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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di AGOSTO 2016

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aggiornamento al 24.08.2016

aggiornamento al 13.08.2016

aggiornamento all'08.08.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 24.08.2016

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Immobili pubblici:
"bene culturale" dopo 50 anni o dopo 70 anni?

     Nello scorso mese di luglio, dal noto sito "Bosetti Gatti & partners", si è (comprensibilmente) posto all'attenzione degli addetti ai lavori il cogente interrogativo (si legga qui) sortito a seguito della portata di cui all'art. 217, comma 1, lettera v), del d.lgs. 18.04.2016 n. 50 (Codice dei contratti pubblici), il quale ha abrogato l’articolo 4 del decreto-legge n. 70 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011 (ad eccezione dei commi 13 e 14).
     Secondo una disamina -di primo acchito- della novella legislativa, ciò comporterebbe il "rivivere" dell’art. 12, comma 1, dell’art. 10, comma 5 e dell’art. 54, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 nella versione originaria, per cui dovrebbe essere ripristinato il limite di 50 anni anche per gli immobili pubblici.
     Secondo, invece, un secondo commento a caldo (si legga qui) si perverrebbe alla conclusione "che l’abrogazione effettuata dalla lettera v) dell’articolo 217, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non abbia previsto anche la reviviscenza delle norme abrogate che contenevano il limite temporale per il riconoscimento dell’interesse culturale. Da qui la segnalazione di un vero e proprio vuoto normativo che dovrà rapidamente essere colmato dall’intervento del Legislatore per non rischiare di rendere inconsistenti le norme di tutela dei beni culturali."
     Tra l'altro, oltre a quanto sopra detto, ci sarebbe un'altra questione ben più pressante e quotidiana, ovverosia la gestione dell'iter amministrativo -ex art. 146- dell'istanza di autorizzazione paesaggistica ed altre ancora sempre inerenti il D.Lgs. n. 42/2004 e cioè: art. 59; art. 67; art. 181.
     Ebbene, data la delicatezza delle fattispecie de quibus e tenuto conto che non è ammissibile, né pensabile, operare nell'incertezza del diritto con le potenziali relative personali responsabilità amministrative e/o penali, un comune s'è prestato a chiedere lumi al MIBACT il quale, prontamente, ha risposto (
ridando certezza nella materia de qua) nei termini di cui al parere riportato a seguire:

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: artt. 10, comma 5 e 12, comma 1, del decreto legislativo n. 42 del 2004. Reviviscenza di norme precedentemente in vigore ad opera del D.Lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti pubblici) (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 03.08.2016 n. 23305 di prot.)

 

L'istituto dell'«ACCORDO DI PROGRAMMA» in Lombardia:
come, quando e perché l'approvazione dello stesso comporta variante automatica al vigente P.G.T..

     Ancorché datato, ancora oggi attuale, ecco un interessantissimo parere del Consiglio di Stato che spiega la ratio di questo strumento (s)conosciuto che, invero, non capita tutti i giorni di trovarcelo sul tavolo di lavoro.
     Per la segnalazione, su richiesta d'aiuto, è doveroso un ringraziamento all'Avv. G.G. di Milano.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICASecondo quanto dispone il nuovo Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 34, l’accordo di programma è lo strumento “per la definizione e l'attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti predetti”. In tali casi “il presidente della Regione o il presidente della provincia o il sindaco, in relazione alla competenza primaria o prevalente sull'opera o sugli interventi o sui programmi di intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma, anche su richiesta di uno o più dei soggetti interessati, per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”.
L’accordo si sviluppa secondo un modulo procedimentale prima istruttorio e poi determinativo.
Infatti “per verificare la possibilità di concordare l'accordo di programma, il presidente della Regione o il presidente della provincia o il sindaco convoca una conferenza tra i rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate” (comma 3), dopo di che “l'accordo, consistente nel consenso unanime” di tutte le amministrazioni partecipanti “è approvato con atto formale del presidente della Regione o del presidente della provincia o del sindaco ed è pubblicato nel bollettino ufficiale della Regione”.
Quanto agli effetti determinativi lo stesso articolo stabilisce (comma 4) che “l'accordo, qualora adottato con decreto del presidente della Regione, produce gli effetti della intesa di cui all'articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1977, n. 616, determinando le eventuali e conseguenti variazioni degli strumenti urbanistici e sostituendo le concessioni edilizie, sempre che vi sia l'assenso del comune interessato”. In tal caso, quando cioè l'accordo comporti varianti agli strumenti urbanistici, l'adesione prestata dal sindaco all’accordo “deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”.
Le disposizioni della legge nazionale sono state riprese, in Lombardia, dalla L.R. 14.03.2003, n. 2, relativa alla "Programmazione negoziata regionale", il cui articolo 6, dopo avere minuziosamente disciplinato gli aspetti procedimentali e contenutistici dell’accordo, assicurando la partecipazione di tutti i soggetti interessati con la preventiva pubblicazione della proposta di accordo approvata dalla Giunta regionale sul BURL proprio “per consentire a qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati di presentare eventuali osservazioni o proposte”, ribadisce che (comma 11) “Qualora l'accordo di programma comporti varianti agli strumenti urbanistici, il progetto di variante deve essere depositato nella segreteria comunale per quindici giorni consecutivi, durante i quali chiunque può prenderne visione. Nei successivi quindici giorni chiunque ha facoltà di presentare osservazioni. Le osservazioni presentate sono controdedotte dal consiglio comunale in sede di ratifica ai sensi dell'articolo 34 del d.lgs. 267/2000".
L'accordo di programma, dunque, persegue la finalità di semplificare ed accelerare l'azione amministrativa mediante un esame contestuale dei vari interessi pubblici di volta in volta coinvolti e consiste, come visto, nel consenso unanime delle amministrazioni o enti interessati circa un quid (opera, progetto o intervento) da realizzare.
Tale consenso, come già osservato, si forma progressivamente attraverso fasi successive, che, a partire dalla fase della "promozione" dell'accordo (spettante al presidente della regione o al presidente della provincia o al sindaco, "in relazione alla competenza primaria o prevalente sull'opera o sugli interventi o sui programmi di intervento”), sono normalmente scandite da atti o deliberazioni degli organi degli enti e delle amministrazioni interessati e si perfeziona con la conclusione (ossia con la sottoscrizione) dell'accordo di programma, che può dirsi così completo e perfetto.
Trattasi, dunque, di atto di programmazione attuativa, finalizzato alla definizione ed attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento, che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata di comuni, province e regioni (e, eventualmente, anche di altri soggetti pubblici o privati).
L’accordo non è dunque un semplice modulo procedimentale di semplice concertazione formale, che deve essere seguita dall’adozione dei provvedimenti tipici spettanti a ciascuna amministrazione partecipante. L'accordo, invece, si configura come espressione dei poteri pubblicistici facenti capo agli stessi soggetti partecipanti, la cui attività amministrativa viene così resa più snella, celere, efficiente, efficace, razionale ed adeguata alla cura degli interessi a ciascuno di essi assegnata dall'ordinamento, in ossequio ai principi fissati nell'articolo 97 della Costituzione.
Un problema di competenza, suscettibile di refluire sulla legittimità dell'accordo conclusivo, si pone quindi solo se e nella misura in cui l'autorità effettivamente competente non risulti tra i soggetti sottoscrittori dell'accordo stesso, sì che, anche laddove possa dubitarsi della competenza "primaria o prevalente" dell'autorità che abbia assunto l'iniziativa procedimentale di cui trattasi, la partecipazione al procedimento, la successiva sottoscrizione dell'accordo e, laddove prevista, la definitiva approvazione del medesimo da parte della diversa autorità effettivamente competente in relazione al detto criterio individuato dal legislatore vale sicuramente a sanare il vizio di competenza eventualmente sussistente nella fase dell'iniziativa.
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Lo scopo dell’accordo, secondo le finalità tracciate dal legislatore nazionale e regionale, è proprio quello di assicurare un esercizio agevolato e concentrato dei poteri pubblicistici facenti capo alle amministrazioni e soggetti partecipanti, la cui attività amministrativa viene così resa più snella, celere, efficiente, efficace, razionale ed adeguata alla cura degli interessi a ciascuno di essi assegnata dall'ordinamento, in ossequio ai principi fissati nell'articolo 97 della Costituzione.
Di qui la possibilità che l’accordo possa costituire e sostituire, come è stato nella specie, il procedimento di approvazione definitiva di variante al PRG.
Né può fondatamente sostenersi che attraverso la procedura di accordo si sia violato il momento partecipativo dei privati.
Già si è detto, infatti, che la L.R. Lombardia 14.03.2003, n. 2, relativa alla “Programmazione negoziata regionale“, all’articolo 6 ha minuziosamente disciplinato gli aspetti procedimentali e contenutistici dell’accordo, assicurando, tra l’altro e anzitutto, la partecipazione di tutti i soggetti interessati attraverso la preventiva pubblicazione della proposta di accordo approvata dalla Giunta regionale sul BURL; ciò al fine dichiarato dal legislatore, di “consentire a qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati di presentare eventuali osservazioni o proposte”.
Il medesimo articolo 6 stabilisce, poi, al comma 11, che “Qualora l'accordo di programma comporti varianti agli strumenti urbanistici, il progetto di variante deve essere depositato nella segreteria comunale per quindici giorni consecutivi, durante i quali chiunque può prenderne visione. Nei successivi quindici giorni chiunque ha facoltà di presentare osservazioni. Le osservazioni presentate sono controdedotte dal consiglio comunale in sede di ratifica ai sensi dell'articolo 34 del d.lgs. 267/2000".
Quindi il momento partecipativo, nel caso di varianti agli strumenti urbanistici viene assicurato in ben due fasi procedimentali.
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Pur nel rispetto della discrezionalità di scelta delle aree su cui far sorgere l’opera pubblica, nella fattispecie emergono certamente dubbi sulla razionalità, logicità e coerenza con il principio di buon andamento.
Si tratta tuttavia di dubbi che non possono trovare collocazione e soluzione in questa sede.
Sul punto vale ulteriormente osservare che, anche per infrangere il velo della discrezionalità amministrativa tipicamente ricollegata alle scelte urbanistiche e di localizzazione delle opere pubbliche e per consentire al giudice di verificare la bontà sostanziale delle stesse scelte in conformità al precetto costituzionale di buon andamento, per contrastare episodi di mala gestione dell’interesse pubblico, occorre che chi contesta il cattivo esercizio dei predetti poteri discrezionali fornisca quanto meno un indizio di prova che le ubicazioni delle opere pubbliche siano state effettuate in spregio ad ogni criterio di logicità, coerenza, oculata gestione del denaro pubblico.
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Quanto, poi, alla mancanza di V.I.A. lamentata, è da osservare che tale momento di valutazione dell’impatto ambientale dell’opera va compiuto nell’ambito del procedimento progettuale dell’opera stessa e non in momento anteriore, come è l’accordo di programma qui impugnato, relativo alla semplice individuazione delle caratteristiche fondamentali dell’intervento, demandando ad una fase successiva, rimessa essenzialmente all’azienda ospedaliera S. Anna, le procedure di progettazione e realizzazione dell’intervento.
Sarà quindi nella fase di progettazione che dovrà essere affrontata e verificata la problematica relativa alla VIA:
- art. 16, comma 4, della legge n. 109/1994 (oggi art. 166 del Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 ), per cui “Il progetto definitivo individua compiutamente i lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e …..consiste …….nello studio di impatto ambientale ove previsto…..”;
- art. 25 del regolamento di attuazione della citata legge 11.02.1994, n. 109, emanato con D.P.R. 21.12.1999 n. 554, che fra i documenti componenti il progetto definitivo indica espressamente (comma 2, lett. f) “studio di impatto ambientale ove previsto dalle vigenti normative ovvero studio di fattibilità ambientale“;
- D.P.R. 12.04.1996 (oggi abrogato dall’articolo 48 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, codice dei contratti pubblici), recante “Atto di indirizzo e coordinamento per l'attuazione dell'art. 40, comma 1, della L. 22.02.1994, n. 146 (legge comunitaria)", concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale (si vedano in particolare gli artt. 5, 6 e 7, nonché gli allegati al decreto, ecc.).
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Può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.
Con il primo le associazioni ricorrenti lamentano che tra delibere comunali di adozione di semplice progetto della variante al PRG, osservazioni dei privati e accordo di programma non è intervenuto l’atto consiliare di definitiva adozione. In tal modo verrebbe alterato l’ordine delle competenze in materia di pianificazione urbanistica rimesse dal TUEL all’esclusiva attribuzione del consiglio comunale. In subordine viene sollevata eccezione di illegittimità della l.r. Lombardia n. 2 del 2003.
Il motivo è infondato.
Vale ricordare che secondo quanto dispone il nuovo Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 34 (corrispondente all'art. 27 della L. 08.06.1990, n. 142, ormai abrogata) l’accordo di programma è lo strumento “per la definizione e l'attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti predetti”. In tali casi “il presidente della Regione o il presidente della provincia o il sindaco, in relazione alla competenza primaria o prevalente sull'opera o sugli interventi o sui programmi di intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma, anche su richiesta di uno o più dei soggetti interessati, per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”.
L’accordo si sviluppa secondo un modulo procedimentale prima istruttorio e poi determinativo.
Infatti “per verificare la possibilità di concordare l'accordo di programma, il presidente della Regione o il presidente della provincia o il sindaco convoca una conferenza tra i rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate” (comma 3), dopo di che “l'accordo, consistente nel consenso unanime” di tutte le amministrazioni partecipanti “è approvato con atto formale del presidente della Regione o del presidente della provincia o del sindaco ed è pubblicato nel bollettino ufficiale della Regione”.
Quanto agli effetti determinativi lo stesso articolo stabilisce (comma 4) che “l'accordo, qualora adottato con decreto del presidente della Regione, produce gli effetti della intesa di cui all'articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1977, n. 616, determinando le eventuali e conseguenti variazioni degli strumenti urbanistici e sostituendo le concessioni edilizie, sempre che vi sia l'assenso del comune interessato”. In tal caso, quando cioè l'accordo comporti varianti agli strumenti urbanistici, l'adesione prestata dal sindaco all’accordo “deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”.
Le disposizioni della legge nazionale sono state riprese, in Lombardia, dalla L.R. 14.03.2003, n. 2, relativa alla "Programmazione negoziata regionale", il cui articolo 6, dopo avere minuziosamente disciplinato gli aspetti procedimentali e contenutistici dell’accordo, assicurando la partecipazione di tutti i soggetti interessati con la preventiva pubblicazione della proposta di accordo approvata dalla Giunta regionale sul BURL proprio “per consentire a qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati di presentare eventuali osservazioni o proposte”, ribadisce che (comma 11) “Qualora l'accordo di programma comporti varianti agli strumenti urbanistici, il progetto di variante deve essere depositato nella segreteria comunale per quindici giorni consecutivi, durante i quali chiunque può prenderne visione. Nei successivi quindici giorni chiunque ha facoltà di presentare osservazioni. Le osservazioni presentate sono controdedotte dal consiglio comunale in sede di ratifica ai sensi dell'articolo 34 del d.lgs. 267/2000".
L'accordo di programma, dunque, persegue la finalità di semplificare ed accelerare l'azione amministrativa mediante un esame contestuale dei vari interessi pubblici di volta in volta coinvolti e consiste, come visto, nel consenso unanime delle amministrazioni o enti interessati circa un quid (opera, progetto o intervento) da realizzare (v. Cons. St., IV, 01.08.2001, n. 4206 e 17.06.2003, n. 3403).
Tale consenso, come già osservato, si forma progressivamente attraverso fasi successive, che, a partire dalla fase della "promozione" dell'accordo (spettante al presidente della regione o al presidente della provincia o al sindaco, "in relazione alla competenza primaria o prevalente sull'opera o sugli interventi o sui programmi di intervento”), sono normalmente scandite da atti o deliberazioni degli organi degli enti e delle amministrazioni interessati e si perfeziona con la conclusione (ossia con la sottoscrizione) dell'accordo di programma, che può dirsi così completo e perfetto (Cons. St., IV, n. 3403/2003, cit.).
Trattasi, dunque, di atto di programmazione attuativa, finalizzato alla definizione ed attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento, che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata di comuni, province e regioni (e, eventualmente, anche di altri soggetti pubblici o privati).
L’accordo non è dunque un semplice modulo procedimentale di semplice concertazione formale, che deve essere seguita dall’adozione dei provvedimenti tipici spettanti a ciascuna amministrazione partecipante. L'accordo, invece, si configura come espressione dei poteri pubblicistici facenti capo agli stessi soggetti partecipanti (v. Cass. Civ., sez. un., 04.01.1995, n. 91), la cui attività amministrativa viene così resa più snella, celere, efficiente, efficace, razionale ed adeguata alla cura degli interessi a ciascuno di essi assegnata dall'ordinamento, in ossequio ai principi fissati nell'articolo 97 della Costituzione (Cons. St., IV, 27.05.2002, n. 2909).
Un problema di competenza, suscettibile di refluire sulla legittimità dell'accordo conclusivo, si pone quindi solo se e nella misura in cui l'autorità effettivamente competente non risulti tra i soggetti sottoscrittori dell'accordo stesso, sì che, anche laddove possa dubitarsi della competenza "primaria o prevalente" dell'autorità che abbia assunto l'iniziativa procedimentale di cui trattasi, la partecipazione al procedimento, la successiva sottoscrizione dell'accordo e, laddove prevista, la definitiva approvazione del medesimo da parte della diversa autorità effettivamente competente in relazione al detto criterio individuato dal legislatore vale sicuramente a sanare il vizio di competenza eventualmente sussistente nella fase dell'iniziativa; vizio, che, peraltro, sia nel procedimento amministrativo che nel processo nel quale si controverta della legittimità degli atti del primo, solo l'Amministrazione "espropriata" del potere di iniziativa avrebbe interesse a far valere.
In conclusione, la tesi proposta con il primo motivo circa la necessità di adottare la variante allo strumento urbanistico secondo le regole proprie del procedimento di adozione ed approvazione di quest’ultimo è priva di pregio alla luce della riportata normativa, rispetto alla quale ogni profilo di incostituzionalità è –a tacere d’ogni altra considerazione– non prospettabile in sede di ricorso straordinario, per consolidato insegnamento della Corte Costituzionale, cui la Sezione non può sottrarsi.
Sulla base delle predette considerazioni si rivela del tutto infondato il secondo motivo, con cui si lamenta il distorto utilizzo dell’accordo di programma, che nella specie non era utilizzabile, l’unico ente competente alla realizzazione del futuro ospedale essendo l’Amministrazione ospedaliera.
La profonda erroneità dell’assunto si rivela dalla sua intima contraddittorietà con quanto sostenuto dalle stesse ricorrenti, le quali, con il ricorso, lamentano che l’opera andrebbe ad incidere su valori ben diversi da quello puramente sanitario affidato alla competenza dell’amministrazione ospedaliera: valori di assetto e pianificazione del territorio (tanto che occorre adottare una variante al PRG), valori idrogeologici, ecc..
Del pari privo di ogni consistenza è l’assunto dedotto con lo stesso secondo motivo, secondo cui l’accordo in questione sarebbe “una rapida scorciatoia a ipotesi di localizzazione di opere nemmeno progettate” (pag. 11 ricorso). In realtà, lo scopo dell’accordo, secondo le finalità tracciate dal legislatore nazionale e regionale, è proprio quello di assicurare un esercizio agevolato e concentrato dei poteri pubblicistici facenti capo alle amministrazioni e soggetti partecipanti, la cui attività amministrativa viene così resa più snella, celere, efficiente, efficace, razionale ed adeguata alla cura degli interessi a ciascuno di essi assegnata dall'ordinamento, in ossequio ai principi fissati nell'articolo 97 della Costituzione. Di qui la possibilità che l’accordo possa costituire e sostituire, come è stato nella specie, il procedimento di approvazione definitiva di variante al PRG (cfr., per una fattispecie analoga: Consiglio di stato, sez. IV, 28.12.2006, n. 8047; id., 22.06.2006, n. 3889).
Né può fondatamente sostenersi che attraverso la procedura di accordo si sia violato il momento partecipativo dei privati. Già si è detto, infatti, che la L.R. Lombardia 14.03.2003, n. 2, relativa alla “Programmazione negoziata regionale“, all’articolo 6 ha minuziosamente disciplinato gli aspetti procedimentali e contenutistici dell’accordo, assicurando, tra l’altro e anzitutto, la partecipazione di tutti i soggetti interessati attraverso la preventiva pubblicazione della proposta di accordo approvata dalla Giunta regionale sul BURL; ciò al fine dichiarato dal legislatore, di “consentire a qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati di presentare eventuali osservazioni o proposte”.
Il medesimo articolo 6 stabilisce, poi, al comma 11, che “Qualora l'accordo di programma comporti varianti agli strumenti urbanistici, il progetto di variante deve essere depositato nella segreteria comunale per quindici giorni consecutivi, durante i quali chiunque può prenderne visione. Nei successivi quindici giorni chiunque ha facoltà di presentare osservazioni. Le osservazioni presentate sono controdedotte dal consiglio comunale in sede di ratifica ai sensi dell'articolo 34 del d.lgs. 267/2000". Quindi il momento partecipativo, nel caso di varianti agli strumenti urbanistici viene assicurato in ben due fasi procedimentali.
D’altra parte, la pretestuosità, oltre che l’erroneità in punto di fatto, della censura si rende ulteriormente manifesta dalla circostanza che, in concreto, le ricorrenti hanno presentato agli enti locali interessati dettagliate ed articolate osservazioni ben prima della data di sottoscrizione dell’accordo qui impugnato (13.12.2003), altrettanto analiticamente vagliate dalle stesse amministrazioni.
Con il terzo motivo si lamenta la mancata valutazione, prima della sottoscrizione dell’accordo di programma, dei molteplici vincoli di natura ambientale, artistica, vulnerabilità geologica ed idraulica, nonché dei problemi di drenaggio dell’area: problemi evidenziati dalla stesso comune di Montano Lucino nelle valutazioni geologiche preliminari per lo studio di fattibilità del nuovo ospedale (pagg. 6-7, 10-11), nonché dallo studio di fattibilità prodromici all’accordo (pag. 47).
Il motivo è di tutta evidenza inammissibile.
Esso contesta, infatti, la localizzazione dell’opera ospedaliera in zona incongrua sotto i molteplici profili denunciati: paesaggistico, ambientale, idrogeologico, geologico, ecc.. Ora, non v’è dubbio che dai documenti versati in atti emergono motivi di perplessità in ordine alla scelta delle aree su cui realizzare l’opera.
Si legge infatti nello “studio di fattibilità” redatto dall’Azienda ospedaliera S. Anna di Como, con riferimento al regime idrografico ed idrogeologico (pag. 46 e seg., che “il tentativo progettuale consiste nel controllo e nello spostamento della zona a maggior energia potenziale della confluenza dei due alvei e del tratto del Val grande, che in relazione al regime torrentizio dell’intero reticolo potrebbe assumere livelli di pericolosità elevati…”; che “le valutazioni geologiche preliminari………hanno permesso di verificare la presenza di falde acquifere sospese superficiali che danno livelli medi d’acqua a circa 2 metri”, con conseguente necessità di “progettazione dei presidi tecnici di messa in sicurezza dei manufatti, di impermeabilizzazione e soprattutto di drenaggio…..”. Inoltre, si evidenzia la necessità di uno “spostamento parziale dell’alveo del Val Grande ...per la risoluzione di problematiche di messa in sicurezza della struttura ospedaliera”.
Anche nella relazione generale allegata alla delibera del c.c. di Como n. 66 del 18.12.2003, con cui è stato ratificato l’accordo di programma, si prospettano esigenze di “intervenire sul reticolo idrografico” (paragr. 2.3), di “controllo della regimazione delle acque …in relazione alla messa in sicurezza del nuovo organismo ospedaliero” (paqr. 3.2), di interventi sulle sponde e sugli alvei (par. 3.3.1), si evidenziano rischi di “asportazione/detrazione di elementi naturali, biodiversità e funzionalità ecologica” (par. 3.3.1).
In definitiva, pur nel rispetto della discrezionalità di scelta delle aree su cui far sorgere l’opera pubblica, emergono certamente dubbi sulla razionalità, logicità e coerenza con il principio di buon andamento.
Si tratta tuttavia di dubbi che non possono trovare collocazione e soluzione in questa sede.
Infatti, secondo quanto risulta dallo stesso preambolo dell’accordo di programma e dal citato studio di fattibilità, la determinazione di realizzare il nuovo ospedale sull’area in questione, cioè Villa Giulini in località Tre Camini, risale al lontano 2002 per effetto di due delibere della provincia di Como, le nn. 74 e 77, nonché in sede di determinazioni della Segreteria tecnica dell’accordo di programma, indicati a pag. 2 delle responsabili controdeduzioni della Regione Lombardia. Atti non impugnati neppure in questa sede, nonostante essi fossero agevolmente conoscibili dalle ricorrenti, le quali non possono tardivamente formulare appunti contro scelte di localizzazione non imputabili agli atti qui impugnati ma a provvedimenti precedenti e presupposti.
Sul punto vale ulteriormente osservare che, anche per infrangere il velo della discrezionalità amministrativa tipicamente ricollegata alle scelte urbanistiche e di localizzazione delle opere pubbliche e per consentire al giudice di verificare la bontà sostanziale delle stesse scelte in conformità al precetto costituzionale di buon andamento, per contrastare episodi di mala gestione dell’interesse pubblico, occorre che chi contesta il cattivo esercizio dei predetti poteri discrezionali fornisca quanto meno un indizio di prova che le ubicazioni delle opere pubbliche siano state effettuate in spregio ad ogni criterio di logicità, coerenza, oculata gestione del denaro pubblico.
Nella specie, invece, le ricorrenti si sono limitate a contestare, del tutto genericamente, che il nuovo ospedale sorgerà su “un’area naturale incontaminata, pur in presenza di una rilevante estensione di aree dimesse (quali?, n.d.r.) nella provincia di Como”, senza peraltro indicare dove fossero quelle aree e la loro idoneità ad allocare, per estensione e posizione, il nuovo polo ospedaliero.
Naturalmente, tutto ciò non toglie che in sede di progettazione ed esecuzione dell’opera le amministrazioni competenti debbano osservare le regole procedimentali e sostanziali per assicurare i numerosi aspetti critici insiti nella realizzazione dell’opera in questione; ma si tratta di aspetti successivi ed eventuali al presente contenzioso, che potranno semmai essere fatti valere nei tempi, nelle sedi e con gli strumenti giurisdizionali più opportuni.
Quanto, poi, alla mancanza di VIA lamentata con lo stesso terzo motivo, è da osservare che tale momento di valutazione dell’impatto ambientale dell’opera va compiuto nell’ambito del procedimento progettuale dell’opera stessa e non in momento anteriore, come è l’accordo di programma qui impugnato, relativo alla semplice individuazione delle caratteristiche fondamentali dell’intervento, demandando ad una fase successiva, rimessa essenzialmente all’azienda ospedaliera S. Anna, le procedure di progettazione e realizzazione dell’intervento (cfr. art. 9 dell’accordo).
Sarà quindi nella fase di progettazione che dovrà essere affrontata e verificata la problematica relativa alla VIA:
- art. 16, comma 4, della legge n. 109/1994 (oggi art. 166 del Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 ), per cui “Il progetto definitivo individua compiutamente i lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e …..consiste …….nello studio di impatto ambientale ove previsto…..”;
- art. 25 del regolamento di attuazione della citata legge 11.02.1994, n. 109, emanato con D.P.R. 21.12.1999 n. 554, che fra i documenti componenti il progetto definitivo indica espressamente (comma 2, lett. f) “studio di impatto ambientale ove previsto dalle vigenti normative ovvero studio di fattibilità ambientale“;
- D.P.R. 12.04.1996 (oggi abrogato dall’articolo 48 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, codice dei contratti pubblici), recante “Atto di indirizzo e coordinamento per l'attuazione dell'art. 40, comma 1, della L. 22.02.1994, n. 146 (legge comunitaria)", concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale (si vedano in particolare gli artt. 5, 6 e 7, nonché gli allegati al decreto, ecc.) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 09.04.2008 n. 93 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVILa corretta applicazione del noto principio «tempus regit actum» comporta che la P.A. procedente debba considerare pure le modifiche normative intervenute durante il procedimento stesso e giammai che l'assetto normativo si sia cristallizzato in via definitiva alla data dell'atto che v’ha dato avvio.
Invero, in base a siffatto principio, gli atti ed i provvedimenti della P.A., essendo espressione attuale dell'esercizio di poteri rivolti al soddisfacimento di pubblici interessi, devono uniformarsi alle norme giuridiche vigenti nel momento in cui son posti in essere, per quanto attiene sia ai requisiti di forma e procedimento, sia al contenuto sostanziale delle statuizioni, stante l’immediata operatività delle norme di diritto pubblico.

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Infine, quanto al motivo C.III), dice l’appellata che nessuna norma primaria pone un termine di decadenza nella gestione del procedimento di AU, per cui neppure l’art. 7.2 della DGR 3029/2010 potrebbe farlo.
La deduzione non convince, perché si tratta d’una norma transitoria che deroga al noto principio «tempus regit actum» nel procedimento amministrativo.
La corretta applicazione di esso comporta che la P.A. procedente debba considerare pure le modifiche normative intervenute durante il procedimento stesso e giammai che l'assetto normativo si sia cristallizzato in via definitiva alla data dell'atto che v’ha dato avvio (arg. ex Cons. St., IV, 13.04.2016 n. 1450).
Invero, in base a siffatto principio, gli atti ed i provvedimenti della P.A., essendo espressione attuale dell'esercizio di poteri rivolti al soddisfacimento di pubblici interessi, devono uniformarsi alle norme giuridiche vigenti nel momento in cui son posti in essere, per quanto attiene sia ai requisiti di forma e procedimento, sia al contenuto sostanziale delle statuizioni, stante l’immediata operatività delle norme di diritto pubblico (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 14.01.2016 n. 83).
Il che è come dire che, nella specie ed ove non vi fosse detta regola transitoria, la DGR 3029/2013 avrebbe trovato diretto ingresso, in base alla l.r. 31/2008, nel procedimento de quo perché ancora pendente (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.08.2016 n. 3536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una volta pagata la somma determinata a titolo di oblazione si ottiene la sanatoria (ordinaria) e la conseguente estinzione del reato. Di talché, non è più possibile contestare innanzi al giudice amministrativo l’ammontare della somma in questione.
Quanto corrisposto dalla ricorrente è avvenuto a titolo di oblazione, secondo le previsioni di cui agli artt. 36, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 17, comma 3, della legge regionale n. 23 del 2004.
Sicché, l’oblazione non è un semplice adempimento pecuniario, ma consiste in un negozio giuridico unilaterale, processuale o extraprocessuale, produttivo di effetti di diritto pubblico, nel senso che il relativo pagamento implica il riconoscimento dell’illecito con conseguente rinuncia irretrattabile alla garanzia giurisdizionale.
Di conseguenza “la somma pagata non è ripetibile ed è irrilevante qualunque riserva fatta a tal fine, essendo semmai onere dell’interessato quello di far valere le proprie ragioni di fronte al giudice amministrativo prima di corrispondere la somma richiesta”.
Pertanto, una volta pagata la somma determinata a titolo di oblazione si ottiene la sanatoria e la conseguente estinzione del reato; a tal punto non è più possibile contestare innanzi al giudice amministrativo l’ammontare della somma in questione, atteso che, da un punto di vista prettamente giuridico, il procedimento di sanatoria presuppone l’adesione volontaria del soggetto interessato, che presta la propria acquiescenza alla determinazione dell’Amministrazione.

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FATTO
Con ricorso notificato in data 30.10.2007 e depositato il 9 novembre successivo, la società ricorrente ha impugnato il provvedimento comunale prot. n. 20658/07 del 31.07.2007 con il quale le è stata richiesta l’integrazione degli oneri di urbanizzazione, unitamente alla delibera della Giunta comunale n. 5 del 25.01.2005 in parte qua, nonché alla delibera comunale n. 75 del 05.05.1998 e alla delibera del Consiglio Regionale n. 849 del 04.03.1998, chiedendo il conseguente accertamento della non debenza di alcun onere accessorio integrativo in ordine all’intervento edilizio realizzato da essa ricorrente con D.I.A., prot. 5103 del 19.02.2007, e la restituzione di quanto corrisposto.
La società ricorrente ha costruito un capannone in seguito all’acquisto di un terreno su cui insisteva un precedente fabbricato di cui era stata autorizzata la demolizione e la conseguente non fedele ricostruzione dello stesso; tuttavia in fase di costruzione si provvedeva a modificare quanto stabilito in progetto –realizzando una unica unità immobiliare al posto delle due inizialmente previste– e quindi alla fine dei lavori veniva presentata una D.I.A. in sanatoria accompagnata dal pagamento di una sanzione pari ad € 500,00.
In sede di verifica in ordine all’esatta applicazione degli oneri di urbanizzazione, il Comune ha stabilito che vi fosse da corrispondere una somma ulteriore pari ad € 16.821,10, che la ricorrente ha provveduto a versare al fine di ottenere l’agibilità del fabbricato, anche se successivamente con il ricorso proposto nella presente sede ne ha contestato la debenza.
A giudizio della ricorrente il provvedimento di integrazione degli oneri di urbanizzazione, unitamente alle delibere allo stesso presupposte, sarebbe illegittimo, in primo luogo, per violazione di legge dell’art. 107, secondo comma, lett. a, del TU n. 267 del 2000 e degli artt. 5 e 6 della legge n. 241 del 1990, in quanto lo stesso sarebbe stato sottoscritto da un soggetto non appartenente alla qualifica dirigenziale, ma impiegatizia.
Ulteriormente, vengono dedotti la violazione dell’art. 10 della legge regionale n. 31 del 2002 e dell’art. 38 del Regolamento Edilizio, dell’art. 97 della Cost. e dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990; la violazione degli artt. 27 e 28 della legge regionale n. 31 del 2002 e degli artt. 3, 5 e 10 della legge n. 10 del 1977, ora art. 16 del D.P.R. n. 380 del 2001, l’eccesso di potere per falso ed erroneo presupposto di fatto e di diritto, per travisamento ed illogicità, ingiustizia manifesta, contraddittorietà, difetto di istruttoria; illegittimità della delibera n. 5 del 25.01.2005, ed eventualmente anche della delibera giuntale n. 75 del 05.05.1998, in quanto emessa in violazione dei criteri generali precisati nella delibera giuntale n. 39 del 23.06.1998; violazione di legge per contrasto tra le delibere comunali n. 5 del 25.01.2005, ed eventualmente anche della delibera giuntale n. 75 del 05.05.1998, e n. 39 del 23.06.1998 e gli artt. 27 e 28 della legge regionale n. 31 del 2002, il difetto di motivazione, la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990: il pagamento dell’ulteriore integrazione sarebbe dovuto ad una violazione procedimentale dell’amministrazione che non avrebbe consentito di presentare la D.I.A. prima dell’ultimazione dei lavori, come era nelle intenzioni della ricorrente e, comunque, si sarebbe trattato di variazione in diminuzione del progetto originario, attraverso l’eliminazione di un muro divisorio, di una scala, di una zona uffici e dei servizi igienici, che avrebbe determinato un minore carico urbanistico, non assoggettabile ad alcun ulteriore pagamento.
Ugualmente illegittima risulterebbe la delibera comunale n. 5 del 2005 laddove, in contrasto con altre deliberazioni della stessa Amministrazione comunale, prevede che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti indipendentemente dalla circostanza che l’intervento di ristrutturazione determini un aumento del carico urbanistico.
Infine, vengono eccepiti la violazione dell’art. 17 della legge regionale n. 23 del 2004, l’eccesso di potere per falso ed erroneo supposto di fatto e di diritto, per travisamento ed illogicità, per ingiustizia manifesta, per contraddittorietà per difetto di motivazione e per violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, in quanto la norma posta a supposto della determinazione impugnata farebbe riferimento al pagamento di una oblazione nella misura di € 500,00, già corrisposta dalla ricorrente.
Si è costituito in giudizio il Comune di Calderara di Reno, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
In prossimità dell’udienza di trattazione del merito della controversia, i difensori della parti hanno prodotto delle memorie e dei documenti a sostegno delle rispettive posizioni; la difesa del Comune ha altresì eccepito l’inammissibilità del ricorso per acquiescenza, cui la difesa della ricorrente ha replicato, chiedendo la reiezione dell’eccezione.
Alla pubblica udienza del 20.04.2016, su conforme richiesta dei difensori delle parti, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. La ricorrente, dopo aver terminato la costruzione di cui al permesso di costruire rilasciato alla sua dante causa in data 04.03.2004 e volturato in propri favore il 16.12.2004 (all. 2 al ricorso), ha presentato una D.I.A. in sanatoria ai sensi degli artt. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 e 17 della legge regionale n. 23 del 2004 (all. 4 al ricorso) per alcune variazioni intervenute in fase di realizzazione dell’intervento edilizio rispetto a quanto previsto nel progetto approvato.
Trattandosi di variazioni essenziali, anche se non determinanti un aumento del carico urbanistico, ma una sua diminuzione, il Comune ha provveduto a calcolare la misura dell’oblazione secondo la normativa regionale e comunale all’epoca vigente.
La parte ricorrente ha in un primo momento provveduto a corrispondere quanto previsto dal Comune e in tal modo ha ottenuto il permesso in sanatoria (all. 9 e 12 al ricorso); successivamente, attraverso la proposizione del ricorso oggetto di scrutinio nella presente sede, ha contestato la determinazione comunale con cui è stata determinata la misura dell’oblazione.
Va evidenziato che quanto corrisposto dalla ricorrente è avvenuto a titolo di oblazione, secondo le previsioni di cui agli artt. 36, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 17, comma 3, della legge regionale n. 23 del 2004.
Come sostenuto da condivisibile giurisprudenza, l’oblazione non è un semplice adempimento pecuniario, ma consiste in un negozio giuridico unilaterale, processuale o extraprocessuale, produttivo di effetti di diritto pubblico, nel senso che il relativo pagamento implica il riconoscimento dell’illecito con conseguente rinuncia irretrattabile alla garanzia giurisdizionale (cfr. Cass. civ., I, 24.04.1979, n. 2319).
Di conseguenza “la somma pagata non è ripetibile ed è irrilevante qualunque riserva fatta a tal fine, essendo semmai onere dell’interessato quello di far valere le proprie ragioni di fronte al giudice amministrativo prima di corrispondere la somma richiesta” (Consiglio di Stato, IV, 07.06.2012, n. 3371; altresì, V, 05.07.2007, n. 3821; TAR Campania, Salerno, I, 13.05.2015, n. 980; TAR Lombardia, Milano, IV, 28.05.2009, n. 3865).
Pertanto, una volta pagata la somma determinata a titolo di oblazione si ottiene la sanatoria e la conseguente estinzione del reato; a tal punto non è più possibile contestare innanzi al giudice amministrativo l’ammontare della somma in questione, atteso che, da un punto di vista prettamente giuridico, il procedimento di sanatoria presuppone l’adesione volontaria del soggetto interessato, che presta la propria acquiescenza alla determinazione dell’Amministrazione (TAR Sicilia, Palermo, III, 31.03.2011, n. 610).
2.1. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per intervenuta acquiescenza (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 28.06.2016 n. 654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Combustione/abbruciamento di residui vegetali di origine agricola e/o forestale - Precisazioni (Corpo Forestale dello Stato, Comando Provinciale di Lecco, nota 18.07.2016 n. 3012 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto - Applicazione dell’articolo 184-ter Dlgs 03.04.2006 n. 152 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nota 01.07.2016 n. 10045 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 23.08.2016 n. 196 "Testo del decreto-legge 30.06.2016, n. 117, coordinato con la legge di conversione 12.08.2016, n. 161, recante: «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative in materia di processo amministrativo telematico»".

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 23.08.2016 n. 196 "Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi per le attività ricettive turistico-alberghiere, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139" (Ministero dell'Interno, decreto 09.08.2016).

ENTI LOCALI: G.U. 20.08.2016 n. 194 "Testo del decreto-legge 24.06.2016, n. 113, coordinato con la legge di conversione 07.08.2016, n. 160, recante: «Misure finanziarie urgenti per gli enti territoriali e il territorio»".

APPALTI: G.U. 18.08.2016 n. 192 "Regolamento per l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della legge 06.11.2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso" (A.N.AC., provvedimento 20.07.2016).

SICUREZZA LAVORO: G.U. 18.08.2016 n. 192 "Attuazione della direttiva 2013/35/UE sulle disposizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici) e che abroga la direttiva 2004/40/CE" (D.Lgs. 01.08.2016 n. 159).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 16.08.2016 n. 190 "Approvazione dello schema tipo dello Statuto del Consorzio nazionale per il riciclaggio di rifiuti di beni in polietilene" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 29.07.2016).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Linee guida in materia di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi inconferibili e incompatibili (determinazione 03.08.2016 n. 833 - link a www.anticorruzione.it).
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Indice
1. Il quadro normativo
2. Ruolo e funzioni del Responsabile della prevenzione della corruzione nel procedimento di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità
3. Attività di verifica del RPC sulle dichiarazioni concernenti la insussistenza di cause di inconferibilità o incompatibilità
4. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’ANAC in caso di incarichi inconferibili e incompatibili
5. Il mancato adeguamento da parte del RPC all’accertamento dell’ANAC e il potere di ordine dell’Autorità

APPALTI: Regolamento per l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 06.11.2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso (regolamento 20.07.2016 - link a www.anticorruzione.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Lucca, Trasparenza informativa, diritto di accesso e diritto di cronaca (note a margine di Cons. Stato, sez. IV, sentenza 12.08.2016, n. 3631) (18.08.2016 - link a www.lexitalia.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Dipace, La resistenza degli interessi sensibili nella nuova disciplina della conferenza di servizi (10.08.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Introduzione; 2. Il problema della “resistenza” degli interessi sensibili; 3. Gli interessi sensibili, la omessa o inammissibile dichiarazione di volontà e il silenzio-assenso; 4. La innovativa disciplina dei dissensi qualificati; 5. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Scotti, La nuova disciplina della conferenza di servizi tra semplificazione e pluralismo (10.08.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il problema della conferenza di servizi - 1.1 L’autonomia dell’amministrazione - 1.2 La necessaria semplificazione sostanziale - 1.3 Bilanciamento degli interessi e semplificazioni. L’occasione (perduta) per ripensare il coordinamento - 2. Spunti critici sulle principali novità. – 2.1 La conferenza semplificata (o silenzio-assenso tra amministrazioni per le decisioni semplici?) – 2.2 Le semplificazioni della conferenza simultanea – 2.2.1 La riduzione dei termini procedimentali – 2.2.2 Il rappresentante unico delle amministrazioni statali e regionali – 2.2.3 Il rafforzamento del ruolo dell’amministrazione procedente. Autotutela e depotenziamento degli interessi sensibili – 2.2.4 La partecipazione - 3. Considerazioni di sintesi.

APPALTI: S. Licciardello, Prime note sulla funzione di regolazione dell'ANAC nel nuovo codice degli appalti (10.08.2016 - tratto da www.federalismi.it).

APPALTI: A. Ilacqua, LA SORTE DEL CONTRATTO A SEGUITO DELL’ANNULLAMENTO DELL’AGGIUDICAZIONE: PROBLEMATICHE RELATIVE ALLA GIURISDIZIONE (Gazzetta Amministrativa n. 1/2016).
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L’autore si sofferma su uno dei temi più scottanti del diritto amministrativo, processuale e sostanziale: l’esistenza e la sorte del contratto stipulato sulla base di un provvedimento di aggiudicazione annullato dal giudice amministrativo. E ciò ponendo l’attenzione su entrambi i profili centrali del tema e del dibattito: il riparto di giurisdizione e le forme di invalidità e/o inefficacia del contratto. In questo contesto, l’Autore mette in rilievo le varie interrelazioni esistenti tra l’invalidità degli atti amministrativi che compongono le procedure di aggiudicazione e i contratti a valle.
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Sommario: 1. Introduzione. - 2. La tesi dell’annullabilità. - 3. La tesi della nullità. - 4. La tesi dell'inefficacia. - 5. La tesi della caducazione automatica. - 6. Il riparto di giurisdizione. - 7. La Direttiva 66/2007/CEE. - 8. Il vizio del contratto stipulato a seguito di un’aggiudicazione illegittima dopo la Direttiva 66/2007/CE. - 9. L’inefficacia del contratto alla luce del D.lgs. n. 53/2010 e del nuovo Codice del processo amministrativo. - 10. Le prime applicazioni dei giudici amministrativi. - 11. Conclusioni.

APPALTI: P. Turco, LA VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI (Gazzetta Amministrativa n. 1/2016).
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La valorizzazione dei beni culturali: fonti, principi e indirizzi giurisprudenziali.
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Sommario: 1. Definire il concetto di valorizzazione. - 2. La Costituzione ed il Codice dei beni culturali e del paesaggio. - 3. Le posizioni della giurisprudenza. - 4. Conclusioni.

APPALTI: A. Grappelli, I COSTI INTERNI AZIENDALI SULLA SICUREZZA SUL LAVORO DEVONO ESSERE INDICATI NELLE OFFERTE ECONOMICHE ANCHE NELLE GARE DI APPALTO DI LAVORI, LA LORO OMISSIONE NON È SANABILE NEANCHE MEDIANTE IL SOCCORSO ISTRUTTORIO (Gazzetta Amministrativa n. 1/2016).
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Con il presente commento si affronta, nei suoi aspetti peculiari, il tema degli oneri di sicurezza nel settore degli appalti, in particolare il Consiglio di Stato è dovuto intervenire nel 2015 con due Adunanze Plenarie (n. 3 del 20.03.2015 e la n. 9 del 02.11.2015) per chiarire l’orientamento interpretativo della normativa di settore (cfr. art. 87, co. 4, del Codice appalti), ed in particolare sull’obbligo che tutti i partecipanti alle gare di appalto di lavori devono rispettare. I Giudici dell’Alta Corte chiariscono altresì che i concorrenti devono rispettare tale obbligo a prescindere che lo stesso sia stato esplicitato o meno nella lex specialis di gara quindi dovranno sempre essere indicati nella offerta economica anche i costi interni per la sicurezza del lavoro ed in caso di omessa indicazione di tali oneri non si potrà ricorrere all’istituto del soccorso istruttorio per sanarne l’omissione.
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Sommario: 1. L’evoluzione interpretativa della giurisprudenza sugli oneri di sicurezza nel settore degli appalti di lavori dall’Adunanza Plenaria n. 3/2015 alla n. 9/2015. - 2. L’Adunanza plenaria n. 9 del 02.11.2015. - 3. Conclusioni.

APPALTI SERVIZI: M. Dell'Unto, LINEE GUIDA PER L’AFFIDAMENTO DI SERVIZI A ENTI DEL TERZO SETTORE E ALLE COOPERATIVE SOCIALI (Gazzetta Amministrativa n. 1/2016).
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Deliberazione n. 32 del 20.01.2016 dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Sulle regole da seguirsi per l’affidamento dei servizi e delle forniture nell’ambito del terzo settore e delle cooperative sociali.
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Sommario: 1. Premessa. - 2. La concorrenza nel settore dei servizi sociali. - 3. La programmazione degli interventi da realizzare. - 4. La co-progettazione. - 5. Modalità di erogazione dei servizi sociali. - 5.1 Autorizzazione e accreditamento. - 5.2. Le convenzioni con le associazioni di volontariato. - 5.3. L’acquisto di servizi e prestazioni dagli organismi no-profit. - 5.4 L’affidamento della gestione dei servizi alla persona. - 6. Gli affidamenti dei servizi e delle forniture nel settore dell’accoglienza ai richiedenti e titolari di protezione internazionale. - 7. Gli affidamenti alle cooperative sociali. - 8. Oggetto della prestazione. Il valore economico del servizio. - 9. I requisiti dell’erogatore del servizio. - 10. Controlli. - 11. Proroghe e rinnovi. La clausola sociale. 12. Gli obblighi in materia di trasparenza e anticorruzione.

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Petrucci e G. Vasaturo, IL TENTATO FURTO DI BENI DI MODICO VALORE ALL’INTERNO DI UN’“ISOLA ECOLOGICA” COMUNALE NON È PUNIBILE: PRIME APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEL NUOVO ART. 131-BIS C.P. (Gazzetta Amministrativa n. 1/2016).
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La problematica relativa ai furti di beni di modico valore: spunti di riflessione sulle prime applicazioni giurisprudenziali.
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Sommario: 1. Introduzione. - 2. Conclusioni.

AMBIENTE-ECOLOGIA: F. R. Marcacci Balestrazzi, L’ETERNO DILEMMA CIRCA LA DISTINZIONE FRA RIFIUTI O SOTTOPRODOTTI. IL CASO SPECIFICO DEI RESIDUI DI PRODUZIONE E L’INTERVENTO ESPLICATIVO DELLA SUPREMA CORTE (SENT. CASS. PEN. SENTENZA N. 40109/2015) (Gazzetta Amministrativa n. 1/2016).
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Il sottoprodotto non necessita di essere sottoposto al trattamento di recupero, altrimenti non rivestirebbe le caratteristiche merceologiche e ambientali che lo connotano sin dall'origine, e che lo qualificano come tale, contrapponendolo e distinguendolo dal “rifiuto”. Ma, al contempo, non è più richiesto, in modo rigoroso che il sottoprodotto sia utilizzato “tal quale” in quanto sono permessi trattamenti minimi, rientranti nella normale pratica industriale. Ove i residui della produzione industriale siano “ab origine” classificati da chi li produce come rifiuti, gli stessi devono ritenersi sottratti alla normativa derogatoria prevista per i sottoprodotti come definiti dall'art. 184-bis, T.U. ambiente, in quanto la classificazione operata dal produttore esprime quella volontà di disfarsi degli stessi idonea a qualificarli come "rifiuti" in base all'art. 183, comma primo, lett. a), del citato decreto.
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Sommario: 1. Breve introduzione circa l’utilizzo efficiente delle risorse nelle politiche europee. - 2. Disciplina normativa di riferimento. - 3. Il sottoprodotto visto come materiale non coinvolto nel processo produttivo. - 4. L’intervento innovatore della Cassazione penale, applicato al caso di specie. - 5. Conclusioni.

