionista.
Secondo atto
in materia di semplificazione, con uno schema di decreto
legislativo approvato dal Consiglio dei ministri e inviato
l’11 luglio alla Conferenza unificata (Atto
del Governo n. 322 - Schema di decreto
legislativo recante individuazione di procedimenti oggetto
di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio
attività (SCIA), silenzio-assenso e comunicazione e
definizione dei regimi amministrativi applicabili a
determinate attività e procedimenti), per poi passare alle
Commissioni delle Camere e giungere al traguardo in
prevedibili 90 giorni. Si tratta di una voluminosa serie di
precisazioni rispetto al pur recentissimo decreto
legislativo 126, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 162
del 13 luglio scorso, che ha chiarito il meccanismo della
Scia.
Lo schema del nuovo decreto legislativo specifica, nei
settori del commercio e dell’edilizia, i casi nei quali è
necessaria un’autorizzazione espressa, quelli cui basta una
comunicazione preventiva, e anche i procedimenti per i quali
non vi è necessità di alcuna comunicazione ad uffici
pubblici.
Nel recente decreto legislativo 126/2016 sono contenute
precisazioni sulla Scia, segnalazione che consente l’inizio
immediato dell’attività (anche se sono necessari pareri o
attestazioni di altre amministrazioni). In particolare, una
Scia imperfetta genera l’onere per l’amministrazione di
sospendere, entro 60 giorni, l’attività (nel frattempo
iniziata).
Insieme alla sospensione dell’attività, l’ amministrazione
deve prescrivere le misure necessarie per rettificare le
irregolarità, rettifica da effettuare –a bocce ferme,
quindi con attività sospesa- entro un termine non inferiore
a 30 giorni. Proprio l’esistenza di tempi ristretti per
controllare le Scia, le autorizzazioni e le stesse attività
“libere” rendono opportuna un’ampia tabella, appunto
allegata allo schema di decreto legislativo, dove si
elencano circa 200 attività commerciali ed edili, con i
relativi titoli necessari ed i riferimenti normativi.
Per
esempio, che vuole vendere prodotti mediante apparecchi
automatici in un esercizio di vicinato di tipo alimentare,
saprà con precisione di dover effettuare una “Scia unica” a
norma dei decreti legislativi 59 del 2010 (articolo 65, comma
1) e 114 del 1998 (articoli 7, 8, 9 e 17, comma 4), con i
relativi tempi di reazione da parte del Comune.
Poiché lo Stato, in questo modo, individua un «livello
essenziale» delle prestazioni erogate da pubbliche
amministrazioni, le norme del futuro decreto legislativo
prevarranno su eventuali più severe norme regionali e
locali, in caso di conflitto. Tale prevalenza si estenderà
anche ad un glossario unico nazionale, cioè un vocabolario
delle definizioni e dei titoli giuridici necessari per ogni
intervento.
Due importanti modifiche riguardano l’attuazione delle
singole attività edilizia e la pianificazione nei centri
storici. Sarà sostituito il certificato di agibilità delle
residenze, atto finale dell’attività edilizia, che si
prevede di sostituire con una segnalazione a firma del
tecnico abilitato, con evidente snellimento di procedure e
traslazione di responsabilità.
Nei centri storici, con ampliamento delle previsioni del
codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004), i comuni potranno
vietare o subordinare ad autorizzazioni (anche contenenti
prescrizioni) le attività commerciali ritenute non
compatibili con le esigenze di tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale (lavanderie, kebab e simili). In tal
modo si legittima l’ente locale adottare provvedimenti di
pianificazione locale per esigenze culturali, storico
artistiche e paesaggistiche, superando le vigenti norme
difficilmente consentono di raggiungere lo stesso risultato
basandosi su esigenze di ordine pubblico (articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Più pubblico nelle partecipate.
Assunzioni trasparenti e controlli alla Corte dei conti.
Cosa prevede il decreto delegato approvato in secondo esame
preliminare dal Governo.
Le regole pubblicistiche invadono la disciplina di
regolazione delle società partecipate, con specifico
riferimento ai controlli molto pervasivi della Corte dei
conti e alla gestione del personale.
Il decreto legislativo di riforma delle partecipate (Atto
del Governo n. 297) che
attua la legge delega 124/2015, approvato in secondo esame
preliminare dal consiglio dei ministri di giovedì scorso (si
veda ItaliaOggi di ieri), intensifica notevolmente le
finalità pubblicistiche delle società, così da attrarle
sotto molti aspetti verso una regolazione di stampo pubblico
estremamente capillare.
Costituzione e scioglimento.
La rispondenza a regole e fini di natura pubblica deve
emergere in modo molto chiaro sin dalla scelta di avvalersi
delle società o di dismetterle. Al di là della forma
societaria o del modello di partecipazione (totale, di
controllo o in house) alle amministrazioni pubbliche è fatto
divieto di costituire, direttamente o indirettamente,
società che non abbiano per oggetto attività di produzione
di beni e servizi strettamente necessarie per il
perseguimento delle proprie finalità istituzionali, oppure
di acquisirne o mantenerne partecipazioni.
Vi deve essere una perfetta simmetria, dunque, tra
persecuzione dei fini pubblici di competenza dell'ente, e
dello strumento societario. In sostanza, non ci si può
avvalere delle società per funzioni e competenze non
strettamente attinenti la sfera dei poteri assegnata alle
p.a. Il processo di dismissione, dunque, dovrà considerare
oltre ai fattori di economicità della gestione ed elementi
strutturali come il fatturato, anche il pieno rispetto di
queste norme vincolanti.
Corte dei conti. Il controllo sul rispetto dei vincoli
finalizzati alla costituzione o acquisizione di
partecipazioni delle società sarà molto pervasivo e resterà
in capo alla magistratura contabile, come già previsto nella
formulazione iniziale della riforma, che aveva destato
alcune perplessità poi superate.
Pertanto, prima di adottare l'atto deliberativo finalizzato
a costituire o acquisire quote di una società da parte
dell'organo competente (il consiglio per gli enti locali)
occorrerà inviarne lo schema alla Corte dei conti, che potrà
formulare rilievi sul rispetto dei vincoli visti prima e
sulla coerenza con il piano di razionalizzazione, entro il
termine perentorio di trenta giorni dalla ricezione
dell'atto deliberativo. La Sezione Corte dei conti può
chiedere, per una sola volta, chiarimenti
all'amministrazione pubblica interessata, con conseguente
interruzione del suddetto termine
Forte dell'esperienza piuttosto negativa degli ultimi anni,
nei quali le sezioni della Corte dei conti hanno mostrato
poco coordinamento nell'esprimere pareri nell'ambito delle
attività di controllo collaborativo sugli enti locali, il
legislatore stabilisce che la magistratura contabile si
organizzi per «assicurare uniformità di valutazione, anche
in termini di analisi economica, in ambito nazionale».
Nelle more della determinazione di queste misure
organizzative, per gli enti locali saranno le sezioni
regionali di controllo competenti a ricevere gli schemi di
atti costitutivi. La Corte dei conti conserverà anche la
giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori per
danno erariale.
Personale. Le società partecipate per assumere personale
dovranno comportarsi sostanzialmente come fossero
amministrazioni pubbliche.
La riforma rafforza i principi già vigenti. Per un verso la
gestione del rapporto di lavoro avrà un impronta
prevalentemente privatistica: infatti dai rapporti di lavoro
dei dipendenti delle società a controllo pubblico si
applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V
del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro
subordinato nell'impresa, ivi incluse quelle in materia di
ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla
normativa vigente, e dai contratti collettivi”.
Per altro verso, il reclutamento avverrà con criteri e
strumenti pubblicistici. Infatti le società partecipate
dovranno stabilire, con propri provvedimenti, criteri e
modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei
princìpi, anche di derivazione europea, di trasparenza,
pubblicità e imparzialità e dei princìpi di cui all'articolo
35, comma 3, del dlgs 165/2001. In mancanza, dovranno
applicare direttamente quest'ultima norma e tutte le
assunzioni effettuate in violazione d queste disposizioni
saranno radicalmente nulle.
Se le amministrazioni intenderanno reinternalizzare servizi
prima assegnati a società partecipate, dovranno riassorbire
il personale già dipendente a tempo indeterminato transitato
alle dipendenze della società interessata dal processo di
reinternalizzazione, attraverso la mobilità disciplinata
dall'articolo 30 del dlgs 165/2001 (che, quindi, viene
esteso in via straordinaria anche a soggetti di diritto
privato), sempre, però, nel rispetto dei vincoli in materia
di finanza pubblica e contenimento delle spese di personale.
Inoltre, il riassorbimento potrà avvenire solo nei limiti
dei posti vacanti nelle dotazioni organiche
dell'amministrazione interessata e nell'ambito delle facoltà
assunzionali disponibili
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2016). |
VARI: Revisione della patente, chi circola rischia grosso.
Il destinatario di un provvedimento di revisione della
patente rischia grosso se circola con la licenza sospesa di
validità. Soprattutto se si tratta di una misura di
carattere sanzionatorio derivante per esempio
dall'accertamento della guida alterata.
Lo ha chiarito il
Ministero dell'Interno con la
circolare
01.06.2016 n.
300/a/3953/16/109/55 di prot..
La circolazione con
patente sospesa è densa di incognite anche in relazione alle
diverse tipologie di sanzioni previste dal codice stradale
negli articoli 128 e 218. Per questo motivo il Viminale ha
diramato interessanti chiarimenti agli organi di polizia.
Innanzitutto l'art. 126-bis/6° Cds tratta dell'ipotesi di
revisione della patente in conseguenza dell'azzeramento del
punteggio disponibile. Spetta alla motorizzazione civile
notificare all'interessato l'azzeramento di punteggio con
invito a sottoporsi alla revisione delle licenza entro 30
giorni. Solo se l'utente stradale non ottempera all'obbligo
la motorizzazione disporrà, con un ulteriore provvedimento,
la sospensione della patente a tempo indeterminato. E per
chi non rispetterà l'inibizione scatteranno guai grossi.
Specifica infatti la nota che in tal caso si applicherà la
sanzione prevista dall'art. 128/2° Cds ovvero una multa di
164 euro con la revoca definitiva della licenza.
La stessa
sanzione, prosegue la circolare, si applicherà alle
ulteriori diverse ipotesi di sospensione della patente a
tempo indeterminato contemplate dall'art. 128 Cds ovvero
conseguenti alla revisione della licenza disposta per motivi
tecnici o di salute dell'autista. Attenzione però, in questo
caso la circolazione sarà vietata subito, senza necessità di
un ulteriore avviso. Per quanto riguarda le sanzioni
attenzione alla durata della sospensione.
Se la misura è
stata disposta a tempo indeterminato ricade tutto nella
previsione appena esaminata. Diversamente, se la sospensione
della patente viene disposta a tempo determinato, a titolo
di sanzione accessoria, il trasgressore ricadrà nella
diversa ipotesi sanzionatoria prevista dall'art. 218/6° Cds.
Ovvero almeno 2 mila euro di sanzione con revoca della
patente e fermo del veicolo
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti con presidenti esterni.
Il principio di nomina anche per le gare sotto soglia.
Le linee guida dell'Autorità anticorruzione trasmesse a
Camere e Consiglio di stato.
Nomina esterna del presidente delle commissioni di gara
anche per appalti sotto soglia; eliminato il vaglio di
ordini professionali e università sui requisiti degli
aspiranti commissari di gara; anche i commissari interni
alla stazione appaltante dovranno iscriversi all'albo.
Sono
queste alcune delle novità delle linee guida varate
dall'Autorità nazionale anticorruzione e trasmesse a
Consiglio di stato e alle commissioni parlamentari per i
pareri (non previsti dal codice dei contratti e non
vincolanti).
Uno dei nodi sciolti riguarda la
disciplina per gli appalti
al di sotto delle soglie europee (5,2 milioni per i lavori,
209.000 per servizi e forniture) per la quale l'Authority
guidata da Raffaele Cantone prevede che almeno il presidente
della commissione giudicatrice sia esterno e nominato
attingendo, con sorteggio, all'albo che l'Autorità gestirà.
L' indicazione dell'Anac riguarda in particolare i casi «in
cui la commissione deve esprimere valutazioni di tipo
discrezionale».
In merito alle funzioni della commissione giudicatrice, in
coerenza con quanto esplicitato nelle linee guida sulle
funzioni del responsabile unico del procedimento, l'Anac
precisa che «la valutazione di congruità è svolta in
collaborazione tra commissione giudicatrice e Rup».
Al fine di contenere i costi l'Anac suggerisce di dare
preferenza alla nomina di tre commissari esterni invece di
cinque.
Potranno iscriversi professionisti la cui attività è
assoggettata all'obbligo di iscrizione in ordini o collegi;
professionisti la cui attività non è assoggettata
all'obbligo di iscrizione in ordini o collegi; dipendenti
pubblici, i professori ordinari, i professori associati, i
ricercatori delle Università italiane e posizioni
assimilate.
Per quanto riguarda i dipendenti pubblici l'Autorità ha
ritenuto che l'art. 77 del Codice si applichi anche a loro
e, pertanto, i dipendenti pubblici da nominare commissari
interni devono dichiarare e dimostrare di possedere gli
stessi requisiti di moralità e compatibilità richiesti ai
soggetti esterni per l'accesso all'albo Anac, oltre
all'autorizzazione della propria amministrazione.
Sarà poi un apposito regolamento dell'Autorità a prevedere
le modalità di selezione e i flussi informativi necessari
per garantire il funzionamento dell'Albo .
Un punto delicato riguardava l'affidamento a Ordini
professionali e a università della funzione di verifica dei
requisiti dei commissari da iscrivere all'albo Anac. Su
questo punto è emerso evidente il contrasto fra la posizione
espresse, nella consultazione pubblica, dai consigli
nazionali e dagli ordini provinciali; la stessa Autorità ne
dà conto nella relazione di accompagnamento che dà conto
delle osservazioni «contrastanti» pervenute: da un lato la
scelta iniziale di coinvolgere gli ordini era stata valutata
positivamente soprattutto, da Ordini e i Collegi nazionali
delle professioni tecniche, dall'altra «gli ordini
provinciali hanno ritenuto troppo oneroso per loro il
sistema delineato».
Negative anche le amministrazioni e Consip. Il candidato-commissario effettuerà l'iscrizione
direttamente accedendo al sito dell'Anac, compilando i campi
obbligatori e caricando la documentazione richiesta (se
professionista, una certificazione rilasciata, su domanda,
dall'ordine, collegio, associazione professionale o se
dipendente della p.a., dall'amministrazione di
appartenenza).
Una sezione speciale dell'albo Anac sarà
dedicata ai dipendenti di Invitalia, Consip e dei soggetti
aggregatori regionali, nonché dei «professionisti che
hanno prestato attività di consulenza per i medesimi
soggetti per un periodo non inferiore ai due anni». I
commissari avranno l'obbligo di stipulare una polizza
assicurativa
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Rocce da scavo, gestione snella.
Iter veloce per evitare la qualificazione come rifiuti.
Via libera definitivo del governo al dpr. Distacchi
transfrontalieri, stop agli abusi.
Per le imprese gestione semplificata delle terre e rocce da
scavo.
Giovedì sera il consiglio dei ministri, su proposta
del presidente Matteo Renzi e del ministro dell'ambiente
Gian Luca Galletti, ha approvato, in esame definitivo, un
dpr che semplifica la disciplina di gestione delle terre e
rocce da scavo, ai sensi dell'articolo 8 del dl 12.09.2014, n. 133, convertito, con modifiche, dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Il provvedimento assorbe in un testo
unico le numerose disposizioni oggi vigenti che disciplinano
la gestione e l'utilizzo delle terre e rocce da scavo. Il
decreto, spiega una nota di Palazzo Chigi, ha per oggetto:
la gestione delle terre e rocce da scavo qualificate come
sottoprodotti provenienti da cantieri di piccole e grandi
dimensioni; la disciplina del deposito temporaneo delle
terre e rocce da scavo; l'utilizzo nel sito di produzione
delle terre e rocce da scavo escluse dalla disciplina dei
rifiuti; la gestione delle terre e rocce da scavo nei siti
oggetto di bonifica.
Tra le principali peculiarità del
provvedimento: la semplificazione delle procedure e la
fissazione di termini certi per concludere le stesse, anche
con meccanismi in grado di superare eventuali situazioni di
inerzia da parte degli uffici pubblici. Si evitano così i
lunghi tempi di attesa da parte degli operatori per la
preventiva approvazione del piano di utilizzo delle terre e
rocce da parte delle autorità competenti; procedure più
veloci per attestare che le terre e rocce da scavo
soddisfano i requisiti stabiliti dalle norme europee e
nazionali per essere qualificate come sottoprodotti e non
come rifiuti; una definizione puntuale delle condizioni di
utilizzo delle terre e rocce all'interno del sito oggetto di
bonifica, con l'individuazione di procedure uniche per gli
scavi e la caratterizzazione dei terreni generati dalle
opere da realizzare nei siti oggetto di bonifica; il
rafforzamento del sistema dei controlli.
Il decreto consente
tra l'altro di recepire le richieste formali della
Commissione europea ed evitare così che l'Eu-Pilot 5554/13/ENVI
aperto su questo tema evolva in una procedura d'infrazione
nei confronti dell'Italia.
Regolamento Imi. Il governo ha anche approvato in esame
definitivo un decreto legislativo di attuazione della
direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 15.05.2014, concernente l'applicazione della
direttiva 96/71/CE che disciplina il distacco
transfrontaliero (ovvero meccanismo in base al quale le
imprese presenti nel territorio di uno stato membro prestano
servizi tramite i propri lavoratori nel territorio di un
altro stato membro) e modifica il regolamento (Ue) n.
1024/2012 relativo alla cooperazione amministrativa
attraverso il sistema di informazione del mercato interno
(regolamento Imi).
Obiettivi fondamentali della normativa
sono: contrastare il fenomeno del distacco abusivo,
attraverso cui si realizzano la violazione dei diritti
fondamentali dei lavoratori e pratiche di concorrenza
sleale; agevolare la cooperazione tra gli Stati membri
nell'accertamento dell'autenticità dei distacchi e nel
perseguimento e nella repressione dei distacchi abusivi.
Prodotti alimentari più sicuri. Disco verde, in esame
preliminare, a un decreto legislativo recante la disciplina
sanzionatoria per la violazione di disposizioni di cui al
regolamento (CE) n. 1935/2004 riguardante i materiali e gli
oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti
alimentari e di cui al regolamento (CE) n .2023/2006 sulle
buone pratiche di fabbricazione dei materiali e degli
oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti
alimentari e per la violazione di misure specifiche per
gruppi di materiali e oggetti.
Assistenza sanitaria transfrontaliera. Approvato un
regolamento, da adottarsi mediante dpr, al fine di delineare
le competenze tra Stato e Regioni, in particolare, per
quanto riguarda la regolamentazione finanziaria dei flussi
debitori e creditori generati dalla mobilità sanitaria
internazionale.
L'intervento regolamentare si rende
necessario tenuto conto che l'assistenza sanitaria da e per
l'estero genera partite debitorie e creditorie che vengono,
da un lato, trattate e regolate tra gli Stati coinvolti in
base alle disposizioni comunitarie e internazionali,
dall'altro, implica una necessaria collaborazione
amministrativo-contabile tra il ministero della salute, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
Tale
collaborazione si concretizza in procedure amministrative,
nell'ambito delle quali i predetti enti territoriali si
occupano, per mezzo delle Asl, della materiale erogazione
delle prestazioni assistenziali agli assistiti di altro
Stato e della conseguente fatturazione che comunicano al
ministero della salute.
Quest'ultimo provvede ad esigere il
pagamento dei crediti dovuti e, inoltre, provvede al
rimborso dei debiti maturati nei confronti degli Stati
esteri, mediante risorse stanziate su uno specifico capitolo
di spesa del proprio bilancio.
Aree marittime. Disco verde, in esame preliminare, a un
decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/89/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23.07.2014,
che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio
marittimo.
Nello specifico, il provvedimento mira a favorire
la gestione di un ambito particolarmente complesso, quale è
quello marittimo, sul quale insistono attività diversificate
tra di loro. Gli obiettivi perseguiti con l'intervento
normativo sono: creare maggiore coerenza tra le diverse
attività che si svolgono in mare; sviluppare migliori
strumenti regolamentari e trasversali (vigilanza marittima
integrata, pianificazione dello spazio marittimo, gestione
integrata delle zone costiere, creazione di una base di dati
e conoscenze integrata in ambito marino, strategie marine
regionali); evitare la duplicazione del lavoro tra le
diverse autorità.
Il decreto prevede l'istituzione di un
Tavolo interministeriale, che definisce le linee guida per
la stesura dei piani di gestione dello spazio marittimo,
individuando le aree marittime di riferimento, nonché quelle
terrestri rilevanti per le interazioni terra-mare, e di un
Comitato tecnico presso il ministero delle infrastrutture e
dei trasporti con il compito di elaborare per ogni area
marittima individuata, i piani di gestione dello spazio
marittimo. I piani elaborati dal comitato tecnico sono poi
sottoposti alla valutazione del Tavolo
(articolo ItaliaOggi del 16.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Cantieri con meno vincoli.
Terre e rocce. Il Dpr annulla l’obbligo di comunicazione per
i trasporti.
Il Consiglio
dei ministri ha approvato ieri il Dpr che, con 31 articoli e
10 allegati, riforma la disciplina sulla gestione delle
terre e rocce di scavo (Atto
del Governo n. 279 - Schema di decreto del
Presidente della Repubblica concernente regolamento recante
disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce
da scavo).
Il nuovo Dpr attua la delega
regolamentare concessa dal Parlamento al Governo con
l’articolo 8 del Dl 133/2014 (legge 164/2014) e riscrive
integralmente, semplificandola, una disciplina articolata e
complessa. Per i piani approvati prima dell’entrata in
vigore del Dpr la disciplina abrogata è ultrattiva e si
applicherà a tali piani e alle loro modifiche. Per i
progetti in corso, le imprese avranno sei mesi di tempo per
decidere se aderire alla nuova disciplina.
Il testo detta disposizioni comuni ma differenzia anche tra
terre e rocce prodotte in cantieri di grandi e piccole
dimensioni e terre e rocce prodotte in cantieri di grandi
dimensioni non soggetti a Via e ad Aia. Non dimentica le
norme su terre e rocce intese come rifiuti né quelle che,
invece, sono escluse dalla disciplina dei rifiuti e le altre
che provengono dai siti oggetto di bonifica.
Un vasto
orizzonte regolamentare dove, oltre al fatto che le
definizioni sono armonizzate e coerenti, meritano menzione i
seguenti aspetti innovativi improntati anche alla
semplificazione procedurale: tra le norme comuni, il
deposito intermedio prima dell’utilizzo può essere
effettuato anche in luogo diverso dal sito di produzione e
da quello di destino purché siano rispettati i requisiti
indicati all’articolo 5, comma 1 e il sito di deposito
rientri nella stessa classe urbanistica del sito di
produzione. Sul fronte dei grandi cantieri, viene meno la
comunicazione all’autorità competente di ogni trasporto di
terre e rocce intese come sottoprodotti.
La gestione e l’uso di terre e rocce come sottoprodotti non
sono più subordinati alla previa approvazione del piano di
utilizzo da parte dell’Autorità competente: decorsi 90
giorni dalla presentazione del piano, il proponente può
avviare la gestione nel rispetto del piano di utilizzo. Non
solo, il piano di utilizzo potrà essere prorogato di due
anni mediante semplice comunicazione al Comune e all’Arpa.
Per i cantieri piccoli e per quelli grandi non sottoposti a
Via o ad Aia, basterà una semplice comunicazione per
apportare modifiche sostanziali al piano di utilizzo o per
prorogarlo.
Sul fronte dei piccoli cantieri, si riprende la sostanza
dell’articolo 41-bis, Dl 69/2013 sull’uso come sottoprodotti
di terre e rocce in quantità non superiore a 6.000 cubi
destinate a recuperi, ripristini, rimodellamenti,
riempimenti o altri usi sul suolo. A tal fine, il produttore
deve dimostrare il non superamento dei valori delle
concentrazioni soglia di contaminazione previsti per le
bonifiche con riferimento alle caratteristiche delle matrici
ambientali e alla destinazione urbanistica indicata nel
piano di utilizzo.
Rispetto ad oggi, si aggiunge la
possibilità di aggiornare la dichiarazione di utilizzo in
presenza di variazioni delle condizioni previste per la
sussistenza dei sottoprodotti. Per terre e rocce che restano
rifiuti, il Dpr modifica i volume del deposito temporaneo
innalzandolo a 4.000 metri cubi, di cui 800 se pericolose (articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Appalti,
diplomi tecnici in pole. Chi ha fatto il liceo non può
essere incaricato come Rup.
Le
linee guida Anac sul Responsabile unico mettono in
difficoltà soprattutto i mini-enti.
Le
linee guida dell'Anac
sul Responsabile unico
del procedimento (Rup)
mettono in crisi organizzativamente
molte amministrazioni
locali.
Infatti, vengono esclusi radicalmente
dalla possibilità di
essere incaricati come Rup per
forniture o servizi dipendenti
che dispongano del diploma di
qualsiasi liceo, perché l'Anac,
per i contratti sotto la soglia di
rilievo comunitario, impone un
diploma rilasciato da un istituto
tecnico.
Ciò limiterà in modo rilevante
il numero dei soggetti incaricabili,
innescando il problema
della ricerca di personale in
possesso del diploma tecnico
presso strutture organizzative
diverse da quella competente
all'esecuzione della fornitura o
del servizio, allo scopo di assegnare
a dipendenti anche non
appartenenti all'unità organizzativa
responsabile la funzione
di Rup.
Con gli immaginabili problemi
di carichi di lavoro, compatibilità
e di accordare responsabili
di servizi diversi.
Sfugge il perché di questa limitazione
ai diplomi tecnici. Si
pensi ai servizi sociali: non ha
oggettivamente senso che essi
siano affidati ad un Rup che disponga
di un diploma tecnico
industriale, invece
che un diploma di
liceo delle scienze
umane.
Le Linee guida di Raffaele Cantone (si veda Italia-Oggi
dell'08/07/2016) scontano il problema di dare per scontato che
tutte le amministrazioni sono di grandi dimensioni e,
quindi, capaci di distribuire
molto il lavoro tra tanti dipendenti.