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla possibilità da parte del Comune, privo di un servizio interno di avvocatura, di affidare annualmente un appalto per l’affidamento dello svolgimento del servizio di assistenza legale “che si sostanzi in un servizio di consulenza legale oltre che di patrocinio dell’ente nelle possibili vertenze che possano coinvolgere l’Ente in sede civile, amministrativa, tributaria ed anche penale".
Questa Sezione
non può fornire indicazioni puntuali sul versante gestionale, esprimendosi sul quesito nei termini formulati dall’Ente, per dirimere il dubbio relativo alla conferibilità in concreto di appalti annuali per l’affidamento dei servizi di rappresentanza e consulenza legale al di fuori delle garanzie previste dal codice dei contratti pubblici per i servizi “non esclusi”, trattandosi di questione la cui soluzione si presenta prodromica all’adozione di concreti atti gestionali, la cui valutazione spetta alla specifica attribuzione dei competenti organi comunali (organi politici coadiuvati ex art. 97 del T.U.E.L. dagli organi gestionali dell’Ente).
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PREMESSO
che con nota indicata in epigrafe, non inoltrata a questa Sezione tramite il C.A.L., il Sindaco del Comune di Bracciano (RM) formulava richiesta di parere in ordine alla possibilità da parte del Comune, privo di un servizio interno di avvocatura, di affidare annualmente un appalto per l’affidamento dello svolgimento del servizio di assistenza legale “che si sostanzi in un servizio di consulenza legale oltre che di patrocinio dell’ente nelle possibili vertenze che possano coinvolgere l’Ente in sede civile, amministrativa, tributaria ed anche penale là dove si configuri l’opportunità che il Comune di Bracciano si costituisca parte civile nell’ambito di procedimenti penali.
A tal fine precisava che l’art. 17 del D.Lgs. n. 50/2016 (codice dei contratti pubblici) esclude gli appalti concernenti i servizi legali anche di consulenza dall’applicazione delle disposizioni del codice e, trattandosi di servizi “esclusi”, pare consentire il conferimento del patrocinio e della consulenza legale attraverso un appalto di servizio, da effettuarsi in applicazione dell’art. 4 del D.Lgs. n. 50/2016 e nel rispetto dei principi da esso elencati.
Concludeva, pertanto, chiedendo se fosse legittimo per l’Ente procedere all’affidamento di un appalto annuale di servizi di rappresentanza e consulenza legali in applicazione dell’art. 4 del D.Lgs. n. 50/2016, al fine di velocizzare e semplificare l’azione amministrativa, “senza incorrere nel rischio di successive censure e/o contenziosi.
CONSIDERATO
che le Sezioni Regionali di controllo della Corte dei Conti sono investite, ex art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003, del potere di rendere pareri, ma che l’esercizio di siffatta funzione consultiva è subordinato alla previa verifica in concreto della coesistenza di due noti requisiti di ammissibilità: la legittimazione soggettiva dell’organo richiedente, che deve essere il legale rappresentante pro tempore di uno degli Enti previsti dalla L. n. 131 del 2003 e, sotto il profilo oggettivo, l’attinenza del quesito prospettato alle materie di contabilità pubblica.
Nel caso di specie, relativamente alla sussistenza del profilo soggettivo, la richiesta di parere è ammissibile, in quanto presentata a firma del Sindaco pro-tempore, soggetto munito di generali poteri di rappresentanza politico-istituzionale e dunque legittimato ad esprimere la volontà e ad impegnare l’Ente locale verso l’esterno (art. 50 TUEL).
Occorre comunque segnalare che la richiesta di parere è stata inoltrata a codesta Sezione direttamente dal Comune a mezzo PEC, senza seguire la vigente procedura, che ne prescrive l’invio di norma per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali (C.A.L.), previsto dall’art. 123, comma 4, Cost. ed istituito dall’art. 66 dello Statuto della Regione Lazio, nonché disciplinato -nei suoi profili attuativi- dalla legge regionale n. 1/2007, organo del quale -da tempo- la Sezione sollecita il concreto svolgimento della funzione di “filtro” attribuitagli a livello ordinamentale e ribadita dalla Sezione delle Autonomie (delib. n. 13/AUT/07), per agevolare la pronta ed omogenea risoluzione delle questioni interpretative di contabilità pubblica nell’ambito del territorio regionale di riferimento.
Sotto il profilo oggettivo, invece, la richiesta di parere verte su questione avente per oggetto l’interpretazione di due norme del codice dei contratti pubblici: gli articoli 4 e 17 del D.Lgs. n. 15 del 2016, di cui appare quanto meno dubbia la riconducibilità alla materia della “contabilità pubblica”, al fine di poter ritenere esercitabile la funzione consultiva, pur essendo foriera la loro applicazione in termini diversi da parte dell’Ente di probabili effetti finanziari riflessi.
Occorre preliminarmente ricordare che la nozione di contabilità pubblica che rileva nell’esercizio della funzione consultiva è, com’è noto, più ristretta di quella generale, anche considerato che la funzione consultiva di cui al comma 8 dell’art. 7 della legge n. 131/2003 deve essere in ogni caso ricollegata al precedente comma 7, che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, nonché la sana gestione finanziaria degli Enti locali. Sul punto, sono anzitutto di ausilio gli indirizzi ed i criteri generali elaborati dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti ed esplicitati, in particolare, nell’atto di indirizzo del 27.04.2004, nonché nella deliberazione n. 5/AUT/2006 del 10.03.2006.
In quest’ultima, premesso che la funzione consultiva della Corte non può “investire qualsiasi attività degli enti che abbia comunque riflessi di natura finanziaria-patrimoniale…con l’ulteriore conseguenza che le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti diventerebbero organi di consulenza generale delle autonomie locali”, si è voluto restringere l’ambito oggettivo della nozione di contabilità pubblica, limitandolo alla normativa disciplinante, in generale, l’attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore, compresi, in particolare, la disciplina dei bilanci ed i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate, l’organizzazione finanziario-contabile, la disciplina del patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la rendicontazione ed i relativi controlli.
Al riguardo, le Sezioni Riunite della Corte dei conti, intervenendo qualche anno dopo con una pronuncia in sede di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 17, co. 31, del D.L. 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, hanno delineato un concetto unitario di contabilità pubblica, incentrato sulla tradizionale nozione di “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici”, da integrarsi in senso dinamico, ossia da intendersi “in continua evoluzione in relazione alle materie che incidono direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Tale accezione dinamica della “contabilità pubblica” pare consentire un ampliamento dell’angolo visuale rispetto al tradizionale contesto della gestione del bilancio, giungendo ad attrarre nell’orbita dell’attività consultiva della Corte ulteriori materie, che ne resterebbero altrimenti estranee, ma che vengono ad esservi ricomprese, in quanto afferenti ad aspetti che implicano problematiche interpretative inerenti a statuizioni recanti limiti e divieti “strumentali al raggiungimento degli specifici obiettivi di contenimento della spesa ed idonei a ripercuotersi sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui relativi equilibri di bilancio” (SS.RR. delibera n. 54, del 17.11.2010).
Ne discende che –allo stato– sono suscettibili di essere esaminate in sede consultiva, non soltanto le questioni tradizionalmente riconducibili al concetto di contabilità pubblica intesa come sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici, ma “anche quelle materie che risultano connesse alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti dai principi di coordinamento della finanza pubblica ed in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui pertinenti equilibri di bilancio” (come ribadito, anche successivamente, da SS.RR., delibera n. 14 dell’08.03.2011).
La Sezione Autonomie ha operato ulteriori precisazioni rilevando come, pur costituendo la materia della contabilità pubblica “una categoria concettuale estremamente ampia”, i criteri utilizzabili per valutare ammissibile, sotto il profilo oggettivo, una richiesta di parere possono essere, oltre al “riduttivo ed insufficiente…criterio dell’eventuale riflesso finanziario di un atto…sul bilancio dell’ente”, anche l’attinenza del quesito proposto “ad una competenza tipica della Corte dei conti in sede di controllo sulle autonomie territoriali” (deliberazione n. 3/2014/SEZAUT). Competenza tipica che -in relazione alla materia degli appalti pubblici disciplinata dall’apposito codice (D.Lgs. n. 15/2016)- non si rinviene, trattandosi di profili pertinenti e riconducibili ad altri organi e plessi giudiziari.
È appena il caso di osservare che il sindacato di legittimità sulle delibere di conferimento di servizi legali, anche in assenza di selezione pubblica è devoluto alla giurisdizione del G.A. (in tal senso, espressamente, Tar Campania, Salerno, sez. II – Sentenza 16.07.2014 n. 1383), per cui ove si opinasse diversamente si creerebbe anche il rischio di interferenza nel senso che, ove fosse reso, il parere potrebbe giungere ad interferire con l’esercizio delle funzioni giurisdizionali demandate per legge ad altri ordini magistratuali.
Ciò posto, deve anche ribadirsi che la funzione consultiva non può svolgersi in ordine a quesiti concreti che implichino valutazioni di comportamenti amministrativi riservati al giudizio discrezionale dell’Ente e ciò all’evidente fine sia di tutelare l’autonomia decisionale dell’amministrazione, sia di mantenere la necessaria posizione di neutralità e di indipendenza della Corte dei conti.
Possono rientrare nella funzione consultiva della Corte dei Conti le sole questioni volte ad ottenere l’esame, da un punto di vista astratto e generale, di una normativa contabile al fine di dirimerne un dubbio ermeneutico, dovendo quindi ritenersi inammissibili le richieste concernenti valutazioni su casi o atti gestionali specifici o in cui difetta -come nel caso specifico- la sussistenza di un dubbio ermeneutico da sciogliere sotto il profilo giuscontabilistico.
Non è possibile, pertanto, scendere in valutazioni suscettibili di determinare un’ingerenza nella discrezionale attività dell’Ente, né l’ausilio consultivo può tramutarsi in una sorta di autorizzazione preventiva a provvedere idonea ad esonerare da responsabilità amministrativo-contabile o di altro genere. Ciò in quanto è d’uopo ribadire che il limite conformativo della funzione consultiva esclude qualsiasi possibilità di interferenza con la concreta attività gestionale ed amministrativa ricadente nell’esclusiva competenza dell’Ente locale.
Questa Sezione, perciò, non può fornire indicazioni puntuali sul versante gestionale, esprimendosi sul quesito nei termini formulati dall’Ente, per dirimere il dubbio relativo alla conferibilità in concreto di appalti annuali per l’affidamento dei servizi di rappresentanza e consulenza legale al di fuori delle garanzie previste dal codice dei contratti pubblici per i servizi “non esclusi”, trattandosi di questione la cui soluzione si presenta prodromica all’adozione di concreti atti gestionali, la cui valutazione spetta alla specifica attribuzione dei competenti organi comunali (organi politici coadiuvati ex art. 97 del T.U.E.L. dagli organi gestionali dell’Ente) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, parere 01.08.2016 n. 97).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Sulla erogazione dell'incentivo per l’attività di manutenzione del verde pubblico e per il servizio di raccolta differenziata affidata a ditte o società esterne, secondo una pratica consolidata nel tempo ma censurata dalla procura regionale in quanto palesemente arbitraria e contraria all’interpretazione data alla suddetta norma dalla stessa Corte dei Conti che dalla giurisprudenza amministrativa e dalla stessa Autorità di vigilanza sui lavori pubblici.
Nessun dubbio può sussistere in merito alla responsabilità dei convenuti per il danno patrimoniale arrecato all’Ente di appartenenza, consistente nella percezione e/o erogazione indebita dei compensi, relativamente agli appalti di servizi di manutenzione del verde pubblico e della raccolta differenziata “porta a porta”, secondo quanto costantemente ritenuto dalla stessa giurisprudenza di questa Corte dei Conti in fattispecie analoghe e dalla stessa Autorità di Vigilanza.
I responsabili del settore tecnico hanno posto in essere una condotta contraria a precisi dettati normativi e regolamentari, consistita nell’erogazione degli incentivi di progettazione per appalti di servizi e non già per l’esecuzione di lavori pubblici, compensi determinati, tra l’altro, non già sull’importo a base d’asta ma sulle singole fatture dei lavori.
Nessuna giustificazione può essere considerata da questo Collegio ove si consideri che -se anche si volesse prescindere dalla qualificazione dell’elemento soggettivo come dolo- si appalesano comunque particolarmente gravi le condotte tenute dagli odierni convenuti, tenuto conto della specifica professionalità di ciascuno di essi e degli incarichi da essi ricoperti nell’ambito dell’Area I^ Servizi LL.PP., situazioni che avrebbero consentito a ciascuno di essi di applicare correttamente il beneficio di che trattasi con esclusione degli appalti di servizi stipulati dal Comune.
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1. La domanda nei termini prospettati dall’attore è incentrata sulla indebita percezione e/o erogazione dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 92, 5° c., del D.lgs. 163/2006, con riferimento ai servizi di manutenzione del verde pubblico e della raccolta differenziata appaltati dal Comune di Palmi, nel periodo 2009-2012.
L’art. 92 del Codice dei contratti pubblici rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti”, contiene una serie di disposizioni volte a disciplinare l’assegnazione di specifici incentivi, che assolvono alla finalità di valorizzare le professionalità interne all’ente e di incrementarne la produttività.
L’Autorità di Vigilanza, con il
parere sulla normativa 10.05.2010 - rif. AG-13/10, ha chiarito che l’incentivo “assolve alla funzione di compensare i progettisti dipendenti dell’amministrazione che abbiano in concreto effettuato la redazione degli elaborati progettuali.”
La ratio legis è di favorire l’ottimale utilizzo delle professionalità interne a ogni amministrazione e di assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare all’esterno gli incarichi. L’incentivo, infatti, può essere corrisposto al solo personale dell’ente che abbia materialmente redatto l’atto e ciò in funzione incentivante e premiale per l’espletamento di servizi propri dell’ufficio pubblico (C. Conti, Sez. controllo, Veneto, parere 26.07.2011 n. 337).
Al riguardo, il Collegio evidenzia che elementi utili ai fini del decidere possono essere tratti dagli arresti giurisprudenziali di questa Corte che, in sede di controllo, ha individuato l’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione della suddetta disposizione (cfr. fra le altre, Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259; Sez. Piemonte parere 21.05.2014 n. 97, segnalandosi da ultimo le deliberazioni Sezione Piemonte, parere 16.01.2014 n. 8 e parere 17.03.2014 n. 44).
La giurisprudenza citata, dopo aver ricordato la preferenza per l’attività di progettazione svolta all’interno dell’amministrazione ed il principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente, ha rilevato come l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006, deroghi ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisca un’eccezione di stretta interpretazione, per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008, Sezione Umbria, parere 09.07.2013 n. 119, Sezione Marche, parere 04.10.2013 n. 67).
Come evincibile dalla lettera del comma 5,
la legge pone alcuni limiti per l’attribuzione del predetto incentivo , rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno, assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (Sezione Lombardia parere 30.05.2012 n. 259) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi);
- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori);
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alla
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150).
2. Delineato il contesto normativo e giurisprudenziale dell’istituto in esame, il Collegio osserva che dalla ricostruzione in fatto effettuata dal Corpo di Polizia Locale della caserma “Domenico Scolaro" di Palmi -supportata dalla documentazione amministrativa versata in atti- fatta propria dal requirente-
è emerso che gli odierni convenuti -dipendenti del settore dell’Ufficio Tecnico Comunale-Settore Ambiente e territorio- hanno erogato ovvero percepito negli anni 2009-2012, gli incentivi previsti dall’art. 92 del d.lgs. 163/2006 per l’attività di manutenzione del verde pubblico e per il servizio di raccolta differenziata, affidata a ditte o società esterne, secondo una pratica consolidata nel tempo ma censurata dalla procura regionale in quanto palesemente arbitraria e contraria all’interpretazione data alla suddetta norma dalla stessa Corte dei Conti che dalla giurisprudenza amministrativa e dalla stessa Autorità di vigilanza sui lavori pubblici.
a) Contratti di manutenzione di verde pubblico
Dalla documentazione prodotta in atti, è emerso che il Comune di Palmi ha affidato la manutenzione del verde pubblico alla società in house PPMM spa Piana Palmi Multiservizi, per l’importo di euro 136.000,elevato a euro 158.922,57 sul quale il dirigente pro-tempore dell’UTC ing. St. De Lu., il Capo Area dell’UTC ing. Vi.Or. e l’ing. An.Sc. hanno corrisposto al dipendente progettista Pa.An. somme, a titolo di incentivo alla progettazione, pari all’1,50% del totale dei lavori fatturati dalla ditta appaltatrice durante la vigenza del contratto di appalto.
Ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante occorre far riferimento al contenuto specifico dell’incarico conferito al dipendente, che deve essere intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad una mera attività tecnica che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Nel caso di specie, aldilà della mera qualificazione giuridica del contratto posto in essere dal Comune, il Collegio non può che condividere l’assunto attoreo secondo cui
le determine contestate, di contenuto identico, con cui sono stati disposti gli incentivi …avevano ad oggetto il servizio di manutenzione del verde pubblico e la liquidazione dei suddetti benefici è avvenuta sulla scorta di documentazione (redazione di un semplice capitolato di gara, computo metrico ed elenco prezzi) tutt’altro che riconducibile a quegli elaborati progettuali richiesti dal codice dei contratti per la corresponsione degli incentivi alla progettazione e per gli interventi in cui il fondo di progettazione è deputato ad operare e cioè i lavori pubblici.
Sotto questo profilo, contrariamente a quanto sostenuto dalle difese dei convenuti,
il riconoscimento degli incentivi si appalesa contrario a norme di legge (art. 92, c. 5, D.lgs. 63/2006) e di regolamento (Del. G.M. n. 234 dell’11.11.204, art. 1), in quanto riferito ad appalto di servizio e non già ad opere e lavori pubblici intesi come “attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e ordinaria, comprese le eventuali connesse progettazioni di campagne diagnostiche, le eventuali redazioni di perizie di variante e suppletive" (Autorità di vigilanza).
Nel capitolato d’appalto all’art. 3 “Descrizione sommaria dei lavori”, si legge: ”I lavori che formano oggetto dell’appalto possono riassumersi come appresso salvo le più precise indicazioni che in corso d’opera potranno essere impartite dalla direzione lavori:
Manutenzione tappeto erboso, taglio erbe nelle aiuole, apertura e chiusura della villa comunale, pulizia dei bagni all’interno della villa, fornitura e messa a dimora di piantine annuali, concimazione potatura alberi, siepi e palme nella Villa comunale e nei giardini di piazza Municipio
”.
L’attività manutentiva affidata a terzi appare quindi rispondente a prestazioni continuative di facere (manutenzione verde pubblico), fatturate periodicamente dall’impresa in relazione alle quali è stato (pure erroneamente) applicato il compenso incentivante, in luogo dell’importo del progetto posto a base di gara.
Dall’esame delle componenti dell’appalto emergono quindi significative distorsioni nell’inquadramento delle prestazioni dedotte in contratto, catalogate in atti dalla stazione appaltante in termini di “lavori”, ancorché caratterizzate da una spiccata ed oggettiva natura di “servizi”, con conseguente alterazione dei parametri su cui è stato commisurato l’incentivo per la progettazione ai sensi dell’art. 92, co. 5, del d.lgs. 163/2006, ora abrogato dall’art. 13, co. 1, del d.l. n. 90/2014, convertito in legge n. 114 l’11.08.2014, ma vigente al tempo di indizione della gara (2009).
L’appalto consiste, infatti, in interventi di manutenzione del verde pubblico di aree comunali (villa comunale, giardini pubblici), relativamente ai quali, non è dato riscontrare un’attività che possa essere qualificata come “lavori” per come ritenuto dalla stazione appaltante.
L’attività manutentiva esclude infatti qualsiasi attività di modificazione della realtà fisica esistente, come invece è previsto per i lavori pubblici, dovendosi pertanto attribuire ad essa la natura di “servizi”.
Difatti,
l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, dunque, dall’ambito di applicazione della citata norma tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.
Sul punto vale richiamare ancora quanto affermato dall’Autorità di vigilanza nella deliberazione 14.02.2008 n. 7 secondo cui
il discrimen tra lavori di manutenzione e servizi di manutenzione va individuato nell’oggetto della prestazione: per i servizi consiste in una pluralità di interventi indeterminati, per i lavori in interventi definiti a priori, cui si collega la diversa modalità di definizione del corrispettivo, basato nel primo caso su una stima presuntiva legata al costo organizzativo ed orario della mano d’opera, nel secondo su un computo analitico dei lavori da eseguire. Pertanto, la manutenzione assume le caratteristiche di un appalto di servizi quando comporta una prestazione continuativa di facere con interventi periodici e assidui di personale specializzato; costituisce, invece, appalto di lavori quando consiste in attività di modificazione della realtà fisica esistente con utilizzazione ed installazione di materiali aggiuntivi e sostituivi non inconsistenti sul piano strutturale e funzionale”.
Ed ancora, è stato affermato che “
l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’ incentivo alla progettazione venga ripartito tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse”.
Anche il Decreto Ministero Infrastrutture 17.03.2008, n. 84 in attuazione dell'articolo 92, comma 5, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, ha specificato che gli incentivi siano riconosciuti "per le attività di progettazione di livello preliminare, definitivo ed esecutivo inerenti ai lavori pubblici, intesi come attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e ordinaria, comprese le eventuali connesse progettazioni di campagne diagnostiche, le eventuali redazioni di perizie di variante e suppletive" a condizione che i relativi progetti siano posti a base di gara (fonte: Ministero Infrastrutture).
Tutte attività palesemente non riscontrabili nell’appalto affidato dal Comune alla società Piana Palmi Multiservizi SPA.
b) Contratto di servizio di raccolta differenziata
Il comune di Palmi ha ottenuto dalla Regione Calabria un contributo per gli interventi inclusi nel Decreto n. 11028/2006 a favore dello sviluppo della raccolta differenziata, a valere sulle risorse della Misura 1.7-Azione 1.7.a del Complemento di programmazione del POR Calabria 2000-2006, sulla base del progetto predisposto dal Comune il cui quadro economico ha previsto:
- spese generali per attività di consulenza, informazione e divulgazione di euro 4.000,00;
- spese per attività di programmazione e progettazione di euro 2.500, riservate all’Ufficio nella misura massima del 2%;
- spese per l’espletamento del servizio “porta a porta”, così come previsto con appalto esterno di euro 87.172,00.
In data 25.02.2009 è stata stipulata apposita convenzione tra le parti, sottoscritta per conto del Comune dall’ing. Or.Vi.. L’art. 16 della convenzione rinvia, per quanto non specificatamente regolato, alla legislazione nazionale, regionale e comunitaria vigente in materia, in quanto applicabile.
L’appalto (peraltro rinnovato e prorogato più volte dal Comune), è stato affidato direttamente alle società Piana Ambiente e alla ATI RADI-ASED,in quanto già gestori dei servizi di raccolta differenziata del Comune di Palmi, ritenendo il progetto approvato dalla Regione rientrante tra i servizi di natura complementare previsti dall’art. 57, c. 5, d.lgs. 163/2006, rispetto al servizio principale che dette ditte svolgevano per conto del Comune, la prima per la raccolta differenziata di carta, vetro e plastica, la seconda per la raccolta dell’umido e degli ingombranti; il servizio “aggiuntivo” di raccolta differenziata è stato perciò affidato ad entrambe le società rispettivamente, alla Piana Ambiente per la quota del 30% e all’ATI per la quota del 70%; sull’importo di progetto è stata riservata all’Ufficio la somma di euro 2.500, corrisposta ai tecnici progettisti, ing. Or. e Pa., per spese di programmazione e progettazione .
Diversamente da quanto sostenuto dalle difese dei convenuti -secondo cui le somme corrisposte ai tecnici comunali sulla base degli importi dei lavori fatturati dalle ditte rientravano tra le spese ammesse al finanziamento regionale, in relazione alle quali la stessa procura regionale ha espresso talune perplessità circa la loro spettanza ai tecnici comunali- il Collegio ritiene che, nonostante la previsione nella Manifestazione di Interesse quali “spese ammissibili” di quelle relative alla programmazione e progettazione, debba comunque essere verificata la coerenza del contenuto di tali prestazioni con le regole poste dall’art. 92 del D.lgs. 163/2006.
Il riferimento al contributo regionale è stato infatti ampiamente valorizzato dalle difese dei convenuti per sostenere la tesi della spettanza dell’ incentivo alla progettazione a favore dei dipendenti dell’ente che abbiano contribuito alla redazione degli atti relativi al progetto finanziato con fondi regionali, indipendentemente dal contenuto delle prestazioni previste nell’ambito del progetto finanziato dalla regione.
Invero,
l’incentivo alla progettazione e alla programmazione deve essere intrinsecamente correlato alla realizzazione di opere e lavori pubblici che, come può evincersi dalla documentazione tecnica e amministrativo-contabile adottata dal Comune e relativa all’intervento in esame, non è ravvisabile nel caso concreto. Al riguardo basta scorrere lo scarno contenuto meramente descrittivo delle attività svolte dalle società affidatarie del servizio di raccolta “porta a porta”, per escludere i presupposti basilari per l’attribuzione di detto beneficio ai tecnici comunali.
Il Collegio ritiene che
anche per tale fattispecie valgono le considerazioni dinanzi svolte per l’incentivo erogato per i contratti relativi alla manutenzione del verde pubblico, dovendosi escludere la natura di “lavori” per le prestazioni effettuate per il “servizio aggiuntivo” di raccolta differenziata, connotato da mere operazioni, come peraltro espressamente specificato nelle determine riferite alla “raccolta della frazione organica e degli ingombranti”.
Né, sul punto, possono condividersi le perplessità formulate da parte attrice circa la previsione, nello specifico settore, dell’incentivo, tra le “spese ammissibili” della Misura 1.7-Azione 1.7.a del Complemento di programmazione del POR Calabria 2000-2006, tra le altre, “le spese per l’attività di progettazione e di supporto tecnico-amministrativo, nella misura massima del 2% dell’importo richiesto”, atteso che l’uno è il contributo regionale per il servizio in questione (comprensivo delle cd. spese ammissibili espressamente indicate nel Manifestazione pubblica d’interesse per gli interventi a favore dello sviluppo della raccolta differenziata), l’altro è l’incentivo alla progettazione e programmazione da erogarsi sempre e comunque in presenza dei presupposti e requisiti di legge (art. 92, 5 e 6 c., D.lgs. 163/2006; regolamento G.M. n. 234/2004).
Deve quindi ritenersi che la previsione, tra le spese “ammissibili”, di quelle di “progettazione e di supporto tecnico-amministrativo”, nonché di quelle “per i servizi connessi alla raccolta “porta a porta”, ivi compresi “i costi per le risorse umane impiegate”, non abbia carattere “derogatorio” ai principi posti dal Codice dei contratti in materia di incentivo alla progettazione, dovendosi correlare detto beneficio, in ogni caso, ad interventi relativi ad opere e lavori pubblici.
Nel caso concreto, con riferimento alle prestazioni oggetto dell’appalto del servizio di raccolta differenziata, “Nella Relazione tecnica illustrativa delle modalità di erogazione del servizio porta a porta" è specificato che “la qualificazione del servizio “porta a porta” presso le utenze del ns territorio, stimate in circa 7.766, avverrà con la distribuzione alle utenze stesse di contenitori o sacchi di diverso colore e capacità, contraddistinti per tipologia di materiale da raccogliere”, seguita dalla descrizione delle specifiche modalità di raccolta di ciascun tipo di materiali presi in considerazione (plastica, lattine, vetro, carta, cartone, farmaci, materiali ingombranti).
Appare evidente, quindi, l’assenza di una correlazione dell’ incentivo erogato dai convenuti ad una fase di progettazione o pianificazione riferita a opere e lavori pubblici (es. costruzione di discarica, impianti…), del tutto assenti nel Progetto predisposto dall’ing. Vi.Or. dell’UTC del Comune di Palmi (che ha sottoscritto la convenzione con la Regione Calabria); d’altra parte, il richiamo fatto dalla convenzione alla legislazione nazionale, regionale e comunitaria vigente in materia, esclude ogni ipotesi derogatoria alla disciplina generale contenuta nel d.lgs. 163/2006, nella materia che occupa.
Né, a fortiori, può avere alcuna valenza probatoria discriminante la circostanza invocata dalle difese circa la previsione dell’incentivo de quo nell’ambito di un progetto di raccolta differenziata finanziato dalla Regione Calabria, dovendosi, in concreto, valutare la coerenza dello stesso con i parametri di legge, né tanto meno alcuna giustificazione esimente può essere attribuita all’invocata proroga del contratto.
Difatti, ove si volesse accedere a dette argomentazioni difensive verrebbe avallata una condotta contraria a norme di legge e regolamento non potendosi individuare -nello specifico ambito- alcuna attività riconducibile alla categoria dei lavori e alla relativa programmazione, nel senso ampiamente precisato.
Le determine inoltre presentano un ulteriore profilo di illegittimità in ordine al criterio di determinazione dell’incentivo stesso, parametrato sui lavori fatturati dall’impresa e non già sull’importo a base d’asta dell’appalto.
Avvalorano le considerazioni e valutazioni dinanzi svolte la circostanza che le determinazioni relative alla raccolta differenziata sono state pure oggetto di revoca, in sede di autotutela, da parte dell’Amministrazione comunale.
3. Sotto il profilo soggettivo
nessun dubbio può sussistere, pertanto, in merito alla responsabilità dei convenuti per il danno patrimoniale arrecato all’Ente di appartenenza, consistente nella percezione e/o erogazione indebita dei compensi, relativamente agli appalti di servizi di manutenzione del verde pubblico e della raccolta differenziata “porta a porta, secondo quanto costantemente ritenuto dalla stessa giurisprudenza di questa Corte dei Conti in fattispecie analoghe e dalla stessa Autorità di Vigilanza (ut supra richiamate).
La documentazione acquisita al fascicolo ha consentito di accertare che i predetti responsabili del settore tecnico hanno posto in essere una condotta contraria a precisi dettati normativi e regolamentari, consistita nell’erogazione degli incentivi di progettazione per appalti di servizi e non già per l’esecuzione di lavori pubblici, compensi determinati, tra l’altro, non già sull’importo a base d’asta ma sulle singole fatture dei lavori.
Nessuna giustificazione può essere considerata da questo Collegio, tra quelle prospettate dalle difese dei convenuti, ove si consideri che -se anche si volesse prescindere dalla qualificazione dell’elemento soggettivo come dolo- si appalesano comunque particolarmente gravi le condotte tenute dagli odierni convenuti, tenuto conto della specifica professionalità di ciascuno di essi e degli incarichi da essi ricoperti nell’ambito dell’Area I^ Servizi LL.PP., situazioni che avrebbero consentito a ciascuno di essi di applicare correttamente il beneficio di che trattasi con esclusione degli appalti di servizi stipulati dal Comune di Palmi.
E’ perciò pienamente fondata anche nel quantum, secondo ciò che emerge dagli atti di causa, la richiesta di condanna del Procuratore regionale.
Questo Collegio deve pertanto ritenere gli odierni convenuti responsabili del danno sofferto dall’Ente, nella misura indicata nella domanda di euro 20.838,56.
Tale danno va ripartito in relazione agli importi da ciascuno di essi liquidati a titolo di incentivo alla progettazione, così indicati: euro 9.752,72 in capo all’ing. St. De Lu.; euro 6.894,42 in capo all’ing. Vi.Or., euro 4.191,42, in capo all’ing. An.Sc..
A tali poste di danno va aggiunta la rivalutazione monetaria a decorrere dagli effettivi pagamenti fino alla data della presente sentenza.
La condanna va estesa infine agli interessi legali da quest’ultima data e alle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte dei Conti-Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda ed eccezione respinte,
ACCOGLIE
la domanda e, per l’effetto, condanna l’ing. St. De Lu. al pagamento, in favore dell’erario, della somma di euro 9.752,72, l’ing. Vi.Or. della somma di euro 6.894,42, l’ing. An.Sc. della somma di euro 4.191,42, nonché alla rivalutazione monetaria dalla data di ciascun pagamento fino alla data di notifica della presente sentenza e agli interessi legali a far tempo da tale data e fino al soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria, sentenza 01.04.2016 n. 67).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATAOSSERVATORIO VIMINALE/ Oneri, palla al consiglio. Competenza frutto di coerenza sistematica. URBANIZZAZIONE/ L'organo per la determinazione/adeguamento.
Qual è l'organo competente alla determinazione/adeguamento degli oneri di urbanizzazione?

L'art. 42 del decreto legislativo n. 267/2000 stabilisce che il consiglio è l'organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo, a cui sono attribuite una serie di competenze elencate in dettaglio nella stessa disposizione normativa.
In particolare, la lettera b) prevede in linea generale la competenza del consiglio in materia di programmi, bilanci, piani territoriali ed urbanistici ecc., mentre la lett. f) assegna a tale organo competenze in materia di istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote e la disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi.
La giunta comunale, a cui sono assegnate funzioni di tipo esecutivo–attuativo, in base al successivo art. 48, comma 2, compie tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o degli organi di decentramento; collabora con il sindaco nell'attuazione degli indirizzi generali del consiglio; riferisce annualmente al consiglio sulla propria attività e svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso.
Circa il caso di specie, il dpr 06.06.2001, n. 380, all'art. 16, comma 4, prevede espressamente che l'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione a una serie di parametri ivi indicati. Il comma 5 del citato art. 16 stabilisce, altresì, che nel caso di mancata definizione delle tabelle parametriche da parte della regione e fino alla definizione delle tabelle stesse, i comuni provvedono, in via provvisoria, sempre con deliberazione del consiglio comunale secondo i parametri di cui al comma 4, fermo restando quanto previsto dal comma 4-bis.
È evidente, pertanto, che la competenza a determinare gli oneri di urbanizzazione ricade esclusivamente sul consiglio comunale. Riguardo agli aggiornamenti degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, il comma 6 del medesimo art. 16 del dpr 06.06.2001, n. 380, si limita a stabilire che i «comuni» provvedono ogni cinque anni, in conformità alle relative disposizioni regionali, in relazione ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale.
Il Consiglio di stato, con sentenza n. 7140/05 del 15/12/2005, ha affermato che il contributo per il rilascio del permesso di costruire imposto dall'art. 16 del dpr 06.06.2001, n. 380, commisurato agli oneri di urbanizzazione, ha carattere generale perché prescinde totalmente dall'esistenza o meno delle singole opere di urbanizzazione e ha natura di prestazione patrimoniale imposta. Lo stesso Consesso ha citato altresì, per la natura tributaria di tale prestazione, la decisione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana 05.05.1999, n. 203.
Pertanto, benché la giurisprudenza non risulti sempre univoca nell'individuare l'organo a cui compete l'adozione della deliberazione di adeguamento degli oneri urbanistici, indipendentemente dalla effettiva natura della prestazione (patrimoniale o tributaria) la competenza non può che essere ricondotta al consiglio comunale. Infatti, l'articolo 42 del Tuoel affida al consiglio la competenza in ordine a tributi e tariffe ed esercita l'ipotetica discrezionalità, laddove venga riconosciuta dalla legge, che non può essere demandata a un organo esecutivo quale la giunta.
Nel caso specifico, la competenza all'aggiornamento degli oneri di urbanizzazione dovrebbe, comunque, essere ricondotta al consiglio anche per coerenza sistematica alle varie disposizioni contenute nell'articolo 16 del dpr n. 380/2001 che al comma 4 e al comma 5 affidano al consiglio comunale il compito di determinarne l'incidenza (articolo ItaliaOggi del 19.08.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Statuto a maggioranza. Quorum funzionale e strutturale coincidono. In commissione i consiglieri devono rappresentare la metà più uno dei voti.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute della commissione regolamenti e statuto?
Nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie, previste per legge (vedi commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come le c.d. commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del Tuel n. 267/00); in entrambi i casi, la rispettiva composizione e il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali.
Nella fattispecie in esame il regolamento comunale individua il quorum funzionale stabilendo che la commissione regolamenti e statuto è composta da un rappresentante per ogni gruppo consiliare, con diritto di voto di rappresentanza pari al numero dei consiglieri rappresentati.
L'assenza di una specifica indicazione in ordine al quorum per considerare valida la seduta potrebbe far ritenere applicabile la disposizione regolamentare che richiede, per la validità delle sedute delle commissioni permanenti, la presenza della maggioranza assoluta dei componenti.
In merito, posto che l'art. 38, comma 6, del Tuel dà facoltà ai consigli comunali di recepire, in sede statutaria, la possibilità di avvalersi di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale, nel caso specifico la commissione regolamenti e statuto costituisce un terzo genere rispetto alle commissioni permanenti e alle commissioni speciali previste dallo statuto. Il regolamento, invece, ha disciplinato le commissioni permanenti e le commissioni speciali istituendo, altresì, la commissione regolamenti e statuto.
In particolare il regolamento comunale, disciplinando le sedute, il numero legale e la votazione, prevede che «le sedute delle commissioni permanenti sono valide con la maggioranza assoluta dei componenti».
Essendo la norma, indirizzata in forma specifica alle commissioni permanenti, appaiono applicabili alla commissione regolamenti e statuto, proprio per le sue caratteristiche, le disposizioni relative alle commissioni speciali.
In particolare, lo statuto prevede, nell'ambito delle commissioni speciali, la rappresentanza di tutti i gruppi consiliari e l'espressione del voto di ogni singolo componente con valore proporzionale ai consiglieri rappresentati in consiglio comunale, ma non fornisce indicazioni in ordine al quorum strutturale, rinviando ad altra disposizione statutaria la disciplina delle modalità di costituzione e funzionamento.
Anche il regolamento riguardo alle commissioni speciali non fornisce indicazioni in ordine alla formazione del quorum strutturale, stabilendo, invece, come per le commissioni speciali il voto di rappresentanza pari al numero dei consiglieri componenti il gruppo rappresentato.
Laddove si procede alla costituzione di organi collegiali con modalità ponderali, in assenza di disposizioni che stabiliscano maggioranze speciali o qualificate, il quorum funzionale deve essere generalmente individuato nella maggioranza (metà più uno) dei voti possibili.
Quindi, nel caso di specie, anche riguardo alla commissione regolamenti e statuto, qualora i consiglieri presenti siano in grado di esprimere la maggioranza dei voti necessari, non può non farsi coincidere il quorum funzionale con il quorum strutturale.
Infatti, l'eventuale assenza dei rappresentanti della minoranza, numericamente superiori ai rappresentanti della maggioranza, ma con un peso di rappresentatività minore, potrebbe bloccare i lavori della commissione pur essendo la maggioranza potenzialmente in grado di esprimere il quorum funzionale (articolo ItaliaOggi del 12.08.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. In caso di contrasto con il regolamento. Cosa accade se le due fonti dicono cose diverse sul computo dei consiglieri.
In caso di contrasto tra previsione statutaria e normativa regolamentare, quale disposizione deve essere applicata al fine di computare il numero di consiglieri necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale riunito in seconda convocazione?

Nella fattispecie in esame, in materia di quorum strutturale per la validità delle sedute del consiglio comunale, il regolamento di organizzazione e funzionamento del consiglio comunale prevede che le sedute consiliari, convocate in seconda convocazione, siano valide con la presenza di almeno 14 consiglieri. Ai sensi della normativa statutaria è previsto, invece, che le medesime sedute siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati, escluso il sindaco.
Tale discrasia si è verificata a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 148/2011 che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una riduzione da 40 a 32 del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica dell'ente locale.
In merito, l'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie, seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011) la citata disposizione regolamentare dovrebbe essere disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, evidente la necessità di comporre tale discrasia attraverso un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle richiamate fonti di autonomia locale (articolo ItaliaOggi del 05.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso analisi acqua potabile.
Il signor …. premesso:
- di aver chiesto all’ente che esegue prelievi ed analisi dell’acqua potabile del suo comune, di avere accesso ai risultati di dette analisi;
- di aver ricevuto dall’ente la risposta di aver svolto tale servizio su incarico del comune e pertanto quest’ultimo doveva ritenersi il proprietario dei certificati analitici, con la conseguenza che la richiesta andava rivolta al Comune;
- di aver pertanto inoltrato la medesima richiesta su descritta al Comune, ricevendo la seguente risposta: “il diritto di accesso ai documenti amministrativi può essere esercitato solo quando è concreta ed attuale l’esigenza dell’interessato di tutelare situazioni per lui giuridicamente rilevanti, altrimenti non si sarebbe più di fronte ad un diritto all’informazione, bensì ad una mera esigenza di curiosità che non potrebbe essere in alcun modo soddisfatta, non corrispondendo ai principi costituzionali cui deve attenersi l’azione amministrativa”,
chiede alla Commissione un parere su detta risposta.
Al riguardo la Commissione osserva che nel caso in cui l'istante sia un cittadino residente nel Comune, il diritto di accesso non è soggetto alla disciplina dettata dalla legge n. 241/1990 -che richiede la titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto- bensì alla speciale disciplina di cui all'art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), che sancisce, espressamente ed in linea generale, il principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto dei cittadini di accedere agli atti ed alle informazioni in possesso delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della necessità di dichiarare la sussistenza di tale situazione al fine di poter valutare la legittimazione all'accesso del richiedente.
Il cittadino residente può accedere a tutti gli atti amministrativi dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento alla sussistenza di un interesse personale e concreto e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oneri economici connessi all’esercizio dell’accesso.
La richiedente, cittadina del comune di …, formula istanza di parere alla Commissione sulla legittimità della delibera comunale con la quale si aumenta il costo per l’accesso, fissandolo in euro 25,00 quale corrispettivo fisso dei diritti per l’accesso agli atti inerenti l’urbanistica privata oltre agli oneri di riproduzione fotostatica.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
Nella delibera si fa riferimento genericamente ai diritti per ogni singola istanza relativa al singolo fascicolo edilizio (oltre al costo di ogni singola riproduzione). Va pertanto in primo luogo precisato che, verosimilmente, tali diritti riguardano la ricerca dei documenti e/o l’istruttoria della pratica.
Al riguardo l’articolo 25 della legge n. 241/1990 (valevole anche per gli enti locali) prevede testualmente che “Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
Ne consegue che
se è legittimo fissare un costo per il rimborso delle spese di riproduzione e per i diritti di ricerca e visura, tali somme devono essere individuate in una misura adeguata e proporzionate all’attività svolta in modo da non diventare un limite irragionevole all’esercizio del diritto di accesso.
L’importo fissato in via predeterminata e fissa in quanto “sganciato” dall’attività compiuta non appare coerente con tale finalità
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso agli atti di gara da parte di assessore comunale.
Il responsabile del settore servizi alla persona del Comune di ... formula richiesta di parere alla Commissione in merito alla possibilità da parte di un assessore del comune di avere copia della documentazione, riguardante gli “affiliati” alla società, prodotta da un partecipante (società sportiva dilettantistica) alla gara di appalto bandita dal Comune per la gestione delle palestre comunali.
La Commissione osserva quanto segue:
- nella richiesta si individua il soggetto istante come assessore, non risulta che esso sia anche consigliere comunale.
Ne consegue che non è applicabile la disciplina sull’accesso del consigliere comunale previsto nell’articolo 43, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000, in termini estremamente ampi in quanto connesso all’esercizio del suo munus in tutte le potenzialità ed implicazioni per una compiuta valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’amministrazione comunale, ma, quella meno “ampia” dell’accesso del privato cittadino e quindi previa notifica ai controinteressati.
Tuttavia,
nel caso di specie, pervenendo la richiesta di documentazione, non già dal cittadino a titolo personale, ma dall’assessore comunale nell’esercizio della sua funzione, si deve ritenere applicabile il principio di leale cooperazione istituzionale tra soggetti pubblici di cui all’art. 22, comma 5, della legge n. 241 del 1990  
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIEsercizio del diritto di accesso di un consigliere comunale.
Il Sindaco del Comune di ... chiede un parere alla Commissione in relazione alla richiesta di accesso presentata da un consigliere comunale ai sensi dell’articolo 43 del d.lgs. n. 267/2000 e tendente ad ottenere visione e ad estrarre copia degli estratti conto dei conti correnti bancari intestati alla società pubblica ... s.r.l., partecipata dal Comune, per il periodo 01.01.2010/30.06.2014.
Il parere viene richiesto in relazione a specifici profili della cui legittimità si dubita e riguardanti l’oggetto della richieste sopra indicate e, più in generale, l’ampiezza e le modalità di esercizio del diritto di accesso da parte del consigliere comunale, in particolare si lamenta:
il carattere generico ed indeterminato della stessa, in quanto riguardante un’intera categoria di atti ed il rilascio di una documentazione molto “corposa”;
l’ingente numero delle richieste di accesso avanzate dallo stesso consigliere (oltre 20 in meno di due mesi), in relazione alla struttura del Comune con una popolazione di meno di 3000 abitanti ed al numero dei dipendenti addetti (10), con conseguente rischio di paralisi dell’attività amministrativa comunale. Al riguardo si sottolinea il rischio di un abuso del diritto all’informazione, ovvero di un uso dello stesso per finalità meramente emulative, irragionevoli e sproporzionate e quindi tali da deviare il corretto funzionamento del comune;
la correttezza della richiesta contenente al suo interno il termine perentorio ultimativo di 7 giorni per la risposta, prescindendo dalla complessità della richiesta stessa e minacciando “inutilmente” azioni penali, atteso che il comune “rispetta usualmente il termine di sette giorni fissato nel regolamento comunale”.
Il Consigliere comunale, dal canto suo, allega una nota nella quale lamenta le difficoltà connesse all’esercizio effettivo del proprio diritto di accesso, in particolare ad accedere ad atti e documenti riguardanti società partecipate dal comune.
In merito ai quesiti posti la Commissione osserva quanto segue:
   1) la richiesta ha ad oggetto i conti correnti bancari intestati ad una società a capitale prevalentemente pubblico: tale documentazione, pertanto, in quanto volta a dare dimostrazione dell’attività economica svolta da detta società va qualificata di interesse pubblico e come tale è soggetta alla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi;
   2) nella specie si tratta del diritto di accesso dei consiglieri comunali disciplinato dall’articolo 43 del d.lgs. n. 267/2000 il cui ambito è molto esteso (e più ampio rispetto a quello riconosciuto al privato cittadino dalla legge n. 241/1990), in quanto può essere esercitato nei confronti di qualsiasi notizia od informazione utile per l’espletamento del mandato ai fini del controllo sulla correttezza e sull’operato dell’amministrazione comunale, senza che sia necessario specificare i motivi della richiesta o che comunque sussista un legame fra la richiesta e le competenze amministrative dell’organo collegiale.
Ciò posto è evidente la strumentalità della richiesta ai fini di un controllo sull’attività della società e sull’utilizzo di denaro pubblico;
   3) sui limiti dell’esercizio dell’accesso ai fini del suo contemperamento con le esigenze organizzative e del personale del comune,
appare congrua la previsione contenuta nel regolamento comunale, ai sensi della quale è possibile il differimento dell’accesso ad altro giorno non eccedente il quinto.
Tale previsione può trovare applicazione anche nel caso di specie, tenuto conto dell’ampiezza del lasso di tempo di cui si chiede la documentazione, che viene tuttavia identificata nei suoi elementi essenziali (oggetto della stessa e soggetto al quale si riferisce), di tal essa non sembra potersi qualificare come indeterminata
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOAccesso agli atti di una procedura di selezione per contratto a tempo indeterminato presso l’Agenzia del Demanio.
L’istante premesso:
- di aver partecipato per l’anno 2013 a n. 2 procedure di selezione a tempo indeterminato per personale amministrativo presso l’Agenzia del demanio;
- di aver presentato all’Agenzia del demanio richiesta di accesso al fine di tutelare le proprie posizioni soggettive, riguardante una serie di documenti;
- di aver avuto accesso solo a parte dei documenti.
Formula i seguenti quesiti alla Commissione, riguardanti la legittimità o meno della motivazione per la quale si è negato l’accesso di alcuni documenti; in particolare sui seguenti aspetti:
- se i dati degli altri candidati “relativi a domicilio, residenza, recapiti telefonici ed indirizzi e mail contenuti nei curricula vitae degli stessi” siano documenti accessibili ai sensi della legge n. 241/1990;
- come debba essere risolto il conflitto tra il dovere di riserbo dell’Agenzia del demanio sui documenti coperti dal diritto di autore ed il suo diritto di valutare la legittimità dell’operato dell’Ente e quindi di tutelare e difendere i propri interessi.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue:
- in relazione al primo aspetto,
non sembra essere prevalente la tutela della riservatezza dei concorrenti, dal momento che questi ultimi prendendo parte alla selezione pubblica hanno implicitamente accettato che i loro dati personali esposti nei documenti riguardanti la procedura di selezione, potessero essere resi conoscibili da tutti gli altri concorrenti a ciò interessati (quale è senz’altro l’istante, in qualità di concorrente non utilmente collocata in graduatoria);
- in relazione al secondo aspetto,
va considerato prevalente l’interesse diretto, concreto ed attuale della richiedente ai fini della valutazione della legittimità ed attendibilità delle operazioni di selezione rispetto a quello del diritto di autore della società che ha redatto i test che è tutelato solo ai fini della riservatezza in via residuale dalla normativa in materia
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.12.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOAccesso a documentazione di procedimenti disciplinare - parere.
Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca premesso che:
- è stata formulata una richiesta di accesso agli atti da parte del dipendente, per la quale risultano ampiamente decorsi, tanto il termine entro cui l’amministrazione avrebbe dovuto rispondere, tanto quello entro il quale l’interessato avrebbe dovuto impugnare il silenzio davanti al TAR, ovvero davanti a questa Commissione;
- che la richiesta aveva ad oggetto il diritto del dipendente ad accedere agli atti del procedimento disciplinare avviato nei confronti di una collega in conseguenza di un suo esposto;
- che a fondamento della richiesta il dipendente richiamava la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 2006, senza tuttavia specificare, nonostante puntuale richiesta in tal senso da parte dell’Amministrazione, il suo interesse diretto concreto ed attuale ad acquisire i documenti richiesti;
- che la controinteressata nell’opporsi all’accesso agli atti, aveva informato l’Amministrazione della pendenza di un procedimento penale a suo carico, avente un oggetto coincidente con quello del disciplinare.
Ritenuta la questione di interesse generale formula a questa Commissione richiesta di parere in merito all’esistenza in capo al dipendente del diritto a conoscere gli atti del procedimento disciplinare avviato in conseguenza di un esposto dallo stesso presentato.
Come osservato dall’amministrazione richiedente la situazione da cui trae origine il presente quesito, coincide con quella presa in esame nella decisione n. 7 del 2006 che ha così ritenuto “la qualità di autore di un esposto, al quale abbia fatto seguito un procedimento disciplinare, a carico di terzi, è circostanza idonea, unitamente ad altri elementi, a radicare nell’autore medesimo la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante, che ai sensi dell’art. 22 della L. n. 241/1990 legittima l’accesso nei confronti degli atti del procedimento disciplinare (coinvolgente terzi) che dall’esposto ha tratto origine”.
In particolare poi, più recentemente, il Consiglio di Stato nella decisione n. 3742 del 22.06.2011, ha precisato che “ove risulti un suo personale interesse il denunciante ha senz’altro titolo ad avere copia dell’atto disciplinare emesso dall’amministrazione, a seguito dell’esposto da lui presentato […] anche se si tratti dell’atto di archiviazione del procedimento”.
Emerge dunque con chiarezza da queste e da altre pronunce del supremo organo amministrativo (da ultimo, si veda Consiglio di Stato, decisione n. 31621 del 2013) che la sola qualità di autore di un esposto che abbia dato luogo ad un procedimento disciplinare, non costituisce di per sé circostanza idonea a radicare in capo all’autore la titolarità della situazione giuridicamente rilevante cui fa riferimento l’art. 22, L. n. 241/1990, in assenza di una prova sulla natura diretta, concreta ed attuale dell’interesse ad accedere agli atti per i quali è formalizzata la richiesta di accesso.
Nella specie, l’istante, nonostante esplicito invito in tale senso da parte della amministrazione, non ha indicato elementi ulteriori idonei a radicare un suo interesse all’accesso corrispondente ai canoni del citato articolo 22, manifestando ad esempio l’intenzione di volersi costituire parte civile nel processo penale iniziato per gli stessi fatti, ovvero di iniziare un processo civile in caso di condanna in sede disciplinare.
D’altro canto, questa Commissione non è a conoscenza dei fatti posti a fondamento dell’azione disciplinare e quindi non è in grado di apprezzare né i rapporti intercorrenti fra il denunciante e la denunciata, né, le possibili conseguenze in caso di accertamento (o di non accertamento) di una responsabilità disciplinare per il richiedente l’accesso.
Infine, può altresì osservarsi che quest’ultimo non può reputarsi titolare di un diritto all’accesso ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 241/1990, attesa l’estraneità dell’autore dell’esposto al procedimento disciplinare e la sua conseguente qualità di terzo rispetto al medesimo.
Ne consegue che il parere di questa Commissione sulla questione di cui sopra è il seguente:
la qualità di autore di un esposto non è di per sé sufficiente a radicare in capo all’istante la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante che, ai sensi dell’articolo 22 della legge n. 241/1990 legittima l’accesso nei confronti degli atti disciplinari che da quell’esposto hanno tratto origine.
E’ necessario, infatti, individuare ulteriori elementi idonei a configurare in capo all’istante un interesse con le caratteristiche indicate dal predetto articolo 22, elementi che vanno apprezzati alla luce delle circostanze specifiche del caso concreto
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso agli atti ai sensi della legge 07.08.1990 n. 241 e successive modifiche. Richiesta di parere.
Il Capo di Gabinetto del Ministero … premesso:
- che la senatrice ... aveva formulato richiesta per l’acquisizione di una lettera del Ministro indirizzata al segretario generale del Ministero, contenente richiesta di valutazioni per la migliore tutela del complesso monumentale “Palazzo …”, all’esito di un contenzioso amministrativo conclusosi sfavorevolmente per l’amministrazione,
osservato che:
- l’atto richiesto non rivestirebbe la natura di documento amministrativo e che l’istante, quale Senatrice, avrebbe la facoltà di avvalersi degli strumenti di sindacato ispettivo al fine di acquisire elementi informativi sull’attività del Ministero, formula il seguente quesito alla Commissione:
- se sia legittimo un eventuale diniego dell’Amministrazione in relazione alla richiesta di accesso in questione anche in relazione al principio di leale cooperazione sancito dall’articolo 22, comma 5, della legge 07.08.1990, n. 241.
La Commissione osserva che la disciplina in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosce tale diritto a chiunque vanti un interesse "per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti" (art. 22, comma 1, della l. n. 241/1990) e prescrive che il soggetto istante debba motivare la richiesta di accesso "specificando e ove occorra comprovando l'interesse connesso all'oggetto della sua istanza" (art. 25, comma 2 della predetta legge e art. 3, comma 2, d.P.R. n. 352/1990).
E' infatti proprio la titolarità di un interesse personale, concreto ed attuale specificato nella istanza, a qualificare la posizione legittimante all'accesso. Nella specie invece l’istante si limita a fare valere la sua qualità di Senatrice senza addurre alcun elemento ulteriore che possa consentire all’Amministrazione di valutare la sussistenza di un interesse, con le caratteristiche di cui sopra, in relazione alla nota oggetto della richiesta. D’altro canto nel nostro ordinamento, ad eccezione dei consiglieri comunali e provinciali, non si rinviene alcun’altra norma volta ad attribuire una speciale legittimazione all'accesso in relazione allo status del soggetto, derivante dall'appartenenza ad una particolare categoria od organo oppure derivante dallo svolgimento di determinate funzioni.
Ne consegue l'assoggettamento anche dei componenti del Parlamento alla disciplina generale del diritto di accesso e, quindi, la configurabilità in capo ad ogni singolo parlamentare di un interesse generico ed indifferenziato in quanto riconducibile alla generalità dei consociati. D’altro canto, come ben dedotto nella richiesta, al fine di esercitare il controllo del Parlamento sull'attività amministrativa del Governo l'ordinamento prevede altri e più specifici mezzi d'indagine quali: gli strumenti dell'interrogazione (artt. 128 e ss. del Reg. Cam., 145 e ss. Reg. Sen.), dell'interpellanza (artt.136 e ss. del Reg. Cam., 154 e ss. Reg. Sen.) e delle inchieste di cui all'art. 82 della Costituzione, strumenti che, tuttavia, non hanno carattere coattivo, come emerge dall’art. 131 Reg. Cam. ai sensi del quale il Governo può dichiarare di non poter rispondere, indicandone il motivo.
In relazione all’ulteriore profilo riguardante la qualificazione dell’atto come documento amministrativo va richiamato l’articolo 22 della legge 241/1990 (il quale testualmente recita “è documento amministrativo ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”).
Alla luce di tale definizione la richiesta in oggetto in quanto riguardante attività di pubblico interesse può qualificarsi come atto amministrativo.
Alla luce delle argomentazioni
si ritiene che l’Amministrazione debba richiedere alla Senatrice di precisare i motivi dell'istanza di accesso ed all’esito decidere circa il suo accoglimento o rigetto
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOTutela della riservatezza e dell’anonimato - accesso ed esposto nell’ambito del procedimento disciplinare.
Il Dirigente del Compartimento della polizia stradale… premesso:
- di aver ricevuto un’istanza di accesso agli atti nell’ambito di un procedimento disciplinare scaturito da un esposto all’Autorità giudiziaria di un dipendente, avente ad oggetto il mancato recupero di tre ore di permesso orario fruito da altro dipendente, esposto sfociato in un procedimento penale poi archiviato;
- che, in seguito al decreto di archiviazione erano iniziati procedimenti disciplinari a carico di entrambi i dipendenti,
osservato:
- che la giurisprudenza in casi siffatti ha sempre ritenuto prevalente il diritto all’accesso agli atti e quindi alla difesa, rispetto a quello della tutela alla riservatezza; che tuttavia nella fattispecie sorge la necessità di verificare se tale orientamento possa essere confermato alla luce del recente intervento normativo contenuto nell’articolo 54-bis del d.lgs. n. 165/2001, il quale sancisce la non punibilità ed il diritto all’anonimato del dipendente che segnala illeciti stabilendo espressamente, al comma 4 che “la denuncia è sottratta all’accesso previsto dagli artt. 22 e ssgg della legge n. 241/1990”, formula il seguente quesito alla Commissione:
- se alla luce della giurisprudenza e della normativa da ultimo intervenuta deve consentirsi in tale situazione accesso all’esposto in versione integrale ovvero previa apposizione di appositi “Omissis” a tutela della riservatezza del segnalante al fine di garantire i diritti di entrambi i dipendenti senza venir meno agli obblighi di trasparenza e di correttezza.
La Commissione reputa che nella fattispecie sia prevalente, in quanto norma speciale, il disposto dell’articolo 54-bis ai sensi del quale l’identità del segnalante nell’ambito del procedimento disciplinare non può essere rivelata senza il suo consenso e dunque l’identità è sottratta all’accesso. L’identità potrà essere rivelata solo ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

EDILIZIA PRIVATAAccesso alla SCIA del confinante.
Il Sig. … premesso:
- di avere presentato richiesta di accesso agli atti con visione immediata di una SCIA al comune di ...;
- di avere motivato l’istanza sulla sua qualità di confinante e sulla necessità di poter verificare la legittimità delle opere edilizie del vicino e, quindi, di poter tutelare propri interessi anche in sede legale, attraverso una eventuale richiesta di interruzione dei lavori;
- di aver ricevuto una risposta negativa da parte del Comune “condizionando la stessa alla successiva comunicazione e determinazione del controinteressato”.
osservato che:
- Il perdurante ritardo nella decisione sull’accesso da parte del Comune consente al vicino di concludere i lavori, verosimilmente illegittimi, rendendo difficile l’eventuale rispristino dello stato dei luoghi, chiede:
- alla Commissione se la condotta del Comune su descritta sia legittima e quindi se nella fattispecie sussista o meno il suo diritto all’accesso immediato alla SCIA.
La Commissione osserva:
- che
va riconosciuto in capo all’istante un interesse diretto, concreto ed attuale ad accedere alla SCIA in qualità di confinante, trattandosi di un atto la cui conoscenza è necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
L’opposizione del controinteressato, pur conseguenza di un passaggio necessario (quale è quello della notifica della richiesta a coloro che rivestono tale qualifica come definita dall’articolo 22, comma 1, lettera c), della legge 241/1990 e dall’articolo 3 del D.P.R n. 184 del 2006) non può essere posta a fondamento unico del diniego di accesso, in quanto la normativa in materia di accesso agli atti, lungi dal rendere i controinteressati arbitri assoluti delle richieste che li riguardino, rimette sempre all'amministrazione destinataria della richiesta di accesso il potere di valutare la fondatezza della richiesta stessa, anche in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai controinteressati (in tal senso TAR Sicilia Catania, sez. IV, 20.07.2007, n. 1277)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALILimiti del diritto di accesso dei consiglieri comunali ai sensi dell’articolo 43, comma 2, del D.lgs. n. 267 del 2000.
Il Segretario Generale del Comune di … chiede alla Commissione per l’accesso un parere circa i limiti entro i quali è possibile esercitare il diritto di accesso di all’articolo 43, c. 2, del Dlgs. n. 267 del 2000.
In particolare lo stesso Segretario Generale specifica che l’Amministrazione comunale ha ricevuto una richiesta d’accesso agli atti da parte di un consigliere comunale di opposizione, volta ad ottenere informazione circa l’elenco delle imprese con o senza personalità giuridica operanti nel territorio cittadino, la cui posizione risulti essere debitoria, nei confronti dell’amministrazione comunale, relativamente alle imposte IMU, ICI, TARES, TOSAP ed imposta sulla pubblicità e le pubbliche affissioni, con riferimento alle annualità ricomprese tra il 2007 ed il 2013.
L’amministrazione istante -nel chiedere alla Commissione per l’accesso se la richiesta del consigliere di minoranza di cui sopra sia o meno compatibile con i principi di proporzionalità e ragionevolezza, così come definiti ed applicati dal Consiglio di Stato (Cons. di stato n. 846/2013)- afferma che, per far fronte alla richiesta, sarebbe opportuno un impegno di mezzi e personale tali da paralizzare l’operato di diversi uffici comunali, anche in riferimento al numero di annualità cui fa riferimento l’istanza d’accesso.
Afferma, inoltre, l’amministrazione comunale che “l’omissione di qualsivoglia motivazione che giustifichi l’accesso impedisce di valutare l’esistenza di mezzi alternativi per il raggiungimento dei fini perseguiti dal Consigliere comunale.”
Preliminarmente, questa Commissione ritiene opportuno rammentare che l’art. 43 del TUEL riconosce ai consiglieri comunali un diritto pieno e non comprimibile “all’informazione”.
In particolare, nella scia di una ormai consolidata giurisprudenza del Giudice amministrativo, la Commissione ha avuto più volte occasione di affermare che il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali sono specificamente disciplinati dall’art. 43 del d.lgs. 267/2000 (T.U. Enti locali) che riconosce loro (e ai consiglieri provinciali) il diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e tutte le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato. Si tratta, all’evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10 T.U. Enti locali) o, più in generale, nei confronti della P.A., disciplinato dalla legge n. 241 del 1990.
Tale maggiore ampiezza trova la propria giustificazione nel particolare “munus” espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata, soprattutto se, come nel caso di specie, il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza.
Tuttavia, il diritto di accesso del consigliere comunale non ha carattere generalizzato ed indiscriminato in quanto vanno rispettate alcune forme e modalità di esercizio, tra cui la necessità che l’interessato alleghi la sua qualità di consigliere comunale, posto che l’accesso è funzionale ad acquisire notizie ed informazioni connesse all'esercizio del proprio munus ed è attribuito al fine di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l’acquisizione delle notizie in possesso dell’ente locale, una compiuta valutazione della correttezza e dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale.
Comunque, occorre valutare di volta in volta se le istanze di accesso siano irragionevoli, sproporzionate e come tali se abbiano o meno aggravato gli uffici pregiudicandone la funzionalità. In questi ristretti limiti, la declaratoria di principio dell’inammissibilità di un “accesso indiscriminato e generalizzato” di per sé non costituisce un limite alle prerogative del consigliere.
Si segnala altresì che la fattispecie normativa delineata dall'art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000 non pare compatibile con l’obiezione, opposta nel caso di specie da codesto Ente comunale, della mancata motivazione della richiesta d’accesso, in quanto ciò appare contrastante con l’ampiezza del diritto soggettivo pubblico riconosciuto ai consiglieri comunali, di fronte al quale recede ogni altro interesse. La richiesta di motivazione appare quindi illegittima in quanto volta a costituire un ingiustificato limite all’accesso.
In particolare, si osserva che il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni e documenti, perché, altrimenti, la P.A. si ergerebbe impropriamente ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi, con la conseguenza che gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazione e le modalità di esercizio della funzione esercitata dal consigliere comunale (in tal senso la Commissione si è già espressa, tra gli altri, con parere del 29.11.2011).
Inoltre, si rammenta che, seppur anche le richieste di accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare il limite di carattere generale –valido per qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non genericità della richiesta medesima (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), non è generica l’istanza relativa all’accesso agli atti inerenti specifiche pratiche o problematiche, qualora, come appunto risulta essere avvenuto nel caso di specie, nell’istanza siano indicati gli elementi necessari e sufficienti alla puntuale identificazione dei documenti richiesti e delle informazioni richieste.
Infine, si rammenta che il contemperamento tra esigenze di accesso e funzionalità degli uffici non può mai tradursi in limitazioni o impedimenti di fatto dell’esercizio pieno del diritto d’accesso del consigliere comunale.
Infatti, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che il diritto di accesso del consigliere comunale non può subire compressioni di sorta per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità sia organizzativa che economica per gli uffici comunali) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente (cfr., fra le molte, Cons. Stato, sez. V, 22.05.2007 n. 929).
Rientra, quindi, nelle facoltà del responsabile del procedimento, la possibilità di dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l’esigenza di assicurare il normale funzionamento dell’attività ordinaria degli uffici comunali, ma giammai potrà essere negato l’accesso.
Pertanto,
non può mai essere giustificato un diniego di accesso con l'impossibilità di rilasciare l'eccessiva documentazione richiesta, in quanto è comunque obbligo dell'amministrazione di dotarsi di un apparato burocratico in grado di soddisfare gli adempimenti di propria competenza (cfr. TAR Veneto Venezia Sez. I Sent., 15.02.2008, n. 385).
Proprio al fine di evitare che le richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell’ordinaria attività amministrativa dell’ente locale, la Commissione per l’accesso ha sempre riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell’ente attraverso l’uso di password di servizio e, più recentemente, anche attraverso l’accesso del Consigliere comunale al protocollo informatico (vedi in tal senso, tra gli altri, i pareri della Commissione del 06.04.2011 e del 17.01.2013)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 28.10.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Possibilità di derogare all’obbligo di preventiva informativa all’interessato per l’accesso ai documenti amministrativi.
Il Sig. … premesso che il figlio aveva ricevuto dalla moglie, tramite il suo legale, lettera di separazione consensuale e che trovandosi attualmente nella fase negoziale aveva necessità di richiedere all’INPS i seguenti documenti relativi alla posizione della moglie:
- estratto conto previdenziale;
- periodi indennizzati dall’INPS;
- attuale tipo di lavoro Part Time/Full Time;
- attuale contratto se a tempo determinato (con la data della scadenza) o a tempo indeterminato;
- ultima retribuzione mensile,
formula il seguente quesito alla Commissione: se è consentito all’INPS fornire questi dati in deroga all’obbligo di preventiva informativa all’interessato, precisando che l’assenza di comunicazione costituisce condizione irrinunciabile per l’accesso.
Al riguardo la Commissione rileva che nella fattispecie è applicabile l’articolo 3 del d.p.r. 184/1996 il cui dettato è chiarissimo “1. Fermo quanto previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione. I soggetti controinteressati sono individuati tenuto anche conto del contenuto degli atti connessi, di cui all'articolo 7, comma 2.
Ai sensi dell’articolo 22 della legge n. 241/1990 sono "controinteressati", tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza: tale è senza dubbio la moglie del figlio dell’istante atteso che i documenti si riferiscono alla posizione previdenziale della stessa.
Alla fattispecie non si reputano applicabili le invocate disposizioni di cui all’articolo 13, comma 5, lettera b), e 26, comma 4, lettera c), del decreto legislativo n. 196/2003, atteso che esse operano nell’ambito delle indagini difensive e dunque in un contesto diverso da quello di cui alla fattispecie caratterizzato, soggettivamente, dalla richiesta di un soggetto diverso da un difensore munito di mandato e, oggettivamente, da un fase “negoziale”, e non da un giudizio penale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 02.10.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALILimiti al diritto di accesso del consigliere comunale.
La dott.ssa…, consigliere del comune di … lamenta che alcune previsioni degli articoli del regolamento del Comune di …, siano lesive del proprio diritto di informazione ed accesso, chiede pertanto un parere a questa Commissione sulla legittimità delle disposizioni successivamente indicate del regolamento comunale.
In via preliminare, la Commissione osserva che: il regolamento comunale, come dichiarato dalla stessa istante, non è stato a suo tempo trasmesso a questa Commissione, in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 11, comma 3, del d.P.R. 12.04.2006. n. 184.
Si segnala pertanto l’esigenza che a ciò si provveda; questa Commissione non ha il potere di annullare le determinazioni contenute nel regolamento che reputi illegittime, ma può soltanto formulare considerazioni al riguardo, rimanendo nella autonoma valutazione del Consiglio comunale eventuali modifiche del regolamento.
Nel merito la Commissione formula alcune considerazioni: - in relazione al comma 3 dell’articolo 16 (diritto di informazione e di accesso agli atti amministrativi) l’istante censura l’introduzione dei seguenti limiti alle modalità di esercizio del suo diritto di accesso:
   a) limite temporale: settimanale (due giorni alla settimana, fissato e comunicato dal Segretario comunale) ed orario (due ore per ogni giorno);
   b) limite “procedurale”: obbligatoria presenza, al momento della consultazione, del dipendente dell’ente a ciò individuato con ordine del Responsabile di servizio, competente per materia a seconda dell’accesso richiesto.
La Commissione osserva al riguardo che l’esercizio della funzione di consigliere comunale comporta il diritto ad ottenere i documenti amministrativi e le notizie richieste, ma non a disporre senza limiti di tempo del personale degli uffici. Ne consegue che ferma restando la legittimità astratta dei suddetti limiti è necessario che nel concreto essi tengano conto delle discussioni politiche e dei procedimenti amministrativi urgenti o in corso al fine di garantire al consigliere lo svolgimento effettivo delle attività connesse al suo mandato.
In relazione all’articolo 17 (diritto al rilascio di copie di atti e documenti). L’istante si duole di alcune previsioni, contenute nei commi 2 e 3, aventi ad oggetto le modalità di esercizio di detto diritto e riguardanti, in particolare: a) l’introduzione di un termine di 30 giorni per evadere la richiesta di accesso, b) l’obbligo di compilare apposita modulistica, allo stato ancora inesistente, ovvero in alternativa la trasmissione via mail all’indirizzo PEC con firma digitale;
   c) il ritiro diretto degli atti con l’unica alternativa dell’invio tramite posta certificata;
   d) il termine di trenta giorni per comunicare l’eventuale diniego.
La Commissione osserva al riguardo che
il previsto termine di trenta giorni per il rilascio delle copie, ovvero per comunicare l’eventuale diniego, potrebbe in astratto determinare la concreta soppressione delle prerogative del consigliere nei casi di procedimenti urgenti o che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche entro un limite inferiore a quello previsto. Onde scongiurare tale pericolo è necessario che l’ente garantisca l’accesso nell’immediatezza o comunque nei termini più celeri o ragionevoli possibili.
In relazione poi alla necessaria compilazione del modulo, qualora questo non sia disponibile dovrebbe essere comunque consentito il deposito dell’istanza da parte del diretto interessato, ovvero la trasmissione dell’istanza via e-mail, all’indirizzo PEC, sempre che la PEC sia stata fornita
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 02.10.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAmmissibilità della produzione a terzi di documenti oggetto di diritto di accesso.
L’istante premesso:
- di aver formulato richiesta di accesso agli atti al Ministero del lavoro ed all’Ufficio nazionale del servizio civile al fine di verificare se un’associazione a carattere nazionale abbia commesso delle irregolarità;
- di aver ricevuto i documenti oggetto della richiesta dal Ministero del lavoro e di aver riscontrato l’esistenza delle temute irregolarità “che interessano anche al Servizio civile”,
formula il seguente seguito: se sia ammissibile produrre al Servizio civile la documentazione oggetto della precedente istanza di accesso.
Va in primo luogo osservato che, ai sensi dell’articolo 11 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 in materia di accesso ai documenti amministrativi, la Commissione per l’accesso agli atti amministrativi: “esprime pareri per finalità di coordinamento dell’attività organizzativa delle amministrazioni in materia di accesso e per garantire l’uniforme applicazione dei principi, sugli atti che le singole amministrazioni adottavano ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge, nonché, ove ne sia richiesta, su quelli attinenti all’esercizio ed all’organizzazione del diritto di accesso”.
Ebbene,
nessuna delle ipotesi elencate dalla predetta norma ricorre nella fattispecie, ove, come si è sopra esposto, è richiesto un parere sulla possibilità di divulgare un documento già oggetto di diritto di accesso, ad un terzo, in particolare, ad un’amministrazione pubblica sul presupposto che la stessa possa essere interessata alla conoscenza delle notizie contenute nello stesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 24.07.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALIAccesso ad atti parte di un procedimento non concluso da parte delle organizzazioni sindacali.
Il capo dell’ufficio VII della direzione generale per le risorse e l’innovazione …premesso:
- che ai sensi dell’articolo 93 del D.P.R. 05.01.1967, n. 18: “il personale dell’Amministrazione degli affari esteri è costituito dalla carriera diplomatica, disciplinata dal proprio ordinamento di settore, dalla dirigenza e dal personale delle aree funzionali come definiti e disciplinati dalla normativa vigente, nonché dagli impiegati a contratto in servizio presso le rappresentanze diplomatiche, gli uffici consolari e gli istituti italiani di cultura”;
- che con riferimento a quest’ultima categoria di personale l’articolo 154 del citato d.P.R. stabilisce che i contratti sono regolati dalla legge locale e che le rappresentanze diplomatiche e gli uffici consolari accertano periodicamente, “sentite anche le rappresentanze sindacali in sede”, la compatibilità del contratto con le norme locali a carattere imperativo;
- che nella fattispecie è in corso di revisione la bozza contrattuale degli impiegati a contratto in servizio presso le sedi diplomatico-consolari e istituti di cultura in … ed un gruppo di impiegati, sostenuti dall’organizzazione sindacale di riferimento, ha presentato richiesta di accesso: a) alla bozza di contratto di impiego redatta nel 2012 da uno studio legale a cui era stata commissionato lo studio della questione, b) a due messaggi identificati con numero di protocollo e data inviati dall’ambasciata al Ministero,
formula richiesta di parere in merito all’accesso ai documenti suddetti.
La Commissione osserva quanto segue:
- Appare in primo luogo opportuno un cenno sul quadro normativo nel quale si inserisce la richiesta.
- Il citato articolo 154 non sembra fondare un diritto di accesso del sindacato, ma, piuttosto, il diritto dello stesso ad essere informato del contenuto del contratto al fine di verificare un particolare aspetto della materia da esso disciplinata: la compatibilità del contratto con le norme locali a carattere imperativo.
- Il diritto di accesso del sindacato rinviene invece il suo fondamento nell’articolo 25 della legge n. 241/1990 e nel più generale interesse del sindacato a conoscere la disciplina del rapporto di lavoro di una determinata categoria lavoratori, anche al fine di adottare eventuali iniziative a tutela degli interessi collettivi che gli sono propri e che si riferiscono alla intera categoria rappresentata.
Sussiste pertanto nella fattispecie, un interesse concreto attuale e personale del sindacato all’accesso al contratto.
D’altro canto trattandosi di una richiesta specifica e diretta alla conoscenza di un documento ben determinato e connesso all’interesse proprio del sindacato, non ricorre l’ipotesi di esclusione dall’accesso prevista dall’articolo 24, comma 3, della legge n. 241/1990 quando esso miri ad un controllo generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione.
- Ciò posto in punto di legittimazione del sindacato, nel merito, si osserva che dalla richiesta emerge con chiarezza che la documentazione a cui si chiede di accedere è una bozza di contratto redatta da uno studio legale e che non risulta sia stata recepita dall’Amministrazione datrice di lavoro. Nella situazione concreta, pertanto, non sembra allo stato rinvenibile un interesse concreto e diretto ed attuale del sindacato alla conoscenza del documento, ma al più una aspettativa di mero fatto.
Alla luce degli elementi su esposti si esprime il seguente parere:
- va riconosciuta al sindacato la legittimazione all’accesso al contratto di lavoro e tuttavia tale legittimazione sorge solo al momento in cui vi sia un contratto ascrivibile all’Amministrazione datrice di lavoro, sia pur in una versione preliminare, in quanto ancora non perfezionato in tutti i suoi elementi. Pertanto si ritiene che nella fattispecie l’accesso vada differito ad un momento successivo.
- In relazione all’accesso ai due messaggi, si osserva che in assenza dell’individuazione sia pur minima dell’oggetto degli stessi, non è possibile fornire un parere in merito all’accessibilità agli stessi da parte del sindacato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 24.07.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI REGIONALIAccesso di un consigliere della regione Lombardia agli atti dell’Agenzia del Demanio inerenti la gestione del complesso monumentale della ….
La Signora …, Consigliere regionale della Lombardia, si è rivolta prima al Difensore Civico regionale e poi, con nota del 29.04.2014, a questa Commissione, riferendo di aver inoltrato, in data 07.11.2013, all’Agenzia del Demanio – filiale Lombardia, Sede di Milano, richiesta d’accesso volta ad ottenere copia dei documenti amministrativi relativi alla gestione del complesso monumentale della ... dal 2003 ad oggi e lamentando che tale istanza d’accesso è di fatto rimasta inevasa.
Dalla corrispondenza intercorsa con l’Agenzia del Demanio – Filiale Lombardia – Sede di Milano, allegata in copia dall’istante, si evince quanto segue.
In data 08.01.2014, con nota prot. n. 2014/186, l’Agenzia del Demanio – Direzione regionale Lombardia - rispondeva al Consigliere regionale …, invitando la stessa a prendere visione della documentazione, presso gli ufficio del Demanio, in virtù del principio di leale cooperazione istituzionale, precisando nel contempo che parte della documentazione chiesta non era presente agli atti.
Successivamente, in data 09.01.2014, il Consigliere regionale rinnovava la propria richiesta di accesso, specificando che la documentazione era richiesta sia in quanto necessaria per l’espletamento delle funzioni di Consigliere regionale della Lombardia, sia che per esercitate il diritto d’accesso in qualità di cittadina … ai sensi e per gli effetti dell’articolo 5 del D.lgs. n. 33 del 2013, richiamando l’obbligo di pubblicazione delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni ed il connesso diritto di chiunque di richiedere i medesimi, attraverso l’accesso civico, nel caso in cui sia stata omessa la loro pubblicazione.
Con nota del 10.01.2014, Prot. 2014/374, l’Agenzia del Demanio comunicava al Consigliere regionale di aver provveduto a dare ottemperanza agli obblighi di pubblicazione di cui al D.lgs n. 33 del 2013, pubblicando sul proprio sito istituzionale la documentazione prevista e confermando la disponibilità dell’incontro fissato per il successivo 10 gennaio.
Successivamente, in data 13.01.2014, prot. 2014/594, l’Agenzia del Demanio, integrava la precedente nota del 10 gennaio, comunicando al Consigliere regionale ... il diniego d’accesso rispetto all’istanza del 7 novembre.
In particolare, nella succitata comunicazione l’Agenzia del Demanio affermava che “l’accesso ai documenti amministrativi presuppone che l’istante abbia un interesse personale, diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, così come disciplinato dall’articolo 22, comma 1, punto b), della legge n. 241 del 1990 e dal regolamento adottato dall’Agenzia del demanio il 24.01.2007”. Nella stessa nota si affermava che l’istante non poteva ritenersi soggetto legittimato all’esercizio dell’accesso, ai sensi della richiamata normativa, e che, pertanto, non poteva essere accolta l’istanza d’accesso datata 7 novembre u.s..
A supporto del diniego d’accesso, nella stessa nota, veniva richiamato un parere di questa Commissione del 12.05.2009, nel quale, tra l’altro, la Commissione per l’accesso specificava che la qualità di deputato e l’esercizio di attività inerenti l’espletamento del proprio mandato non esprimono una posizione legittimante l’accesso ai documenti amministrativi.
Infine, sempre nella stessa nota, veniva segnalato che sul sito dell’Agenzia del demanio era pubblicata la documentazione prevista dal D.lgs n. 33 del 2013.
Al riguardo -premesso che la Commissione per l’accesso, ai sensi del d.lgs. n. 33 del 2013, non è competente in materia di accesso civico- si osserva, che la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha in più occasione sottolineato (cfr., ad es., da ultimo, parere del 18.03.2014) che, alla luce della normativa vigente, la disciplina dettata dall’art. 43, comma 2, del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, che assicura ai Consiglieri comunali e provinciali un diritto di accesso dai confini molto più ampi di quello riconosciuto agli altri soggetti, non è applicabile ai Deputati nazionali, ne ai consiglieri regionali, tenuto conto che si tratta di una norma avente carattere speciale e come tale insuscettibile di altra interpretazione che non sia quella strettamente letterale.
La Commissione ha, tuttavia, ritenuto applicabile, in fattispecie simili all’odierna, il principio di cui all’articolo 22, comma 5, della legge n. 241 del 1990, in forza del quale l’acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, si informa al principio di leale cooperazione istituzionale.
Tale principio, naturalmente, va inteso come un’ accessibilità maggiore rispetto a quella prevista dalla legge n. 241 del 1990 ed, inoltre, nell’ambito della acquisizione di documenti tra soggetti pubblici, non è affatto necessaria e neppure ipotizzabile alcuna specificazione dell’interesse personale diretto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, contrariamente a quanto affermato da Codesta Agenzia del Demanio nel caso di specie.
Il soggetto pubblico richiedente è certamente tenuto al rispetto, a sua volta, delle regole di leale cooperazione tra amministrazioni nonché delle regole di riservatezza nella trattazione dei dati contenuti nei documenti acquisiti, certamente, non possono trovare applicazione le norme di cui al citato comma 1, lettera b), dell’articolo 22, l. 241 del 1990.
Pertanto, premesso quanto sopra,
ad avviso della Commissione, codesta Agenzia del demanio appare tenuta a dover fornire al Consigliere regionale istante, alla luce del suddetto principio di leale cooperazione istituzionale, tutte le informazioni e i documenti richiesti, a prescindere dai limiti stabiliti dalla L. 241/1990, che non trovano applicazione nel caso di specie, inerente una richiesta di documentazione rivolta da soggetto pubblico ad un'altra amministrazione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 24.07.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOAccesso del sindacato di polizia a documentazione con dicitura riservata amministrativa.
Il Dirigente della Sezione di Polizia Stradale di ..., premesso:
- di aver ricevuto dal segretario del sindacato di Polizia COISP –Coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forze di polizia- richiesta di accesso ad una serie di documenti riguardanti la mancata autorizzazione del Questore di ..., alla consumazione di pasti presso un esercizio esterno convenzionato, da parte del personale dipendente in forza al distaccamento della Polizia Stradale di ..., impiegato in servizio di ordine pubblico;
- di aver già provveduto a consentire l’accesso alla maggior parte dei documenti richiesti; formula richiesta di parere sull’accessibilità della nota n. … del 19.04.2014 con la quale il Questore di … ha risposto alle spiegazioni fornite dall’istante in merito alla vicenda su indicata e sulla quale è stata posta la dicitura “Riservata amministrativa”.
Va in primo luogo osservato che la qualifica “Riservata amministrativa” non è di per sé sufficiente ad escludere l’accesso: al riguardo ciò che rileva, infatti, non è la qualifica formale con cui l’amministrazione classifica e conserva i documenti, ma la loro natura oggettiva e la corrispondenza degli stessi alle specifiche categorie individuate dal legislatore, ai fini dell’esclusione del diritto di accesso. Pertanto il documento in oggetto può ritenersi escluso dall’accesso non perché protocollato riservatamente ma, esclusivamente, nell’ipotesi in cui, per la sua natura, rientri in una delle categorie specifiche per le quali è prevista l’esclusione dall’accesso.
Va dunque verificato, da un canto, il contenuto del documento e, dall’altro, il soggetto richiedente l’accesso.
In relazione al primo profilo, la nota oggetto della richiesta di accesso contiene valutazioni (negative) espresse dal Questore sulla condotta, tenuta nella vicenda sopra sommariamente descritta, dalla dirigente della sezione di polizia stradale di ..., condotta ritenuta non conforme all’ordine di servizio dallo stesso emesso e di cui è già stato consentito l’accesso. A tale valutazione negativa consegue la restituzione della fattura dei pasti consumati e del buono pasto cumulativo con indicazione dei nomi, dei cognomi, delle qualifiche, dei reparti di appartenenza ed infine la sottoscrizione dei dipendenti che hanno consumato i pasti. Tali documenti vengono allegati alla nota.
In relazione al secondo profilo. Il soggetto che ha presentato richiesta di accesso è il sindacato di polizia. Nell’istanza depositata agli atti il sindacato fonda la propria legittimazione “sull’interesse della categoria rappresentata e dunque dell’organizzazione sindacale, di verificare che nei confronti dei dipendenti in questione sia stata correttamente applicata la vigente disciplina contrattuale e non riguardante la fruizione del vitto in occasione di servizi di O.P., verifica che costituisce il presupposto di ogni prerogativa sindacale (compreso il diritto di critica), costituzionalmente tutelato”.
Alla luce di tali elementi si esprime il seguente parere:
- La richiesta di accesso pur motivata da un interesse, ritenuto concomitante, della categoria indifferenziata di soggetti rappresentata dal sindacato e dei singoli lavoratori, appare nella sostanza afferire esclusivamente all’interesse dei singoli lavoratori coinvolti, atteso che il documento suddetto (a differenza degli ordini di servizio per i quali già è stata accolta la richiesta di accesso) non ha ad oggetto l’interpretazione, in generale, di una normativa incidente sulle prerogative sindacali, ma, come la stessa normativa è stata interpretata nella concreta situazione accaduta nella quale sono coinvolti soggetti ben determinati.
Ne consegue che al riguardo rileva non solo il profilo della riservatezza dei lavoratori (afferente alla tutela dei loro dati personali riportati nel documento allegato alla nota), ma anche, e soprattutto, della stessa situazione giuridicamente rilevante per la cui tutela è attribuito l’accesso, posto che l’atto di cui si chiede l’accesso ha indubbiamente inciso sulla sfera giuridica di quei lavoratori.
Pertanto si esprime il seguente parere:
la richiesta di accesso in oggetto incide su interessi giuridicamente rilevanti di lavoratori ben identificabili, rimasti estranei al procedimento atteso che, in assenza di una delega ad hoc, essi non possono ritenersi rappresentanti dal sindacato istante.
Non si ravvisa in relazione alla nota su indicata ed ai documenti allegati la legittimazione ad accedere iure proprio da parte del sindacato istante
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 08.07.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOAccesso a documentazione di procedimenti disciplinare.
La qualità di autore di un esposto, al quale abbia fatto seguito un procedimento disciplinare, a carico di terzi, è circostanza idonea, unitamente ad altri elementi, a radicare nell’autore medesimo la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante, che ai sensi dell’art. 22 della L. n. 241/1990 legittima l’accesso nei confronti degli atti del procedimento disciplinare (coinvolgente terzi) che dall’esposto ha tratto origine.
In particolare poi, più recentemente, il Consiglio di Stato nella decisione n. 3742 del 22.06.2011, ha precisato che “ove risulti un suo personale interesse il denunciante ha senz’altro titolo ad avere copia dell’atto disciplinare emesso dall’amministrazione, a seguito dell’esposto da lui presentato […] anche se si tratti dell’atto di archiviazione del procedimento”.
Emerge dunque con chiarezza da queste e da altre pronunce del supremo organo amministrativo (da ultimo, si veda Consiglio di Stato, decisione n. 31621 del 2013) che la sola qualità di autore di un esposto che abbia dato luogo ad un procedimento disciplinare, non costituisce di per sé circostanza idonea a radicare in capo all’autore la titolarità della situazione giuridicamente rilevante cui fa riferimento l’art. 22, L. n. 241/1990, in assenza di una prova sulla natura diretta, concreta ed attuale dell’interesse ad accedere agli atti per i quali è formalizzata la richiesta di accesso.
Nella specie, l’istante, nonostante esplicito invito in tale senso da parte della amministrazione, non ha indicato elementi ulteriori idonei a radicare un suo interesse all’accesso corrispondente ai canoni del citato articolo 22, manifestando ad esempio l’intenzione di volersi costituire parte civile nel processo penale iniziato per gli stessi fatti, ovvero di iniziare un processo civile in caso di condanna in sede disciplinare.
D’altro canto, questa Commissione non è a conoscenza dei fatti posti a fondamento dell’azione disciplinare e quindi non è in grado di apprezzare né i rapporti intercorrenti fra il denunciante e la denunciata, né, le possibili conseguenze in caso di accertamento (o di non accertamento) di una responsabilità disciplinare per il richiedente l’accesso.
Infine, può altresì osservarsi che quest’ultimo non può reputarsi titolare di un diritto all’accesso ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 241/1990, attesa l’estraneità dell’autore dell’esposto al procedimento disciplinare e la sua conseguente qualità di terzo rispetto al medesimo.
Ne consegue che il parere di questa Commissione sulla questione di cui sopra è il seguente:
la qualità di autore di un esposto non è di per sé sufficiente a radicare in capo all’istante la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante che, ai sensi dell’articolo 22 della legge n. 241/1990 legittima l’accesso nei confronti degli atti disciplinari che da quell’esposto hanno tratto origine.
E’ necessario, infatti, individuare ulteriori elementi idonei a configurare in capo all’istante un interesse con le caratteristiche indicate dal predetto articolo 22, elementi che vanno apprezzati alla luce delle circostanze specifiche del caso concreto
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 08.07.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso del cittadino residente di accesso a documenti da parte di un cittadino residente.
Il Comune di ... (NO) ha chiesto a questa Commissione il proprio parere sulla richiesta presentata da un proprio cittadino residente di accedere, a fini di controllo politico, a un contratto di concessione di impianti natatori e alle fatture emesse dall’Ente durante due mensilità del 2013.
L’Amministrazione ritiene l’istanza inaccoglibile, perché non sorretta da sufficiente interesse se presentata ai sensi della legge 241/1990, e non rivolta ad atti sottoposti ad obbligo di pubblicazione se presentata ai sensi della normativa sull’accesso civico, ma ha sospeso l’emissione di un formale provvedimento nell’attesa del parere di questo Collegio e dell’Autorità nazionale anticorruzione, che risulta essersi nel frattempo dichiarata incompetente.
Il parere è reso nei sensi che seguono.
Secondo l’orientamento consolidato e costante della giurisprudenza amministrativa e di questa Commissione,
il diritto garantito dal TUEL al cittadino-residente di accedere agli atti degli enti locali non è condizionato (diversamente da quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n. 241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti di amministrazioni centrali dello Stato) alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa.
L’Amministrazione dovrà quindi procedere senz’altro all’ostensione, non essendo possibile, nel caso di specie, subordinare il diritto di accesso del cittadino-residente alla dimostrazione della titolarità di un interesse giuridicamente rilevante
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 08.07.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAccesso dei Consiglieri comunali alla corrispondenza dell’Amministrazione comunale con la Procura della Corte dei conti.
Il Comune di ..., il Comune di ..., e il sig. …, consigliere comunale del Comune di …, chiedono a questa Commissione se un consigliere comunale ha diritto ad accedere alla corrispondenza tra Comune e Procura regionale della Corte dei conti.
Chiede inoltre il Comune di ...:
a) se, in caso positivo all’accessibilità, rilevi l’apposizione della dicitura “riservato” che spesso il procuratore contabile appone alle richieste informative;
b) se occorra comunque chiedere il consenso o il nulla osta della medesima Procura;
c) se, in caso di risposta positiva, siano accessibili tutti gli atti ovvero solo quelli precedenti l’eventuale notifica dell’invito a dedurre;
d) quali siano le norme applicabili, e cioè se esistono norme specifiche del processo contabile, ovvero siano applicabili altre norme, ad esempio quelle del processo penale.
Il parere di questa Commissione è nel senso dell’inaccessibilità dei documenti in questione.
Consolidata giurisprudenza ha chiarito che i Consiglieri comunali godono del diritto di accedere, senza neppure che la domanda sia soggetta ad onere motivazionale alcuno, a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato: ciò al fine di poter valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Anche un tale generalizzato diritto di accesso deve essere tuttavia coordinato con il complesso dell’ordinamento vigente, nel senso in cui quest’ultimo introduce eccezioni al generale regime di trasparenza degli atti.
Sia l’articolo 7 della legge 08.06.1990 n. 142 che gli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241 riconoscono il diritto di accesso ai documenti amministrativi a tutti i soggetti interessati alla tutela di una situazione giuridicamente rilevante, definendo inoltre, all’articolo 22 della legge n. 241/1990, un concetto ampio di documento amministrativo, comprensivo anche degli atti provenienti da soggetti diversi dalla stessa amministrazione, purché correlati al perseguimento degli interessi pubblici affidati alla cura dell’amministrazione.
E tuttavia la normativa di rango statale, pur affermando l’ampia portata della regola, la quale rappresenta la coerente applicazione del principio di trasparenza che governa i rapporti tra amministrazione e cittadini, introduce alcune limitazioni di carattere oggettivo, definendo le ipotesi in cui determinate categorie di documenti sono sottratte all’accesso, in ragione del loro particolare collegamento con interessi e valori giuridici protetti dall’ordinamento in modo differenziato.
In particolare, l’articolo 7 della legge n. 142/1990, pur affermando il principio della pubblicità degli atti comunali, introduce una rilevante eccezione, riferita ai “documenti riservati per espressa indicazione di legge”. Dunque, nello stesso ambito delle amministrazioni locali, pure caratterizzato da un accentuato livello di trasparenza, legato, fra l’altro, alle dinamiche partecipative della comunità auto-amministrata, l’accessibilità ai documenti amministrativi non è indiscriminata, ma è sottoposta ad alcune puntuali limitazioni di ordine oggettivo.
Il principio è espresso, in modo coerente, ed in un ambito più generale, dall’art. 24 della legge n. 241/1990, il quale stabilisce che il diritto di accesso “è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi dell'articolo 12 della legge 24.10.1977, n. 801, nonché nei casi di segreto o di divieto di divulgazione altrimenti previsti dall’ordinamento”.
Il significato delle disposizioni citate è chiaro: sia la legge n. 241/1990 che la normativa sull’accesso dedicata agli enti locali ridimensionano la portata sistematica del segreto amministrativo, il quale, ora, non esprime più un principio generale dell’agire dei pubblici poteri, ma rappresenta un’eccezione al canone della trasparenza, rigorosamente circoscritta ai soli casi in cui viene in evidenza la necessità obiettiva di tutelare particolari e delicati settori dell’amministrazione. Ma l’innovazione legislativa, per quanto radicale, non travolge le diverse ipotesi di segreti, previsti dall’ordinamento, finalizzati a tutelare interessi specifici, diversi da quello, riconducibile, secondo l’impostazione più tradizionale, alla mera protezione dell’esercizio della funzione amministrativa.
In tali eventualità i documenti, seppur formati o detenuti dall’amministrazione, non sono accessibili, perché il principio di trasparenza cede (o, quanto meno, viene circoscritto sul piano oggettivo o temporale) a fronte dell’esigenza di salvaguardare l’interesse protetto dalla normativa speciale sul segreto.
L’esatta delimitazione delle discipline sul segreto non travolte dalla nuova normativa in materia di accesso ai documenti talvolta può risultare disagevole, ma possono indicarsi al riguardo due criteri direttivi (cfr. CdS sez. V n. 9686/2000):
- il “segreto” che impedisce l’accesso ai documenti non deve costituire la mera riaffermazione del tramontato principio di assoluta riservatezza dell’azione amministrativa;
- il segreto fatto salvo dalla legge n. 241/1990 deve riferirsi esclusivamente ad ipotesi in cui esso mira a salvaguardare interessi di natura e consistenza diversa da quelli genericamente amministrativi.
Sulla base di queste indicazioni ermeneutiche è possibile affermare che
nell’ambito dei documenti legittimamente sottratti all’accesso in base a segreto rientrano gli atti intercorsi fra Amministrazione comunale e Procura regionale della Corte dei conti.
Tali documenti, difatti, pur se soggettivamente prodotti da un’Amministrazione pubblica, non sono oggettivamente formati nell’esercizio di una attività amministrativa istituzionale. Essi vengono invece espressamente formati nell’alveo di una più complessiva attività istruttoria, quella azionata dalla Procura contabile, e in risposta ad essa; rivestono pertanto natura di veri e propri atti di indagine, formati dalla P.A. nell’esercizio, per conto di un organo estraneo all’amministrazione stessa, di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall’ordinamento (vedi art. 74 R.d. 1214/1934, art. 16 D.l. 152/1991, art. 2, c. 4, e art. 5, c. 6, D.l. 453/1993), e come tali, similmente a quanto accade in ambito processual-penalistico, sono assoggettati al regime della segretezza istruttoria (cfr. CdS VI 22/1999 e 7389/2006), senza neppure la necessità, per negare l’accesso, che vi sia stato un preventivo sequestro del magistrato, come invece nel caso di documenti, seppur contenenti notizie d’illecito, formati dall’Amministrazione nello svolgimento dei propri compiti amministrativi istituzionali. Sottratti all’ambito del diritto di accesso agli atti amministrativi, tali documenti potranno essere eventualmente chiesti all’Autorità giudiziaria contabile.
Per quanto riguarda infine le ulteriori richieste proposte dal Comune di ..., esse, nei punti a), b) e c), appaiono superate dal tenore complessivo del presente parere. Per quanto riguarda il punto d), le norme che regolano la materia risultano essere a questa Commissione i regolamenti sull’accesso adottati dalla Corte dei conti con deliberazione n. 4 del 17.07.1996 e n. 4 del 04.11.2010
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 08.07.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso ai documenti relativi ad un affidamento diretto ai sensi dell’art. 125, d.lgs. 136/2006.
Il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha formulato alla scrivente Commissione richiesta di parere in ordine alla seguente fattispecie.
Riferisce l’amministrazione che in data 24 aprile u.s. l’Associazione … ha chiesto di poter accedere alla documentazione relativa “alla procedura avviata in data 07/12/2012 relativa al progetto Educare alla diversità a scuola ed, in particolare, della documentazione relativa alla descrizione del progetto, della documentazione relativa alla definizione dei requisiti richiesti agli operatori invitati e dei criteri di scelti degli stessi, della documentazione relativa allo stanziamento economico per la realizzazione del progetto e della proposta dell’Istituto …".
Chiede in particolare il Dipartimento, se l’associazione istante sia titolare di interesse qualificato all’accesso in considerazione che l’affidamento è avvenuto senza espletamento di una vera e propria gara, rientrando l’appalto nella soglia di cui al comma 11, art. 125, d.lgs. n. 136/2006 che, come noto, consente l’affidamento diretto per lavori di importo inferiore ad € 40.000,00.
Sulla richiesta di parere si osserva quanto segue.
Il c.d. codice dei contratti pubblici all’art. 13 effettua un rinvio alla disciplina di cui alla legge n. 241/1990 per ciò che concerne l’accessibilità dei documenti in materia di appalti di lavori, forniture e/o servizi.
Come è noto, l’art. 22 della legge da ultimo menzionata, stabilisce che l’accedente per essere titolare di posizione qualificata e differenziata, debba far constare un interesse diretto, concreto ed attuale all’accesso.
Tuttavia
qualora, come nel caso di specie, i documenti siano stati pubblicati sul sito dell’amministrazione che ha provveduto all’affidamento diretto, tale qualità dei documenti consente di ritenere che essi debbano essere ostesi a chi ne faccia richiesta.
Inoltre l’Associazione istante si duole nello specifico di non aver avuto contezza per tempo della procedura preordinata al relativo affidamento e di non aver, quindi, potuto presentare una propria offerta.
Tale profilo fa emergere altresì un interesse sufficientemente qualificato all’accesso che rende meritevole di favorevole considerazione la domanda di accesso presentata in data 24.04.2014
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.05.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAccesso del consigliere comunale.
La signora …, consigliera comunale di minoranza del Comune di …, avendo presentato una mozione contenente, tra l’altro, la richiesta al Sindaco di attribuire le funzioni dirigenziali esclusivamente al personale con qualifica dirigenziale e di approntare un sistema di controlli rispettoso della terzietà ed imparzialità del Segretario comunale, successivamente al rigetto di tale mozione, in data 17.02.2014, chiedeva a diverse autorità statali e regionali di valutare il comportamento tenuto dal Sindaco del predetto Comune, con specifico riferimento al conferimento al Segretario Comunale dell’Ente di una serie di funzioni dirigenziali aggiuntive al suo incarico istituzionale.
La Giunta comunale del Comune di …. conferiva all’avvocato …, l’incarico di pronunciarsi sulla questione sollevata dalla consigliera comunale istante.
In data 21.03.2014, la consigliera comunale… chiedeva all’Amministrazione comunale di consentire l’accesso al parere redatto dall’avvocato Sartori.
L’Amministrazione comunale avrebbe riferito alla consigliera ... che tale parere non risultava agli atti del Comune, essendo stato inviato all’Amministrazione dall’avvocato … per mero errore.
La consigliera …, in data 02.04.2014, adiva la Commissione affinché valutasse il comportamento tenuto dall’Amministrazione.
In data 18.04.2014, l’Amministrazione inviava una nota nella quale precisava che alla nota ricevuta dal Comune in data 11.03.2014 dall’avvocato ... -contenente la quantificazione del compenso per l’attività professionale svolta dal predetto legale- risultava allegato il documento indirizzato al Sindaco ed al Segretario generale che veniva registrato come allegato alla predetta nota, documento che, in pari data, l’avvocato ... comunicava di aver inviato per mero errore.
La Commissione, preliminarmente, ritiene di esser competente a fornire il parere richiesto dalla consigliera ..., in virtù della funzione di vigilanza sull’attuazione del principio di piena conoscibilità dell’attività della Pubblica Amministrazione ex art. 25, comma 5, della legge n. 241/1990.
La Commissione ritiene che la signora ..., nella qualità di consigliera comunale, sia legittimata ad accedere al documento inviato all’Amministrazione, sia pure per mero errore, dall’avvocato ... in data 11.03.2014 dal momento che lo stesso, essendo stata regolarmente registrato dal Comune di ... quale documento allegato alla nota contenente la quantificazione del compenso spettante al predetto legale, non può non esser considerato come documento detenuto dall’Amministrazione.
La Commissione esprime l’avviso che debba esser consentito l’accesso al documento richiesto dalla consigliera …
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAccesso del consigliere comunale alla Password del programma di contabilità del Comune.
Il signor …, consigliere comunale del Comune di … (SA), chiedeva all’Amministrazione il rilascio della password del programma di contabilità del predetto Ente locale.
Tale richiesta era riscontrata dall’Amministrazione, giustificando il mancato rilascio della password in questione in considerazione del fatto che il programma di contabilità del Comune di ... risiedesse in un server esterno potesse implicare delle questioni involgenti la tutela della riservatezza nonché la protezione delle banche dati.
Il signor … chiedeva alla Commissione di esprimere il proprio parere in merito alla possibilità del rilascio della password in questione.
La Commissione ritiene che il rischio, paventato dall’Amministrazione, che il rilascio della password del programma possa pregiudicare l’esigenza di tutela della riservatezza e di protezione delle banche dati non possa giustificare il rigetto dell’istanza del rilascio della stessa ad un consigliere comunale, essendo evidente che l’utilizzazione di tale password dovrà esser rispettosa di tutte le vigenti norme giuridiche preordinate alla tutela della riservatezza ed alla protezione delle banche dati e che di eventuali illeciti commessi dall’utilizzatore questi potrà esser chiamato a risponderne di fronte alle autorità competenti.
La Commissione esprime l’avviso che l’Amministrazione debba provvedere al rilascio della password del programma di contabilità del Comune al consigliere comunale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAPortata e limiti dell’accesso ambientale.
Il Sig. … ha formulato alla scrivente Commissione richiesta di parere in ordine alla seguente fattispecie.
Il richiedente ha chiesto all’amministrazione comunale di poter accedere ai documenti relativi ad un’ordinanza emessa a seguito di esposti e segnalazioni a carico dello stabilimento … in … per presunti abusi edilizi.
La richiesta veniva effettuata ai sensi della disciplina in materia di c.d. accesso ambientale. L’amministrazione con note interlocutorie ha chiesto una serie di precisazioni ed integrazioni circa le ragioni poste a fondamento dell’istanza ostensiva prodotta dal sig. … il quale, a sua volta, chiede alla scrivente Commissione se ciò sia conforme o meno alla disciplina in materia di accesso alle informazioni ambientali.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
In termini generali l’accesso ambientale trova la sua fonte normativa nel decreto legislativo n. 195/2005 e nel decreto legislativo n. 152/2006. Tali disposizioni riconoscono a chiunque il diritto di accedere non solo ai documenti ma anche alle informazioni ambientali, senza che all’uopo sia necessario dimostrare la titolarità di un interesse giuridicamente rilevante.
La nozione di informazione ambientale è molto ampia e tale da ricomprende al suo interno certamente anche quelle relative ad eventuali abusi edilizi siccome potenzialmente in grado di incidere sul bene ambiente.
Alla luce di ciò,
le richieste di integrazione sulla titolarità di situazione giuridicamente rilevante in capo all’istante, appaiono ultronee giusto il dettato normativo di cui sopra.
Nei suesposti sensi è il parere della scrivente Commissione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso a titoli edilizi e concessioni di passo carrabile – amministrazione comunale di ….
Il Sig. … ha formulato alla scrivente Commissione richiesta di parere in ordine alla seguente fattispecie.
Il richiedente ha chiesto all’amministrazione comunale di poter accedere ai titoli edilizi ed alle concessioni di passo carrabile relative ad un manufatto limitrofo a quello di residenza dell’istante.
Nella domanda di accesso, allegata alla richiesta di parere, il … faceva constare sia la propria qualità di rappresentante di palazzina del condominio di residenza che il suo status di cittadino residente nel Comune acceduto.
L’amministrazione, a seguito di opposizione dei soggetti controinteressati, chiedeva al Sig. … di chiarire meglio il proprio interesse all’accesso e le asserite esigenze di tutela del condominio.
Chiede, pertanto, il Sig. … se l’agire dell’amministrazione locale sia o meno conforme ai precetti che regolano il diritto di accesso ed il suo esercizio previsti dal legislatore.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
In termini generali l’amministrazione, qualora abbia dubbi sulla legittimazione attiva del richiedente l’accesso, ha la facoltà di chiedere a quest’ultimo di meglio specificare le ragioni della istanza ostensiva (in tal senso depone la lettera dell’art. 6, commi 1 e 5, del d.P.R. n. 184/2006).
Tuttavia occorre altresì osservare che nel caso di specie l’accesso è stato richiesto ad un’amministrazione locale da parte di un cittadino residente nel relativo territorio e pertanto a disciplinare la fattispecie è la disciplina speciale di cui all’art. 10 TUEL il quale non contempla la motivazione della richiesta da parte dell’accedente al contrario di quanto previsto dagli artt. 22 e seguenti della legge n. 241/1990.
Peraltro, anche alla luce della normativa da ultimo richiamata
la legittimazione del Sig. … si reputa sussistere, attesa la vicinitas del proprio luogo di residenza con quello cui si riferiscono i documenti oggetto di domanda di accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 29.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIVisione del protocollo informatico tramite password da parte del consigliere comunale.
Il sig. …, consigliere comunale a … (FR), chiede se esiste o meno per i consiglieri il diritto ad accedere al protocollo comunale tramite accesso informatico diretto, in quanto il Segretario comunale, per evitare l’occupazione delle postazioni informatiche dell’ufficio da parte dei consiglieri, ha rifiutato di fornirgli la relativa password di accesso, indirizzandolo invece a rivolgersi a piacimento, fra le 9 e le 13 di ogni giorno, ai dipendenti comunali per ottenere la visione degli atti protocollati.
A parere di questa Commissione il comportamento del Comune è legittimo.
Consolidata giurisprudenza ha chiarito che i Consiglieri comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato: ciò al fine di poter valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha infatti una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): esso è strettamente funzionale all'esercizio del mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente locale, ai fini della tutela degli interessi pubblici, ed è peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Posto che l’accesso del Consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché diversamente opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale, e che il termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. C.d.S. n.6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall’eventuale natura riservata delle informazioni richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto d'ufficio (fra gli altri C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009, n.143) si ritiene che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali.
La modalità attraverso cui minimizzare tale aggravio può variare, a seconda delle specifiche condizioni ambientali in cui l’amministrazione concretamente opera: talvolta potrebbe essere preferibile consentire autonomia di accesso ai consiglieri, tramite la fornitura di password (procedura di per sé perfettamente lecita, come in passato espresso da questa Commissione), altre volte, al contrario, tale modalità, invece di snellire le incombenze, ben potrebbe rischiare di moltiplicarle.
Nell’odierna fattispecie la valutazione dell’amministrazione è stata nei sensi di non consentire l’accesso diretto tramite password, per evitare problematiche occupazioni delle postazioni informatiche.
A fronte di tale diniego, appunto orientato a non aggravare l’efficienza dell’operato amministrativo, l’attestazione di disponibilità alle necessità dei consiglieri appare tuttavia sufficiente a non far nutrire dubbi sulla sostanziale praticabilità, per il consigliere, dello svolgimento del proprio munus
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOAccesso da parte di un funzionario intervenuto nel procedimento.
La Prefettura di Siena chiede il parere di questa Commissione sulla legittimità, anche riguardo alla titolarità di un interesse specifico diretto alla salvaguardia di una situazione giuridicamente rilevante, della richiesta di accesso avanzata da un funzionario responsabile del contenzioso dell’Amministrazione provinciale senese ad una lettera privata, prodotta da un terzo, indirizzata al Prefetto, e citata nel fascicolo di parte ricorrente in un ricorso al Giudice di pace avverso contestazione di illecito stradale elevato dalla stessa Amministrazione provinciale già respinto in prima istanza dal Prefetto.
Il parere di questa Commissione è nei sensi che seguono.
Qualora il funzionario abbia presentato la richiesta ostensiva in qualità di privato, la titolarità all’accesso deve essere valutata nello specifico, soppesando i motivi portati dall’istante stesso a giustificazione della richiesta. Non potrà così essere meritevole la domanda basata su mera curiosità, o i cui presupposti siano la pura astratta prospettazione della necessità di difesa dei propri interessi, mentre ben potrà essere accolta la pretesa fondata sulla necessità di difendere un puntuale interesse giuridico, quale ad esempio quello alla tutela del proprio buon nome, qualora la lettera richiamata nel fascicolo del ricorso riporti doglianze sull’operato del funzionario, o comunque espressioni potenzialmente lesive.
Non sarebbe sufficiente, in tal caso, opporre la natura non ufficiale dell’atto per giustificare il diniego, posto che l’art. 22, c. 1, lett. d), definisce documento amministrativo ogni rappresentazione del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico provvedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse (quale nella fattispecie l’accertamento dei fatti nell’evenienza di una contestazione di illecito stradale), indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale, né sarebbe sufficiente ad evitare l’ostensione la considerazione delle esigenze di riservatezza del terzo autore della lettera, anche qualora egli negasse il proprio consenso, essendo il diritto di accesso prevalente su tali cautele, a norma dell’art. 24, c. 7, della legge 241/1990, qualora esso venga in rilievo per la cura o difesa degli interessi giuridici del richiedente -salva solamente la possibilità di oscurare le parti della lettera manifestamente inconferenti con l’interesse azionato, qualora presenti.
Qualora il funzionario abbia presentato invece la richiesta in qualità di rappresentante della Pubblica amministrazione coinvolta nella vicenda, nello svolgimento quindi dei propri compiti istituzionali, in tal caso l’accesso è regolato dall’art. 22, c. 5, l. 241/1990, il quale stabilisce che l'acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, ove non rientrante nella previsione dell'art. 43, c. 2, dPR 445/2000 (consultazione diretta da parte di una pubblica amministrazione o gestore di servizio pubblico degli archivi dell'amministrazione certificante per l'accertamento d'ufficio di stati, qualità e fatti ovvero di dichiarazioni sostitutive presentate dai cittadini), si informa al principio di leale collaborazione istituzionale, il cui solo limite è, in via generale, l’esigenza di rapporti di tipo interorganico o intersoggettivo improntati al buonsenso, e pertanto non sproporzionatamente gravosi né manifestamente irragionevoli
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAccesso dei consiglieri comunali a procedimenti disciplinari dei dipendenti comunali.
Il Comune di … ha ricevuto richiesta da un consigliere comunale di ottenere copia di tutta la documentazione riguardante la sospensione disciplinare cautelare di un dirigente del Comune nei confronti del quale è stato avviato un procedimento penale. L’accesso agli stessi atti è stato chiesto anche da un altro consigliere, che ha delegato un cittadino terzo alla consultazione e al ritiro dei documenti.
L’amministrazione riporta di ritenere corretto, al fine di tutelare la riservatezza del dirigente, delimitare la richiesta di accesso tramite il rispetto della fase procedimentale soggetta alla tutela della riservatezza, e differire quindi l’ostensione alla conclusione del procedimento.
Chiede il Comune il parere di questa Commissione sul proprio orientamento, e inoltre se sia possibile concedere l’accesso nella forma della sola presa visione, escludendo l’estrazione di copia, e se sia lecito delegare l’esercizio dell’accesso a un terzo.
Il parere è nel senso che segue.
Consolidata giurisprudenza ha chiarito che i Consiglieri comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato: ciò al fine di poter valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha infatti una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): esso è strettamente funzionale all'esercizio del mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente locale, ai fini della tutela degli interessi pubblici, ed è peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Posto che l’accesso del Consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché diversamente opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale, e che il termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. C.d.S. n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall’eventuale natura riservata delle informazioni richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto d'ufficio (fra gli altri C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009, n. 143)
si ritiene che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali.
Tanto premesso, è necessario stabilire se è legittimo, in tale quadro, il differimento operato dall’Amministrazione, e il parere di questa Commissione è orientato a un sostanziale consenso alla prudenziale posposizione opposta dal Comune a tutela della riservatezza.
Pur la richiamata e amplissima previsione normativa, difatti,
non travolge le diverse ipotesi di cautele previste dall’ordinamento e finalizzate a tutelare interessi specifici, diversi da quello riconducibile, secondo l’impostazione più tradizionale, alla mera protezione dell’esercizio della funzione amministrativa, e connesse, nel caso di specie, alla contemporanea fase istruttoria di un procedimento disciplinare, e all’avviamento di un giudizio penale. In tali eventualità i documenti, seppur detenuti dall’amministrazione, non sono suscettibili di divulgazione, perché il principio di trasparenza cede, quantomeno sul piano temporale, a fronte dell’esigenza di salvaguardare l’interesse protetto da speciali normative di segretezza, o della necessità di tutelare, in fase di iniziale chiarificazione, la riservatezza del controinteressato (cfr. CdS sez. V sent. n. 1893/2001).
Per quanto riguarda poi la possibilità di concedere ai consiglieri comunali ostensione degli atti nella forma della sola visione, essa, a opinione di questa Commissione, non è praticabile: seppure la normativa di cui alla legge 241/1990, ad autorevole parere del Supremo giudice amministrativo, non può essere lo strumento normativo impiegato per disciplinare le fattispecie in trattazione nel TUEL, proprio la diversa e più ampia portata di tale ultima legge renderebbe illogico ipotizzare la possibilità di consentire ai consiglieri comunali un accesso solo rivolto alla visione degli atti (e quindi affievolito nei modi), nel momento in cui, a seguito della novella della legge 15/2005, tale cautela è risultata obsoleta anche nei casi d’accesso partecipativo e informativo previsti dalla disciplina generale della materia.
Circa infine la possibilità, da parte del consigliere, di delegare un cittadino terzo al materiale esperimento dell’acquisizione documentale, essa non è ammissibile.
Il diritto di controllo del consigliere sull’attività amministrativa dell’ente locale radica infatti il proprio vastissimo raggio d’azione nel munus connaturato alla funzione svolta, e ad esso è inscindibilmente connesso: non può considerarsi tale potestà quale privilegio in disponibilità di utilizzo funzionalmente immotivata, ma sempre e solo quale strumento fornito dall’ordinamento per l’esplicazione della propria singolare -e personale- qualità esponenziale della comunità civica; né sarebbe poi possibile consentire a tale delega in quanto solo il consigliere, e non il terzo, è sottoposto all’obbligo del segreto d’ufficio, posto dalla legge stessa a contemperamento del diritto d’accesso nei casi di contatto con dati riservati, della cui illegittima diffusione egli stesso è responsabile
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDiritto di accesso agli atti da parte di un ex consigliere comunale.
Il Comune di … chiede il parere di questa Commissione in merito alla legittimità del diniego che ha opposto alla richiesta d’accesso avanzata da un proprio ex consigliere comunale.
Nello specifico l’amministrazione riporta che il signor ..., in qualità di consigliere comunale nel periodo 18.06.2008-11.06.2013, ha avanzato richiesta di ottenere il tabulato della corrispondenza protocollata in entrata tra il 01.07.2012 e il 31.05.2013, nonché le missive intercorse con l’Ufficio scolastico provinciale di Venezia-Mestre e con la sezione di San Donà di Piave del Tribunale di Venezia tra il 18.06.2008 e il 12.06.2013. L’amministrazione ha negato l’ostensione, sul presupposto del fatto che la qualità soggettiva di ex consigliere comunale non è in alcun modo tutelata dall’ordinamento, e che considerando quindi l’istanza alla luce della legge 241/1990 la richiesta appare priva dell’indicazione di un necessario interesse attuale e concreto, nonché generica.
Dai documenti in possesso di questa Commissione non è possibile dedurre se l’istante rivesta o meno la qualità di residente nel territorio comunale.
Il parere di questa Commissione è nei sensi che seguono.
Pur non condividendo l’eccezione di genericità opposta dal Comune (gli atti chiesti appaiono sufficientemente individuati e datati) questa Commissione ritiene corretto il diniego operato dall’Amministrazione qualora l’istante non rivesta la qualità di residente nel territorio comunale. Sono nel giusto difatti gli Uffici civici nel ritenere priva di tutela ordinamentale la qualifica soggettiva di ex consigliere comunale, e insufficiente l’indicazione dell’interesse sottostante alla domanda d’ostensione, tale da non permettere di qualificarla in alcun modo diversa da quella, di per sé inammissibile, fondata sulla mera curiosità di quivis de populo.
Qualora invece l’istante rivesta la qualità di residente nel territorio comunale, in tal caso l’istanza andrebbe accolta.
In conformità al proprio consolidato orientamento (e a quello del Giudice amministrativo: cfr. ex multis TAR Puglia Lecce Sez. II, 12.04.2005, n. 2067; TAR Marche, 12.10.2001, n. 1133) questa Commissione ritiene difatti che, qualora l’istante sia un cittadino residente nel Comune, il diritto di accesso non sia soggetto alla disciplina dettata dalla legge n. 241/1990 -che in effetti richiede la titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto- bensì alla speciale disciplina di cui all’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 267/2000, che sancisce espressamente ed in linea generale il principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto dei cittadini di accedere alle informazioni in possesso delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della necessità di dichiarare la sussistenza della situazione sottostante al fine di poter valutare la legittimazione all’accesso del richiedente.
Pertanto,
considerato che il diritto di accesso ex art. 10 TUEL si configura alla stregua di un’azione popolare, il cittadino residente può accedere alle informazioni dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta, dovendosi cautelare la sola segretezza degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge o da esigenze di tutela della riservatezza dei terzi, che nella specie non risultano né dedotti né sussistenti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAccesso dei consiglieri comunali a procedimenti disciplinari dei dipendenti comunali.
Il Comune di … ha ricevuto richiesta da un consigliere comunale di accedere al decreto, con allegati, riguardanti la rimozione e i procedimenti disciplinari, tuttora in corso, di tre dipendenti dell’Amministrazione.
Il Comune, al fine di tutelare la riservatezza dei dipendenti, e coerentemente col parere reso dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del consiglio dei ministri nel 2002 su analoga fattispecie, ha riscontrato la richiesta parzialmente, negando, fino alla conclusione del procedimento, le schede riepilogative delle condotte imputabili ai tre, allegate al decreto ed oggetto dell’avvio del procedimento disciplinare.
Chiede il Comune il parere di questa Commissione sul proprio orientamento.
Il parere è nel senso che segue.
Consolidata giurisprudenza ha chiarito che i consiglieri comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato: ciò al fine di poter valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha infatti una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267), ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): esso è strettamente funzionale all'esercizio del mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente locale, ai fini della tutela degli interessi pubblici, ed è peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Posto che l’accesso del Consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché diversamente opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale, e che il termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. C.d.S. n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall’eventuale natura riservata delle informazioni richieste, essendo il consigliere vincolato al segreto d'ufficio (fra gli altri C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009, n. 143) si ritiene che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali.
Tanto premesso, è necessario stabilire se è legittimo, in tale quadro, il differimento operato dall’Amministrazione, e il parere di questa Commissione è orientato a un sostanziale consenso alla prudenziale posposizione opposta dal Comune a tutela della riservatezza.
Pur la richiamata e amplissima previsione normativa, difatti, non travolge le diverse ipotesi di cautele previste dall’ordinamento e finalizzate a tutelare interessi specifici, diversi da quello riconducibile, secondo l’impostazione più tradizionale, alla mera protezione dell’esercizio della funzione amministrativa, e connesse, nel caso di specie, al fatto che i documenti, pur se richiamati nel decreto di rimozione, sono alla base di una contemporanea fase istruttoria di un procedimento disciplinare.
In tali eventualità i documenti, seppur detenuti dall’amministrazione, non sono suscettibili di divulgazione, perché il principio di trasparenza cede, quantomeno sul piano temporale, a fronte dell’esigenza di salvaguardare l’interesse protetto da speciali normative di segretezza, o della necessità di tutelare, in fase di iniziale chiarificazione, la riservatezza del controinteressato
(cfr. in tal senso CdS sez. V sent. n. 1893/2001)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAPortata e limiti dell’accesso ambientale.
Il Sig. …, con nota del 19.09.2013, ha formulato alla scrivente Commissione richiesta di parere in ordine alla seguente fattispecie.
In data 13.08.2013 il richiedente ha chiesto all’amministrazione comunale di poter accedere ai documenti relativi ad un’ordinanza emessa a seguito di esposti e segnalazioni a carico dello stabilimento balneare … in Portovenere per presunti abusi edilizi.
La richiesta veniva effettuata ai sensi della disciplina in materia di c.d. accesso ambientale. L’amministrazione con note interlocutorie ha chiesto una serie di precisazioni ed integrazioni circa le ragioni poste a fondamento dell’istanza ostensiva prodotta dal sig. ... il quale, a sua volta, chiede alla scrivente Commissione se ciò sia conforme o meno alla disciplina in materia di accesso alle informazioni ambientali.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
In termini generali l’accesso ambientale trova la sua fonte normativa nel decreto legislativo n. 195/2005 e nel decreto legislativo n. 152/2006. Tali disposizioni riconoscono a chiunque il diritto di accedere non solo ai documenti ma anche alle informazioni ambientali, senza che all’uopo sia necessario dimostrare la titolarità di un interesse giuridicamente rilevante. La nozione di informazione ambientale è molto ampia e tale da ricomprende al suo interno certamente anche quelle relative ad eventuali abusi edilizi siccome potenzialmente in grado di incidere sul bene ambiente.
Alla luce di ciò,
le richieste di integrazione sulla titolarità di situazione giuridicamente rilevante in capo all’istante, appaiono ultronee giusto il dettato normativo di cui sopra.
Nei suesposti sensi è il parere della scrivente Commissione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Accesso a titoli edilizi e concessioni di passo carrabile.
Il Sig. … con nota del 19.09.2013, ha formulato alla scrivente Commissione richiesta di parere in ordine alla seguente fattispecie.
In data 09.08.2013 il richiedente ha chiesto all’amministrazione comunale di poter accedere ai titoli edilizi ed alle concessioni di passo carrabile relative ad un manufatto limitrofo a quello di residenza dell’istante.
Nella domanda di accesso, allegata alla richiesta di parere, il ... faceva constatare sia la propria qualità di rappresentante di palazzina del condominio di residenza che il suo status di cittadino residente nel Comune acceduto.
L’amministrazione, a seguito di opposizione dei soggetti controinteressati, chiedeva al Sig. ... di chiarire meglio il proprio interesse all’accesso e le asserite esigenze di tutela del condominio.
Chiede, pertanto, il Sig. … se l’agire dell’amministrazione locale sia o meno conforme ai precetti che regolano il diritto di accesso ed il suo esercizio previsti dal legislatore.
Al riguardo la Commissione osserva quanto segue.
In termini generali l’amministrazione, qualora abbia dubbi sulla legittimazione attiva del richiedente l’accesso, ha la facoltà di chiedere a quest’ultimo di meglio specificare le ragioni della istanza ostensiva (in tal senso depone la lettera dell’art. 6, commi 1 e 5, del d.P.R. n. 184/2006).
Tuttavia occorre altresì osservare che nel caso di specie l’accesso è stato richiesto ad un’amministrazione locale da parte di un cittadino residente nel relativo territorio e pertanto a disciplinare la fattispecie è la disciplina speciale di cui all’art. 10 TUEL il quale non contempla la motivazione della richiesta da parte dell’accedente al contrario di quanto previsto dagli artt. 22 e seguenti della legge n. 241/1990.
Peraltro, anche alla luce della normativa da ultimo richiamata,
la legittimazione del Sig. … si reputa sussistere, attesa la vicinitas del proprio luogo di residenza con quello cui si riferiscono i documenti oggetto di domanda di accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 09.04.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso di un parlamentare agli atti amministrativi, nell’ambito di attività di sindacato ispettivo.
Espone il Dipartimento dei Vigili del Fuoco del Soccorso pubblico e della difesa civile che la Senatrice … in data 18 febbraio ha inoltrato ai comandi provinciali dei vigili del fuoco di Prato e di Pistoia richiesta d’accesso ad atti amministrativi concernenti, rispettivamente, il nuovo ospedale di Prato e il nuovo ospedale di Pistoia.
In particolare viene richiesta specifica documentazione in possesso dei citati comandi relativa al "procedimento di prevenzione incendi delle citate strutture” avendo necessità di completare una attività di sindacato ispettivo.
Nel chiedere il parere a questa Commissione sull’accessibilità ai chiesti documenti, codesto Dipartimento richiama un parere espresso da questa Commissione il 15.05.2003 in cui si precisava che al fine di esercitare il controllo del Parlamento sull’attività amministrativa del Governo, non può essere utilizzato lo strumento del diritto d’accesso in quanto a tale scopo sono previsti dall’ordinamento altri e più specifici mezzi d’indagine.
Al riguardo questa Commissione, nel confermare il citato parere del 15.05.2003 osserva, tra l’altro, che nei confronti delle richieste d’accesso provenienti dai membri del Parlamento non può trovare applicazione neppure la disciplina dettata per i consiglieri Comunali e provinciali, stante la natura di norma speciale della disposizione di cui all’art. 43 del decreto legislativo n. 267 del 2000, recante il T.U. degli enti locali.
Infatti, secondo il costante orientamento espresso da questa Commissione (cfr., ad es., parere 14.10.2003 e parere 27.03.2012) la disciplina dettata dall’art. 43 del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, che indubbiamente assicura ai Consiglieri comunali e provinciali un diritto di accesso ai documenti amministrativi dell’amministrazione di appartenenza dai confini più ampi di quello riconosciuto agli altri soggetti, nel senso che le istanze di accesso non devono neppure essere motivate, non è applicabile ai Consiglieri regionali, ne tantomeno ai Deputati e ai Senatori tenuto conto che si tratta di una norma avente carattere speciale come tale in suscettibile di altra interpretazione che non sia quella strettamente letterale.
Tuttavia, nel caso di specie, pervenendo la richiesta di documentazione non già dal singolo Senatore a titolo personale ma dal Senatore nella sua funzione di Senatore Questore ed essendo rivolta ufficialmente all’amministrazione esponente nell’esercizio dell’attività di sindacato ispettivo, si deve ritenere applicabile il principio di cui all’articolo 22, comma 5, della legge n. 241 del 1990, in forza del quale l’acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, si informa al principio di leale cooperazione istituzionale.
Tale principio, naturalmente, va inteso come una accessibilità maggiore rispetto a quella prevista dalla legge n. 241 del 1990 ed, inoltre, non è necessaria alcuna notifica ai controinteressati all’accesso ne possono mai avere rilevo, in caso di acquisizione di documenti da parte di soggetti pubblici, profili di riservatezza astrattamente ipotizzabili, in quanto, comunque, il soggetto pubblico richiedente è tenuto al rispetto delle regole di riservatezza nella trattazione dei dati contenuti nei documenti acquisiti .
Pertanto, premesso quanto sopra,
ad avviso della Commissione, codesto Dipartimento appare obbligato a dover fornire, alla luce del suddetto principio di leale cooperazione istituzionale, tutte le informazioni e i documenti richiesti, a prescindere dai limiti stabiliti dalla L. 241/1990 che non trovano applicazione nel caso di specie, inerente una richiesta di documentazione rivolta da soggetto pubblico ad un'altra amministrazione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.03.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALICategorie di documenti inaccessibili per la salvaguardia dell’ordine pubblico.
Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, in data 09.10.2012, rivolgeva al Consiglio di Stato una richiesta di parere in ordine alla portata giuridica delle disposizioni di cui agli articoli 2, 3 e 4 del D.M. n. 392/1997- che individuano le categorie di documenti inaccessibili per la salvaguardia dell’ordine pubblico, della prevenzione e della repressione della criminalità, della sicurezza, della difesa nazionale, delle relazioni internazionali e della riservatezza di terzi, persone, gruppi o imprese, in relazione ai casi di esclusione, di cui all’art. 8 del d.p.r. n. 352/1986, espressamente richiamato dall’art. 14, comma 1, terzo periodo del d.p.r. n. 184/2006-, chiedendo, in particolare, a tale autorevole consesso, di pronunciarsi sulla possibilità di considerare tali disposizioni come limiti soccombenti rispetto al c.d. accesso difensivo, disciplinato dall’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990, precisando altresì la natura delle esigenze difensive idonee a giustificare la prevalenza di tale diritto.
Il Consiglio di Stato - sezione seconda, all’esito dell’adunanza del 13.11.2013, invitava l’Amministrazione ad acquisire le valutazioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento affari giuridici e legislativi, della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali e dell’Ufficio legislativo del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, nonché a precisare le categorie di atti in relazione alle quali più frequentemente si è configurato un contrasto interpretativo.
L’Amministrazione, con nota del 05.03.2014, individuava tali categorie di atti in quelle contemplate dall’art. 2, lettera c), e), f), g), i), l), o) nonché dall’art. 4 lett. b), o), p).
Successivamente, in data 23.1.2014, l’Amministrazione invitava la Commissione a pronunciarsi sulla questione sottoposta al Consiglio di Stato.
Innanzitutto si deve precisare che, come ha avuto occasione di affermare, anche recentemente, il Consiglio di Stato (Ordinanza collegiale n. 600/2014 della VI Sez. del Consiglio di Stato) - nonostante la formulazione letterale dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990 possa indurre a ritenere che l’esigenza di tutela del diritto di difesa sia prevalente sulle finalità sottese alle disposizioni regolamentari che prevedono casi di sottrazione di documenti all’accesso, in attuazione di quanto previsto dall’art. 24, comma 6 della predetta legge- tale esigenza deve essere ritenuta prevalente solo rispetto al diritto alla riservatezza, salvo il disposto dell’art. 60 del decreto legislativo n. 196/2003.
Ne consegue la legittimità delle norme regolamentari contenute negli artt. 2 e 3 del D.M. n. 392/1997 che sottraggono all’accesso determinate categorie di documenti amministrativa in funzione della salvaguardia dell’ordine pubblico, della prevenzione e la repressione della criminalità, da un lato, e della salvaguardia della sicurezza, della difesa nazionale e delle relazioni internazionali, dall’altro.
Quanto all’ 4 del D.M. n. 392/1997 che individua i documenti inaccessibili per la salvaguardia della riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, la Commissione rileva preliminarmente la non correttezza della limitazione della garanzia prevista nell’ultima parte del comma 1 di tale disposizione alla sola possibilità di prender visione degli atti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere gli interessi giuridicamente rilevanti degli accedenti, alla stregua del disposto dell’art. 22, comma 1, lettera a) della legge n. 241/1990, a norma del quale il diritto di accesso ha ad oggetto sia la visione, sia l’estrazione di copia dei documenti amministrativi ai quali gli accedenti siano interessati.
Inoltre la Commissione ritiene che tale disposizione debba essere interpretata risolvendo il conflitto tra l’esigenza di salvaguardare la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, che giustifica la sottrazione all’accesso di siffatti documenti, e l’esigenza di tutela del diritto di curare o difendere in giudizio gli interessi degli accedenti, alla luce del combinato disposto tra l’art. 24, comma 7, della legge n. 241 e l’art. 60 del d.lgs. n. 196/2003.
In forza di tale combinato disposto l’accesso difensivo ai documenti contenenti dati sensibili e giudiziari è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e, laddove si tratti di documenti idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, solo a condizione che la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare sia di rango almeno pari a quello del titolare dei dati contenuti nei documenti in questione, ovvero consista in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.
Roma, 18 marzo 2014   
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.03.2014 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Costi dell'accesso esercitato in via telematica.
Il partecipante ad una procedura concorsuale indetta dalla Scuola nazionale d'amministrazione ha chiesto di visionare telematicamente i propri temi, e chiede se sia corretta la richiesta dell'amministrazione di subordinare l'accesso al pagamento di 3,25 €, a fronte di una richiesta non di copia cartacea ma di solo invio telematico. In merito questa Commissione osserva quanto segue. Sebbene il tenore letterale dell'art. 25 c. 1 della legge 241/90 ("L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e visura.") possa far sorgere, prima facie, qualche perplessità sulla correttezza della richiesta di una somma di denaro per consentire l’accesso in via telematica, occorre rilevare due aspetti.
Il primo è che anche qualora la richiesta di invio telematico sia presentata come domanda di visione, essa, per motivi intrinsecamente legati al mezzo tecnologico usato, nella sostanza si risolve non nel semplice esame degli atti, quanto piuttosto nella necessaria fornitura di una copia informatica del documento, ottenuta tramite la ricerca dell'atto e la successiva scansione, e come tale andrebbe pertanto considerata ai fini della valutazione dei costi.
Il secondo è che la giurisprudenza amministrativa ha in più di un’occasione affermato che l’espressione “costi di riproduzione” non sia da intendere stricto sensu come riferibile alle spese da sostenere per la riproduzione cartacea di documenti, ma anche (cfr. tra le altre Consiglio Stato, Sez. V, 25 ottobre 1999, n. 1709) alle particolari spese sostenute per la ricerca degli atti e ai costi di fotoriproduzione/scansionamento. Già questa Commissione, inoltre, con la propria Direttiva del 19 marzo 1993 n. 27720/928/46, ha stabilito che “Nel caso in cui il rilascio di copia comporti l'uso di apparecchiature speciali, procedure di ricerca di particolare difficoltà, o formati particolari su carta speciale, ciascuna Amministrazione potrà individuare costi diversi da corrispondere sempre mediante applicazione di marche da bollo.“
Pertanto a parere di questa Commissione è giustificata la richiesta di pagamento dei costi di riproduzione sporta dall'Amministrazione qualora effettivamente essa abbia dovuto provvedere, a seguito della richiesta ostensiva, all'espresso scansionamento dell'atto richiesto, mentre tale pretesa apparirebbe indebita qualora la copia elettronica dell'atto fosse già stata in possesso dell'amministrazione, ed essa si fosse quindi solo limitata ad inviarla al richiedente, in quanto in tal caso la mera trasmissione via e-mail del documento informatico non avrebbe determinato costi. La misura di tali importi deve inoltre costituire oggetto di responsabile valutazione da parte di ogni singola amministrazione, ed essere equo e non esoso, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di contenuta misura del contributo, in quanto la richiesta di un importo elevato costituirebbe un limite all’esercizio del diritto di accesso.
Nel caso odierno la tenuità della somma richiesta appare proporzionata al rimborso dei costi sostenuti dall'amministrazione per la riproduzione informatica di quanto chiesto, qualora effettivamente essa sia avvenuta a motivo del soddisfacimento della richiesta dell'istante, e non potrebbe considerarsi in tal caso una limitazione indiretta dell’esercizio del diritto di accesso.(Parere reso nella seduta del 19 dicembre 2013)  
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 19.12.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Illegittimità della richiesta di copia del documento di identità per accesso richiesto per via telematica.
Un iscritto al corso di laurea magistrale in “ Scienze dell’Economia” presso l’Unicusano - Università degli Studi Niccolò Cusano Telematica -, espone di aver sostenuto l’esame di Scienza delle Finanze – corso avanzato presso la sede di Trieste – e , ritenendo incongrua la valutazione di 28/30, ha chiesto tramite posta elettronica certificata con firma digitale di visionare il proprio elaborato scritto, i criteri di valutazione dell’elaborato, il verbale di esame ed il verbale di correzione dell’elaborato, lo svolgimento dell’elaborato (soluzione di tutti i quesiti proposti, i titoli accademici e scientifici) in base ai quali è stato conferito l’insegnamento del suddetto corso al dott. Alessio Fanucci.
Avendo l’Università risposto tramite PEC (posta elettronica certificata) informando che il procedimento di accesso era stato sospeso non essendo stata allegata alla domanda copia di un documento d’identità, l’esponente chiede se sia legittima tale richiesta dell’Amministrazione e se sia altresì legittima la richiesta di € 9,00 per spese di spedizione qualora la copia della documentazione oggetto di accesso possa essere inviata tramite P.E.C. (posta elettronica certificata) con scansione di detti documenti.
Ad avviso della Commissione l’operato dell’Amministrazione non può essere condiviso.
L’art. 65 del D. lgs 7 marzo 2005, n.82 e s.m.i. (c.d. Codice dell’amministrazione digitale) al primo comma, con formulazione chiara e precisa, dispone che le istanze e le dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni e ai gestori dei servizi pubblici per via telematica ai sensi dell’art. 38, commi 1 e 3, del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, sono valide se, tra l’altro, sottoscritte mediante la firma digitale, la firma elettronica qualificata il cui certificato è rilasciato da un certificatore accreditato.
Con formulazione altrettanto chiara e precisa il secondo comma del suddetto articolo dispone che le istanze e le dichiarazioni inviate o compilate su sito secondo le modalità previste dal primo comma sono equivalenti alle istanze e alle dichiarazioni sottoscritte con firma autografa apposta in presenza del dipendente addetto al procedimento.
E’ evidente, pertanto, che la disciplina dettata dalla richiamata normativa trova il proprio presupposto nel fatto che il procedimento previsto per ottenere la firma digitale certificata da sicurezza assoluta sull’identità del titolare della firma digitale, con la conseguenza che, come nel caso di specie, la domanda di accesso tramite pec non necessita affatto di essere corredata da fotocopia di documento d’identità dell’accedente.
Per quanto concerne, infine, il secondo quesito va sottolineato che alla domanda di accesso tramite pec non si applica l’imposta di bollo né altri oneri per la scansione dei documenti da trasmettere telematicamente, mentre la domanda di rilascio di copie conformi nel normale formato cartaceo continua ad essere assoggettata al pagamento dell’imposta di bollo ed ai costi di riproduzione dei documenti. In tal senso si sono determinate alcune Amministrazioni come, ad es. il Ministero dell’Interno con circolare n. 300/A/ 7138/11/101/138 del 2 settembre 2011. (Parere reso nella seduta del 18 novembre 2013)   
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.11.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso a richieste di autorizzazioni urbanistiche.
La Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio del Comune di Roma ha rappresentato di aver ricevuto da un Comitato di quartiere istanza di accesso, ai sensi della legge 241/90 e del d.lgs. 195/05, alla richiesta autorizzativa del progetto esecutivo per la realizzazione di un campo da golf e di una ristrutturazione edilizia in un'area sottoposta a tutela paesaggistica, istanza motivata dall'esistenza di un contenzioso, pendente innanzi al Tar Lazio, e in cui il Comitato è parte processuale, che ha per oggetto la richiesta di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione Lazio per la realizzazione di tale campo da golf. La controinteressata si è opposta all'accesso a tali documenti, fra l'altro obiettando di voler rinunciare al procedimento e di aver chiesto il ritiro della documentazione, che non rivestirebbe più, pertanto, la natura di documento amministrativo, e che, in quanto opera d'ingegno, sarebbe comunque protetta da privativa ex lege 633/41. Per tanto sopra scritto la Soprintendenza ha chiesto a questa Commissione di esprimere il proprio parere sull'ammissibilità o meno dell'ostensione dei documenti, che risultano attualmente in possesso dell'Amministrazione.
Non pare a questa Commissione dubbia la legittimazione passiva all'accesso degli atti in esame, stante il disposto dell'art. 22 c. 1 lett. d) l. 241/90 "Si intende (…) per documento amministrativo ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale;" e dell'art. 2 c. 2 d.P.R. 184/06 "Il diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa data da una pubblica amministrazione". Talché, sub specie iuris, scolora la rilevanza dell'intervenuta rinuncia al procedimento nelle more eventualmente operata dalla ricorrente, qualora, come nella fattispecie, tali documenti, anche non più relativi a un procedimento in corso, siano nella disponibilità dell'amministrazione, e consustanzialmente concernenti un'attività dell'amministrazione, quella della tutela costituzionalmente protetta del paesaggio, di pacifico pubblico interesse.
Per quanto alla legittimazione attiva dell'istante, essa viene rappresentata come motivata da duplice interesse: quello alla tutela dei propri interessi in giudizio, e quello alla pubblica conoscenza di documenti riguardanti materia ambientale. In disparte quest'ultimo aspetto, risulta a questa Commissione dirimente, nel valutare il diritto dell'istante a ottenere l'ostensione, pur la sola disamina della questione sul presupposto della legge 241/90. Tale legge, difatti, stabilisce all'art. 24 c. 7 che "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici", solo ponendo la cautela dell'indispensabilità in caso di dati sensibili, giuridici, sanitari o sessuali, odiernamente assenti. Orbene, stante l'oggetto del giudizio amministrativo in cui l'accedente è parte processuale, pare innegabile la connessione dei documenti domandati alle necessità della costruzione di un'adeguata strategia processuale, per la quale è d'interesse sia la ricognizione dello stato di fatto che la ricostruzione cronologica delle modificazioni dei progetti a cui l'istante si oppone. A tutela dell'opera d'ingegno del controinteressato rimane, del resto, il fatto che il consentimento dell'accesso non sgrava l'accedente dalla responsabilità per l'eventuale utilizzo illegittimo degli atti ottenuti, quale ad esempio un indebito sfruttamento economico dei progetti architettonici. (Parere reso il 18 novembre 2013)   
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.11.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Richieste di accesso, continue ed abnormi, di ex amministratori comunali o ex dipendenti e collaboratori del Comune.
Il Sindaco del Comune di Solofra fa presente che nel giro di trenta giorni è pervenuta all’Ente una enorme mole di richieste di accesso ex legge n. 241 del 1990, inoltrate da ex amministratori comunali o ex dipendenti e collaboratori dell’Ente stesso.
Premesso che, a suo avviso, tali richieste sarebbero state presentate sotto forma di istanze di accesso ma con l’intento di effettuare un controllo generalizzato sull’attività amministrativa del Comune, l’esponente chiede al riguardo il parere di questa Commissione, allegando tutte le istanze pervenute.
Osserva al riguardo la Commissione, esaminate le istanze allegate alla richiesta di parere, che le stesse non possono essere qualificate quali domande di accesso ai sensi della legge n. 241/1990 essendo esse preordinate non all’acquisizione di documentazione amministrativa in possesso dell’Amministrazione, ma piuttosto ad avere generiche informazioni o a sollecitare verifiche ovvero ad inoltrare diffida.
E’ evidente, pertanto, che
le fattispecie in esame si pongono al di fuori di tutta la normativa dettata per l’esercizio del diritto di accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 25.10.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Accesso di consigliere comunale.
Il Signor .., consigliere comunale di S. ..., espone che le modalità di esercizio del munus presso tale Comune sono regolamentate dalla deliberazione del Consiglio Comunale n. 44 del 27.09.2007.
Tale delibera sarebbe stata modificata dalla deliberazione della Giunta n. 32 del 2013, non ratificata dal Consiglio, che determinerebbe il rischio di comprimere le prerogative dei consiglieri e pregiudicare di conseguenza la cura dell’interesse pubblico connesso al mandato conferito.
Ad avviso della Commissione la tesi dell’esponente non può essere condivisa.
La citata deliberazione di Giunta, invero, non modifica affatto il regolamento approvato dal Consiglio in materia di esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, comprimendone le prerogative o restringendone i confini; al contrario il suddetto provvedimento giuntale si limita a disciplinare in concreto l’esercizio del diritto di accesso al dichiarato fine di evitare, per quanto possibile, ogni intralcio al normale svolgimento dell’attività amministrativa dell’Ente ed al regolare funzionamento degli uffici comunali.
Tale finalità, per altro, nella scia della consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, è stata sempre affermata da questa Commissione.
Va soggiunto, infine, che la delibera di Giunta in questione richiama espressamente il secondo comma dell’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000, che individua i confini dell’esercizio del diritto di accesso da parte dei consiglieri provinciali e comunali durante l’espletamento del loro mandato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 25.10.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: accesso alle planimetrie di immobili di proprietà per via telematica.
L’Ing. ….ha chiesto all’Agenzia delle Entrate, Ufficio Provinciale di…, di poter accedere alle planimetrie di immobili di sua proprietà per via telematica, non potendo recarsi personalmente presso l’ufficio per motivi di lavoro.
L’Amministrazione interessata ha fatto presente che una tale forma di accesso non è consentita ai privati i quali, per ottenere le informazioni richieste, devono recarsi personalmente presso l’Ufficio o tramite altro soggetto all’uopo formalmente delegato.
Al riguardo la Commissione osserva che con provvedimento del Direttore delle Entrate 30.09.2010 è stata data la possibilità soltanto a tecnici professionisti, formalmente incaricati dai titolari dei diritti reali sull’immobile (ovvero dall’autorità giudiziaria), abilitati alla presentazione telematica degli atti di aggiornamento catastale o ad adempimento connessi alla stipula di atti relativi ad un immobile.
Per consultare le planimetrie on-line è necessario l’invio telematico di una richiesta all’Agenzia, sottoscritta dai professionisti abilitati con firma digitale, che deve contenere la specifica dichiarazione relativa all’incarico professionale ricevuto per l’accesso alla planimetria di un determinato immobile.
Alla luce della suindicata normativa, la cui formulazione non lascia spazio ad altra interpretazione che non sia quella squisitamente letterale,
deve ritenersi che i privati siano esclusi dalla possibilità di esercitare il diritto di accesso alle planimetrie catastali per via informatica.
E’ appena il caso di sottolineare, infine, che il privato non può ottenere l’attivazione del servizio Sister come professionista, per il solo fatto di aver inoltrato all’Ufficio una richiesta con posta certificata, sottoscritta con firma digitale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.07.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso alle ingiunzioni di pagamento dell’Unione di comuni da parte del consigliere di uno dei comuni.
Un’unione di Comuni intende negare l’accesso richiesto da un consigliere di uno dei Comuni costituenti l’Unione per conoscere gli atti relativi alle ingiunzioni di pagamento. L’Unione di comuni invoca a fondamento del diniego due precedenti di questa Commissione (12.05.2009 e 13.04.2010), che aveva negato la legittimazione del consigliere comunale ad ottenere le informazioni (mancando un rapporto di dipendenza), fatti salvi i diritti informativi esercitabili nei confronti dei rappresentanti comunali eletti in seno all’Unione.
Dall’altra parte, il consigliere comunale lamenta che proprio la mancanza in concreto di tali rappresentanti nell’Unione rende impossibile ottenere informazioni necessarie per capire la grave situazione debitoria del Comune nei confronti dell’ente sovracomunale, stigmatizzata peraltro anche dalla Corte dei Conti che paventava una possibile dichiarazione di dissesto.
In disparte ogni considerazione in ordine ai problemi sulla competenza di questa Commissione, ai sensi dell’articolo 4, comma 7, del d.lgs. n. 33 del 2013, si fa presente che trattasi di documenti con obbligo di pubblicazione, quindi soggetti all’accesso civico.
In particolare, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 14.3.2013 n. 33 (pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80 ed entrato in vigore il 20 aprile u.s.) chiunque -e dunque anche i consiglieri comunali- ha diritto di ottenere l’accesso ai dati relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la p.a. ha l’obbligo di pubblicare.
Per quanto qui interessa, le pubbliche amministrazioni (tra cui rientra anche l’unione dei Comuni) pubblicano, unitamente agli atti cui si riferiscono, i rilievi non recepiti degli organi di controllo interno, degli organi di revisione amministrativa e contabile e tutti i rilievi ancorché recepiti della Corte dei conti, riguardanti l'organizzazione e l'attività dell'amministrazione o di singoli uffici (art. 31 del citato D.Lgs. n. 33/2013).
Conseguentemente,
la Commissione è del parere che l’acceso debba essere concesso non potendo in senso contrario invocarsi le pronunce citate dall’istante, essendo relative a fattispecie verificatesi prima dell’innovazione legislativa introdotta con “l’accesso civico” di cui al D.lgs. n. 33 del 2013
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 03.10.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso di un consigliere dell’Ordine ai verbali e atti della precedente consiliatura.
L’Ordine professionale in indirizzo ha chiesto a questa Commissione se sussista o meno il diritto di un componente di prima nomina, a seguito del rinnovo dei consiglieri dell’Ordine, a conoscere i verbali del Consiglio e della Commissione disciplinare della precedente consiliatura e in caso positivo se possano essere oggetto di ostensione anche i verbali inerenti all’istruttoria di esposti o ricorsi disciplinari ed ancora se in tal caso debbano essere informati i controinteressati.
In linea generale, la Commissione osserva che, anche la giurisprudenza amministrativa più recente -che si è espressa a favore della natura pubblicistica dei Consigli professionali i quali, sia pure con riferimento alle loro articolazioni locali, rientrano nella nozione di pubblica amministrazione di cui alla legge n. 241/1990- ha affermato che sono accessibili i verbali e le delibere delle sedute consiliari, sempreché sussista un interesse diretto, concreto, attuale dell’istante corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata alla documentazione richiesta.
Nel caso in esame, dal tenore dell’istanza di accesso, non si evince quale sia l’interesse specifico del consigliere ad ottenere copia integrale di tutti i verbali della consiliatura. Sarà necessario che il richiedente dettagli il proprio interesse al riguardo, non potendo ritenersi implicito nella sola qualità di consigliere dell’Ordine, altrimenti il rischio è che l’istanza di accesso si configuri come controllo generalizzato dell’operato accesso, come tale illegittima.
Qualora la verifica dell’interesse specifico dell’istante fosse positiva, e l’accesso riguardasse documentazione afferente alla posizione di terzi controinteressati, l’Ordine avrà l’onere di darne comunicazione ai controinteressati ex art. 3 DPR n. 184/2006 e di verificare la fondatezza di eventuali motivi di opposizione all’accesso, contemperando le esigenze di riservatezza e quelle dell’accesso.
Infatti,
gli atti di un procedimento disciplinare non possono considerarsi documenti esclusi tout court dall'accesso in quanto il diritto di accesso prevale anche sulla tutela della riservatezza qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei propri interessi giuridici (in conformità all’art. 15, comma 2, del regolamento attutivo emanato dall’Ordine), salvo che vengano in considerazione dati sensibili o sensibilissimi (poiché in tal caso ai sensi dell’art. 24, co. 7, legge n. 241/1990 l’accesso spetta nei limiti in cui sia strettamente indispensabile o nei termini di cui la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso sia di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 03.10.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere sul diritto di accesso di un consigliere comunale agli elenchi dei contribuenti locali e dei debitori a qualsiasi titolo delle casse comunali.
In disparte i problemi sulla competenza di questa Commissione, ai sensi dell’articolo 4, comma 7, del d.lgs. n. 33 del 2013, si osserva che la richiesta di accesso è pienamente legittima e debba essere soddisfatta nell’immediato. Infatti si fa presente che trattasi nel caso di specie di documenti con obbligo di pubblicazione, quindi soggetti all’accesso civico ai sensi del d.lgs. n. 33 del 2013.
In particolare, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 (pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80 ed entrato in vigore il 20 aprile u.s.), chiunque -e dunque anche i consiglieri comunali- ha diritto di ottenere l’accesso ai i dati relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione.
Infatti, le pubbliche amministrazioni pubblicano, unitamente agli elenchi dei contribuenti locali e dei debitori e tutti gli atti riguardanti l'organizzazione e l'attività dell'amministrazione o di singoli uffici (art. 31 del citato D.Lgs. n. 33/2013).
Conseguentemente,
la Commissione è del parere che l’acceso debba essere concesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 03.10.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso alle ingiunzioni di pagamento dell’Unione di comuni da parte del consigliere di uno dei Comuni.
Un’unione di Comuni intende negare l’accesso richiesto da un consigliere di uno dei Comuni costituenti l’Unione per conoscere gli atti relativi alle ingiunzioni di pagamento.
L’Unione di comuni invoca a fondamento del diniego due precedenti di questa Commissione (12.05.2009 e 13.04.2010), che aveva negato la legittimazione del consigliere comunale ad ottenere le informazioni (mancando un rapporto di dipendenza), fatti salvi i diritti informativi esercitabili nei confronti dei rappresentanti comunali eletti in seno all’Unione.
Dall’altra parte, il consigliere comunale lamenta che proprio la mancanza in concreto di tali rappresentanti nell’Unione rende impossibile ottenere informazioni necessarie per capire la grave situazione debitoria del Comune nei confronti dell’ente sovracomunale, stigmatizzata peraltro anche dalla Corte dei Conti che paventava una possibile dichiarazione di dissesto.
In disparte ogni considerazione in ordine ai problemi sulla competenza di questa Commissione, ai sensi dell’articolo 4, comma 7, del d.lgs. n. 33 del 2013, si fa presente che trattasi di documenti con obbligo di pubblicazione, quindi soggetti all’accesso civico.
In particolare, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 (pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80 ed entrato in vigore il 20 aprile u.s.)
chiunque -e dunque anche i consiglieri comunali- ha diritto di ottenere l’accesso ai dati relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la P.A. ha l’obbligo di pubblicare.
Per quanto qui interessa, le pubbliche amministrazioni (tra cui rientra anche l’unione dei Comuni) pubblicano, unitamente agli atti cui si riferiscono, i rilievi non recepiti degli organi di controllo interno, degli organi di revisione amministrativa e contabile e tutti i rilievi ancorché recepiti della Corte dei conti, riguardanti l'organizzazione e l'attività dell'amministrazione o di singoli uffici (art. 31 del citato D.Lgs. n. 33/2013).
Conseguentemente,
la Commissione è del parere che l’accesso debba essere concesso non potendo in senso contrario invocarsi le pronunce citate dall’istante, essendo relative a fattispecie verificatesi prima dell’innovazione legislativa introdotta con “l’accesso civico” di cui al D.lgs. n. 33 del 2013
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 03.10.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso ai verbali delle riunioni preparatorie e ai verbali delle sedute del CIPE, nonché ai documenti propedeutici alle deliberazioni del CIPE.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica, espone che il ruolo determinante del CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) in settori chiave dell’economia nazionale e in particolare in quello delle infrastrutture strategiche, favorisce una crescente attenzione dei media, delle associazioni esponenziali di interessi collettivi e di interessi diffusi, dei soggetti territoriali e dei cittadini sull’attività, posta in essere dal Comitato che si traduce, tra l’altro, in un sensibile incremento delle istanze di accesso ai verbali delle riunioni preparatorie e delle sedute del CIPE, nonché sugli atti propedeutici alle deliberazioni del CIPE, con impatti significativi sia sull’attività del Dipartimento che per il CIPE svolge attività di supporto tecnico e amministrativo sia su quelli del Comitato stesso.
Tutto ciò premesso il Dipartimento esponente, dopo aver indicato il quadro normativo di riferimento che detta la disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi del CIPE, contenuta nel D.P.C.M. 27.06.2011, n. 143, “Regolamento recante l’individuazione dei casi di esclusione dal diritto di accesso ai documenti amministrativi di competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 07.08.1990, n. 241” e nella deliberazione CIPE 30.04.2012, n. 62/2012, “Regolamento interno del CIPE”, e dopo aver rilevato che alcune disposizioni contenute nelle due normative non sembrano perfettamente coincidenti, chiede a questa Commissione quale sia la normativa da applicare a fronte di una istanza di accesso ai verbali ed agli atti propedeutici alle deliberazioni del CIPE e, nell’ipotesi in cui si dovesse ritenere prevalente il D.P.C.M. rispetto alla delibera CIPE, come debba essere intesa l’espressione “provvedimenti riguardanti singoli soggetti” ivi prevista.
Con riferimento ai quesiti posti dal Dipartimento esponente questa Commissione osserva quanto segue.
Il D.P.C.M. 27.06.2011, n. 143, con formulazione chiara e precisa, dispone che sono sottratti all’accesso i documenti propedeutici alle deliberazioni del CIPE, quali proposte e relative notifiche, valutazioni, elaborazioni, ove non contenenti provvedimenti riguardanti singoli soggetti; i verbali del CIPE e delle connesse riunioni preparatorie, ove non contenenti provvedimenti riguardanti singoli soggetti; le delibere del CIPE in corso di registrazione o di pubblicazione, salvi i casi in cui sussistono precise condizioni al pubblico interesse come previsto dall’art. 11, comma 2, del Regolamento del CIPE, ove non contenenti provvedimenti riguardanti singoli soggetti.
E’ certamente di diverso tenore la disposizione contenuta nell’art. 7, comma 3, del Regolamento interno del CIPE, secondo cui sono sottratti all’accesso tutti gli atti endoprocedimentali, ivi comprese proposte, valutazioni, elaborazioni e relative modifiche, inerenti alle deliberazioni del Comitato relative ad atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, tranne che la loro conoscenza sia necessaria per curare o per difendere gli interessi giuridici dei richiedenti.
Sotto un primo profilo le due normative non sembrano avere, dal punto di vista sostanziale, un contenuto differente, tenuto conto che ambedue, pur usando locuzioni diverse, sottraggono in via generale all’accesso tutti gli atti endoprocedimentali preordinati all’adozione delle delibere del CIPE, né può rinvenirsi un contrasto nella previsione delle eccezioni per la decisiva ragione che essendo escluso il controllo generalizzato sull’azione della pubblica amministrazione, è evidente che l’eventuale accesso può essere consentito solo a soggetti ben individuati che abbiano un interesse qualificato alla conoscenza di una determinata documentazione secondo i principi dettati dalla L. 241/1990.
Come esattamente rilevato dal Dipartimento esponente, più consistente, sotto altro profilo, si rivela la discrasia tra le due normative con riferimento alla circostanza che, mentre il D.P.C.M. sottrae all’accesso i verbali e gli atti propedeutici alle deliberazioni del CIPE, il Regolamento interno del Comitato differisce l’accesso alla data di pubblicazione della deliberazione cui si riferisce l’atto richiesto, nulla dispone sull’accessibilità ai verbali delle riunioni preparatorie del Comitato, qualifica come riservati i verbali delle sedute del Comitato stesso.
Al riguardo, invero, le due normative non si rivelano perfettamente coincidenti e tuttavia, al di là di interpretazioni di carattere sistematico finalizzate al loro coordinamento, deve sottolinearsi che, nella gerarchia delle fonti, non può che essere data prevalenza alle disposizioni del D.P.C.M., atteso che, in assenza di una apposita ed espressa disposizione di legge attributiva del relativo potere, il Regolamento interno del CIPE non può adottare disposizioni in contrasto con quelle contenute nel D.P.C.M..
Per quanto riguarda l’ulteriore quesito concernente l’interpretazione da dare alla locuzione “provvedimenti riguardanti singoli soggetti”,
ritiene la Commissione che il termine “provvedimento” non sia stato usato in senso tecnico nel D.P.C.M., cioè come atto finale di un procedimento adottato da un soggetto della pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa, destinato a modificare la realtà giuridica esistente.
Ed invero, nel contesto in cui è stato usato e cioè nel disciplinare l’esercizio del diritto di accesso, deve ritenersi che il D.P.C.M. abbia inteso rifarsi, con tale termine, a qualunque atto, confezionato o detenuto dalla pubblica amministrazione, che possa essere qualificato “documentazione amministrativa ai sensi della disciplina dettata al riguardo dalla legge n. 241 del 1990”.
Tale criterio vale naturalmente anche per i verbali e gli atti propedeutici alle deliberazioni del CIPE, che sono, alla stregua del D.P.C.M. 27.06.2011, n. 143, da considerarsi accessibili ove siano direttamente e immediatamente riferiti a singoli soggetti individuati o individuabili
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.07.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di un consigliere comunale a dati contabili del bilancio comunale.
L’istante chiede se sia legittima la richiesta presentata da un consigliere di minoranza per conoscere i dati contabili utilizzati per formare il piano esecutivo di gestione comunale, dubitando della conoscibilità di tali notizie sia perché contenuti in un documento non ancora approvato formalmente dalla G.C. sia perché condizionato alla disponibilità di tempo del personale amministrativo.
La Commissione osserva che il diniego di accesso appare del tutto illegittimo.
Il primo dubbio è infondato. Infatti, ai sensi dell’art. 43 TUEL, come interpretato da questa Commissione (arg ex parere 14.12.2010), i consiglieri comunali hanno il diritto di accedere a qualsiasi “informazione” anche di tipo contabile, ricavabile da documenti preparatori all’atto definitivo o ancora non approvati.
Del resto, il 20 aprile u.s. è entrato in vigore l’accesso civico (previsto dall’art. 5 D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80) che consente a chiunque -anche ai consiglieri comunali- di ottenere l’accesso a “documenti, informazioni e dati” che la P.A. ha l’obbligo di pubblicare, tra cui anche i dati relativi al bilancio, preventivo e consuntivo, di ciascun anno in forma sintetica, aggregata e semplificata (ex art. 29 del citato d.lgs. n. 33/2013).
Quanto alle difficoltà organizzative, è principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929) che la prerogativa dell’accesso riconosciuta ai consiglieri non può essere compressa per pretese esigenze burocratiche degli Uffici comunali.
Pertanto,
l’accesso va garantito nell’immediatezza, soprattutto quando sia funzionale alla minoranza per acquisire elementi per accrescere il dibattito consiliare sull’approvazione del bilancio.
Tuttavia,
qualora la richiesta di accesso implichi eccessivi aggravi per l’ordinaria attività amministrativa dell’ente, il responsabile del procedimento potrà dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, fermo restando il diritto del consigliere di prendere visione, nel frattempo, dei dati contabili di interesse
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.06.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Accesso a documenti relativi ad una visita medica fiscale.
Il Ministero istante, a fronte di un’istanza da parte di un dipendente in servizio all’estero per l’accesso agli atti relativi ad una visita fiscale predisposta nei suoi confronti, ha manifestato perplessità sull’accoglimento poiché sarebbe inapplicabile la legge n. 241/1990 in ragione della natura privata del rapporto di pubblico impiego.
In forza della previsione esplicita dell’articolo 23 della legge n. 241/1990, è oramai jus receptum (cfr. Cons. di Stato A.P. 22.04.1999 n. 4) che le regole del diritto di accesso ai documenti amministrativi si applicano a favore dei dipendenti delle amministrazioni statali, pur essendo intervenuta la privatizzazione del rapporto di lavoro.
Ne consegue che
è ben possibile assicurare l’accesso anche a tutti gli atti di controllo che coinvolgano il proprio personale, anche se con rapporto contrattualizzato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.06.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di consigliere comunale ai dati anagrafici e di famiglia del Sindaco, del Vice Sindaco e di alcuni dipendenti assunti nel Comune.
Il Comune istante ha manifestato dubbi sull’accoglibilità dell’istanza presentata da un consigliere comunale di minoranza per conoscere i dati anagrafici e di famiglia del Sindaco, Vicesindaco e di alcuni dipendenti assunti 25 anni orsono nonché per conoscere quali siano i titoli professionali per essere nominati componenti di commissioni di gare d’appalto.
Secondo l’ente civico, oltre a mancare il necessario collegamento tra atti richiesti ed esercizio del mandato politico, sarebbero incomprensibili le ragioni dell’accesso a notizie relative a vicende passate.
Come è noto, i consiglieri comunali ai sensi dell’art 43 d.lgs. n. 267/2000, hanno un diritto pieno, e non comprimibile, ad accedere a tutte le notizie e le informazioni in possesso degli uffici utili all’espletamento del proprio mandato tra cui anche quello di favorire un controllo diffuso sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche.
Alla luce di tale principio,
la Commissione ritiene che l’eventuale diniego di accesso alle informazioni richieste sarebbe illegittimo in quanto il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, soprattutto nella specie ove sussiste la necessità di un controllo attuale sull’uso delle risorse pubbliche comunali (permanendo nel tempo gli effetti delle assunzioni effettuate dal Comune), poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.05.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di un consigliere comunale a dati contabili del bilancio comunale.
L’istante chiede se sia legittima la richiesta presentata da un consigliere di minoranza per conoscere i dati contabili utilizzati per formare il piano esecutivo di gestione comunale, dubitando della conoscibilità di tali notizie sia perché contenuti in un documento non ancora approvato formalmente dalla G.C. sia perché condizionato alla disponibilità di tempo del personale amministrativo.
La Commissione osserva che il diniego di accesso appare del tutto illegittimo.
Il primo dubbio è infondato. Infatti, ai sensi dell’art. 43 del TUEL, come interpretato da questa Commissione (arg ex parere 14.12.2010), i consiglieri comunali hanno il diritto di accedere a qualsiasi “informazione” anche di tipo contabile, ricavabile da documenti preparatori all’atto definitivo o ancora non approvati.
Del resto, il 20 aprile u.s. è entrato in vigore l’accesso civico (previsto dall’art 5 D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 pubblicato in G.U. il 05.04.2013 n. 80) che consente a chiunque -anche ai consiglieri comunali- di ottenere l’accesso a “documenti, informazioni e dati” che la P.A. ha l’obbligo di pubblicare, tra cui anche i dati relativi al bilancio, preventivo e consuntivo, di ciascun anno in forma sintetica, aggregata e semplificata (ex art 29 del citato d.lgs. n. 33/2013).
Quanto alle difficoltà organizzative, è principio giurisprudenziale consolidato (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007 n. 929) che
la prerogativa dell’accesso riconosciuta ai consiglieri non può essere compressa per pretese esigenze burocratiche degli Uffici comunali. Pertanto, l’accesso va garantito nell’immediatezza, soprattutto quando sia funzionale alla minoranza per acquisire elementi per accrescere il dibattito consiliare sull’approvazione del bilancio.
Tuttavia,
qualora la richiesta di accesso implichi eccessivi aggravi per l’ordinaria attività amministrativa dell’ente, il responsabile del procedimento potrà dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, fermo restando il diritto del consigliere di prendere visione, nel frattempo, dei dati contabili di interesse
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 14.05.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso del consigliere comunale ad atti di società partecipata dalla Regione.
La società istante, operante nel trasporto pubblico locale partecipata a maggioranza dalla Regione Emilia Romagna e da alcune Province e Comuni, ha chiesto a questa Commissione di conoscere se il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43 del T.U.E.L. sia limitato all’attività di gestione del servizio di pubblico interesse ovvero possa estendersi anche all’organizzazione ed al funzionamento della società, assoggettata alle regole privatistiche di mercato, dovendo scegliere una linea di condotta anche per il futuro.
Il quesito va affrontato e risolto esclusivamente alla luce del disposto contenuto nell’art. 43, comma 2, del T.U.E.L. che riconosce al consigliere comunale (e provinciale) il diritto di accesso il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
La dizione letterale della disposizione richiamata, sulla quale si è formata una giurisprudenza consolidata, non lascia alcun dubbio sul fatto che i soggetti passivi della prerogativa riconosciuta ai consiglieri sono, oltre al Comune e alla Provincia, anche gli “enti da essi dipendenti”, nei quali rientrano sicuramente anche le società formalmente private ma sostanzialmente pubbliche, siccome partecipate a maggioranza da enti pubblici e comunque funzionali al perseguimento di interessi generali.
Ebbene,
ai fini dell’applicazione di tale norma speciale ex art. 43 TUEL, è condizione sufficiente che la società in questione operi nel settore pubblico e sia partecipata da enti pubblici, senza che rilevi la distinzione tra attività e organizzazione della società, che semmai assume significato alla stregua del disposto dell’art. 22, comma 1, lett. e) (che configura come “pubblica amministrazione” anche il soggetto privato “limitatamente alla sua attività di pubblico interesse”).
Una diversa interpretazione costituirebbe un ingiustificato limite alla ampia prerogativa riconosciuta al consigliere comunale e provinciale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.04.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: OGGETTO: Accesso agli atti di una gara per la fornitura di lavagne interattive multimediali da parte della ditta classificata al terzo posto.
L’Istituto scolastico in indirizzo, dopo aver rappresentato di aver indetto sul mercato elettronico della P.A. una gara per la fornitura di lavagne interattive multimediali, ha formulato a questa Commissione alcuni quesiti al fine di sapere se:
   a) sia sufficientemente motivata la richiesta di accesso formulata da una ditta, classificatasi al terzo posto della graduatoria per conoscere gli atti di gara degli altri concorrenti (offerta tecnica, offerta economica, relazione e schede tecniche) onde verificare in sede amministrativa e/o giudiziale la legittimità del procedimento di aggiudicazione;
   b) sia possibile estrarre ed inviare la documentazione di interesse tramite pec e, in caso non fosse possibile, quali dovrebbero essere i costi di riproduzione.
La prima questione non pone grossi dubbi.
Qualora l’istanza di accesso provenga da un concorrente alle gare di appalto, il partecipante ad un procedimento ha pieno diritto ad accedere agli atti dello stesso procedimento ai sensi dell’art. 10, legge n. 241/1990, senza necessità di dimostrare la titolarità di un interesse diretto e concreto e senza che la sua istanza sia motivata, trattandosi di c.d. accesso endoprocedimentale.
L’unico limite all’accesso è previsto dall’art. 24 della citata legge per i documenti relativi a “interessi industriali e commerciali (come peraltro confermato, in materia di procedimenti ad evidenza pubblica, dall’art. 13 d.lgs. 163/2006 Codice dei contratti pubblici), fatta salva comunque la prevalenza dell’accesso ogniqualvolta la conoscenza dei documenti sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
La seconda questione è più articolata concernendo, da un lato, l’ammissibilità dell’accesso telematico e, dall’altro, i costi dell’accesso.
Sul primo aspetto, si osserva che in base al quadro normativo vigente,
l’accesso telematico “deve” essere consentito, ove richiesto, nei rapporti tra P.A. e cittadino, soprattutto per corrispondere alle richieste di accesso dei documenti amministrativi.
Infatti, in base all'art. 13, comma 1, d.P.R. n. 184/2006 (disposizione che rinvia all’art. 38 del d.P.R. n. 445/2000) “le pubbliche amministrazioni assicurano che il diritto d'accesso possa essere esercitato anche in via telematica”. Inoltre, il d.lgs. n. 82/2005 “Codice dell’amministrazione digitale” sancisce in favore dei cittadini, oltre al diritto di chiedere ed ottenere l’accesso ai documenti con l'uso delle tecnologie telematiche (artt. 3 e 4), il diritto all’utilizzo della PEC per ogni scambio di documenti ed informazioni (art. 6).
Infine, l’art. 3-bis della L. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005) ha previsto che, per conseguire maggiore efficienza nelle loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l’uso della telematica. Pertanto,
nella specie, la P.A. ha il dovere di provvedere all’invio di copie digitali (anziché cartacee) degli atti amministrativi.
Circa l’altro profilo, la Commissione rammenta che
i costi di riproduzione (nonché i diritti di ricerca e visura), pur non potendo essere predeterminati a livello generale, devono costituire oggetto di responsabile valutazione da parte di ogni singola amministrazione nell’esercizio dei poteri organizzatori previsti dall’art. 8, lett. c, d.P.R. n. 184/2006, in modo da essere equi e non esosi, in quanto la richiesta di un importo elevato costituisce un limite all'esercizio del diritto di accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.04.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di consigliere comunale – accesso diretto al sistema informatico.
Un consigliere comunale lamenta l’illegittima condotta di alcuni funzionari amministrativi i quali, oltre a limitare la conoscenza degli atti dei vari settori dell’ente (compresi quelli prodromici alle deliberazioni di giunta), non consentirebbero l’accesso agli atti prima della pubblicazione in albo, addirittura rimanendo inerti sulle richieste rivolte dai consiglieri.
Pertanto, ritenendo leso l’esercizio della prerogativa riconosciuta ai consiglieri, l’istante formula a questa Commissione una serie di quesiti al fine di conoscere se:
1) le determine degli organi di governo o dei dirigenti, anche se soltanto adottate, costituiscano documenti amministrativi;
2) le determine degli organi di governo o dei dirigenti siano accessibili prima della loro pubblicazione, anche nella sola forma della visione;
3) esistono termini massimi entro cui pubblicare le delibere consiliari e di giunta e chi sia responsabile in caso di omessa pubblicazione;
4) un consigliere comunale possa accedere al sistema informatico dell’ente mediante password ed avere un’utenza e-mail dal sito web istituzionale dell’ente per migliorare il rapporto consigliere-utenti.
Circa il primo aspetto,
è indubbio che le delibere, anche se soltanto adottate, costituiscono il risultato di un atto di conoscenza o di volontà dell’organo di governo o del dirigente che materialmente lo ha formato. Pertanto, rientrano nel novero dei documenti amministrativi definiti ai sensi l'art. 22, co. 1, lett. d), legge n. 241/1990 come ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una Pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.
Del resto, l’ampiezza del diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri comunali dall’art. 43 TUEL verso qualsiasi “notizia” o “informazione” determina, di riflesso, che tale diritto possa in astratto indirizzarsi anche verso semplici informazioni, non contenute in formali documenti amministrativi.
Quanto al secondo profilo, la Commissione ritiene che
l’accesso dei consiglieri comunali vada garantito anche alle delibere adottate e dunque indipendentemente dalla avvenuta pubblicazione sul sito istituzionale dell’ente ex art. 124 TUEL (e art. 32, legge n. 69/2009) sia perché la prerogativa consiliare non può subire ingiustificate compressioni tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale sia per la diversa finalità della pubblicazione degli atti (funzionale alla conoscenza legale dell’atto) rispetto al diritto di accesso del consigliere (funzionale al controllo politico-amministrativo dell’ente).
Eventuali difficoltà pratiche, opposte dall’ente all’estrazione di copia degli atti nelle more della pubblicazione delle delibere, dovranno essere risolte lealmente a cura degli Uffici comunali, garantendo comunque al consigliere la tempestiva facoltà di prendere visione degli atti, dilazionando nel tempo l’acquisizione di copia.
In ordine al terzo punto, trattandosi di questione che non inerisce alle modalità di esercizio dell’accesso bensì alla esistenza o meno di termini di pubblicazione delle delibere e dei soggetti responsabili, la Commissione ritiene di dover declinare ogni competenza al riguardo, non rientrando tra le materie attribuite ex art. 27 legge n. 241/1990.
Infine, quanto all’ultimo aspetto, la Commissione già in altre occasioni (cfr tra le altre plenum del 20.07.2010) ha riconosciuto, ed in questa sede conferma,
la possibilità per il consigliere di uso di password di servizio per l’accesso diretto al sistema informatico interno ed al protocollo informatico comunale al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria attività amministrativa dell’ente locale.
Nulla si può esprimere sulla attivazione dell’utenza e-mail per migliorare i rapporti tra cittadini e consigliere comunale, trattandosi di materia estranea all’esercizio del diritto di accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 18.04.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso di consiglieri comunali ad atti della Società Levanto Waterfront.
La Società Levanto Waterfront, partecipata al 51% dalla società Levanto Sviluppo s.p.a a sua volta partecipata al 90% dal Comune di Levanto e al 10% dal Comune di Bonossola, costituita per realizzare le opere di trasformazione del fronte a mare di Levanto, espone che due consiglieri comunali di Levanto hanno chiesto copia di corposa documentazione relativa alla provvista delle cariche societarie, ad alcuni aspetti delle opere realizzate ed alla totalità dei contratti di compravendita degli immobili costruiti.
Avendo evaso la richiesta, a distanza di breve tempo è apparsa sulla stampa nazionale e locale un articolo estremamente diffamatorio e calunnioso nei confronti delle società, dei suoi amministratori e dei suoi soci, recante dettagli relativi alla documentazione oggetto di accesso.
Poiché i due consiglieri hanno richiesto altra documentazione, la società esponente chiede se le nuove istanze di accesso debbano essere accolte tenuto conto delle caratteristiche della società, della natura dei documenti richiesti, della gravosità della relativa raccolta e copiatura, della illegittima divulgazione dei dati acquisiti con il precedente accesso.
Questa Commissione ha più volte avuto occasione di affermare che
il diritto di accesso dei consiglieri comunali disciplinato dall’art. 43 del TUEL, si estende anche agli atti formati o stabilmente detenuti da tutte le aziende o enti partecipati dal Comune, non richiedendosi che gli stessi integrino la figura dell’in house providing.
Risulta infatti evidente che le società partecipate pubbliche restano assoggettate alle regole di buona amministrazione imparziale secondo il principio di legalità di cui all’art. 97 Cost., con la conseguenza che la loro formale natura privatistica non è idonea a consentire ad esse di sottrarsi alle regole di trasparenza e controllabilità, ivi compreso anche l’esercizio del diritto di accesso.
Va sottolineato, inoltre, che gli atti richiesti rivestono senza dubbio natura di documentazione amministrativa ai sensi della legge n. 241 del 1990, mentre per ciò che concerne la gravosità della raccolta e copiatura della corposa documentazione richiesta, la Commissione non può che richiamare il proprio consolidato orientamento, secondo cui il consigliere comunale non può abusare del diritto di accesso mettendo in difficoltà il normale funzionamento degli uffici.
Deve essere infine evidenziato che il diritto di accesso riconosciuto al consigliere comunale non può essere compresso in ragione di un eventuale uso distorto del diritto stesso, essendo altre le forme di tutela apprestate dall’ordinamento al soggetto che si ritenga danneggiato
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.03.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Estrazione copia di un verbale di conciliazione redatto nell’ambito di una procedura di raffreddamento avvenuta tra sigle sindacali.
Il Dipartimento dei Vigili del Fuoco – Relazioni Sindacali espone che alcune Organizzazioni Sindacali hanno chiesto di estrarre copia di un verbale di conciliazione redatto nell’ambito dell’espletamento di una procedura di raffreddamento avvenuta con altra sigla sindacale.
Dopo aver descritto il meccanismo per addivenire agli accordi decentrati, il Dipartimento chiede se sia legittimo l’accesso ai verbali di conciliazione di soggetti estranei allo svolgimento della procedura di raffreddamento, con particolare riferimento alla sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale da parte di Organizzazioni Sindacali estranee a siffatte procedure.
Al riguardo osserva la Commissione che le Organizzazioni Sindacali sono senza dubbio legittimate ad esercitare il diritto di accesso sia “iure proprio” sia a tutela di interessi giuridicamente rilevanti della categoria rappresentata.
Detta legittimazione, tuttavia, per consolidato principio giurisprudenziale non può tradursi in iniziative di preventivo e generalizzato controllo dell’attività dell’Amministrazione datrice di lavoro (Cons. Stato, VI, 06.03.2009, n. 1351), con la conseguenza che
la domanda di accesso, ancorché esplicata nell’esercizio delle prerogative sindacali, è subordinata all’esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata che trovi collegamento con la documentazione che si vuole conoscere
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.03.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso a documentazione relativa alle spese di rappresentanza e di segreteria dei consiglieri regionali.
Il Dirigente generale del Consiglio regionale della Basilicata espone che il sig. ..., in qualità di giornalista, ha verbalmente inoltrato richiesta di accesso ai rendiconti, alle fatture ed ai contratti giustificativi dei rimborsi per le spese di segreteria e di rappresentanza previsti dall’art. 11 della legge regionale n.8 del 1998.
A seguito del diniego il sig. ... ha autonomamente inoltrato la richiesta a tutti i Consiglieri regionali ed agli Assessori esterni della Giunta; poiché solo 14 dei 33 Consiglieri ed Assessori hanno fornito risposta positiva, l’interessato ha successivamente presentato all’Amministrazione richiesta di accesso ai suddetti atti e documenti, al dichiarato scopo di condurre una indagine giornalistica.
Ciò premesso l’esponente, dopo aver sottolineato che nel sito del Consiglio regionale è stata pubblicata parte della documentazione richiesta (in attesa della approvazione del regolamento che disciplina le modalità di accesso), esprime le proprie perplessità sull’ostensibilità di quanto richiesto perché si chiede di disporre di documentazione di natura privata (scontrini fiscali, fatture, bollette, etc.) che l’Amministrazione possiede solo in copia e di cui gli unici titolari sono i Consiglieri e gli Assessori, che peraltro hanno l’obbligo di conservare gli originali per tutta la durata della legislatura.
Dopo aver richiamato i principi giurisprudenziali in materia di diritto di accesso e di legittimazione all’esercizio del diritto stesso, l’esponente chiede se un giornalista possa accedere agli atti ed alla documentazione in questione al solo fine di condurre una inchiesta giornalistica; se la richiesta nei termini in cui è stata formulata, non debba considerarsi generica e comunque lesiva del diritto alla riservatezza dei controinteressati che non abbiano prestato il loro assenso; se, ritenuto sussistente il diritto di accesso, ne debba essere consentita la sola visione o anche l’estrazione di copia.
Non vi è dubbio che l’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi da parte di un giornalista possa collidere, per più di un motivo, con le esigenze del diritto alla riservatezza degli eventuali controinteressati.
Nel tentativo di contemperare tali opposte esigenze, in mancanza di una più precisa disciplina nell’attuale configurazione normativa che regola il diritto di accesso, già nell’ormai lontano 1996 il Consiglio di Stato (cfr. sentenza VI Sez., 06.05.1996, n. 570) ebbe ad affermare che una testata giornalistica ha titolo di accedere ai documenti amministrativi per poterli successivamente pubblicare onde informare i propri lettori; ciò in quanto il diritto di accesso si presenta come strumentale rispetto alla libertà d’informazione, costituzionalmente riconosciuta agli organi di stampa, con la conseguenza che occorre riconoscere alla testata giornalistica una posizione qualificata e differenziata alla conoscenza degli atti che possano interessare i propri lettori.
Nella scia di tali affermazioni la successiva giurisprudenza (anche di questa Commissione, cfr. parere 27.02.2003) ha avuto modo di precisare che dopo l’entrata in vigore della legge 31.12.1996, n.675, il diritto di accesso esercitato da organi di stampa avente ad oggetto documenti amministrativi contenenti dati personali sensibili relativi a terzi, prevale su quello alla riservatezza soltanto nel caso in cui una espressa disposizione di legge consenta al soggetto pubblico di comunicare a privati i dati oggetto della richiesta.
Successivamente, alla luce del disposto dell’art. 16, 2° comma, del d.lgs. 11.05.1999, n. 135 è stato precisato che l’accesso a documenti amministrativi contenenti dati sensibili è possibile soltanto nel caso in cui il diritto da far valere o difendere sia al rango almeno pari a quello dei soggetti a cui si riferiscono i dati stessi, nel senso che la prevalenza del diritto di accesso o del diritto alla riservatezza va effettuata caso per caso valutando, oltre che il rango dell’uno o dell’altro diritto, anche il rispettivo grado di compromissione che discenderebbe dalla soluzione adottata in concreto (Cons. Stato, VI, 30.03.2001, n. 1882).
La tesi della ponderazione comparativa de diritto di accesso e del diritto alla riservatezza merita senz’altro di essere condivisa, perché in realtà è idonea ad evitare soluzioni precostituite poggianti su una astratta scala gerarchica dei diritti in contesa ed a tener conto delle specifiche circostanze di fatto destinate a connotare il caso concreto (cfr. sentenza da ultimo citata).
Alla luce delle suesposte considerazioni, da una parte non può revocarsi in dubbio che gli atti, i rendiconti e la documentazione giustificativa delle spese relative al rimborso spese di rappresentanza e di segreteria costituiscano documentazione amministrativa detenuta dall’Amministrazione ai sensi della legge n. 241 del 1990; dall’altra è da escludersi che tali documenti contengano dati sensibili ai sensi della legge 31.12.1996, n. 675.
Tuttavia, anche nell’ipotesi in cui si dovesse ritenere che la suddetta documentazione contenga dati “semisensibili” e che quindi vada effettuata una valutazione comparativa analoga a quella prescritta dal citato art. 16, 2° comma, del d.lgs. 11.05.1999,
deve concludersi che il diritto di cronaca è di rango costituzionale ragion per cui l’art. 12 del d.lgs. 13.05.1998, n. 171 ha previsto che le disposizioni relative al consenso dell’interessato o all’autorizzazione del Garante non si applicano quando il trattamento di dati sensibili è effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità.
Deve essere infine sottolineato che
nel caso in esame la richiesta di accesso, per come è stata formulata, non risulta affatto generica e che comunque l’accesso deve essere consentito in maniera integrale e non solo mediante presa visione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.03.2013 - link a www.commissioneaccesso.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: L'edilizia parla una sola lingua. Un glossario unico spiegherà l'iter per ogni intervento. Palazzo Spada ha dato l'ok allo schema di decreto Scia2. Abolite la Dia e la Cil.
Un glossario unico in edilizia che garantirà regole omogenee e un linguaggio comune su tutto il territorio nazionale. E che, soprattutto, individuerà il titolo giuridico necessario per ciascuna tipologia di intervento.
La Cil (Comunicazione di inizio lavori), introdotta dal dl 40/2010, viene abolita e gli interventi ad essa assoggettati sono ritenuti di attività libera. Quanto alla Comunicazione asseverata (cosiddetta Cila), essa viene estesa anche al restauro e al risanamento conservativo che non riguardano parti strutturali dell'edificio. Va in soffitta anche la Dia (Dichiarazione di inizio attività), sostituita da una Scia con inizio posticipato dei lavori. E vengono semplificati i procedimenti relativi alla certificazione di agibilità, prevedendo un'apposita Segnalazione certificata di agibilità.