Allo stesso modo, l'Anac
indulge eccessivamente nella
presupposizione che le attività
concernenti gli appalti siano
solo di matrice tecnica. Per altro,
le Linee guida finiscono per
invadere fin troppo sia il campo
dell'autonomia organizzativa
degli enti, sia quello della disciplina del rapporto di
lavoro
dei dipendenti pubblici, che è
riservato alla legge dello stato
(o delle regioni) ai sensi dell'articolo
117 della Costituzione.
Al di sopra della soglia comunitaria,
sempre per forniture e
servizi, l'Anac impone il possesso
della laurea.
In questo
caso, però, non
si richiede una
laurea specifica.
Quindi,
per ipotesi,
un laureato
in matematica
potrebbe
fare il Rup dei
servizi sociali.
In effetti, il
possesso della laurea
potrà servire in parte
a risolvere l'impasse degli incarichi
di Rup nel sotto soglia:
infatti, un Rup laureato, se può
essere incaricato nel sopra soglia,
può esserlo anche nel sotto
soglia, sebbene la laurea non
sia «tecnica». Certo, si tratta
di un caos che poteva e doveva
essere risparmiato.
Nel caso di appalti, a prescindere
dal valore, caratterizzati
da particolare complessità o
dalla necessità di specifiche
competenze, però, occorrerà
un titolo di studio adeguato
alle materie oggetto dell'affidamento.
Non esiste, nel dlgs 50/2016,
una definizione della «particolare
complessità» di forniture e
servizi. Sarà, allora, nell'autonomia
degli enti stabilire, caso
per caso, se il contratto sia di
particolare complessità e/o se
richieda il possesso del titolo di
studio nella specifica materia.
La specifica competenza
tecnica potrebbe permettere
anche nel sotto soglia di utilizzare
diplomi non tecnici, come
nel caso esemplificato prima
dei servizi sociali attribuiti ad
un Rup diplomato in scienze
umane, con specifico indirizzo
di studio di carattere sociale.
Altro problema che pongono
le Linee guida riguarda l'incompatibilità.
Secondo l'Anac
il ruolo di Rup è incompatibile
con le funzioni di commissario
di gara e di presidente della
commissione giudicatrice, ai
sensi dell'articolo 77, comma 4,
del dlgs 50/2016. Si tratta di un
altro problema operativo non
di poco conto: la previsione non
appare di facile applicazione
nei comuni, nei quali dirigenti
e responsabili di servizio spesso
coincidono col Rup. Ma, ai sensi
dell'articolo 107, comma 3, del
dlgs 267/2000, essi debbono necessariamente
far parte della
commissione di gara (si tratta
di quella vera e propria, richiesta
per l'offerta economicamente
più vantaggiosa).
La recente sentenza del
Consiglio di stato, sez. V, 23.06.2016, n. 2812 va in
questa direzione, sebbene riferita
all'articolo 84, commi 3 e 4,
del dlgs 163/2006, oggi aboliti.
Tali norme specificavano con
chiarezza che presidente della
commissione deve essere un
dirigente. Ma, a tale compito,
specificamente per gli enti locali,
continua ad assolvere il
citato articolo 107, comma 3,
lettera b), che assegna ai dirigenti
la responsabilità delle
procedure di gara, dalle quali
difficilmente si può eliminare il
compito specifico di presiedere
la commissione di gara (articolo ItaliaOggi del 15.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Pa, intesa sui comparti: da 11 a 4.
Statali. L’accordo Aran-sindacati snellisce il round
negoziale: sufficienti 8 rinnovi e non 38.
Aran e
sindacati hanno firmato ieri in via definitiva l’accordo
quadro nazionale che ridefinisce i nuovi comparti e le nuove
aree di contrattazione del pubblico impiego (aprendo così la
strada ai rinnovi negoziali).
Si scende da undici a quattro: «Funzioni centrali», nel
quale confluiscono ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici
non economici e altri enti; «Funzioni locali», che conserva
il perimetro dell’attuale comparto Regioni-autonomie locali;
«Istruzione e ricerca», che quindi si uniscono assieme
all’università, e «Sanità», che non muta sostanzialmente la
sua fisionomia.
Il comparto «Funzioni centrali» conterà circa 247mila
occupati; «Funzioni locali», 457mila, «Sanità», 531mila,
«Istruzione e ricerca», sarà il più numeroso con oltre 1,1
milioni di lavoratori.
In stretto collegamento con i quattro comparti, l’intesa
siglata ieri ridefinisce anche le aree dirigenziali, vale a
dire gli ambiti sui quali saranno negoziati gli specifici
accordi riguardanti la dirigenza pubblica. L’area delle
«Funzioni centrali» comprende i dirigenti delle
amministrazioni che confluiscono nel nuovo comparto, a cui
si aggiungono i professionisti e i medici degli enti
pubblici non economici, per una consistenza complessiva di
circa 6.800 occupati.
L’area «Funzioni locali» avrà una
consistenza di 15.300 dirigenti (oltre agli enti locali, vi
rientrano i dirigenti amministrativi, tecnici e
professionali degli enti e delle aziende del comparto Sanità
e i segretari comunali e provinciali). Si scende a 7.700
nell’area «Istruzione e ricerca», e si sale a 126.800
occupati nell’area della «Sanità», all’interno del quale
sono collocati i dirigenti degli enti ed aziende del
comparto «Sanità», ad eccezione dei dirigenti
amministrativi, tecnici e professionali.
Per l’Aran il nuovo accordo comporterà una notevole
semplificazione dell’attività negoziale: «In passato, per
gli 11 comparti e le 8 aree dirigenziali, era necessario
concludere 38 accordi ogni 4 anni. Oggi gli accordi da fare
scendono a 8 per un triennio contrattuale». Per accompagnare
la transizione al nuovo assetto contrattuale, i sindacati
avranno un breve periodo di tempo per realizzare processi di
aggregazione o fusione (articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: In condominio contabilizzatori con correttivi.
Risparmio energetico. Il nuovo decreto.
Arriva oggi al
Consiglio dei ministri il
decreto legislativo di
integrazione al Dlgs 102/2014, che va a modificare
profondamente la normativa vigente sul risparmio energetico
ma, soprattutto, appare in una versione che tiene conto del
parere espresso dalla commissione Industria del Senato (si
veda «Il Sole 24 Ore» dell’08.03.2016).
Tra le modifiche, vi sono quelle attese in materia di
termoregolazione e contabilizzazione la cui scadenza resta
confermata al 31.12.2016.
L’articolo 9, comma 5, è suddiviso in lettere dalla a) alla
d). Le prime tre riguardano gli interventi impiantistici in
materia di contabilizzazione e termoregolazione in
riferimento al riscaldamento, al raffreddamento e all’acqua
calda sanitaria. Alla lettera a) viene precisato che
l’installazione di un contatore di fornitura in
corrispondenza del punto di fornitura del condominio, è
attività riservata agli esercenti l’attività di misura. La
lettera b) prevede l’obbligo per il condominio e gli edifici
polifunzionali di installare sotto-contatori per individuare
l’effettivo consumo di ciascuna unità immobiliare. Qualora
questo non sia possibile o vi sia inefficienza in termini di
costi e sproporzione rispetto ai risparmi energetici
potenziali, in base alla lettera c) è possibile installare
le valvole termostatiche e i ripartitori su ciascun corpo
scaldante.
Sembra quindi confermato che la lettera b) trovi
applicazione nei sistemi a distribuzione a zona, mentre la
lettera c) nei sistemi di distribuzione verticale. In tal
senso già erano state interpretate le due lettere prima
della imminente modifica. In caso di mancata installazione
di quanto previsto nelle lettere b) e c) la sanzione da 500
a 2.500 euro sarà irrogata al proprietario dell’unità
immobiliare. È stata invece cancellata la sanzione per le
imprese che, richieste dal cliente, non avessero provveduto
a installare i sistemi di cui alla lettera b).
Importanti modifiche sono state apportate al criterio di
ripartizione della spesa del riscaldamento di cui alla
lettera d), per la cui violazione la sanzione da 500 a 2.500
euro resta confermata in capo al condominio.
Per la ripartizione viene sempre fatto obbligatorio
riferimento all’applicazione della norma Uni 10200. In
questi giorni l’Uni sta provvedendo ad apportare modifiche
alla norma stessa che, si presume, possano vedere la luce
entro la fine del 2016.
Sono sempre previste due voci: la quota a consumo e la quota
fissa. La prima dovrà sempre tenere in considerazione gli
effettivi prelievi volontari di energia termica. Sul punto,
quindi, non vi sono sostanziali modifiche. Le novità invece
riguardano il caso in cui l’applicazione della 10200 non sia
possibile, oppure vi siano, tramite apposita relazione
tecnica asseverata, comprovate differenze di fabbisogno
termico per metro quadro tra le unità immobiliari superiori
al 50 per cento. In tale caso è possibile suddividere
l’importo complessivo attribuendo una quota di almeno il 70%
agli effettivi prelievi volontari di energia termica. Gli
importi rimanenti possono essere ripartiti, a titolo
esemplificativo e non esaustivo, secondo i millesimi, i
metri quadri o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze
installate.
Tali criteri di ripartizione sono facoltativi se
alla data di entrata in vigore del nuovo Dlgs si sia già
provveduto all’installazione dei dispositivi e alla relativa
suddivisione delle spese. In ogni caso, per la prima
stagione termica successiva all’installazione dei
dispositivi, la suddivisione potrà essere fatta in base ai
soli millesimi di proprietà (articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Consip apre alla manutenzione.
Online i primi bandi e la guida per l’accesso alla
piattaforma Mepa.
Appalti. La Spa del Tesoro amplia l'attività alle offerte
fino a un milione con gara elettronica.
Consip entra
nel mercato dei lavori di manutenzione. La centrale di
acquisti della Pa, controllata dal ministero dell’Economia,
utilizza la facoltà prevista dalla legge di Stabilità 2016 e
lancia i primi sette bandi (per categorie) che consentiranno
alle imprese di accreditarsi presso il Mepa (mercato
elettronico della Pa) per le piccole gare di manutenzioni
ordinarie e straordinarie.
Per la prima volta le Pa, Comuni in testa, potranno
negoziare sulla piattaforma Mef/Consip non solo acquisti di
beni o servizi, ma anche appalti di lavori di manutenzione
per importi fino a un milione di euro.
Il mercato potenziale è gigantesco: le manutenzioni sotto il
miliardo valgono circa 2,5 miliardi di euro.
La novità è prevista dal comma 504 della legge di Stabilità
2016 (legge n. 508 del 2015), dove si legge: «Gli strumenti
di acquisto e di negoziazione messi a disposizione da Consip
spa possono avere ad oggetto anche attività di
manutenzione».
Sulla base di questa previsione, la centrale acquisti ha
attivato sette bandi, che daranno la possibilità di svolgere
le gare relative alle manutenzioni tramite la sua
piattaforma (www.acquistinretepa.it). I bandi sono attivi
dal primo luglio ma solo ieri la Consip ha diffuso le
istruzioni per l’accesso delle imprese di costruzione alla
piattaforma telematica.
Le categorie coinvolte sono quelle delle manutenzioni edili,
stradali, ferroviarie ed aeree, idrauliche, marittime e reti
gas, impianti, ambiente e territorio, beni del patrimonio
culturale e opere specializzate. Dal perimetro di Consip
sono escluse tutte le gare che rientrano nell’ambito di
competenza del manutentore unico dell'Agenzia del Demanio.
L’Agenzia, infatti, ha tra le sue prerogative le
manutenzioni ordinarie e straordinarie sugli immobili dello
Stato.
In pratica, sotto l’ombrello della centrale di acquisti del
Mef rientrano le amministrazioni non statali (soprattutto i
Comuni), il ministero della Difesa, quello dei Beni
culturali, gli Affari esteri, gli organi costituzionali
(come il Quirinale, il Parlamento, la Corte costituzionale),
Palazzo Chigi, le università e gli enti di ricerca. Tre
bandi su quattro in questo settore, comunque, riguardano
enti locali.
I bandi sono essenzialmente rivolti alle imprese
appaltatrici. Le amministrazioni, infatti, sono già quasi
tutte accreditate presso il mercato elettronico.
Per accreditarsi, le imprese dovranno presentare tutta la
documentazione richiesta nei bandi e saranno sottoposte alla
valutazione di una apposita commissione. Ciascuna impresa
potrà scegliere se abilitarsi solo per l’esecuzione di
lavori di importo inferiore a 150mila euro o anche per
eseguire lavori di importo pari o superiore a 150mila euro,
tramite l'attestazione Soa.
Le amministrazioni potranno negoziare lavori per importi
fino a un milione di euro, invitando il numero minimo di
fornitori prescritti dalla normativa (per importi fino a
500mila euro almeno cinque, per importi compresi fra 500mila
e un milione di euro almeno dieci o 15 nel caso di beni
tutelati) (articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Rating di impresa, tempi più lunghi per le linee guida.
Contratti pubblici. Anac: serve un approfondimento.
Tempi più
lunghi per il rating di impresa chiamato a valutare le
perfomance dei costruttori impegnati nei cantieri pubblici.
L’Autorità Anticorruzione chiede più tempo per vagliare al
meglio il meccanismo introdotto dal nuovo codice degli
appalti per selezionare le imprese, premiando quelle più
capaci di rispettare i tempi e costi di realizzazione delle
opere e con la più bassa vocazione al contenzioso.
Le linee guida per mettere in piedi il rating sono già state
messe in consultazione dall’Anac. Ma proprio l’alto numero
di proposte arrivate dal mercato suggerisce un
approfondimento supplementare prima del via libera finale.
«Ci sono diversi problemi da sciogliere -ha riconosciuto il
presidente dell’Autorità Raffaele Cantone, partecipando a un
convegno organizzato dal Consorzio Integra e l’Università Luiss a Roma-. E che ci faranno riflettere a lungo».
Anche
«sforando il termine previsto dal codice appalti», che
scadrebbe il prossimo 18 luglio. Perché, ha aggiunto
Cantone, «l’obiettivo è realizzare un meccanismo capace di
valutare le performance guadagnate sul campo dalle imprese e
non mettere in piedi l’ennesima operazione di valutazione
formale di requisiti cartacei, che non fanno alcuna
selezione».
Il presidente dell’Anac ha anche accennato ai nodi più
rilevanti da sciogliere prime di licenziare le linee guida.
Tra questi il raccordo tra il rating di legalità gestito
dall’Antitrust e il rating di impresa che sarà rilasciato
dall’Anac. «Dobbiamo capire in che modo può diventare un
criterio davvero dirimente», ha detto Cantone. Il secondo
punto riguarda la «necessità di valorizzare l’esperienza
maturata dalle imprese». «Non possiamo ripartire da zero -ha spiegato il numero uno dell’Anac- mettendo sullo stesso
piano imprese che lavorano da 40 anni, con le nuove realtà».
Già oggi, invece, l’Autorità potrebbe chiudere il lavoro sui
requisiti dei commissari di gara esterni alle
amministrazioni, portando a sette le linee guida di
indirizzo a Pa e imprese, già varate in attuazione del Dlgs
50/2016.
Cantone non ha nascosto che l’attuazione del codice sta
«creando qualche criticità» in questa fase di avvio «con un
calo oggettivo degli appalti, che però viene da più lontano,
riguarda più i servizi che i lavori e in parte va
considerato fisiologico». Un calo che preoccupa molto le
imprese.
«Questo codice ha importanti e apprezzabili
elementi di novità -ha detto il presidente del Consorzio
Integra Vincenzo Onorato- ma la sua brusca entrata in
vigore ha generato come effetto immediato il blocco totale
delle gare», già in un momento di acuta recessione. Tra gli
ostacoli Onorato ha ricordato «l’obbligo di bandire le gare
solo su progetto esecutivo» e l’irrigidimento delle regole
sul subappalto. «Per gestire questa fase -ha concluso-
sarebbe importante poter contare su una norma transitoria»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Sulle
linee guida Anac dubbi di costituzionalità.
Dubbi di
costituzionalità sulle linee guida vincolanti Anac quando
incidono su diritti e doveri degli operatori; gli effetti
negativi sul mercato degli appalti dipendono dalla mancanza
di disciplina transitoria del nuovo codice e dall'assenza di
fondi per fare i progetti esecutivi.
E quanto emerso,
ieri, nel corso del Convegno organizzato dal Consorzio
Integra (consorzio di cooperative aderente a Ancpl- Legacoop)
e dalla Luiss dal titolo
«Al nuovo codice dei contratti:
effetti sul mercato», che ha visto coordinatore dei lavori
Marcello Clarich (professore di diritto amministrativo alla
Luiss) e gli interventi introduttivi del direttore del
dipartimento di giurisprudenza Antonio Nuzzo, di Vincenzo
Onorato, presidente del Consorzio Integra e di Mauro Lusetti,
presidente Legacoop.
Per quel che riguarda gli effetti
negativi derivanti dall'applicazione del nuovo codice dei
contratti pubblici , è stato il presidente di Anac, Raffaele
Cantone, a sottolineare che «è indubbio che la prima
applicazione pratica ha evidenziato criticità e inevitabili
cautele delle amministrazioni,
spesso restie al cambiamento, ma va dato atto che il codice, pur con qualche limite, introduce una nuova visione e si
caratterizza come elemento di efficienza del sistema».
Per
Cantone la principale novità è quella di «mettere al centro
un progetto vero e non scadente; questa novità del progetto
esecutivo comporta dei tempi di adeguamento dei progetti e
forse occorreva pensare a dei fondi per la progettazione per
evitare ritardi».
È stato poi il consigliere di stato Carlo Deodato a intervenire ponendo qualche dubbio di
costituzionalità sulla natura delle linee guida vincolanti
emanate dall'Autorità nazionale anticorruzione: «Pur avendo
firmato il parere del Consiglio di Stato sul decreto
delegato che ha trattato della natura delle linee guida Anac,
personalmente ritengo che gli atti di normazione secondaria
che insistono sui diritti e sui doveri degli operatori non
possano essere affidati ad atti di regolazione delle
Autorità indipendenti ma devono essere di competenza del
governo».
Per quel che riguarda gli effetti negativi sul
mercato (calo dei bandi) Deodato li imputa alla mancanza di
una disciplina transitoria del nuovo codice. Sulle linee
guida emesse da Anac Deodato ha espresso apprezzamento per
l'invio al Consiglio di stato per un parere, ancorché non
vincolante, «da advisor delle pubbliche amministrazioni» e
ha annunciato che già è stato avviato il lavoro: «di quelle
trasmesse soltanto le linee guida sul Responsabile del
procedimento sono vincolanti, mentre quelle sui servizi di
ingegneria e architettura e quella sull'offerta
economicamente più vantaggiosa (Oepv) non sono vincolanti».
Sulle linee guida sull'Oepv, di cui è relatore, Deodato ha
segnalato che molte indicazioni sono «generiche o poco
efficaci» e che «le pubbliche amministrazioni andrebbero
maggiormente orientate».
Il Consigliere Anac Michele
Corradino ha poi affermato che il calo dei bandi di gara di
questi due mesi era già stato avvertito negli ultimi mesi
del 2015 e che nel settore dei servizi e delle forniture è
meno forte che nei lavori; ha inoltre annunciato che sta per
essere costituita la Cabina di regia sull'attuazione del
Codice presso la presidenza del consiglio
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2016
- tratto da
www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Va richiamato il
consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in
linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti
urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del
DM 1444/1968, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato
su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr.
1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr.
765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza
e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate
dagli strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr.
1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative
e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se
è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la
sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata.
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno
strumento urbanistico, risulta condivisibilmente superato il
precedente indirizzo contrario, il quale peraltro si basava
su una presunta natura non direttamente precettiva delle
prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando
ferma e impregiudicata la ritenuta natura
para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle
norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte
del giudice amministrativo.
Inoltre, la giurisprudenza più recente –che qui si
condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice
amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché
non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione
esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla
giurisdizione generale di legittimità.
---------------
Pacifica giurisprudenza ritiene direttamente precettive le
norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr.
1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le
stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo
organo pianificatore.
---------------
Con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in
tema di pareti finestrate, è stato osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma
sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di
quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti
frontistanti;
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura
sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due
pareti interessate;
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela
della salubrità, è applicabile non solo alle nuove
costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici
esistenti;
d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile,
donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del
giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di
pregiudizio alla salubrità degli immobili.
---------------
5.1. Al riguardo, va innanzi tutto richiamato il consolidato
indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale,
non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici
comunali, di norme contrastanti con quelle del citato
decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su
delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr.
1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr.
765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza
e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate
dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez.
II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le
disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte
alla salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e
vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite
minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di
impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua
automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla
fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno
strumento urbanistico, risulta condivisibilmente superato il
precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il
quale peraltro si basava su una presunta natura non
direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel
d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la
ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti
appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si
condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice
amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché
non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione
esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla
giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 03.02.2015, nr. 515).
...
6. Infondata è poi la doglianza articolata col terzo motivo
di impugnazione dell’originario controinteressato, non
rispondendo al vero che il potere di disapplicazione
suindicato non sarebbe stato esercitabile con riferimento ai
rapporti interprivati quale è quello per cui è causa: al
riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica
giurisprudenza che ritiene direttamente precettive le norme in
materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche
nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere
intese come prescrizioni rivolte al solo organo
pianificatore (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015, nr.
1951; id., 12.02.2013, nr. 844).
7. Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le parti
istanti censurano nel merito l’interpretazione data dal
primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr. 1444/1968,
facendone rilevare l’inapplicabilità alla situazione che qui
occupa, laddove i due edifici non avevano pareti finestrate
direttamente frontistanti, vi era diversità di quote fra le
aperture, e comunque era da escludersi la creazione di
qualsivoglia intercapedine nociva o pericolosa per la
salubrità pubblica.
Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in
frontale contrasto con tutti i principali approdi della
giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni
contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato
osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla
norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza
di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti
frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, nr. 856; id., 11.06.2015, nr. 2861; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 20.07.2011, nr. 4374);
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è
addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola
delle due pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id.,
09.10.2012, nr. 5253);
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di
tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove
costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici
esistenti (cfr. Cons. Stato, 27.10.2011, nr. 5759);
d) che il divieto ha portata generale, astratta e
inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità
valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di
intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.12.2012, nr. 6489; id.,
sez. IV, 09.05.2011, nr. 2749; id., 05.12.2005, nr.
6909) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.08.2016 n. 3522 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di
regolamento in tema di individuazione dei procedimenti
oggetto di autorizzazione, SCIA, silenzio-assenso e
comunicazione.
I punti principali del parere del Consiglio
di Stato sullo schema di “decreto scia”.
Consiglio di Stato, Commissione speciale,
parere 04.08.2016 n. 1784, reso sullo "Schema
di decreto legislativo in materia di individuazione di
procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione
certificata di inizio attività (Scia), silenzio-assenso e
comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi
applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi
dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124".
1. La delega
Lo schema di decreto sottoposto all’esame costituisce
attuazione della delega conferita dell’articolo 5 della
legge 07.08.2015, n. 124 per la precisa individuazione
dei procedimenti oggetto di segnalazione certificata di
inizio attività o di silenzio assenso, ai sensi degli
articoli 19 e 20 della legge 07.08.1990, n. 241, nonché
di quelli per i quali è necessaria l’autorizzazione espressa
e di quelli per i quali è sufficiente una comunicazione
preventiva, sulla base dei principi e criteri direttivi
desumibili dagli stessi articoli, dei principi del diritto
dell’Unione europea relativi all’accesso alle attività di
servizi e dei princìpi di ragionevolezza e proporzionalità.
La seconda parte di tale delega, concernente la disciplina
generale della segnalazione certificata di inizio attività,
era già stata attuata con il decreto legislativo 30.06.2016, n. 126. L’art. 1, comma 2 di detto provvedimento
stabilisce che “Con successivi decreti legislativi, ai sensi
e in attuazione della delega di cui all’articolo 5 della
legge n. 124 del 2015, sono individuate le attività oggetto
di procedimento di mera comunicazione o segnalazione
certificata di inizio di attività (di seguito «SCIA») od
oggetto di silenzio-assenso, nonché quelle per le quali è
necessario il titolo espresso. Allo scopo di garantire
certezza sui regimi applicabili alle attività private e di
salvaguardare la libertà di iniziativa economica, le
attività private non espressamente individuate ai sensi dei
medesimi decreti o specificamente oggetto di disciplina da
parte della normativa europea, statale e regionale, sono
libere”.
2. L’oggetto del decreto legislativo
Lo schema di decreto si compone di 6 articoli e
dell’allegata tabella A.
Il testo compie una duplice opera di semplificazione: in
primo luogo introducendo regimi meno restrittivi in tali
materie; in secondo luogo dando attuazione alla
concentrazione dei regimi di cui all’art. 19-bis della legge
n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 3, comma 1, lett. c)
del decreto legislativo n. 126 del 2016.
Il rapporto tra la tabella e il testo è regolato dall’art. 2
del presente decreto, il quale stabilisce le corrispondenze
tra le previsioni tabellari e la disciplina normativa
applicabile, nonché l’applicazione dell’art. 19-bis della
legge n. 241 del 1990 alle ipotesi in cui per lo svolgimento
dell’attività siano necessari diversi atti di assenso,
segnalazioni o comunicazioni.
La tabella effettua una ricognizione della disciplina delle
attività private in materia di edilizia, ambiente e
commercio, distinguendo tra SCIA, SCIA unica, comunicazione,
autorizzazione ed eventuale silenzio-assenso.
3. Le questioni generali
Le questioni ancora aperte
Il decreto, inoltre, non risolve alcune criticità relative
al raccordo con la legge 241 del 1990, in particolare: quale
sia la decorrenza del termine di diciotto mesi previsto
dall’art. 21-nonies, comma 1; se il limite temporale massimo
di cui all’art. 21-nonies debba applicarsi anche
all’intervento in caso di sanzioni per dichiarazioni mendaci
ex art. 21, comma 1; quale sia la esatta delimitazione della
fattispecie di deroga ai 18 mesi prevista dall’art.
21-nonies, comma 2-bis. Il Consiglio di Stato suggerisce,
pertanto, al Governo di intervenire su tali punti.
Si osserva, altresì, come risulta ancora non esercitata
un’ultima parte della delega: quella relativa alla
disciplina generale del silenzio assenso e della
comunicazione preventiva, di cui alla parte finale del comma
1 dell’articolo 5 della legge n. 124 del 2015.