E' quanto prevede lo schema di decreto legislativo cd “Scia 2”
(Atto del Governo n. 322 - Schema di decreto legislativo recante individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), silenzio-assenso e comunicazione e definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti), già varato in via preliminare dal consiglio dei ministri, che ha ricevuto il via libera dal Consiglio di Stato con il parere 04.08.2016 n.1784.
Si tratta di uno dei tanti tasselli attuativi della delega Madia che va a completare la riforma avviata dal primo dlgs (cd “Scia 1”), ossia il decreto legislativo n. 126/2016 in vigore dal 28 luglio scorso (si veda ItaliaOggi del 29/7/2016).
Ma là dove il dlgs 126 si manteneva nel generico, disegnando la disciplina generale applicabile alle attività private non soggette ad autorizzazione espressa e soggette, invece, a Segnalazione certificata di inizio attività, lo schema di decreto “Scia 2” va nel concreto, effettuando una ricognizione delle attività private nei settori dell'edilizia, dell'ambiente e del commercio. In questo modo viene data piena attuazione alla legge delega di riforma della p.a., che richiedeva «la precisa individuazione» dei procedimenti soggetti a Scia, silenzio-assenso, autorizzazione espressa e comunicazione preventiva. Vediamo le novità più rilevanti.
Glossario unico. L'art. 1 comma 2 dello schema stabilisce l'esigenza di «garantire omogeneità di regime giuridico in materia di edilizia su tutto il territorio nazionale». A tale scopo, demanda a un decreto del ministero delle infrastrutture e trasporti l'adozione del «glossario unico». Fino all'adozione del testo, le p.a. dovranno pubblicare sul proprio sito web un glossario che consenta l'immediata individuazione della tipologia dell'intervento e del conseguente regime giuridico, indicando i documenti necessari.
La misura piace al Consiglio di stato che nel parere ha evidenziato come la necessità di omogeneizzare il linguaggio sia «parte integrante della riforma».
Comunicazione di inizio lavori addio. Viene abolita la Comunicazione di inizio lavori (Cil) , introdotta nel 2010, che scontava il difetto di lasciare ampi poteri sanzionatori e repressivi alle amministrazioni comunali. Di fatto, osserva palazzo Spada, «il legislatore aveva scelto di non liberalizzare integralmente gli interventi soggetti a Cil, i quali si caratterizzano per avere comunque un impatto verso l'esterno, benché limitato ovvero temporaneo, introducendo un regime a metà strada tra l'attività completamente libera e la Dia».
Alla Cil si affiancava poi la Cil asseverata (Cila) per gli interventi di manutenzione straordinaria che richiedeva all'interessato la trasmissione agli uffici comunali della comunicazione corredata da una relazione tecnica completa di allegati progettuali e firma di un professionista abilitato.
Lo schema di decreto «Scia 2» semplifica il quadro normativo per agevolare cittadini e imprese. Gli interventi sono quattro. Viene abolita la Cil e gli interventi ad essa assoggettati sono ritenuti attività libera. Viene inserito tra gli interventi assoggettati a Cila anche il restauro e il risanamento conservativo che non riguardi parti strutturali dell'edificio. In terzo luogo, è abolita la Dia in alternativa al permesso di costruire, sostituita da una Scia con inizio posticipato dei lavori.
Per il Consiglio di stato «si tratta di una semplificazione innanzitutto terminologica, già in parte realizzata a livello regionale, onde evitare il protrarsi dell'utilizzo di distinzioni valide sul piano lessicale, ma non su quello concettuale». Infine, è stato semplificato il procedimento relativo al certificato di agibilità, prevedendo un'apposita segnalazione certificata di agibilità.
In questo modo, si delinea un quadro di interventi edilizi basato su 5 ipotesi: interventi in edilizia libera senza adempimenti; interventi in attività libera ma che richiedono la Cila; interventi assoggettati a Scia; interventi assoggettati a permesso di costruire; interventi per i quali è comunque possibile chiedere il permesso di costruire in alternativa alla Scia. Il regime ordinario diviene quindi quello della Cila e non più della Scia, fatte salve le ipotesi espressamente assoggettate ad altri regimi.
I rilievi del Consiglio di stato si concentrano soprattutto sulle sanzioni. Per palazzo Spada la sanzione pecuniaria forfettizzata in 1.000 euro, prevista per la sola ipotesi di Cila mancante, potrebbe risultare troppo lieve in alcuni casi. Meglio sarebbe se fosse graduata ed estesa anche alle altre ipotesi di irregolarità (lavori eseguiti in difformità ovvero Cila incompleta o irregolare) (articolo ItaliaOggi del 09.08.2016).

VARIDenuncia per l'auto rigata. Mingiustizia.
Chi ha l'amara sorpresa di ritrovarsi danneggiata l'auto in sosta sulla strada può presentare denuncia a un organo di polizia. Questo reato resta infatti perseguibile d'ufficio e non è stato modificato dalla recente depenalizzazione.

Lo ha chiarito il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri il 05/07/2016 in commissione giustizia alla Camera, in risposta a una interrogazione scritta.
Con l'entrata in vigore dei dlgs nn. 7 e 8 del 15.01.2016 alcuni comandi di polizia e carabinieri hanno iniziato a rifiutare di ricevere le querele presentate dai proprietari di veicoli oggetto di danneggiamento. Per chiarire la reale portata dell'avvenuta depenalizzazione è dovuto intervenire il governo.
La nuova formulazione dell'art. 635 del codice penale è rimasta sostanzialmente immutata per quanto riguarda il danneggiamento aggravato delle cose esposte per necessità alla pubblica fede, come le vetture in sosta sulle strade.
Per questo motivo il reato di danneggiamento di auto in sosta resta strutturato in forma aggravata ed è procedibile d'ufficio (articolo ItaliaOggi del 09.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIP.a., documenti dematerializzati dal 12/8.
La digitalizzazione totale dei procedimenti e provvedimenti amministrativi prevista per il venerdì 12 agosto è specificamente rilevante per la trasparenza amministrativa, più che per la forma degli atti da adottare.

Come è noto, dal 12 agosto scattano le regole tecniche disposte dal dpcm del 13.11.02014 di attuazione del Codice dell'amministrazione digitale, finalizzate alla dematerializzazione dei documenti amministrativi.
In molti stanno concentrando l'attenzione sulla necessità che i documenti originali delle pubbliche amministrazioni siano necessariamente prodotti in modalità informatica nativa, completata con uno degli strumenti che assicurano l'immodificabilità: la sottoscrizione con firma digitale ovvero con firma elettronica qualificata; l'apposizione di una validazione temporale; il trasferimento a soggetti terzi con posta elettronica certificata con ricevuta completa; la memorizzazione su sistemi di gestione documentale che adottino idonee politiche di sicurezza; il versamento ad un sistema di conservazione.
Tuttavia, la dematerializzazione si accompagna all'obbligo di formare i fascicoli informatici di gestione dei procedimenti, secondo le regole stabilite dall'articolo 41 del dlgs 82/2005, il cui comma 2-bis, in particolare, dispone che «il fascicolo informatico è realizzato garantendo la possibilità di essere direttamente consultato ed alimentato da tutte le amministrazioni coinvolte nel procedimento. Le regole per la costituzione, l'identificazione e l'utilizzo del fascicolo sono conformi ai principi di una corretta gestione documentale ed alla disciplina della formazione, gestione, conservazione e trasmissione del documento informatico, ivi comprese le regole concernenti il protocollo informatico ed il sistema pubblico di connettività, e comunque rispettano i criteri dell'interoperabilità e della cooperazione applicativa».
Queste norme non sono fini a se stesse, cioè utili sono a un diverso modo di produrre e conservare i documenti amministrativi, ma, come detto prima, mirate a garantire trasparenza piena e accessibilità all'attività amministrativa. La normativa fin qui esaminata, infatti, è da mettere in stretta correlazione con l'articolo 1, comma 30, della legge anticorruzione, la 190/2012, ai sensi del quale le pubbliche amministrazioni «hanno l'obbligo di rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite strumenti di identificazione informatica di cui all'articolo 65, comma 1, del codice di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni, le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase».
È evidente che l'obbligo di trasparenza imposto dalla normativa anticorruzione presuppone l'esistenza di un sistema di produzione dei documenti di carattere informatico, con la garanzia dell'immodificabilità, ma soprattutto l'esistenza di un sistema di gestione del flusso procedimentale, utile per distinguere le varie fasi e capace di rappresentare on-line, utilizzando strumenti telematici, lo stato del procedimento. Il sistema dovrà completarsi con modalità che consentano a ciascun interessato di accreditarsi in modo univoco al sistema (tramite strumenti come pin e user id e password) e accedere in visualizzazione allo stato delle pratiche, per rendersi conto in tempo reale dell'andamento e, anche, per accedere direttamente agli originali o alle copie autenticate dei provvedimenti adottati.
La «reingegnerizzazione» dei processi di cui molti parlano, dunque, non sta tanto nella modalità con la quale si producono i documenti, quanto, soprattutto, nella messa a punto degli strumenti di accesso online, che la legge anticorruzione pretende già da quattro anni (articolo ItaliaOggi del 09.08.2016).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Acquisti centralizzati anche per gli enti locali. Da domani primo stop alle gare fai-da-te ma solo i servizi di pulizia sono disponibili per tutti.
Un altro giro di vite per Comuni e Province sugli acquisti autonomi di beni e servizi. Da domani, 9 agosto, scatta per loro l’obbligo di comprare servizi come la pulizia degli immobili o la vigilanza solo attraverso le convenzioni già attivate dai cosiddetti soggetti aggregatori.
Altri 3 miliardi di spesa pubblica, dopo gli oltre 12 miliardi di quella sanitaria, diventano così a gestione centralizzata. Con l’obiettivo di scendere dagli oltre 32mila punti di acquisto della Pa ai soli 33 soggetti aggregatori, almeno per le prime 19 categorie monitorate.
Ma l’obbligo che scatta da domani non sarà operativo per tutti dallo stesso momento. Perché il processo sia completato occorrerà attendere ancora molti mesi: secondo il piano delle iniziative pubblicato dagli stessi soggetti aggregatori, l’ultima gara che metterà a disposizione questi servizi verrà bandita solo a fine 2017. E i servizi saranno disponibili dopo l’aggiudicazione, per la quale servono altri mesi.
L’obbligo
Da domani entra a pieno regime il decreto del 24.12.2015 con cui sono state individuate le prime 19 categorie merceologiche da “aggredire” solo con spesa centralizzata. La prima fase è scattata a febbraio e ha coinvolto soprattutto gli enti del servizio sanitario nazionale, oltre alle amministrazioni centrali. Da quella data per 14 tra prodotti e servizi (per esempio, vaccini, stent, defibrillatori e smaltimento rifiuti sanitari) gli enti non possono più bandire gare in autonomia. Se la fornitura è al di sopra dei 40mila euro (209mila per stent, pacemaker e defibrillatori) devono prima “pescare” nelle convenzioni attive a livello regionale del proprio soggetto aggregatore.
Se manca la convenzione, devono rivolgersi direttamente a Consip. E solo se anche Consip non ha la convenzione attiva si può procedere in autonomia, rispettando le altre regole di acquisto (si veda anche l’articolo in basso). Un percorso da cui non si scappa: se la convenzione è disponibile, l’Anticorruzione non rilascia il Cig, il Codice identificativo gara, indispensabile per ogni appalto.
Da domani questo obbligo si amplia ad altre cinque categorie di servizi: manutenzione e pulizia immobili, facility management, guardiania e vigilanza armata. Per queste ultime due la soglia di centralizzazione è di 40mila euro; per le altre è di 209mila, da conteggiare su base annua. Le amministrazioni coinvolte in questa seconda fase sono: Comuni, Province, Camere di commercio, Iacp ed enti pubblici non economici (si veda anche Il Sole 24 Ore del 1° agosto). Dovranno rivolgersi, nell’ordine: alla città metropolitana di riferimento (se esiste tra i soggetti aggregatori), poi alla centrale regionale, sempre di riferimento, e in ultima istanza a Consip.
Disponibilità e timing
L’unico settore già coperto completamente è quello della pulizia immobili. Solo qui infatti è attiva (dal 2013) la convenzione di Consip (si veda la tabella a fianco), il fornitore di ultima istanza per tutti.
Il resto è abbastanza indietro: la pulizia è attiva in altre tre Regioni (Emilia Romagna, Liguria e Molise); il facility management e la manutenzione in un solo ambito (rispettivamente Molise e città metropolitana di Genova). Zero disponibilità, al momento, per guardiania e vigilanza armata. Va detto che Consip ha già bandito le gare per tre servizi su quattro nel 2015. Ma si tratta di procedure complesse, di cui non si conosce la data di attivazione. Pesano i tempi di gestione degli appalti, spesso penalizzati ulteriormente da importanti contenziosi.
Quello di domani, comunque, sarà il debutto vero per le otto città metropolitane e le due Province che sono state qualificate come soggetti aggregatori, che con il focus sulla sanità finora erano rimaste ai margini. Ma solo la città di Genova è già operativa, almeno per la manutenzione immobili. Le altre sono ancora in fase di lancio. Peraltro diverse non hanno ancora programmato convenzioni in molti dei servizi richiesti.
I risparmi attesi
Proprio a causa dell’attivazione a scacchiera, il ministero dell’Economia, che coordina il tavolo dei soggetti aggregatori, non può stimare da subito con precisione l’impatto di queste misure. Ma i primi mesi di sperimentazione sulla sanità stanno facendo affiorare qualche cifra. Secondo il commissario alla spending review, Yoram Gutgeld, il risparmio medio ottenibile con l’acquisto centralizzato si aggira sul 30% dei prezzi (si veda Il Sole 24 Ore del 5 agosto). Che su un totale di spesa centralizzata di 15 miliardi l’anno significherebbero oltre quattro miliardi in meno.
Ma perché il risparmio sia a regime su tutte le Pa occorre tempo. E non solo per completare la mappa dei prodotti acquistati a minor prezzo. Anche per raggiungere in modo capillare tutti i centri di spesa. Bisogna infatti che ogni “vecchio” appalto vada a scadenza, prima di attivare le nuove forniture. Solo allora l’acquisto a prezzi scontati diventa realtà.

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Appalti sempre meno autonomi.
Le regole. Ridotta a mille euro la fascia completamente liberalizzata e dal 10 agosto arrivano i prezzi benchmark.

Anche se Comuni e Province non troveranno già da domani gli strumenti di acquisto centralizzato per le 19 categorie di beni e servizi “rafforzate”, difficilmente avranno le mani libere per procedere in autonomia agli appalti di servizi e forniture.
Dentro e fuori dal perimetro delle 19 categorie merceologiche, infatti, sono in vigore da anni regole che impongono a tutte le amministrazioni, comprese quelle locali, di rifornirsi almeno attraverso i mercati telematici, che garantiscono, oltre ai risparmi sul prezzo, anche tagli ai costi di gestione delle gare. Primo fra tutti il Mepa, il Mercato elettronico della Pubblica amministrazione, la grande piattaforma telematica gestita da Consip per gli acquisti di piccola taglia e continuativi che vede presenti più di sette milioni di prodotti. Nel 2015 sono passati dal Mepa circa 650mila ordini per un valore totale di più di due miliardi di euro (+39% rispetto al 2014).
L’ultimo riordino della normativa sugli acquisti centralizzati è scattato con il nuovo Codice appalti, dal 19 aprile scorso. Sommando queste disposizioni con quelle che si sono accavallate (a volte in modo un po’ confuso) negli anni, si ottiene il quadro dei (pochi) margini di autonomia rimasti alle amministrazioni.
In pratica, solo i mini-acquisti fino a mille euro sono completamente gestibili in autonomia. Al di sopra di questa soglia cominciano i percorsi obbligati (si veda la scheda a lato). Fino a 40mila euro, in realtà, il vincolo riguarda solo le modalità di acquisto. Gli enti locali debbono scegliere la via dei mercati elettronici: non solo il Mepa, appunto, ma anche quelli di altre centrali di committenza, anche a livello locale. Ma possono farlo sempre singolarmente.
L’aggregazione è necessaria sopra i 40mila euro, per i Comuni che non sono capoluogo di provincia. Questi devono strutturarsi tramite i soggetti aggregatori o le centrali di committenza o, ancora, attraverso l’unione di Comuni.
La stessa soglia fa scattare anche l’obbligo di qualificazione della stazione appaltante. Ma il passaggio non sarà attivo fino a che il ministero delle Infrastrutture non avrà varato un decreto con i criteri.
Da mercoledì 10 agosto, poi, sarà ancora più difficile “smarcarsi” dagli acquisti centralizzati: da quella data, infatti, entrerà in vigore il decreto del Mef con i parametri prezzo/qualità per 34 categorie di beni (tra cui fotocopiatrici, Pc e tablet). Per tutte le amministrazioni varrà da benchmark, sia per i prezzi, appunto, che per le caratteristiche essenziali del bene da acquistare e che dovranno essere rispettate in caso di acquisto autonomo
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, sul riciclo ordinario può decidere la Regione. Confermato il potere delle autorità locali di accordare il recupero.
Riutilizzo dei materiali. Il ministero chiarisce che non occorre attendere nuove regole europee.

Anche in assenza di regolamenti Ue o di decreti nazionali, le Regioni possono concedere le autorizzazioni per il recupero non agevolato di rifiuti che produce «end of waste», individuando i criteri specifici ai quali la sostanza o l’oggetto devono rispondere per cessare di essere rifiuti.
È questo, in estrema sintesi, il senso della nota 01.07.2016 n. 10045 di prot.Disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto - Applicazione dell’articolo 184-ter Dlgs 03.04.2006 n. 152»), inviata a tutte le Regioni italiane dal direttore generale per i rifiuti e l’inquinamento del ministero dell’Ambiente.
Il documento ha offerto opportuni chiarimenti alle amministrazioni che hanno la competenza al rilascio delle autorizzazioni in forma ordinaria per la corretta gestione dei rifiuti, con precisazioni necessarie per uniformare l’attività amministrativa.
L’«end of waste» è il concetto che sta gradualmente sostituendo quello di Mps (materie prime secondarie) e che rappresenta l’esito finale del riciclo, vale a dire –appunto– la «fine del rifiuto».
Un chiarimento atteso
Si è disincagliato in questo modo il settore nazionale del riciclo dei rifiuti condotto in forma ordinaria. La nota ministeriale ribadisce infatti che le caratteristiche sull’«end of waste» –previste all’articolo 184-ter del Dlgs 152/2006 (Codice ambientale)– saranno individuate dalle autorità regionali o provinciali competenti al rilascio delle autorizzazioni ordinarie, senza bisogno di aspettare i regolamenti Ue o i decreti nazionali. Il ministero è giunto a tali conclusioni attraverso una lettura ragionata della disciplina normativa di settore.
Alcune Regioni avevano d’altra parte chiesto spiegazioni sul riparto delle competenze in tema di autorizzazioni ordinarie per il riciclo dei rifiuti e sulla possibilità di rilasciarne di nuove al di fuori dei regolamenti comunitari emanati (rottami di ferro e acciaio, vetro e rame) o del sistema del recupero agevolato (Dm 5 febbraio 1998, 161/2002 e 269/2005).
Le perplessità regionali nascevano dal fatto che la legge 116/2014 ha aggiunto il comma 8-sexies all’articolo 216 del Dlgs 152/2006, concedendo sei mesi di tempo per adeguare le autorizzazioni alle future norme sull’«end of waste». La nota sottolinea adesso che si tratta solo di un sistema di adeguamento (si veda l’altro articolo in pagina), ma molte Regioni leggevano la questione diversamente.
Così, mentre l’Europa spinge sull’economia circolare e l’allungamento del ciclo di vita del prodotto (anche se su questo punto si genererà confusione, poiché l’attuale definizione di rifiuto non cambierà), nel tempo le letture locali hanno di fatto bloccato il riciclo in forma ordinaria, non concedendo le autorizzazioni. Siccome si ritenevano addirittura non competenti in materia, aspettavano le norme tecniche di Bruxelles o del ministero dell’Ambiente. Con il risultato che l’unico riciclo possibile restava quello agevolato previsto dai citati decreti.
Lo sblocco «interpretativo»
La nota ricorda quindi che nel corpo del Codice ambientale, l’articolo 184-ter ha sostituito l’articolo 181-bis e il nuovo testo cita espressamente le autorizzazioni ordinarie rilasciate dalle Regioni o dalle Province (Aia compresa) come gli atti idonei a legittimare il riciclo e a individuare le caratteristiche dei materiali ottenuti dal processo industriale.
Il provvedimento rammenta anche la norma di chiusura (articolo 214, comma 7, Dlgs 152/2006) che legittima le Regioni ad accordare il recupero di rifiuti non autorizzabili in procedura semplificata.
Sulla scorta di tale ricostruzione normativa, la nota ministeriale evidenzia le tre modalità di definizione dei criteri «end of waste», gerarchicamente ordinate:
- con regolamento comunitario, ove emanato, di cui all’articolo 6, comma 2, direttiva 2008/98/Ce;
- con decreto ministeriale, ove emanato, di cui all’articolo 184-ter, comma 2, Dlgs 152/2006;
- con singole autorizzazioni emanate dalle regioni o dagli enti delegati (ex articoli 208, 209 e 211, Dlgs 152/2006 e disciplina Aia), previo riscontro delle condizioni di cui all’articolo 184-ter, comma 1.
Viene dunque richiamata anche la guida interpretativa della direttiva 2008/98/Ce, adottata dalla commissione Ue nel giugno 2012, secondo cui –quando non esistono regolamenti sull’«end of waste»– gli Stati membri possono definire i criteri per classi di rifiuti oppure per singolo caso. La guida aggiunge inoltre che per le singole autorizzazioni non sussiste l’obbligo di notifica alla commissione.
Ora, confortate da questa netta e importante presa di posizione ministeriale, le Regioni e le Province non possono non riattivarsi.
  
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Il coordinamento tra autorizzazioni e future norme Ue. Impianti. I titolari devono aggiornare i permessi.
Sei mesi di tempo per adeguare le autorizzazioni alle norme Ue che saranno adottate sull’«end of waste». È il termine concesso dal comma 8-sexies, articolo 216, del Dlgs 152/2006 (Codice ambientale), che è stato aggiunto dalla legge 116/2014.
A parere di molte Regioni tale previsione avrebbe riorientato la lettura degli articoli 208, 209 e 211 del Codice e tolto la possibilità alle amministrazioni (regionali e provinciali) di definire con l’autorizzazione ordinaria i criteri di «fine del rifuto» per il singolo caso.
Con la nota del 1° luglio scorso, il ministero ha invece confermato che lo spirito di tale comma 8-sexies è solo quello di garantire a chi era autorizzato per le Mps (materie prime secondarie), in forma sia ordinaria che semplificata, un passaggio “soft” di sei mesi verso l’«end of waste» introdotta dalla direttiva 2008/98/Ce, provvedendo all’adeguamento dell’autorizzazione già in essere. Per i decreti nazionali, al contrario, il periodo di adeguamento viene stabilito dagli stessi decreti.
Il comma 8-sexies è stato infatti aggiunto perché, se non ci fosse una perfetta conformità tra la norma europea e l’autorizzazione esistente, la diretta applicazione dei futuri regolamenti Ue produrrebbe un blocco delle attività degli impianti già autorizzati. Durante i sei mesi di periodo transitorio, dunque, viene concesso agli impianti di continuare l’attività nel rispetto dell’autorizzazione già rilasciata. Tuttavia, il titolare dell’impianto deve provvedere all’aggiornamento della propria autorizzazione, affinché questa contenga le eventuali modifiche necessarie per allineare la gestione dei rifiuti ai criteri dettati dal regolamento.
Se, entro sei mesi dall’entrata in vigore dei futuri regolamenti comunitari, non si ottiene il rilascio di una nuova autorizzazione, le operazioni condotte nell’impianto non portano alla cessazione della qualifica di rifiuti. Pertanto, i rifiuti gestiti, per cessare di essere tali, dovranno essere sottoposti a ulteriori trattamenti presso impianti autorizzati.
Per questi motivi, la recente nota ministeriale conclude affermando che il comma 8-sexies all’articolo 216 del Codice ambientale non ha mutato né le modalità di individuazione dei criteri di «end of waste», né il riparto delle relative competenze. La lettura regionale avrebbe anche posto l’Italia in contrasto con la direttiva 2008/98/Ce (che spinge verso la “società del riciclaggio”), configurando una violazione dell’ordinamento comunitario.
Le norme sul recupero agevolato si applicano solo a quello condotto in forma semplificata e sono, ovviamente, parziali. Inoltre, limitano le quantità di rifiuti che possono essere riciclate, rendendole esigue rispetto alle capacità impiantistiche installate. Quindi, in molte aree nazionali, le imprese di settore venivano poste dinanzi all’irragionevole scelta di buttare rifiuti preziosi in discarica o di esportarli, oppure di delocalizzare. Uno stallo che ha sicuramente creato terreno fertile per l’abbandono di risorse definite rifiuti
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIDa venerdì 12 agosto atti pubblici solo telematici. La firma digitale certifica la data e la provenienza del documento.
Innovazione. Entra in vigore dopo i 18 mesi di sospensione l’addio definitivo alla carta.

Nel lungo percorso di modernizzazione della pubblica amministrazione una tappa fondamentale è quella che prevede, a partire dal prossimo 12 agosto, l’abbandono definitivo della carta a favore di una gestione dei procedimenti amministrativi di propria competenza solo attraverso strumenti informatici.
Sebbene l’appuntamento fosse noto da tempo, da quando cioè il Dpcm del 13.11.2014 (attuativo del Codice dell’amministrazione digitale) ha dettato le regole tecniche per la dematerializzazione dei documenti, fissando un termine di 18 mesi dalla sua entrata in vigore per l’adeguamento, sono pochi gli enti pronti allo swicht off.
La digitalizzazione dei flussi documentali infatti presuppone non solo un investimento in termini tecnologici (per dotarsi degli strumenti hardware e software necessari), ma anche organizzativo, attraverso la radicale ed integrale revisione dei processi organizzativi volta a superare abitudini consolidate e giuridico, mediante l’adeguamento dei propri regolamenti.
Tutte le pubbliche amministrazioni dovranno formare gli originali dei propri atti esclusivamente con modalità informatiche, seguendo precise regole tecniche che ne garantiscano qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità. La firma digitale assicurerà il legame del documento con il firmatario dello stesso, così da certificarne la provenienza, mentre la validazione temporale (tramite marca temporale, Pec, eccetera) avrà lo scopo di attribuire data e ora certa opponibili ai terzi.
Secondo l’Agid la validazione temporale del documento, pur successiva alla sottoscrizione, deve avvenire nel più breve tempo possibile, e questo imporrà agli enti –non senza difficoltà- di «lavorare in tempo reale». Le amministrazioni dovranno anche certificare la conformità delle copie informatiche (ad esempio le scansioni) dei documenti cartacei pervenuti agli uffici secondo le regole previste dal medesimo decreto.
La dematerializzazione non deve essere intesa solo come tendenza alla sostituzione della documentazione cartacea in favore del documento digitale ma anche come gestione totalmente informatica dei flussi documentali. Attraverso l’apertura di un fascicolo informatico per ogni procedimento gestito i documenti potranno essere consultati ed alimentati da tutte le amministrazioni interessate. Per giungere a questo risultato è necessario che gli enti procedano alla stesura della mappa dei procedimenti che quotidianamente vengono gestiti nelle ordinarie attività dell’ufficio e si dotino di sistemi di classificazione e fascicolazione in grado di garantire una ordinata conservazione e un rapido rinvenimento dei documenti.
L’assenza di sanzioni in caso di mancato adeguamento alle nuove disposizioni non deve far passare in secondo piano l’importanza della scadenza, complice anche il periodo estivo. È evidente infatti come il requisito formale nel diritto amministrativo sia una condizione di legittimità degli atti e continuare a produrre delibere, determine, decreti, ordinanze, eccetera su carta senza rispettare le regole tecniche imposte dalla legge espone le amministrazioni al rischio di contenzioso sulla efficacia e validità degli stessi, con conseguenti responsabilità da parte dei soggetti coinvolti.
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Controlli preventivi a tutto campo. Contabilità. Le conseguenze operative delle nuove procedure digitali.
Come riorganizzare i processi interni è l’interrogativo che gli enti devono porsi non solo per rispettare l’obbligo di digitalizzazione introdotto dal prossimo 12 agosto, ma anche per ottenere quelle economie da riorganizzazione che rappresentano la vera sfida per gli enti locali. La riforma dei controlli interni introdotta con il Dl 174/2012 ha assegnato al responsabile di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell’ente, ed oggi l’obbligo di produrre e gestire i documenti dell’ente esclusivamente con modalità informatiche impone di rendere preventive le verifiche contabili su questi atti.
Cosa fare allora per efficientare il processo di formazione e garantire il rispetto dei nuovi obblighi informatici ed il controllo contabile della ragioneria, da svolgersi in base agli articoli 49, 147-bis e 183, comma 7, del Tuel? L’aspetto più complesso risiede sicuramente nei rapporti tra i servizi dell’ente in quanto, mentre nella fase di rilascio del parere contabile agli organi deliberanti, questi possono discostarsi motivatamente dal parere, ciò non si ritiene applicabile anche al provvedimento dirigenziale o perlomeno non così direttamente.
Proviamo allora a suggerire un percorso idoneo:
- rendere preventivi sia il controllo contabile (attinente alla conformità a leggi e regolamenti contabili dell’atto) che il controllo finanziario (attinente all’attestazione della copertura finanziaria);
- definire nel regolamento di contabilità gli ambiti di potere e di responsabilità del responsabile finanziario rispetto agli altri responsabili di servizio, che chiarisca con quali modalità le ragionerie debbano effettuare le loro osservazioni in merito a presunte illegittimità contabili dell’atto e come gli altri Responsabili se ne possano discostare in caso di divergenza tra i soggetti;
- prevedere una forma di collaborazione attiva da parte della ragioneria nei confronti dei vari servizi per l’individuazione dei possibili tempi di pagamento; adempimento richiesto dall’articolo 183, comma 8, del Tuel e posto a carico del responsabile che adotta l’impegno di spesa.
Mettere in discussione lo status quo di un ente comporta inevitabilmente una serie di nuovi equilibri tra gli attori organizzativi. Del resto il tema delle resistenze riveste una particolare criticità, in quanto le numerose evidenze empiriche sono concordi nell’attribuirgli il maggior peso tra i fattori di insuccesso dei programmi di cambiamento organizzativo.
È il momento quindi di attribuire un’anima ai nuovi strumenti informatici di lavoro, per assegnare maggiore forza a quei fattori che favoriscono il cambiamento e garantendo nel contempo anche il mantenimento degli equilibri di bilancio, a cui ogni operatore dell’ente dovrebbe aspirare
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIRelazione di avvio in 1.342 Comuni. Amministratori. Gli obblighi dei sindaci.
A settembre, 1342 sindaci dovranno sottoscrivere la relazione di inizio mandato, prima occasione per far capire se il neosindaco intende lottare per il primato o per un ruolo gregario rispetto al suo omologo uscente.
Si tratta di un impegno difficile, specie se «nudi e crudi» in materia di politica di bilancio, ma di vitale importanza. Nonostante ciò, è stato sottovalutato fin dal suo esordio (2013), con conseguenze non affatto piacevoli a fine sindacatura.
Rispetto al 2013, sono molte le le novità. È stata introdotta la nuova disciplina sui controlli interni (articoli 147-147-quinquies del Tuel) ed esterni (articoli 148-148-bis), con i quali misurarsi e sui quali relazionare. Tantissimi sono i Comuni in dissesto o predissesto. È stato insediato in Costituzione il concorso obbligatorio degli enti locali al pareggio di bilancio. Tutti i Comuni hanno goduto delle anticipazioni di liquidità messe a disposizione dalla Cdp per saldare i fornitori e da ammortizzare in 30 anni.
A fronte di tutto questo non sono mancati i problemi, che per lo più persistono e dei quali occorre tener conto nella relazione. Su tutti, c’è la frequente inadeguatezza della macchina comunale, con personale spesso inadatto ad implementare le novità in arrivo dall’attuazione della riforma Madia. Nondimeno sarà difficile assolvere agli impegni contratti con i piani di rientro del predissesto, cui spesso si è aderito con la speranza del solito salvataggio statale: difficoltà, questa, accentuata dal contemporaneo impegno alla restituzione delle anticipazioni di liquidità che hanno indebitato i Comuni per un trentennio.
Tutto questo senza contare le ulteriori pulizie di bilancio costantemente rinviate, sui residui ancora inesigibili e sui debiti fuori bilancio ancora occulti. Non solo. Occorrerà dare soluzione a ciò che rappresenta il vero cancro dei bilanci comunali, inguaiati da un accertamento a cui spesso conseguono percentuali di riscossione infinitesimali. Fino a quando non si risolverà il dramma dell’elusione e dell’evasione a regime, le casse comunali non avranno risorse sufficienti a sostenere il bilancio. Vanno messe al bando, quindi, le politiche che rintracciano nella tolleranza fiscale locale lo strumento più forte per drenare consenso.
Dal dettaglio e dall’oggettività dei dati della relazione di inizio mandato arriva l’occasione per determinare una nuova modalità di gestione dei Comuni, indispensabile per riportare in bonis il sistema autonomistico locale e per soddisfare il bisogno di politiche sociali crescente con l’aumentare della popolazione anziana
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016).

ENTI LOCALIDivieto a metà per i dipendenti nei consigli delle controllate. Partecipate.
L’articolo 11 del Testo unico sulle partecipate (Atto del Governo n. 297 - Schema di decreto legislativo recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), dedicato agli organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico, introduce importanti novità anche sulle inconferibilità e incompatibilità, iniziando così a scalfire le disposizioni previste in primo luogo dal Dlgs 39/2013 che, per stessa ammissione dell’Anac, ha ormai bisogno di essere ripensato almeno per ciò che riguarda le società e gli enti pubblici economici.
L’articolo 4, comma 4, del Dl 95/2012, aveva prima imposto che la maggioranza degli amministratori fossero dipendenti delle amministrazioni controllanti. Successivamente questa presenza, con l’articolo 16 del Dl 90/2014, era stata resa non più obbligatoria. Oggi, invece, l’articolo 11, comma 8, arriva a vietare che nei Cda vi siano dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti. In base allo stesso comma è invece ammesso che possano diventare amministratori i dipendenti della società della controllante, a condizione che i compensi vengano riversati alla società di appartenenza.
Per il comma 12, anche il dipendente della società può diventarne amministratore. In questo caso, può scegliere se mantenere il compenso di amministratore e mettersi in aspettativa o, viceversa, tenersi la retribuzione e rinunciare all’indennità di amministratore.
Curioso che vi sia un trattamento diverso, visto che i due casi sono analoghi. Resta il fatto che il comma 12 risolve alcuni dubbi che sul tema si erano manifestati nel tempo, determinando pareri difformi perfino nella giurisprudenza contabile.
Gli amministratori della società controllante, secondo il comma 11, possono essere nominati amministratori delle controllate, se delle amministrazioni pubbliche abbiano il controllo indiretto (ma di queste stiamo parlando, visto che l’articolo è dedicato alle controllate), solo se vengono attribuite deleghe di gestione diretta a carattere continuativo o se la nomina risponde all’esigenza di rendere disponibili alla controllata particolari e comprovate competenze tecniche o, ancora, di favorire l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento.
In pratica la presenza di amministratori della controllante nella controllata è oggi sempre ammessa, così superando sia le previsioni del Dlgs 39/2013, sia l’orientamento 11/2015 dell’Anac, ancora più giacobino del decreto stesso.
Tutte queste disposizioni si applicano solo alle controllate ex articolo 2359 del Codice civile, e ciò può comportare che perfino una società interamente pubblica non sia interessata dall’articolo 11, se non limitatamente a quanto previsto dal comma 16, che richiede al socio pubblico sopra il 10% di proporre agli organi societari l’introduzione di misure analoghe a quelle indicate ai commi 6 (compensi agli amministratori) e 10 (compensi ai dipendenti).
Le modifiche che vengono introdotte, pur importanti, tendono a risolvere casi particolari, e affrontano il tema delle inconferibilità e delle incompatibilità in maniera eterogenea, senza ripensare la questione in modo sistematico; cosa che sarebbe invece necessaria per quanto riguarda le società, dove il ruolo degli amministratori, come rilevato dalla stessa Anac, non riveste natura politica. Il rischio, infatti, è che il clima di caccia alle streghe (e alle poltrone) comprometta il livello di professionalità degli amministratori
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.08.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Terre da scavo, nuova gestione. Semplificazioni per i cantieri, controlli ad hoc sui rischi. Le misure sono contenute nel decreto approvato in via definitiva il 14.07.2016.
Semplificazioni burocratiche per i cantieri che producono terre e rocce da scavo, nuovi standard di qualità per il loro riutilizzo e controlli preventivi sui rischi di nuove contaminazioni ambientali legati alle attività di gestione più delicate.
Con l'approvazione definitiva da parte del consiglio dei ministri del 14.07.2016 del relativo decreto
(Atto del Governo n. 279 - Schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo) si avvicina l'esordio della nuova disciplina sulle terre e rocce da scavo.
Il contesto normativo. Il provvedimento in arrivo (tecnicamente nella forma di decreto del presidente della Repubblica) interviene sull'ordinamento giuridico in forza del potere di delegificazione ex dl n. 133/2014, incidendo anche su fonti primarie ma lasciando immutate le norme di carattere generale in materia previste dal dlgs 152/2006.
Le nuove regole si collocano dunque nel contesto del Codice ambientale. Quest'ultimo prevede che (ex articolo 185) sono esclusi dalla disciplina sui rifiuti:
- (ex comma 1, lettera b) il terreno compreso il suolo non escavato, contaminato o meno (fermi restando gli eventuali obblighi di bonifica), così come
- (ex lettera c) il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione riutilizzato pedissequamente in situ.
Può invece essere (ex comma 4) rifiuto, sottoprodotto o materiale «end of waste» il suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati.
Sono da gestire come rifiuti, salve le disposizioni particolari sulla bonifica dei siti di estrazione, le terre escavate e contaminate.
Poggiata sul dlgs 152/2006 è altresì la nozione generale di «contaminazione», laddove il nuovo dpr fonda le proprie prescrizioni sui parametri (ex titolo V, parte IV del Codice ambientale, in materia di bonifica dei siti contaminati) relativi alle «concentrazioni soglia di contaminazione (Csc)» e alle «concentrazioni soglia di rischio (Csr)», il superamento delle ultime tra le quali rende il sito contaminato.
Definizioni. Sulla scia dell'uscente normativa, il nuovo dpr individua come terre e rocce da scavo oggetto della particolare disciplina il suolo escavato derivante da attività finalizzate alla realizzazione di un'opera, comprensivo dell'eventuale componente «matrici materiali di riporto».
In relazione a tale componente antropica (costituita dai residui di produzione/consumo accumulatisi nel tempo) tre sono le direttive dettate dal nuovo dpr.
In primo luogo, per la nozione di riporto si continuerà a far riferimento alla definizione ex articolo 3, comma 1, dl 2/2012.
In secondo luogo, si specifica che le terre possono contenere calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (Pcv), vetroresina, miscele cementizie ed additivi per scavo meccanizzato, purché con concentrazioni entro i limiti previsti dalle colonne A e B, tabella 1, allegato 5, del citato titolo V del Codice ambientale per specifica destinazione d'uso.
In terzo luogo, si prevedono ulteriori prescrizioni quali/quantitative ad hoc per dette componenti antropiche in relazione a loro specifici riutilizzi (come più avanti analizzato).
I soggetti interessati. Il neo provvedimento individua, graduando i relativi oneri burocratici, tra:
- «cantieri di piccole dimensioni», in cui sono prodotte terre e rocce da scavo in quantità non superiori a 6 mila metri cubi (su sezioni di progetto) anche nel corso di attività/opere soggette a Via o Aia (rispettivamente, valutazione di impatto ed autorizzazione integrata ambientale);
- «cantieri di grandi dimensioni», in cui sono prodotte terre e rocce da scavo in quantità superiori a 6 mila metri cubi, a loro volta distinti nelle due sub categorie di cantieri sottoposti ad Aia/Via e non sottoposti ad Aia/Via.
Gestione come sottoprodotti. Il nuovo dpr stabilisce le norme per gestire le terre da scavo fuori dall'ordinario regime dei rifiuti, dettando da un lato prescrizioni generali da osservare per invocare la deroga, dall'altro prevedendo regole complementari dirette a singole tipologie di cantieri.
Tra tali disposizioni comuni trovano collocazione le condizioni da soddisfare declinate dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006 sui sottoprodotti. E tra queste ultime, trovano posto specifici criteri di compatibilità ambientale, che appaiono poter essere così riassumibili: in linea di principio, le terre devono rispettare dei requisiti di «qualità ambientale» che invocano il rispetto dei livelli di «Csc» ex colonne A e B, tabella 1, allegato 5, titolo V citato (con riferimento alla specifica destinazione d'uso urbanistica o ai valori di fondo naturali); se le terre contengono materiali di riporto, la componente di origine antropica (inoltre) non deve superare il 20% e, previo test di cessione ex dm 05/02/1998, rispettare (ad esclusione dell'amianto, oggetto di regole ad hoc) i valori ex tabella 2, allegato 5, medesimo titolo V o comunque i valori di fondo naturale stabiliti per il sito ed approvati dagli enti di controllo; la componente amianto deve rispettare i relativi valori ex tabella 1, allegato 5 citato (fatte salve le specifiche disposizioni sull'amianto da affioramenti geologici naturali, più avanti esposte).
Ancora di carattere generale le regole sul «deposito intermedio» dei sottoprodotti in attesa di riutilizzo, che ripropongono quelle dell'uscente normativa.
Sempre in linea con l'uscente normativa l'apposita documentazione per il trasporto fuori sito dei materiali da scavo sottoprodotti, con la novità di non imporre più ai cantieri di grandi dimensioni la preventiva comunicazione della movimentazione alle autorità competenti.
Ai più grandi cantieri sottoposti a Via/Aia è comunque imposta la redazione del Piano di utilizzo, con possibilità di poter però ora procedere all'avvio della gestione decorsi 90 giorni dalla sua trasmissione alle autorità. In luogo del piano di utilizzo, per i cantieri di grandi dimensioni non Via/Aia e quelli di piccole dimensioni è invece prevista la più semplice dichiarazione (in autocertificazione) da trasmettere alle Autorità 15 giorni prima dell'inizio dello scavo.
Terre e rocce rientranti nel regime dei rifiuti. Il decreto detta specifiche regole per il deposito temporaneo delle terre identificabili con i Codici Cer «17 05 03*” e “17 05 04».
Rispetto all'ordinario istituto ex dlgs 152/2006, quello in parola da un lato concede la possibilità di stoccare un maggior quantitativo annuo di specifici residui (fino a 4000 metri cubi, di cui non oltre 800 di pericolosi) dall'altro impone l'adozione di ulteriori misure per evitare la contaminazione delle matrici ambientali.
Terre e rocce escluse da regime rifiuti. In relazione alle terre escluse dal regime dei rifiuti ex citato articolo 185, comma 1, lettera c), del dlgs 152/2006 si dovrà assicurare: l'assenza di contaminazione ricorrendo, salve le regole sui test di cessione, alle procedure di caratterizzazione previste dal nuovo dpr; il riutilizzo esclusivo nel sito di produzione e dietro diretto controllo delle autorità competenti delle terre e rocce da scavo provenienti da affioramenti geologici naturali contenti amianto oltre le relative specifiche soglie più sopra menzionate (in relazione ai sottoprodotti); una verifica preliminare della loro natura secondo precisi criteri dei materiali generati nell'ambito di opere/attività sottoposte a Via.
Terre e rocce da scavo da siti sub bonifica. Nelle attività di scavo sono imposti: caratterizzazione su base significativa di campioni ed analisi concordate con le competenti istituzioni; divieto di innalzamento dei livelli di inquinamento; rimozione e gestione come rifiuti delle fonti attive di contaminazione rilevate.
Il riutilizzo delle terre in situ è consentito: sempre, se conformi ai parametri «Csc» e nella medesima area oggetto di valutazione; se non conformi alle «Csc», ma comunque entro i parametri «Csr», solo in ossequio alle prescrizioni delle autorità competenti e con reimpiego inibito nelle sub-aree meno inquinate.
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isposizioni transitorie. Sono fatti salvi i piani di utilizzo approvati prima dell'entrata in vigore del nuovo dpr così come i progetti alla stessa data ancora sub procedura ai sensi della previgente normativa (si veda la tabella pubblicata in questa pagina).
Questi ultimi, tuttavia, possono transitare nella nuova disciplina se entro 180 giorni dalla vigenza del nuovo decreto viene trasmesso alle autorità competenti il Piano/Dichiarazione di utilizzo adeguato alle neo regole.
La gestione fuori dal regime dei rifiuti è ammessa invece per materiali già scavati, raccolti, depositati in cumuli, utilizzati per reinterri, riempimenti o opere in terra nel rispetto delle «Csc» ex colonne A e B, tabella 1, Allegato 5 citato, se entro 120 giorni da entrata in vigore del nuovo dpr viene presentato il Piano di utilizzo (ove non già prodotto) o la documentazione di caratterizzazione relativa alle soglie di contaminazione (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARICon la Pec le libertà a rischio. Analisi.
La notificazione telematica è effettuata ad rem e non ad personam, in violazione della libertà individuale (soggettiva) e della corrispondenza (oggettiva). E questo la mette a rischio di legittimità costituzionale.

L'art. 26, comma 2, del dpr 602/1973 prevede che la notifica della cartella può essere eseguita, con le modalità di cui al dpr 68/2015, a mezzo posta elettronica certificata, all'indirizzo risultante dagli elenchi a tal fine previsti dalla legge.
L'art. 6 del dlgs 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale-Cad) prevede che le p.a. «utilizzano la posta elettronica certificata per ogni scambio di documenti e informazioni con i soggetti interessati che ne fanno richiesta e che hanno preventivamente dichiarato il proprio indirizzo di posta elettronica certificata». A rigore di tale ultima norma è necessaria, inderogabile ed essenziale una espressa ed esplicita richiesta del soggetto interessato dal procedimento.
La conferma giuridica sarebbe rinvenibile nel collegamento esistente tra l'art. 2 del Cad il quale prescrive che le disposizioni relative alla trasmissione dei documenti informatici si applicano anche ai privati, ex art. 3, dpr 455/2000, e l'art. 3 stesso il quale prevede che le norme del testo unico disciplinano altresì la produzione di atti e documenti agli organi della pubblica amministrazione nonché ai gestori di pubblici servizi, nei rapporti tra loro e in quelli con l'utenza e ai privati che vi consentono.
A questo punto si potrebbe ritenere che la notifica tramite Pec sarebbe uno strumento costituzionalmente illegittimo poiché, in termini di sistema, non garantisce alcuna libertà (al destinatario) al fine di poter scegliere modalità, tempi e (quindi) dinamica di ricezione dell'atto o del documento informatico o, viceversa, di poter esprimere un sacrosanto rifiuto.
Violerebbe gli artt. 3, 13 e 15 della Costituzione oltreché i diritti dell'uomo in materia di libertà individuale ed alla corrispondenza. Il sistema Pec vigente sarebbe caratterizzato da una impossibilità oggettiva di stadiazione del momento cognitivo certo e perfetto per il destinatario (in qualità di individuo titolare della libertà) (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).

APPALTICabina di regia sugli appalti. Monitorerà l'attuazione del Codice e riferirà all'Ue. In Unificata ok al dpcm che istituisce l'organismo di raccordo con la Commissione europea.
Una cabina di regia sugli appalti. Con il compito di monitorare lo stato di attuazione del codice (dlgs n. 50/2016), controllare l'applicazione della normativa europea e informare la Commissione Ue sui casi di non corretta applicazione e incertezza della disciplina. Non solo. La cabina di regia dovrà relazionare all'esecutivo di Bruxelles sul livello di partecipazione delle pmi agli appalti pubblici e segnalare i casi di frode, corruzione, conflitto di interessi e altre irregolarità.
Analoga segnalazione dovrà essere inviata all'Anac.

Il nuovo organismo, la cui istituzione è prevista dall'art. 212 del Codice appalti, è in dirittura d'arrivo dopo l'ok della Conferenza unificata che mercoledì ha espresso parere favorevole sullo schema di dpcm.
La cabina di regia sarà presieduta dal capo del dipartimento affari giuridici e legislativi di palazzo Chigi, poltrona ora occupata da Antonella Manzione, ex comandante della polizia municipale di Firenze e fedelissima del premier Matteo Renzi. Nell'organismo di controllo siederà con funzioni di vicepresidente il capo dell'ufficio legislativo del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, incarico ora ricoperto da Elisa Grande.
Gli altri componenti dovranno invece essere designati dalle rispettive amministrazioni di appartenenza: un rappresentante arriverà dal dipartimento politiche europee, due dal Mef, uno dall'Anac, tre dalle regioni e province autonome, tre dalle autonomie locali, uno dall'Agenzia per l'Italia digitale e uno dalla Consip. Nessuno di loro riceverà compensi per il lavoro svolto perché l'istituzione della cabina di regia dovrà essere a costo zero per il bilancio dello stato. In sede di prima attuazione, la cabina di regia dovrà riunirsi entro il 31.03.2017 e successivamente ogni tre anni.
Come detto, la task force sarà la struttura di riferimento per la cooperazione con la Commissione europea a cui riferirà in merito:
- ai contratti di servizi aggiudicati in base a un diritto esclusivo;
- ai contratti e concorsi aggiudicati in base a norme internazionali;
- alle informazioni in materia di convalida della firma elettronica;
- alle difficoltà incontrate dalle imprese italiane nell'aggiudicarsi appalti in paesi terzi.
La cabina di regia provvederà inoltre agli aggiornamenti in materia di banche dati contenenti informazioni sugli operatori economici che possono essere consultate dalle stazioni appaltanti di altri stati membri.
Potrà anche consultare e ascoltare in audizione esperti del settore degli appalti pubblici e delle concessioni, nonché stipulare convenzioni e protocolli senza maggiori oneri a carico dello stato (articolo ItaliaOggi del 05.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIEnti locali a metà del guado. Aiuti congiunturali e strutturali. Ma restano nodi aperti. Il dl 113 e la riforma degli equilibri, varati dalle camere, hanno risolto diversi problemi.
Enti locali a metà del guado. I provvedimenti approvati negli scorsi giorni dal parlamento, ovvero legge di conversione del dl 113/2016 e modifica della legge 243/2012 sugli equilibri di bilancio, hanno risolto numerosi dei problemi, in buona parte anche strutturali, che affliggono sindaci e presidenti di provincia.
Ma rimangono ancora molte questioni aperte, che richiederanno ulteriori interventi normativi, in particolare per quanto concerne gli enti di area vasta ed i tributi comunali.
Le buone notizie
Le novità del dl 113 sono perlopiù congiunturali e vanno dalla riduzione delle sanzioni per gli enti che hanno sforato il Patto 2015 all'istituzione di un fondo a sostegno di quelli alle prese con contenziosi relativi a calamità o cedimenti, dalla redistribuzione delle economie sul fondo di solidarietà 2015 e 2016 agli interventi a favore delle amministrazioni in dissesto e in predissesto.
Non mancano, però, misure più strutturali, come la previsione di un cofinanziamento statale alle spese per l'estinzione anticipata dei mutui o l'ampliamento del turnover nei comuni medio-piccoli con una bassa incidenza della spesa di personale. Sempre su quest'ultimo versante, spiccano anche la cancellazione dell'obbligo di riduzione del rapporto fra le uscite per stipendi e la spesa corrente complessiva e il via libera alle nuove assunzioni in tutte le regioni in cui è stato ricollocato almeno il 90% degli esuberi provinciali.
Decisamente strutturali, invece, sono i correttivi alla legge 243, che mandano definitivamente in pensione il Patto di stabilità interno e semplificano la griglia di obiettivi che i bilanci locali devono rispettare, riducendoli a uno (pareggio di competenza fra entrate e spese finali). Cancellati, invece, gli altri vincoli (pareggio finale di cassa e pareggio corrente di competenza e di cassa). Rilevante anche la revisione delle sanzioni, che dovranno essere proporzionate alla gravità delle violazioni e utilizzate per premiare i virtuosi.
Le questioni aperte
Come detto, però, su altri fronti c'è ancora molto da lavorare. I principali riguardano gli enti di area vasta ed i tributi comunali. Sul primo, le toppe messe dal dl 113 sotto forma riduzione delle sanzioni Patto e di risorse aggiuntive (48 milioni per il finanziamento delle funzioni fondamentali e 100 milioni per la manutenzione straordinaria della relativa rete viaria) non bastano a tenere in piedi i bilanci disastrati delle ex-province. Sul secondo, occorre ripensare l'intero quadro delle entrate dei comuni, riaprendo il dossier della local tax (frettolosamente chiuso giusto un anno fa) e riformando il sistema di perequazione (che fa acqua da tutte le parti, come ripetutamente messo in evidenza dalla Corte costituzionale e della magistratura amministrativa).
Ma anche sui temi appena affrontati dalle camere non mancano i dubbi. Ad esempio, restano da stabilire le modalità di inclusione del fondo pluriennale vincolato nel saldo del pareggio (come evidenziato nei giorni scorsi anche da una puntuale interrogazione al ministro Pier Carlo Padoan presentata dalla deputata Pd Simonetta Rubinato, che ha chiesto di quantificare in tempi brevi la relativa copertura) e quelle per la definizione delle intese regionali che dal 2017 dovranno orientare l'utilizzo dell'avanzo e del debito per finanziare gli investimenti (forse non tutti hanno compreso che senza intesa non si potrà fare nulla, essendo stata eliminata la clausola di salvaguardia che consentiva «in ogni caso» di indebitarsi nei limiti delle spese di rimborso prestiti stanziate a bilancio).
Anche sul personale, infine, c'è la necessità di razionalizzare una disciplina sempre più frammentaria e disomogenea (articolo ItaliaOggi del 05.08.2016).

APPALTIAccordi tra comuni, un autogol. Domanda polverizzata nonostante 33 soggetti aggregatori. L'Anac critica la chance per gli enti di consorziarsi per acquisire lavori, beni e servizi.
Sono 33 i soggetti aggregatori della domanda, ma la possibilità di stipulare accordi fra comuni ha di fatto reso impossibile superare la situazione di estrema polverizzazione della domanda.
È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione nella relazione sull'anno 2015, presentata a luglio, in cui si fa il punto sulla situazione riguardante i cosiddetti «soggetti aggregatori della domanda» cui devono fare riferimento ormai la maggior parte delle stazioni appaltanti (la legge di Stabilità 2016 ha ampliato il perimetro delle amministrazioni tenute alla centralizzazione degli acquisiti inserendo anche gli enti locali di cui all'art. 2 del Testo unico degli enti locali, i loro consorzi e le associazioni)
L'analisi dell'Anac prende di mira gli accordi fra comuni previsti dal quarto comma dell'articolo 9 del decreto-legge 24.04.2014, n. 66 (legge 23.06.2014, n. 89). In tale norma si stabilisce il principio per cui i comuni non capoluogo di provincia procedono all'attività di acquisizione di lavori, beni e servizi o nell'ambito di un apposito accordo consortile tra comuni, o avvalendosi dei competenti uffici delle province, o ricorrendo ai soggetti aggregatori medesimi (autorizzati ad operare in tale veste dalla stessa Anac).
La previsione di accordi consortili tra comuni, nota l'Autorità nella relazione, «ha di fatto generato, contrariamente all'intento del legislatore, una proliferazione di tali accordi che non consente di superare la struttura estremamente polverizzata che caratterizza la domanda delle amministrazioni». Sostanzialmente un autogol.
Di diverso tenore invece le considerazioni svolte per quanto invece riguarda i primi tre commi della stessa norma che prevedono l'istituzione, nell'ambito dell'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti, dell'elenco dei soggetti aggregatori, per un numero massimo di 35, cui fanno parte Consip spa e una centrale di committenza designata da ciascuna regione. Qui tutto sembra essere andato per il meglio anche se vi sono ancora elementi critici da superare.
Ad oggi sono stati autorizzati 33 soggetti aggregatori, con una varietà di forme organizzative previste, tra centrali uniche di committenza, stazioni uniche appaltanti vere e proprie in-house di alcune regioni, ovvero strutture interne alle medesime. L'eterogeneità, nota l'Autorità, è dovuta a due fattori: la preesistenza di strutture che operavano già come centrali di committenza e la previsione normativa che non pone particolari restrizioni in termini organizzativi.
Sono presenti fra i 33 soggetti aggregatori, anche alcune città metropolitane che hanno proceduto alla loro costituzione in attuazione della legge 07.04.2014, n. 56.
L'Autorità mette in evidenza però diversi profili problematici legati allo sviluppo e all'integrazione delle banche dati, nonché al preventivo collegamento -in tempo reale- tra il portale dei soggetti aggregatori del ministero dell'economia e delle finanze (contenente i dati di programmazione dei soggetti aggregatori) con la Banca dati nazionali dei contratti pubblici. Manca ancora il collegamento della programmazione dei soggetti aggregatori e delle stazioni appaltanti con il Piano nazionale anticorruzione (Pna)
Esistono, poi, problemi di classificazione delle stazioni appaltanti, e di determinazione della corrispondenza tra ciascuna categoria merceologica prevista dal decreto della presidenza del consiglio dei ministri del 24 dicembre 2015 e le relative classificazioni Cpv di derivazione europea (si fa anche un esempio specifico e significativo: si pensi ad esempio alla portata della categoria farmaci ovvero a quella del facility management). Tutti problemi per i quali l'Anac chiede l'istituzione di appositi tavoli tecnici (articolo ItaliaOggi del 05.08.2016).

EDILIZIA PRIVATAIl Conto termico 2.0 è realtà. Le p.a. possono accedere alla prenotazione degli incentivi. Il Gse ha diffuso le regole applicative per i piccoli interventi di efficienza energetica.
Il Conto termico 2.0 è finalmente operativo a pieno regime. Il Gse ha infatti diffuso le regole applicative che disciplinano le modalità di accesso al Conto Termico 2.0 per gli interventi di piccole dimensioni di efficienza energetica e di produzione di energia termica da fonti rinnovabili.
Giunge così a compimento la riforma introdotta dal decreto ministeriale 16 febbraio 2016, con le pubbliche amministrazioni che possono quindi accedere alla procedura di prenotazione degli incentivi attraverso il Portaltermico.
Le regole applicative stabiliscono le procedure di accesso al meccanismo incentivante su prenotazione e a consuntivo, i requisiti di conformità richiesti dal decreto e le modalità di calcolo e di erogazione degli incentivi.
Gli enti pubblici potranno ottenere un acconto
Per gli interventi realizzati dalla pubblica amministrazione, a esclusione delle cooperative di abitanti e delle cooperative sociali, anche per il tramite di «Esco», è prevista l'erogazione in un'unica rata anche per incentivi di importo superiore a 5 mila euro. Nel caso di accesso agli incentivi mediante prenotazione, è prevista l'erogazione dell'incentivo in due rate, una di acconto al momento di comunicazione dell'avvio dei lavori e il saldo alla conclusione dei lavori, a seguito della istanza di accesso diretto post prenotazione.
L'importo della rata in acconto sarà pari al 50% del beneficio complessivamente riconosciuto se la durata dell'incentivo è di due anni, sarà pari ai 2/5 del beneficio complessivamente riconosciuto se la durata dell'incentivo è di cinque anni. La richiesta di incentivo tramite prenotazione consentirà alle p.a. di ricevere entro 60 giorni dalla sottoscrizione della scheda-contratto un primo acconto.
A conclusione dei lavori, entro 60 giorni, il Gse erogherà in un'unica rata a saldo la parte residua dell'incentivo. Le p.a. potranno richiedere un acconto nel caso in cui siano in possesso di una diagnosi energetica, di un contratto di prestazione energetica stipulato con una «Esco», di un atto amministrativo attestante l'avvenuta assegnazione dei lavori.
Incentivo a fondo perduto fino al 65%
Il Conto termico finanzia interventi di isolamento termico di superfici opache delimitanti il volume climatizzato, la sostituzione di chiusure trasparenti comprensive di infissi delimitanti il volume climatizzato, la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti di climatizzazione invernale utilizzanti generatori di calore a condensazione, l' installazione di sistemi di schermatura e/o ombreggiamento di chiusure trasparenti con esposizione da Est-Sud-Est a Ovest, fissi o mobili, non trasportabili.
Finanzia inoltre la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti a maggior efficienza, e l'installazione di impianti solari termici per la produzione di acqua calda sanitaria e/o ad integrazione dell'impianto di climatizzazione invernale, anche abbinati a sistemi di solar cooling e per la sostituzione di scaldacqua elettrici con scaldacqua a pompa di calore.
Grazie alla riforma, è possibile agevolare la trasformazione degli edifici esistenti in «edifici a energia quasi zero», la sostituzione di sistemi per l'illuminazione d'interni e delle pertinenze esterne degli edifici esistenti con sistemi efficienti di illuminazione, l'installazione di tecnologie di gestione e controllo automatico (building automation) degli impianti termici ed elettrici degli edifici, ivi compresa l'installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore.
È infine finanziabile la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con sistemi ibridi a pompa di calore. L'ammontare dell'incentivo erogato non può eccedere in nessun caso il 65% delle spese sostenute e ammesse). È previsto anche un contributo del 100% delle spese per la Diagnosi energetica e per l'attestato di prestazione energetica (Ape) per le p.a. (articolo ItaliaOggi del 05.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Dati catastali, visure gratis per le società. Semplificazione.
È stata estesa alle società e agli enti la consultazione online gratuita delle banche dati ipotecaria e catastale. In questa maniera anche le persone giuridiche registrate ai servizi telematici Entratel e Fisconline possono avere tutte le informazioni sul proprio patrimonio immobiliare gratuitamente e senza recarsi in ufficio.
Lo ha evidenziato l’agenzia delle Entrate in una nota diramata ieri.
Il servizio, già attivo dal 31.03.2014 per le persone fisiche, è rivolto ora anche alle persone giuridiche che risultino anche in parte titolari del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento.
Consultando la banca dati catastale ipotecaria è possibile ottenere: la visura catastale, sia per soggetto, sia per immobile; la mappa con la particella dei terreni; la planimetria del fabbricato; l’ispezione ipotecaria. L’accesso alle informazioni di cui è effettuato tramite soggetti appositamente incaricati secondo le regole già previste per i suddetti servizi telematici.
Il servizio è attivo su tutto il territorio nazionale ad eccezione delle province autonome di Trento e Bolzano e della altra zone in cui vige il sistema tavolare
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Codice appalti, 10 decreti in arrivo. Qualificazione degli enti appaltanti, requisiti e livelli di progettazione.
Lavori pubblici. Sprint del ministero delle Infrastrutture sull'attuazione del Dlgs 50 del 18 aprile.

Sprint estivo per l'attuazione della riforma appalti. Dopo le prime linee guida approvate dall'Anac -sette già varate, tre ancora in fase di gestazione- scende in campo il ministero delle Infrastrutture, che si presenta al giro di boa di inizio agosto con un nutrito pacchetto di provvedimenti in fase di adozione finale.
In campo ci sono, in tutto, una decina di decreti, a cominciare da due testi appena licenziati: le linee guida per la compilazione del Documento di gara unico europeo e il Dm, in coabitazione con la Giustizia, sui parametri da porre a base delle gare di progettazione. Entrambi sono approdati in Gazzetta ufficiale nei giorni scorsi.
Ma i cassetti degli uffici tecnici di Porta Pia sono carichi di molto altro materiale. A cominciare dal nuovo sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti. Il decreto, che attende il concerto del ministero dell'Economia, delinea i contorni dell'albo che sarà gestito dall'Anac.
L'elenco sarà distribuito in quattro fasce di importo e permetterà agli enti di poter gestire in proprio appalti di valore crescente, sulla base del grado di competenza e organizzazione dimostrata sul campo. La qualificazione, modellata su quella che già esiste per le imprese, durerà cinque anni. Ma per fare partire il nuovo sistema servirà un ulteriore provvedimento dell'Anac, senza contare una lunga fase transitoria: per 18 mesi chi farà domanda manterrà il diritto di richiedere i Cig per avviare le gare.
In via di adozione, poi, c'è il pacchetto di testi dedicati alla progettazione. Quello più importante riguarda la riorganizzazione dei tre livelli: progetto di fattibilità, definitivo ed esecutivo. Nel primo livello le novità più pesanti: nella bozza licenziata dal Mit e all'attenzione dei ministeri dell'Ambiente e dei Beni culturali, tutte le indagini preliminari passeranno dal definitivo alla fattibilità. In questo modo finisce l'era dei preliminari di poche pagine, regolarmente smentiti dagli elaborati successivi. Di conseguenza il perimetro del progetto definitivo risulterà molto ridotto. Il terzo livello di progettazione, invece, l'esecutivo, resterà simile a oggi, ma con rafforzamento delle previsioni in materia di manutenzione pluriennale delle strutture.
Novità importanti sono attese anche dal decreto dedicato ai requisiti per l'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura, attualmente all'Anac per il suo parere: porterà misure di favore per la partecipazione dei giovani alle gare e scioglierà il nodo del contributo previdenziale integrativo delle società di ingegneria, ribadendo la sua natura obbligatoria.
Un altro provvedimento riguarda la Cabina di regia per l'attuazione del Codice appalti, ormai in rampa di lancio: sarà guidata dal capo dell'ufficio legislativo di Palazzo Chigi, Antonella Manzione e avrà il compito di monitorare la situazione del mercato in vista del decreto correttivo, in calendario nel 2017.
Al via anche la commissione incaricata di gestire l'introduzione del Bim (Building information modeling), la tecnica che consente di anticipare gli effetti del cantiere in fase di progetto, riducendo l'impatto di imprevisti e varianti. Completano il quadro i decreti sulle categorie superspecialistiche e sulla programmazione delle Pa, anche loro in arrivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI comuni tornano ad assumere. Niente paletti per scuole e asili. Turnover soft nei mini-enti. Il senato ha convertito in legge il dl enti locali. I sindacati: resta il nodo dei precari.
Turnover soft nei piccoli comuni, assunzioni facilitate nella scuola e nei servizi per l'infanzia, sanzioni pecuniarie addolcite per i comuni e annullate del tutto per province e città metropolitane non in regola con il patto di stabilità 2015, risorse ai sindaci per estinguere i mutui in anticipo e agli enti di area vasta per mettere in sicurezza i conti.
Il decreto enti locali (dl 113/2016) convertito ieri in legge dal senato (che con 165 voti favorevoli, 96 contrari e nessun astenuto ha votato la fiducia chiesta dal governo) farà trascorrere un'estate più serena al mondo delle autonomie. E non solo. Perché nel corso dell'iter alla camera, il testo si è arricchito di molte ed eterogenee modifiche che l'hanno reso una sorta di decreto omnibus, anche a costo di creare qualche problema di costituzionalità.
Il clou degli interventi è sicuramente rappresentato dalla riapertura delle rateizzazioni con Equitalia e con l'Agenzia delle entrate (a seguito di acquiescenza o accertamento con adesione). Una chance che consentirà ai contribuenti decaduti dal pagamento dilazionato di essere riammessi al beneficio.
Nel provvedimento ha inoltre trovato posto la sanatoria della proroga automatica al 2020 delle concessioni balneari. In attesa del riordino della materia sulla base dei principi Ue «conservano validità i rapporti già instaurati»: questa la soluzione individuata dal governo per salvare gli investimenti fatti dai privati, accogliendo al contempo i rilievi della Corte di giustizia Ue. Per le compagnie aeree low-cost, infine, non ci sarà il temuto aumento delle tasse di imbarco dei passeggeri che aveva portato qualche vettore a minacciare il taglio dei collegamenti. L'aumento dell'addizionale comunale sui diritti di imbarco viene congelato dal 1° settembre fino al 31/12/2016.
Completa il quadro delle misure emergenziali, lo stanziamento di 10 milioni di euro a favore dei familiari delle vittime del disastro ferroviario di Andria-Corato e dei feriti gravi.
«Con il via libera definitivo al decreto legge le province raggiungono un sostanziale equilibrio», ha commentato il sottosegretario agli affari regionali Gianclaudio Bressa. «La misura ridimensiona il contributo alla finanza pubblica di province e città metropolitane per l'anno 2016, dando comunque certezza allo svolgimento delle funzioni fondamentali. In particolare, l'importo di 650 milioni di euro chiesto alle province in legge di Stabilità per il 2016 è stato compensato da 245 milioni di euro destinati alle spese di manutenzione dei 130 mila chilometri di strade provinciali e dei 5.100 istituti scolastici, da ulteriori 70 milioni di euro con cui si farà fronte al sostegno degli studenti con disabilità, da 39 milioni di euro per il fondo di riequilibrio dei bilanci provinciali e da 20 milioni di euro per il personale in esubero che, nell'anno in corso, continua a essere pagato dalle province».
Maggioranza e opposizione, dal canto loro, danno del decreto un giudizio molto differente. Per la senatrice Magda Zanoni (Pd), il provvedimento porta «un aiuto sostanziale ai territori», mentre Andrea Mandelli (Forza Italia) ha criticato le norme «microsettoriali e localistiche» di cui il decreto è stato infarcito.
Per i sindacati il decreto «contiene luci e ombre». In una nota congiunta Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl hanno apprezzato il superamento dei vincoli sulle spese del personale e sul settore scolastico-educativo. Tuttavia, lamentano, rimane irrisolto il tema dei precari «per i quali non c'è al momento alcuna prospettiva. Così come e' concreto il rischio per migliaia di dipendenti di enti che hanno sforato il patto di stabilità di vedersi il salario decurtato» (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016).

VARIPatente sospesa, spada di Damocle. Il ministero dell'interno: rischia grosso chi circola.
Il destinatario di un provvedimento di revisione della patente rischia grosso se circola con la licenza sospesa di validità. Soprattutto se si tratta di una misura di carattere sanzionatorio derivante per esempio dall'accertamento della guida alterata.

Lo ha chiarito il ministero dell'interno con la circolare 01.06.2016 n. 300/a/3953/16/109/55 di prot..
La circolazione con patente sospesa è densa di incognite anche in relazione alle diverse tipologie di sanzioni previste dal codice stradale negli articoli 128 e 218. Per questo motivo il Viminale ha diramato interessanti chiarimenti agli organi di polizia. Innanzitutto l'art. 126-bis/6° cds tratta dell'ipotesi di revisione della patente in conseguenza dell'azzeramento del punteggio disponibile.
Spetta alla motorizzazione civile notificare all'interessato l'azzeramento di punteggio con invito a sottoporsi alla revisione delle licenza entro 30 giorni. Solo se l'utente stradale non ottempera all'obbligo la motorizzazione disporrà, con un ulteriore provvedimento, la sospensione della patente a tempo indeterminato. E per chi non rispetterà l'inibizione scatteranno guai grossi. Specifica infatti la nota che in tal caso si applicherà la sanzione prevista dall'art. 128/2° cds ovvero una multa di 164 euro con la revoca definitiva della licenza.
La stessa sanzione, prosegue la circolare, si applicherà alle ulteriori diverse ipotesi di sospensione della patente a tempo indeterminato contemplate dall'art. 128 cds ovvero conseguenti alla revisione della licenza disposta per motivi tecnici o di salute dell'autista. Attenzione però, in questo caso la circolazione sarà vietata subito, senza necessità di un ulteriore avviso. Per quanto riguarda le sanzioni attenzione alla durata della sospensione. Se la misura è stata disposta a tempo indeterminato ricade tutto nella previsione appena esaminata.
Diversamente, se la sospensione della patente viene disposta a tempo determinato, a titolo di sanzione accessoria, il trasgressore ricadrà nella diversa ipotesi sanzionatoria prevista dall'art. 218/6° cds. Ovvero almeno 2.000 euro di sanzione con revoca della patente e fermo del veicolo (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Catasto gratis per le società.
Estesa anche alle società e agli enti la consultazione online gratuita delle banche dati ipotecaria e catastale. Infatti, anche le persone giuridiche registrate ai servizi telematici Entratel e Fisconline possono ora avere tutte le informazioni sul proprio patrimonio immobiliare, gratuitamente e senza recarsi in ufficio.

Lo ha reso noto ieri l'Agenzia delle entrate.
Il servizio, già attivo dal 31.03.2014 per le persone fisiche, è rivolto alle persone giuridiche anche in parte, del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento sui beni immobili.
Consultando le banche dati catastale ipotecaria è possibile ottenere:
• la visura catastale, sia per soggetto che per immobile;
• la mappa con la particella terreni;
• la planimetria del fabbricato;
• l'ispezione ipotecaria.
Il servizio è attivo su tutto il territorio nazionale ad eccezione delle provincie autonome di Trento e Bolzano e delle altre zone in cui vige il sistema tavolare (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016).

ENTI LOCALIPareggio di bilancio flessibile. Le sanzioni proporzionate all'entità della violazione. La Camera dei deputati ha approvato definitivamente il ddl. Cosa cambia per gli enti.
Dal 2017, le sanzioni a carico degli enti che non rispetteranno il pareggio di bilancio dovranno essere proporzionate all'entità delle violazioni e destinate a finanziare gli incentivi a favore delle amministrazioni virtuose.
È una delle novità del disegno di legge di modifica della l. 243/2012 sugli equilibri contabili delle regioni e degli enti locali, approvato ieri in via definitiva dalla Camera con 342 sì e 89 no (per l'approvazione del provvedimento era necessaria la maggioranza assoluta).
In materia di penalità, in effetti, la maggior parte dei commentatori si è finora soffermata esclusivamente sulla previsione che individua in un triennio l'orizzonte temporale entro il quale chi ha sforato deve rientrare. Fino ad oggi, invece, le sanzioni economiche sono sempre state applicate per intero nell'anno successivo a quello in cui è stata commessa (o accertata) l'infrazione.
A dire il vero, però, il principio della pluriannualità è già fissato dal testo attuale (art. 9, comma 2), e anzi il correttivo appena licenziato da Montecitorio consente alla legge dello Stato di disapplicarlo «al fine di assicurare il rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea». Il vero cambiamento sta nella riscrittura del successivo comma 4, che impone al legislatore ordinario di attenersi ai seguenti principi: a) proporzionalità fra premi e sanzioni; b) proporzionalità fra sanzioni e violazioni; c) destinazione dei proventi delle sanzioni a favore dei premi agli enti del medesimo comparto che hanno rispettato i propri obiettivi.
Quindi, dal prossimo anno, sarà giocoforza rimettere mano alla disciplina vigente (identica, sotto questo profilo, a quella collegata al vecchio Patto di stabilità interno), che non solo impone sanzioni evidentemente sproporzionate rispetto alle violazioni (si pensi all'assurdità di bloccare le assunzioni anche se l'ente, pur avendo rispettato l'obiettivo, ha tardato di un solo giorno l'invio della certificazione) ma anche rispetto ai premi per i virtuosi, oggi non previsti perché lo Stato si incamera tutti i proventi. Ricordiamo, infatti, che la l 243 è una legge «rinforzata» di diretta attuazione della Costituzione che, come tale, vincola le legge ordinaria.
Ciò ovviamente vale anche per le altre novità, che riguardano il definitivo superamento del vecchio Patto, la riduzione da quattro ad uno (quello di competenza fra entrate e spese finali) dei saldi-obiettivo, come già previsto per il 2016 dalla l. 208/2015, l'inclusione del fondo pluriennale vincolato, l'introduzione di un mercato di spazi finanziari nazionale per consentire il ricorso all'indebitamento ma anche l'utilizzo degli avanzi di amministrazione (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Conto termico, fondi a due vie. P.a., accesso subito. Privati in 60 giorni dall'intervento. Le istruzioni del Gse sull'incentivazione (900 mln ) per riqualificare gli edifici.
Arrivano le regole applicative da parte del Gse (Gestore servizi energetici) per l'accesso ai 900 milioni di euro (700 per privati e imprese e 200 per p.a.) del conto termico 2.0. Dal 1° agosto, le pubbliche amministrazioni possono già accedere alla procedura di prenotazione degli incentivi attraverso l'applicazione internet portaltermico. Le imprese e i privati intesi come persone fisiche possono presentare la richiesta di incentivo entro 60 giorni dalla data di conclusione dell'intervento, che non può superare i 90 giorni dalla data di effettuazione dell'ultimo pagamento.

Queste le istruzioni dettate dal Gse e contenute nella guida operativa per accesso agli incentivi del conto termico 2.0. Ricordiamo che il nuovo conto termico è disciplinato dal decreto del 16.02.2016 ed è entrato in vigore il 31 maggio.
Si tratta di un meccanismo d'incentivazione che consente di riqualificare gli edifici per migliorarne le prestazioni energetiche, riducendo i costi dei consumi e recuperando in tempi brevi parte della spesa sostenuta. Possono accedere agli incentivi le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati (intesi, per esempio, come persone fisiche, condomini e soggetti titolari di reddito di impresa o di reddito agrario).
Due le modalità di accesso agli incentivi : l'accesso diretto ( per gli interventi realizzati dalle p.a. e dai soggetti privati) e la prenotazione (per gli interventi ancora da realizzare da parte delle p.a. e delle Esco (energy service company).
Accesso da parte delle p.a. - Dal 1° agosto, le pubbliche amministrazioni accedono alla procedura di prenotazione degli incentivi attraverso il portaltermico. La richiesta di incentivo tramite prenotazione consentirà alle p.a. di ricevere entro 60 giorni dalla sottoscrizione della scheda-contratto un primo acconto.
A conclusione dei lavori, entro 60 giorni, il Gse erogherà in un'unica rata a saldo la parte residua dell'incentivo. Le pubbliche amministrazioni possono richiedere un acconto nel caso in cui siano in possesso di una diagnosi energetica, di un contratto di prestazione energetica stipulato con una Esco o di un atto amministrativo attestante l'avvenuta assegnazione dei lavori.
Accesso da parte dei privati - Il soggetto responsabile, a seguito della conclusione dell'intervento, deve presentare la richiesta di concessione degli incentivi al Gse, attraverso il portaltermico. La richiesta deve essere presentata, a pena di esclusione, entro 60 giorni dalla data di conclusione dell'intervento, che non può superare i 90 giorni dalla data di effettuazione dell'ultimo pagamento.
Per l'accertamento del rispetto della suddetta tempistica non possono essere presi in considerazione i pagamenti relativi alle prestazioni professionali. La data di presentazione della richiesta è quella indicata nella ricevuta rilasciata dal portaltermico al termine della procedura informatica di invio dell'istanza (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: L'Ape vale dieci anni.
L'attestato di prestazione energetica (cosiddetto Ape) ha una validità temporale massima di dieci anni a partire dal suo rilascio. Ma a seguito di significativi interventi di riqualificazione energetica che modificano la classe energetica dell'edifico o dell'unità immobiliare, l'Ape deve essere aggiornato qualora vi fosse la necessità di utilizzarlo in un contratto di compravendita, nella stipula di nuovi contratti di locazione e nell'esposizione dell'Ape negli edifici pubblici.

Queste le nuove risposte fornite dal ministero dello sviluppo economico (contenute in 70 faq aggiornate al 01.08.2016) in materia di redazione dell'attestato di prestazione energetica.
I tecnici del Mise con le nuove risposte forniscono ulteriori chiarimenti per l'applicazione delle disposizioni previste dal decreto ministeriale 26.06.2015 sulla metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche e dell'utilizzo delle fonti rinnovabili negli edifici nonché dell'applicazione di prescrizioni e requisiti minimi in materia di prestazioni energetiche degli edifici.
All'atto dell'emissione dell'Ape, se necessario, occorre quindi far redigere il libretto di impianto e dotarlo degli allegati richiesti compreso un valido rapporto di controllo di efficienza energetica. Solo nel caso che l'impianto sia distaccato dalla rete del gas o dichiarato dismesso o disattivato (al catasto degli impianti termici se operante) può mancare il rapporto di controllo di efficienza energetica in corso di validità.
Nell'Ape, tra l'altro, nei casi in cui è istituito il catasto regionale degli impianti termici, va indicato, nella quarta pagina, il codice del catasto regionale dell'impianto termico che implica la regolare registrazione e dotazione del libretto di impianto e dei relativi allegati (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOLimiti al regolamento elaborato dal costruttore. Non valido l’impegno verso disposizioni ancora da scrivere.
Cassazione. La disciplina esistente (se richiamata) può essere accettata all’acquisto.

Le clausole del regolamento condominiale predisposte dal costruttore dell’edificio che, spingendosi oltre i possibili contenuti previsti dall’articolo 1138, comma 1, Codice civile, impongano limiti ai poteri e alle facoltà spettanti ai condòmini sulle singole unità immobiliari -e sempre che siano enunciate in modo chiaro ed esplicito- sono vincolanti per i successivi acquirenti delle distinte porzioni dell’edificio.
Ma solo se ricorrono due alternative condizioni:
- o il regolamento deve essere trascritto nei registri immobiliari (ma ciò suppone che esso possa intendersi, agli effetti dell’articolo 2645 Codice civile, un atto dispositivo della comproprietà);
- oppure, nel titolo di acquisto deve essere fatto espresso riferimento al regolamento, pur senza ritrascriverlo materialmente per intero, in maniera che esso possa ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo operato nel contratto, trattandosi comunque di integrare il contenuto di un negozio soggetto a forma scritta essenziale (Cassazione, sentenze 19798/2014 e 17886/2009).
Il richiamo, quindi, ha rilievo se operato con riferimento ad un determinato regolamento già esistente al momento del singolo atto di acquisto. Non vale, cioè, l’obbligo assunto dall’acquirente, nel contratto di compravendita del singolo appartamento, di rispettare un qualsiasi regolamento di condominio da predisporsi in futuro a cura del costruttore (Cassazione, sentenza 5657/2015).
Analogo problema di opponibilità ai successivi acquirenti si pone per le clausole del regolamento di condominio che dispongano deroghe ai criteri di ripartizione delle spese condominiali, stabilite dagli articoli 1123 e seguenti del Codice civile. Solo la trascrizione del regolamento, o lo specifico richiamo nei titoli di acquisito, possono procurare efficacia reale a tali convenzioni di distribuzione delle spese condominiali.
Se quindi si vuole verificare la validità di simili clausole del regolamento condominiale, predisposte dal costruttore venditore ed accettate dagli acquirenti delle singole unità, alla luce dell’articolo 33, comma 1, del Codice del consumo, a parte la necessità di riscontrare, in concreto, la sussistenza degli status soggettivi di “professionista” e “consumatore” con riguardo ai contratti di acquisto delle unità condominiali, è bene evidenziare come, per far valere in giudizio la nullità delle eventuali clausole vessatorie inserite nel regolamento predisposto dal costruttore venditore e accettato dai partecipanti, non sussiste la legittimazione processuale dell’amministratore di condominio, ma occorre un’azione esperibile da (o nei confronti di) tutti i condomini (Cassazione, sentenza 12342/1995).
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Adesione a parte per le clausole «future». Il punto critico. Chi compra prima della stesura finale deve poi sottoscrivere espressamente le regole.
Quando il numero dei condòmini è superiore a dieci è obbligatoria la formazione di un regolamento per disciplinare l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese. Negli edifici di nuova costruzione è il costruttore/venditore che, in genere, cura la formazione dello “statuto condominiale”.
Una delle questioni sul tappeto è l'efficacia di tale regolamento quando sia stato redatto dal costruttore dopo la vendita dei primi appartamenti. In quest’ultimo caso, con riguardo alla natura contrattuale di alcune delle norme lì trasfuse -e, quindi, con riferimento a quelle in grado di incidere con vincoli nella gestione della proprietà privata- ci si è anche chiesti se i primi acquirenti ne sarebbero affrancati. La risposta al quesito, a quanto pare, è positiva.
La Cassazione (sentenza 856/2000) aveva previsto che «il regolamento di condominio edilizio predisposto dall’originario (ed unico) proprietario dell'edificio è vincolante per gli acquirenti delle singole unità immobiliari (purché richiamato ed approvato nei singoli atti di acquisto) nella sola ipotesi che il relativo acquisto si collochi in epoca successiva alla predisposizione del regolamento stesso, e non nel periodo antecedente tale predisposizione» .
In altri termini, non ha alcun effetto nei confronti degli acquirenti la clausola del contratto di compravendita con la quale gli stessi si impegnano all’assunzione dell’obbligo di rispettare un regolamento futuro, in via di predisposizione da parte del costruttore.
Il regolamento può vincolare l’acquirente solo se, successivamente alla sua redazione, quest'ultimo vi presterà volontaria adesione: mancando, diversamente, uno schema negoziale definitivo, suscettibile di essere compreso per comune volontà delle parti nell'oggetto del contratto.
A confermare l’assunto anche una recente sentenza del Tribunale di Aosta (datata 16.03.2016). In questo caso gli atti di compravendita dei condòmini che avevano fatto causa erano stati stipulati in data precedente alla realizzazione del regolamento e delle tabelle millesimali da parte del venditore, per cui gli stessi ne hanno contestato –a quanto pare efficacemente- la validità. non avendovi, in epoca successiva, prestato alcuna volontaria adesione.
Ne consegue che il regolamento condominiale, qualora sia predisposto dall'originario unico proprietario e prima che il condominio si formi, costituisce un contratto ed assume forza vincolante soltanto se venga accettato da tutti, nessuno escluso, dei singoli acquirenti dei piani, mediante specifici atti di adesione al complesso delle norme predisposte (e previa trascrizione dei medesimi nei registri tavolari).
Nel caso in cui il regolamento sia stato, invece, approntato in epoca successiva alle prime compravendite immobiliari, per essere efficace e vincolante nei confronti di quei condòmini, occorre che essi esprimano a parte il proprio esplicito consenso, nelle forme adeguate. Certamente, non risulterà loro opponibile la clausola originaria sull'impegno a rispettare il regolamento e le tabelle millesimali di formazione futura
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.08.2016).

TRIBUTI: Immobili rurali, annotazioni catastali decisive. La ctr Brescia sulle esenzioni fiscali.
Per i fabbricati rurali conta l'annotazione catastale sia per l'ici sia per l'Imu. Se è stata presentata in catasto l'autocertificazione che attesta la sussistenza dei requisiti di legge entro il 30.09.2012, al titolare dell'immobile rurale spetta l'esenzione Ici anche per i 5 anni precedenti. Alla stessa agevolazione hanno diritto i possessori di fabbricati strumentali censiti nella categoria D/10, perché l'inquadramento in questa categoria certifica la loro ruralità.

È quanto ha stabilito la commissione tributaria regionale di Milano, sezione staccata di Brescia, con la sentenza n. 1014/2016.
Per i giudici d'appello, l'inserimento dell'annotazione di ruralità negli atti catastali attesta i requisiti «a decorrere dal quinto anno antecedente a quello di presentazione della domanda», se prodotta entro il 30.09.2012.
Secondo la commissione regionale «per i fabbricati aventi funzioni produttive connesse alle attività agricole è acclarato il requisito della ruralità se censiti nella categoria D/10». Per gli immobili strumentali non accatastati nella suddetta categoria, invece, la ruralità va riconosciuta in presenza della «specifica annotazione ottenibile mediante domanda all'Agenzia del territorio».
Va sottolineato che la normativa sui fabbricati rurali è piuttosto confusa. Nel corso di questi ultimi anni ci sono stati vari interventi normativi e giurisprudenziali che hanno contribuito a creare dubbi e incertezze. Da ultimo l'articolo 2, comma 5-ter, del dl 102/2013, in sede di conversione in legge (124/2013), ha stabilito che le domande di variazione catastale, presentate dagli interessati per ottenere l'annotazione di ruralità degli immobili, hanno effetto retroattivo per i 5 anni antecedenti. L'efficacia di questa disposizione di interpretazione autentica può arrivare fino all'anno d'imposta 2006, considerato che i contribuenti avrebbero potuto inoltrare le prime istanze di variazione entro il 30.09.2011.
Il decreto del ministero dell'economia e delle finanze del 26.07.2012 ha chiarito quali adempimenti devono porre in essere i titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu delle agevolazioni. Per quest'ultimo tributo sono escluse dai benefici le unità immobiliari utilizzate come abitazione (articolo ItaliaOggi del 02.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIInteressi allo 0% per ritardi nei pagamenti commerciali.
Fissato allo 0 per cento per il periodo 1° luglio-31.12.2016 il saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali.

Lo si legge in un comunicato del ministero dell'economia e delle finanze pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 178 di ieri.
«Ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 231/2002, come modificato dalla lettera e) del comma 1 dell'art. 1 del decreto legislativo n. 192/2012, si comunica che per il periodo 1º luglio-31.12.2016 il tasso di riferimento è pari allo 0%», recita il comunicato che fa riferimento alla norma del dlgs 231/2002 relativa alla determinazione del saggio degli interessi: gli interessi moratori sono determinati nella misura degli interessi legali di mora.
Nelle transazioni commerciali tra imprese è consentito alle parti di concordare un tasso di interesse diverso, entro determinati limiti.
Il tasso di riferimento è determinato in questo modo: per il primo semestre dell'anno cui si riferisce il ritardo, è quello in vigore il 1° gennaio di quell'anno; per il secondo semestre dell'anno cui si riferisce il ritardo, è quello in vigore il 1° luglio di quell'anno.
Il ministero dell'economia e delle finanze, come ha fatto ieri, dà notizia del tasso di riferimento, curandone la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre solare (articolo ItaliaOggi del 02.08.2016).

APPALTIServe un controllo in due tempi per il subappalto. L’intreccio. Le disposizioni da rispettare.
Per applicare correttamente il meccanismo dell’inversione contabile Iva, è necessario fare attenzione agli intrecci tra due disposizioni: quella contenuta nella lettera a) e quella contenuta nella lettera a-ter) dell’articolo 17, comma 6, del Dpr 633/1972.
Il reverse charge si applica, in primo luogo, a tutte le prestazioni di servizi di pulizia, demolizione, installazione di impianti e completamento relative a edifici -elencati nella lettera a-ter)-, a prescindere dal fatto che siano rese nel settore edile e a prescindere dal tipo di contraenti (subappaltatore, appaltatore principale o contraente generale). Inoltre, in base alla lettera a), l’inversione contabile si applica alle prestazioni rese nel settore edile, ma solo per alcuni tipi di contraenti: la prestazione deve essere resa da un subappaltatore nei confronti dell’impresa appaltatrice che si occupa della costruzione o della ristrutturazione di un immobile o di un altro subappaltatore.
Pertanto, mentre per applicare la lettera a-ter) occorre considerare solo il tipo di prestazione effettuata, per applicare la lettera a) bisogna badare, intanto, che il prestatore sia un subappaltatore che svolge (come ha precisato la circolare 37/E del 2006 dell’agenzia delle Entrate), «anche se in via non esclusiva o prevalente, attività identificate dalla sezione F della classificazione delle attività economiche Ateco».
La sezione F, rubricata semplicemente «costruzioni», comprende i lavori generali di costruzione, i lavori speciali di costruzione per edifici e opere di ingegneria civile, i lavori di completamento di un fabbricato nonché i lavori di installazione in esso dei servizi. Sono inoltre inclusi, come ha chiarito sempre la circolare 37/E/2006, i nuovi lavori, le riparazioni, i rinnovi e restauri, le aggiunte e le alterazioni, la costruzione di edifici e strutture prefabbricate in cantiere e anche le costruzioni temporanee.
Pertanto, se ci si trova di fronte a un contratto complesso contenente anche prestazioni che in base alla lettera a-ter) andrebbero assoggettate a reverse charge ma che -proprio per effetto della complessità contrattuale- ricadono nelle ordinarie regole Iva, va fatta una seconda riflessione. Cioè si deve verificare che non si tratti di rapporti di subappalto fra subappaltatori o fra subappaltatore e appaltatore: se la risposta è positiva, il meccanismo dell’inversione contabile va applicato se le parti contraenti svolgono una delle attività indicate nella sezione F della classificazione Ateco.
Inoltre, per l’agenzia delle Entrate, il reverse charge si applica ai rapporti tra subappaltatori o tra subappaltatori e appaltatore nel settore dell’edilizia non solo se il contratto è riconducibile alla tipologia dell’appalto, ma anche se si tratta di un contratto di prestazione d’opera
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARITelecamere, nullaosta necessario. Vietato installare impianti (anche spenti) senza accordo sindacale o autorizzazione.
Jobs act. L’ispezione fa scattare l’ordine di rimozione o la messa in regola oltre al pagamento di una sanzione amministrativa.