I problemi affrontati e le relative soluzioni
Il decreto mira a risolvere i seguenti problemi:
- difficoltà a comprendere, da parte degli operatori
economici, le modalità di svolgimento del procedimento
amministrativo per l’inizio di un’attività, con particolare
riferimento agli adempimenti a carico del richiedente e di
quelli a carico della PA;
- scarsa certezza del diritto dovuta alla mancanza di un
quadro di regole chiare, tassative e comprensibili per gli
operatori chiamati ad applicarle;
- sdoppiamenti procedurali e oneri non previsti;
- esistenza di regimi differenziati da Regione a Regione;
- mancata attuazione delle direttive e dei principi
comunitari;
- molteplicità di atti presupposti che hanno vanificato la
Scia;
- ambiguità ancora esistenti nel regime della SCIA.
Le soluzioni si articolano su quattro piani:
3.1 La semplificazione normativa
3.2 La fase attuativa della riforma: centralità di
monitoraggio e VIR
3.3 Concentrazione dei regimi amministrativi
3.4 Semplificazioni in materia di edilizia, ambiente,
commercio
3.1 La semplificazione normativa
La scelta del legislatore delegato nella complessa opera di
individuazione dei procedimenti di regolazione delle
attività economiche private è stata quella di demandare a
una tabella l’elencazione di quattro elementi:
a) tipo di attività, attraverso specificazioni progressive;
b) regime amministrativo;
c) concentrazione di regimi amministrativi;
d) riferimenti normativi.
Il Consiglio di Stato commenta favorevolmente la innovativa
tecnica utilizzata, che unisce esigenze di
riordino/codificazione a esigenze di semplificazione
sostanziale delle materie interessate, che definisce una
tecnica di “codificazione soft”. Benché non appartenga
letteralmente alla classe dei testi unici e non copra tutte
le materie, il provvedimento in esame realizza una raccolta
di tutte le discipline vigenti dell’attività privata nei
settori interessati.
È sempre più forte, tanto a livello
scientifico quanto nella pubblica opinione, il convincimento
che l’unificazione “orizzontale” della legislazione vigente
sia il principale strumento per reagire all’abnorme aumento
del carico normativo, imposto da una società sempre più
complessa e dall’avvento di cambiamenti strutturali che non
possono restare senza regolazione.
Il parere sottolinea come
il censimento effettuato attraverso la tabella e il rapporto
tabella/testo, in cui le norme si adattano al contenuto
della tabella e ne garantiscono l’inserimento nel sistema,
non ha solo il merito di contribuire a dare certezza del
diritto, ma anche quello di semplificare e liberalizzare,
laddove possibile.
Si rileva, invece, criticamente, l’assenza di una effettiva
Analisi di impatto della regolazione, con adeguato supporto
di dati quantitativi: tale carenza, però, potrà essere
effettuata in progress.
3.2 La fase attuativa della riforma:
centralità di monitoraggio e VIR
In più occasioni nell’esame della riforma Madia il Consiglio
di Stato ha sottolineato la rilevanza cruciale della fase
attuativa di un intervento che mira a un cambiamento
profondo nell’amministrazione pubblica del Paese. Strumento
essenziale di tale fase è il monitoraggio, del funzionamento
delle norme, volto a verificarne l’idoneità a perseguire gli
obiettivi fissati dalla legge: ciò rende necessaria anche
una verifica di impatto successiva all’entrata in vigore
delle nuove norme (VIR).
Il parere individua sul piano tecnico-normativo quattro
profili da osservare con grande attenzione:
- la possibilità di limitare o ampliare le semplificazioni
previste nella tabella attraverso meri atti amministrativi;
- l’aggiornamento della tabella in relazione alle
disposizioni legislative intervenute successivamente o alla
necessità di completare la ricognizione delle attività;
- la regolazione di nuove attività, in particolare nel
commercio, che, altrimenti, sarebbero libere, ai sensi
dell’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.06.2016,
n. 126.
- l’analisi della fattibilità dei regimi di semplificazione
introdotti.
Il Consiglio di Stato raccomanda di considerare
l’individuazione e l’inquadramento giuridico delle attività
private come un work in progress, sensibile, oltre che alle
novità normative, ai mutamenti reali, pertanto destinato ad
essere rivisto ed implementato continuativamente.
3.3 Concentrazione dei regimi
amministrativi
Il Consiglio di Stato rileva con favore che il Governo,
dando seguito al suo precedente parere (n. 839, sulla cd.
SCIA 1), ha optato per un modello di “concentrazione
procedimentale”, disciplinandolo al massimo livello,
introducendo un art. 19-bis alla l. n. 241, tramite il
d.lgs. n. 126 del 30.06.2016.
Il presente parere analizza approfonditamente il rapporto
tra l’art. 19 della legge n. 241 del 1990 e i commi 2 e 3
del successivo art. 19-bis, che introduce la concentrazione
dei regimi amministrativi rispettivamente per le ipotesi di:
- attività che necessitano di altre SCIA, comunicazioni,
attestazioni, asseverazioni e notifiche (cd. SCIA unica);
- attività in cui si innestano sul modello della SCIA anche
provvedimenti propedeutici (atti di assenso comunque
denominati o pareri di altri uffici e amministrazioni,
ovvero verifiche preventive).
Il Consiglio di Stato ha ritenuto di distinguere nettamente
le due fattispecie di cui all’art. 19-bis, il cui unico
elemento comune è dato dall’integrazione della SCIA con
altre fattispecie legittimanti.
La SCIA unica di cui all’art. 19-bis, comma 2, è in rapporto
di specialità unilaterale per aggiunta con la SCIA pura e ad
essa si applica la disciplina di cui all’art. 19.
La figura (da non confondere con la precedente SCIA unica)
di cui all’art. 19-bis, comma 3, è invece sui generis,
poiché il meccanismo della SCIA (e, quindi, il riferimento
all’art. 19) vale soltanto all’inizio del procedimento,
ossia nella fase di presentazione della SCIA, e nella sua
fase finale, ovvero una volta ottenute tutti gli atti di
assenso, da conseguire tramite conferenza di servizi. Tra
questi due momenti, si inserisce un regime provvedimentale
tradizionale.
Nel parere si invita il Governo a chiarire che, quando nella
tabella si fa riferimento alla SCIA unica, si intende la
fattispecie di cui all’art. 19-bis, comma 2, e quale sia
allora l’ambito di applicazione dell’art. 19-bis, comma 3. Va
anche chiarito il regime delle cd. “autorizzazioni plurime”,
in cui occorrono più autorizzazioni ma non vi è alcun
elemento procedimentale della SCIA.
3.4 Semplificazioni in materia di edilizia,
ambiente, commercio
Un sistema di titoli edilizi semplificato: rapporti tra CILA,
SCIA e SCIA edilizia
Il parere si sofferma sul nuovo sistema dei titoli edilizi,
articolato su cinque livelli (invece dei sette attuali): 1)
interventi in attività edilizia libera, senza adempimenti;
2) interventi in attività libera, ma che richiedono la CILA;
3) interventi assoggettati a SCIA; 4) interventi
assoggettati a permesso di costruire; 5) interventi per i
quali è comunque possibile chiedere il permesso di costruire
in alternativa alla SCIA.
Il nuovo sistema è caratterizzato dalla centralità della
CILA, ragion per cui il Consiglio di Stato suggerisce la
costruzione di una norma di carattere generale relativa
all’istituto, che, da un lato ne evidenzi la linea di
continuità con il modello teorico rappresentato dalla SCIA,
dall’altro individui i tratti innovativi della disciplina,
con particolare riferimento ai poteri sanzionatori,
distinguendo le ipotesi di irregolarità (CILA mancante,
incompleta o irregolare, ovvero lavori eseguiti in
difformità), da quella di abusi edilizi (opere eseguite in
regime di CILA invece che di permesso di costruire o di
SCIA).
Ulteriore raccomandazione riguarda il coordinamento tra SCIA
edilizia e SCIA ordinaria: non si è in presenza di due
fattispecie diverse, ma dell’applicazione di un modello
unico (quello della SCIA) anche alla materia edilizia.
La questione degli abusi edilizi
Sugli abusi edilizi, va chiarito che, nei casi in cui
un’opera che avrebbe richiesto un permesso di costruire o
una SCIA è stata eseguita dall’interessato sotto il regime
di CILA, l’abuso non viene sanato con le sanzioni relative
alla CILA.
Diverso è il caso in cui l’opera abusiva sia stata oggetto
di SCIA e non di CILA: in tal caso, salvo espressa
disposizione del legislatore, non si ravvisano ragioni per
non applicare integralmente il regime dell’art. 19 della l.
n. 241, ivi compreso il riferimento al meccanismo dell’art.
21-nonies.
La rilevanza del glossario unico in materia
edilizia
Tra gli elementi di semplificazione burocratica introdotti
appare meritevole di segnalazione la previsione di un
glossario unico, che costituirà il parametro di riferimento
per l’attività di cittadini ed imprese in questo settore,
caratterizzato spesso da oscurità ed eccesso di tecnicismo.
Al riguardo il Consiglio di Stato raccomanda una maggiore
definizione sul piano dei contenuti e la fissazione di un
termine breve per la sua adozione, con integrale superamento
di tutti gli eventuali glossari transitori approvati in sede
locale.
La riforma della bonifica ambientale
In materia di ambiente, il Consiglio di Stato apprezza la
nuova disciplina della bonifica volontaria da parte del
soggetto estraneo alla contaminazione, evidenziandone le
esternalità positive sul ciclo economico e invitando, anzi,
il legislatore a intervenire per incentivare il ricorso a
tale istituto, incoraggiandone l’uso da parte degli
interessati.
I margini di ulteriore semplificazione in materia
di commercio
In materia di commercio l’intervento appare piuttosto
limitato, residuando sensibili margini di semplificazione,
pur considerando che tale materia è spesso coinvolta da
importanti profili di discrezionalità amministrativa.
4. Le materie non contemplate nel decreto:
l’invito a proseguire con i decreti correttivi e
integrativi. Le attività “libere”
Il decreto riguarda solo le materie dell’edilizia,
dell’ambiente, del commercio, della pubblica sicurezza
(materia, quest’ultima, che però non è oggetto della
individuazione dei procedimenti di cui alla Tabella A),
mentre la delega copre l’intero ordinamento delle funzioni
amministrative.
Premesso che il completamento dell’operazione non può che
avvenire con fonte primaria, il Consiglio di Stato invita il
Governo a non interrompere l’opera di ricognizione della
disciplina degli altri settori di attività private,
specialmente quelle oggetto di libertà di iniziativa
economica, considerando l’importanza di un progressivo
completamento della riforma tramite decreti integrativi e
correttivi, entro dodici mesi dalla entrata in vigore dello
schema in esame, ai sensi dell’art. 5, comma 3, della legge
delega.
Medio tempore, per prevenire incertezze applicative, il
parere fornisce un’interpretazione chiarificatrice del
citato art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30.06.2016, n. 126. Tale clausola di chiusura è applicabile ai
(soli) settori oggetto del decreto e non anche ai settori
rimasti al di fuori di tale opera di riordino.
Resta invece fermo che, nei tre settori interessati dalla
tabella A (“Commercio”, “Edilizia” e “Ambiente”), salvo
interventi correttivi, le attività non comprese nella
tabella medesima devono considerarsi effettivamente
“libere”.
5. Le questioni particolari
In materia edilizia si chiede al Governo la delimitazione
del potere delle Amministrazioni di escludere regimi di
semplificazione nelle zone di particolare pregio
archeologico, storico, artistico e paesaggistico, o di
ridurre il novero delle attività “libere”, poiché
considerate assimilabili a quelle previste dalla tabella.
In materia di ambiente si rimarca la doverosità
dell’intervento di bonifica, una volta che l’interessato
abbia attivato la procedura all’uopo prevista.
In materia di commercio, il parere rileva come la
classificazione delle attività contenuta nella tabella
risenta di un’impostazione giuridico-formale, che origina
dall’inquadramento di cui al d.lgs. n. 114/1998. Ciò implica
la possibilità che le nuove attività, generate dal mercato,
sfuggano a questa classificazione, ricadendo nella norma di
chiusura contemplata dall’art. 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.06.2016, n. 126.
Il parere si conclude con alcuni rilievi, formali e
sostanziali, sulle indicazioni contenute nella tabella A
(commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle linee
guida del Codice dei contratti pubblici concernenti il Rup,
l’offerta economicamente più vantaggiosa e i servizi di
architettura ed ingegneria
(Consiglio di Stato, Commissione speciale,
parere 02.08.02016 n. 1767 - "Linee guida
relative a Responsabile Unico del Procedimento - Offerta
Economicamente Più Vantaggiosa - Servizi attinenti
all’Architettura e all’Ingegneria").
La competente commissione speciale istituita presso le
sezioni consultive di Palazzo Spada ha compiuto il richiesto
esame delle linee guida in oggetto, predisposte in
attuazione delle seguenti norme del Codice degli appalti:
art. 31, comma 5, in tema di Rup; art. 213, comma 2, in tema
di offerta economicamente più vantaggiosa e di servizi di
architettura ed ingegneria.
Il parere, estremamente articolato sia nell’inquadramento
teorico delle questioni che nel conseguente esame di
dettaglio, è accompagnato da una serie di proposte di
modifica.
1. Inquadramento.
Preliminarmente, evidenziando l’assenza di obbligatorietà
nella richiesta del parere, il testo prende le mosse dalla
valorizzazione del ruolo consultivo del Consiglio di Stato,
richiamando quanto già sottolineato con riferimento ai
pareri resi sulla c.d. riforma Madia.
Dopo aver ribadito la qualificazione delle Linee guida, nei
termini indicati in sede di parere reso sul testo del nuovo
Codice dei contratti pubblici (parere 01.04.2016, n.
855), la Commissione speciale ha condiviso la forma di
esposizione discorsiva del contenuto attuativo delle Linee
guida, in quanto coerente con la predetta natura giuridica.
Peraltro, a fronte del carattere sostanzialmente vincolante
di alcune previsioni occorre, secondo il parere, che tali
punti siano specificamente evidenziati al fine di garantirne
una maggiore certezza del diritto per gli operatori.
Viene ribadita la necessità di speciali misure che
consentano di recuperare in sede procedimentale il rischio
di “gap democratico”, tipico di regolazioni predisposte da
Autorità amministrative indipendenti; ad esempio: una
sistematica fase di consultazione dei soggetti interessati,
lo svolgimento di un’attenta analisi di impatto della
regolamentazione (c.d. a.i.r.) nonché della successiva
verifica di impatto (c.d. v.i.r.), evitare una
proliferazione di Linee guida e la conseguente inflazione di
regolazione.
Analoghe considerazioni vengono svolte dal parere anche per
le Linee guida non vincolanti.
2. Offerta economicamente più vantaggiosa.
Nel dettaglio il parere ha prima esaminato le Linee guida in
tema di offerta economicamente più vantaggiosa. In
proposito, il parere sottolinea il carattere che emerge
dall’analisi delle Linee guida sul punto, le quali appaiono
alla stregua di mere istruzioni operative per le stazioni
appaltanti, in prevalenza finalizzate ad offrire a queste
ultime formule e metodi di natura tecnico matematica sulla
valutazione delle offerte e sull’assegnazione alle stesse di
un punteggio numerico.
Il parere, dopo aver evidenziato l’impostazione minimale
seguita dall’Anac sul punto, da un lato ritiene
condivisibile ed apprezzabile l’assenza di eccessivo
dettaglio al fine di rispettare la discrezionalità delle
stazioni appaltanti nella scelta dei criteri e dei metodi di
analisi delle offerte più coerenti con le specifiche
esigenze dell’appalto in questione; dall’altro, reputa nel
dettaglio troppo generiche le indicazioni.
Vengono quindi svolte una serie di indicazioni di dettaglio
sulla scorta del seguente criterio. Le Linee guida, infatti,
attengono in questa parte ad uno dei punti maggiormente
qualificanti della riforma della materia, la valorizzazione
del metodo di aggiudicazione dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, che assume il connotato di modalità ordinaria e
generale di aggiudicazione degli appalti, a fronte del
dichiarato sfavore per il metodo del prezzo più basso.
A titolo esemplificativo, a fronte della raccomandazione
relativa all’introduzione nei bandi di criteri compensativi,
il parere segnala la necessità di impartire istruzioni più
stringenti ed efficaci, quale, ad esempio, il suggerimento
dell’attribuzione di un peso massimo a tale tipologia di
criteri.
3. Il responsabile unico del procedimento.
Con riferimento al secondo ambito interessato dallo schema
in esame, la disciplina del Rup, le Linee guida hanno, nella
ricostruzione del parere, un duplice contenuto: da un lato,
con portata vincolante, l’attuazione dell’art. 31, comma 5;
dall’altro lato, la formulazione di indicazioni
interpretative delle disposizioni dell’art. 31 del Codice
nel suo complesso. Per questa seconda parte sono adottate ai
sensi dell’art. 213, comma 2, del Codice ed hanno una
funzione di orientamento e moral suasion.
Sulla base di tale ricostruzione il parere suggerisce, per
ragioni di certezza e chiarezza in ordine a portata e
contenuti, di distinguere le Linee guida in due parti,
differenziate già in base al relativo titolo, e di
esplicitare in modo chiaro (per evidenti ragioni di certezza
per gli operatori) che soltanto la seconda di esse assume
portata vincolante.
Vengono quindi elencate una serie di modifiche di dettaglio,
sempre proposte alla luce del predetto criterio. A titolo
esemplificativo, il parere segnala come esuli dai limiti
individuati dalla norma del Codice oggetto di attuazione la
fissazione del contenuto indefettibile del provvedimento di
nomina del Rup, ivi compresa la necessaria indicazione dei
poteri di delega conferiti e delle risorse messe a
disposizione per lo svolgimento delle funzioni.
4. Affidamento dei servizi attinenti
all’architettura e all’ingegneria.
Il terzo ed ultimo gruppo di Linee guida, avente carattere
non vincolante, viene inquadrato dal parere come connesso
alla condivisa esigenza di riordino della materia dei
servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria.
Viene quindi richiamata, in termini di inquadramento, la
primaria finalità di sostituire la previgente, complessa
disciplina con quella, di carattere certamente «più snello
ed essenziale» ma comunque frammentaria, contenuta nel nuovo
Codice dei contratti pubblici. In definitiva, emerge come
l’atto regolatorio proposto intervenga a colmare da subito
alcune lacune venutesi a creare nel passaggio alla nuova
disciplina, al fine di assicurare quella «ordinata
transizione» prevista dalla legge delega 28.01.2016, n.
11 (art. 1, comma 1, lett. b), e auspicata nel parere reso
dal Consiglio di Stato sul nuovo Codice.
Dall’esame del testo proposto emerge prima la definizione
dell’ambito di applicazione, in specie attraverso il
richiamo alla nozione recata dall’art. 3, lett. vvvv), del
Codice, Sul punto peraltro viene segnalata la mancanza di
ulteriori specificazioni, richieste in sede di consultazione
pubblica. Quindi, le Linee guida passano ad enunciare i
principi generali ricavabili dalla normativa primaria, ed in
particolare dagli artt. 23 e 24 del Codice. Sul piano
formale, la lettura di questa parte dell’atto consente, pur
nell’ambito di un registro discorsivo, di enucleare in modo
chiaro i singoli precetti in esso contenuti.
In termini applicativi di tale quadro, le Linee guida
dettano alcune indicazioni operative a beneficio delle
stazioni appaltanti in sede di affidamento dei servizi
attinenti all’architettura e all’ingegneria. In via
generale, il parere evidenzia una funzione generale delle
Linee guida in esame, quella di interpretazione del dato
normativo primario.
Vengono quindi elencate una serie di modifiche di dettaglio,
sempre proposte alla luce del predetto inquadramento. A
titolo esemplificativo, il parere segnala, fra le varie
indicazioni estremamente dettagliate, l’esistenza di una
disciplina non univoca in ordine alla la necessità della
relazione geologica e, quindi, della presenza della figura
del geologo negli appalti integrati.
Sempre a titolo esemplificativo del livello di
approfondimento e delle questioni affrontate, anche sulla
scorta dell’esperienza giurisprudenziale, in tema di criteri
per la valutazione delle offerte il parere segnala i rischi
insiti nella prevista commistione tra requisiti di
partecipazione ed elementi di valutazione delle offerte,
ulteriormente aggravati dalla richiesta che sia «in ogni
caso prevista» nel bando «una soglia di sbarramento al
punteggio tecnico, non superando la quale il concorrente non
potrà accedere alla fase di valutazione dell’offerta
economica».
Né quest’ultima previsione appare conforme al
carattere non vincolante delle Linee guida, nella misura in
cui introduce un obbligo normativamente non previsto
(commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L'escussione della fideiussione per il mancato pagamento
degli oneri di urbanizzazione è di competenza del giudice
ordinario.
La controversia avente ad oggetto
l'escussione, da parte del Comune, di una polizza
fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri
di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una
convenzione di lottizzazione, rientra nella giurisdizione
del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice
amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, attesa
l'autonomia tra i rapporti in questione, nonché la
circostanza che, nella specie, la P.R. agisce nell'ambito di
un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure
mediatamente, pubblici poteri.
---------------
Svolgimento del processo
In accoglimento della domanda proposta dalla locale
amministrazione comunale, il Tribunale di Reggio Calabria
condannò En. De Ma. e la Società Re.Mu. di Assicurazioni al
pagamento della somma di €. 21.799,45 per oneri di
urbanizzazione relativi alla licenza edilizia n. 39 del
1987, oltre sanzioni amministrative.
Appellata da En. De Ma. e dalla Società Re.Mu. di
Assicurazioni, la decisione di primo grado fu totalmente
riformata dalla Corte d'appello di Reggio Calabria, che,
dichiarata la nullità della sentenza impugnata per
violazione dell'art. 82 disp. att. c.p.c., in quanto non era
stato dato avviso al difensore di En. De Ma. del rinvio
dell'udienza di precisazione delle conclusioni, rilevò e
dichiarò d'ufficio il difetto di giurisdizione del giudice
ordinario, ritenendo esistente la giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo.
Contro la sentenza d'appello ha proposto ricorso per
cassazione il Comune di Reggio Calabria, sulla base di due
motivi di impugnazione illustrati anche da memoria, cui si
oppone con controricorso En. De Ma., mentre vi aderisce la
Società Re.Mu. di Assicurazioni.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il comune ricorrente deduce
che la decisione d'appello contraddice la giurisprudenza più
recente in tema di giurisdizione relativa agli oneri di
urbanizzazione; ed è stata comunque assunta in violazione
del giudicato sulla giurisdizione formatosi con la pronuncia
nel merito in primo grado, non appellata sul punto.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione
dell'art. 82 disp. att. c.p.c., sostenendo che non era
dovuto avviso ai difensori del rinvio della precisazione
delle conclusioni alla prima udienza immediatamente
successiva a quella originariamente fissata. Sicché non
sussiste la nullità erroneamente dichiarata dalla corte
d'appello.
2. Risulta pregiudiziale l'esame del secondo motivo del
ricorso, perché, ove fondato, rimuoverebbe la dichiarazione
di nullità della sentenza di primo grado, che, secondo
quanto eccepito dal controricorrente De Ma., esclude la
formazione del giudicato sulla giurisdizione del giudice
ordinario.
Si tratta tuttavia di motivo inammissibile per difetto di
specificità, o comunque di autosufficienza, perché il
ricorrente neppure allega, e comunque omette di richiamare,
il calendario delle udienze del Tribunale di Reggio
Calabria, a conferma della dedotta validità del rinvio
d'ufficio della precisazione delle conclusioni dall'udienza
del 29.09.2004 all'udienza del 06.10.2004.
Ferma dunque la dichiarazione di nullità della sentenza di
primo grado, non contestata per altri aspetti, risulta
infondata l'eccezione di giudicato sulla giurisdizione
prospettata con il primo motivo del ricorso.
E' invece fondata la deduzione alternativa, prospettata con
lo stesso primo motivo del ricorso, nella parte in cui vi si
censura l'erroneità della dichiarazione di difetto della
giurisdizione del giudice ordinario.
Secondo la giurisprudenza di questa corte, infatti, «la
controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte del
Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di
somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di
penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione,
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in
quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di
urbanistica ed edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti
in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la
P.R. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza
esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri»
(Cass., sez. un., 13.06.2012, n. 9592, m. 623047, Cass.,
sez. un., 23.02.2010, n. 4319, m. 611803).
In accoglimento del primo motivo del ricorso, dichiarato
inammissibile il secondo, la sentenza impugnata va cassata
con rinvio alla Corte d'appello di Reggio Calabria, che
potrà decidere nella medesima composizione, non essendosi
pronunciata nel merito della controversia (Corte di
Cassazione, Sezz. Unite civili,
sentenza 28.07.2016 n. 15666). |
EDILIZIA PRIVATA: La
proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non
comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di
demolizione ma fa conseguire all’atto uno stato di
temporanea quiescenza, fino alla definizione del
procedimento, espressa o tacita, all'evidente fine di
evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o
difformità dal titolo edilizio, si accerti tuttavia essere
conforme alla strumentazione urbanistica.
Una volta rigettata l’istanza di sanatoria, il provvedimento
di demolizione riacquista la sua efficacia, determinando,
così, la permanenza dell’interesse all’impugnazione dello
stesso.
----------------
L’eccezione è infondata.
La proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non
comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di
demolizione, (cfr. Cons. di Stato, n. 1546/2014 e
4818/2013), ma fa conseguire all’atto uno stato di
temporanea quiescenza, fino alla definizione del
procedimento, espressa o tacita, all'evidente fine di
evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o
difformità dal titolo edilizio, si accerti tuttavia essere
conforme alla strumentazione urbanistica. Una volta
rigettata l’istanza di sanatoria, il provvedimento di
demolizione riacquista la sua efficacia, determinando, così,
la permanenza dell’interesse all’impugnazione dello stesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.07.2016 n. 3407 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’Adunanza Plenaria ritorna sul delicato tema della mancata
indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, mitigandone
le conseguenze alla luce dei principi di affidamento,
certezza del diritto e parità di trattamento.
L’Adunanza Plenaria, preso atto dei principi dettati dalla
Corte di giustizia UE nelle sentenza Puligenica e Pippo
Pizzo nonché della loro incidenza sulla funzione
nomofilattica esercitata in base all’art. 99 c.p.a., ritorna
sul delicato tema della mancata indicazione degli oneri di
sicurezza aziendali, mitigandone le conseguenze alla luce
dei principi di affidamento, certezza del diritto e parità
di trattamento (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 27.07.2016 n. 19).
---------------
●
Giustizia amministrativa – Principio di
diritto formulato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato ex art. 99 c.p.a. – Vincolatività nei confronti delle
singole sezioni in caso di contrasto con il diritto
dell’Unione europea – Esclusione – Obbligo di rimettere
nuovamente la questione alla Adunanza plenaria – Non
sussiste.
●
Giustizia amministrativa – Adunanza plenaria
– Esercizio della nomofilachia su analoga questione pendente
davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea –
Facoltà.
●
Appalti pubblici – Oneri di sicurezza
aziendale – Omessa indicazione – Soccorso istruttorio –
Doverosità - Limiti.
●
La sezione del Consiglio di Stato cui è assegnato un
ricorso, qualora non condivida un principio di diritto
enunciato dall’Adunanza plenaria su una questione vertente
sull’interpretazione o sulla validità del diritto
dell’Unione Europea, può alternativamente: a) rimettere
previamente la questione all’Adunanza plenaria affinché
questa riveda il proprio orientamento; b) adire la Corte di
giustizia ex art. 267 TFUE ai fini di una pronuncia in via
pregiudiziale; c) disattendere direttamente il principio di
diritto enunciato dall’Adunanza plenaria ove esso risulti
manifestamente in contrasto con una interpretazione del
diritto dell’Unione già fornita, in maniera chiara ed
univoca, dalla giurisprudenza comunitaria
(1).
●
L’Adunanza plenaria, qualora sia chiamata a
decidere una questione analoga ad altra pendente innanzi
alla Corte di giustizia dell’Unione europea, può
alternativamente: a) disporre la sospensione c.d. impropria
del giudizio in attesa che si pronunci il giudice europeo;
b) sollevare a sua volta una questione pregiudiziale; c)
decidere comunque la questione anche alla luce dei dubbi di
compatibilità comunitaria manifestati in occasione della
precedente rimessione
(2)
●
Per le gare bandite anteriormente all’entrata
in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, qualora l’obbligo
di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non
sia stato specificato dalla legge di gara e dalla
modulistica allegata ma sia assodato che sostanzialmente
l’offerta abbia tenuto conto dei costi minimi di sicurezza
aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere
disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a
regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel
doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio
(3)
---------------
(1-3)
I. Con la sentenza in commento (e la coeva n. 20 in pari data, resa
sulla ordinanza della V sezione del Consiglio di Stato n.
1090 del 2016 di cui alla
News US del 18.03.2016),
l’Adunanza plenaria (pronunciando sulla rimessione disposta
dalla sentenza non definitiva della medesima V sezione n.
1116 del 2016), ha affermato importanti principi su due
questioni molto dibattute concernenti:
a) il rapporto tra il ruolo nomofilattico assegnato
dall’art. 99, comma 3, c.p.a. all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato e l’obbligo per le singole sezioni del
Consiglio, in qualità di giudice di ultima istanza, di
sollevare ex art. 267 TFUE una questione pregiudiziale
dinnanzi alla Corte di giustizia;
b) la compatibilità con il diritto dell’Unione Europea del
principio di diritto espresso in tema di oneri di sicurezza
aziendali dall’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 3 e 9
del 2015 e dunque la possibilità di ricorrere o meno al
soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione
nell’offerta dei suddetti oneri.
II. Sulla prima questione,concernente i rapporti tra la funzione
nomofilattica della Plenaria e il dovere di sollevare la
questione pregiudiziale di legittimità comunitaria, sono
stati formulati i principi di cui alla prima e seconda
massima, con il sostanziale recepimento delle indicazioni
recentemente elaborate dalla medesima Corte del Lussemburgo
(Corte giust. UE, Grande Camera, 05.04.2016, C-689/13, Puligienica, in Foro it., 2016, IV, 325 con nota critica di
G. Sigismondi che evidenzia il contrasto fra i principi di
fondo dell’ordinamento processuale italiano e le sentenze
della Corte nonché i possibili rimedi).
Per ulteriori approfondimenti sul tema dei rapporti tra
funzione nomofilattica della Adunanza Plenaria (ma anche
della Cassazione e della Corte dei conti), obbligo di rinvio
pregiudiziale ex art. 267 TFUE e vincolatività delle
pronunce della Corte Ue, si richiama la menzionata
News
dell’US del 18.03.2016.
La particolare attualità e
delicatezza del tema è tale che esso sarà oggetto, tra gli
altri, di un prossimo incontro organizzato da ACA-Europe
(Associazione delle Corti supreme amministrative e dei
Consigli di Stato europei), che si terrà il prossimo 07.11.2016 all’Aja, dal titolo: “The preliminary ruling
procedure”.
III. Sulla seconda questione -concernente le conseguenze della
violazione dell’obbligo di dichiarare gli oneri di sicurezza
aziendale e l’esercizio del soccorso istruttorio- la
Plenaria ha formulato il principio di cui alla terza
massima.
Questi gli snodi essenziali del ragionamento:
a) in primo luogo è stato ritenuto preferibile esaminare nel
merito la questione rimessa dalla Quinta sezione, anziché
attendere la pronuncia della Corte di giustizia (per una
sintesi delle questioni rimesse dai TAR alla Corte v., oltre
alla precitata
News US del 18.03.2016, la
News US del 19.02.2016 dove si riportano le varie ordinanze dei TAR
di rinvio pregiudiziale alla Corte Ue sulla questione della
obbligatoria indicazione degli oneri di sicurezza), sia per
ragioni di celerità (come sollecitato dalle parti), sia
perché una tale soluzione soddisfa una più generale esigenza
di sistema consentendo di risolvere in via preventiva i
dubbi di compatibilità comunitaria sottesi alla questione
pregiudiziale sollevata da numerosi Tribunali amministrativi
regionali, e, dall’altro, di superare la “causa ostativa”
che ha determinato la sospensione ex art. 79, comma 1, c.p.a. di diversi giudizi amministrativi (sia in primo che
secondo grado);
b) mitigando i principi affermati sul punto dalle precedenti
Plenarie nn. 3 e 9 del 2015 (rispettivamente in Foro it.
2016, III, 114, con nota di Travi; ibidem, III, 65, con nota
di Condorelli, cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti
di dottrina e giurisprudenza) –ma al contempo facendo salva
espressamente la ricostruzione dei presupposti e della
portata applicativa del principio di tassatività delle cause
di esclusione e del potere di soccorso effettuata dalla
plenaria n. 9 del 2014- è stato stabilito che l’automatismo
dell’effetto escludente per mancata indicazione degli oneri
di sicurezza, anche in assenza di indicazioni in tal senso
da parte del bando e della modulistica, si pone in contrasto
con i principi di certezza del diritto, tutela
dell’affidamento, nonché con quelli, che assumono
particolare rilievo nell’ambito delle procedure di evidenza
pubblica, di trasparenza, proporzionalità e par condicio;
c) a tale conclusione si è giunti attraverso il recepimento
e l’adattamento dei principi elaborati dalla recente
sentenza della Corte del Lussemburgo (Corte di giustizia UE,
Sesta Sezione, 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo, oggetto
della
News US in data
05.07.2016), in un caso concernente
l’esclusione di una impresa da una gara in ragione del
mancato pagamento del contributo all’Autorità di vigilanza
dei contratti pubblici previsto dalla l. n. 266 del 2005; la
Corte ha infatti evidenziato che i principi di trasparenza e
di parità di trattamento, che disciplinano tutte le
procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, richiedono
che le condizioni sostanziali e procedurali relative alla
partecipazione ad un appalto siano chiaramente definite in
anticipo e rese pubbliche, in particolare gli obblighi a
carico degli offerenti, affinché questi ultimi possano
conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere
assicurati del fatto che gli stessi requisiti valgono per
tutti i concorrenti; situazione questa che non si verifica
quando il requisito di partecipazione è enucleato ex post,
sulla scorta di prassi applicative della stazione appaltante
o, peggio, di interpretazioni del giudice nazionale;
d) nella fattispecie in esame, la mancata previsione
dell’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza nel
bando di gara, la predisposizione da parte
dell’Amministrazione di moduli fuorvianti, perché privi di
un riferimento alla voce in questione, l’esistenza di un
contrasto giurisprudenziale sintomatico di una incertezza
normativa, fanno sì che l’applicazione della regola
dell’esclusione automatica, senza il previo soccorso
istruttorio, si tradurrebbe in un risultato confliggente con
i principi euro-unitari di tutela dell’affidamento, di
certezza del diritto, di trasparenza, par condicio e
proporzionalità.
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’Adunanza plenaria afferma che la disciplina sul silenzio
assenso per il rilascio del nulla osta dell’ente Parco non è
stata implicitamente abrogata dalla l. n. 80 del 2005
(Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 27.07.2016 n. 17).
---------------
Ambiente – Parchi e aree protette – Nulla osta ex art. 13,
l. n. 394 del 1991 - Silenzio assenso – Abrogazione
implicita a seguito dell’entrata in vigore della l. 80 del
2005 – Esclusione.
Il silenzio-assenso previsto dall’art. 13,
commi 1 e 4, l. 06.12.1991 n. 394 (Legge quadro sulle aree
protette) non è stato implicitamente abrogato a seguito
dell'entrata in vigore della l. n. 80 del 2005, che,
nell'innovare l'art. 20, l. n. 241 del 1990, ha escluso che
l'istituto generale del silenzio-assenso possa trovare
applicazione in materia di tutela ambientale e
paesaggistica.
---------------
1. La pronuncia in esame, sollecitata dall’ordinanza di
rimessione della
III Sez. del Consiglio di Stato n. 642 del 17.02.2016,
fa seguito alla decisione dell’Adunanza
plenaria 24.05.2016, n. 9 (di cui alla news dell’U.S.
del 26.05.2016 su analogo tema).
La questione rimessa consiste nello stabilire se l’art. 20,
l. n. 241 del 1990 – novellato nel 2005 - abbia comportato
l’abrogazione dell’art. 13, comma 1, l. n. n. 394 del 1991,
attesa la specialità di quest’ultima disposizione, ovvero se
debba escludersi la sopravvivenza di norme aventi a oggetto
ipotesi di silenzio-assenso anteriori alla novella dell’art.
20 sulla base di una rigorosa applicazione del criterio
cronologico della successione delle leggi nel tempo e della
tendenza complessiva dell’ordinamento a ricusare tale modulo
procedimentale in settori “sensibili” quali sono
quelli della tutela del paesaggio, dell’ambiente, della
salute, e dei beni culturali.
Questi in sintesi i passaggi motivazionali della decisione.
In relazione ai presupposti, in generale, per la
configurabilità di abrogazione inespressa di una legge, la
Plenaria ha ricordato che:
A) a norma dell'art. 15 delle Disposizioni preliminari al Codice
civile, essa si rinviene quando vi è incompatibilità fra
nuove e precedenti leggi (abrogazione tacita), ovvero quando
la nuova legge regola l’«l’intera materia» già
regolata dalla anteriore (abrogazione implicita): per cui
detta incompatibilità sussiste se vi sia una contraddizione
tale da rendere impossibile la contemporanea applicazione
delle due leggi in comparazione, sì che dall'applicazione ed
osservanza della nuova derivi necessariamente la
disapplicazione o l'inosservanza dell'altra (ex multis,
Cass., I, 21.02.2001, n. 2502).
B) il principio lex posterior generalis non derogat priori
speciali deve cedere alla regola dell'applicazione della
legge successiva allorquando dalla lettera e dal contenuto
di detta legge si evince la volontà di abrogare la legge
speciale anteriore o allorquando la discordanza tra le due
disposizioni sia tale da rendere inconcepibile la
coesistenza fra la normativa speciale anteriore e quella
generale successiva (cfr. Cass., sez. lav., 20.04.1995, n.
4420. V. inoltre Cons. St., sez. V, 17.07.2014, n. 3823).
Venendo alla specifica questione in esame, e applicando i
suindicati principi, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che
tale incompatibilità che giustifica l’abrogazione tacita o
implicita non sussistesse nel caso in esame e che l’art. 13,
l. n. 394 del 1991 abbia disposto unicamente una particolare
strutturazione del procedimento, comunque in grado di
garantire la piena tutela dell’interesse protetto.
Le ragioni per giungere a tale conclusione sono le seguenti:
C) non si rinviene una indicazione della giurisprudenza
costituzionale in senso preclusivo alla possibilità per il
legislatore ordinario statale di dotarsi dello strumento di
semplificazione procedimentale rappresentato dal
silenzio-assenso anche in materia ambientale, laddove si
tratti di valutazioni con tasso di discrezionalità non
elevatissimo (cfr. Corte cost. 19.10.1992, n. 393;
27.04.1993, n. 194; 02.02.1996, n. 26; 17.12.1997, n. 404;
16.07.2014, n. 209).
D) neppure la giurisprudenza comunitaria ha fornito indicazioni
preclusive in tal senso: la Corte di Giustizia europea ha
ritenuto non compatibile la definizione tacita del
procedimento, solo quando, però, per garantire effettività
agli interessi tutelati (tutela della salute), fosse
necessaria una espressa valutazione amministrativa quale un
accertamento tecnico o una verifica (sentenza 28.02.1991,
causa C-360/87); essa inoltre ha censurato unicamente
l’omessa effettuazione della Valutazione di Impatto
Ambientale in quanto prescritta dalla direttiva n. 85/337/Cee
(sentenza 10.06.2004, causa C-87/02).
All’interno di tale cornice, la Plenaria ha evidenziato che:
E) il dato testuale dell’art. 20, comma 4, della l. 241/1990 (come
modificato dalla l. 81 del 2005) depone nel senso della non
configurabilità di un effetto abrogativo implicito. Ed
infatti, esso esordisce riferendosi alle sole «disposizioni
del presente articolo». Dunque almeno in principio la
sua previsione pare riguardare i casi generali e non
estendersi a precedenti specifiche disposizioni, come quella
del detto art. 13. (cfr. Cons. Stato, VI, 29.12.2008, n.
6591 e 17.06.2014, n. 3047).
F) dal punto di vista sistematico:
1. l’art. 13, l. n. 394 del 1991 fu posto quando
l’originario art. 20, l. n. 241 del 1990 escludeva in via
generale il silenzio-assenso, salvo casi specifici previsti
da appositi regolamenti governativi di delegificazione.
Viceversa, solo con la riforma del 2005 il modulo del
silenzio assenso è stato generalizzato. Non è pertanto
logico ritenere che una disposizione volta a generalizzare
il regime procedimentale del silenzio-assenso faccia venir
mento proprio quelle ipotesi di silenzio-assenso già
previste dall’ordinamento nel più restrittivo sistema
dell’art. 20 vigente prima della riforma del 2005 (cfr. in
termini Cons. St., sez. VI, 17.06.2014, n. 3047; id.
29.12.2008, n. 6591);
2. la previsione del silenzio assenso per il rilascio del
nulla osta dell’Ente Parco si inseriva in una normativa
organica del settore sui parchi e le aree protette (la l. n.
394 del 1991), cosicché deve ritenersi che essa fosse il
frutto di un bilanciamento complessivo degli interessi ivi
coinvolti e costituisse effetto di una valutazione
legislativa ponderata e giustificata dalla specificità della
materia;
3. il nulla osta dell’art. 13, l. n. 394 del 1991 ha ad
oggetto la previa verifica di conformità dell’intervento con
le disposizioni del piano e del regolamento del parco. Si
tratta pertanto di effettuare valutazioni a basso margine di
discrezionalità compatibili con il modulo procedimentale del
silenzio-assenso.
Si segnalano in senso contrario, per l’applicazione del
criterio cronologico ed il conseguente il riconoscimento
della abrogazione tacita Cons. St., sez. III, 15.01.2014, n.
119; id., sez. IV, 28.10.2013, n. 5188 (tratto da a e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Le Sezioni unite civili attribuiscono al giudice ordinario
tutte le controversie comunque concernenti la determinazione
e la corresponsione delle indennità previste dall’art.
42-bis t.u. espropriazioni (Corte di Cassazione, Sezz. unite
civili,
sentenza 25.07.2016 n. 15283).
---------------
Espropriazione – Acquisizione ex art.
42-bis d.P.R. 08.06.2001, n. 327 – Indennizzo –
Giurisdizione ordinaria – Competenza – Corte d’appello.
Le controversie aventi ad oggetto la determinazione e la
corresponsione di tutte le indennità previste dall’art.
42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 sono devolute alla
giurisdizione del giudice ordinario ed alla competenza in
unico grado della Corte di appello. (1)
---------------
(1) Le Sezioni unite hanno formulato il principio di cui in
massima portando a compimento, dal punto di vista logico e
sistematico, il percorso esegetico intrapreso dalla Corte
costituzionale (30.04.2015, n. 71, in Foro it., 2015, I,
2629, con ampia nota di richiami di R. Pardolesi) e dalle
stesse Sezioni unite (29.10.2015, n. 22096, id., 2016, I,
593, con ampia nota di richiami di E. Barila’).
Anche il Consiglio di Stato è pervenuto alle medesime
conclusioni in punto di giurisdizione (cfr. A.P.,
09.02.2016, n. 2, ibidem, III, 185, con note di
approfondimenti di E. Barilà e R. Pardolesi, sia pure con
una affermazione incidentale rispetto all’oggetto principale
di quel giudizio; sez. IV, 12.05.2016, n. 1910 che ha,
invece, analizzato funditus l’intera tematica).
...
Questi i passaggi logici essenziali della decisione in
commento:
a) il provvedimento di acquisizione previsto dall’art. 42-bis, t.u.
espropriazione ha natura espropriativa;
b) tutte le voci di danno menzionate nei commi 1, 3, 4 e 5,
dell’art. 42-bis, sono oggetto di un’unica previsione
indennitaria, ivi compresa quella relativa al periodo di
occupazione senza titolo subita dal proprietario,
espressamente contemplata dal comma 3, ultimo periodo;
c) la locuzione <<a titolo risarcitorio>> contenuta nel
menzionato comma 3, ultimo periodo, è una mera improprietà
lessicale in cui è caduto il legislatore che, in quanto
tale, non consente di superare gli obbiettivi (e principi
esegetici ispiratori) di concentrazione ed effettività della
tutela giurisdizionale che risulterebbero vulnerati da una
interpretazione letterale che frazionasse la tutela
affidando al G.A. la cognizione del danno da occupazione
senza titolo ed al G.O. le altre poste di danno menzionate
dal medesimo art. 42-bis;
d) conseguentemente, trovano applicazione le norme enucleabili dal
combinato disposto degli artt. 133, comma 1, lett. g),
c.p.a., nonché 53 e 54 t.u. espropriazione, che assegnano
alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie,
incluse quelle risarcitorie, aventi ad oggetto atti, accordi
e comportamenti espressione di esercizio della funzione
pubblica in materia espropriativa, riservando al G.O. –e per
esso alla competenza generale in materia della Corte
d’appello- le sole controversie riguardanti determinazione e
corresponsione delle indennità (tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
deve escludere –sulla
base di un costante insegnamento giurisprudenziale- la compatibilità della
c.d. regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’
con il dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del D.P.R.
380/2001.
L’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’, con consentita legittimazione postuma di
opere originariamente e sostanzialmente abusive, viene a
porsi in contrasto:
- con il principio di legalità, in quanto si svuoterebbe
della sua portata precettiva, certa e vincolante, la
disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della
commissione degli illeciti, e in quanto, estendendosi
l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire
in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del
D.P.R. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- con il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe
per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a
discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito
attività edificatorie, nel doveroso convincimento di
rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente
violate;
- con i principi di buon andamento e di efficacia, in
quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi
edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non
addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio;
- con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in
quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di
un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là
della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in
rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e
commisurato dal legislatore.
---------------
Quanto, da ultimo, alla richiamata distinzione fra “abuso
formale” ed “abuso sostanziale”, si osserva che, se
l’attuale conformità urbanistico-edilizia degli interventi
come sopra repressi è, dalla parte ricorrente, concretamente
indimostrata, ritiene il Collegio di dover escludere –sulla
base di un costante insegnamento giurisprudenziale che si
intende, in questa sede, confermare– la compatibilità della
c.d. regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ con
il dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del D.P.R.
380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV,
02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II,
09.06.2006, n. 1352; sez.
I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna,
sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n.
620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506;
20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I,
09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI,
04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n.
17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n.
24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n.
36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d.
doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della
loro esecuzione sia al momento della presentazione della
domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti
interpretativi, già illustrati da TAR Campania, Napoli,
sez. VII, nelle sentenze nn. 08.10.2015 n. 4718, 10.09.2010 n. 17398,
03.07.2012 n. 3153 e 20.03.2014 n. 1690, che di seguito si riportano:
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in
caso di interventi realizzati in assenza di permesso di
costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei
termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34,
comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni
amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale
proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e
inequivoco nel riferire il requisito della conformità
urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia”
al momento della sua realizzazione “sia” al momento della
presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al
Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da
Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità
sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla
possibile variazione in pejus della disciplina
urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti
che riducano o escludano, appunto, lo jus aedificandi
sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe
ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello jus
superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo
della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente
abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione
dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi,
contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse
unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle
conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta
modifica in pejus dello jus aedificandi) dell’inerzia
dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento
di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento
testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco
temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio
commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato
per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti
peggiorativi dello jus superveniens non possono non ricadere
su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti
restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel
provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n.
380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l.
28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato,
discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad.
gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di
codificare la regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale
previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è
pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente
che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia,
soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente
contrario contenute nel parere espresso dalla Camera”
(relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota,
viepiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della
regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato
introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del
regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel
senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire
la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire
di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro
requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il
necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito
ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo
al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del
tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario
permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab
origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è
dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità,
bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei
limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia
applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’
significherebbe anche introdurre surrettiziamente
nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato
dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un
abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli
effetti indirettamente sananti di un più favorevole jus
superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa
condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle
ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato,
derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati
sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure
ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile
di applicazione analogica né di una interpretazione
riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore
letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo
strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta
l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e
derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa
prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia
dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica
vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data
della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in
favore della regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla
pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di
controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon
andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei
manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base
della disciplina urbanistica vigente al momento della
proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi
alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione.
Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia
dell'amministrazione (il successivo procedimento
amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera
abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia
ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la
nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata
nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi,
nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i
principi di legalità e di buon andamento della pubblica
amministrazione, con assegnazione della prevalenza a
quest'ultimo, in nome di una presunta logica
‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica
amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal
principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui
è informata l'attività amministrativa e che trova un
fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali
(artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi
dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può
esservi rispetto del buon andamento della pubblica
amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo,
rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio
fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua,
individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla
demolizione le opere che risultino rispettose della
disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non
solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria,
ma anche di quella vigente all'epoca della loro
realizzazione (e ciò in applicazione del principio di
legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi
dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme
disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività
edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006,
n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n.
5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato,
nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e
sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire
violazioni sostanziali della normativa del settore, quali
rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere
per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver
riguardo al momento della realizzazione dell'opera per
valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di
buon andamento ex art. 97 Cost., ammettere che
l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso
del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla
stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a
modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per
incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni
interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di
manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di
conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina
del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa
dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede
(anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di
‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del
territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’
agli strumenti urbanistici.
L’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’, con consentita legittimazione postuma di
opere originariamente e sostanzialmente abusive, viene,
dunque, a porsi in contrasto:
- con il principio di legalità, in quanto si svuoterebbe
della sua portata precettiva, certa e vincolante, la
disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della
commissione degli illeciti, e in quanto, estendendosi
l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire
in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del
D.P.R. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- con il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe
per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a
discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito
attività edificatorie, nel doveroso convincimento di
rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente
violate;
- con i principi di buon andamento e di efficacia, in
quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi
edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non
addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio;
- con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in
quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di
un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là
della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in
rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e
commisurato dal legislatore.
Le considerazioni precedentemente rassegnate escludono la
condivisibilità delle argomentazioni dedotte con il presente
mezzo di tutela: che deve, conseguentemente, essere respinto
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 21.07.2016 n. 789 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 75 del d.p.r. n. 445 del 2000, richiamato
dall’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006,
stabilisce che la non veridicità della dichiarazione
sostitutiva comporta la decadenza dai benefici eventualmente
conseguiti, senza che tale norma lasci alcun margine di
discrezionalità all’Amministrazione.
Ciò senza contare che l’interessata era stata
preventivamente edotta della necessità di attestare le
eventuali condanne subite grazie al facsimile di
dichiarazione sostitutiva allegato al disciplinare di gara,
né la stazione appaltante avrebbe potuto concedere la
remissione in termini richiesta, vista la conoscibilità del
decreto penale da parte dell’interessato tramite la visura
del casellario giudiziario ed inoltre la fase della superata
aggiudicazione avrebbe impedito passaggi di tal genere.
---------------
Destituita di fondamento è l’asserzione che il decreto
penale non potesse essere menzionato perché assente nel
certificato del casellario giudiziale: invero, l’elemento
della “non menzione” riguarda i rapporti con i privati e non
con le pubbliche amministrazioni.
Si deve poi aggiungere per completezza che la consultazione
del casellario rappresenta un onere per gli amministratori
(delle società) tenuti alle dichiarazioni di cui all’art. 38
del codice dei contratti pubblici.
---------------
L’appello è infondato, essendo logiche e condivisibili le
conclusioni raggiunte dai primi giudici, il che consente di
prescindere dall’esame della eccezione di difetto di
legittimazione attiva di Ba.Et. sollevata dall’appellato
Comune di Arezzo.
L’art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163 del 2006
stabilisce l’esclusione dalle pubbliche procedure di gara
degli amministratori muniti del potere di rappresentanza nei
cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna
passate in giudicato, o emesso decreto penale di condanna
divenuta irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della
pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del codice di
procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o
della Comunità che incidono sulla moralità professionale.
Detta previsione esprime una sorta di automatismo connesso
ad un riconoscimento normativo di un insussistenza di
requisiti morali e giuridici che colpiscono direttamente la
figura degli amministratori -o del singolo amministratore-
in quanto tali.
Altro genere di previsione si rinviene nel comma 2 dello
stesso art. 38, ove si stabilisce nella prima parte che “il
candidato il concorrente attesta possesso dei requisiti
mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle
previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di documentazione amministrativa,
di cui al decreto del presidente della Repubblica 28.12.2000
n. 445, in cui indica delle condanne penali riportate, ivi
comprese quelle per le quali abbia beneficiato della non
menzione”.