L’installazione delle telecamere in azienda senza accordo sindacale o autorizzazione amministrativa fa scattare sempre la prescrizione degli ispettori e poi la sanzione, persino a impianti non funzionanti. Alla prassi già consolidata in materia di impianti audiovisivi nei luoghi di lavoro dopo il Jobs act si è aggiunto un importante tassello con la nota 01.06.2016 n. 11241 di prot. del Ministero del Lavoro.
La nota guarda alle ispezioni e alle sanzioni relative alle telecamere installate senza accordo sindacale o senza autorizzazione, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 300/1970. La questione affrontata verte sul provvedimento di prescrizione che gli accertatori adottano in sede ispettiva, nel momento in cui rilevino l’installazione e l’impiego illecito di impianti audiovisivi per finalità di controllo a distanza dei lavoratori in orario di lavoro.
Le condizioni
La norma -modificata nell’ambito del Jobs act dall’articolo 23, comma 1, del Dlgs 151/2015- stabilisce due principi da rispettare (rimasti intatti nella nuova formulazione):
- l’installazione di questi strumenti e –in genere– di quelli dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori può avvenire esclusivamente per esigenze organizzative e produttive ovvero per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale;
- l’installazione non può avere luogo se non è preceduta da apposito accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. Se in azienda non sono presenti rappresentanze sindacali o in mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti in oggetto possono essere installati solo dopo aver richiesto autorizzazione alla Direzione territoriale del Lavoro o, in alternativa -nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Dtl- del ministero del Lavoro (nella piena operatività del Dlgs 149/2015 questi organismi saranno rispettivamente sostituiti dalle sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale e dalla sede centrale).
Peraltro, lo schema di decreto correttivo del Jobs act sancisce che queste autorizzazioni hanno natura definitiva. Il provvedimento ha ricevuto il via libera delle commissione parlamentari e deve ora tornare in Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva.
L’aspetto interessante su cui si sofferma la nota 11241 è che si pone in violazione dei criteri descritti anche la presenza di telecamere che –seppure installate– non siano ancora state messe in funzione; così come non si mette al riparo dalla violazione dell’articolo 4, della legge 300, il datore di lavoro che ha preventivamente informato i lavoratori. Allo stesso modo, sulla scorta della giurisprudenza, non influisce il fatto che il controllo sia discontinuo perché esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente.
Proprio seguendo il recente filone giurisprudenziale, il Lavoro precisa come sia vietata anche l’installazione di telecamere “finte” montate a scopo dissuasivo, poiché questa condotta costituisce già di per sé un illecito, indipendentemente dall’effettivo utilizzo dell’ impianto. Sulla stessa linea interpretativa è sempre intervenuto il Garante della privacy.
Prescrizione e sanzioni
La violazione è sanzionata con ammenda da 154 a 1.549 euro o arresto da 15 giorni ad un anno, salvo che il fatto non costituisca reato più grave.
Quindi, se l’ispettore rileva in loco l’installazione di telecamere in assenza di uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali o dell’autorizzazione rilasciata della Dtl, deve impartire una prescrizione (articolo 20, del Dlgs 758/1994) al fine di porre rimedio all’irregolarità attraverso la rimozione materiale degli impianti audiovisivi, entro un termine assegnato: se, in questo lasso di tempo, venisse siglato l’accordo sindacale o ottenuta l’autorizzazione della Dlt, l’ispettore può ammettere il datore al pagamento della sanzione amministrativa nella misura pari ad un quarto del massimo dell’ammenda
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016).

VARILe direzioni locali dettano l’iter per il Gps a bordo. Autovetture. Posizioni contrastanti tra Milano e Latina.
Dopo la riforma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, è possibile installare gli impianti di geolocalizzazione sulle vetture dei dipendenti senza chiedere l’assenso preventivo del sindacato o dell’autorità amministrativa, oppure questo strumento resta soggetto alla procedura di autorizzazione?
A questa domanda le strutture territoriali del ministero del Lavoro, con due note ufficiali quasi contemporanee, hanno dato risposte in parte differenti.
Con la nota 10.05.2016 n. 5689 di prot., la Direzione interregionale di Milano ha dato una risposta positiva. La nota -che affronta un caso specifico ma nel contempo offre indirizzi a tutte le strutture del territorio- ricorda che, ai sensi del nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, non è più necessario assoggettare ad autorizzazione (sindacale o amministrativa) preventiva l’utilizzo di strumenti di lavoro (e degli strumenti di registrazione delle presenze e degli accessi in azienda).
Secondo la Direzione interregionale, nella nozione di strumento di lavoro deve rientrare ogni strumento idoneo ad assolvere complessivamente la funzione di mezzo necessario a rendere l’attività lavorativa.
Applicando questi concetti ai rilevatori Gps, la nota evidenzia che l’installazione sulle vetture aziendali non richiede autorizzazione preventiva, qualora siano utilizzati per soddisfare esigenze assicurative, produttive o di sicurezza. Ciò in quanto gli impianti Gps e le vetture su cui sono installati servono entrambi, inscindibilmente, a rendere la prestazione di lavoro.
La nota ricorda, molto opportunamente, che questa semplificazione procedurale non si traduce in un ammorbidimento delle tutele del lavoratore. Il dipendente mantiene inalterato il proprio diritto a non essere controllato in maniera indebita oppure eccessiva, e in aggiunta vede rafforzato il quadro delle garanzie poste a sua tutela, in quanto l’utilizzo delle informazioni acquisite mediante gli strumenti di controllo a distanza è subordinata alla fornitura dell’informativa preventiva prevista dall’articolo 13 del Codice privacy, nella quale devono essere indicate le modalità con cui saranno svolti i controlli.
Ma queste considerazioni non trovano posto in un altro provvedimento quasi contemporaneo (Dtl Latina, atto 11.05.2016 n. 12519 di prot.), che riguarda la richiesta di un’impresa di vigilanza, intenzionata ad installare sui veicoli aziendali un impianto di localizzazione satellitare proprio per lo svolgimento della vigilanza. Applicando alla lettera il nuovo articolo 4 dello Statuto (come ricostruito dalla Direzione interregionale del Lavoro di Milano), questo impianto poteva essere considerato uno “strumento di lavoro” e quindi poteva essere esonerato dall’ autorizzazione preventiva.
La Direzione di Latina rinuncia a far valere questa semplificazione procedurale e, come se nulla fosse cambiato anche dopo il Jobs Act, assoggetta (con esito positivo) l’installazione alla procedura di autorizzazione. Questa scelta, divergente da quella milanese, assume portata molto più ristretta, in quanto non è accompagnata da una ricostruzione teorica di carattere generale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016).

APPALTI FORNITURE E SERVIZICinque soglie per gli acquisti. Dal 9 agosto al via i nuovi obblighi di centralizzazione delle procedure.
Spending. Dalla manutenzione alla pulizia e alla vigilanza, blocco automatico per gli iter fuori regola.

Entro pochi giorni scatta per gli enti locali l’obbligo di acquisire una serie di tipologie di beni e servizi, per valori superiori a determinate soglie, facendo ricorso solo a Consip e agli altri soggetti aggregatori.
Il Dpcm del 24.12.2015, che ha dato attuazione all’articolo 9, comma 3 della legge 89/2014 individuando le categorie di beni e servizi per le quali è necessario rivolgersi alle macro-centrali di committenza nazionale e regionali, diventa efficace per le amministrazioni locali (ma anche per altri soggetti, come le Camere di commercio) a partire dal 9 agosto: da quella data per tutte le acquisizioni rientranti nella classificazione e superiori per valore alle soglie rispettivamente indicate, le amministrazioni devono rivolgersi ai soggetti aggregatori.
L’ambito soggettivo di applicazione del decreto è piuttosto ampio, perché la disposizione legislativa di riferimento lo estende a tutti gli enti locali nella classificazione del Tuel, ma anche alle loro associazioni e ai consorzi, tanto da risultare comprensivo anche delle aziende speciali che abbiano assunto forma consortile.
Il Dpcm individua cinque categorie con differenti soglie, al di sopra delle quali scatta l’obbligo di approvvigionamento mediante i soggetti aggregatori.
Per la guardiania e la vigilanza armata la soglia è correlata a quella per l’affidamento diretto, quindi stabilita in 40mila euro, mentre per i servizi di facility management, di manutenzione (immobili e impianti) e di pulizia (immobili) il limite oltre il quale scatta il ricorso a Consip e agli altri aggregatori è la soglia comunitaria standard per beni e servizi, di 209mila euro.
Gli enti devono effettuare una verifica accurata dei loro fabbisogni per questi servizi (collegandola anche alla programmazione degli acquisti prevista dall’articolo 21 del nuovo Codice dei contratti pubblici), dovendo considerare che le soglie-limite sono da intendersi come importo massimo annuo, a base d’asta, negoziabile autonomamente per ciascuna categoria merceologica da parte delle singole amministrazioni.
Il valore, pertanto, deve essere calcolato su base annuale e con riferimento all’intera amministrazione, sommando i fabbisogni dei vari centri di costo: ad esempio, in un Comune di medie dimensioni, articolato in quattro settori, il valore dei servizi di pulizia deve essere calcolato sommando le esigenze delle singole unità organizzative.
Il frazionamento artificioso comporta la violazione dell’obbligo, e rispetto a questo profilo è necessario considerare che proprio rispetto ad alcune di queste tipologie di servizi (pulizie e manutenzione, in particolare) le amministrazioni, in caso di fabbisogno superiore alla soglia-limite, devono ricondurre tutto il valore all’approvvigionamento presso il soggetto aggregatore, non avendo più margine per scorporarne una parte da ricondurre alle procedure riservate alle cooperative sociali di tipo B.
Qualora l’ente decidesse di forzare e di avviare una gara per una delle tipologie di servizi compresi nel Dpcm per un valore superiore alla soglia-limite corrispondente, non potrebbe portare avanti la procedura, in quanto l’Anac non rilascia il codice identificativo gara alle stazioni appaltanti che non ricorrono ai soggetti aggregatori in presenza dell’obbligo.
L’elenco delle iniziative poste in essere dai soggetti aggregatori è reso disponibile sul portale acquistinretepa.it e consente agli enti di verificare se tra queste vi sono convenzioni o altri strumenti, ma anche di rilevare se le tipologie di servizi sono rese disponibili in forma aggregata o in forma singola.
Per poter meglio identificare i parametri configurativi del facility management e della manutenzione, gli enti possono confrontare i loro fabbisogni con le prestazioni e le caratteristiche essenziali di queste attività definite dal decreto del ministero dell’Economia del 21 giugno
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Nelle partecipate il Cda diventa un’«eccezione». Riforma Madia/1. Limiti agli amministratori.
Lo schema di Testo unico delle partecipate atteso all’adozione in Consiglio dei ministri (Atto del Governo n. 297 - Schema di decreto legislativo recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) conferma, salvo qualche lieve novità, la disciplina speciale disegnata, dalla precedente versione, con riferimento agli «organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico».
Le norme in questione valgono solo per le società a controllo pubblico (articolo 2, lettera m) del Testo unico) escluse le quotate e le società solo partecipate da una o più amministrazioni.
Per queste ultime il nuovo articolo 11, comma 16, si limita a prevedere che, se vi è un’amministrazione titolare di partecipazione superiore al 10%, questa è tenuta a “proporre” agli organi societari l’introduzione delle misure dettate per le controllate ai commi 6 e 10, relative ai limiti al compenso degli amministratori, divieto per i dirigenti di bonus di fine rapporto o patti di non concorrenza diversi da quelli previsti per legge o dai contratti collettivi.
I componenti degli organi amministrativi delle società a controllo pubblico, come prevede l’articolo 11, comma 1, devono possedere i requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia stabiliti con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Economia e delle finanze. Questi requisiti sono estesi, nella nuova versione, anche agli organi di controllo.
Il comma 1 conferma poi le incompatibilità previste dall’art. 12 del Dlgs 39/2013 (ribadite anche dal generale richiamo del comma 15) e quelle previste dall’articolo 5, comma 9, del Dl 95/2012.
È rimasto anche il divieto di nominare, quali amministratori, i dipendenti delle amministrazioni controllanti o vigilanti (comma 8), al posto dell’incompatibilità generale che secondo la prima versione del testo avrebbe chiuso ai dipendenti pubblici le porte dei Cda a prescindere dal rapporto fra l’ufficio di provenienza e la società.
In caso di controllo indiretto l’incompatibilità riguarda gli amministratori della società controllante, a meno che siano loro attribuite deleghe gestionali a carattere continuativo oppure la nomina risponda all’esigenza di rendere disponibili alla società controllata particolari e comprovate competenze tecniche degli amministratori della controllante, o ancora di favorire l’attività di direzione e coordinamento (comma 11).
La regola è l’amministratore unico (comma 2), anche nelle Srl (per le quali il comma 5 -in deroga all’articolo 2475, comma 3, del Codice civile- non consente di affidare l’amministrazione a due o più soci). Solo in presenza di ragioni di adeguatezza organizzativa (in base a criteri definiti con decreto del presidente del Consiglio) l’assemblea può nominare un Cda composto da tre a cinque membri, oppure disporre l’adozione del sistema monistico o dualistico. In tal caso il numero complessivo dei componenti degli organi di amministrazione e controllo non può essere superiore a cinque (comma 3).
Per l’organo amministrativo collegiale, la scelta degli amministratori va effettuata in base a criteri che assicurino l’equilibrio tra i generi; e comunque (altra novità) questo principio va assicurato almeno nella misura di un terzo sul numero complessivo delle nomine effettuate nell’arco dell’anno (comma 4).
Per statuto, poi, deve essere esclusa la carica di vicepresidente, se non quale modalità di individuazione del sostituto del presidente, senza compensi aggiuntivi (comma 9, lettere a e b). Sempre lo statuto deve stabilire che il cda possa attribuire deleghe di gestione a non più di un amministratore (ma è salva l’attribuzione di deleghe al presidente se previamente autorizzata dall’assemblea); e vietare l’istituzione di organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società (comma 9, lettera d). La costituzione di comitati con funzioni consultive o di proposta resta invece consentita nei limiti dei casi previsti dalla legge (comma 13).
Infine, il comma 15 prevede espressamente, per gli organi di amministrazione e controllo delle società in house, l’applicazione del regime di prorogatio previsto dal Dl 293/1994
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovi tetti a compensi e indennità dei dirigenti. Riforma Madia/2.
Accanto alle norme sugli amministratori delle società controllate, il nuovo Testo unico (Atto del Governo n. 297 - Schema di decreto legislativo recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) estende, anche se timidamente, alcune disposizioni anche alle società miste, perché il socio pubblico che abbia più del 10% di quota deve proporre agli organi societari l’introduzione di misure analoghe a quelle indicate ai commi 6 (compensi agli amministratori) e 10 (compensi ai dipendenti).
Si cerca così di evitare il caso, non solo teorico, che una società pubblica al 100%, o comunque con partecipazione superiore al 50%, possa non adeguarsi alla normativa, perché tecnicamente definibile come non controllata. L’articolo 11 non riguarda comunque le società quotate né quelle che entro il 30.06.2016 abbiano deciso di emettere altri strumenti finanziari, quotati in mercati regolamentati (articolo 26, comma 5).
L’articolo 11 esprime la preferenza del legislatore per l’amministratore unico, ma fa rinvio a un successivo decreto, da emanare entro sei mesi, per stabilire quando è possibile disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri. La formulazione è tale che si ritiene non sia necessario, né sarebbe possibile vista la tempistica, adeguare lo statuto ai sensi dell’articolo 26, comma 1, non trattandosi di previsione di legge.
È curioso osservare che dopo l’obbligo di avere dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti nel cda previsto nel 2012 (articolo 4, comma 4, del Dl 95/2012) e la facoltà di nominarli nel 2014 (modifica introdotta dall’articolo 16 del Dl 90/2014), si arriva oggi, grazie all’articolo 11, comma 8, al divieto che gli amministratori siano dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti.
La norma interviene anche sui compensi, e questa volta non solo su quelli degli amministratori ma anche sui quelli dei dirigenti, per i quali sono anche esclusi indennità o trattamenti di fine mandato diversi o ulteriori da quelli previsti dalla contrattazione collettiva (articolo 11, comma 10) e la possibilità di stipulare patti di non concorrenza. Nella prima stesura questo divieto era esteso anche agli amministratori.
L’articolo 11, comma 6 richiede di emanare un decreto che definisca gli «indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi» utili a individuare fino a cinque fasce di società, stabilendo per ciascuna di queste il limite dei compensi massimi omnicomprensivi per gli amministratori, per i membri degli organi di controllo, per i dirigenti ed i dipendenti, ovviamente nel limite massimo di 240mila euro annui.
Il decreto stabilirà anche i criteri per la parte variabile della retribuzione, che sarà commisurata al risultato economico, ma attribuibile anche in caso di perdite, se non dovute alla responsabilità dell’amministratore; quasi sempre, quindi, visto che se si accertano responsabilità degli amministratori ci sarà da attivarsi per ben altro. Il decreto dovrà essere emanato entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della riforma a meno che, nel frattempo, non sia stato adottato il decreto previsto dal comma 672 della legge di Stabilità 2016, i cui termini sono già scaduti e che non prevedeva limiti per il collegio sindacale.
È da notare che «sono in ogni caso fatte salve le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono limiti ai compensi inferiori a quelli previsti dal decreto di cui al presente comma». Queste limitazioni, però, vengono tutte abrogate dall’articolo 25, e il legislatore ne è pienamente consapevole visto che l’articolo 11, comma 7, precisa che fino all’emanazione del decreto di cui si parla restano in vigore le regole dell’articolo 4, comma 4, secondo periodo del Dl 95/2012 e del decreto 166/2013 dell’Economia
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016).

EDILIZIA PRIVATAVia allo sportello unico online per le pratiche amministrative. In vigore le nuove regole sulla Scia: le p.a. devono attivare il servizio sul proprio sito.
Sportello unico per i procedimenti amministrativi. È il modello organizzativo prescelto dal decreto legislativo n. 126 del 30.06.2016 (intitolato «attuazione della delega in materia di segnalazione certificata di inizio attività - «Scia», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 162 del 13.07.2016, in vigore dal 28.07.2016).
Questo il primo filone su cui si muove il decreto n. 126: niente nomadismo procedimentale per cittadini e imprese alle prese con una pratica amministrativa. Sarà la volta buona? In effetti non è una novità assoluta: lo sportello unico è conosciuto in edilizia e nel settore delle attività produttive. Verrebbe da chiedersi che cosa cambia.
Cambia che il sistema si generalizza e vale per tutti i casi in cui si può iniziare un'attività semplicemente mandando una segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
Il decreto segue anche un altro filone: stop alle ricerche affannose e a singhiozzo su documenti, allegati, dichiarazioni da presentare. Mai più ansia da sorprese burocratiche durante l'iter di una pratica: niente è più disarmante del funzionario che rileva che manca qualche documento e la pratica stessa non può essere evasa.
D'ora in avanti, tutto sul sito internet dell'ente pubblico: istruzioni, fac-simile, elenco di ciò che serve. E su quanto inserito sul sito il cittadino e l'impresa possono fare affidamento.
Ma vediamo di analizzare il doppio binario dell'ennesimo ritocco alla legge 241/1990.
Sportello unico Scia. Il decreto prevede un solo sportello, di regola telematico, per la presentazione della Scia. Si tratta di «one stop shop» anche per procedimenti connessi a più p.a. e per Scia a servizio di altre Scia.
Nel dettaglio, il provvedimento parla di «concentrazione dei procedimenti» (nuovo articolo 19-bis della legge 241/1990). Vediamo cosa significa.
Significa che il cittadino deve trovare sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione lo sportello unico, di regola telematico, al quale presentare la Scia, anche in caso di procedimenti connessi di competenza di altre amministrazioni o di diverse articolazioni interne dell'amministrazione ricevente. Per favorire l'accesso del cittadino possono essere istituite più sedi di tale sportello.
Prima ipotesi: per lo svolgimento di un'attività soggetta a Scia sono necessarie altre Scia, comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche; l'interessato potrà presentare un'unica Scia allo sportello unico.
L'amministrazione che riceve la Scia la deve trasmettere immediatamente alle altre amministrazioni interessate al fine di consentire i controlli di loro competenza, il controllo sulla sussistenza dei requisiti e dei presupposti per lo svolgimento dell'attività e le indicazione di eventuali determinazioni da assumere.
Seconda ipotesi: l'attività oggetto di Scia è condizionata all'acquisizione di atti di assenso comunque denominati o pareri di altri uffici e amministrazioni, o all'esecuzione di verifiche preventive; l'interessato presenterà allo sportello unico la sua istanza e la p.a. deve convocare una conferenza dei servizi.
Con la norma in questione, il legislatore promette a cittadini e imprese una cosa semplice: basta collegarsi al sito per presentare la Scia e da lì in avanti è la p.a. che deve adoperarsi per mandare avanti la pratica.
Scia, sospensioni con il contagocce. Un'altra novità riguarda quelle situazioni in cui si è iniziata un'attività previa presentazione di una Scia ma la pratica non è regolare, anche se è regolarizzabile (magari un vizio formale).
La norma attuale dice che se la Scia è irregolare, ma sia possibile conformare l'attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l'amministrazione competente, con atto motivato, deve invitare il privato a provvedere, disponendo sempre la sospensione dell'attività intrapresa e prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a 30 giorni per l'adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure stesse, decorso il suddetto termine, l'attività si intende vietata.
Il decreto 126/2016 ci dice, invece, che se durante i controlli sulla Scia emergono vizi regolarizzabili, non si può sospendere l'attività, ma si apre un subprocedimento finalizzato alla regolarizzazione.
La differenza è sostanziale: in un caso si smette di lavorare per poi riaprire una volta messe le cose a posto; con le norme nuove, invece, si regolarizza mentre si prosegue a lavorare, senza intoppi nei rapporti con la clientela.
La sospensione rimane nei casi più gravi: scatta, invece, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell'interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale. L'atto motivato interrompe il termine di 60 giorni (previsto per i controlli dell'ente competente), che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l'adozione delle misure.
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Moduli standard per gli utenti. Modelli e istruzioni per cittadini e imprese dovranno essere pubblicati su internet.
La pubblica amministrazione deve fornire all'utenza (cittadini o imprese) moduli standard chiari e completi sulle circostanze da dichiarare e su eventuali documenti da allegare alle pratiche.
Nel dettaglio i moduli unificati e standardizzati devono definire esaustivamente, per tipologia di procedimento, i contenuti tipici e la relativa organizzazione dei dati delle istanze, delle segnalazioni e delle comunicazioni e della necessaria documentazione.
Per l'edilizia e le attività produttive ci saranno modelli standard a livello italiano.
I moduli con relative istruzioni devono essere pubblicati sul sito internet dell'ente pubblico.
L'obbligo di trasparenza si spinge nel decreto n. 126/216 a prevedere che nei casi in cui la documentazione debba essere individuata dall'amministrazione procedente oppure fino all'adozione dei moduli standard, le pubbliche amministrazioni devono pubblicare sul proprio sito istituzionale l'elenco degli stati, qualità personali e fatti oggetto di dichiarazione sostitutiva, di certificazione o di atto di notorietà, e delle attestazioni e asseverazioni dei tecnici abilitati o delle dichiarazioni di conformità dell'agenzia delle imprese, necessari a corredo della segnalazione, indicando le norme che ne prevedono la produzione.
Il significato è questo: o c'è il modulo standard o c'è l'elenco dei contenuti da inserire nell'istanza dell'utenza.
Se i singoli enti non provvederanno ai modelli standard, si attiva il potere sostitutivo, in salita, di regioni e stato.
Non disturbare il cittadino. L'amministrazione deve stabilire prima che cosa serve, pubblicando sul sito i modelli e da subito tutte le dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni e simili d allegare alla Scia.
Solo in via eccezionale la p.a. può chiedere documenti al cittadino. Anzi c'è un solo caso residuale, e cioè la mancata corrispondenza del contenuto dell'istanza, segnalazione o comunicazione e dei relativi allegati rispetto ai fatti che l'ente richiede in generale a corredo delle istanze/segnalazioni.
Per il resto è vietata ogni richiesta di informazioni o documenti ulteriori rispetto a quelli che sono indicati preventivamente come necessari o di documenti in possesso di una pubblica amministrazione.
In sostanza la p.a. deve essere analitica e precisa nella elaborazione dei moduli standard. Al cittadino/impresa non si possono cambiare le carte in tavola, dicendo che serve qualcosa che non era indicato prima sul sito. Il modulo standard è una promessa al cittadino/impresa.
Domicilio digitale. Tutti i cittadini hanno la possibilità di indicare un indirizzo e-mail per ricevere tutte le comunicazioni. Detto meglio, i moduli standard devono prevedere, tra l'altro, la possibilità del privato di indicare l'eventuale domicilio digitale per le comunicazioni con l'amministrazione.
Illeciti disciplinari. Se non si fa la pubblicazione delle dichiarazioni/attestazioni che servono per la singola pratica, ci va di mezzo lo stipendio del funzionario pubblico: la sanzione disciplinare è della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da tre giorni a sei mesi. Lo stesso se si chiedono documenti diversi da quelli pubblicati.
Ricevuta di presentazione. Il decreto obbliga la p.a. a rilasciare una ricevuta della segnalazione o istanza presentata. Nella ricevuta si indica quando scatta il silenzio-assenso o il termine di conclusione del procedimento.
Per i termini non si può speculare sulla differenza tra protocollazione dell'istanza e giorno (precedente) di effettiva presentazione: le due date devono essere identiche.
La ricevuta vale anche come comunicazione di avvio del procedimento, purché contenga tutte le indicazioni di legge.
Il decreto precisa che istanze, segnalazioni o comunicazioni producono effetti anche in caso di mancato rilascio della ricevuta, ferma restando la responsabilità del soggetto competente (per la mancata consegna).
Inoltre si chiarisce che nel caso di istanza, segnalazione o comunicazione presentate ad un ufficio diverso da quello competente, i termini per i controlli sulla Scia o di maturazione del silenzio assenso decorrono dal ricevimento dell'istanza, segnalazione o della comunicazione da parte dell'ufficio competente.
Silenzio-assenso. Il decreto evidenzia che i termini del silenzio-assenso decorrono dalla data di ricevimento della domanda del privato.
Responsabilità del funzionario pubblico. Per evitare equivoci il decreto n. 126/2016 preferisce dire espressamente che è responsabile il funzionario pubblico che ha lasciato correre una Scia o una istanza non conforme alla normativa.
Non è che siccome le cose sono cristallizzate, il dipendente pubblico inerte e colpevole non ne risponda.
Enti locali e regioni. Devono adeguare i propri regolamenti alla nuova Scia entro il 01.01.2017.
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Conferenza dei servizi, riunioni solo se strettamente necessarie.
Conferenza dei servizi new style. Opere pubbliche e nulla osta ai progetti di imprese e privati ai nastri di partenza in cinque mesi.
È quanto prevede il decreto legislativo n. 127/2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13.07.2016) recante norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell'articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124.
La conferenza dei servizi è una modalità per acquisire i pareri o nulla osta di più enti coinvolti in un procedimento amministrativo. Le pubbliche amministrazioni si riuniscono e contestualmente dicono no o sì e a quali condizioni si può realizzare un'opera pubblica o si deve rispondere a una istanza di un privato o di un'impresa.
È chiaro che prima si sblocca un'opera e prima partono i lavori così come è chiaro che prima arriva l'autorizzazione e prima può essere iniziata un'opera privata: le imprese hanno sempre da guadagnarci se la p.a. ottimizza la gestione del tempo.
Anziché pronunciarsi uno alla volta, prima l'uno e poi l'altro, tutti dunque si riuniscono e si prende una decisione unica. Ci vogliono, però, regole su come si convoca la conferenza, chi può intervenire, come si decide, che succede se un ente rimane assente ecc.
Lo scopo della conferenza è quello di accorciare i tempi e a questo risultato tende anche il dlgs n. 127/2016, che apporta l'ennesimo ritocco alla legge 241/1990, nella parte dedicata appunto alla conferenza dei servizi. Vediamo in sintesi le novità.
Si abbattono i tempi lunghi attivando la conferenza semplificata, che non prevede riunioni fisiche ma solo l'invio di documenti per via telematica; la conferenza simultanea con riunione (anche telematica) si svolge solo quando è strettamente necessaria; l'assenso delle amministrazioni che non si sono espresse si considera acquisito; ciascun livello di governo parlerà con una sola voce (la regola del rappresentante unico vale per ciascun ente territoriale); il termine della conferenza, oggi di fatto indefinito, viene stabilito perentoriamente in al massimo cinque mesi.
Inoltre è stata prevista in conferenza la facoltà di intervento dei privati destinatari della comunicazione di avvio del procedimento.
È stata, poi, prevista la possibilità di attivare direttamente la conferenza simultanea in modalità sincrona su richiesta motivata di altre amministrazioni o del privato interessato entro il termine previsto per richiedere integrazioni istruttorie: in tal caso la riunione ha luogo nei successivi 45 giorni.
Nei casi di conferenza simultanea sincrona che coinvolgono amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini il termine per la conclusione della conferenza è elevato a 90 giorni (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATARiscaldamento, 30% à la carte. L'assemblea condominiale decide come ripartire le spese. Al via i correttivi del dlgs 141/2016 su termoregolazione e contabilizzazione del calore.
Termoregolazione e contabilizzazione del calore: al via i correttivi.
Il recentissimo dlgs n. 141/2016, entrato in vigore lo scorso 26 luglio, ha mantenuto ferma la scadenza del 31.12.2016 per l'obbligo di intervento sugli impianti di riscaldamento condominiali, a pena di pesanti sanzioni pecuniarie, ma ha rivisto alcune disposizioni del dlgs n. 102/2014, che a sua volta aveva recepito la direttiva comunitaria n. 2012/27/Ue, proprio allo scopo di superare i rilievi effettuati dalla Commissione europea sulla normativa italiana.
Vediamo allora di sintetizzare di seguito le principali novità del nuovo intervento legislativo in materia di efficienza energetica, che è andato a incidere principalmente sul criterio di riparto delle spese.
Termoregolazione e contabilizzazione del calore. Si calcola che nelle maggiori città italiane il 17% delle famiglie risieda in edifici costruiti prima del 1950, mentre il 60% di esse viva in immobili costruiti tra il 1950 e il 1989. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta quindi di edifici che presentano un costo energetico eccessivo e per molti versi ingiustificato.
Di qui i numerosi interventi normativi introdotti dal legislatore a partire dagli anni '90 e, da ultimo, imposti a livello comunitario. Non ci sono dati attendibili su quanto sia ampia la platea dei soggetti interessati agli adempimenti in materia di contabilizzazione del calore, ma si tratta sicuramente di milioni di immobili che a oggi devono ancora essere messi in regola.
La normativa in questione, è bene ricordarlo, prevede che in ogni condominio si proceda a verificare se sussista o meno l'obbligo di introdurre sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore dell'impianto centralizzato. Gli stessi, come ribadito dal decreto correttivo, non devono ritenersi necessari in senso assoluto, ma soltanto a condizione che i relativi interventi siano tecnicamente possibili e determinino effettivamente un risparmio energetico per il condominio. Eventuali casi di impossibilità tecnica o di inefficienza in termini di costi e sproporzione rispetto ai risparmi energetici potenziali devono però essere individuati in un'apposita relazione tecnica redatta dal progettista o da un tecnico abilitato.
Negli impianti costruiti fino al 1980, c.d. a distribuzione verticale, le singole unità immobiliari si servono dei montanti che raggiungono i locali di ogni piano dell'edificio posti sulla stessa colonna. In questi casi, come meglio evidenziato dal decreto correttivo, per la misurazione individuale del calore si può fare ricorso alla c.d. contabilizzazione indiretta, grazie all'installazione dei ripartitori di calore e delle valvole termostatiche su ogni singolo radiatore (sotto-contatori).
Dopo tale data, invece, le nuove tecniche costruttive hanno portato alla realizzazione dei c.d. impianti termici ad anello, nei quali è possibile intercettare la mandata e il ritorno per ogni unità immobiliare, rendendo quindi possibile la contabilizzazione diretta mediante l'inserimento, al punto di consegna, di un contatore di calore.
La ripartizione delle spese relative ai consumi energetici. Come si anticipava, il nuovo provvedimento normativo è intervenuto in particolare sulle modalità di suddivisione delle spese relative al consumo di calore per il riscaldamento e il raffreddamento delle unità immobiliari e delle aree comuni, nonché per l'uso di acqua calda per l'utilizzo domestico (sempre se prodotta in modo centralizzato).
Il dlgs n. 102/2014 prevedeva sul punto che l'importo complessivo avrebbe dovuto essere obbligatoriamente suddiviso tra gli utenti finali in base a quanto previsto dalla norma tecnica Uni 10200 e successivi aggiornamenti e modifiche. Detta disposizione era però stata fin dall'inizio oggetto di contestazione da una parte degli operatori del settore e degli utenti, sia per l'imposizione della norma Uni 10200 come metodo obbligatorio per la ripartizione delle spese, sia per la necessità di dover richiedere a un professionista termo-tecnico il calcolo dei nuovi millesimi di fabbisogno di energia termica utile, da utilizzarsi in sostituzione dei millesimi di proprietà e di quelli tradizionali basati sulla potenza installata, sia infine per l'assenza di coefficienti correttivi per mitigare l'impatto delle dispersioni termiche nelle unità immobiliari situate in posizione svantaggiata (per esempio per quelle all'ultimo piano).
Proprio nel tentativo di venire incontro a queste difficoltà, il decreto correttivo prevede ora che, ove la norma tecnica Uni 10200 non sia applicabile o siano comprovate, tramite apposita relazione tecnica asseverata, differenze di fabbisogno termico per metro quadro tra le unità immobiliari superiori al 50%, sia possibile suddividere l'importo complessivo tra gli utenti finali, attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari di energia termica.
In tal caso, gli importi rimanenti possono essere ripartiti, a titolo esemplificativo e non esaustivo (come riporta espressamente l'art. 9, comma 5, lett. d) del novellato dlgs n. 102/2014), alternativamente secondo i millesimi di proprietà, i metri quadrati o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate. Spetta quindi all'assemblea condominiale decidere il criterio di riparto del rimanente 30% da imputare a dispersione, mentre resta salva la possibilità, per la prima stagione termica successiva all'installazione dei dispositivi di contabilizzazione, che la suddivisione venga effettuata in base ai soli millesimi di proprietà.
Il decreto correttivo specifica opportunamente che le disposizioni in questione sono da intendersi come facoltative nei condomini nei quali alla data del 26.07.2016 si sia già provveduto all'installazione dei dispositivi di contabilizzazione del calore e si sia già provveduto alla relativa suddivisione delle spese.
Le reazioni. Occorrerà quindi capire se le modifiche introdotte dal legislatore delegato per andare incontro ai rilievi operati dalla Commissione europea abbiano effettivamente colpito nel segno.
Secondo Confedilizia si tratta di una soluzione non perfetta, ma certamente migliorativa rispetto al carattere vincolante del precedente sistema, che tanti problemi aveva causato. Secondo l'associazione dei proprietari ne andrà quindi verificata l'attuazione in concreto, insieme con le altre novità del decreto correttivo, che confermano comunque la necessità di analizzare caso per caso le situazioni dei singoli edifici condominiali.
Alcuni operatori del settore ritengono infatti che il lodevole intento del legislatore di apportare maggiore chiarezza sull'argomento si sia però tradotto in una norma che comporta ancora maggiore incertezza. Quanto, per esempio, ai due casi nei quali secondo il decreto correttivo si potrebbe prescindere dall'applicazione dei criteri di cui alla norma Uni 10200, da una parte non è ben chiaro quali siano le condizioni che potrebbero rendere la stessa inapplicabile, dall'altra si fa notare come nella pratica quasi sempre si registrino grosse differenze di fabbisogno tra le unità immobiliari poste all'ultimo piano e quelle site in posizione centrale, non essendo del resto chiaro come si debba procedere per calcolare il differenziale del 50% individuato dal decreto correttivo (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: A prescindere dal consolidato orientamento secondo cui, in generale, la qualificazione di un atto amministrativo deve essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen juris assegnatogli dall'Autorità emanante, la riconducibilità, nell'unitaria categoria degli atti di ritiro, delle due tipologie provvedimentali di secondo grado dell'annullamento e della revoca —fondate su presupposti diversi quanto alle ragioni (rispettivamente, illegittimità od inopportunità) che giustificano la rimozione di un provvedimento amministrativo— consente di pervenire all'affermazione che la qualificazione come revoca di un provvedimento di autotutela motivato in relazione non già all'inopportunità, ma all'illegittimità (per violazione della norma regolante l'esercizio del potere) configura una imprecisione emendabile e non invalidante.
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Il Collegio non può che richiamare il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “ove l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto della sua istanza”.
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... per l'annullamento della determinazione n 12/16 emessa dal Comune di Nardodipace avente ad oggetto "revoca affidamento incarico professionale per la valorizzazione e la cura dei luoghi di culto".
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6. Il ricorso è infondato.
7. Va preliminarmente qualificato il provvedimento oggetto di gravame, adottato in autotutela dall’amministrazione comunale, che lo ha denominato “revoca”.
Invero, a prescindere dal consolidato orientamento secondo cui, in generale, la qualificazione di un atto amministrativo deve essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen juris assegnatogli dall'Autorità emanante (cfr. ex multis, Cons. St, sez. III, 15.06.2015 n. 2956; Cons. St., sez. IV., 15.04.2013, n. 2027), la riconducibilità, nell'unitaria categoria degli atti di ritiro, delle due tipologie provvedimentali di secondo grado dell'annullamento e della revoca —fondate su presupposti diversi quanto alle ragioni (rispettivamente, illegittimità od inopportunità) che giustificano la rimozione di un provvedimento amministrativo— consente di pervenire all'affermazione che la qualificazione come revoca di un provvedimento di autotutela motivato in relazione non già all'inopportunità, ma all'illegittimità (per violazione della norma regolante l'esercizio del potere) configura una imprecisione emendabile e non invalidante (ex multis TAR Catania, (Sicilia), sez. I, 04/11/2015, n. 2552).
8. Nel caso di specie, oggetto di esame è un atto di annullamento d’ufficio ex art. 21-octies L. 241/1990 adottato sul presupposto di diverse ragioni di illegittimità dell’atto di primo grado -elencate sinteticamente nell’atto e sopra riportate al punto 1.4- ognuna delle quali idonea a sorreggerla, secondo la struttura dell’atto plurimotivato.
E a tal proposito, il Collegio non può che richiamare il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “ove l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto della sua istanza” (Consiglio di Stato, sez. VI, 12.10.2011, n. 5517) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.08.2016 n. 1621 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: E' noto che il divieto di rinnovo tacito ed espresso dei contratti pubblici –espressamente previsto dall’art. 57, co. 7, D.lgs. 163/2006, applicabile ratione temporis- determinando una ulteriore procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando è diretta espressione dei principi di tutela della concorrenza, di derivazione europea.
Le norme, che si sono succedute nel tempo, derogatorie di tale divieto generale o hanno determinato procedure di infrazione aperte a carico dell’Italia; o sono state direttamente disapplicate dai giudici nazionali, perché in contrasto con la normativa europea; o sono ritenute di stretta interpretazione, trattandosi di norme di carattere eccezionale.
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La qualificazione della fattispecie in esame prospettata nel ricorso introduttivo come “rinnovo contrattuale”, con la novazione oggettiva delle obbligazioni contrattuali, piuttosto che come “proroga”, fondata sul mantenimento dei patti e delle condizioni contrattuali, oltre ad essere irrilevante ai fini dell’ambito di applicazione e della ratio del divieto legale sopra riferito, non è comunque rispondente al contenuto provvedimentale, poiché, con la determinazione oggetto di annullamento n. 115 del 07.12.2015, si dispone una “conferma” del precedente affidamento -a sua volta conferito, con determinazione n. 49/2015 come conferma di quello ancora precedente- per il periodo annuale successivo alla precedente scadenza, parametrando il prezzo alla diversa (doppia rispetto alla precedente) durata annuale, senza operare alcuna altra modifica contrattuale.

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... per l'annullamento della determinazione n 12/16 emessa dal Comune di Nardodipace avente ad oggetto "revoca affidamento incarico professionale per la valorizzazione e la cura dei luoghi di culto".
...
6. Il ricorso è infondato.
...
9. Valore dirimente, in particolare -idonea a configurare il motivo riscontrato quale vizio di illegittimità, e conseguentemente il provvedimento di autotutela come annullamento ex art. 21-octies L. 241/1990- assume la ravvisata violazione di legge con riguardo al “divieto di proroga” dei contratti, indicata, sia pure succintamente, nella motivazione dell’atto oggetto di questo giudizio; motivazione che, da un lato, è di per sé sufficiente a sorreggere il provvedimento in autotutela; dall’altro, è esente dalle doglianze sollevate da parte ricorrente (cfr. ricorso introduttivo, pag. 4-5).
Nello specifico, la ricostruzione della vicenda procedimentale e l’esito della istruttoria documentale depongono nel senso che, con la determinazione n. 115 del 07.12.2015, adottata il medesimo giorno in cui veniva comunicato all’ente locale il decreto di scioglimento del Consiglio Comunale ex art. 143 TUEL, era stata decisa la “proroga” per la terza volta dell’affidamento diretto ottenuto originariamente dalla ditta ricorrente nel giugno del 2014.
10. Ora, è noto che il divieto di rinnovo tacito ed espresso dei contratti pubblici –espressamente previsto dall’art. 57, co. 7, D.lgs. 163/2006, applicabile ratione temporis- determinando una ulteriore procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando è diretta espressione dei principi di tutela della concorrenza, di derivazione europea.
Le norme, che si sono succedute nel tempo, derogatorie di tale divieto generale o hanno determinato procedure di infrazione aperte a carico dell’Italia (cfr. parere motivato della Commissione europea n. 2003 del 16.12.2003, adottato in relazione all’art. art. 6, comma 2, ultimo periodo della legge 24.12.1993); o sono state direttamente disapplicate dai giudici nazionali, perché in contrasto con la normativa europea (cfr. art. 1 d.l. 95/2012, come modificato in sede di conversione dalla legge n. 135/2012; Consiglio di Stato, sez. III, 30.01.2014, nn. 1486); o sono ritenute di stretta interpretazione, trattandosi di norme di carattere eccezionale (cfr Consiglio di Stato, sez. III, 15.04.2016, n. 1532 in relazione alla specifica norma di cui all’art. 6, comma 2, lett. b), del d.lgs. 115 del 2008 recante attuazione della direttiva 2006/32/CE relativa all'efficienza degli usi finali di energia e i servizi energetici e abrogazione della direttiva 93/76/CEE).
11. La qualificazione della fattispecie in esame prospettata nel ricorso introduttivo come “rinnovo contrattuale”, con la novazione oggettiva delle obbligazioni contrattuali, piuttosto che come “proroga”, fondata sul mantenimento dei patti e delle condizioni contrattuali, oltre ad essere irrilevante ai fini dell’ambito di applicazione e della ratio del divieto legale sopra riferito, non è comunque rispondente al contenuto provvedimentale, poiché, con la determinazione oggetto di annullamento n. 115 del 07.12.2015, si dispone una “conferma” del precedente affidamento -a sua volta conferito, con determinazione n. 49/2015 come conferma di quello ancora precedente- per il periodo annuale successivo alla precedente scadenza, parametrando il prezzo alla diversa (doppia rispetto alla precedente) durata annuale, senza operare alcuna altra modifica contrattuale.
12. Il provvedimento gravato, con cui l’amministrazione ha proceduto all’annullamento d’ufficio della “conferma” del precedente affidamento risulta pertanto adeguatamente motivato, anche solo sulla base di tale riscontrato vizio di violazione di legge.
In conclusione, assorbite le altre censure attesa la natura plurimotivata del provvedimento impugnato come enunciato supra al punto 8, il ricorso va pertanto rigettato (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.08.2016 n. 1621 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Strisce blu: multa per la sosta con ticket scaduto. Cassazione. Lasciare l’auto nel parcheggio oltre il tempo pagato è illecito amministrativo e non inadempimento contrattuale.
La sosta dell’auto nelle strisce blu con il ticket scaduto merita la multa al pari di quanto avviene quando l’automobilista non si munisce affatto di “biglietto”. La permanenza oltre il tempo pagato è, infatti, un illecito amministrativo e non un semplice inadempimento contrattuale. L’infrazione, come avviene nell’omesso acquisto del “biglietto” orario, si traduce in un’evasione tariffaria in violazione dell’articolo 7 comma 15 del Codice della strada.
La Suprema corte, con la sentenza 03.08.2016 n. 16258, si discosta dai pareri del ministero delle Infrastrutture, l’ultimo datato 2015 (n. 2074), con cui si è ribadito che la sanzione prevista dal Codice della strada scatta solo in caso di omesso acquisto del “biglietto” orario o per violazioni relative alla sosta limitata o regolamentata, mentre nell’ipotesi di sosta nelle aree in cui si può restare a tempo indeterminato lo “sforamento” deve essere considerato un inadempimento contrattuale. Una lettura con la quale la Suprema corte non è d’accordo.
I giudici della Seconda sezione civile respingono il ricorso di un automobilista contro la decisione del Tribunale che aveva affermato la legittimità della multa inflitta al ricorrente che aveva lasciato l’auto nelle strisce blu un’ora in più rispetto al tempo indicato. Secondo il ricorrente chi paga il ticket senza integrare il versamento nelle ore successive non trasgredisce il Codice della strada ma solo l’obbligazione contrattuale, che sorge nel momento in cui si “compra” il ticket, regolata dal Codice civile.
La Cassazione, a supporto della sua decisione, cita anche la giurisprudenza della Corte di conti. I giudici contabili (sezione giurisdizionale per la regione Lazio, sentenza 888/2012) hanno affermato che la mancata contestazione della sanzione pecuniaria da parte dell’ausiliario del traffico nel momento in cui è stata accertata la sosta del veicolo senza ticket «oppure con tagliando esposto scaduto per decorso del tempo pagato (che è pur sempre una fattispecie di mancato pagamento che il codice della strada, senza distinzioni sanziona), configura una ipotesi di danno erariale per il Comune, rappresentato dal mancato incasso dei proventi che sarebbero derivati dall’applicazione della sanzione per violazione delle norma che disciplinano la sosta in aree a pagamento)
».
Anche per la Suprema corte, nel caso di sosta a pagamento su suolo pubblico, se questa si protrae oltre l’orario per il quale è stata corrisposta la tariffa, si violano le prescrizioni dettate dall’articolo 7, comma 15 del Codice della strada. La sosta nelle strisce blu a tempo scaduto, dunque, ha natura di illecito amministrativo e non si trasforma in un inadempimento contrattuale, «trattandosi, analogamente al caso della sosta effettuata omettendo l’acquisto del ticket orario, di una evasione tariffaria in violazione della disciplina della sosta a pagamento su suolo pubblico».
Una norma, conclude la Suprema corte, introdotta per incentivare la rotazione e razionalizzare l’offerta di sosta
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2016).

PUBBLICO IMPIEGOPrecari della Pa, possibile il risarcimento del danno. Cassazione. Nel pubblico impiego niente stabilizzazione.
Nessuna speranza di rapporto a tempo indeterminato con la pubblica amministrazione per chi, per più anni, ha prestato servizio temporaneo: lo conferma la Corte di Cassazione -Sez. lavoro-  con la ordinanza 03.08.2016 n. 16226, relativa al conducente di scuolabus in un Comune pugliese. L’unico vantaggio, per chi ha prestato servizio a tempo determinato, è un’indennità da 2,5 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione, senza dover dimostrare l’entità del danno subìto e senza detrarre la percezione di altre entrate durante il periodo di lavoro pubblico.
La Cassazione tende a giustificare il contrasto tra le norme di diritto comunitario e nazionale che impongono la trasformazione a tempo indeterminato di ciò che nasce precario (direttiva 1999/1970 e legge 368/2001, articolo 5) e i princìpi nazionali (articolo 97 della Costituzione) che impongono l’accesso a posti di lavoro pubblici solo mediante concorso. L’Ue obbliga lo Stato a garantire una tutela effettiva (Corte di giustizia, 12.12.2013 in C-50/2013), cioè il cittadino deve poter ottenere, tramite sentenza, una stabilizzazione del rapporto precario. Ma ciò vale solo se il datore di lavoro è un privato, perché nel pubblico impiego è obbligatorio l’accesso tramite concorso.
L’impossibilità di ottenere l’assunzione si converte così in un indennizzo, cioè una somma di danaro che bilancia il vuoto di tutela rappresentato dall’impossibile stabilizzazione. L’indennizzo va da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, importi che dovrebbero dissuadere il datore di lavoro ma che nella realtà sono modesti: spesso si tratta di rapporti pluriennali che avevano fatto maturare consistenti aspettative.
La sentenza 16226/2016 riguarda l’autista di scuolabus comunale precario da oltre 12 anni e la Cassazione, cosciente dell’esiguità dell’importo riconosciuto al dipendente, sottolinea che comunque il lavoratore non poteva sperare in un rapporto a tempo indeterminato. Al più, la prolungata precarietà del rapporto di lavoro con pubbliche amministrazioni può aver condizionato scelte di tipo personale, facendo perdere al lavoratore chances di un’occupazione migliore (risarcibili se sono dimostrate).
L’indennizzo forfettario varia da 2,5 a 12 mensilità in proporzione alla durata del contratto a tempo determinato, alla gravità della violazione, alla tempestività della reazione del lavoratore, allo sfruttamento di altre (perse) occasioni di lavoro e di guadagno per la preferenza accordata al rapporto con la pubblica amministrazione, considerando infine anche le dimensioni del datore di lavoro.
In sintesi, non è possibile illudersi di essere stabilizzati senza concorso, ma finché il rapporto precario viene rinnovato si può contare su un importo finale che peraltro è più punitivo per l’amministrazione che risarcitorio per il dipendente. In nessun caso il dipendente rischia la restituzione di quanto percepito (articolo 1360 del Codice civile), mentre l’indennizzo spetta anche nel caso in cui, insieme al lavoro precario pubblico, si abbia una seconda (o terza) attività
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Dall’Ordine niente danni al cliente. Cassazione. Il parere di congruità sulla parcella del professionista.
Il cliente del professionista non può chiedere all’Ordine i danni a suo avviso provocati con il parere sulla congruità delle parcelle applicate, se questo non ha alcun nesso con il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti.
Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza 02.08.2016 n. 16065, respingono il ricorso di una società contro l’Ordine degli ingegneri territoriale “accusato” di non essersi dotato di un regolamento interno per mettere nero su bianco dei criteri in base ai quali valutare la correttezza o meno delle parcelle professionali applicate dagli iscritti.
La conseguenza di questa “approssimazione” -secondo la difesa del ricorrente- aveva dato come risultato un via libera dell’Ordine alle voci indicate perché giudicate in linea con le tariffe, malgrado il supporto cartaceo fosse del tutto irregolare a causa di notevoli lacune: dalla diversità del committente all’assenza della firma del progettista.
La Cassazione avalla però la decisione dei giudici di merito di respingere il ricorso. Per il Tribunale la prospettata responsabilità dell’Ordine non poteva essere basata sulla mancata adozione di un regolamento interno per disciplinare il visto di congruità, non essendo questo previsto dalla legge. Quello che pesa nel verdetto sfavorevole alla società è l’assenza di un nesso di causalità tra il parere dell’Ordine professionale e l’adozione del decreto monitorio con la conseguente iscrizione ipotecaria.
I giudici hanno precisato che il parere rilasciato corrispondeva alla funzione istituzionale dell’organo professionale, posta a tutela degli interessi degli iscritti, della dignità della professione e dei diritti degli stessi clienti. L’atto contestato si limitava al controllo formale della corrispondenza con le tariffe di quanto indicato nella parcella, senza avere alcun rilievo sulla validità e sull’efficacia delle obbligazioni reciproche.
Infine non corrispondeva al vero che l’ok era stato concesso dall’Ordine territoriale degli ingegneri in assenza di controllo e nella arbitrarietà più assoluta, essendo la documentazione allegata dall’ingegnere frutto di un evidente copia e incolla.
Per i giudici invece le “informazioni” fornite a supporto della richiesta erano sufficienti per ricostruire l’attività e le prestazioni svolte dall’ingegnere
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIIl Consiglio di stato demolisce le linee guida dell'Anac.
Il Consiglio di stato demolisce la soft law dell'Anac sul codice degli appalti.
Il parere 02.08.02016 n. 1767 reso dalla Commissione speciale di palazzo Spada  anche se riferito a tre specifiche linee guida dell'Autorità diretta da Cantone (su offerta economicamente più vantaggiosa, responsabile unico del procedimento e servizi di progettazione) mette a nudo tutte le criticità, già in atto e potenziali, del nuovo sistema di completamento delle norme del codice dei contratti, pensato dal legislatore allo scopo di dare all'Anac poteri probabilmente impropri.
Il parere del Consiglio di stato mette in evidenza da subito come la giurisdizione amministrativa non intenda lasciare spazi eccessivi all'Anac, preludio chiaro di futuri contenziosi non di poca portata. Alcuni passaggi del parere sono molto indicativi. Per esempio, quando il Consiglio di stato affronta il tema delle linee guida di natura «vincolante» conferma che esse «devono essere osservate, a pena di illegittimità degli atti consequenziali» da parte delle amministrazioni, ma sottolinea che sono possibili «atti caducatori» in sede giurisdizionale.
È esattamente il preannuncio che le amministrazioni (ma anche i privati) potranno rivolgersi all'autorità giudiziaria amministrativa per ottenere la caducazione (o rimozione) delle linee guida vincolanti o di loro parti che risultino violare il principio di legalità, cui deve conformarsi l'Anac. In un secondo passaggio il Consiglio di stato è ancora più chiaro.
Riguarda il passaggio delle linee guida relative al Rup, ove l'Anac afferma perentoriamente che «il ruolo di Rup è incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4 del Codice)». Palazzo Spada letteralmente «bacchetta l'Anac» rilevando che detta previsione è «in larga parte coincidente con l'articolo 84, comma 4, del previgente Codice in relazione al quale la giurisprudenza di questo Consiglio aveva tenuto un approccio interpretativo di minor rigore, escludendo forme di automatica incompatibilità a carico del Rup, quali quelle che le linee guida in esame intendono reintrodurre (sul punto ex multis: Cons. stato, V, n. 1565/2015)».
Da qui la conclusione: «Non sembra condivisibile che le linee guida costituiscano lo strumento per revocare in dubbio (e in via amministrativa) le acquisizioni giurisprudenziali»: una chiara affermazione della volontà dei giudici amministrativi di affermare la prevalenza dei giudicati su strumenti, quali le linee guida, che sono e restano, spiega sempre il Consiglio di stato, atti amministrativi (sebbene di natura generale, nel caso delle linee guida vincolanti).
In quanto alle linee guida non vincolanti, estremamente importante è il chiarimento fornito dal Consiglio di stato sulla loro portata. Palazzo Spada precisa che le linee guida non vincolanti non possono comprimere l'esercizio del potere discrezionale delle amministrazioni, visto che hanno la funzione di specificare spunti operativi di dettaglio per l'applicazione delle norme. Le amministrazioni, allora, conservano pienamente il potere discrezionale di adeguarsi o meno alle indicazioni delle linee guida non vincolanti, anche facendo specifico riferimento al caso concreto.
Il Consiglio di stato precisa solo che laddove le amministrazioni se esse intendano discostarsi dalle indicazioni non vincolanti dell'Anac hanno l'onere di «adottare un atto che contenga una adeguata e puntuale motivazione, anche a fini di trasparenza, che indichi le ragioni della diversa scelta amministrativa». E questo persino qualora le linee direttive dovessero essere redatte in modo da far apparire il loro contenuto come prescrittivo, perché magari riproducono i contenuti dell'abolito dpr 207/2010.
Indirettamente, il parere del Consiglio di stato suggerisce alle amministrazioni quando ricorrono i casi di possibile discostamento dalle linee guida: allorché «la peculiarità della fattispecie concreta giustifica una deviazione dall'indirizzo fornito dall'Anac ovvero se sempre la vicenda puntuale evidenzi eventuali illegittimità delle linee guida nella fase attuativa».
L'ultima affermazione conferma la visione di palazzo Spada: le linee guida sono e restano atti amministrativi, come tali, dunque, a loro volta soggette al principio di legalità e passibili di vizi di legittimità (articolo ItaliaOggi del 05.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOVideoriprese anti-fannulloni. L'utilizzo è consentito se serve a verificare una truffa. CASSAZIONE/ Il principio è valido anche quando non c'è l'obbligo di timbrare.
La Cassazione dice stop ai fannulloni. È lecito l'uso di videoriprese per controllare l'eventuale falsificazione degli orari di entrata e di uscita dei lavoratori. Infatti, le garanzie dello Statuto dei lavoratori non si applicano quando il datore, mediante le apparecchiature, verifica un reato, in questo caso una truffa. Ma non basta: il principio è valido anche quando non sussiste l'obbligo di timbrare il cartellino o il badge ma solo il foglio presenze.

È quanto sancito dalla Corte di Cassazione -Sez. II penale- che, con la sentenza 01.08.2016 n. 33567, ha respinto il ricorso di due dipendenti comunali, accusati di truffa per aver falsificato gli orari di entrata e uscita nell'ente locale.
In particolare i due avevano contestato la regolarità delle telecamere apposte all'ingresso, rivendicando la violazione delle garanzie dello Statuto del contribuente.
La seconda sezione penale ha però confermato l'intero impianto accusatorio spiegando che in tema di apparecchiature di controllo dalle quali derivi la possibilità di verificare a distanza l'attività dei lavoratori, le garanzie procedurali previste dall'art. 4, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori non trovano applicazione quando si procede all'accertamento di fatti che costituiscono reato.
Tali garanzie riguardano solo l'utilizzabilità delle risultanze delle apparecchiature di controllo nei rapporti interni, di diritto privato, fra datore di lavoro e lavoratore; la loro eventuale inosservanza non assume pertanto alcun rilievo nell'attività di repressione di fatti costituenti reato, al cui accertamento corrisponde sempre l'interesse pubblico alla tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia possibile identificare la persona offesa nel datore di lavoro.
Ma non è ancora tutto. Con queste interessanti motivazioni gli Ermellini hanno inoltre precisato che in tema di allontanamento fraudolento dal luogo di lavoro, l'eventuale insussistenza per i lavoratori di un vero e proprio obbligo di vidimare il cartellino o la tessera magnetica delle presenze giornaliere non esclude che, qualora tale vidimazione sia comunque effettivamente compiuta, ma con modalità fraudolente tali da indurre in inganno il datore di lavoro, ricorrano gli estremi degli artifizi e raggiri che integrano il delitto di truffa.
Infatti, non è la doverosità della vidimazione a rendere quest'ultima, se falsificata, idonea a trarre in inganno il datore di lavoro; al contrario, anche una vidimazione meramente facoltativa di un registro cartaceo o elettronico delle presenze in ufficio, può ingenerare l'inganno di far risultare una presenza falsamente attestata. Ove la vidimazione dell'ingresso e dell'uscita dal luogo di lavoro sia meramente facoltativa, il lavoratore può non ottemperare all'adempimento ma, qualora vi ottemperi, la falsa indicazione dell'orario di entrata o di uscita configura quindi un artifizio o un raggiro.
Anche la Procura generale del Palazzaccio ha chiesto di respingere il ricorso dei lavoratori (articolo ItaliaOggi del 02.08.2016).
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MASSIMA
3. Esaminando il ricorso in relazione alle residue censure, va trattata per prima la questione dell'elusione dell'obbligo di timbratura del badge.
Sostengono in proposito i ricorrenti che l'istallazione di sistemi di registrazione degli orari di accesso e di uscita del personale dipendente, giacché utilizzabili in funzione di controllo dell'osservanza da parte dei lavoratori dei doveri di diligenza nel rispetto dell'orario di lavoro, postula l'accordo con le rappresentanze sindacali o un'autorizzazione ai sensi dell'art. 4, comma 2, dello Statuto dei lavoratori; con la conseguenza che, in difetto di tali presupposti, le relative risultanze sarebbero illecite e quindi illegittimamente acquisite agli atti del procedimento penale.
La doglianza è infondata per una pluralità di ragioni.
Anzitutto, non risulta da alcuna evidenza processuale l'illegittimità dell'istallazione del sistema di rilevazione elettronica delle presenze; la mancanza dell'accordo con le rappresentanze sindacali aziendali costituisce una mera asserzione dei ricorrenti, priva di riscontro oggettivo.
In secondo luogo,
le garanzie procedurali imposte dall'art. 4, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori (espressamente richiamato dall'art. 114 del d.lgs. n. 196 del 2003, per l'installazione di impianti e apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, dai quali derivi la possibilità di verifica a distanza dell'attività dei lavoratori) si applicano ai controlli c.d. "difensivi", ossia diretti ad accertare l'inesatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso (Sez. L, Sentenza n. 2722 del 23/02/2012, Rv. 621115; nella specie la Corte ha escluso l'applicabilità delle garanzie procedurali sopra indicate nel caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale).
È quindi possibile affermare il seguente principio di diritto:
in tema di apparecchiature di controllo dalle quali derivi la possibilità di verificare a distanza l'attività dei lavoratori, le garanzie procedurali previste dall'art. 4, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori non trovano applicazione quando si procede all'accertamento di fatti che costituiscono reato. Tali garanzie riguardano solo l'utilizzabilità delle risultanze delle apparecchiature di controllo nei rapporti interni, di diritto privato, fra datore di lavoro e lavoratore; la loro eventuale inosservanza non assume pertanto alcun rilievo nell'attività di repressione di fatti costituenti reato, al cui accertamento corrisponde sempre l'interesse pubblico alla tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia possibile identificare la persona offesa nel datore di lavoro (v. Sez. 6, n. 30177 del 04/06/2013 - dep. 12/07/2013, Chielli e altri, Rv. 256640).
Infine, per rispondere ad altra specifica censura posta dai ricorrenti, occorre rilevare che,
in tema di allontanamento fraudolento dal luogo di lavoro, l'eventuale insussistenza per i lavoratori di un vero e proprio obbligo di vidimare il cartellino o la tessera magnetica delle presenze giornaliere non esclude che, qualora tale vidimazione sia comunque effettivamente compiuta, ma con modalità fraudolente tali da indurre in inganno il datore di lavoro, ricorrano gli estremi degli artifizi e raggiri che integrano il delitto di truffa.
Infatti,
non è la doverosità della vidimazione a rendere quest'ultima, se falsificata, idonea a trarre in inganno il datore di lavoro; al contrario, anche una vidimazione meramente facoltativa di un registro cartaceo o elettronico delle presenze in ufficio, può ingenerare l'inganno di far risultare una presenza falsamente attestata. Ove la vidimazione dell'ingresso e dell'uscita dal luogo di lavoro sia meramente facoltativa, il lavoratore può non ottemperare all'adempimento ma, qualora vi ottemperi, la falsa indicazione dell'orario di entrata o di uscita configura quindi un artifizio o un raggiro.
4. Parimenti infondata di rivela la doglianza relativa all'utilizzabilità delle riprese audiovisive.
I ricorrenti sostengono che la segnalazione di fenomeni di assenteismo riguardava altri due colleghi e che, pertanto, le videoriprese in questione nei loro confronti non hanno costituito uno strumento di ricerca della prova, ma un vero e proprio mezzo di acquisizione della notitia criminis.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che
le videoregistrazioni di condotte non comunicative disposte dalla Polizia nel corso delle indagini preliminari, in luoghi riconducibili al concetto di domicilio, e quindi generalmente meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 14 Cost., sono qualificabili come prova atipica disciplinata dall'art. 189 cod. proc. pen., ed utilizzabili senza alcuna necessità di autorizzazione preventiva del giudice, se le riprese sono state eseguite con il consenso del titolare del domicilio (Sez. 2, n. 41332 del 07/07/2015 - dep. 14/10/2015, Zhou, Rv. 264889; v. pure Sez. 3, n. 37197 del 07/07/2010 - dep. 19/10/2010, P.M. in proc. L. e altro, Rv. 248563; Sez. 2, n. 1127 del 13/12/2007 - dep. 10/01/2008, Napolano, Rv. 238905).
La circostanza che dall'espletamento dell'attività di indagine siano emersi elementi di colpevolezza anche a carico di soggetti ulteriori rispetto a quelli originariamente indagati non incide in alcun modo sull'utilizzabilità della prova atipica così acquisita neppure nei confronti dei nuovi indagati.

ENTI LOCALI - VARIAgenti (e autovelox) nascosti, multa addio.
Non è valida secondo la Corte di Cassazione (Sez. II civile, sentenza 29.07.2016 n. 15899) la multa se gli agenti si nascondono e manca l'avviso dell'autovelox.
La vicenda riguarda un automobilista che, percorrendo la statale 195 del comune sardo di Pula, prese una multa per aver guidato a 72 km/h superando il massimo dei 50. L'uomo ricorse presso il giudice di pace di Cagliari, spiegando che la segnalazione del controllo elettronico della velocità era installata solo all'ingresso del paese, oltre al fatto che l'autovettura degli agenti era parcheggiata fuori dalla carreggiata e seminascosta dalla vegetazione.
Ma il magistrato, con la sentenza 70/2008, rigettò l'opposizione dell'automobilista che però propose ricorso al Tribunale di Cagliari. Quattro anni dopo però i giudici rigettarono il ricorso con la sentenza 80/2012. I giudici sardi, basandosi sul secondo comma dell'art. 77 del Codice della strada, spiegarono che il fatto riguardava solo «
i cartelli stradali prescrittivi, aventi la funzione di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, non a quelli meramente informativi, come i cartelli sul rilevamento elettronico della velocità».
Ma l'uomo riportò le sue motivazioni in Cassazione, ritenendo irregolare la collocazione di un unico cartello di preavviso di controllo elettronico della velocità, installato all'ingresso del comune di Pula, e non ripetuto per i successivi 20 chilometri. La motivazione principale consisteva nel fatto che l'automobilista proveniva da un tratto di strada successivo alla segnalazione, quindi non sarebbe stato informato dell'autovelox. Soprattutto perché gli agenti accertatori, con l'autovettura, erano nascosti alla sua vista.
La Cassazione ha accolto l'opposizione dell'uomo perché «la Pubblica amministrazione proprietaria della strada è tenuta a dare idonea informazione, con l'apposito “in loco” di cartelli indicanti la presenza di autovelox», citando il nuovo comma 6-bis dell'articolo 142 del Codice della strada il quale sancisce che «le postazioni di controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono essere preventivamente segnalate e ben visibili, ricorrendo all'impiego di cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi» (articolo ItaliaOggi del 04.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIAl parlamentare si deve trasparenza.
L'accesso ai documenti amministrativi funziona anche tra Amministrazioni pubbliche e il singolo parlamentare può richiederlo.