Mentre l’esclusione predetta di cui alla lett. c) del comma
1 costituisce una regola automatica che prescinde da
valutazioni discrezionali della stazione appaltante, la
dichiarazione di cui al comma 2 è un obbligo per i soggetti
chiamati a tale dichiarazione indipendentemente dalla
gravità delle condanne, poiché in questo caso spetta alla
P.A. procedente la valutazione sull’affidabilità dei
soggetti partecipanti, con la possibilità di effettuare un
vaglio ulteriore a quello tassativo già operato dal
legislatore allo scopo di una conoscenza effettiva e
generale della moralità e della professionalità dei soggetti
concorrenti e per verificarne a fondo la reale affidabilità:
naturalmente, mentre le esclusioni di cui al comma lett. c)
sono vincolanti, un’esclusione fondata su condanne di altro
genere potrà sempre essere sindacata dal giudice
amministrativo per quanto concerne la sua ragionevolezza e
la sua attinenza con i requisiti per contrattare con le
pubbliche amministrazioni.
Ciò dimostra che la dichiarazione di cui al comma 2 non è un
inutile orpello o un passaggio burocratico ininfluente, ma
costituisce lo strumento adeguato per svolgere un controllo
generale sui rappresentanti delle ditte concorrenti.
Né può essere chiamato in causa l’art. 46, comma 1-bis, del
codice dei contratti pubblici concernente la tassatività
delle cause di esclusione: stabilisce infatti tale comma
1-bis l’esclusione dei candidati o dei concorrenti in caso
di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal
codice, dal regolamento ed altre disposizioni di legge
vigenti; quindi, non si tratta tanto di una previsione di
esclusione autonomamente inserita dalla legge di gara -come
nel caso di specie- ma della violazione di una rilevante
prescrizione dello stesso codice dei contratti pubblici,
un’omissione di un importante passaggio previsto da questo
stesso e come correttamente osservato dal Tar della Toscana,
l’art. 46, comma 1-bis, in questione, nel circoscrivere
l’ipotesi di esclusione dalle gare, non collega
quest’ipotesi alla presenza di una specifica previsione di
estromissione, ma anche all’omissione di adempimenti
doverosi, la cui pregnanza deve essere desunta dal loro
ruolo (Cons. Stato, VI, 13.10.2015 n. 4703; id., 02.02.2015
n. 462; V, 03.12.2014 n. 5972).
Destituita di fondamento è poi l’asserzione che il decreto
penale non potesse essere menzionato perché assente nel
certificato del casellario giudiziale: è infatti stato
prodotto in atti il certificato del vice presidente
dell’istituto bancario aggiudicatario, a carico del quale
risulta essere stato emesso il decreto penale in parola da
parte del g.i.p. del Tribunale di Arezzo in data 07.01.2010,
esecutivo l’anno successivo. Si tratta di provvedimento
antecedente la procedura di gara in controversia e
l’elemento della “non menzione” riguarda i rapporti
con i privati e non con le pubbliche amministrazioni.
Si deve poi aggiungere per completezza che la consultazione
del casellario rappresenta un onere per gli amministratori
tenuti alle dichiarazioni di cui all’art. 38 del codice dei
contratti pubblici e che le vicende specifiche rappresentate
in causa, disconoscimento della notifica, successiva
remissione in termini per l’opposizione e revoca del
decreto, costituiscono fatti successivi al provvedimento
impugnato e non possono comunque inficiarne la legittimità.
Per le suesposte considerazioni l’appello deve essere
respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.07.2016 n. 3275 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Se
un terreno è stato utilizzato per definire gli standard di
un piano di lottizzazione, questo terreno non può essere
conteggiato per una successiva edificazione.
Una volta che sono state realizzate le previste volumetrie,
non è possibile argomentare –al fine di sostenere la tesi
della successiva edificazione– che l’efficacia del piano di
lottizzazione è limitato a 10 anni.
E' del tutto evidente che, in occasione
dell’attuazione di un piano di lottizzazione, a fronte della
edificazione realizzabile, vengono contestualmente assunti
dai privati obbligazioni volte sia alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione primaria e secondaria, sia alla
cessione gratuita delle aree individuate e destinate a spazi
pubblici, ad attività collettive, a verde pubblico e a
parcheggi.
E’ in questo senso che risulta condivisibile quanto
affermato dalla impugnata sentenza, laddove questa riconduce
il caso in esame ad un esempio di “perequazione
urbanistica”, con attribuzione di un indice di
edificabilità, accorpamento di aree e cessione gratuita di
altre aree al Comune: una perequazione urbanistica cd.. “di
comparto”, che, avendo come finalità la realizzazione di
quanto previsto nello strumento urbanistico, permette
l’accordo dei proprietari riguardo alla
concentrazione/distribuzione di volumetrie nell’ambito di
una determinata area, in modo tale da non creare svantaggi
per alcuno, ovvero consente la realizzazione, per il tramite
di consorzio, di quanto previsto dal piano di lottizzazione,
in una visione unitaria e concordata, anche nel rapporto tra
edificando, verde pubblico, aree destinate a parcheggi e
servizi pubblici.
---------------
Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che
“proprio per le sue caratteristiche di strumento di
pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del
tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le
future conformazioni del territorio, considera le sole “aree
libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al
momento della pianificazione, e ancor più precisamente
quelle che non risultano già edificate (in quanto
costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per
opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto
degli standard urbanistici, risultano comunque già
utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla
realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo
volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano”.
Si è affermato inoltre che "un'area edificabile, già
interamente considerata in occasione del rilascio di una
concessione edilizia, agli effetti della volumetria
realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione
come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio
di una seconda concessione nella perdurante esistenza del
primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende
inerenti alla proprietà dei terreni”.
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata,
l'intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche
l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall'area su cui insiste il manufatto".
In definitiva, una volta utilizzato per la definizione
complessiva degli standard di un territorio oggetto di piano
di lottizzazione, il singolo terreno, ancorché non
interessato da edificazione ed anche se eventuali
destinazioni, quali quella a verde pubblico, non hanno avuto
attuazione, non può essere considerato disponibile ai fini
di una successiva edificazione: una volta realizzate le
volumetrie previste, risultando inconferente il decorso del
decennio di efficacia del Piano di lottizzazione.
---------------
3. Tanto precisato, il Collegio rileva come risulti pacifico
tra le parti che il terreno, oggetto della presente
controversia, sito in Ladispoli, di proprietà degli attuali
appellanti, fu inserito nel piano di lottizzazione di
ufficio “Cerreto”, approvato dal Consiglio comunale
di Ladispoli, unitamente allo schema di convenzione ed allo
statuto regolante la costituzione del consorzio.
Orbene, è del tutto evidente che, in occasione
dell’attuazione di un piano di lottizzazione, a fronte della
edificazione realizzabile, vengono contestualmente assunti
dai privati (nel caso di specie, dal Consorzio) obbligazioni
volte sia alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, sia alla cessione gratuita delle aree
individuate e destinate a spazi pubblici, ad attività
collettive, a verde pubblico e a parcheggi.
E’ in questo senso che risulta condivisibile quanto
affermato dalla impugnata sentenza, laddove questa riconduce
il caso in esame ad un esempio di “perequazione
urbanistica”, con attribuzione di un indice di
edificabilità, accorpamento di aree e cessione gratuita di
altre aree al Comune: una perequazione urbanistica cd.. “di
comparto”, che, avendo come finalità la realizzazione di
quanto previsto nello strumento urbanistico, permette
l’accordo dei proprietari riguardo alla
concentrazione/distribuzione di volumetrie nell’ambito di
una determinata area, in modo tale da non creare svantaggi
per alcuno, ovvero consente la realizzazione, per il tramite
di consorzio, di quanto previsto dal piano di lottizzazione,
in una visione unitaria e concordata, anche nel rapporto tra
edificando, verde pubblico, aree destinate a parcheggi e
servizi pubblici.
E la sentenza stessa precisa inoltre (in modo non oggetto di
contestazione da parte degli appellanti) che “l’area dei
ricorrenti è stata assunta al fine di concorrere al
raggiungimento degli standards di urbanizzazione che
consentivano l’edificazione del Consorzio”, nell’ambito
di una lottizzazione che –come afferma il Comune di
Ladispoli (v. memoria di replica del 19.05.2016)– “è oggi
definitivamente e compiutamente realizzata”.
Da quanto esposto consegue che l’area appartenente agli
attuali appellanti, lungi dal poter essere considerata
disponibile, era stata invece pienamente considerata, onde
consentire la realizzazione dell’edificazione da parte del
Consorzio (cui gli appellanti hanno aderito), secondo quanto
previsto dal Piano di lottizzazione.
Ne consegue che l’intervenuta scadenza del termine decennale
del piano di lottizzazione, invocata dagli appellanti, non
ha alcun effetto sulla destinazione urbanistica del proprio
suolo, posto che questo, per effetto del piano di
lottizzazione e della convenzione allo stesso allegata, era
ormai definitivamente destinato al conseguimento degli
standard onde consentire l’edificazione assentita.
In tal senso, non assume alcun rilievo distinguere tra piano
di lottizzazione e convenzione, onde stabilire la fonte
della destinazione a verde pubblico del suolo dei
ricorrenti.
Questa è da ricondursi senza alcun dubbio al piano di
lottizzazione, ma essa non cessa di avere efficacia per
decorso del termine decennale (ex art. 17, co. 1, l. n.
1150/1942), perché –una volta considerata ai fini della
verifica degli standard– essa è stata già considerata e
costituisce, per così dire, un “momento di attuazione”
già definito del piano di lottizzazione.
In altre parole, se, per il tramite della destinazione a
verde pubblico di un’area all’interno del piano (ancorché
appartenente solo ad uno o ad alcuni dei consorziati) si
consente l’edificazione di quanto previsto (la quale,
altrimenti, in difetto di standards, non sarebbe possibile),
il piano, per questa parte, risulta già avere avuto
attuazione per il fatto stresso dell’edificazione.
Ne consegue che il terreno –indipendentemente
dall’attuazione in concreto di quanto sullo stesso previsto-
non risulta più utilizzabile e ciò anche nel rispetto del
sinallagma convenzionalmente assunto.
4. Le conclusioni cui si è pervenuti risultano coerenti con
i principi già espressi, in casi analoghi, dalla
giurisprudenza amministrativa.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 09.07.2011 n. 4134) ha
già avuto modo di affermare che “proprio per le sue
caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua
possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo
strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni
del territorio, considera le sole “aree libere”, tali
dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della
pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non
risultano già edificate (in quanto costituenti aree di
sedime di fabbricati o utilizzate per opere di
urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli
standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per
l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di
fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano”.
Si è affermato inoltre che "un'area edificabile, già
interamente considerata in occasione del rilascio di una
concessione edilizia, agli effetti della volumetria
realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione
come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio
di una seconda concessione nella perdurante esistenza del
primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende
inerenti alla proprietà dei terreni” (Cons. Stato, sez.
V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata,
l'intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche
l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall'area su cui insiste il manufatto" (Cons. Stato,
sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
In definitiva, una volta utilizzato per la definizione
complessiva degli standard di un territorio oggetto di piano
di lottizzazione, il singolo terreno, ancorché non
interessato da edificazione ed anche se eventuali
destinazioni, quali quella a verde pubblico, non hanno avuto
attuazione, non può essere considerato disponibile ai fini
di una successiva edificazione: una volta realizzate le
volumetrie previste, risultando inconferente il decorso del
decennio di efficacia del Piano di lottizzazione.
Nel caso di specie, inoltre, non ha alcun rilievo quanto
affermato dagli appellanti, e cioè che essi “in base al
piano di lottizzazione d’ufficio decaduto ... non avrebbero
avuto alcun diritto edificatorio a fronte della cessione
dell’area di loro proprietà ai fini dell’attuazione della
destinazione a verde pubblico impressa dal piano stesso”.
Come affermato anche dal Comune di Ladispoli (v. pag. 4
memoria del 19.05.2016), non rilevano né le ragioni per le
quali gli appellanti hanno aderito al Consorzio, né
l’utilità che da ciò essi hanno potuto pensare di ritrarre o
hanno effettivamente conseguito.
Ciò che rileva, è che gli attuali appellanti hanno
incontestabilmente aderito al Consorzio e ne hanno assunto
gli obblighi derivanti dalla convenzione (tanto da non
risultare tra coloro che non hanno aderito al progetto di
lottizzazione d’ufficio e, dunque, i loro terreni non sono
stati inseriti nel piano particellare d’esproprio: v.
memoria Comune 19.05.2016, pag. 3).
Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere
rigettato, stante la sua infondatezza, con conseguente
conferma della sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.07.2016 n. 3246 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nel
caso di gara da aggiudicarsi secondo
il criterio del prezzo più basso, per la costante
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, s'impone una
valutazione stringente sulla conformità o meno del prodotto
alla specifiche già predeterminate dalla lex specialis che
non consente alla stazione appaltante di formulare
apprezzamenti sul grado di maggiore o minore qualità tecnica
dell’offerta, sottoponendo i prodotti a prove o verifiche
non previste dalla lex specialis, come è avvenuto nel caso
di specie.
---------------
Se è ben vero che nelle gare bandite secondo il criterio del
prezzo più basso l’Amministrazione può e deve verificare la
conformità del prodotto alle specifiche tecniche
predeterminate dalla lex specialis, essa non può sottoporre
le offerte a verifiche e prove non previste e non
predeterminate ed esprimere valutazioni tecniche sulla
minore o maggiore qualità dei prodotti, basate su una
comparazione qualitativa tra i prodotti offerti (consentita
invece nelle gare bandite con il metodo dell’offerta
economicamente vantaggiosa), con il risultato illegittimo,
peraltro, di escludere in toto l’offerta ritenuta solo
qualitativamente meno vantaggiosa, come è accaduto nel caso
di specie.
---------------
4. Occorre premettere che la gara in oggetto doveva
aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più basso che,
per la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato,
impone una valutazione stringente sulla conformità o meno
del prodotto alla specifiche già predeterminate dalla lex
specialis (Cons. St., sez. V, 11.12.2015, n. 5655) e non
consente alla stazione appaltante di formulare apprezzamenti
sul grado di maggiore o minore qualità tecnica dell’offerta,
sottoponendo i prodotti a prove o verifiche non previste
dalla lex specialis, come è avvenuto nel caso di
specie.
5. Per quanto concerne l’esclusione della s.p.a. Sv.Bi., in
origine disposta dall’Azienda Sanitaria, infatti, il TAR ha
correttamente osservato che le istruttorie sui prodotti e
sulle esigenze dei reparti devono essere compiute prima di
elaborare e bandire un appalto e non dopo, in corso di gara,
violando il principio di trasparenza e della par condicio.
5.1. In effetti il prodotto della s.p.a. Sv.Bi. rispettava i
requisiti minimi richiesti dalla stazione appaltante, come è
confermato indubbiamente dal fatto, evidenziato dalla
sentenza impugnata (p. 6) e non adeguatamente contestato,
che il prodotto della s.p.a. Sv.Bi. è stato già riconosciuto
dalla medesima Azienda conforme ad analogo capitolato
speciale nell’ambito di una precedente procedura di gara RDO
799318, svoltasi il mese prima, con lo stesso soggetto
aggiudicatore, lo stesso oggetto ed un identico capitolato.
5.2. Quanto ai chiarimenti resi dalla stazione appaltante
nella gara in esame, in primo luogo essi non hanno potuto
modificare ex post la lex di gara e, in
secondo luogo, essi non sono tali da rendere irrilevante la
insanabile contraddizione riscontrata dal TAR nell’operato
dell’Amministrazione, che appena poco prima aveva ritenuto
il prodotto della s.p.a. Sv.Bi. conforme ad un identico
capitolato, in una gara svoltasi il mese precedente, al
punto tale che la stessa s.p.a. Sv.Bi. si era aggiudicata la
precedente commessa.
Sotto tale profilo, come ha correttamente rilevato il TAR, i
medesimi chiarimenti (impugnati ritualmente in primo grado)
risultano illegittimi, nella parte in cui si sono discostati
dalle previsioni della lex specialis, sicché di essi
non si deve tenere conto in sede di verifica della
legittimità dell’atto di esclusione.
5.3. Se è ben vero che nelle gare bandite secondo il
criterio del prezzo più basso l’Amministrazione può e deve
verificare la conformità del prodotto alle specifiche
tecniche predeterminate dalla lex specialis, essa non
può sottoporre le offerte a verifiche e prove non previste e
non predeterminate ed esprimere valutazioni tecniche sulla
minore o maggiore qualità dei prodotti, basate su una
comparazione qualitativa tra i prodotti offerti (consentita
invece nelle gare bandite con il metodo dell’offerta
economicamente vantaggiosa), con il risultato illegittimo,
peraltro, di escludere in toto l’offerta ritenuta solo
qualitativamente meno vantaggiosa, come è accaduto nel caso
di specie
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.07.2016 n. 3206 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
disposizioni regionali che regolano il procedimento e la
tempistica di approvazione del P.G.T. devono essere
interpretate in modo da “garantire l’osservanza dei principi
di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della
pubblica amministrazione (articoli 3 e 97 della
Costituzione), nonché [devono] assicurare l’esigenza che la
legge regionale si attenga ai principi fondamentali
desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma,
della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo
indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando
unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di
salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (articolo 12
del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal
tenore letterale della previsione normativa, deve
privilegiarsi quella (…) che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo
la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata
valutazione delle osservazioni pervenute”.
---------------
Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza
amministrativa, la normativa in materia di V.A.S. non impone
una rigorosa separazione fra Autorità competente e
procedente, potendo le stesse essere scelte anche fra
articolazioni o organi della stessa amministrazione, anche
in caso di strutture amministrative di piccole dimensione,
come quelle di molti comuni.
---------------
L’art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del
2005 stabilisce che i Comuni possono procedere alla
correzione di errori materiali e a rettifiche degli atti di
PGT, non costituenti variante agli stessi; tale disposizione
non sembra applicabile soltanto alla fase successiva
all’approvazione definitiva del Piano, ma pare riferibile a
tutto il procedimento, anche anteriore, riguardo alle fasi
di adozione e approvazione, atteso che la correzione o la
rettifica deve essere tempestivamente effettuata sia per
garantire il buon andamento dell’attività amministrativa,
sia per evitare che le fasi successive risultino inficiate
dalla presenza di pregressi errori non eliminati, seppure
già individuati.
---------------
5. Con la quinta doglianza (rubricata come sesto motivo) si
contesta la legittimità della procedura di approvazione del
Piano per violazione dei termini di pubblicazione e della
successiva approvazione.
5.1. La doglianza è infondata.
Come sostenuto in precedenti occasioni da questa Sezione, le
disposizioni regionali che regolano il procedimento e la
tempistica di approvazione del P.G.T. devono essere
interpretate in modo da “garantire l’osservanza dei
principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento
della pubblica amministrazione (articoli 3 e 97 della
Costituzione), nonché [devono] assicurare l’esigenza che la
legge regionale si attenga ai principi fondamentali
desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma,
della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo
indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando
unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di
salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (articolo 12
del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal
tenore letterale della previsione normativa, deve
privilegiarsi quella (…) che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo
la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata
valutazione delle osservazioni pervenute” (TAR
Lombardia, Milano, II, 24.04.2015, n. 1032).
5.2. In ogni caso la censura appare infondata anche in
fatto, atteso che la deliberazione di adozione del Piano è
stata adottata il 16.04.2009, ma è divenuta esecutiva il 6
giugno successivo (cfr. all. 3 del Comune), con la
conseguenza che il deposito del 01.09.2009 è avvenuto entro
il novantesimo giorno (all. 4 e 5 del Comune).
Quanto al superamento del termine di novanta giorni per
approvare definitivamente il Piano, decorrente dal termine
di scadenza per la presentazione delle osservazioni
(avvenuto il 30.10.2009), lo stesso risulta giustificato
dalla circostanza che in quel periodo nel Comune di Azzate
si sono svolte le elezioni e quindi si deve far applicazione
del disposto di cui all’art. 13, comma 7-bis, della legge
regionale n. 12 del 2005, che ha incrementato il lasso
temporale da novanta a centocinquanta giorni nei Comuni in
cui si svolgono le elezioni amministrative; pertanto
l’approvazione definitiva avvenuta il 24.03.2010 è
tempestiva (cfr. all. 4, 5, 12 e 13 del Comune).
5.3. Ciò determina il rigetto anche della predetta censura.
6. Con la sesta doglianza (rubricata come settimo motivo) si
contesta l’individuazione dell’autorità competente per la
V.A.S. nell’ambito della stessa Amministrazione comunale
tenuta all’approvazione del P.G.T., in quanto non offrirebbe
alcuna garanzia di indipendenza, imparzialità e terzietà.
6.1. La censura è infondata.
Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza
amministrativa, la normativa in materia di V.A.S. non impone
una rigorosa separazione fra Autorità competente e
procedente, potendo le stesse essere scelte anche fra
articolazioni o organi della stessa amministrazione, anche
in caso di strutture amministrative di piccole dimensione,
come quelle di molti comuni (Consiglio di Stato, IV,
17.09.2012, n. 4926; 12.01.2011, n. 133; TAR Lombardia,
Milano, II, 23.02.2016, n. 374).
6.2. Ciò determina il rigetto anche della predetta censura.
7. Con la settima doglianza (rubricata come ottavo motivo)
si contesta che, nel procedimento di approvazione del P.G.T.,
si sarebbe fatto ricorso illegittimamente alla disciplina
relativa alla correzione degli errori materiali, pur a
fronte dell’introduzione di modifiche vere e proprie,
peraltro realizzabili soltanto a Piano già approvato e non
semplicemente adottato.
7.1. La censura non è meritevole di accoglimento.
L’art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del
2005 stabilisce che i Comuni possono procedere alla
correzione di errori materiali e a rettifiche degli atti di
PGT, non costituenti variante agli stessi; tale disposizione
non sembra applicabile soltanto alla fase successiva
all’approvazione definitiva del Piano, ma pare riferibile a
tutto il procedimento, anche anteriore, riguardo alle fasi
di adozione e approvazione, atteso che la correzione o la
rettifica deve essere tempestivamente effettuata sia per
garantire il buon andamento dell’attività amministrativa,
sia per evitare che le fasi successive risultino inficiate
dalla presenza di pregressi errori non eliminati, seppure
già individuati.
In ogni caso, la censura risulta pure generica, visto che
non sono state indicate puntualmente le parti oggetto di
modifica sostanziale piuttosto che di correzione, né è stato
specificato il rilievo delle supposte modifiche rispetto
alle aree di proprietà dei ricorrenti.
7.2. La censura pertanto va respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.07.2016 n. 1437 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’insegna
di esercizio è il segno distintivo dei locali ove
l’impresa svolge la sua attività; essa assolve alla funzione
di collettore della clientela, consentendo all’impresa
stessa di differenziarsi dalle altre imprese che offrono sul
mercato i medesimi beni o servizi.
Di contro, l’insegna pubblicitaria persegue lo scopo
di rendere noti alla platea dei potenziali consumatori i
prodotti dell’impresa.
---------------
6.1. Il ricorso è infondato.
6.2. Infatti, se è ben vero che – come osservato dalla
difesa di Udinese Calcio S.p.A. nel terzo motivo di ricorso–
la circostanza che le insegne di cui si discute siano già
state installate in assenza della necessaria e preventiva
autorizzazione di per sé solo giustifica esclusivamente
l’adozione di provvedimenti sanzionatori e/o ripristinatori,
è comunque altrettanto vero che entrambe le ulteriori due
ragioni poste a fondamento della decisione del Comune sono
idonee, autonomamente e indipendentemente l’una dall’altra,
a sorreggere il diniego che qui si esamina.
7.1. In particolare, quanto al limite dimensionale –oggetto
di contestazione nel secondo motivo di ricorso– occorre
muovere dal dato normativo e segnatamente dall’articolo 48
D.P.R. n. 495/1992, il in via generale fissa a 6 mq. la
misura massima di cartelli, insegne di esercizio e mezzi
pubblicitari installati fuori dai centri abitati, ad
eccezione, testualmente, «delle insegne di esercizio
poste parallelamente al senso di marcia dei veicoli o in
aderenza ai fabbricati, che possono raggiungere la
superficie di 20 m2; qualora la superficie di ciascuna
facciata dell’edificio ove ha sede l’attività sia superiore
a 100 m2, è possibile incrementare la superficie
dell’insegna di esercizio nella misura del 10% della
superficie di facciata eccedente 100 m2, fino al limite di
50 m2».
7.2.1. Orbene, il criterio ermeneutico letterale porta senza
dubbio a ritenere che i 50 mq. rappresentino il limite
massimo di estensione delle insegne di esercizio al di fuori
dei centri abitati, e non –come pretende parte ricorrente-
il limite massimo dell’incremento.
Se il legislatore avesse voluto aggiungere i 50 mq. alla
misura prima fissata avrebbe utilizzato la dicitura “ulteriori
50 m2”, anziché parlare sic et simpliciter di 50
mq..
7.2.2. In ogni caso, poi, se di limite massimo di aumento si
trattasse, comunque esso dovrebbe applicarsi alla misura
ordinaria, vale a dire i 6 mq., per un totale di 56 mq., di
talché in ogni caso le insegne in discussione sarebbero
fuori misura.
7.2.3. In realtà, la norma si articola in una previsione
generale, che fissa a 6 mq. il limite massimo di estensione,
e in due alternative eccezioni (per loro natura, di stretta
interpretazione), limitate alle sole insegne di esercizio,
che al verificarsi dei presupposti ivi contemplati portano
a, rispettivamente, 20 e 50 mq., l’estensione massima di
detti manufatti.
Anzi, proprio il raffronto con la prima eccezione alla
regola generale, la cui dicitura (“possono raggiungere la
superficie di 20 m2”) non lascia spazio a dubbi di sorta
in ordine al fatto che quella ivi indicata (20 mq.) sia la
misura massima dell’insegna di esercizio, rafforza –per
ragioni di omogeneità– il convincimento che pure la seconda
eccezione contemplata dalla disposizione (quella dei 50 mq.)
fissi la misura massima dell’insegna.
8.1. Il punto dirimente della controversia è, però,
rappresentato dalla qualificazione giuridica delle insegne
che la società Udinese Calcio S.p.A. chiede di essere
autorizzata a installare.
Orbene, al riguardo il Collegio concorda con il Comune in
ordine al fatto che si tratta propriamente di insegne
pubblicitarie e non di esercizio.
8.2. L’insegna di esercizio è il segno distintivo dei
locali ove l’impresa svolge la sua attività (cfr., C.d.S.,
Sez. V, sentenza n. 710/2016; C.d.S., Sez. IV, sentenza n.
5586/2013); essa assolve alla funzione di collettore della
clientela, consentendo all’impresa stessa di differenziarsi
dalle altre imprese che offrono sul mercato i medesimi beni
o servizi.
Di contro, l’insegna pubblicitaria persegue lo scopo
di rendere noti alla platea dei potenziali consumatori i
prodotti dell’impresa
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 15.07.2016 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Silenzio-assenso a 360°.
Ma l'istituto non può essere un alibi per la p.a.. Parere
del Consiglio di stato sulla riforma Madia. Limiti
all'autotutela.
Il
silenzio-assenso si applica
a 360 gradi. Sia nei confronti
di regioni ed enti locali, sia
quando su un provvedimento
debbano pronunciarsi autorità
indipendenti o gestori
di servizi pubblici o ancora
organi politici. Dopo 30 giorni
di inerzia , il silenzio sarà
equiparato al concerto, assenso
o nulla osta da acquisire. E
la p.a. non avrà più potere di
dissentire, impedendo l'adozione
dell'atto attraverso lo
strumento dell'autotutela.
Perché se così fosse il silenzio-assenso
diventerebbe «un atto
di natura meramente provvisoria,
suscettibile di essere
neutralizzato da un ripensamento
unilaterale fino all'adozione
del provvedimento finale».
Tuttavia, il silenzio-assenso non
può essere la regola. Né nei
rapporti tra p.a. e cittadino, né
in quelli tra amministrazioni
chiamate a esprimere il proprio
nulla osta su un provvedimento.
Soprattutto nei rapporti tra
amministrazioni concertanti,
il silenzio-assenso è un rimedio
«patologico» ma necessario
perché «nessuna p.a. può avere
più il potere di bloccare un
procedimento» non esprimendo
la propria posizione su un atto
specifico.
Nell'articolato
parere 13.07.2016 n. 1640
il
Consiglio di Stato si è espresso
sulla portata applicativa della
novità contenuta nella delega
Madia (legge n.124f2015) che
ha introdotto nella legge sul
procedimento amministrativo
(legge n. 241/1990) l'art. 17-bis
sul silenzio-assenso anche nei
rapporti tra pubbliche amministrazioni.
A interpellare palazzo
Spada è stato l'Ufficio legislativo
della Funzione pubblica che
sollevato diversi dubbi interpretativi
in relazione all'ambito di
applicazione dell'istituto, ai rapporti
tra silenzio-assenso e conferenza
dei servizi e all'esercizio
del potere di autotutela.
La commissione speciale,
costituita ad hoc dal Consiglio
di stato per l'esame dei
quesiti, ha riconosciuto che
la regola del silenzio-assenso
trova fondamento nel diritto
europeo, nella Costituzione e
nel principio di trasparenza.
Perché non è ammissibile
paralizzare l'attività della
p.a semplicemente non esprimendo
la propria opinione su
un atto specifico. Tuttavia,
ha ammonito palazzo Spada,
«una pronuncia espressa resta
sempre preferibile: permane
una valenza fortemente negativa
del silenzio-assenso (sia tra
amministrazione e cittadino, sia
tra amministrazioni co-decidenti),
ma esso resta comunque una
soluzione migliore dell'inerzia
totale».
Nel rispondere ai quesiti
del dicastero di Marianna
Madia, il Consiglio di stato ha
esteso l'applicabilità dell'istituto
a una molteplicità di fattispecie
applicative, tutte accumunate
dal fatto di riguardare
atti di natura co-decisoria. La
stessa cosa, tuttavia, non può
dirsi per gli atti che si collocano
in un momento successivo a
quello della decisione, quali per
esempio la bollinatura della Ragioneria
generale dello stato. Il
bollino della Rgs, ha chiarito il Consiglio di stato, «è
infatti un atto con funzione di controllo che si colloca
dopo l 'esaurimento della fase decisoria ed è necessario per
l'integrazione dell'efficacia dei provvedimenti già adottati».
Non sfuggono alla regola del silenzio-assenso nemmeno le
amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili
(beni culturali, salute dei cittadini), a cui si applicano i
termini previsti dalla normativa di settore o , in mancanza,
il termine di 90 giorni (articolo ItaliaOggi del 14.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziamenti disciplinari, i giudici stoppano la
Madia.
La
sentenza 11.07.2016 n. 14103
della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, pubblicata appena
due giorni prima della entrata in vigore del decreto
legislativo 20.06.2016, n. 116 (il 13.07.2016) contenente
modifiche all'art. 55-quater del decreto legislativo n.
165/2001, in materia di licenziamento disciplinare dei
dipendenti pubblici, se sarà recepita alla lettera da altri
giudici o anche dai dirigenti di uffici pubblici cui compete
l'onere di dare inizio ad un procedimento disciplinare,
rischia di vanificare in parte gli obiettivi voluti dal
legislatore che, come è noto, sono quelli di sanzionare, nei
tempi più velocemente possibile, i comportamenti truffaldini
da parte dei pubblici dipendenti, ivi compreso il personale
della scuola.
Una sanzione che, nei casi elencati nell'articolo 55-quater,
nel testo in vigore dopo le modifiche apportate dal decreto
legislativo 116/2016, inizia con la sospensione cautelare e
può terminare con il licenziamento disciplinare.
Il rischio che possano essere, anche se in parte, vanificati
gli obiettivi del legislatore nasce dalle motivazioni con le
quali i giudici della Cassazione hanno respinto un ricorso
presentato da un dipendente pubblico avverso, appunto, il
licenziamento disciplinare.
Ad avviso dei giudici l'irrogazione della massima sanzione
disciplinare ad un dipendente pubblico può essere
giustificata in presenza di un notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali o dalla violazione di una disposizione
di legge ma anche a condizione che tanto l'inadempimento
quanto la violazione siano di tali gravità da non consentire
la prosecuzione del rapporto di lavoro dovendosi considerare
irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia.
Una tesi certamente in linea con la disciplina vigente in
tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato
motivo. Ma è una tesi in linea anche in presenza di alcuni
dei casi (falsa attestazione della presenza in servizio o
assenza dal servizio senza valida giustificazione) ai quali,
per effetto di quanto dispone il decreto legislativo
116/2016, trova comunque applicazione la sanzione
disciplinare del licenziamento?
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2016).
----------------
MASSIMA
4 - Il motivo è fondato nei limiti e per le ragioni di
seguito precisate.
Premette il Collegio che la Corte territoriale ha fondato la
ritenuta legittimità del licenziamento sulla sola disciplina
contrattuale, perché, quanto alla applicabilità della legge
n. 662 del 1996, art. 1, commi 60 e 61, invocata dalla
difesa dell'Azienda appellante, ha ritenuto che la questione
potesse essere superata attraverso il richiamo alla
giurisprudenza di questa Corte che ha affermato la
perdurante vigenza, pur all'esito della contrattualizzazione
del rapporto di pubblico impiego, dell'istituto della
decadenza, previsto e disciplinato dal d.p.r. n. 3 del 1957.
La Corte di Appello ha, poi, sottolineato la natura non
sanzionatoria del provvedimento disciplinato dal richiamato
d.p.r., che, quindi, opera su un piano distinto da quello
della responsabilità disciplinare.
Tenuto conto del percorso motivazionale seguito, deve
ritenersi, anche in considerazione del carattere logicamente
preliminare della questione superata dalla Corte
territoriale, che quest'ultima abbia affermato la
inapplicabilità alla fattispecie dell'art. 1, commi 60 e 61
della legge n. 662 del 1996, dalla quale ha, poi, tratto la
conseguenza della apprezzabilità del comportamento sotto il
profilo disciplinare unicamente alla luce delle disposizioni
dettate dal contratto collettivo. Ne discende che il ricorso
è inammissibile, per difetto di interesse, nella parte in
cui reitera l'argomento della abrogazione per
incompatibilità del richiamato art. 1, commi 60 e 61, posto
che, come già detto, la sentenza ha escluso la applicabilità
della norma in questione e sul punto si è formato giudicato
interno.
4.1 - E' fondata la censura relativa alla violazione
dell'art. 13 del CCNL 19.04.2004 per il personale del
comparto sanità, come modificato ed integrato dall'art. 6
del CCNL 10.04.2008.
Deve anzitutto osservarsi che, qualora le
doglianze svolte riguardino l'interpretazione e
l'applicazione di contratti collettivi nazionali di cui al
d.lgs. n. 165/2001, questa Corte è abilitata alla diretta
lettura dell'intero testo contrattuale, essendo ormai
acquisito nella giurisprudenza di legittimità che nelle
controversie di lavoro concernenti i dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, ove sia proposto ricorso per
Cassazione per violazione e falsa applicazione dei contratti
e degli accordi collettivi nazionali di cui al D.Lgs. n. 165
del 2001, art. 40, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art.
63, comma 5, la Corte di Cassazione può procedere alla
diretta interpretazione di siffatti contratti
(Cass. 14.10.2009 n. 21796).
Ciò premesso osserva il Collegio che l'art. 13 del contratto
collettivo, nel tipizzare le condotte che giustificano il
licenziamento disciplinare con o senza preavviso, non
prevede fra le diverse ipotesi la violazione della
disciplina dettata dall'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 e
attribuisce rilievo alla recidiva solo alle condizioni
previste dal comma 7, lettere a), b), f) e g) nonché dalla
lettera a) del comma 8.
La disciplina contrattuale, inoltre, richiama il principio
della gradualità e proporzionalità delle sanzioni e prevede
che le stesse debbano essere inflitte tenendo conto: della
intenzionalità del comportamento, della rilevanza degli
obblighi violati, delle responsabilità connesse alla
posizione di lavoro occupata dal dipendente, del grado di
pericolo o di danno causato alla azienda o agli utenti del
servizio, della sussistenza di circostanze aggravanti o
attenuanti.
Le parti collettive, in tal modo, hanno inteso recepire il
consolidato orientamento di questa Corte secondo cui "in
tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della
proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in
considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità,
sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro
e di far ritenere che la continuazione del rapporto si
risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali,
dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che
sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il
comportamento del lavoratore che, per le sue concrete
modalità e per il contesto di riferimento, appaia
suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza
dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare
diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio
comportamento ai canoni di buona fede e correttezza"
(cfr., fra le altre, Cass. 22.06.2009 n. 14586; Cass.
26.07.2010 n. 17514; Cass. 13.02.2012 n. 2013; e Cass.
25.06.2015 n. 13158 pronunciata in fattispecie analoga a
quella oggetto di causa).
La gravità dell'inadempimento deve essere
valutata nel rispetto della regola generale della "non
scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché
l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta
giustificata solamente in presenza di un notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non
consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per
essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia,
da valutarsi in concreto in considerazione della realtà
aziendale e delle mansioni svolte.
Non è sufficiente, per ritenere giustificato un
licenziamento, che una disposizione di legge sia stata
violata dal lavoratore o che un obbligo contrattuale non sia
stato dal medesimo adempiuto, occorrendo pur sempre che tali
violazioni siano di una certa rilevanza e presentino i
caratteri in precedenza enunciati.
Nel caso di specie la Corte territoriale ha fondato il
giudizio di gravità dell'inadempimento sulla sola
reiterazione della condotta, di per sé non decisiva in
difetto delle ulteriori condizioni richieste dalla norma
contrattuale, senza considerare che gli incarichi erano
stati svolti nel periodo di aspettativa non retribuita e
senza fare alcun riferimento alle "responsabilità
connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente",
al "grado di danno o di pericolo causato all'azienda o
ente, agli utenti o a terzi", alla "sussistenza di
circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare
riguardo al comportamento del lavoratore", ossia ai
criteri indicati nel contratto ai fini del rispetto del
principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni.
Il ricorso deve pertanto essere accolto, nei termini sopra
indicati, con la conseguente cassazione della impugnata
sentenza e con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il
quale dovrà riesaminare la causa attenendosi al principio
sopra indicato e provvedendo anche sulle spese del giudizio
di legittimità. Resta di conseguenza assorbito il secondo
motivo con il quale è stato censurato il capo della
decisione relativo al regolamento delle spese di lite. |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato
il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non
devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l n. 241 del 1990
e non richiedono apporti partecipativi del soggetto
destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero
fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura
vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica
motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è
in re ipsa.
---------------
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia
dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
---------------
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento,
trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi
all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza
delle opere realizzate e del carattere abusivo delle
medesime.
---------------
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal
contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e
la partecipazione procedimentale degli interessati.
Il privato non può limitarsi a dolersi della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare
quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto
nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.
---------------
Nel merito, con la prima censura è dedotta la violazione
degli artt. 3, 7 e 10 della legge n. 241 del 1990, oltre
all’eccesso di potere (per violazione del giusto
procedimento, omessa ponderazione, perplessità e difetto di
motivazione), per risultare l’impugnata ordinanza di
demolizione non preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento (non ravvisabile nel pur richiamato Verbale di
Sequestro redatto dalla Polizia Municipale di San Giuseppe
Vesuviano), in tal modo precludendosi all’interessato di
allegare deduzioni che, a seguito della loro valutazione,
avrebbero consentito una diversa valutazione del
procedimento.
La censura è infondata.
Al riguardo, giurisprudenza assolutamente prevalente e
condivisa dal Collegio rileva che:
- <<Gli atti sanzionatori
in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia
nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi
dell’art. 7 l n. 241 del 1990 e non richiedono apporti
partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di
demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione
dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve
essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 2.12.2014, n. 6302);
- <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia
dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR
Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383; TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233);
- ed, ancora: <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento,
trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi
all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza
delle opere realizzate e del carattere abusivo delle
medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n.
13335);
- <<L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e
dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e
la partecipazione procedimentale degli interessati>>
(TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425);
- infine il privato non può limitarsi a dolersi della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare
quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto
nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr.
C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 36 del D.L.vo 06.06.2001, n. 380, al comma
3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire
in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata>>.
Secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema
introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio
serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di
conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del
2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e
quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che però possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali,
i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>, con
la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto
tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile
non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto
di rigetto.
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell’art. 36, D.P.R., n. 380 del 2001, non prevede alcun
obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi con un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.
---------------
La circostanza che l’impugnata ordinanza di demolizione sia
stata adottata il 25.08.2014 e notificata alla ricorrente in
data 04.09.2014, ossia prima della presentazione della
istanza di permesso in sanatoria -datata 10.10.2014- ai
sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, secondo
orientamento consolidato di questa Sezione, da cui non v’è
ragione per discostarsi, non influisce sul provvedimento
emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina
l’improduttività di effetti di quest’ultimo; ciò in quanto,
decorso il termine di sessanta giorni, la legge
espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento
di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter
addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda
la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio
(la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino
alla scadenza del termine suddetto).
Sul punto pertinente è il richiamano alle sentenze per le
quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art.
13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti
un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato
dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di
accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un
atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico
dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di
legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito. Da ciò
consegue che la presentazione della domanda di accertamento
di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi,
non paralizza i poteri sanzionatori del Comune, preposto
alla tutela del governo del territorio; la domanda non
determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o
caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire
ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di
temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri
il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia
formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una
volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione
giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione
di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in
nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte
dell'Amministrazione procedente>>.
E’ appena il caso di rilevare che l’ingiunzione di
demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del
manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o
dalla difformità) del titolo abilitativo.
---------------
Con la seconda censura è dedotta la violazione dell’art. 36,
d.P.R. n. 380 del 2001, la violazione dei criteri di
economicità, efficacia e pubblicità dell’azione
amministrativa, la violazione del giusto procedimento, la
violazione del principio di buon andamento e trasparenza
dell’azione amministrativa, oltre all’ingiustizia manifesta,
al riguardo rilevandosi che -come emergerebbe dalla
documentazione offerta in comunicazione- risultando
presentata in data 10.10.2014, da Di Ro. Ro., attuale
ricorrente, presso il Comune di San Giuseppe Vesuviano (NA),
richiesta di accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R.
380/2001 per le opere, presunte abusive ed illegittime,
sanzionate con l’impugnata ordinanza di demolizione, alla
luce di tale richiesta e della prossima determinazione da
parte dell’Ente intimato degli oneri di concessione,
risulterebbe necessaria la sospensione dell’esecuzione del
provvedimento sanzionatorio, previa la necessaria
definizione dei procedimenti attivati per il rilascio delle
concessioni in sanatoria.
Sul punto la giurisprudenza
avrebbe affermato che l’ingiunzione di demolizione di opere
costruite senza concessione edilizia perderebbe efficacia
con la presentazione della domanda di concessione in
sanatoria ai sensi dell’art. 13, L. n. 47/1985, con la
conseguenza che l’Amministrazione avrebbe effettivamente
dovuto reiterare il provvedimento demolitorio a seguito
della presentazione di istanza di sanatoria da parte
dell’interessato.
Ne deriverebbe altresì l’obbligo
dell’Amministrazione di fornire un riscontro esplicito e
motivato riguardo ad ogni istanza proposta dal cittadino,
mentre, nel caso specie, la stessa sarebbe rimasta inerte,
in violazione della L. n. 241/1990, sul procedimento
amministrativo, non fornendo alcun riscontro sull’istanza di
concessione in sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001,
senza tener conto che alla luce del nuovo dettato dell’art.
36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, i ricorrenti potrebbero
sicuramente ottenere il permesso a costruire in sanatoria in
considerazione del fatto che l’intervento risulterebbe
conforme alla disciplina urbanistica vigente, sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda.
Infine, considerato che la
funzione propria dell’accertamento di conformità urbanistica
sarebbe quella di sanare opere -come nella specie- solo
formalmente abusive, ma sostanzialmente conformi alla
disciplina urbanistica applicabile all’area di insistenza, a
fortiori, con l’entrata in vigore del T.U. dell’edilizia si
sarebbe affermato un concetto più ampio di sanatoria
giurisprudenziale o impropria, per il quale basterebbe la
conformità delle opere realizzate alla predetta disciplina,
unicamente con riferimento al momento della definizione
dell’istanza di sanatoria e ciò, evidentemente, per evitare
la demolizione o, comunque, la sanzionabilità di opere che
successivamente potrebbero essere ricostruite nella stessa
forma e consistenza, con ingiustificato danno, oltre che per
il responsabile, per la collettività.
La prospettazione di parte ricorrente non merita
condivisione.
Sul piano disciplinare, l’art. 36 del D.L.vo 06.06.2001,
n. 380, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di
permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende rifiutata>>.
Secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema
introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio
serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di
conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del
2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e
quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che però possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali,
i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>
(TAR Campania, Sez. II, 12.07.2013, n. 3644), con la
conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito,
è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per
difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di
rigetto (Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 08.06.2004, n.
9278).
Pertanto, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente,
l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R.,
n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo
dell’Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento
espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta
istanza come rifiuto della stessa.
Parte ricorrente asserisce che pacifico sarebbe
l’orientamento giurisprudenziale per il quale sarebbe
illegittimo il provvedimento demolitorio di opere edilizie
abusive in pendenza del termine di sessanta giorni per
provvedere in maniera espressa o tacita sulla domanda di
sanatoria antecedentemente presentata, e ciò per evidente
ragione garantistica di tutela della posizione del
richiedente la sanatoria e di salvezza di un bene di valenza
economica che, pur se eventualmente conforme alle previsioni
urbanistico-edilizie, verrebbe distrutto, sussistendo,
pertanto, la necessità della previa conclusione del
procedimento di sanatoria dell’abuso instaurato
dall’interessato; inoltre principio ormai consolidato
sarebbe che le garanzie e gli oneri di vigilanza degli
organi comunali non avrebbero il solo fine di accertare la
mera inosservanza dell’obbligo formale di munirsi
preventivamente del permesso di costruire, ma di considerare
se la costruzione realizzata sine titulo sarebbe
astrattamente assentibile.
Tuttavia, preso atto dell’insussistenza di alcun obbligo
dell’Amministrazione di provvedere con un provvedimento
espresso sull’istanza di accertamento di conformità e della
correlata legittimità del silenzio serbato sulla predetta
istanza, valutato come significativo (nonostante, per
definizione, risulti privo di motivazione), la tesi del
ricorrente non è condivisibile.
Invero la circostanza che l’impugnata ordinanza di
demolizione n. 115/2014 sia stata adottata il 25.08.2014
e notificata alla ricorrente in data 04.09.2014, ossia
prima della presentazione della istanza di permesso in
sanatoria -datata 10.10.2014- ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, secondo orientamento consolidato di
questa Sezione, da cui non v’è ragione per discostarsi, non
influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva
allo stesso) determina l’improduttività di effetti di
quest’ultimo; ciò in quanto, decorso il termine di sessanta
giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione
del provvedimento di rigetto, che è onere della parte
impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione
dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del
provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo
temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine
suddetto).
Sul punto pertinente è il richiamano alle
sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380
del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti
gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio
serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di
accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un
atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico
dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di
legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito. Da ciò
consegue che la presentazione della domanda di accertamento
di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi,
non paralizza i poteri sanzionatori del Comune, preposto
alla tutela del governo del territorio; la domanda non
determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o
caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire
ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di
temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri
il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia
formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una
volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione
giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione
di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in
nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte
dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli, sez. III,
02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli, sez. III, 02/12/2014,
n. 6302.
E’ appena il caso di rilevare che l’ingiunzione di
demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del
manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o
dalla difformità) del titolo abilitativo (cfr. C, di S.,
sez. IV, 26.08.2014, n. 4279).
Vero è piuttosto che, nella fattispecie, l’interessato
risulta avere assolto all’onere, di presentare apposita
istanza di sanatoria, in base all’art. 36 del d.P.R. m. 380
del 2001, ma non risulta che l’istanza di sanatoria sia
stata accolta, né risulta che sia stato tempestivamente e
ritualmente impugnato il diniego, sia pure tacito, mentre
semmai emerge che la creazione di superfici utili e volumi è
ostativa al rilascio della compatibilità paesaggistica ai
sensi dell’art. 167, co. 45, del D.L. vo n. 42 del 2004,
considerato che il Comune di San Giuseppe Vesuviano è
sottoposto al vincolo di cui al D.L. vo 42/2004, nonché
della L.R. n. 21 del 10.12.2003 (zona rossa) non edificabile
in cui non è consentito il rilascio di accertamenti di
conformità urbanistica e compatibilità paesaggistica (cfr.
TAR Campana, sez. IV, 17.02.2003, n. 876)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Infondato è il profilo di censura con cui si
deduce l’incompatibilità dei provvedimenti demolitori ex
artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2010, il primo
riservato ad abusi commessi in aree vincolate, con la
previsione della demolizione diretta, il secondo,
invece in tutti gli altri casi della realizzazione di nuove
opere, in assenza del titolo abilitante, in totale
difformità o con variazioni essenziali, secondo il
meccanismo della diffida a demolire indirizzata al
trasgressore.
Al riguardo rileva condivisa giurisprudenza che ben può il
Comune fare applicazione del disposto normativo di cui agli
artt. 27 e 33, d.P.R. n. 380 del 2001 in quanto tra loro non
incompatibili, poiché dalla mancata inottemperanza
all'ordine di demolizione non discende, in applicazione di
entrambe le norme, l'acquisizione al patrimonio comunale, a
differenza di quanto avviene in ipotesi di ordine di
demolizione adottato ai sensi dell'art. 31, d.P.R. n.
380/2001 riferito ad interventi di nuova costruzione, ma la
demolizione d'ufficio e in danno.
---------------
Con la terza censura è dedotta la violazione degli artt. 27
e 31 del d.P.R. n. 380/2001, oltre all’eccesso di potere
(per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, difetto
di motivazione e contraddittorietà), al riguardo rilevandosi
che:
- il potere di vigilanza, prodromico e strumentale a quello
ripristinatorio-sanzionatorio, trarrebbe fondamento negli
artt. 27 e ss. del vigente d.P.R. 380/2001 (T.U. Edilizia)
che riconoscerebbe alle Amministrazioni comunali un generale
potere di vigilanza e controllo su tutte le attività di
modificazione urbanistico-edilizia dei suoli ed imporrebbe
alle Amministrazioni l’obbligo di adottare provvedimenti
volti al ripristino della legalità violata dall’intervento
edilizio realizzato, mediante l’esercizio di un
potere-dovere del tutto vincolato, diretto a reprimere gli
abusi edilizi accertati; tratterebbesi di una competenza
generale del Comune posta a salvaguardia dell’assetto
urbanistico-edilizio del territorio e quindi per assicurare
la rispondenza dell’attività edilizia alle norme di legge e
di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nel titolo
abilitativo;
- nella specie, il Comune di San Giuseppe Vesuviano con
l’ordinanza impugnata confonderebbe i ben diversi poteri
riconosciuti rispettivamente dall’art. 27 e dall’art. 31 del
T.U. Edilizia, atteso che con la stessa eserciterebbe
arbitrariamente entrambi in relazione alla medesima
fattispecie: il potere di demolizione diretta e d’ufficio
dell’abuso ai sensi dell’art. 27, in zone vincolate, al fine
di impedire che il trascorrere del tempo determini il
consolidarsi di situazioni di compromissione del bene e
l’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 che
riguarderebbe gli interventi in assenza di permesso di
costruire in totale difformità o con variazioni essenziali;
- inoltre l’opera contestata sarebbe destinata ad uso
precario, per fini specifici, come quello rappresentati
dalla necessità di ottenere un ricovero di appoggio e riparo
dalle intemperie per il fabbricato sottostante, per il quale
non sarebbe richiesto un provvedimento di natura concessoria
quale il permesso di costruire, palese, invero risultando il
nesso di pertinenzialità esistente tra il ricovero (la
tettoia) e la struttura principale (abitazione), manufatti
tutti destinati alle oggettive esigenze dell’edificio
principale con inscindibile carattere di funzionalità, tale
tra l’altro, da escludere ogni ulteriore carico urbanistico.
Anzitutto infondato è il primo profilo di censura con cui si
deduce l’incompatibilità dei provvedimenti ex artt. 27 e 31
del d.P.R. n. 380 del 2010, il primo riservato ad abusi
commessi in aree vincolate, con la previsione della
demolizione diretta, il secondo, invece in tutti gli altri
casi della realizzazione di nuove opere, in assenza del
titolo abilitante, in totale difformità o con variazioni
essenziali, secondo il meccanismo della diffida a demolire
indirizzata al trasgressore.