Questo è il principio di diritto enunciato dal TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 28.07.2016 n. 8755.
La controversia è nata dal surreale episodio dei preziosi orologi regalati dai sovrani sauditi, apparentemente «contesi» tra gli ospiti della delegazione governativa italiana in visita. Ciò ha indotto una senatrice della Repubblica (nonché questore) a voler fare luce nella sconcertante vicenda.
Dopo aver ricevuto dei «no» all'accesso, ha impugnato. Il collegio ha affermato che anche un «soggetto pubblico», in cui va ricompreso il singolo parlamentare, può avvalersi dell'istituto dell'accesso ai documenti. Ciò avviene mediante la leva del principio di leale collaborazione che opera tra le pubbliche amministrazioni.
I giudici hanno accolto il ricorso anche perché il regolamento del Senato attribuisce ai Questori il compito di sovrintendere al cerimoniale, e l'interessata aveva un interesse diretto, concreto e attuale a verificare se ci fossero state delle violazioni alle prescrizioni protocollari, in particolare per quanto riguarda l'ordine delle precedenze da osservare tra le cariche pubbliche.
I giudici non hanno tuttavia aderito alla domanda di sopralluogo ove sono custoditi i doni di rappresentanza ricevuti dal Governo italiano e custoditi a Palazzo Chigi negli ultimi dieci anni, in quanto non attinenti ad atti già formati e detenuti nella loro materialità (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).

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MASSIMA
2. Venendo all’esame del ricorso per l’accertamento e la declaratoria dell’accesso ai documenti di cui all’istanza del 14.01.2016, si osserva quanto segue.
2.1 Si osserva preliminarmente che l’art. 22 della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) riconosce “a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite dalla presente legge" (1° comma); ai sensi del successivo art. 25, il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge (1° comma), e “la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente (2° comma).
Alla stregua della richiamata disciplina sul procedimento amministrativo, i portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso ai documenti amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo per tali le situazioni giuridiche soggettive che presentino un collegamento diretto e attuale con il procedimento amministrativo cui la richiesta di accesso si riferisce.
D’altra parte, il concetto di interesse giuridicamente rilevante, sebbene sia più ampio di quello di interesse all’impugnazione, non è tale da consentire a chiunque l’accesso agli atti amministrativi: il diritto di accesso ai documenti amministrativi non si atteggia, infatti, come una sorta di azione popolare diretta a consentire una sorta di controllo generalizzato sull’Amministrazione, giacché, da un lato l’interesse che legittima ciascun soggetto all’istanza, da accertare caso per caso, deve essere personale e concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso, dall’altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse oltre che individuata o ben individuabile (Cons. Stato, VI Sez., 17.03.2000 n. 1414; 03.11.2000 n. 5930).
In definitiva, hanno titolo all'accesso tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata la documento al quale è chiesto l'accesso.
Sul versante passivo, va pure preliminarmente chiarito che sono tenuti a consentire l'esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi detenuti tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, compresi i gestori di pubblici servizi (art. 22, comma 1, lett. e, ed art. 23 L. 07.08.1990 n. 241 e successive modificazioni).
2.2 Invece, l'acquisizione di documenti amministrativi da parte dei soggetti pubblici -salva l'ipotesi di cui all'art. 43, comma 2, D.P.R. 28.12.2000 n. 445 (consultazione diretta da parte di una pubblica amministrazione o gestore di servizio pubblico degli archivi dell'amministrazione certificante per l'accertamento d'ufficio di stati, qualità e fatti ovvero di dichiarazioni sostitutive presentate dai cittadini)- è regolamentata dal principio di leale collaborazione istituzionale (art. 22, comma 1, lett. b) e comma 5, legge n. 241/1990), per cui –come affermato dalla giurisprudenza amministrativa- la relativa esigenza deve trovare soluzione in rapporti di tipo interorganico o intersoggetivo, avvalendosi a seconda dei casi di soluzioni di coordinamento, vigilanza, direzione o semplice collaborazione.
2.3 Peraltro, il principio di leale collaborazione istituzionale viene interpretato dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che esso non possa escludere la configurabilità in concreto del ricorso all’istituto dell’accesso da parte di una pubblica amministrazione (intesa ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. e) della legge n. 241/1990 come “tutti i soggetti di diritto pubblico …”) nei confronti di un’altra; e ciò è stato affermato, sia nell’ipotesi in cui la prima si trovi in posizione di soggetto amministrato rispetto alla seconda e in quanto tale abbia titolo all'accesso alla stessa stregua di un soggetto privato (così, Cons. Stato, V, 07.11.2008, n. 5573), sia più in generale nell’ipotesi di soggetti pubblici aspiranti a un’acquisizione documentale (id., 27.05.2011, n. 3190) .
Specialmente in presenza di un "sistema" di soggetti pubblici tanto pletorico e disarmonico come quello nazionale” -afferma il giudice di seconde cure– "non vi sarebbe infatti ragione di ritenere riservato ai privati tale istituto, che offre il non trascurabile vantaggio di uno statuto di precise garanzie e di tutela giuridica anche in sede giudiziale, e di abbandonare invece in toto i soggetti pubblici che siano interessati ad ottenere un'ostensione documentale alle incognite di una collaborazione spontanea -inevitabilmente non sempre sollecita e puntuale- dell'Amministrazione di volta in volta legittimata passiva … a meno di non incorrere in un inopinato quanto illogico ribaltamento di rapporti, in fatto di intensità di tutela, tra interessi privati e pubblici. Atteso allora che l'art. 22, comma 1, lett. b) della legge n. 241/1990 annovera pur sempre tra i soggetti "interessati" anche i portatori di interessi pubblici, anche un "soggetto pubblico" può quindi avvalersi, ove ritenga, dell'istituto dell'accesso ai documenti (in tal senso, almeno in parte, cfr. C.d.S., V, 07.11.2008, n. 5573).”
2.4 Quando ciò accada, il richiamo legislativo al principio di leale cooperazione istituzionale non è tuttavia privo di valenza, atteso che “Tale canone, pur nella sua elasticità, esige comportamenti coerenti e non contraddittori, un confronto su basi di correttezza e apertura alle altrui posizioni e al contemperamento degli interessi, e, d'altro canto, non tollera atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati (cfr., tra le tante, C. Cost. n. 379 del 27/07/1992 e n. 242 del 18/07/1997).
Lo stesso principio è allora suscettibile di rilevare non solo come criterio orientativo per l'interpretazione specifica delle norme generali in tema di accesso, ma anche quale regola ulteriore, complementare e di diritto speciale, ossia come canone aggiuntivo per stabilire se la singola richiesta ostensiva del soggetto pubblico debba avere corso. Canone che acquista precisione di contorni specialmente se calato all'interno del particolare modulo relazionale di diritto pubblico che (eventualmente) intercorra tra i soggetti attivo e passivo dell'accesso, e che integra una cornice di particolare ausilio per decifrare la misura della cooperazione istituzionale dovuta
(C.d.S., V, 27.05.2011, n. 3190).
3. Tanto premesso in via generale, osserva il Collegio che, alla luce delle richiamate disposizioni come interpretate dalla giurisprudenza amministrativa, i suddetti presupposti sono presenti nel caso di specie.
3.1 E invero, nella nozione di "soggetto pubblico" va ricompreso anche il Parlamentare e, nello specifico, il Senatore Questore. All’atto della richiesta di accesso, l’odierna esponente risultava portatrice di un interesse specifico e giuridicamente rilevante, dirigendosi la sua richiesta nei confronti degli atti e documenti relativi ai doni di rappresentanza ricevuti dal Governo italiano e custoditi a Palazzo Chigi negli ultimi dieci anni e, nello specifico, a quelli rivelati da il Fatto Quotidiano di venerdì 08.01.2016, riguardanti i regali agli oltre 50 ospiti di Roma.
3.2 E l'interesse perseguito dalla ricorrente è certamente meritevole di tutela, in quanto personale e concreto, non emulativo né riconducibile a mera curiosità, né finalizzato ad un generale controllo di legalità sull'azione amministrativa, bensì strettamente legato alle sue funzioni istituzionali e orientato al sindacato ispettivo di cui la stessa è investita.
Invero, dalla lettura dei quotidiani è emerso che i delegati italiani "si sono accapigliati" per i doni dei sovrani sauditi, ovvero: i) cronografi dal valore di circa 3.000/4.000 euro; ii) Rolex da decine di migliaia di euro; emergerebbe l’ipotesi di una violazione delle regole di condotta da tenere nel corso di un cerimoniale e in particolare l'ordine delle precedenze da osservare tra le cariche pubbliche.
Poiché il regolamento del Senato attribuisce ai Questori il compito di sovrintendere al cerimoniale, l'odierna esponente ha un interesse diretto, concreto e attuale a richiedere l'accesso agli atti per verificare se nel caso in questione ci siano state effettivamente delle violazioni alle prescrizioni protocollari relative al cerimoniale.
3.3 D’altra parte, la possibilità per gli organi parlamentari di ricorrere a strumenti specifici d’indagine, peraltro attribuiti all’organo collegiale, non esclude la legittimazione del singolo al generale istituto dell’accesso, nel ricorso dei presupposti sopra precisati.
Sul punto, giova rammentare anche un precedente parere favorevole della Commissione per l’accesso (18.03.2014), formulato su un’analoga richiesta avanzata dalla medesima ricorrente nella sua funzione di Senatore Questore" e "rivolta ufficialmente all'amministrazione …. nell’esercizio dell'attività di sindacato ispettivo".
Contrariamente a quanto ritenuto nell’odierno caso, la Commissione affermava l'applicabilità del "principio di cui all'art. 22, comma 5, della legge n. 241 del 1990, in forza del quale l'acquisizione dei documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, si informa al principio di leale cooperazione istituzionale” e che “Tale principio, naturalmente, va inteso come un'accessibilità maggiore rispetto a quella prevista dalla l. 241/1990”.
4. Alla luce delle esposte considerazioni, deve concludersi che il diniego di accesso opposto ai documenti in questione è illegittimo e pertanto, in accoglimento dei primi due motivi di ricorso, va annullato, mentre deve essere consentita alla ricorrente la visione dei documenti indicati in motivazione.

APPALTI SERVIZINuova gara tutta nuova. Il gestore uscente non può partecipare. SERVIZI/ Una sentenza del Tribunale amministrativo di Palermo.
In base al principio di rotazione, il gestore uscente del servizio non può partecipare alla nuova gara d'appalto affidata con procedura negoziata.

Lo ha affermato il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, con la sentenza 27.07.2016 n. 1916.
Il collegio ha adottato una linea più rigorosa rispetto ad altro filone giurisprudenziale che invece non chiude la porta a tale possibilità. I giudici amministrativi hanno accolto l'impostazione del ricorrente secondo cui l'Amministrazione resistente non avrebbe potuto invitare alla gara il precedente gestore del servizio né, tanto meno, aggiudicare allo stesso il relativo appalto.
Il ragionamento dell'organo giudiziario è improntato alla valorizzazione del principio di rotazione, contenuto nell'art. 57, comma 6, codice dei contratti del 2006, soprattutto in caso di un limitato numero di ditte che partecipano alla selezione. Tale principio, si legge nella sentenza, «costituisce una sorta di bilanciamento alla possibilità di esperire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione di un bando, prevista dal medesimo art. 57».
Così, il principio da cui deriva la prescrizione della rotazione -che si affianca a quello di trasparenza e di parità di trattamento- «non è banale o secondario, e costituisce la garanzia minima affinché possa essere ritenuta compatibile con le regole di trasparenza e concorrenzialità, che presidiano il settore degli appalti pubblici, una procedura (quella negoziata) che, in sé, contiene significative deroghe all'ordinario criterio di aggiudicazione degli appalti» (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato, per le ragioni che verranno esplicitate.
Il collegio è consapevole che parte della giurisprudenza che si è pronunziata sul comma 6° dell’art. 57 del D.Lgs. n. 163/2006 –puntualmente richiamata dai resistenti– tende a ridurre il peso del precetto ivi contenuto, ritenendo che, a fronte di una trasparente gestione della gara, non possa ritenersi preclusa la possibilità di aggiudicare l’appalto al precedente gestore del servizio che ne costituisce l’oggetto.
Ritiene tuttavia che la disposizione in esame vada interpretata in modo più rigoroso e che, comunque, la specifica vicenda per cui è causa difficilmente possa essere ricondotta ai principi dettati dalla giurisprudenza richiamata dai resistenti.
Ritiene invero il collegio che il principio di rotazione, contenuto al comma 6° dell’art. 57 del D.Lgs. n. 163/2006, ed espressamente riportato nella lettera di invito invita dall’amministrazione resistente per la gara in questione, costituisca una sorta di bilanciamento alla possibilità di esperire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione di un bando, prevista dal medesimo art. 57.
Conseguentemente il principio da cui deriva la prescrizione della “rotazione” non è banale o secondario, e costituisce la garanzia minima affinché possa essere ritenuta compatibile con le regole di trasparenza e concorrenzialità, che presidiano il settore degli appalti pubblici, una procedura che, in sé, contiene significative deroghe all’ordinario criterio di aggiudicazione degli appalti.

Anche dalla piana lettura della norma che viene in rilievo emerge che il principio di rotazione si affianca a quello di trasparenza e di parità di trattamento, e non può essere eluso per il rispetto degli altri concorrenti principi che devono essere seguiti nella procedura che viene in rilievo.
Peraltro nella vicenda per cui è causa il principio della rotazione assume un valore ancor più pregnante a fronte del limitato numero di ditte che hanno preso parte alla selezione per cui è causa; pertanto, anche a voler seguire i più permissivi principi a cui si ispira la giurisprudenza invocata dai resistenti, difficilmente potrebbero essere ritenute rispettate le garanzie minime previste dalle norme di legge in materia.
Né la circostanza che l’avviso per l’individuazione delle ditte interessate sia stato pubblicato sull’albo pretorio costituisce motivo sufficiente per derogare al principio della “rotazione”, normativamente prescritto, sia per la limitata efficacia dello specifico strumento di pubblicità utilizzato, sia in quanto, al successivo momento dell’invio dell’invito alle ditte che avevano manifestato interesse a partecipare alla gara -momento decisivo per la valutazione dell’incidenza del principio di rotazione- l’amministrazione avrebbe dovuto considerare che il loro esiguo numero non era idoneo a consentire il pieno rispetto alle garanzie di legge.
Alla luce di quanto precisato il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, annullati i provvedimenti impugnati.

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di impugnazione di fonti normative secondarie, la giurisprudenza amministrativa distingue due categorie di atti regolamentari: gli atti regolamentari denominati “volizioni preliminari” e quelli c.d. “volizione-azione”.
I regolamenti e gli atti generali dell’Amministrazione sono impugnabili in via diretta solo in presenza di disposizioni che ledano in via immediata le posizioni soggettive dei destinatari, mentre negli altri casi l’interesse a ricorrere si radica solo in presenza di atti applicativi, e non in base a potenzialità lesive solo ipotetiche o future.
In altre parole, i vizi degli atti amministrativi generali risultano immediatamente contestabili solo quando di per sé preclusivi del soddisfacimento dell’interesse protetto, mentre altrimenti sono deducibili come fonte di illegittimità derivata dell’atto consequenziale, quando sia quest’ultimo a venire impugnato –con l’atto presupposto- in quanto concretamente lesivo.
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In tema di impugnazione di fonti normative secondarie, la giurisprudenza amministrativa distingue due categorie di atti regolamentari.
Da un lato gli atti contenenti solo “
volizioni preliminari”, cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonei a produrre una immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari; detta tipologia di regolamenti andrà impugnata necessariamente assieme ai relativi atti applicativi (cd. tecnica della doppia impugnazione).
Dall’altro, gli atti regolamentari denominati “
volizione-azione”, i quali contengono, almeno in parte, previsioni destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali, capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera giuridica dei destinatari; gli stessi devono essere gravati immediatamente, a prescindere dalla adozione di atti applicativi.
Sul punto, si distingue i “… regolamenti c.d. volizioni preliminari, che, caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e programmatiche, che non si traducono in una immediata incisione della sfera giuridica del destinatario, a nulla rilevando che ciò possa accadere in futuro, e i regolamenti c.d. volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte, previsioni destinate alla immediata applicazione, in quanto capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario. …”.
La distinzione è strumentale all’affermazione della operatività della regola della immediata impugnazione unicamente nella seconda ipotesi (regolamento volizione-azione), dovendosi nel primo caso (regolamento volizione preliminare) far ricorso alla tecnica della cd. doppia impugnazione congiunta di regolamento ed atto applicativo lesivo.
In tal senso è stato ancora affermato: “I regolamenti possono essere autonomamente e immediatamente impugnati solo quando contengano disposizioni suscettibili di arrecare, in via diretta ed immediata, un’effettiva e attuale lesione dell’interesse di un determinato soggetto (c.d. regolamenti costituenti “volizioni-azioni”), mentre se il pregiudizio è conseguenza dell’atto di applicazione concreta, il regolamento deve essere impugnato congiuntamente ad esso (c.d. regolamento costituente “volizione preliminare”).”.
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È stata infatti impugnata una norma della NN.TT.AA. al PUG del Comune di Troia avente natura regolamentare, ma di per sé priva di una autonoma e diretta capacità lesiva della posizione giuridico soggettiva della ricorrente.
Come è noto, secondo Cons. Stato, Sez. V, 24.03.2014, n. 1448, “…I regolamenti e gli atti generali dell’Amministrazione, infatti, sono impugnabili in via diretta solo in presenza di disposizioni che ledano in via immediata le posizioni soggettive dei destinatari, mentre negli altri casi l’interesse a ricorrere si radica solo in presenza di atti applicativi, e non in base a potenzialità lesive solo ipotetiche o future (C.d.S., Sez. VI, 27.12.2010, n. 9406; 06.09.2010, n. 6463). In altre parole, i vizi degli atti amministrativi generali risultano immediatamente contestabili solo quando di per sé preclusivi del soddisfacimento dell’interesse protetto, mentre altrimenti sono deducibili come fonte di illegittimità derivata dell’atto consequenziale, quando sia quest’ultimo a venire impugnato –con l’atto presupposto- in quanto concretamente lesivo (C.d.S., Sez. I, 07.06.2010, n. 3041). …”.
In tema di impugnazione di fonti normative secondarie, la giurisprudenza amministrativa (cfr. ex plurimis TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 15.05.2013, n. 802) distingue due categorie di atti regolamentari.
Da un lato gli atti contenenti solo “volizioni preliminari”, cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonei a produrre una immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari; detta tipologia di regolamenti andrà impugnata necessariamente assieme ai relativi atti applicativi (cd. tecnica della doppia impugnazione).
Dall’altro, gli atti regolamentari denominati “volizione-azione”, i quali contengono, almeno in parte, previsioni destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali, capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera giuridica dei destinatari; gli stessi devono essere gravati immediatamente, a prescindere dalla adozione di atti applicativi.
Sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 14.02.2005, n. 450 parimenti distingue i “… regolamenti c.d. volizioni preliminari, che, caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e programmatiche, che non si traducono in una immediata incisione della sfera giuridica del destinatario, a nulla rilevando che ciò possa accadere in futuro, e i regolamenti c.d. volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte, previsioni destinate alla immediata applicazione, in quanto capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario. …”.
La distinzione è strumentale all’affermazione, da parte del Consiglio di Stato, della operatività della regola della immediata impugnazione unicamente nella seconda ipotesi (regolamento volizione-azione), dovendosi nel primo caso (regolamento volizione preliminare) far ricorso alla tecnica della cd. doppia impugnazione congiunta di regolamento ed atto applicativo lesivo.
In tal senso anche TAR Emilia Romagna, Parma, 08.03.2006, n. 95: “I regolamenti possono essere autonomamente e immediatamente impugnati solo quando contengano disposizioni suscettibili di arrecare, in via diretta ed immediata, un’effettiva e attuale lesione dell’interesse di un determinato soggetto (c.d. regolamenti costituenti “volizioni-azioni”), mentre se il pregiudizio è conseguenza dell’atto di applicazione concreta, il regolamento deve essere impugnato congiuntamente ad esso (c.d. regolamento costituente “volizione preliminare”).”.
Nella fattispecie in esame è stata impugnata una norma regolamentare in sé recante una previsione generale ed astratta, priva di una lesività diretta ed immediata rispetto all’insieme degli interessi di cui è titolare la società H3G S.p.A. nell’ambito territoriale del Comune di Troia.
In altri termini, non essendoci stato un puntuale e specifico atto applicativo della norma impugnata -in tesi asseritamente qualificata come lesiva, ma in sé recante solo una previsione generale ed astratta- l’impugnazione così come introdotta risulta destituita di uno dei suoi presupposti fondanti, in particolare dal punto di vista della sussistenza di un effettivo interesse a ricorrere concretamente leso.
Da tanto necessariamente consegue che l’impugnazione, così come svolta, risulta inammissibile (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 27.07.2016 n. 988 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale le norme che disciplinano l’azione avverso il silenzio (artt. 31 e 117, c.p.a.) abilitano anche colui che è formalmente controinteressato in un procedimento sanzionatorio urbanistico, ad agire per porre rimedio all'inerzia dell'amministrazione che deve curare l'interesse pubblico, ove sia provato che l’amministrazione medesima ha trascurato di compiere gli atti necessari per la tutela dell'interesse pubblico e sussista, parallelamente, un interesse derivante da una situazione di “contiguità abitativa”.
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Giurisprudenza costante, inoltre, a fronte dell'istanza del privato volta a far sì che l’amministrazione concluda un procedimento sanzionatorio, di cui sia già stato emesso un ordine demolitorio relativamente ad opere la cui abusività è stata in precedenza acclarata, l'inerzia serbata dall'Amministrazione è da qualificarsi illegittima e rimuovibile attraverso la procedura del silenzio attivabile da chi vi abbia interesse.
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... per l'accertamento della illegittimità della inerzia del Comune di Bari nel dare attuazione alla ingiunzione di demolizione del 18.11.2014 e del silenzio serbato sulle istanze del 04.12.2015 e del 05.01.2016;
- nonché per la condanna del Comune a portare a compimento il procedimento sanzionatorio dell’abuso edilizio.
...
4.- Il ricorso è fondato.
4.a.- Preliminarmente debbono essere respinte le eccezioni di inammissibilità sollevate dalle controinteressate.
In proposito è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale le norme che disciplinano l’azione avverso il silenzio (artt. 31 e 117, c.p.a.) abilitano anche colui che è formalmente controinteressato in un procedimento sanzionatorio urbanistico, ad agire per porre rimedio all'inerzia dell'amministrazione che deve curare l'interesse pubblico, ove sia provato che l’amministrazione medesima ha trascurato di compiere gli atti necessari per la tutela dell'interesse pubblico e sussista, parallelamente, un interesse derivante da una situazione di “contiguità abitativa” (v. TAR Sicilia–Palermo, sez. III, 09.10.2013, n. 1773; TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 28.01.2011, n. 59; TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.01.2010, n. 48).
Sussiste, pertanto, l’interesse legittimo della odierna ricorrente a che l'Amministrazione comunale, titolare del potere urbanistico di repressione degli illeciti urbanistici, lo eserciti compiutamente fino all'avvenuta eliminazione dell'illecito, incidendo, la perdurante inerzia, nell’esercizio del potere di vigilanza e repressione dell'abusivismo edilizio.
4.b.- Per giurisprudenza costante, inoltre, a fronte dell'istanza del privato volta a far sì che l’amministrazione concluda un procedimento sanzionatorio, di cui sia già stato emesso un ordine demolitorio relativamente ad opere la cui abusività è stata in precedenza acclarata, l'inerzia serbata dall'Amministrazione è da qualificarsi illegittima e rimuovibile attraverso la procedura del silenzio attivabile da chi vi abbia interesse (cfr. ex plurimis, Cons. di Stato, n. 986/2011 e TAR Abruzzo-L'Aquila, n. 370/2013).
E’ per questo che deve affermarsi la legittimazione e l’interesse della ricorrente ad ottenere un pronunciamento del Comune di Bari, in considerazione della sua qualità di confinante con la proprietà delle controinteressate e, quindi, danneggiata dalla permanenza delle opere abusivamente realizzate.
4.c.- Nel caso di specie risultano, inoltre, integrati i presupposti richiesti per la formazione del cosiddetto silenzio-inadempimento o silenzio-rifiuto e cioè, sia l’obbligo di provvedere da parte della P.A. in base al disposto dell’art. 2 della legge n. 241/1990 e successive modifiche, sia il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione oltre il termine per provvedere, nonostante la formale (e ripetuta) diffida intimata dal soggetto interessato.
Accertata, quindi, l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza oggetto di diffida, deve essere affrontata la questione relativa alla fondatezza della pretesa azionata dalla ricorrente (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 27.07.2016 n. 983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso in esame, alcun provvedimento espresso è stato assunto dal Comune riferito all’istanza di sanatoria.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 dispone che <<Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>>.
Ne consegue che, al decorso del termine di sessanta giorni per la conclusione del procedimento di accertamento di conformità, senza che l’amministrazione abbia adottato un provvedimento espresso, il legislatore riconnette espressamente la formazione di un provvedimento tacito di diniego dell’istanza di sanatoria.
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... per l'accertamento della illegittimità della inerzia del Comune di Bari nel dare attuazione alla ingiunzione di demolizione del 18.11.2014 e del silenzio serbato sulle istanze del 04.12.2015 e del 05.01.2016;
- nonché per la condanna del Comune a portare a compimento il procedimento sanzionatorio dell’abuso edilizio.
...
5.- Le controinteressate, richiamando la sentenza n. 323/2016, sostengono che la pronuncia di improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza di demolizione, per avvenuta presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 380/2001, abbia determinato: “l’inefficacia del precedente ordine di demolizione(…); l’obbligo dell’amministrazione di emettere un nuovo provvedimento di reiezione o di accoglimento dell’istanza di sanatoria; l’obbligo dell’amministrazione di adottare gli ulteriori eventuali provvedimenti sanzionatori qualora il comune verifichi (implicitamente o esplicitamente) che non sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere abusive” (pag. 6 memoria delle controinteressate del 21.06.2016).
Tale ricostruzione è smentita dal tenore letterale della medesima sentenza, nella quale espressamente si afferma che “il provvedimento di rigetto, espresso o tacito, determinerà certamente la riespansione dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione”.
5.a.- Nel caso in esame, alcun provvedimento espresso è stato assunto dal Comune riferito all’istanza di sanatoria.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 dispone che <<Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>>.
Ne consegue che, al decorso del termine di sessanta giorni per la conclusione del procedimento di accertamento di conformità, senza che l’amministrazione abbia adottato un provvedimento espresso, il legislatore riconnette espressamente la formazione di un provvedimento tacito di diniego dell’istanza di sanatoria.
5.b.- Né risulta ostativa, alla formazione del tacito provvedimento di rigetto della sanatoria, la nota del 28.01.2016, con cui il Comune di Bari ha comunicato il preavviso di rigetto della medesima istanza, concedendo termine per osservazioni ed integrazioni documentali.
La riferita nota, oltre ad essere stata adottata successivamente al decorso del termine di legge, decorrente dalla presentazione dell’istanza di sanatoria, avvenuta in data 06.08.2015, non è stata seguita da alcun provvedimento successivo, tanto meno da uno definitivo espresso, che non è risultato adottato neanche alla data della udienza camerale, come confermato dalla difesa del Comune.
Deve escludersi, pertanto, che il protrarsi dell’istruttoria –genericamente sostenuta dalle controinteressate e dalla difesa dell’amministrazione -e dell’inerzia dell’ente locale– ben oltre il termine di legge- siano ostativi all’intervenuta formazione del provvedimento tacito di rigetto.
5.c.- Nella fattispecie, dunque, atteso il decorso del termine di sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza, l’accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. 380/2001 deve intendersi rigettato.
Alla luce di quanto sopra esposto, deve affermarsi che alla data di proposizione del presente ricorso si era comunque formato il silenzio-rigetto sull’istanza di permesso di costruire in sanatoria presentata dalle sigg.re Se.–Di Sa., ai sensi del suddetto art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, al Comune di Bari in data 06.08.2015.
5.d.- Ne consegue che deve riconoscersi sussistente l’obbligo del Comune di Bari addivenire alla conclusione del procedimento sanzionatorio, nei modi disciplinati dalle previsioni del D.P.R. 380/2001, confacenti all’abuso di cui alla citata ordinanza di demolizione n. 2014/01330 - 2014/130/00353 del 18.11.2014, nel termine di novanta giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, con avvertenza che, in caso di ulteriore inadempimento, si procederà, su istanza di parte, alla nomina di un Commissario ad acta, con aggravio di spese per l'Ente (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 27.07.2016 n. 983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’impresa non «perde» la gara. Decisivi i versamenti tardivi della Pa - Non c’è errore grave nell’attività.
Consiglio di Stato. Illegittima l’esclusione da un appalto per non aver pagato i dipendenti se non c’è colpa.
L’impresa affidataria che paga in ritardo i dipendenti non può essere esclusa dall’appalto se il ritardo è stato causato dalla stessa stazione appaltante. In questo caso, infatti, la Pa non può contestarle alcun «errore grave nell’esercizio dell'attività professionale», né paradossalmente provarlo per il solo fatto di essersi sostituita alla ditta pagando gli arretrati direttamente ai lavoratori poiché questa procedura -prevista dal Regolamento del Codice appalti (articolo 5, Dpr 207/2010)- è solo una forma di tutela per chi viene impiegato nelle gare pubbliche.
A chiarirlo è il Consiglio di Stato -sentenza 26.07.2016 n. 3375, V Sez.– dando ragione a una società di vigilanza che, da gestore uscente di un servizio di sorveglianza sugli immobili di un Comune, era stata esclusa dalla nuova gara perché, in particolare, non era ritenuta in regola col pagamento degli stipendi e quindi, come riconosciuto in primo grado (Tar Bari 297/2016), responsabile di una grave infrazione del rapporto di lavoro.
Ciò, però, non sulla base dei dati dell’Osservatorio Anac come dettato dal Codice appalti (lettera e, comma 1, articolo 38, Dlgs 163/2006), ma solo per l’attivato «intervento sostitutivo» che consente alla Pa di by-passare gli esecutori non paganti.
Per il collegio, poiché «la capacità finanziaria dell’appaltatore è condizionata dalla puntualità dei pagamenti da parte degli enti appaltanti» anche questi ultimi, con le proprie decisioni, possono violare il principio di buon andamento e imparzialità della Pa, facendo perdere i «requisiti di ordine generale» richiesti dal Codice appalti a concorrenti o affidatari di bandi pubblici (articolo 38, Dlgs 163/2006).
Ne è un esempio il caso in esame: la Pa è stata «la causa oggettiva dell’inadempimento dell’impresa» poiché, come provato dagli atti comunali, aveva iniziato a pagare la ricorrente in ritardo «o in concomitanza o in tempo poco anteriore» alla nuova gara, nonostante fosse obbligata a farlo entro il 10 del mese per consentirle di rispettare nel giro di dieci giorni le note scadenze per il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali e degli stipendi.
In questi casi poi la Pa non può escludere l’impresa uscente nemmeno se i dipendenti hanno richiesto di pagargli direttamente le somme non percepite detraendole dagli importi contrattuali, poiché tale procedura «non è funzionale» a dimostrare che ha commesso «grave negligenza o malafede» o «errore grave» nell’esercizio della professione come previsto dal Codice appalti (lettera f, comma 1, articolo 38).
La caratteristica di questi motivi di esclusione è infatti il «pregiudizio arrecato, a causa della negligenza o dell’inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali, alla fiducia che la stazione appaltante deve poter riporre ex ante nell’impresa alla quale affidare un servizio di interesse pubblico ed include, di conseguenza, presupposti squisitamente soggettivi, incidenti sull’immagine della stessa agli occhi della stazione appaltante» anche senza l’accertamento penale.
Per provare questo danno è sufficiente la valutazione della Pa, ma al giudice amministrativo spetta «un controllo ex externo» per accertare «la mera pretestuosità del giudizio di inaffidabilità dell’impresa» così come in questo caso dove, non casualmente, i pagamenti erano stati rispettati soltanto quando il Comune era stato puntuale o quando Palazzo Spada li aveva “sbloccati” con un’ordinanza cautelare
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
2.
Il Collegio ritiene che i ritardati pagamenti delle retribuzioni da parte della stessa stazione appaltante, implicano la possibilità per la stazione appaltante di poter determinare con il proprio comportamento la sussistenza di una ragione di esclusione, in contrasto con il principio del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, tenuto conto che la capacità finanziaria dell’appaltatore è condizionata dalla puntualità dei pagamenti da parte degli Enti appaltante.
L’art. 12 del contratto di servizio tra Comune e Me., originaria affidataria del servizio, impone all’ente di provvedere al pagamento delle prestazioni entro il 10 del mese successivo, proprio per garantire a Me. di assolvere gli obblighi di legge tempestivamente (entro il 16 pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali ed entro il 20 pagamento degli stipendi e dei salari).
Nel caso di specie, peraltro, il Comune ha iniziato a pagare in ritardo in prossimità dell’indizione della gara, causando proprio in relazione alla gara oggetto di questo giudizio un ritardo di Me. nella corresponsione delle retribuzioni, come risulta dalla documentazione fornita dall’appellante, non specificamente confutata dalla parte controinteressata e dallo schema riepilogativo dei pagamenti Comunali da gennaio 2014.
Da tale schema si evince, infatti, che i pagamenti sono regolari fino a novembre 2015, quando cominciano a manifestarsi i problemi con il Comune e vengono effettuate le prime denunce ex art. 5 d.P.R. n. 207/2010, come si evince dalla nota comunale del 13.02.2015).
Dallo stesso schema risulta evidente che i pagamenti ai quali fa fronte Me. sono di importo maggiore rispetto a quelli del Comune, con l’ovvia deduzione che Me., in caso di ritardo nelle erogazioni comunali, subisce direttamente conseguenze in ordine alla puntualità dei pagamenti verso i propri dipendenti.
L’omesso pagamento da parte del Comune di oltre € 313.521,60 non poteva, dunque, che impedire la regolarità nel pagamento delle retribuzioni, soprattutto considerato che tale ritardo si è verificato o in concomitanza o in tempo poco anteriore alla gara d’appalto per cui è causa.
Infatti, il Comune, dopo la predetta Ordinanza cautelare del Consiglio di Stato 25.06.2015, n. 2860 ha sbloccato tutti i pagamenti inevasi (cfr. nota prot. 16624 del 27.07.2015, doc. 13 appellante), provvedendovi regolarmente, e l’appallante ha potuto pagare gli stipendi regolarmente ai propri dipendenti.
Nel caso in esame, inoltre, non vi è stato alcun accertamento da parte del Comune circa l’inadempimento dell’appellante, non essendo all’uopo sufficiente l’attivazione della procedura di cui all’art. 5 d.P.R. n. 207/2010, che costituisce uno strumento di tutela dei dipendenti dell’appaltatore, ma non è funzionale all’accertamento ex art. 38, lett. f), del Codice degli appalti.
Come ha già chiarito la Sezione (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2015, n. 4502),
l'elemento, che caratterizza la misura interdittiva di cui all'art. 38, comma 1, lett. f), del Codice degli appalti è il pregiudizio arrecato, a causa della negligenza o dell'inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali, alla fiducia che la stazione appaltante deve poter riporre ex ante nell'impresa alla quale affidare un servizio di interesse pubblico ed include, di conseguenza, presupposti squisitamente soggettivi, incidenti sull'immagine della stessa agli occhi della stazione appaltante.
Ne consegue che, esclusa la natura sanzionatoria di detta misura, l'ambito operativo prescinde dalla rilevanza penale dei comportamenti ascritti e degli inadempimenti contrattuali e dalla necessità di una sentenza penale di condanna per i fatti contestati, venendo in rilievo solamente la loro incidenza sull'elemento fiduciario che connota i rapporti contrattuali con la Pubblica amministrazione.
In questa prospettiva il requisito della grave negligenza e malafede non presuppone il definitivo accertamento di tale comportamento, essendo sufficiente la valutazione fatta dalla stessa Amministrazione ed il giudice amministrativo, nell'esame degli atti, non può rivalutare nel merito i fatti già vagliati dall'Amministrazione nel provvedimento impugnato, dovendosi limitare ad un controllo ex externo onde accertare la mera pretestuosità del giudizio di inaffidabilità dell'impresa.

Nel caso di specie, proprio le circostanze già evidenziate, che inducono a ritenere che la stessa Stazione appaltante sia stata la causa oggettiva dell’inadempimento dell’impresa, implicano un giudizio di irragionevolezza della valutazione di inadempimento compiuta dall’Amministrazione in ordine ai fatti ascritti all’appellante Me., con la conseguenza che la relativa esclusione deve reputarsi illegittima, come già evidenziato dalla citata Ordinanza cautelare di questo Consiglio di Stato 25.06.2015, n. 2860.
2. La seconda esclusione dell’appellante Me. si basa su di un certificato dell’Agenzia delle Entrate che rileva una serie di debiti, oggetto di altrettante cartelle di pagamento, a carico di Me. stessa.
Nessuna delle predette cartelle corrisponde, tuttavia a debiti fiscali definitivamente accertati
Come è noto,
nelle gare di appalto, un’irregolarità contributiva può ritenersi definitivamente accertata solo quando, alla data di scadenza del termine di proposizione delle domande di partecipazione alla gara, siano scaduti i termini per la contestazione dell’infrazione, ovvero siano stati respinti i mezzi di gravame proposti avverso la medesima (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.06.2011, n. 3912); infatti, secondo la giurisprudenza formatasi in materia comunitaria, il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente qualora, prima del decorso del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara di appalto, l’istanza di rateizzazione sia stata accolta con l’adozione del relativo provvedimento costitutivo (Consiglio di Stato, Sez. V, 22.05.2015, n. 2570.
Pertanto, ai fini dell’integrazione del requisito della regolarità fiscale di cui all’art. 38, comma 1, lettera g), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, non è sufficiente che, entro il termine di presentazione dell’offerta, sia stata presentata da parte del concorrente istanza di rateazione del debito tributario, ma occorre invece che il relativo procedimento si sia concluso con un provvedimento favorevole. Deve pertanto ritenersi che non sia ammissibile la partecipazione alla procedura di gara del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Pl. 20.08.2013, n. 20).
Nel caso di specie, le Cartelle Es. n. 04320140008358341-36-bis – AI 2009 - € 29.259,96; n.04320140008358341 – 36-bis – AI 2009 - € 578886,43 e n.04320140008964558 – 36-BIS - AI 2010 pari a € 1.380.709,31 erano state oggetto di istanza di rateizzazione accordata da Equitalia in data 4.9.2014 e successivamente impugnate presso la Commissione Tributaria Provinciale di Foggia con due distinti ricorsi depositati in data 18.08.2014 e conclusisi con decisione del 10.6.2015 che ha visto l’accoglimento dei ricorsi e l’annullamento degli atti impugnati; la cartella Es. n. 043201400159151- 36-bis – AI 2010 - € 196.937,78 è stata oggetto di istanza di rateizzazione concessa da Equitalia con provvedimento dell’11.2.2015 in corso di pagamento e successivamente impugnata dinanzi alla commissione Tributaria Provinciale di Foggia e sospesa dal Giudice tributario.
Alla luce di quanto documentato è evidente che alla data del 20.04.2015, data di proposizione dell’offerta, l’appellante Me. aveva già da tempo chiesto ed ottenuto la rateizzazione dei pagamenti relativi alle posizioni debitorie predette e che nei suoi confronti non poteva essersi realizzata alcuna infrazione fiscale definitivamente accertata.
Ne deriva ulteriormente che non sussiste neppure l’ipotesi di falsa dichiarazione ex lett. h) dell’art. 38 d.lgs. n. 163/2006, atteso che tale norma prevede l’esclusione se il concorrente abbia reso falsa dichiarazione in sede di gara; nel caso di specie, l’appellante Me. ha dimostrato di non aver reso alcuna falsa dichiarazione in sede di gara e che nessuna iscrizione potesse ritenersi a suo carico registrata presso l’Osservatorio, posto che non esiste la violazione definitivamente accertata da iscrivere.
4. Me. ha censurato anche la prima ragione di esclusione relativa all’omessa dichiarazione di essere stata destinataria di misura interdittiva antimafia.
In effetti risulta agli atti che l’appellante Me. è stata destinataria di una interdittiva antimafia in data 06.03.2014 ma tale provvedimento prefettizio è stato impugnato ed è stato dapprima sospeso cautelarmente (ordinanza del Consiglio di Stato 06.11.2014, n. 5076) e poi annullato definitivamente con sentenza del Consiglio di Stato 23.04.2015, n. 2042.
Pertanto, al momento della redazione della dichiarazione da parte del concorrente esso non aveva valore giuridico, in quanto reso improduttivo di effetti, e, per ulteriore conseguenza, nessun obbligo poteva incombere in capo alla Me. in ordine alla dichiarazione dell’esistenza di tale atto.
5. Quanto all’appello incidentale, nel quale l’appellante Co. considera che il TAR avrebbe erroneamente ritenuta la fondatezza di una delle censure avversarie che pur lo stesso TAR ha dichiarato inammissibili, si può ora prescindere dalla questione preliminare circa la correttezza dell’esame del motivo nel merito, nonostante la pronuncia di inammissibilità, atteso che il motivo sostanziale corrisponde, in senso soltanto inverso, a quello riproposto in appello dall’attuale appellante principale.
La questione riguarda l’omessa esclusione dell’appellante incidentale Co. in seguito alla mancata dichiarazione in gara circa l’esistenza di più risoluzioni di contratti pubblici a suo carico per inadempimento e grave negligenza contrattuale.
Come è noto,
deve essere esclusa da una gara pubblica l'impresa che non ha dichiarato di essere stata destinataria, in passato, di un provvedimento di risoluzione contrattuale adottato nei suoi confronti da altra Pubblica amministrazione, atteso che l'art. 38 comma 1 lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 impone di dichiarare la sussistenza di pregresse risoluzioni contrattuali a prescindere dal fatto che la stazione appaltante sia la stessa presso la quale si svolge il procedimento di scelta del contraente od altra, giacché tale dichiarazione attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono ai rapporti dei partecipanti con la stazione appaltante (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 11.12.2014, n. 6105).
Peraltro,
la falsa dichiarazione resa su un dato sconosciuto alla P.A. impedisce il c.d. soccorso istruttorio, anche nella versione post D.L. n. 90/2014, posto che la dichiarazione contestata non può ritenersi incompleta, ma contrastante con un dato reale.
Nel caso in esame, sussistono numerose pronunce di primo e secondo grado del G.A. che hanno accertato la grave negligenza di Co. nell’esecuzione dell’appalto.
In specifico, il Consiglio di Stato, con sentenza 15.06.2015, n. 2928 ha accertato la serietà dell’inadempimento, la sua reiterazione nel tempo, la sua incidenza sulle prestazioni di servizi che Co. avrebbe dovuto effettuare.
Pertanto, l’appellante incidentale Co. doveva essere esclusa dalla gara oggetto del presente giudizio, per intervenuto accertamento definitivo in sede giurisdizionale (ex sentenza citata del Consiglio di Stato n. 2928/2015) dell’inadempimento contrattuale della stessa aggiudicataria con riferimento al contratto con la società Na.Ho., inadempimento rilevante ai fini di cui all’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 163/2006 e mai dichiarato dalla società aggiudicataria in violazione dell’obbligo di chiarezza e di veridicità, sanzionato con l’esclusione, per la quale inosservanza non è possibile far ricorso all’istituto del soccorso istruttorio (cfr. Cons. Stato n. 3950/2015; Cons. Stato n. 4870/2015).
Sotto questo aspetto, deve essere rilevato che già nel ricorso introduttivo di primo grado, parte appellante eccepiva l’esistenza di un’iscrizione ANAC a carico dell’appellata Co. della quale la commissione non aveva ritenuto rilevante tener conto e rispetto alla quale non era stato fornito accesso agli atti nonostante l’istanza Me..
Pertanto, le argomentazioni sviluppate nei motivi aggiunti di primo grado in data 19.06.2015, ben lungi dal configurarsi quali motivi di ricorso tardivi, come invece eccepisce Cosmopol, costituiscono uno sviluppo ed una precisazione di motivi di censura già sufficientemente dettagliati nel ricorso di primo grado e si limitano a specificare che l’appellata Co. non era stata esclusa dalla gara nonostante il grave inadempimento contrattuale occorso presso ANM di Napoli.
A tali motivi aggiunti di primo grado era stata allegata la sentenza del Consiglio di Stato 15.06.2015, n. 2928 che aveva accertato definitivamente che Co. era soggetto già escluso legittimamente da una precedente gara per aver assunto una condotta gravemente inadempiente, fornendo così la prova decisiva a sostegno di una deduzione già facilmente ricavabile dal contenuto, come detto, nel ricorso introduttivi di primo grado.
Pertanto, l’appello incidentale su tale profilo è infondato e, come tale, deve essere respinto, mentre deve essere accolto lo speculare motivo di ricorso, reiterato in appello dall’appellante principale.
Le ulteriori deduzioni contenute nell’atto di appello (che reitera i motivi di ricorso contenuti nei motivi aggiunti di primo grado) possono essere assorbite, per evidenti ragioni connesse alla satisfattività del motivo accolto in questa sede.
6. La domanda risarcitoria, peraltro, non dimostrata in specifico, non può essere accolta, atteso che, per effetto della presente sentenza, trattandosi di gara con soli due concorrenti, l’appellante Me. consegue direttamene il bene della vita cui aspira.

PUBBLICO IMPIEGOSull'onorario spazio ai contratti collettivi.
Le c.d. «propine» fanno parte della retribuzione dell'avvocato dipendente pubblico e la loro determinazione è rimessa esclusivamente alla contrattazione collettiva, non a norme regolamentari.

Questo è quanto ha stabilito il TAR Liguria, Sez. II, con la sentenza 26.07.2016 n. 847.
I dipendenti della regione Liguria, avvocati regionali, avevano impugnato la delibera avente ad oggetto disposizioni per la disciplina del pagamento dei compensi professionali ai legali dipendenti della giunta regionale. In particolare i dipendenti avevano chiesto l'annullamento della norma regolamentare nella parte in cui prevedeva di devolvere solo in parte le somme recuperate al pagamento degli onorari degli avvocati.
Tale disposizione contrastava con l'art. 9 del dl 90/2014 in quanto tale norma non contempla la possibilità di devolvere solo in parte le somme che, al contrario, dovrebbero essere devolute per intero.
Il Tar Liguria accoglie il ricorso. L'ordinamento e la disciplina del personale delle Regioni è attribuito alla loro competenza legislativa esclusiva. Per questo motivo una legge statale non può disciplinare in maniera imperativa il rapporto di lavoro del personale delle Regioni, né potrà autorizzare una fonte secondaria, quale il regolamento, a disciplinare in via imperativa il rapporto di lavoro del personale regionale.
Detto ciò i giudici amministrativi rilevano che le cd «propine» facciano parte della retribuzione dell'avvocato dipendente pubblico e non costituiscano trattamento incentivante. Ciò comporta che la relativa indicazione potrà essere determinata solo dalla contrattazione collettiva.
A tal riguardo né l'art. 27 Ccnl 14/08/2000 né l'art. 37 del successivo Ccnl 23/12/1999 legittimano la decurtazione dei compensi dovuti agli avvocati dipendenti. Infatti la prima norma nel prevedere per l'intero l'attribuzione dei compensi professionali per il caso di sentenza favorevole, rinvia alla contrattazione decentrata integrativa la determinazione della correlazione tra i compensi professionali a retribuzione di risultato.
La seconda norma, invece, nel prevedere l'integrale corresponsione nel caso di sentenza favorevole dei compensi professionali legittima esclusivamente l'esclusione totale o parziale dei dirigenti dalla retribuzione di risultato (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016).

TRIBUTI: Rifiuti, alberghi come case. Ctp Taranto.
I giudici di merito non si allineano alla tesi della Cassazione sulla determinazione delle tariffe della tassa rifiuti e non operano alcuna distinzione tra camere d'albergo e abitazioni. Non c'è nulla che giustifichi un diverso trattamento fiscale tra le due categorie di immobili. Quindi, sono illegittime le tariffe degli alberghi che i comuni hanno fissato in misura più elevata rispetto agli immobili destinati a abitazione.

In questo senso si è espressa anche la commissione tributaria provinciale di Taranto, I Sez., con la sentenza 21.07.2016 n. 1791.
Per la commissione provinciale, che richiama una recente pronuncia della commissione regionale della Puglia, «il dato di comune esperienza supposto dalla Cassazione è, in realtà, opinabile», poiché da una attenta lettura dell'articolo 68 del decreto legislativo 507/1993 «emerge, inequivocabilmente, che il legislatore ha voluto assimilare, in via di massima, gli alberghi alle abitazioni».
In realtà la posizione della Cassazione, alla quale anche i giudici di merito si dovrebbero uniformare, è chiara da tempo. Con la sentenza 16972/2015 ha stabilito che va differenziata anche la tariffa per l'attività di B&B svolta in una civile abitazione, rispetto alla tariffa abitativa ordinaria. Ha però precisato che i B&B non sono assimilabili agli alberghi, atteso che svolgono attività ricettiva in maniera occasionale e in forma non imprenditoriale.
Tuttavia, con la sentenza sopra citata i giudici di legittimità hanno confermato l'orientamento consolidato che impone di differenziare sempre le tariffe per utenze domestiche e non domestiche, e quindi quelle degli alberghi da quelle delle abitazioni. Hanno sempre affermato il principio secondo cui i comuni hanno il potere-dovere di fissare le tariffe più elevate per gli alberghi rispetto a quelle delle abitazioni.
Secondo la Cassazione (sentenza 302/2010) la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto a una civile abitazione costituisce un dato di comune esperienza (articolo ItaliaOggi del 04.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Il balcone aggettante, avente funzione architettonica o decorativa, può essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano lo preveda.
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3. Con il primo ed unico motivo di doglianza, viene dedotta violazione dell’art. 9, comma 1, del DM n. 1444/1968, dell’art. 30 delle NTA del PRG e dell’art. 60 del Regolamento Edilizio Comunale, poiché i nuovi balconi sul lato Nord (di superficie raddoppiata rispetto ai precedenti) presentano caratteristiche costruttive e architettoniche tali da doversi computare nel calcolo della distanza dai confini, attualmente di mt. 3,11 rispetto al minimo di mt. 5.
La censura è infondata.
Esaminando la documentazione fotografica che mostra i balconi in questione praticamente ultimati anche nelle finiture, l’odierno Collegio ritiene che, per quanto ampliati rispetto ai precedenti, abbiano comunque conservato le medesime caratteristiche strutturali e architettoniche che avevano escluso, nell’ambito del precedente contenzioso, la loro computabilità nel regime delle distanze.
Va quindi ribadito, anche in questo caso, che il balcone aggettante, avente funzione architettonica o decorativa, può essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano lo preveda; norma che non sussiste nella vicenda in esame (cfr. Cons. Stato Sez. VI, n. 11/2015; TAR Marche, n. 941/2013 e giurisprudenza ivi richiamata).
4. Conclusivamente il ricorso va in parte dichiarato inammissibile e in parte respinto perché infondato (TAR Marche, sentenza 19.07.2016 n. 437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIParte civile, il legale non paga. Mancata costituzione neutra se non c'è pregiudizio. Sentenza della Cassazione interviene su un caso di responsabilità professionale.
Nel caso in cui non vi sia pregiudizio per l'assistito, l'avvocato non sarà responsabile della mancata costituzione di parte civile.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 18.07.2016 n. 14644.
Tizio conveniva in giudizio l'avvocato Caio, e ne chiedeva la condanna al risarcimento del danno (nella misura di euro 250.000,00) per responsabilità professionale, conseguente alla mancata reiterazione, da parte dello stesso avvocato, della richiesta di costituzione di parte civile in favore di Tizio in un procedimento penale dinanzi alla Pretura, costituzione che era stata dichiarata inammissibile.
L'avvocato Caio proponeva a sua volta domanda riconvenzionale ex art. 96 cpc primo comma chiedendo il risarcimento del danno all'immagine.
La sentenza di primo grado rigettava le domande di entrambe le parti.
La Corte d'appello rigettava la domanda del ricorrente, concordando con il Tribunale laddove questo aveva escluso la sussistenza del nesso causale tra la condotta dell'avvocato e i danni che sarebbero derivati alla parte lesa dalla impossibilità di agire, in sede penale, per il loro risarcimento stante la possibilità, per la parte lesa dal reato, di ottenere il medesimo risultato attraverso l'esperimento dell'azione risarcitoria dinanzi al giudice civile.
Veniva accolta, invece, la riconvenzionale dell'avvocato Caio, ritenendo l'azione proposta non solo temeraria ma anche foriera di danni per il professionista, condannando Tizio a corrispondergli l'importo di euro 10 mila a titolo di risarcimento del danno (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Paletti ai permessi in sanatoria. Interventi solo se conformi alla disciplina urbanistica. Lo hanno ribadito in una sentenza i giudici della sesta sezione del Consiglio di stato.
Il permesso in sanatoria ex art. 36 del dpr n. 380 del 2001 è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto e sia della presentazione della domanda.

Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 18.07.2016 n. 3194.
I supremi giudici amministrativi hanno, altresì, evidenziato come inoltre la cosiddetta «sanatoria giurisprudenziale» vada a generare un atto atipico con effetti provvedimentali e tale atto va a collocarsi al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può assolutamente ritenersi ammesso nel nostro ordinamento.
Infatti, lo stesso ordinamento è contrassegnato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere di attribuzioni riservate all'amministrazione.
E inoltre, a favore della incompatibilità tra la cosiddetta «sanatoria giurisprudenziale» e il dettato normativo di cui all'art. 36 del T.u. n. 380 del 2001 secondo i giudici è possibile trovare adeguato riscontro in argomenti interpretativi letterali e logico-sistematici, oltre che attinenti ai lavori preparatori.
Anche se lo stesso Consiglio di stato, adunanza generale, sezione atti normativi, 29.03.2001, protocollo n. 52/2001, segnala come «in via generale va sottolineato come l'accertamento di conformità sia ancora riferito, come prevedeva l'originaria disposizione dell'art. 13 della lr 47/1985, alla sola concessione, mentre, dopo l'evoluzione normativa successiva alla legge n. 47, esso deve essere esteso anche alla denuncia d'inizio attività. Si rileva inoltre che, pur non potendosi, in astratto, contestare la necessità del duplice accertamento di conformità, nella prassi l'applicazione del principio viene disattesa, ritenendosi illogico ordinare la demolizione di un quid che, allo stato attuale, risulta conforme alla disciplina urbanistica vigente e che pertanto, potrebbe ottenere, a demolizione avvenuta, una nuova concessione».
Nella stessa sentenza in commento, poi, i giudici di palazzo Spada hanno osservato come in caso di provvedimento plurimotivato il rigetto della doglianza tesa a contestare una delle ragioni giustificatrici dell'atto lesivo comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle censure ulteriori volte a contestare le altre ragioni giustificatrici dell'atto medesimo, atteso che, seppur tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente a ottenere l'annullamento del provvedimento lesivo, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente e legittimo (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIIl giudice può adeguare l'onorario. Discrepanze nella parcella dell'avvocato.
Nel caso in cui il valore della causa risulti essere manifestamente diverso da quello indicato dal codice di procedura civile, il giudice avrà un generale potere discrezionale per adeguare la misura dell'onorario all'effettiva importanza della prestazione.

Lo hanno affermato i giudici della II Sez. sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza 15.07.2016 n. 14539.
Il thema decidendum prendeva le mosse da un ricorso al tribunale col quale l'avvocato Tizio chiedeva ingiungersi al «Consorzio Alfa» il pagamento di una somma di denaro oltre interessi maturati e maturandi e spese della procedura monitoria.
Esponeva che aveva svolto attività professionale su incarico e per conto del «Consorzio» nel giudizio che il «Raggruppamento Beta» spa aveva intrapreso nei confronti dello stesso «Consorzio» onde ottenerne la condanna al risarcimento di asseriti danni quantificati; che, benché sollecitata, controparte non aveva provveduto al pagamento delle spettanze.
Il «Consorzio» proponeva opposizione. Costituitosi, il ricorrente invocava a sua volta il rigetto dell'opposizione.
Rappresentava che a fronte di una richiesta di risarcimento danni il «Consorzio» era rimasto soccombente per la minor somma.
Disposta la trasformazione del rito, con ordinanza il tribunale revocava l'ingiunzione opposta; condannava l'opponente a corrispondere la minor somma per diritti e per onorari, oltre rimborso forfetario, Iva, cassa ed interessi; compensava integralmente le spese del procedimento.
Osservava il tribunale che era da applicare l'art. 6 della tariffa civile secondo il quale: «nella liquidazione degli onorari a carico del cliente può aversi riguardo al valore effettivo della controversia quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile»; che invero nella fattispecie era «manifesta la sproporzione tra il valore indicato nel petitum dell'atto di citazione introduttivo del giudizio civile nel quale l'avvocato ha prestato la propria attività professionale in favore del Consorzio (...) e il valore del credito effettivamente liquidato dal Tribunale all'esito del giudizio in favore della parte attrice» (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:  (a) le istanze di accesso riguardano pratiche edilizie nelle quali il ricorrente ha, rispettivamente, la qualifica di controinteressato (sanatoria di abusi commessi dal proprietario confinante) e la qualifica di destinatario (ordinanza di sospensione di lavori abusivi propri).
In entrambi i casi il ricorrente è legittimato ad accedere all’intera documentazione (tecnica e amministrativa) per difendere i propri interessi sostanziali (tutela nei confronti delle opere invasive del vicino; salvaguardia delle opere eseguite nel proprio edificio);
   (b) l’oggetto del diritto di accesso non è limitato ai provvedimenti finali ma coinvolge tutti gli atti endoprocedimentali, comunque denominati o classificati dagli uffici comunali. Sono quindi compresi, a titolo esemplificativo, gli accertamenti, le ispezioni, le relazioni tecniche, le direttive e le comunicazioni tra uffici, e anche gli atti non formati dall’amministrazione, qualora siano utilizzati o nominati nel procedimento, come gli esposti provenienti dai privati e le consulenze chieste a professionisti esterni;
   (c) nel rispetto dei principi generali fissati dall’art. 24, commi 6 e 7, della legge 07.08.1990 n. 241, la sottrazione all’accesso deve essere giustificata dall’esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificati (epistolari, sanitari, professionali, finanziari, industriali, commerciali).
L’attività repressiva degli abusi edilizi non interferisce normalmente con dati o interessi di questo tipo, e dunque si deve ritenere integralmente accessibile, fermo restando l’obbligo di oscurare i punti della documentazione che rivelino incidentalmente qualcuna delle predette informazioni;
   (d) le disposizioni dei regolamenti comunali sull’accesso che stabiliscono limiti più rigorosi sono illegittime, e devono essere disapplicate, in quanto contrastanti con l’obbligo di trasparenza dell’amministrazione e con il diritto dei privati ad acquisire ogni documento amministrativo in relazione al quale venga dimostrato un interesse attuale;
   (e) il fatto che sulle pratiche edilizie siano in corso indagini penali non trasforma la natura dei documenti, e non trasmette agli stessi un vincolo di segretezza. L’abuso edilizio riguarda la realtà materiale dei lavori eseguiti e non il riflesso di tali lavori riprodotto nella documentazione amministrativa, la quale dunque rimane pubblica e accessibile durante le indagini penali esattamente come in origine.
Gli adempimenti in sede penale procedono in modo indipendente, anche con un’autonoma valutazione degli atti amministrativi, ma non ostacolano il diritto di difesa dei privati nei confronti dell’amministrazione o dei terzi;
   (f) nel caso in esame, oltretutto, l’accesso è stato negato (per una parte della documentazione) anche dopo che la Procura della Repubblica di Brescia aveva dato il proprio nulla-osta, ossia quando non poteva più esservi alcun dubbio sull’assenza di profili di riservatezza;
   (g) l’istanza di accesso non può essere respinta per genericità quando il privato non sia in grado di elencare puntualmente i documenti di proprio interesse. Occorre tenere distinta l’asimmetria informativa dall’accesso esplorativo. La parte che dispone di minori informazioni, ossia il privato, ha soltanto l’onere di chiarire (con una descrizione priva di tecnicismi) l’oggetto sostanziale su cui intende raccogliere le informazioni contenute nei documenti amministrativi.
Spetta poi alla parte che possiede le maggiori informazioni, ossia agli uffici amministrativi, interpretare correttamente e lealmente le indicazioni fornite dal privato, rendendo agevole l’individuazione e l’acquisizione dei documenti rilevanti;
   (h) nello specifico, questa forma di collaborazione è mancata. Al ricorrente è stato chiesto di precisare i documenti con un dettaglio oggettivamente inesigibile, ed è stata imposta una durata del procedimento di accesso irragionevole e del tutto sproporzionata.
Anche l’interlocuzione con gli uffici è stata resa difficile, a causa del ripetuto utilizzo della formula dell’incompetenza dell’addetto allo sportello. Questo comportamento contraddice uno dei principi dell’attuale organizzazione amministrativa, ossia l’obbligo di mettere in relazione i cittadini con un funzionario investito del potere di rispondere direttamente alle istanze presentate.