Al riguardo rileva condivisa giurisprudenza che ben può il
Comune fare applicazione del disposto normativo di cui agli
artt. 27 e 33, d.P.R. n. 380 del 2001 in quanto tra loro non
incompatibili, poiché dalla mancata inottemperanza
all'ordine di demolizione non discende, in applicazione di
entrambe le norme, l'acquisizione al patrimonio comunale, a
differenza di quanto avviene in ipotesi di ordine di
demolizione adottato ai sensi dell'art. 31, d.P.R. n. 380/2001
riferito ad interventi di nuova costruzione, ma la
demolizione d'ufficio e in danno (cfr. TAR Campania, sez. VII, 13/07/2015, n. 3677).
Nella fattispecie, allo scopo di rendere più efficiente
l’azione repressiva dell’abuso il Comune ha adottato
l’impugnata ordinanza ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n.
380 citato, senza però precludere, a priori, la possibilità
per il trasgressore di demolire le opere e ripristinare
spontaneamente lo stato dei luoghi demolire prevedendo, ove
una tale evenienza abbia ad avverarsi, le ulteriori
conseguenze sanzionatorie di cui all’art. 31, commi 2 e 3,
in caso di mancata ottemperanza
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non rientra nel concetto di ristrutturazione
edilizia, con esclusione dell'applicabilità dell'art. 9 l.
28.02.1985 n. 47, l'intervento edilizio con cui venga
mutata, a seguito della sopraelevazione del tetto, la
cubatura e la sagoma dell'edificio, giacché la
ristrutturazione comporta, al massimo, la demolizione e la
successiva ricostruzione del fabbricato, purché il nuovo
edificio sia fedele a quello preesistente.
---------------
Costituisce opera eseguita abusivamente come variazione
essenziale e, pertanto, soggiace alla sanzione demolitoria
ex art. 7, l. 28.02.1985 n. 47, la sopraelevazione del tetto
di un preesistente fabbricato in quanto tale vicenda implica
l'aumento della cubatura e la modificazione della sagoma
dell'edificio stesso e, come tale, non è assimilabile alla
ristrutturazione edilizia, che invece presuppone solo la
demolizione e successiva fedele ricostruzione di
quest'ultimo.
Deve pertanto considerarsi opera in totale difformità
l'aumento dell'altezza di un sottotetto tale da determinare
un aumento del numero di piani e la formazione di un
organismo edilizio utilizzabile autonomamente; alla
fattispecie va pertanto applicato non già l'art. 34, bensì
l'art. 31 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
---------------
Con ulteriore profilo di censura parte ricorrente invoca per
l’opera contestata il regime riservato alle pertinenze
contestata sarebbe destinata ad uso precario, per fini
specifici, come quello rappresentati dalla necessità di
ottenere un ricovero di appoggio e riparo dalle intemperie
per il fabbricato sottostante, per il quale non
necessiterebbe permesso di costruire.
Tuttavia, dalla descrizione dell’abuso contenuta
(“Sopraelevazione di una tettoia ad unica falda al secondo
piano con struttura soprastante travi in legno e solaio di
copertura in legno, con altezza media mt. 3,50, già completa
di guaina per impermeabilizzazione e di gronda.
Il tutto su una superficie di mq. 192,00 ca., per una
volumetria complessiva di mc. 672,00 ca.
Alla richiesta del deposito per la realizzazione delle
strutture di c.a., come previsto per legge, l’interessata
rispondeva di non avervi ottemperato”) contenuta nella
relazione tecnica di sopralluogo prot. 24886/14 evincesi
agevolmente che trattasi di un’opera dotata di una propria
autonoma individualità, in alcun modo in grado
oggettivamente di limitarsi ad incrementare la funzionalità
o anche soltanto l’estetica della cosa principale, al punto
da non apportare alcun carico urbanistico; al contrario il
rapporto pertinenziale viene a mancare (o rimane confinato
nelle intenzioni del trasgressore) e non può esonerare dal
rilascio della concessione in presenza di opere che, dal
punto di vista urbanistico ed edilizio, si pongono come
ulteriori, in quanto occupano aree e volumi diversi rispetto
alla “res principalis” (C. di S:, sez. II, 21.02.1996, n.
1895).
In proposito si rileva in giurisprudenza che: <<Non rientra
nel concetto di ristrutturazione edilizia, con esclusione
dell'applicabilità dell'art. 9 l. 28.02.1985 n. 47,
l'intervento edilizio con cui venga mutata, a seguito della
sopraelevazione del tetto, la cubatura e la sagoma
dell'edificio, giacché la ristrutturazione comporta, al
massimo, la demolizione e la successiva ricostruzione del
fabbricato, purché il nuovo edificio sia fedele a quello
preesistente>> (Consiglio di Stato, sez. V, 27/09/1999, n.
1183); ed, ancora: <<Costituisce opera eseguita
abusivamente come variazione essenziale e, pertanto,
soggiace alla sanzione demolitoria ex art. 7, l. 28.02.1985 n. 47, la sopraelevazione del tetto di un preesistente
fabbricato in quanto tale vicenda implica l'aumento della
cubatura e la modificazione della sagoma dell'edificio
stesso e, come tale, non è assimilabile alla
ristrutturazione edilizia, che invece presuppone solo la
demolizione e successiva fedele ricostruzione di
quest'ultimo; deve pertanto considerarsi opera in totale
difformità l'aumento dell'altezza di un sottotetto tale da
determinare un aumento del numero di piani e la formazione
di un organismo edilizio utilizzabile autonomamente; alla
fattispecie va pertanto applicato non già l'art. 34, bensì
l'art. 31 d.P.R. 06.06.2001, n. 380>> (TAR Torino,
(Piemonte), sez. II, 28/04/2016, n. 573).
Nella fattispecie, dalle dimensioni del manufatto
(superficie mq. 192 ca. e volumetria di mc. 672 ca. ed
altezza media di mt. 3,50) evincesi che l’intervento in
questione ha determinato la realizzazione di nuovi volumi
con nuovo carico urbanistico, concretando una trasformazione
del territorio soggetta a permesso di costruire e non a mera
denuncia di inizio di attività
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del
2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su
beni vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo.
Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il
principio dell’affidamento, stante la preminenza
dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della
situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato.
Invero, in presenza di abusi edilizi, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001; tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e
31, del medesimo d.P.R. n. 380, cit. che, in tal caso,
obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a
reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità,
nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380, cit., che
rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato.
---------------
Quanto all’incidenza del decorso del tempo sulla repressione
dell’abuso edilizio, secondo quanto in precedenza statuito
da questa Sezione:
- <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”>> ed una siffatta
impostazione consegue a pacifica giurisprudenza, per la
quale: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione
è atto vincolato il quale non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto>>.
- <<L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività
edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica,
ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto,
l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare>>.
---------------
Con la quarta censura è dedotta la violazione di legge (art.
3, legge n. 241/1990; artt. 36 e 37, d.P.R. 06.06.2001, n.
380), oltre all’eccesso di potere (per carenza di
istruttoria e motivazione), attesa la mancata esplicitazione
dell’iter logico-giuridico (anche soltanto attraverso il
rinvio ad una motivazione per relationem) attraverso cui
l’Amministrazione si sarebbe determinata ad adottare un
certo provvedimento sfavorevole consentendo, così,
all’interessato di tutelarsi nelle opportune sedi; in
particolare sarebbe stata omessa ogni specificazione
relativamente all’accertamento della c.d. doppia conformità
urbanistica.
A ciò aggiungasi che il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia
dell’Amministrazione preposta alla vigilanza avrebbe
ingenerato un ragionevole affidamento nel privato meritevole
di tutela; infine nessuna motivazione sarebbe stata resa
circa la sussistenza dell’interesse pubblico al ripristino
dello stato dei luoghi.
Anche tale censura non ha miglior sorte delle precedenti.
In proposito deve rilevarsi che la norma di cui all’art. 27,
D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla
repressione di abusi su beni vincolati, non appare
contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto
l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e
paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a
distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa
alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la
preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della
permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del
bene tutelato (Cfr. TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
Invero <<In presenza di abusi edilizi, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001; tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e
31, del medesimo d.P.R. n. 380, cit. che, in tal caso,
obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a
reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità,
nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380, cit., che
rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato>> (TAR Latina, (Lazio),
sez. I, 08/06/2015, n. 456).
Quanto all’incidenza del decorso del tempo sulla repressione
dell’abuso edilizio, secondo quanto in precedenza statuito
da questa Sezione:
- <<In tema di attività sanzionatoria
degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e
l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può
confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla
legge, non essendo inoltre richiesta una specifica
motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che
“in re ipsa”>> (TAR Campania, sez. III, 03.02.2015, n.
634) ed una siffatta impostazione consegue a pacifica
giurisprudenza, per la quale: <<In materia di abusi edilizi
l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente che
il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR
Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480;
TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770);
- ed,
ancora: <<L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività
edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica,
ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto,
l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare>>
(C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
In definitiva il ricorso è infondato e deve essere respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pub,
addio dehors smontabile. Niente aumenti di volume se il
locale è in area vincolata. Il Tar Campania e la
giurisprudenza sui limiti agli spazi per i tavolini
all'aperto.
Niente dehors per il pub, anche se il gestore assicura che è
«smontabile». Se il locale si trova in una zona soggetta al
piano territoriale paesaggistico, non è ammesso incremento
di volumi anche quando non è frutto di nuova costruzione,
come nel caso del gazebo che pure ha tende laterali in
plastica trasparenti.
Risulta allora legittimo il «no»
opposto dal Comune al permesso di costruire dopo il parere
negativo della Soprintendenza per i beni architettonici. E
non conta che l'amministrazione abbia invece dato via libera
in zona all'analogo progetto di un concorrente.
È quanto emerge dalla
sentenza
29.06.2016 n. 3286,
pubblicata dalla VI Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il caso e la decisione.
Deve dunque «rassegnarsi» il legale rappresentante della
società: l'esercizio pubblico non può avere il suo gazebo
all'esterno dove far accomodare i clienti (meno di quindici
metri quadrati su suolo del Comune).
E ciò perché ricade
nella suggestiva zona dei Campi Flegrei, a ovest di Napoli:
il piano territoriale che tutela il paesaggio non fa
differenza fra i volumi edilizi e quelli tecnici, ma vieta
ogni aumento delle cubature; l'agognato dehors non può
comunque essere definito una struttura precaria da un punto
di vista edilizio, laddove invece risulta destinato in modo
stabile alle esigenze commerciali del pub: serve ad
assicurare nuovi tavoli al locale.
Non giova poi al gestore lamentare che l'altro ristorante ha
ottenuto il via libera al dehors, peraltro progettato dallo
stesso consulente tecnico: escluso il vizio di eccesso di
potere, conta il ptp che tutela quello «specifico paesaggio»
mentre gli atti che sono espressione di discrezionalità non
risultano censurabili per violazione del canone di
imparzialità.
Autorizzazioni e rapporti con i residenti, cosa dice la
giurisprudenza. È d'estate che lo scontro fra residenti e
locali raggiunge il livello di guardia: pingui incassi per i
gestori, notti in bianco per i condomini. Vediamo com'è
intervenuta la giurisprudenza nei vari casi a dirimere i
conflitti.
Il dehors del ristorante da piazzare sotto il naso del
proprietario del primo piano non può ottenere
l'autorizzazione paesaggistica dal Comune con una procedura
semplificata: è escluso, infatti, che lo spazio esterno del
locale pubblico possa essere considerato un «arredo urbano»
e dunque beneficiare della corsia preferenziale riconosciuta
agli interventi edilizi minori.
Lo ha stabilito la
sentenza
20.01.2016 n. 56, pubblicata dalla I Sez. del TAR Liguria.
È accolto il ricorso del vicino che teme ulteriori fastidi
dai clienti dell'osteria nel centro storico sottoposto al
vincolo della Soprintendenza. Annullato il provvedimento che
concede al dehors dell'esercizio pubblico il placet con
l'iter più breve: lo spazio esterno riservato agli avventori
del locale non rientra in alcune delle categorie indicate
dal dpr 139/2010.
È vero, la nozione di «arredo urbano» non risulta
disciplinata da alcun provvedimento normativo. Ma deve
ritenersi si tratti di strutture che servono a consentire un
miglior uso dei centri abitati, quanto ad accessibilità e
vivibilità; vi rientrano segnaletica, illuminazione,
installazioni pubblicitarie, panchine, cestini: sono tutti
manufatti a destinazione pubblica, mentre il dehors soddisfa
un'esigenza commerciale del ristorante. Il vicino è
portatore di un interesse specifico, mentre la
Soprintendenza non gli ha notificato del procedimento volto
al rilascio dell'autorizzazione ex articolo 21 del decreto
legislativo 42/2004.
Tavolini all'aperto e condominio.
È il condominio il nemico numero uno dei tavolini all'aperto
e il bar può scordarseli se prima di rivolgersi al Comune il
titolare non ha fatto i conti con i residenti. Stop
all'autorizzazione unica concessa al dehors dell'esercizio
pubblico dallo sportello attività produttive dell'ente
locale: la struttura a padiglione, infatti, deve essere
considerata aderente alla facciata dello stabile e dunque
non può essere installata senza il previo nulla osta di
tutti coloro che risultano proprietari del muro perimetrale
ex articolo 1117 Cc.
Lo precisa la
sentenza
04.03.2016 n. 379,
pubblicata dalla II Sez. del TAR Toscana.
Accolto il ricorso di uno dei condomini.
Il progetto del dehors per il bar prevede che la struttura
sia posta a un solo centimetro di distanza alla facciata
dello stabile: non può dunque essere considerata non
aderente al muro perimetrale.
Ed è proprio il regolamento
comunale a imporre il previo nulla osta dei proprietari o
dell'amministratore dell'edificio quando si verifica il
“contatto-aderenza” con la superficie esterna di un
fabbricato: sbaglia l'amministrazione laddove quando le
norme ritenendo necessaria l'autorizzazione preventiva da
parte del condominio soltanto nell'ipotesi in cui i tiranti
della struttura a padiglione devono essere agganciati alla
parete.
E il condomino che ha trascinato davanti ai giudici
amministrativi la società che gestisce il locale pubblico
non ha mai dato il suo consenso all'opera. Fra l'altro il
bar vorrebbe pure installare sedie e tavolini per la
stagione estiva su di un'area senza aver chiesto prima il
permesso ai legittimi proprietari.
Manutenzione straordinaria.
Inutile, poi, tentare di fare i furbi. Non c'è scampo per il
ristorante che trasforma l'originaria tenda parasole in una
struttura in pvc che somiglia sempre più a un dehors non
autorizzato: la sostituzione della struttura preesistente,
installata su pali infissi stabilmente al terreno,
costituisce un intervento di manutenzione straordinaria e
per portarlo a termine serve il titolo edilizio.
Lo precisa
la
sentenza
18.03.2014 n. 2960, pubblicata dalla
Sez. I-quater
del TAR Lazio-Roma.
Ha un bel dire la società che gestisce il locale che
affaccia nel cortile condominiale: le opere in contestazione
non alternerebbero i prospetti, né creerebbero nuovi volumi
perché sono destinate a delimitare e abbellire la corte di
proprietà; la tenda e le protezioni in Pvc, infatti, sono
rimosse per tutto l'inverno e l'area è sempre liberamente
transitabile. In realtà nell'intervento di manutenzione
straordinaria realizzato dal ristoratore la trasformazione
prevale sulla conservazione: serviva il preventivo rilascio
del titolo abilitativo. Non resta che demolire.
Niente gazebo a orari ridotti.
I dehors vanno rimossi anche se il Comune ha già ridotto
l'orario dei locali della movida per non dar troppo fastidio
ai residenti. Il fatto è che l'Arpa ha rilevato un alto
inquinamento acustico in zona e il provvedimento che
autorizza i bar ad allargarsi all'esterno era stato già
bocciato dal quartiere. Ecco allora che l'associazione dei
residenti riesce a far annullare le autorizzazioni:
l'amministrazione non spiega perché le strutture non
rischiano di aggravare gli schiamazzi notturni.
È quanto
emerge dalla
sentenza
09.02.2015 n. 118, pubblicata dalla seconda
sezione del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Non giova
all'amministrazione sostenere che l'occupazione del suolo
pubblico da parte dei locali rientri in un progetto di
riqualificazione urbana: il programma si è arenato e il
garante della partecipazione si è dimesso proprio per
dissensi nella realizzazione del piano. La motivazione è
troppo generica e il Comune paga le spese
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va rimosso l'ascensore che non rispetta le distanze dalle
vedute dell'edificio confinante.
L'ascensore realizzato tra fabbricati adiacenti deve
rispettare le distanze legali delle vedute.
L'ascensore realizzato tra fabbricati
adiacenti deve rispettare le distanze legali delle vedute se
installato all'interno della proprietà individuale.
Niente deroghe alle distanze legali se l'ascensore privato
sorge in un cortile non comune ma di proprietà esclusiva e i
manufatti che circondano il cortile, pur aderenti, non
costituiscono un unico fabbricato. Non si applica la
disciplina speciale prevista dalla normativa anti-barriere
architettoniche.
Questo, in sintesi, quanto deciso dalla II Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza
28.06.2016 n. 13358.
L'ascensore realizzato tra fabbricati adiacenti deve
rispettare le distanze legali delle vedute se installato
all'interno della proprietà individuale, dunque non comune o
condominiale.
Inutile invocare le deroghe alle distanze legali previste
dalla legge n. 13/1989 sulle barriere architettoniche:
l'ascensore va rimosso se sorge in un cortile di proprietà
esclusiva e i manufatti, pur aderenti, non costituiscono un
unico fabbricato.
La Suprema corte ha rigettato il ricorso del proprietario di
un immobile con annesso cortile interno, che aveva
realizzato un ascensore senza rispettare le distanze legali
rispetto alle finestre dell'edificio confinante, di
proprietà diversa, che si affaccia sullo stesso cortile.
Nel caso di specie mancano i presupposti per poter invocare
la disciplina anti-barriere architettoniche. Innanzitutto,
il cortile che ospitava la struttura dell'ascensore non è di
proprietà comune o di uso comune a più fabbricati, ma di
proprietà e uso esclusivo del ricorrente.
Inoltre, i due edifici, anche se aderenti, non fanno parte
di un unico fabbricato e costituiscono due proprietà
distinte.
“Se è vero –osserva la suprema Corte– che il primo comma
dell'articolo 3 della legge 13/1989 (relativo alla deroga
alle distanze previste dai regolamenti edilizi) contempla,
oltre ai cortili "comuni o in uso comune a più fabbricati",
anche i cortili "interni”, indipendentemente dal regime
dominicale di questi ultimi, ciò tuttavia non consente di
pervenire alla cassazione della sentenza gravata, perché
quest'ultima risulta autonomamente sorretta
dall'affermazione che l'obbligo del ricorrente di rispettare
le distanze dai confini e dalle vedute previste dal codice
civile deriva, nella fattispecie, dal disposto del secondo
comma del suddetto articolo”.
Per comprendere il caso in esame, è utile anzitutto
ricordare quanto previsto dall'art. 3 della Legge n.
13/1989. Tale articolo dispone che le innovazione dirette ad
eliminare le barriere architettoniche (tra le quali
l'installazione di ascensori) “possono essere realizzate
in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti
edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai
fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”.
Il secondo comma dispone che “E' fatto salvo l'obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del
codice civile nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare
e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o
alcuna area di proprietà o di uso comune”
Nella vicenda in oggetto di giudizio, Tizia, premesso di
essere proprietaria di un appartamento in un fabbricato che
chiude interamente un cortile interno di proprietà esclusiva
di Caio, e che in tale cortile quest'ultimo aveva realizzato
un ascensore che non rispettava le distanze legali rispetto
alla finestra dell'attrice che sul medesimo si affaccia,
citava Caio per la rimozione dell'ascensore.
Caio contestava la fondatezza della domanda, affermando la
legittimità dell'opera, realizzata a norma di legge n.
13/1989 sul superamento delle barriere architettoniche.
Come anticipato, il Tribunale prima, e la Corte d'appello
poi, hanno accolto la domanda dell'attrice ed escluso la
possibilità di derogare alla disciplina sulle distanze per
eliminare le barriere architettoniche, sulla base di una
duplice ratio decidendi:
1. La deroga di cui al primo comma dell'art. 3 della legge
n. 13/1989 alle distanze previste dai regolamenti locali non
è applicabile alla fattispecie perché il cortile ove è stato
collocato l'ascensore è in proprietà individuale e non in
proprietà comune o condominiale;
2. In ogni caso, l'obbligo di rispettare le distanze dai
confini e dalle vedute previste dal codice civile
deriverebbe, nella fattispecie, dal disposto del secondo
comma del suddetto articolo.
La decisione è stata conformata dalla Corte di Cassazione, a
cui il proprietario dell'ascensore era ricorso per
contestare la sentenza d'appello. Secondo quest'ultimo,
entrambi i punti sopra elencati erano errati.
Quanto alla prima ragione, sarebbe irrilevante che il
cortile sia in proprietà esclusiva, perché il citato art. 3
della L. n. 13/1989 fa rifermento non solo ai “cortili
comuni a più fabbricati” ed ai “cortili in uso comune
a più fabbricati”, ma anche ai “cortili interni”,
indipendentemente dalla circostanza che essi siano in
proprietà comune o condominiale o individuale.
Quanto al secondo punto, nella fattispecie non si
applicherebbe la disposizione di cui al secondo comma del
suddetto art. 3, perché la stessa riguarderebbe la distanza
tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni, mentre
l'ascensore di cui si tratta è collocato all'interno di un
fabbricato condominiale.
La suprema Corte, però, è di avviso contrario. Se è vero che
il primo comma dell'art. 3 della L. n. 13/1989 (relativo
alla deroga alle distanze previste dai regolamenti edilizi)
contempla, oltre ai “cortili i uso comune a più
fabbricati”, anche i cortili “interni”, tuttavia
nel caso di specie l'obbligo di rispettare le distanze
legali dai confini e dalle vedute previste dal codice civile
deriva, nella fattispecie, dal disposto del secondo comma
del suddetto articolo.
Nella sentenza impugnata, infatti, è stato accertato non
solo che non condominiale il cortile in cui è installata la
colonna dell'ascensore, ma anche che non è condominiale,
cioè non appartiene al medesimo fabbricato di cui fa parte
l'unità immobiliare della controparte, la muratura
perimetrale a cui detta colonna si appoggia.
Non ci sono dunque i presupposti per poter applicare la
disciplina anti barriere architettoniche. Di conseguenza
niente deroga alle distanze legali: l'ascensore va rimosso
(tratto da e link a www.condominioweb.com).
---------------
MASSIMA
La Corte d'appello di Firenze territoriale fonda la
propria decisione su una duplice ratio decidendi:
1) la deroga di cui al primo comma dell'articolo 3 della legge n.
13/1989 alle distanze previste dai regolamenti locali non
sarebbe applicabile alla fattispecie perché il cortile ove è
stato collocato l'ascensore è in proprietà individuale e non
in proprietà comune o condominiale;
2) in ogni caso, l'obbligo di rispettare le distanze dai confini e
dalle vedute previste dal codice civile deriverebbe, nella
fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto
articolo.
Il motivo di ricorso attinge entrambe tali ragioni della
decisione.
Quanto alla prima ragione, si afferma l'irrilevanza
della circostanza che il cortile sia in proprietà esclusiva
del Tw.; secondo il ricorrente, il disposto dell'articolo 3
della legge n. 13/1989 dovrebbe, nella specie, trovare
applicazione, perché detto articolo fa riferimento non solo
ai "cortili comuni a più fabbricati" ed ai "cortili
in uso comune a più fabbricati", ma anche ai "cortili
interni", indipendentemente dalla circostanza che essi
siano in proprietà comune o condominiale o individuale.
Quanto alla seconda ragione, il ricorrente afferma
che nella specie non si applicherebbe la disposizione di cui
al secondo comma del suddetto articolo 3, perché la stessa
riguarderebbe la distanza tra le opere da realizzare e i
fabbricati alieni, mentre l'ascensore di cui si tratta è
collocato all'interno di un fabbricato condominiale.
Il motivo non può trovare accoglimento
perché, se è vero che il primo comma dell'articolo 3 l.
13/1989 (relativo alla deroga alle distanze previste dai
regolamenti edilizi) contempla, oltre ai cortili "comuni
o in uso comune a più fabbricati'', anche i cortili "interni',
indipendentemente dal regime dominicale di questi ultimi,
ciò tuttavia non consente di pervenire alla cassazione della
sentenza gravata, perché quest'ultima risulta autonomamente
sorretta dall'affermazione che l'obbligo del Tw. di
rispettare le distanze dai confini e dalle vedute previste
dal codice civile deriva, nella fattispecie, dal disposto
del secondo comma del suddetto articolo.
Quest'ultima affermazione non è stata validamente attinta
dalla seconda censura sviluppata dal ricorrente; tale
censura, infatti, va giudicata inammissibile, in quanto si
fonda su un presupposto di fatto (che l'unità immobiliare
del convenuto faccia parte del medesimo fabbricato
condominiale di cui fa parte l'unità immobiliare
dell'attrice) che non risulta dalla sentenza gravata.
In tale sentenza, al contrario, si sottolinea, con un
giudizio di fatto non specificamente censurato con il mezzo
di cui all'articolo 360 n. 5 c.p.c., come "la costruzione
dell'ascensore non coinvolgesse una proprietà comune alla
Ma.", in tal modo affermandosi non solo che non è
condominiale il cortile in cui è installata la colonna
dell'ascensore, ma anche (in conformità a quanto emerge
dallo stralcio della CTU trascritto a pag. 2 del
controricorso, ove si riferisce che si tratta di fabbricati
distinti) che non è condominiale -vale a dire, non
appartiene al medesimo fabbricato di cui fa parte l'unità
immobiliare della Mannini- la muratura perimetrale a cui
detta colonna si appoggia.
Il ricorso va quindi in definitiva rigettato. |
EDILIZIA PRIVATA: La
legittimazione ad avviare il procedimento di rilascio del
titolo edilizio in sanatoria va riconosciuta non solo al
responsabile dell’abuso e al proprietario dell’immobile, ma
anche al soggetto che provi di averne la disponibilità
materiale e giuridica in forza di titolo idoneo.
In particolare, è stato affermato che “In materia di
sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 D.P.R. n. 380
del 2001) ammette la proposizione dell’istanza da parte non
solo del proprietario, ma anche del “responsabile
dell’abuso”, tale dovendo intendersi lo stesso esecutore
materiale, ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al
momento dell’emissione della misura repressiva. La
relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a
richiedere la sanatoria, rispetto al preventivo permesso di
costruire, trova d’altra parte giustificazione nella
possibilità di accordare al predetto responsabile –ove
coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive–
di evitare le conseguenze penali dell’illecito commesso,
ferma restando la salvezza dei diritti di terzi".
In sostanza, la legittimazione a presentare la domanda di
sanatoria può essere riconosciuta anche al responsabile
dell’abuso che non sia proprietario del bene, a condizione
che questi provi la disponibilità materiale e giuridica del
bene, al momento dell’emissione della misura repressiva.
---------------
3. Con una prima censura, i ricorrenti hanno contestato il
primo capo di motivazione del provvedimento impugnato,
concernente l’asserita carenza di legittimazione in capo al
signor Ga.Os. a presentare la domanda di sanatoria;
secondo i ricorrenti, il signor Ga. aveva titolo per
presentare l’istanza alla luce di quanto previsto dagli
artt. 11 e 36 del D.P.R. n. 380/2001 (come interpretati
dalla giurisprudenza), dal momento che egli, già da diverso
tempo prima dell’istanza, utilizzava la porzione di
fabbricato in questione in forza di un contratto di comodato
stipulato con essi proprietari; in ogni caso, i ricorrenti
hanno evidenziato di aver controfirmato essi stessi
l’istanza di sanatoria e i relativi allegati, con ciò
esprimendo adesione alla domanda.
Il collegio osserva che la censura non può essere condivisa.
3.1. L’art. 36, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 prevede che
“In caso di interventi realizzati in assenza del permesso di
costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di
segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di
cui all’art. 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla
scadenza dei termini di cui agli artt. 31 comma 3, 33 comma
1, 34 comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle
sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o
l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il
permesso di costruire in sanatoria se l’intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda”.
3.2. Sulla scorta di tale disposizione, la giurisprudenza
amministrativa ha da tempo chiarito che la legittimazione ad
avviare il procedimento di rilascio del titolo edilizio in
sanatoria va riconosciuta non solo al responsabile
dell’abuso e al proprietario dell’immobile, ma anche al
soggetto che provi di averne la disponibilità materiale e
giuridica in forza di titolo idoneo.
In particolare, è stato
affermato che “In materia di sanatoria la normativa di
riferimento (art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001) ammette la
proposizione dell’istanza da parte non solo del
proprietario, ma anche del “responsabile dell’abuso”, tale
dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale, ovvero chi
abbia la disponibilità del bene, al momento dell’emissione
della misura repressiva. La relativamente maggiore ampiezza
della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al
preventivo permesso di costruire, trova d’altra parte
giustificazione nella possibilità di accordare al predetto
responsabile –ove coincidente con l’esecutore materiale
delle opere abusive– di evitare le conseguenze penali
dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei
diritti di terzi" (Cons. Stato, sez. IV, 26.01.2015, n.
316).
In sostanza, la legittimazione a presentare la domanda di
sanatoria può essere riconosciuta anche al responsabile
dell’abuso che non sia proprietario del bene, a condizione
che questi provi la disponibilità materiale e giuridica del
bene, al momento dell’emissione della misura repressiva.
3.3. Nel caso di specie, è pacifico che gli abusi edilizi
sono stati posti in essere, esclusivamente, dai ricorrenti
signori Do.Gi. e Va.Pa., proprietari
del fabbricato ed ivi residenti, e in quanto tali esclusivi
destinatari delle due ordinanze di demolizione del 19.05.2010 e del 29.05.2012. Alla data di adozione delle due
ordinanze di demolizione, il signor Ga.Os. non aveva
la disponibilità di alcuna porzione del fabbricato in
questione, dal momento che il presunto contratto di comodato
d’uso gratuito è stato stipulato -secondo la prospettazione
degli stessi ricorrenti– soltanto successivamente, il primo
settembre 2012.
Peraltro, come si evince dalla motivazione
del provvedimento impugnato, il contratto di comodato è
stato registrato -e quindi ha data certa, ai sensi
dell’art. 2704 cod. civ.- soltanto in data 29.01.2013,
vale a dire in data successiva alla presentazione della
domanda di sanatoria, avvenuta il 10.12.2012. Dal che
si evince che non sussiste, e comunque non è provata, la
sussistenza in capo al presentatore della domanda di
sanatoria del requisito della disponibilità materiale e
giuridica del bene alla data di emissione della misura
repressiva (e, nel caso di specie, neppure alla data di
presentazione della domanda di sanatoria).
3.4. In tale contesto, appaiono del tutto ragionevoli le
ulteriori considerazioni svolte dall’amministrazione
comunale nella motivazione del provvedimento impugnato in
ordine al carattere strumentale del rapporto di comodato
gratuito dedotto dai ricorrenti, evidentemente escogitato al
solo fine di poter far valere in seno al procedimento di
sanatoria la qualità di imprenditore agricolo del proprio
genero, con la conseguente facoltà riconosciuta
all’imprenditore agricolo dalle norme di attuazione dello
strumento urbanistico (artt. 34 e 35 NTA del PRGC) di
edificare abitazioni rurali in aree agricole oltre i limiti
indicati dall’art. 55 delle stesse NTA.
3.5. A nulla rileva che i ricorrenti abbiano controfirmato
la domanda di sanatoria e i relativi allegati, dal momento
che, laddove la domanda di sanatoria dovesse ritenersi
presentata in proprio dai ricorrenti, e non dal genero
(privo di legittimazione), essa non avrebbe ugualmente
alcuna possibilità di successo, essendo stata presentata da
soggetti privi della qualifica di imprenditori agricoli, e
come tali assoggettati al rispetto dei limiti alla
edificazione di fabbricati residenziali in aree agricole di
cui all’art. 55 NTA, pacificamente superati nel caso di
specie.
Alla luce di tali considerazioni, la censura in esame va
quindi disattesa
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.04.2016 n. 548 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ha
predisposto una disciplina puntuale ed esaustiva della
sanatoria in materia edilizia, tale da non ammettere spazi
residui che consentano di affermare, in via interpretativa,
la sopravvivenza della cosiddetta “sanatoria
giurisprudenziale”: deve, pertanto, riaffermarsi che la
sanatoria di un'opera non conforme allo strumento
urbanistico vigente al momento della sua esecuzione
rappresenterebbe una forzatura inaccettabile della
disciplina in materia, nonché dei principi generali
dell'ordinamento in tema di sanatoria di attività illecite
in generale.
---------------
4. Con una seconda censura, i ricorrenti hanno contestato la
necessità del requisito della c.d. “doppia conformità”
preteso dall’Amministrazione, richiamando i principi
affermati dalla giurisprudenza amministrativa in ordine alla
necessità, ai fini della sanatoria, che le opere siano
conformi anche soltanto alla normativa urbanistico-edilizia
vigente alla data in cui l’Amministrazione provvede sulla
domanda (c.d. sanatoria giurisprudenziale); nel caso di
specie, hanno osservato i ricorrenti, alla data della
domanda di sanatoria sussistevano i requisiti per ottenere
la sanatoria, dal momento che il signor Ga.,
comodatario del fabbricato e presentatore dell’istanza, è
imprenditore agricolo e svolge in via esclusiva l’attività
agricola, quindi possiede i requisiti soggettivi per
realizzare/conservare abitazioni rurali in aree agricole.
Il collegio osserva che anche tale censura non può essere
condivisa.
4.1. L’Amministrazione ha ritenuto che nel caso di specie
non sussista il requisito della doppia conformità preteso
dall’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 dal momento che, a tal
fine, sarebbe stato necessario che l’abuso fosse stato
commesso sin dall’origine da un soggetto avente la qualifica
di imprenditore agricolo, mentre invece è pacifico che nel
caso di specie l’abuso è stato realizzato dai ricorrenti,
ossia da soggetti privi di tale qualifica.
I ricorrenti, dal canto loro, contestano la necessità della
“doppia conformità”, richiamando i principi di derivazione pretoria in materia di c.d. sanatoria giurisprudenziale,
secondo cui l’abuso è sanabile purché conforme alla
normativa urbanistico edilizia vigente alla data della
domanda di sanatoria.
4.2. Al riguardo, va dato atto dell’esistenza di
orientamenti giurisprudenziali non univoci sulla questione
dell’ammissibilità o meno della c.d. "sanatoria
giurisprudenziale" dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, il cui art. 36 ha testualmente previsto
che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria possa
essere ottenuto “se l’intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”:
- secondo un indirizzo più risalente nel tempo e decisamente
minoritario, “In sede di accertamento di doppia conformità
di immobili non conformi alle norme urbanistico-edilizie
vigenti al momento della costruzione, ma conformi a quelle
vigenti al momento della presentazione dell'istanza, può
ritenersi applicabile (ai fini di una valutazione della
domanda in termini di fondatezza) la cosiddetta sanatoria
giurisprudenziale; tale istituto, pur non comportando
l'estinzione del reato eventualmente consumato, né il venir
meno dell'obbligo di pagare la relativa sanzione, risponde
ad una chiara esigenza di economicità e di buon andamento
dell'azione amministrativa, giudicandosi illogico demolire
manufatti non più in contrasto con la disciplina edilizia,
per poi doverne eventualmente assentire la ricostruzione
nella stessa forma e consistenza" (TAR Cagliari, sez. II,
17.03.2010 n. 314; TAR Lecce, sez. III, 02.09.2010 n. 1887; TAR Pescara, 11.05.2007, n. 534);
- secondo invece l’orientamento di gran lunga prevalente
nella giurisprudenza amministrativa, l’istituto della
sanatoria c.d. giurisprudenziale non è più ammissibile dopo
l’entrata in vigore del Testo Unico dell’Edilizia, alla luce
dell’inequivoca formulazione letterale dell’art. 36 del
D.P.R. n. 380 del 2001.
E’ stato infatti osservato che
“L'art. 36 t.u. dell'edilizia non ha recepito, nonostante
l'auspicio in tal senso espresso nel parere del 29.03.2001 della Adunanza generale del Consiglio di Stato,
l'orientamento giurisprudenziale affermatosi nel vigore
dell'art. 13 l. 28.02.1985 n. 47, il quale consentiva
il rilascio della concessione in sanatoria per gli
interventi edilizi che fossero conformi alla sola
pianificazione in vigore al momento della domanda di
sanatoria (c.d. “sanatoria giurisprudenziale”); ne consegue
che il permesso di costruire in sanatoria, in quanto
provvedimento tipico oggetto di una disciplina puntuale ed
esaustiva nell'art. 36 t.u. dell'edilizia, è insuscettibile
di ampliamento in via interpretativa, ed il suo rilascio
postula la conformità dell'intervento alla disciplina
urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione
sia a quella in vigore alla data della presentazione della
domanda" (Consiglio di Stato, sez. IV, 26.04.2006 n.
2306);
- più di recente è stato condivisibilmente affermato da
TAR Venezia sez. I 20.11.2015 n. 1239 che “La
cosiddetta sanatoria giurisprudenziale elude il principio di
legalità, perché svuota la portata precettiva e vincolante
della disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento
della commissione degli illeciti, viola la tipicità
provvedimentale, ancorata dall'articolo 36 del d.P.R. n. 380
del 2001 alle sole violazioni di ordine formale, così
neutralizzando la deterrenza sanzionatoria nei confronti
degli autori degli illeciti edilizi”;
- nello stesso senso, di recente, TAR Napoli, sez. VIII,
08.10.2015 n. 4717; TAR Perugia, sez. I, 03.12.2014 n. 590; TAR Aosta 11.03.2014 n. 13; TAR
Firenze, sez. III, 27.03.2013, n. 497; e così anche
Cassazione penale sez. III 21.10.2014 n. 47402;
- questo stesso Tribunale, sin dalla pronuncia della Prima
Sezione del 20.04.2005 n. 1094, ha avuto modo di
affermare principi in linea con la giurisprudenza oggi
prevalente; la Sezione ha infatti affermato che l’art. 36
del D.P.R. n. 380 del 2001 ha predisposto una disciplina
puntuale ed esaustiva della sanatoria in materia edilizia,
tale da non ammettere spazi residui che consentano di
affermare, in via interpretativa, la sopravvivenza della
cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”: deve, pertanto,
riaffermarsi che la sanatoria di un'opera non conforme allo
strumento urbanistico vigente al momento della sua
esecuzione rappresenterebbe una forzatura inaccettabile
della disciplina in materia, nonché dei principi generali
dell'ordinamento in tema di sanatoria di attività illecite
in generale.
4.3. Sulla scorta di tali principi, da cui la Sezione non ha
motivo per discostarsi, la censura di parte ricorrente va
conclusivamente disattesa, essendo pacifico che nel caso di
specie l’intervento non era conforme alla normativa
urbanistico-edilizia vigente alla data della sua
realizzazione, essendo stato posto in essere da soggetti
privi della qualifica di imprenditori agricoli, unici
soggetti a cui le norme tecniche di attuazione dello
strumento urbanistico comunale consentono di realizzare
fabbricati residenziali in aree agricole oltre i limiti di
volumetria e di superficie abitabile previsti dall’art. 55
N.T.A.
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.04.2016 n. 548 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha qualificato “in senso rigorosamente
restrittivo la nozione di insegna di esercizio,
circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le
modalità prescritte dall'art. 47, comma i, del D.P.R. n. 495
del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si
esercita l'attività di impresa", mentre nella fattispecie in
esame l’attività della società appellante si svolgeva a
chilometri di distanza dal cartello di cui si discute e
quindi si trattava di un’installazione a meri fini
pubblicitari e non certo per segnalare un’attività in loco.
---------------
6.- L’appello è infondato.
Il collegio ritiene opportuna la trattazione delle censure
dedotte in appello, esaminando prioritariamente la memoria
di replica presentata dalla società appellante in data
18.09.2015, in cui si ribadisce l’asserito possesso di un
provvedimento autorizzatorio per l’installazione del
cartello pubblicitario in esame, qualificato quale “insegna”
da parte appellante.
In realtà da tale memoria si evince la mancanza di
autorizzazione al momento dell’emanazione del provvedimento
impugnato, in quanto la società appellante, dopo una prima
autorizzazione per sei anni da parte dell’Intendenza di
finanza del 1989 ed un rinnovo per altri sei anni da parte
dell’Ufficio del territorio di Reggio Emilia con scadenza al
30.06.2001, non comprova di aver presentato alcuna richiesta
di autorizzazione per il periodo successivo e quindi, al
momento dell’adozione del primo provvedimento di rimozione
in data 10 maggio 2003, impugnato con il ricorso di primo
grado, non era comunque più titolare di alcuna
autorizzazione.
In effetti l’obbligatorietà di tale autorizzazione era
sancita nel precedente codice della strada (D.P.R. n.
393/1959) il cui art. 11, terzo comma, prevedeva che “fuori
dei centri abitati … il collocamento di cartelli, di altri
mezzi pubblicitari lungo le strade o in vista di esso è
soggetto ad autorizzazione da parte dell’ente proprietario
della strada” e tale divieto è stato ribadito dall’art.
23, quarto comma del nuovo codice della strada ex D.P.R. n.
285/1992, che dispone, per la collocazione di cartelli lungo
le strade o in vista di esse, l’obbligo di acquisire
l’autorizzazione dell’ente proprietario della strada.
Pertanto, poiché il cartellone pubblicitario era privo di
autorizzazione, la ricorrente non era titolare di alcuna
posizione tutelata allorché è sopravvenuta la disciplina
vincolistica, così come obietta l’Amministrazione appellata.
Con la conseguenza che, nel caso in esame, non si pone alcun
problema di retroattività della disciplina contenuta nel
Piano territoriale.
Parte appellante deduce che la provincia sarebbe stata
incompetente, trattandosi della tutela di interessi propri
del comune e non della provincia.
Anche tale profilo di censura va disatteso in quanto l’art.
23 del Codice della strada attribuisce la competenza
all’ente proprietario della strada che, nel caso, è la
Provincia.
Né ha pregio l’ulteriore profilo di censura, con cui
l’appellante deduce che non si tratterebbe di un cartello
pubblicitario ma di un’insegna di esercizio.
Al riguardo la giurisprudenza (Cons. St. Sez. IV, n.
5586/2013) ha qualificato “in senso rigorosamente
restrittivo la nozione di insegna di esercizio,
circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le
modalità prescritte dall'art. 47, comma i, del D.P.R. n. 495
del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si
esercita l'attività di impresa", mentre nella
fattispecie in esame l’attività della società appellante si
svolgeva a chilometri di distanza dal cartello di cui si
discute e quindi si trattava di un’installazione a meri fini
pubblicitari e non certo per segnalare un’attività in loco.
Vanno infine rigettate anche le dedotte censure di
violazione degli artt. 48, comma primo, e 51, comma secondo,
del regolamento di attuazione del codice della strada, in
quanto, come si evince dalla relazione della Provincia del
16.10.2003 corredata da riprese fotografiche di un rilievo
planimetrico generale, non contestata ex adverso, il
cartello pubblicitario ha una superficie maggiore di 6 m² in
violazione del suddetto art. 48 ed è collocato a distanza
inferiore a metri tre dal limite della carreggiata ed in
corrispondenza di una intersezione stradale in palese
violazione del suddetto art. 51
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.02.2016 n. 710 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
23 del D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della Strada"), al
comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma di
pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane
principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata nell’intento
di introdurre un divieto all’installazione lungo le strade,
o in vista di esse, di impianti pubblicitari che possano
confondersi con la segnaletica stradale, o arrecare disturbo
visivo a chi circola su di esse, con conseguente pericolo
per la sicurezza della circolazione.
Va, altresì, rilevato come l'articolo 47, primo comma, del
D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di
attuazione del nuovo codice della strada) qualifica l’insegna
d'esercizio, quale "scritta in caratteri alfanumerici,
completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata
e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata
nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle
pertinenze accessorie alla stessa".
Ne consegue che sebbene nessuna delle disposizioni sopra
riportate preveda che l’insegna di un esercizio
commerciale debba essere unica, è parimenti evidente che
quest’ultima, per poter essere qualificata come tale, impone
che sia strettamente contigua all’esercizio commerciale cui
inerisce e sia, nel contempo, funzionale e diretta a
identificare l’ubicazione della sede della stessa impresa.
Anche recenti pronunce hanno avuto modo di precisare che la
nozione di insegna di esercizio deve essere intesa in
senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei
soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall'
art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve
esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita
l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito che un'insegna d'esercizio
visibile dall’autostrada è consentita solo ove non presenti
alcun contenuto riconducibile a finalità pubblicitarie.
---------------
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sul punto è dirimente constatare che l'art. 23 del
D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della Strada"), al
comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma di
pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane
principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata
nell’intento di introdurre un divieto all’installazione
lungo le strade, o in vista di esse, di impianti
pubblicitari che possano confondersi con la segnaletica
stradale, o arrecare disturbo visivo a chi circola su di
esse, con conseguente pericolo per la sicurezza della
circolazione.
1.2 Va, altresì, rilevato come l'articolo 47, primo comma,
del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e
di attuazione del nuovo codice della strada) qualifica l’insegna
d'esercizio, quale "scritta in caratteri
alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da
marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi
natura, installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
1.3 Ne consegue che sebbene nessuna delle disposizioni sopra
riportate preveda che l’insegna di un esercizio
commerciale debba essere unica, è parimenti evidente che
quest’ultima, per poter essere qualificata come tale, impone
che sia strettamente contigua all’esercizio commerciale cui
inerisce e sia, nel contempo, funzionale e diretta a
identificare l’ubicazione della sede della stessa impresa.
1.4 Anche recenti pronunce (Cons. Stato Sez. IV, 25.11.2013,
n. 5586) hanno avuto modo di precisare che la nozione di
insegna di esercizio deve essere intesa in senso
rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi
in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall' art. 47,
comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a
segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito (Cons. Stato Sez. IV, 27.04.2012, n.
2480) che un'insegna d'esercizio visibile
dall’autostrada è consentita solo ove non presenti alcun
contenuto riconducibile a finalità pubblicitarie.
1.5 E’ allora evidente che verificare se una determinata
insegna integri il divieto di pubblicità di cui all’art. 23
sopra citato impone un esame in concreto sulle
caratteristiche della singola insegna e, ciò, al fine di
individuare quale sia la funzione che si intenda perseguire
con l’installazione del singolo manufatto e, quindi, se
quest’ultima vada ricondotta (o meno) ad un intento
meramente pubblicitario.
1.6 Nel caso di specie è dirimente constatare come sia stata
la stessa parte ricorrente a rilevare che l’insegna in
questione è collocata sulla facciata dell'esercizio, rivolta
verso la strada, senza che sulla stessa facciata sia
presente un’entrata dell’esercizio.
1.7 E’ allora evidente che, seppur l’insegna in questione
abbia le caratteristiche proprie di un’insegna di esercizio,
ai sensi dell’art. 47 del DPR 16.12.1992 n. 495, la sua
installazione è stata posta in essere per realizzare un
intento pubblicitario, diretto nei confronti degli
utilizzatori della strada prospiciente.
Dette conclusioni sono confermate dal fatto che l’insegna in
questione, non solo duplica l’insegna di esercizio già
esistente, ma in quanto posizionata su un lato in cui non vi
è l’entrata dell’impresa, non aggiunge alcuna informazione
ulteriore circa l’identificazione della stessa impresa che,
in quanto tale, è già resa dall'altra insegna d'esercizio.
1.8 Ne consegue che risulta integrato il divieto di
installazione di strumenti pubblicitari in prossimità delle
strade, circostanza che consente di ritenere infondate le
argomentazioni di parte ricorrente.
In definitiva il ricorso è, pertanto, infondato e va
respinto
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 09.12.2015 n. 1315 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di insegna di esercizio va, invero, intesa in
senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei
soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte
dall'art. 47, comma 1, del d.P.R. nr. 495 del 1992- serve
esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita
l'attività di impresa.
---------------
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento è adeguatamente motivato con il richiamo
all’assenza delle caratteristiche previste dall’art. 47, c.
1, d.P.R. n. 495/1992 per le insegne di esercizio.
Ai sensi di questa previsione costituisce “insegna di
esercizio” “la scritta in caratteri alfanumerici,
completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata
e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata
nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle
pertinenze accessorie alla stessa […]”.
Nel caso di specie, la documentazione depositata in giudizio
dalla difesa dell’amministrazione provinciale palesa,
invece, l’assenza di correlazione tra i messaggi
pubblicitari riprodotti sugli impianti e l’attività in
questione.
Non può, al riguardo, ritenersi sufficiente -come, invece,
sostiene la ricorrente- che i messaggi pubblicizzino “società
che espongono o sponsorizzano manifestazioni della Fiera di
Melzo”: la nozione di insegna di esercizio va,
invero, intesa in senso rigorosamente restrittivo,
circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le
modalità prescritte dall'art. 47, comma 1, del d.P.R. nr.
495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove
si esercita l'attività di impresa (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
27.04.2012, nr. 2480; 25.11.2013, n. 5586).
È, poi, incontestato, che un pannello riporti il messaggio “spazio
libero”, in contrasto con quanto previsto dall’art. 10
del regolamento approvato con deliberazione del Consiglio
Provinciale n. 21/2003.
Legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha ritenuto che
gli impianti in questione non siano qualificabili insegne di
esercizio, trattandosi di veri e propri impianti
pubblicitari.
È, poi, sufficientemente chiara anche l’ulteriore ragione di
diniego, legata al mancato rispetto dei limiti dimensionali
previsti all’art. 48, c. 1, d.P.R. n. 495/1992.
Ai sensi di questa previsione “i cartelli, le insegne di
esercizio e gli altri mezzi pubblicitari previsti dall'
articolo 23 del codice e definiti nell'articolo 47, se
installati fuori dai centri abitati non devono superare la
superficie di 6 mq, ad eccezione delle insegne di esercizio
poste parallelamente al senso di marcia dei veicoli o in
aderenza ai fabbricati, che possono raggiungere la
superficie di 20 mq; qualora la superficie di ciascuna
facciata dell'edificio ove ha sede l'attività sia superiore
a 100 mq, è possibile incrementare la superficie
dell'insegna di esercizio nella misura del 10% della
superficie di facciata eccedente 100 mq, fino al limite di
50 mq”.
Nel caso di specie, trova applicazione il limite
dimensionale di 6 mq., e non quello di 20 mq in quanto i
mezzi pubblicitari, oltre a non potersi qualificare insegne
di esercizio, non sono neppure posizionati parallelamente al
senso di marcia dei veicoli ma perpendicolarmente all’asse
stradale (doc. n. 17 della provincia).
I mezzi pubblicitari in questione, avendo una dimensione di
18 mq ciascuno, e dunque una dimensione complessiva pari a
36 mq, non rispettano i limiti previsti dalla norma.
Né possono valere le contestazioni formulate dalla
ricorrente con la memoria depositata in data 10.04.2015
circa l’ubicazione degli impianti nel centro abitato e
dunque l’applicabilità, nel caso di specie, della previsione
di cui al comma 2 anziché del comma 1 dell’art. 48, d.P.R.
n. 495/1992: si tratta invero di un motivo nuovo,
inammissibile in quanto formulato con memoria non
notificata.
Nel processo amministrativo sono, invero, inammissibili le
censure dedotte in memoria non notificata alla controparte
sia nell'ipotesi in cui risultino completamente nuove e non
ricollegabili ad argomentazioni espresse nel ricorso
introduttivo sia quando, pur richiamandosi ad un motivo già
ritualmente dedotto, introducano elementi sostanzialmente
nuovi, ovvero in origine non indicati, con conseguente
violazione del termine decadenziale e del principio del
contraddittorio, essendo affidato alla memoria difensiva il
solo compito di una mera illustrazione esplicativa dei
precedenti motivi di gravame senza possibilità di ampliare
il "thema decidendum" (Consiglio di Stato, sez. III,
17.05.2012, n. 2878).
A fronte di un potere vincolato, qual è quello esercitato
dall’amministrazione nel caso di specie non è, infine,
configurabile il vizio di eccesso di potere, per
contraddittorietà con precedenti provvedimenti di
autorizzazione degli impianti in questione, né una posizione
di legittimo affidamento al rinnovo delle autorizzazioni
rilasciate in contrasto con le disposizioni sopra
richiamate.
La legittimità di queste ragioni di diniego sulle quali si
fonda l’atto impugnato è sufficiente giustificazione dello
stesso, sicché è irrilevante l’esame della censura addotta
avverso la contestazione della mancata allegazione della
convenzione sottoscritta con il Comune di Melzo.
Per le ragioni esposte, il ricorso è infondato e va pertanto
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.11.2015 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
inizio
home-page |
|