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... per l'accesso agli atti richiesti con istanza pervenuta al Comune il 19.12.2015, e negati con provvedimento del segretario generale, responsabile dell’Area Tecnico-Manutentiva, del 12.01.2016;
...
1. Il ricorrente Mi.Za. è proprietario di un edificio residenziale situato nel Comune di Marone, in località ... (mappali n. 461-468-469-470/p-1415). Il fabbricato confina (in parte in aderenza) con l’edificio residenziale della controinteressata Ma.La.Za. (mappali n. 467-2870). I due edifici hanno una corte in comune (mappale n. 466). L’area è classificata in zona A (Nuclei di antica formazione).
2. Tra il ricorrente e la controinteressata sono insorte due controversie civilistiche riguardanti, rispettivamente, la mancata osservanza delle distanze legali (in un intervento di ristrutturazione eseguito dalla controinteressata) e la proprietà della corte comune.
3. In data 23.02.2015 il segretario generale, operando come responsabile dell’Area Tecnico-Manutentiva, ha rilasciato alla controinteressata un permesso di costruire in sanatoria, relativo alle opere descritte nell’ordinanza di demolizione n. 68/2014. Tali opere (realizzate sul mappale n. 467) erano state segnalate come abusive dal ricorrente, ed erano fino a poco tempo prima oggetto di un tentativo di composizione bonaria tra il ricorrente, da un lato, e la controinteressata e altri soggetti dall’altro.
4. Ritenendo che l’accertamento di conformità fosse in contrasto con la disciplina urbanistica dei nuclei di antica formazione, il ricorrente ha formulato istanza di accesso in data 05.03.2015, chiedendo copia del permesso di costruire in sanatoria, dell’ordinanza di demolizione n. 68/2014, e di tutta la documentazione tecnica relativa a tali provvedimenti.
5. Il segretario generale, con nota del 12.03.2015, ha sospeso l’esame dell’istanza, rappresentando la necessità di ottenere il nulla-osta dell’autorità giudiziaria, in quanto era stata avviata un’indagine penale sugli abusi edilizi. Contestualmente, il segretario generale ha invitato il ricorrente a descrivere meglio gli atti richiesti, per poter formulare la domanda di nulla-osta all’autorità giudiziaria.
6. Il ricorrente, tramite il tecnico di fiducia, ha replicato, in data 02.04.2015, di non essere in grado di descrivere gli atti senza averli prima potuti visionare. In data 13.04.2015 il tecnico di fiducia del ricorrente ha comunque fornito una descrizione più ampia degli atti che verosimilmente potevano far parte della pratica della sanatoria edilizia.
7. Un sollecito è stato inviato dal legale del ricorrente in data 30.04.2015.
8. Il segretario generale ha chiesto il nulla-osta alla Procura della Repubblica di Brescia con nota del 06.05.2015 (“chiede a codesta Autorità Giudiziaria di esprimere il proprio parere circa l’opportunità e l’ammissibilità giuridica [dell’accesso] a detti atti”).
9. Poco dopo, il Comune, con ordinanza del segretario generale n. 30 del 30.07.2015, ha sospeso i lavori che il ricorrente stava eseguendo all’interno e all’esterno dell’edificio di proprietà. L’ordinanza fa riferimento alle difformità dai titoli edilizi accertate dai funzionari comunali nei sopralluoghi eseguiti nei mesi di marzo, aprile e luglio 2015. Questa vicenda si è poi sviluppata con l’adozione da parte del segretario generale dell’ordinanza n. 35 del 04.09.2015, che ha ingiunto al ricorrente di rimuovere le opere abusive. Contro l’ordine di demolizione il ricorrente ha proposto impugnazione davanti al TAR Brescia (ricorso n. 2411/2015).
10. In data 31.07.2015 il tecnico di fiducia del ricorrente ha chiesto copia dell’ordinanza di sospensione n. 30/2015 e dei presupposti verbali di sopralluogo.
11. A fronte dell’inerzia degli uffici comunali, il legale del ricorrente ha inviato un sollecito in data 25.08.2015. Il tecnico di fiducia ha reiterato l’istanza di accesso in data 26.08.2015.
12. Il tecnico comunale, in una relazione del 02.09.2015 indirizzata al sindaco, si è dichiarato incompetente a rilasciare copia di quanto richiesto, in mancanza di una formale autorizzazione del segretario comunale.
13. Il segretario comunale, in data 08.09.2015, ha chiesto il nulla-osta della Procura della Repubblica di Brescia anche a proposito dell’istanza di accesso del 31.07.2015.
14. Dopo che la Procura ha concesso il nulla-osta relativamente a questa seconda istanza di accesso (17.09.2015), il segretario generale, con nota del 25.09.2015, ha invitato il tecnico di fiducia del ricorrente a ritirare la documentazione richiesta (verbali di sopralluogo).
15. A questo punto, il legale del ricorrente, con nota del 28.09.2015, si è attivato direttamente presso la Procura, chiedendo il nulla-osta anche per la prima istanza di accesso, ossia quella formulata ancora il 05.03.2015, riguardante la sanatoria degli abusi edilizi della controinteressata. La Procura, in data 20.10.2015, ha concesso il nulla-osta, confermando inoltre quello già rilasciato al Comune il 17.09.2015 per l’istanza di accesso riguardante i presunti abusi del ricorrente.
16. Il tentativo del ricorrente di ottenere copia di quanto richiesto è stato però frustrato dalle nuove resistenze del tecnico comunale, il quale anche in data 22.10.2015 si è dichiarato incompetente in mancanza di specifica autorizzazione del segretario generale. L’unico atto autorizzativo disponibile era la citata nota del 25.09.2015, relativa alla seconda istanza di accesso (v. relazione del tecnico comunale del 26.10.2015 indirizzata al sindaco). Il ricorrente si è però rifiutato di prestare acquiescenza a un accesso parziale (v. dichiarazioni verbalizzate dalla Polizia Locale il 22.10.2015).
17. Il legale del ricorrente ha quindi fatto pervenire un’ulteriore diffida al Comune in data 19.12.2015.
18. Rispondendo alla diffida, il segretario generale, con provvedimento del 12.01.2016, ha negato l’accesso, affermando che “la richiesta avanzata riguarda atti endoprocedurali, in quanto trattasi di atti istruttori interni di natura riservata”.
19. Il ricorrente ha quindi proposto l’azione di accesso ex art. 116 cpa, con atto notificato il 16.02.2016 e depositato il 24.02.2016.
20. Il Comune non si è costituito in giudizio. Si è invece costituito personalmente il segretario generale, chiedendo la reiezione del ricorso.
21. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
   (a) le istanze di accesso riguardano pratiche edilizie nelle quali il ricorrente ha, rispettivamente, la qualifica di controinteressato (sanatoria di abusi commessi dal proprietario confinante) e la qualifica di destinatario (ordinanza di sospensione di lavori abusivi propri).
In entrambi i casi il ricorrente è legittimato ad accedere all’intera documentazione (tecnica e amministrativa) per difendere i propri interessi sostanziali (tutela nei confronti delle opere invasive del vicino; salvaguardia delle opere eseguite nel proprio edificio);
   (b) l’oggetto del diritto di accesso non è limitato ai provvedimenti finali ma coinvolge tutti gli atti endoprocedimentali, comunque denominati o classificati dagli uffici comunali. Sono quindi compresi, a titolo esemplificativo, gli accertamenti, le ispezioni, le relazioni tecniche, le direttive e le comunicazioni tra uffici, e anche gli atti non formati dall’amministrazione, qualora siano utilizzati o nominati nel procedimento, come gli esposti provenienti dai privati e le consulenze chieste a professionisti esterni;
   (c) nel rispetto dei principi generali fissati dall’art. 24, commi 6 e 7, della legge 07.08.1990 n. 241, la sottrazione all’accesso deve essere giustificata dall’esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificati (epistolari, sanitari, professionali, finanziari, industriali, commerciali).
L’attività repressiva degli abusi edilizi non interferisce normalmente con dati o interessi di questo tipo, e dunque si deve ritenere integralmente accessibile, fermo restando l’obbligo di oscurare i punti della documentazione che rivelino incidentalmente qualcuna delle predette informazioni;
   (d) le disposizioni dei regolamenti comunali sull’accesso che stabiliscono limiti più rigorosi sono illegittime, e devono essere disapplicate, in quanto contrastanti con l’obbligo di trasparenza dell’amministrazione e con il diritto dei privati ad acquisire ogni documento amministrativo in relazione al quale venga dimostrato un interesse attuale;
   (e) il fatto che sulle pratiche edilizie siano in corso indagini penali non trasforma la natura dei documenti, e non trasmette agli stessi un vincolo di segretezza. L’abuso edilizio riguarda la realtà materiale dei lavori eseguiti e non il riflesso di tali lavori riprodotto nella documentazione amministrativa, la quale dunque rimane pubblica e accessibile durante le indagini penali esattamente come in origine.
Gli adempimenti in sede penale procedono in modo indipendente, anche con un’autonoma valutazione degli atti amministrativi, ma non ostacolano il diritto di difesa dei privati nei confronti dell’amministrazione o dei terzi;
   (f) nel caso in esame, oltretutto, l’accesso è stato negato (per una parte della documentazione) anche dopo che la Procura della Repubblica di Brescia aveva dato il proprio nulla-osta, ossia quando non poteva più esservi alcun dubbio sull’assenza di profili di riservatezza;
   (g) l’istanza di accesso non può essere respinta per genericità quando il privato non sia in grado di elencare puntualmente i documenti di proprio interesse. Occorre tenere distinta l’asimmetria informativa dall’accesso esplorativo. La parte che dispone di minori informazioni, ossia il privato, ha soltanto l’onere di chiarire (con una descrizione priva di tecnicismi) l’oggetto sostanziale su cui intende raccogliere le informazioni contenute nei documenti amministrativi.
Spetta poi alla parte che possiede le maggiori informazioni, ossia agli uffici amministrativi, interpretare correttamente e lealmente le indicazioni fornite dal privato, rendendo agevole l’individuazione e l’acquisizione dei documenti rilevanti;
   (h) nello specifico, questa forma di collaborazione è mancata. Al ricorrente è stato chiesto di precisare i documenti con un dettaglio oggettivamente inesigibile, ed è stata imposta una durata del procedimento di accesso irragionevole e del tutto sproporzionata.
Anche l’interlocuzione con gli uffici è stata resa difficile, a causa del ripetuto utilizzo della formula dell’incompetenza dell’addetto allo sportello. Questo comportamento contraddice uno dei principi dell’attuale organizzazione amministrativa, ossia l’obbligo di mettere in relazione i cittadini con un funzionario investito del potere di rispondere direttamente alle istanze presentate.
22. In conclusione, il ricorso deve essere accolto.
23. La pronuncia comporta, da un lato, l’accertamento dell’illegittimità del diniego opposto dal segretario generale, e dall’altro la condanna del Comune alla consegna di copia di tutta la documentazione relativa alle istanze di accesso presentate dal ricorrente.
24. Per tale adempimento è fissato il termine di 20 giorni dal deposito della presente sentenza. Preliminarmente, nel termine di 10 giorni dal deposito della presente sentenza, gli uffici comunali faranno pervenire al ricorrente una nota con la quantificazione delle spese di riproduzione e l’indicazione delle modalità di pagamento.
È facoltà del ricorrente chiedere, entro 20 giorni dalla consegna della documentazione, un appuntamento presso gli uffici comunali per effettuare visure o approfondimenti, in particolare sugli atti eventualmente citati in quelli consegnati in copia.
25. Le spese seguono la soccombenza, e sono liquidate in € 2.500, oltre agli oneri di legge.
26. Il contributo unificato è a carico dell’amministrazione ai sensi dell’art. 13 comma 6-bis.1 del DPR 30.05.2002 n. 115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 13.07.2016 n. 994 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIScuola senza Imu solo se non ci guadagna su. ISTITUTI RELIGIOSI/ Commissione tributaria Taranto.
I criteri previsti per l'Imu dal decreto ministeriale che fissa i requisiti per gli enti non commerciali per fruire dell'esenzione si applicano anche all'Ici. Tuttavia, al di là del quantum richiesto per le rette scolastiche, un istituto religioso che svolge attività didattica ha diritto all'esenzione Ici, Imu e Tasi se le entrate servono solo a coprire i costi di gestione e raggiungere il pareggio di bilancio.
Per gli istituti religiosi che svolgono esclusivamente attività di insegnamento, dunque, non ha alcuna rilevanza accertare se la retta versata dagli alunni sia meramente simbolica oppure copra le spese.
L'importante è che l'attività sia svolta senza fine di lucro.

È quanto ha affermato la commissione tributaria provinciale di Taranto, III Sez., con la sentenza 11.07.2016 n. 1679.
Secondo i giudici tributari, l'ente religioso possiede i requisiti per lo svolgimento dell'attività didattica con modalità non commerciali «così come interpretati anche dal decreto del Mef n. 200/2012». Il pagamento di una retta da parte degli alunni che frequentano i corsi scolastici «non trasforma affatto l'attività da non commerciale a commerciale, stante l'assenza di uno scopo di lucro». Le entrate devono almeno coprire le spese per evitare che l'attività sia in perdita.
Pertanto, ricorda la commissione, per gli istituti religiosi che svolgono «esclusivamente attività di insegnamento e/o di oratorio, non ha nemmeno alcuna rilevanza accertare se la retta versata dagli alunni sia meramente simbolica oppure copra le spese (personale, utenze...)».
La Cassazione (sentenza 14225/2015), invece, sulla questione ha assunto una posizione diversa, sostenendo che le scuole paritarie gestite da un ente ecclesiastico sono soggette al pagamento dell'Ici, e quindi anche dell'Imu e della Tasi, se gli utenti pagano un corrispettivo, nonostante le rette richieste siano modeste e la gestione operi in perdita.
L'attività didattica non si può ritenere svolta in forma non commerciale, ancorché si tratti di un ente religioso, poiché non è a titolo gratuito. Per integrare il fine di lucro è sufficiente che con i ricavi si tenda a perseguire il pareggio di bilancio.
Per i giudici di piazza Cavour, l'attività didattica esercitata dall'ente religioso rientra tra quelle esenti, ma non è svolta in forma non commerciale. In realtà, se per la scuola paritaria gli utenti pagano un corrispettivo, anche qualora la gestione operi in perdita, l'agevolazione non può essere riconosciuta. E per integrare il fine di lucro è sufficiente l'idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio.
Ha inoltre chiarito (sentenza 4342/2015) che le disposizioni sull'Imu non sono applicabili all'Ici per l'esenzione degli immobili posseduti dagli enti non commerciali. L'evoluzione della norma che riconosce i benefici fiscali per una parte dell'immobile, per esempio, non può avere effetti retroattivi (articolo ItaliaOggi del 04.08.2016).

APPALTIIl delegato dell'impresa fa conoscere l'esclusione. Sentenza del Tar Campania.
Se un delegato dell'impresa che concorre a un appalto presenzia alla seduta in cui viene esclusa l'impresa, i termini per impugnare l'esclusione decorrono da quel momento.

Lo afferma il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la sentenza 08.07.2016 n. 3487 relativamente a una gara per l'affidamento del servizio di manutenzione e custodia del cimitero comunale.
L'affermazione del collegio campano poggia sul presupposto che la presenza di un delegato dell'impresa concorrente nella seduta in cui la commissione giudicatrice aveva deciso l'esclusione comporta la piena conoscenza dell'atto lesivo ai fini della decorrenza del termine di legge per l'impugnazione, nel caso concreto la piena conoscenza dell'atto di estromissione della ditta ricorrente era da ricondurre all'08.03.2016, data in cui l'impresa aveva presenziato alle operazioni di gara con un proprio rappresentante il quale era stato direttamente informato delle ragioni dell'espulsione e così messo in condizione di contestarne il fondamento. Prova ne sia (della conoscenza) che il giorno successivo era stata presentata anche la richiesta di revoca del provvedimento.
I giudici non possono quindi che respingere il ricorso contro l'esclusione presentato il 6 giugno. Va segnalato che oggi il nuovo codice dei contratti pubblici, all'articolo 204, comma 1, lettera b), prescrive che il ricorso contro l'esclusione va proposto nei trenta giorni decorrenti dalla pubblicazione del provvedimento «sul profilo della stazione appaltante».
I giudici hanno poi ritenuto inammissibile anche la censura relativa alla posizione della ditta aggiudicataria di cui il soggetto escluso (ricorrente) aveva eccepito la presunta carenza di uno dei requisiti di partecipazione alla selezione. In particolare era stato contestato nel ricorso l'illegittima ammissione alla gara della ditta aggiudicataria in quanto carente di idonea iscrizione camerale (per la carenza dell'iscrizione per l'attività di custodia cimiteriale).
In questo caso il Tar richiama un consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui il soggetto definitivamente escluso dalla gara non è legittimato ad impugnare le ulteriori fasi della procedura concorsuale perché versa in condizioni analoghe a chi ne è rimasto estraneo (articolo ItaliaOggi del 05.08.2016).
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MASSIMA
Ritenuto:
- che, per costante giurisprudenza (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 15.12.2014 n. 6156),
quanto alla decorrenza del termine decadenziale per impugnare un atto di esclusione dalla gara, assume rilievo il momento in cui il rappresentante dell’impresa ha avuto conoscenza della sua esclusione nel corso della seduta pubblica alla quale egli partecipava in base a delega e con presenza fatta constare a verbale, posto che la presenza di un delegato della concorrente nella seduta in cui la commissione giudicatrice ha deciso l’esclusione comporta ex se la piena conoscenza dell’atto lesivo ai fini della decorrenza del termine di legge per l’impugnazione suddetta;
- che nella fattispecie, pertanto, la piena conoscenza dell’atto di estromissione della ditta ricorrente dalla procedura selettiva va fatta risalire all’08.03.2016, avendo la stessa presenziato alle operazioni di gara con un proprio rappresentante –appositamente delegato–, il quale è stato direttamente informato delle ragioni dell’espulsione e così messo in condizione di contestarne il fondamento, come si evince anche dalla richiesta di revoca presentata il giorno successivo;
- che tardiva, di conseguenza, si presenta l’impugnativa dell’atto di esclusione, immediatamente lesivo, notificata all’Amministrazione comunale solo il 06.06.2016;
- che, in ragione di ciò, inammissibile risulta l’ulteriore censura relativa alla posizione della ditta aggiudicataria –circa la presunta carenza di uno dei requisiti di partecipazione alla selezione–, alla luce del consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui
il soggetto definitivamente escluso dalla gara non è legittimato ad impugnare le ulteriori fasi della procedura concorsuale perché versa in condizioni analoghe a chi ne è rimasto estraneo (v., da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 29.04.2016 n. 1650);

ATTI AMMINISTRATIVIE-mail, chi non legge ne risponde. Sentenza sugli imprenditori e la posta certificata (pec).
La responsabilità per la mancata lettura di una comunicazione o notifica ricevuta a mezzo Pec (Posta elettronica certificata) è da attribuire all'imprenditore, se conseguente ad una sua carenza relativamente alla manutenzione e controllo della casella di posta. Ne consegue che non è immune da censure il soggetto (imprenditore) che non legga la Pec in quanto pervenuta erroneamente nella posta indesiderata. Ciò dal momento che è da considerarsi normale diligenza e norma di prudenza verificare tutti i messaggi, anche quelli archiviati come indesiderati, e dotarsi di adeguati sistemi anti intrusione.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione, VI Sez. civile nella sentenza 07.07.2016 n. 13917 (pres. V. Ragonesi, rel. F.A. Genovese).
La vicenda aveva origine dal ricorso avverso una sentenza di fallimento promosso da un imprenditore, il quale sosteneva di non avere potuto prendere visione della notificazione dell'avviso di udienza in quanto la comunicazione, inviata appunto a mezzo Pec dalla cancelleria del tribunale avanti al quale era in corso il procedimento, sarebbe stata archiviata automaticamente nella posta indesiderata per un mal funzionamento del programma antivirus.
La Corte ha respinto il ricorso affermando che ai fini di una notifica telematica occorre avere riguardo unicamente alla sequenza procedimentale stabilita dalla legge e quindi dal lato del mittente alla ricevuta di accettazione, che prova l'avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata e per quanto riguarda il destinatario alla ricevuta di consegna, che dimostra che il messaggio di posta elettronica certificata è pervenuto all'indirizzo dichiarato dal destinatario e ne certifica il momento dell'avvenuta ricezione.
La Corte di cassazione ha aggiunto che è onere della parte che eserciti l'attività di impresa non solo munirsi di un indirizzo Pec, ma anche assicurarsi del corretto funzionamento dello stesso, senza che si possa ritenere questo un onere che richieda una diligenza straordinaria.
La Corte, infine, tratteggia l'onere per l'impresa, e il personale a ciò dedicato, di assicurarsi della la corretta manutenzione e controllo della casella di posta elettronica certificata. Trattasi di un onere cui non è possibile derogare (articolo ItaliaOggi del 02.08.2016).
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MASSIMA
- che, infatti,
la cattiva manutenzione della posta della destinataria, presso la cui casella si sarebbero accumulate ben 1.500 messaggi nella casella «posta indesiderata», assieme a numerose e-mail accantonate in modalità «spam», avrebbero dimostrato, oltre che una cattiva manutenzione per difetto di un valido antivirus, anche un completo disinteresse della destinataria sia rispetto alla posta in arrivo sia riguardo alla vigilanza sul funzionamento del proprio programma gestionale;
...
   c) ad esse, non possono opporsi, come fa la ricorrente, esigenze di sostanziale migliore comodità, per la debitrice, della ricezione della notifica in via ordinaria e tradizionale (e cioè a mezzo dell'ufficiale giudiziario o a mezzo della posta in formato cartaceo) in quanto
è onere della parte che eserciti l'attività d'impresa, normativamente obbligata [ex art. 16, comma 6, del decreto-legge 29.11.2008, n. 185, convertito nella legge 28.01.2009, n. 2; ex lege 28.01.2009, n. 2; ex art. 5 Decreto Legge n. 179/2012 convertito nella Legge n. 221/2012] a munirsi di un indirizzo PEC e ad assicurarsi del corretto funzionamento della propria casella postale certificata, se del caso delegando tale controllo, manutenzione o assistenza a persone esperte del ramo (i cui costi, palesemente inerenti all'attività dell'impresa, sono in qualche modo riconducibili alle spese rilevanti ed afferenti al proprio bilancio di esercizio), e senza che tali problematiche possano integrare né oneri straordinari di diligenza (secondo mezzo) né un serio sospetto di illegittimità costituzionale della relativa disciplina (quarto mezzo), nella parte in cui non prevede una nuova notifica dell'avviso di convocazione che si renderebbe certamente necessario ove si registrasse un'anomalia nella comunicazione telematica dell'avviso, proprio come prevede l'ultima parte del terzo comma dell'art. 15 LF che, in tal modo, allontana l'ombra dell'illegittimità costituzionale di siffatto sistema di notificazione stabilendo i casi in cui debba procedersi attraverso i mezzi tradizionali di consegna dell'avviso;
   d) che, infatti, pur non potendosi escludere in linea di massima ed in astratto che, pur non registrando il sistema di ricezione dell'invio dell'avviso alcuna anomalia, possa darsi un'ipotesi di forza maggiore (vis cui resisti non potest), tale caso è comunque da escludersi nella specie, proprio in ragione delle allegazioni della stessa parte, poiché l'evenienza si rende ascrivibile a un non diligente utilizzo della posta elettronica, ricevuta dalla società in bonis;
   e) che infatti
non appare immune da censure il caso di colui che, come si ammette da parte della stessa ricorrente, non controlli il contenuto delle e-mail pervenute nella casella della posta elettronica, sia pure archiviate fra quelle considerate dal proprio programma gestionale come
«posta indesiderata», essendo norma di prudenza eseguire anche tale tipo di verifica, com'è regola di una diligente prassi aziendale;
   f) che, peraltro,
l'obbligo di diligenza da parte dell'impresa dotata di una casella PEC si estende sia all'utilizzo dei dispositivi di vigilanza e di controllo, dotati di misure ami intrusione, sia al controllo di tutta la posta in arrivo, quand'anche indesiderata;

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso, la valutazione è in astratto.
La valutazione che la pubblica amministrazione è chiamata a svolgere circa la sussistenza o meno dell'interesse all'accesso deve essere effettuata «in astratto» e senza alcun apprezzamento circa la validità probatoria della documentazione richiesta o la fondatezza della domanda giudiziale eventualmente proponibile.

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del TAR Puglia-Bari con la sentenza 07.07.2016 n. 895.
Pertanto, l'accesso, in quanto strumentale ad imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa (art. 22, comma 2, legge n. 241/1990) nei confronti sia di titolari di posizioni giuridiche qualificate che di portatori di interessi diffusi e collettivi (art. 4, dpr n. 184/2006), dovrà in ogni caso essere assicurato a prescindere dall'effettiva utilità che il richiedente ne possa trarre e, dunque, risulterà essere ammissibile anche nel caso in cui siano decorsi i termini per l'impugnazione o se la pretesa sostanziale che sottende l'accesso risulti infondata.
Nel caso sottoposto all'attenzione del Tar con ricorso la Tizio s.p.a. impugnava la nota inviata dall'amministrazione intimata in riscontro alla propria istanza di accesso e chiedeva che il tribunale amministrativo ordinasse all'Amministrazione l'esibizione dei documenti richiesti.
I giudici amministrativi baresi hanno, altresì osservato che da quanto detto sopra discende che l'esercizio del diritto di accesso non sarà assolutamente precluso nemmeno dall'inoppugnabilità degli atti oggetto dell'istanza di ostensione, purché l'accesso non si trasformi in uno strumento di controllo generalizzato e di «ispezione popolare».
Inoltre nella sentenza in commento si è trattato anche il tema dell'interesse alla riservatezza osservando che esso è notoriamente destinato a recedere quando l'istanza di accesso venga esercitata per la diretta difesa giudiziale di un interesse non emulativo ma giuridicamente e concretamente apprezzabile.
Inoltre, è consolidato l'orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale «la partecipazione ad una gara comporta che la documentazione, come quella relativa ai requisiti di partecipazione di un concorrente fuoriesca dalla sfera del suo riservato dominio, per porsi su un piano di valutazione comparativa rispetto a quella depositata da altri concorrenti (ex multis, cfr. Tar Basilicata, sez. I sent. n. 905 del 27/12/2014)» (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
4 - Il Collegio ritiene che il ricorso in esame meriti accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
La ricorrente ha partecipato ad una gara d’appalto e ha impugnato gli atti ad essa relativi.
4.a.-
Gli atti di cui si chiede l’ostensione sono strumentali alla verifica del possesso della controinteressata dei requisiti di partecipazione alla gara in questione.
Sussiste, pertanto, la legittimazione al ricorso, in base al combinato disposto dell’art. 24 della l. n. 241 del 1990 e dell’art. 13 del d.lgs. n. 163 del 2006, nonché in base ai principi affermati dalle Adunanze Plenarie n. 4 del 2011 e n. 9 del 2014.

Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale (così, sul punto, ad esempio, TAR Toscana, Sez. I, sent. n. 442 del 21.03.2013),
la valutazione che la pubblica amministrazione è chiamata a svolgere circa la sussistenza o meno dell'interesse all'accesso deve essere effettuata “in astratto” e senza alcun apprezzamento circa la validità probatoria della documentazione richiesta o la fondatezza della domanda giudiziale eventualmente proponibile. Ne discende che l’esercizio del diritto di accesso non è precluso nemmeno dall'inoppugnabilità degli atti oggetto dell'istanza di ostensione, purché l'accesso non si trasformi in uno strumento di controllo generalizzato e di “ispezione popolare”.
Né è ostativo all’accoglimento dell’odierno ricorso il fatto che il riferito giudizio pendente sia stato definito dalla Sezione I di questo TAR con la suindicata sentenza n. 789 del 23.06.2016, che allo stato non è, peraltro, coperta dal giudicato.
Deve ritenersi che permanga in capo alla ricorrente l’interesse all’accesso in quanto sulla scorta di una valutazione prognostica, allo stato attuale non può escludersi sotto un profilo oggettivo l’utilità, ricavabile dalla conoscenza degli atti di cui all’istanza, per le esigenze difensive perseguite.
L'accesso, in quanto strumentale ad imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa (art. 22, comma 2, L. n. 241/1990) nei confronti sia di titolari di posizioni giuridiche qualificate che di portatori di interessi diffusi e collettivi (art. 4 DPR n. 184/2006), deve comunque essere assicurato a prescindere dall'effettiva utilità che il richiedente ne possa trarre e, dunque, è ammissibile anche quando siano decorsi i termini per l'impugnazione o se la pretesa sostanziale che sottende l'accesso sia infondata.
Ne deriva che l’argomento opposto dall’amministrazione intimata nella nota gravata non è idoneo a paralizzare l’istanza di accesso.
4.b.-
Quanto all’interesse alla riservatezza (con riferimento specifico alla controinteressata intimata e non costituita in giudizio) occorre rilevare che esso è notoriamente destinato a recedere quando l’istanza di accesso venga esercitato per la diretta difesa giudiziale di un interesse, come nella fattispecie in esame, non emulativo ma giuridicamente e concretamente apprezzabile. Inoltre, è consolidato l’orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale la partecipazione ad una gara comporta che la documentazione, come quella relativa ai requisiti di partecipazione di un concorrente fuoriesca dalla sfera del suo riservato dominio, per porsi su un piano di valutazione comparativa rispetto a quella depositata da altri concorrenti (ex multis, cfr TAR Basilicata, sez. I sent. n. 905 del 27.12.2014).
4.c.- Ne consegue che il ricorso deve trovare accoglimento, con obbligo a carico dell’Amministrazione di attivare il procedimento per il rilascio di tutti documenti oggetto dell’istanza, i quali potranno essere messi a disposizione della ricorrente.
L’accesso, mediante estrazione di copia, andrà consentito entro il termine di trenta giorni decorrente dalla comunicazione, o se anteriore, dalla notificazione della presente decisione.

ESPROPRIAZIONE: - “Non può essere accolta la domanda di retrocessione del bene espropriato ai sensi dell'art. 60, comma 1, l. 25.06.1865 n. 2359 ove l'istante non abbia correttamente assolto l'onere procedimentale -previsto dall'art. 61, comma 3, l. n. 2359, cit. nel caso di inadempienza dell'ente espropriante all'obbligo di pubblicare l'elenco dei beni inservibili- di domandare al prefetto territorialmente competente la dichiarazione di inservibilità dei beni all'opera pubblica.
Infatti, il diritto alla retrocessione parziale dei beni non utilizzati per la realizzazione dell'opera pubblica nasce solo se ed in quanto l'amministrazione, con valutazione discrezionale, al cospetto della quale la posizione soggettiva del privato è di interesse legittimo, abbia dichiarato che il fondo non serve più all'opera pubblica”;
- “La richiesta di restituzione di aree comprese nel piano parcellare ma non trasformate integra un'ipotesi di retrocessione parziale, non attuabile ove non sia intervenuta e non sia stata neppure richiesta la dichiarazione di inservibilità da parte dell'amministrazione" .

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Per quanto concerne le domande avanzate dai ricorrenti di declaratoria della decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e conseguentemente dell’inefficacia del decreto di esproprio relativo al terreno de quo, oggetto di esproprio per la realizzazione di una centrale termoelettrica a carbone, si rileva che le domande medesime sono fondate esclusivamente sull’assunto della ricorrente secondo cui non sarebbe stato rispettato dall’Ente espropriante il termine finale per la realizzazione dell’opera, con conseguente decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e conseguente inefficacia del decreto di esproprio.
Tale assunto è espresso nell’atto di citazione di fronte al tribunale civile di Sassari del marzo 1993, nel quale si dà atto che l’espropriazione del bene è avvenuta “…nei termini previsti. Non così è invece accaduto per il rispetto del termine finale per la realizzazione dell’opera. Ai sensi dell’art. 3 del decreto ministeriale del 07.10.1982 e degli artt. 1 e 3 del decreto ministeriale 20.07.1983, nonché i relativi richiami alle norme in vigore il termine fissato nella dichiarazione di pubblica utilità per la realizzazione dell’opera erano il 1988 per la prima sezione e il 1989 per la seconda.”
Precisano altresì i ricorrenti: “Né a quanto è dato sapere vi è stata una proroga di tali termini.”.
Al riguardo, deve prendersi atto che tali termini sono stati invece prorogati -come esattamente eccepito dalla parte resistente- in un primo tempo sino al 31.12.1992 in forza di provvedimento ministeriale del 23.12.1988 e successivamente con decreto ministeriale dell’industria del 16.07.1990 che ha stabilito un’ulteriore proroga dal di 51 mesi per cui il termine per la realizzazione dell’opera scadeva al 15.10.1994, con la conseguenza che al momento della proposizione dell’atto di citazione in questione non erano ancora scaduti i termini in questione.
Nel ricorso in riassunzione dinanzi al Tar Sardegna, depositato in data 15.12.2008, i ricorrenti si limitano a chiedere la “declaratoria di illegittimità e invalidità” del Decreto del Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato del 16.07.1990, o la disapplicazione dello stesso, senza tuttavia avanzare -nel ricorso notificato alle controparti- alcuno specifico motivo di illegittimità del decreto in questione che ha prorogato il termine per la realizzazione dell’opera, per cui la domanda medesima risulta inammissibile, con conseguente rigetto delle domande in esame avanzate dai ricorrenti di declaratoria della decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e conseguentemente dell’inefficacia del decreto di esproprio relativo al terreno de quo.
Per quanto concerne invece l’ulteriore domanda avanzata dai ricorrenti di “retrocessione del terreno della superficie di ha 3.79.40, così come individuato nella relazione di c.t.u. distinto al N.C.T. alla partita 2377 con parte del mappale 30 del foglio 14 del Comune di Sassari - Nurra”, la stessa deve essere disattesa in quanto non risulta essere stato attivato dai ricorrenti il procedimento ai fini della dichiarazione di inservibilità delle aree in questione, quale necessario adempimento al fine di poter ottenere la retrocessione del terreno in questione.
Devono infatti trovare applicazione, anche nel caso di specie, i principi giurisprudenziali secondo cui:
- “Non può essere accolta la domanda di retrocessione del bene espropriato ai sensi dell'art. 60, comma 1, l. 25.06.1865 n. 2359 ove l'istante non abbia correttamente assolto l'onere procedimentale -previsto dall'art. 61, comma 3, l. n. 2359, cit. nel caso di inadempienza dell'ente espropriante all'obbligo di pubblicare l'elenco dei beni inservibili- di domandare al prefetto territorialmente competente la dichiarazione di inservibilità dei beni all'opera pubblica; infatti, il diritto alla retrocessione parziale dei beni non utilizzati per la realizzazione dell'opera pubblica nasce solo se ed in quanto l'amministrazione, con valutazione discrezionale, al cospetto della quale la posizione soggettiva del privato è di interesse legittimo, abbia dichiarato che il fondo non serve più all'opera pubblica” (TAR Lazio–Latina, sez. I, 04.07.2007 n. 478);
- “La richiesta di restituzione di aree comprese nel piano parcellare ma non trasformate integra un'ipotesi di retrocessione parziale, non attuabile ove non sia intervenuta e non sia stata neppure richiesta la dichiarazione di inservibilità da parte dell'amministrazione" (TAR Calabria-Reggio Calabria, 03.02.2003 n. 33).
Fermo restando il rilievo sopra espresso, il collegio ritiene comunque condivisibili anche gli ulteriori rilievi espressi a tale riguardo dalla parte resistente in ordine alla circostanza che il terreno dei ricorrenti risulta comunque utilizzato quale area accessoria e pertinenziale che, in quanto sita a monte del gruppo tecnologico di produzione, è stata oggetto di vasti interventi di livellamento e realizzazione di canalette e risulta “ricompreso in un’area vitale per il funzionamento e la salvaguardia della centrale medesima”.
sso Consulente tecnico d’ufficio che nella propria relazione di perizia del 31.10.2000 afferma che “…il terreno in oggetto oltre ad avere subito una significativa trasformazione fisica, risulta inserito in un contesto più ampio (area di pertinenza della centrale) e come tale, parte di un disegno organico di strade, lotti, recinzioni, cavidotti interrati ecc., funzionali ed interagenti con il resto dell’area di pertinenza. Modificare la destinazione d’uso dell’area in oggetto per un uso agricolo, comporterebbe inevitabilmente lo stravolgimento dell’organizzazione dell’intera area di pertinenza con brusche interruzioni di strade, di recinzioni, modifiche di lotti interni con la costituzione di reliquati inutilizzabili, tagli di cavidotti ecc. In sintesi dall’esame della documentazione fotografica agli atti e alla luce dei sovralluoghi a suo tempo effettuati, l’area in oggetto appare indissolubilmente vincolata al resto dell’area di pertinenza ….omissis….”.
Dalla rilevata inammissibilità e infondatezza delle domande sopra esaminate avanzate dai ricorrenti, consegue il rigetto delle domande di risarcimento del danno avanzate dai medesimi nei confronti di parte resistente.
Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie argomentazioni della parte ricorrente, stante l'infondatezza e inammissibilità delle domande avanzate, il ricorso deve essere in parte dichiarato inammissibile e, nella restante parte, deve essere respinto, sia avuto riguardo alla domande di accertamento e declaratoria, sia avuto riguardo alle domande di risarcimento del danno (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 07.07.2016 n. 579 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIValutazione impatto ambientale/2 Imprescindibile il dato scientifico.
La valutazione di impatto ambientale ha il fine di sensibilizzare l'autorità decidente, attraverso l'apporto di elementi tecnico–scientifici idonei ad evidenziare le ricadute sull'ambiente derivanti dalla realizzazione di una determinata opera, a salvaguardia dell'habitat.

Lo ha ribadito il Consiglio di Stato (Sez. V) con la sentenza 06.07.2016 n. 3000.
A parere dei giudici di palazzo Spada tale valutazione non si limita ad una generica verifica di natura tecnica circa l'astratta compatibilità ambientale, ma porta verso una naturale e complessiva quanto approfondita analisi di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente considerato, per valutare in concreto il sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità socio–economica perseguita (si vedano: Cons. stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 361; 09.01.2014, n. 36).
Inoltre, nella sentenza in commento, si è evidenziato come il procedimento per la Valutazione d'impatto ambientale (Via) e quello per il rilascio dell'Autorizzazione integrata ambientale (Aia) siano procedimenti preordinati verso la realizzazione di momenti accertativi diversi ed autonomi (e possano avere quindi un'autonoma efficacia lesiva, che consente l'impugnazione separata dei rispettivi provvedimenti conclusivi: Cons. stato, sez. V, 26.01.2015, n. 313).
Pertanto a buon diritto si potrebbe negare l'autorizzazione integrata ambientale anche in presenza di una valutazione di impatto ambientale positiva, poiché quest'ultima è di per sé idonea ad esprimere un giudizio definitivo sull'intervento proposto (si veda: Cons. stato, sez. V, 17.10.2012, n. 5295), mentre una valutazione di impatto ambientale negativa va a precludere il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale. Il thema decidendum sul quale i giudici del Consiglio di Stato sono stati chiamati ad esprimersi vedeva la s.r.l. Tizia titolare di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti speciali non pericolosi nel Comune.
Il Tar con sentenza accogliendo il suo ricorso annullava la determinazione con la quale il dirigente del Settore Ambiente, Energie e Aree Protette della Provincia aveva negato, sulla base dei pareri indicati in motivazione e delle risultanze della conferenza di servizi, il rilascio dell'autorizzazione per l'ampliamento della discarica (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
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MASSIMA
6.1.2. Come puntualizzato dalla giurisprudenza,
la valutazione di impatto ambientale ha il fine di sensibilizzare l’autorità decidente, attraverso l’apporto di elementi tecnico–scientifici idonei ad evidenziare le ricadute sull’ambiente derivanti dalla realizzazione di una determinata opera, a salvaguardia dell’habitat (Cons. Stato, sez. V, 17.10.2012, n. 5295; sez. IV, 17.09.2013, n. 4611): essa non si limita ad una generica verifica di natura tecnica circa l’astratta compatibilità ambientale, ma implica una complessiva ed approfondita analisi di tutti gli elementi incidenti sull’ambiente del progetto unitariamente considerato, per valutare in concreto il sacrificio imposto all’ambiente rispetto all’utilità socio–economica perseguita (Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 361; 09.01.2014, n. 36).
...
6.1.3. In ogni caso,
poiché il procedimento per la valutazione d'impatto ambientale (VIA) e quello per il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale (AIA) sono preordinati ad accertamenti diversi ed autonomi (e possano avere quindi un'autonoma efficacia lesiva, che consente l'impugnazione separata dei rispettivi provvedimenti conclusivi: Cons. Stato, sez. V, 26.01.2015, n. 313), ben potrebbe essere negata l’autorizzazione integrata ambientale anche in presenza di una valutazione di impatto ambientale positiva, poiché quest’ultima è di per sé idonea ad esprimere un giudizio definitivo sull’intervento proposto (Cons. Stato, sez. V, 17.10.2012, n. 5295), mentre una valutazione di impatto ambientale negativa preclude il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale.

VARI: Il cliente deve monitorare il commercialista.
La violazione delle norme tributarie, suscettibile di sanzione da parte della legge, richiede che il comportamento addebitato sia posto in essere con dolo, o anche solo con colpa. Il contribuente, a cui venga contestata la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, non può considerarsi esente da colpa per il solo fatto di aver incaricato un professionista delle relative adempienze, dovendo egli dimostrare, al fine di escludere ogni profilo di negligenza, di avere svolto atti diretti a controllare la loro effettiva esecuzione, prova superabile soltanto a fronte di un comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento.

Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con l'ordinanza 05.07.2016 n. 13709.
Nel caso di specie il contribuente deduceva la violazione e falsa applicazione dell'art. 6, comma 3, del dlgs 472/1997, essendo stata dimostrata la colpa del professionista incaricato per la relativa presentazione. La censura, secondo i giudici di legittimità, era però infondata. I giudici affermano infatti che l'affidamento al professionista del mandato a trasmettere per via telematica la dichiarazione all'Agenzia delle entrate non esonera il soggetto obbligato alla dichiarazione fiscale a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto. Anche laddove sia provata la denuncia presentata dalla società e il rinvio a giudizio del professionista autore della condotta criminosa contestata, tali fatti non sarebbero sufficienti a eliminare la responsabilità del contribuente. A prescindere infatti dalle eventuali responsabilità penali o civilistiche, ciò di cui il contribuente è chiamato a rispondere è la responsabilità fiscale di quanto da lui dovuto per l'anno relativamente al quale ha omesso di presentare la dichiarazione. L'intermediario risponderà per le proprie violazioni e sarà sottoposto alle specifiche sanzioni previste; ma queste saranno comunque diverse rispetto a quelle a carico del contribuente, solo soggetto di imposta e solo «referente» di fronte all'Erario. Il contribuente, eventualmente potrà poi esperire azione di responsabilità civile verso il professionista effettivamente inadempiente (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016).
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MASSIMA
Con il terzo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 6 Dlgs. 472/1997 in relazione all'art. 360, n. 3), cpc, non essendosi i giudici di appello pronunciati sull'eccepita illegittimità delle sanzioni applicate per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all'anno 2007, essendo stata allegata la colpa del professionista incaricato per la relativa presentazione.
Pure tale censura appare infondata.
Questa Corte ha già affermato, in generale, con riguardo alla volontarietà del comportamento sanzionabile, che "ai sensi del D.lgs. 472/1997 art. 5,
la violazione delle norme tributarie suscettibile di sanzione da parte della legge richiede che il comportamento addebitato sia posto in essere con dolo o anche colpa; il contribuente a cui venga contestata la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi e l'omessa tenuta delle ss.cc. obbligatorie non può considerarsi esente da colpa per il solo fatto di aver incaricato un professionista delle relative adempienze, dovendo egli altresì allegare e dimostrare, al fine di escludere ogni profilo di negligenza, di avere svolto atti diretti a controllare la loro effettiva esecuzione, prova nel caso concreto superabile soltanto a fronte di un comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento" (Cass. 12473/2010).
La Corte, anche in sede penale, ha confermato il consolidato principio di diritto secondo cui
l'affidamento ad un commercialista del mandato a trasmettere per via telematica la dichiarazione alla competente agenzia delle Entrate non esonera il soggetto obbligato alla dichiarazione fiscale a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto (Cass. 675/2015; 18448/2015; cfr. anche Cass. pen. 16958/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune può rilasciare concessioni edilizie, fatti salvi i diritti di terzi, ma laddove sia a conoscenza, come nella fattispecie, trattandosi di atti (licenza edilizia e convenzione) provenienti dallo stesso Comune e di giudizio reso nei suoi confronti, di situazioni incompatibili facenti capo ad altro soggetto deve tenerne conto –fermo restando che non può dirimere questioni privatistiche- con la conseguenza che il provvedimento di diniego rientra nell’invocata ipotesi di cui all’art. 21-octies.
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II. – Il Collegio ritiene l’appello fondato quanto alla critica volta ad evidenziare l’insussistenza del vizio di carenza istruttoria sul cui rilievo poggia la sentenza gravata.
Il diniego di concessione edilizia è motivato con la considerazione che la volumetria afferente l’area in questione era già stata sfruttata per la realizzazione del programma costruttivo della cooperativa Pro Domo poiché inserita la convenzione di detto programma. In altre parole, il Comune ha ritenuto che il fondo non disponesse della volumetria occorrente alla realizzazione del progetto presentato, in ragione di precedente edificazione realizzata da altro soggetto.
Il Condominio riferisce che la Cooperativa Pro Domo ha ottenuto dal Comune di Palermo licenza edilizia in data 26.02.1976 n. 210 per la realizzazione di sette palazzine per una volumetria complessiva di mc. 45.783.
Dalla stessa esposizione dei fatti contenuta nelle difese degli appellanti emerge che con atto di convenzione del 02.04.1977, debitamente registrato, l’Amministrazione comunale ha concesso alla Cooperativa Pro Domo il diritto di proprietà su un’area comprensiva delle particelle di cui si discute, atta complessivamente alla edificazione di mc. 46.700 circa e che, in seguito alla concessione da parte del Comune, nel 1982, delle stesse tre particelle di cui si discute alla Cooperativa Celo 1, la Cooperativa Pro Domo aveva attivato un contenzioso che aveva visto la soccombenza del Comune e della Cooperativa Celo 1 (sentenza n. 2190/85 del Tar, confermata dal C.G.A. con decisione n. 176/86).
Orbene, il Comune può rilasciare concessioni edilizie, fatti salvi i diritti di terzi, ma laddove sia a conoscenza, come nella fattispecie, trattandosi di atti (licenza edilizia e convenzione) provenienti dallo stesso Comune e di giudizio reso nei suoi confronti, di situazioni incompatibili facenti capo ad altro soggetto deve tenerne conto –fermo restando che non può dirimere questioni privatistiche (tra parti che, entrambe, affermano di aver mantenuto il possesso delle aree)- con la conseguenza che il provvedimento di diniego rientra nell’invocata ipotesi di cui all’art. 21-octies.
A fronte dell’elemento ostativo evidenziato dall’amministrazione, i sigg. Co. non hanno fornito prova che residuasse cubatura sufficiente alla realizzazione dell’edificio progettato.
La riserva dell’amministrazione in ordine all’indagine sulla effettuazione o meno dell’espropriazione del terreno non incide sull’aspetto dell’edificazione realizzata e dunque del già avvenuto sfruttamento di cubatura che giustifica il diniego.
Non giova agli appellati obiettare che la delibera 31.07.1974 prevedeva l’assegnazione alla Cooperativa Pro Domo di un isolato atto alla edificazione di 42.000 mc. di costruzione, in quanto la successiva convenzione del 1977, atto efficace, ha disposto diversamente, includendo le aree in discussione e contemplando maggior cubatura realizzabile. Gli appellanti riferiscono di avere chiesto la retrocessione.
Non ritiene il Collegio che i sopralluoghi disposti dall’amministrazione in corso di giudizio siano sintomatici della carenza dell’istruttoria, effettuata in reazione alle risultanze documentali, in quanto è tesa a verificare aspetti ulteriori attinenti ad eventuali aumenti di volumetria realizzata rispetto a quella autorizzata con la concessione edilizia.
Per le ragioni esposte l’appello va accolto, potendosi dichiarare assorbite le censure non esaminate (C.G.A.R.S., sentenza 05.07.2016 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione impatto ambientale/1 L'Autorizzazione cammina insieme.
La procedura di Via (Valutazione impatto ambientale), non può essere vista come totalmente separata dalla successiva Aia (Autorizzazione integrata ambientale). L'impatto ambientale di un'opera o di un impianto non potrebbe infatti essere compiutamente inquadrato senza prendere in considerazione gli approfondimenti tecnici che conducono al rilascio dell'Aia e alla contestuale formulazione dei limiti relativi alla produzione di inquinanti.
Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del TAR Marche con la sentenza 02.07.2016 n. 429.
I giudici amministrativi marchigiani hanno, altresì, evidenziato come l'Aia rappresenti la sede privilegiata per quanto riguarda la valutazione della conformità agli strumenti programmatori, anche in considerazione del fatto che il dpcm 27.12.1988, stabilisce che la contrarietà ad atti di programmazione non può impedire il rilascio della Via.
Sebbene il Consiglio di stato, con la sentenza 19/03/2012 n. 154, abbia stabilito che, se pure dopo il dlgs n. 128 del 2010, si è giunti ad una nuova formulazione del dlgs. n. 152 del 2006, in particolare dell'articolo 10, volta al massimo coordinamento delle due procedure, secondo i giudici di Ancona emerge tuttavia con la massima chiarezza che è restata ferma la loro diversità di funzione, specificata in particolare nelle lettere b) e c) dell'art. 4, comma 4, del detto decreto legislativo, in quanto orientate, la Via alla verifica del progetto, e l'Aia alla verifica dell'attività riguardo a particolari impianti «salve le disposizioni sulla valutazione di impatto ambientale».
Ed inoltre, nella sentenza in commento, è stato evidenziato come però, in ogni caso, come la Via, anche l'Aia rappresenti uno strumento a carattere preventivo e globale, da rilasciarsi a seguito di un'istruttoria in cui vengono valutati tutti i possibili impatti di una determinata attività sull'ambiente (si veda: Tar Calabria Catanzaro 08.11.2011 n. 1345), così come esplicitamente previsto dall' art. 7, comma 2, del dlgs n. 59 del 2005.
Sul punto, ancora, si è osservato come le considerazioni relative all'urbanistica e agli strumenti di programmazione non risultino essere affatto estranee al procedimento di Via, pur trovando la più approfondita valutazione nella successiva autorizzazione unica (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Cartelle notificate via Pec nulle.
Le cartelle di pagamento notificate via Pec sono nulle. La posta elettronica certificata non offre le garanzie tipiche della raccomandata tradizionale, poiché non contiene l'originale della cartella, ma solo una copia informatica priva di sottoscrizione e attestazione di conformità; inoltre, tale modalità di notificazione non garantisce la piena prova dell'effettiva consegna del documento al destinatario, attestando unicamente l'immissione del documento nella casella Pec, a prescindere da ogni verifica sulla effettiva apertura e lettura del messaggio.

Sono i principi nella sentenza 01.07.2016 n. 992/01/16 della Ctp di Latina (presidente Ventriglia, relatore Gina Antoniani).
Il collegio era chiamato a pronunciarsi su un ricorso proposto contro una intimazione di pagamento notificata via Pec, avente come presupposto delle cartelle di pagamento, talune delle quali notificate con modalità elettronica. La Ctp di Latina ha accolto il ricorso, rilevando determinate criticità sulla notifica via Pec, che incidono tanto sull'impugnata intimazione, quanto sulle presupposte cartelle.
Due i profili evidenziati dai giudici tributari. In primis, la notifica via Pec non offre le garanzie della raccomandata tradizionale, poiché contiene in allegato una semplice copia in formato pdf della cartella, senza firma digitale né attestazione di conformità all'originale; attestazione che, peraltro, potrebbe essere apposta soltanto da un pubblico ufficiale, categoria in cui non rientra il concessionario per la riscossione.
Una siffatta copia della cartella, dunque, non può avere alcun valore giuridico poiché non c'è garanzia che il documento inoltrato sia identico all'originale che, invece, con la notifica tradizionale, finisce sempre nelle mani del destinatario.
Sotto altro profilo, la Ctp critica la notifica via Pec perché non garantisce in maniera adeguata l'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario: mentre con la notifica tradizionale, tale funzione è assolta dal postino o dall'incaricato alla notificazione, che si assicura di recapitare il plico con le modalità stabilite dalla legge, nel caso della Pec la consegna del messaggio è fornita da un sistema informatico che garantisce soltanto la disponibilità del documento nella casella di posta elettronica, e non anche l'apertura del messaggio e l'effettiva lettura.
Alla luce delle predette considerazioni, la Ctp ha ritenuto inesistente la notifica della intimazione impugnata e nulle le notificazioni delle cartelle presupposte, eseguite per il tramite della posta elettronica certificata.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Le cartelle di pagamento di Equitalia notifícate tramite Pec sono nulle. La posta elettronica certificata, infatti, non offre le garanzie tipiche della raccomandata tradizionale, perché non contiene l'originale della cartella, ma solo una copia informatica, priva peraltro di alcuna attestazione di conformità. [omissis]
Trattasi di notifica di atti che incidono sulla sfera patrimoniale del cittadino contribuente il quale ha, costituzionalmente, diritto alla piena e legittima conoscenza di ogni atto che riporti una pretesa tributaria, di conoscere l'an e il quantum della pretesa e di approntare, eventualmente, le proprie difese. Ne consegue che l'amministrazione finanziaria, affinché la pretesa tributaria diventi certa e esigibile, deve garantire, al destinatario della stessa, la conoscenza attraverso una regolare e legittima procedura notificatoria degli atti impositivi.
Il sistema di notifica delle cartelle di pagamento a mezzo Pec (ma anche degli altri atti emessi dall'agente della riscossione e/o dalle Agenzie delle entrate), come attualmente disciplinati fanno ritenere che tale notifica sia affetta da nullità insanabile, contrariamente a quanto affermato nella normativa e dal codice dell'amministrazione digitale. La posta elettronica certificata non offre più le stesse garanzie della raccomandata tradizionale. [omissis]
La seconda criticità della posta certificata è che essa non garantisce la piena prova dell'effettiva consegna del documento al destinatario. Invece, con il sistema tradizionale della notifica cartacea, tale circostanza è garantita dal postino, dall'ufficiale giudiziario o dal messo notificatore in quanto pubblici ufficiali e, come tali, capaci di dare «fede privilegiata» alla propria attestazione di consegna (sia essa la relata di notifica o il registro di consegne delle raccomandate a.r.).
Nel caso della Pec, l'attestazione di spedizione e d'immissione della mail nella casella del destinatario è fornita solo da un sistema informatico automatizzato, privo quindi di alcuna garanzia di certezza per il contribuente. Il gestore della posta certificata garantisce soltanto la disponibilità del documento nella casella di posta elettronica del destinatario, a prescindere da ogni possibile verifica della effettiva apertura e lettura del messaggio. Ebbene, la semplice disponibilità di un documento nella casella Pec non equivale all'avvenuta consegna del documento al destinatario, il quale potrebbe non leggerla per svariate ragioni non sempre dipendenti dalla propria volontà.
Rispetto al sistema raccomandata, la Pec lascia incerto l'esito della sua ricezione oltre che la data di effettiva avvenuta conoscenza del messaggio, alterando il dies a quo per eventuali contestazioni successive. [omissis ] (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIRevoca contributi non dal Tar. Le controversie sono fuori dalla giurisdizione esclusiva. Lo ribadiscono i giudici del Tribunale amministrativo regionale dell'Emilia Romagna.
Le controversie in materia di attribuzione (e, quindi, di revoca) di contributi o agevolazioni finanziarie non rientrano nella giurisdizione esclusiva di cui il giudice amministrativo dispone in materia di concessioni di beni pubblici ai sensi dell'art. 133, lett. b), cod. proc. amm..

Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna, con la sentenza 30.06.2016 n. 688.
Già le sezioni unite della Cassazione (19.05.2008, n. 12641), come ricordato dai giudici amministrativi bolognesi nella sentenza in commento, hanno avuto modo di chiarire la differente struttura delle concessioni di beni e delle erogazioni di denaro, in quanto, «anche se il denaro è annoverabile nella categoria dei beni, la concessione a privati di benefici pubblici presuppone l'uso temporaneo da parte dei privati di detti beni per una finalità di pubblico interesse, mentre il finanziamento implica un tipo di rapporto giuridico del tutto diverso, in forza del quale il finanziato acquisisce la piena proprietà del denaro erogatogli ed eventualmente assume l'obbligo di restituirlo in tutto o in parte ad una determinata scadenza».
Inoltre, a parere del Tar andrebbe a confermare l'inesistenza di una giurisdizione esclusiva estesa a tutta la materia dei finanziamenti pubblici anche la legge 24.12.2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea), che nel testo dell'art. 133 del codice del processo amministrativo ha inserito la lettera z-sexies, attributiva al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva solo nelle «controversie relative agli atti e ai provvedimenti che concedono aiuti di stato in violazione dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all'articolo 14 del regolamento (Ce) n. 659/1999 del Consiglio del 22.03.1999, a prescindere dalla forma dell'aiuto e dal soggetto che l'ha concesso».
E pertanto mancando delle norme speciali, la giurisdizione in materia di contributi e agevolazioni finanziarie sarà soggetta agli ordinari criteri di riparto, con il conseguente possibile concorso, a seconda del tipo di controversia e di situazione soggettiva dedotta, delle giurisdizioni ordinaria, amministrativa e tributaria    (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.08.2016).
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MASSIMA
2. Il Collegio si interroga d’ufficio sulla appartenenza della controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo. Di possibili profili di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione le parti sono state rese edotte, ai sensi dell’art. 73 c.p.a., alla pubblica udienza del 28.06.2016, come da verbale.
Il Collegio richiama alcuni principi stabiliti dall’adunanza plenaria, con sentenza n. 6/2014, in tema di riparto di giurisdizione nelle controversie aventi per oggetto i contributi pubblici.
In particolare, per quanto può rilevare nella controversia in esame, la citata sentenza dell’Adunanza plenaria ha stabilito che:
– le controversie in materia di attribuzione (e, quindi, di revoca) di contributi o agevolazioni finanziarie non rientrano nella giurisdizione esclusiva di cui il giudice amministrativo dispone in materia di concessioni di beni pubblici ai sensi dell’art. 133, lett. b), cod. proc. amm. (la decisione richiama, in proposito, la pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione 19.05.2008, n. 12641, in cui è stata chiarita la differente struttura delle concessioni di beni e delle erogazioni di denaro, in quanto, anche se il denaro è annoverabile nella categoria dei beni, la concessione a privati di benefici pubblici presuppone l’uso temporaneo da parte dei privati di detti bene per una finalità di pubblico interesse, mentre il finanziamento implica un tipo di rapporto giuridico del tutto diverso, in forza del quale il finanziato acquisisce la piena proprietà del denaro erogatogli ed eventualmente assume l’obbligo di restituirlo in tutto o in parte ad una determinata scadenza);
– alla sussistenza della giurisdizione amministrativa osterebbe, comunque, la riserva, prevista dallo stesso art. 133, lett. b), cod. proc. amm., a favore della giurisdizione ordinaria di tutte le questioni patrimoniali inerenti a compensi vantati dal concessionario, qualunque sia il nomen in concreto utilizzato (“canoni, indennità ed altri corrispettivi”);
– conferma dell’inesistenza di una giurisdizione esclusiva estesa a tutta la materia dei finanziamenti pubblici si trae anche dalla legge 24.12.2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea), che nel testo dell’art. 133 del codice del processo amministrativo ha inserito la lettera z-sexies, attributiva al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva solo nelle «controversie relative agli atti ed ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all'articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22.03.1999, a prescindere dalla forma dell'aiuto e dal soggetto che l’ha concesso»; ciò significa che in assenza di norme speciali, la giurisdizione in materia di contributi e agevolazioni finanziarie è soggetta agli ordinari criteri di riparto, con il conseguente possibile concorso, a seconda del tipo di controversia e di situazione soggettiva dedotta, delle giurisdizioni ordinaria, amministrativa e tributaria.
Sulla base di tali argomentazioni e di altre ancora, per le quali si rinvia alla decisione di cui trattasi, l’Adunanza plenaria ha ritenuto di riconfermare il tradizionale e consolidato indirizzo giurisprudenziale, condiviso sia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza 25.01.2013, n. 1776; 24.01.2013, n. 1710; 07.01.2013, n. 150; 20.07.2011, n. 15867; 18.07.2008, n. 19806; 26.07.2006, n. 16896; 10.04.2003, n. 5617), sia dal Consiglio di Stato (cfr., da ultimo, A.p. 29.07.2013, n. 13), secondo cui
il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata. Pertanto, sempre per quanto qui rileva, sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla pubblica amministrazione compete soltanto la verifica circa l’effettiva esistenza dei relativi presupposti senza margini di apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid, il quomodo dell’erogazione (cfr. Cass., SS. UU., 07.01.2013, n. 150).
Nel caso in esame, l’amministrazione deve soltanto verificare la sussistenza o meno dei “titoli all’aiuto” in capo al richiedente, il quale vanta pertanto una situazione di diritto soggettivo e non già di interesse legittimo.
Ne consegue l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Il processo potrà proseguire dinanzi al competente giudice ordinario ai sensi dell’art. 11 cod. proc. amm., nei modi e nei termini ivi indicati.

EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittima ordinanza di demolizione di un abuso edilizio risalente a ben 52 anni addietro.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale prevalente in materia, secondo il quale "l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto".
Tuttavia, l'orientamento sopra esposto, seppure prevalente, non è affatto pacifico.
Invero, esiste un ulteriore filone giurisprudenziale, finora sempre ritenuto preferibile dal Collegio, in quanto più sensibile alle esigenze del privato, che afferma la necessità di una congrua e più articolata motivazione sul pubblico interesse, in considerazione del notevole lasso di tempo trascorso tra la sanzione e l’abuso, diverso da quello al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato, in particolare quando abbia ingenerato un affidamento del privato: “In tali casi, infatti, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si ritiene che si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello del ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
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Tenuto conto che gli abusi edilizi contestati sono stati eseguiti a una distanza di 52 anni, da un soggetto diverso dall’attuale proprietaria, l’Amministrazione comunale, rimasta per tutto quel tempo inerte, avrebbe dovuto puntualmente motivare sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi e congruamente ponderare l'interesse della ricorrente al mantenimento della situazione consolidatasi e il conseguente affidamento derivante dal protrarsi della propria inerzia nell'esercizio del pur configurabile potere repressivo.
L’ordinanza di ripristino è priva di motivazione sul punto. Infatti, in nessuna parte di tale ordinanza sono state esternate le ragioni di pubblico interesse sottese all’adottato ordine di ripristino dello stato dei luoghi, differenti dal mero ripristino della legalità, essendosi limitata l’Amministrazione comunale a rilevare che “è necessario provvedere ai sensi di legge onde garantire un ordinato sviluppo urbanistico del territorio nonché il rispetto della normativa in materia urbanistica”.
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Nel ricorso notificato in data 19.09.2014 la ricorrente censura l’ordinanza ripristino n. 450/2014 dd. 30.05.2014 per violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 7 della L.P. 22.10.1993 n. 17 ed eccesso di potere per difetto di motivazione. In particolare la ricorrente afferma che il Comune, con l’ordinanza di ripristino n. 450/2014 dd. 30.05.2014, avrebbe sanzionato degli abusi edilizi risalenti al 1962.
A causa dell’inerzia prolungata del Comune di Merano (la distanza tra la realizzazione degli abusi e l’atto repressivo del Comune è di 52 anni) si sarebbe ingenerata in capo alla ricorrente So.Sc. una posizione di affidamento al mantenimento delle opere di cui trattasi. L’Amministrazione comunale avrebbe quindi dovuto motivare congruamente le ragioni di pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della legalità, idonee a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Mancando completamente una motivazione in tal senso l’ordinanza di ripristino sempre secondo la ricorrente, sarebbe illegittima.
La censura è fondata.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale prevalente in materia, secondo il quale "l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto" (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702; nello stesso senso, da ultimo: Sez. VI, n. 13/2015; Sez. IV, n. 3182/2013; Sez. VI, n. 6072/2012; Sez. IV, n. 2592/2012; Sez. IV n. 4403/2011; Sez. IV n. 79/2011; Sez. IV n. 5509/2009; Sez. IV n. 2529/2004; TAR Lazio 22.3.2016, n. 3604).
Tuttavia, l'orientamento sopra esposto, seppure prevalente, non è affatto pacifico.
Invero, esiste un ulteriore filone giurisprudenziale, finora sempre ritenuto preferibile dal Collegio, in quanto più sensibile alle esigenze del privato, che afferma la necessità di una congrua e più articolata motivazione sul pubblico interesse, in considerazione del notevole lasso di tempo trascorso tra la sanzione e l’abuso, diverso da quello al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato, in particolare quando abbia ingenerato un affidamento del privato: “In tali casi, infatti, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si ritiene che si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello del ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato” (cfr. TRGA Bolzano, 09.10.2013, n. 298; n. 116/2014; n. 223/2011; n. 243/2010; n. 173/2006; nello stesso senso, Cons. Stato, Sez. VI, n. 1393/2016; Sez. VI, n. 2512/2015; Sez. V, n. 3847/2013; Sez. IV, n. 1016/2014; Sez. IV, n. 4607/2009; Sez. V, n. 883/2008, Sez. V, n. 3270/2006; TAR Campania, Salerno, 08.03.2013, n. 634; TAR Campagna, Napoli, sez. II, 13.12.2013, n. 5730; TAR Campagna, Napoli, sez. II, 22.11.2013, n. 5317; TAR Campagna, Napoli, sez. II, 03.05.2013, n. 2287; TAR Campagna, Napoli, sez. II, 07.01.2014, n. 17; TAR Puglia, Bari, 11.02.2013, n. 206; TAR Puglia–Lecce, sez. III, 03.01.2014, n. 1; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 12.07.2012 n. 1219; TAR Lazio, Latina, 23.01.2012, n. 41; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 10.10.2012, n. 1255; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 05.04.2013, n. 421; TAR Piemonte, Torino, sez. II, 27.10.2011, n. 1135; TAR Marche, Ancona, sez. I, 01.08.2011, n. 634; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 06.06.2011, n. 578; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 07.08.2012, n. 2180).
Nel caso di specie, è incontestato che gli abusi accertati dal Comune di Merano sono stati realizzati nell’anno 1962 dal dante causa della ricorrente Gi.Mi., in difformità della licenza edilizia dd. 28.06.1962, prot. n. 7715. Dalla relazione tecnica del 26.05.2014, a firma dell’ing. Ug.Ma., allegata al progetto in sanatoria dd. 16.06.2014 emerge, infatti, che gli abusi realizzati in difformità dalla licenza edilizia dd. 28.06.1962, prot. n. 7715, risalgono alla seconda metà del 1962 e sono stati accatastati nell’anno 1974.
Orbene, tenuto conto che gli abusi edilizi contestati sono stati eseguiti a una distanza di 52 anni, da un soggetto diverso dall’attuale proprietaria So.Sc., l’Amministrazione comunale, rimasta per tutto quel tempo inerte, avrebbe dovuto puntualmente motivare sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi e congruamente ponderare l'interesse della ricorrente al mantenimento della situazione consolidatasi e il conseguente affidamento derivante dal protrarsi della propria inerzia nell'esercizio del pur configurabile potere repressivo.
L’ordinanza di ripristino è priva di motivazione sul punto. Infatti, in nessuna parte di tale ordinanza sono state esternate le ragioni di pubblico interesse sottese all’adottato ordine di ripristino dello stato dei luoghi, differenti dal mero ripristino della legalità, essendosi limitata l’Amministrazione comunale a rilevare che “è necessario provvedere ai sensi di legge onde garantire un ordinato sviluppo urbanistico del territorio nonché il rispetto della normativa in materia urbanistica”.
Orbene, chiarito quanto sopra, il ricorso merita accoglimento in parte qua, sotto il profilo del difetto di motivazione, in ordine all’interesse pubblico al ripristino, in presenza di affidamento della ricorrente, riconducibile al fatto che le opere abusive sono state realizzate in un periodo risalente nel tempo (52 anni fa).
Sono fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 30.06.2016 n. 217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon basta la Dia se la ristrutturazione comporta una nuova costruzione. Non basta la Dia (denuncia di inizio attività) se la ristrutturazione edilizia comporta una nuova costruzione. LA CASSAZIONE SI E' ESPRESSA SULLA RICOSTRUZIONE.
La ristrutturazione attuata attraverso la demolizione e la ricostruzione dell'edificio preesistente impone il mantenimento della medesime volumetria e sagoma (articolo 3, comma primo, lett. d), Dpr. n. 380 del 2001), diversamente si dà luogo a «nuova costruzione», che necessità di un permesso a costruire.

È con l'ordinanza 24.06.2016 n. 32086 (udienza) che la Corte di Cassazione (Sez. VII penale) si è pronunciata in merito al titolo da utilizzare per la ristrutturazione edilizia attuata attraverso la demolizione e la successiva ricostruzione di un manufatto preesistente.
La «semplice ristrutturazione» si verifica ove gli interventi comportano una modifica esclusivamente interna e abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali muri perimetrali e le strutture orizzontali. Mentre è ravvisabile la «ricostruzione» allorché dell'edificio esistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione dette componenti (muri perimetrali e strutture orizzontali) e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto all'originarie dimensioni dell'edificio e in particolare senza aumenti della volumetria.
In presenza di tali aumenti, si verte, in ipotesi di «nuova costruzione», come tale sottoposta alla disciplina delle distanze e alla presentazione del permesso di costruire (articolo ItaliaOggi del 02.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il ricorso è manifestamente infondato.
Per quanto riguarda il primo ed il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto riguardano entrambi la sussistenza del reato ascritto alla ricorrente ed il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, deve rilevarsi che la Corte d'appello ha chiaramente e logicamente illustrato le ragioni sia della affermazione di responsabilità della ricorrente (fondata sulla disposizione di lavori comportanti l'abbassamento del piano di calpestio del seminterrato, mediante sbancamento del terreno, con un aumento dell'altezza interna da metri 2,50 a metri 2,75, e la posa dei ferri di armatura per la realizzazione di un balcone, comportanti modifica della volumetria, della sagoma e del prospetto dell'edificio, dunque richiedenti il permesso di costruire), sia della sussistenza dell'elemento psicologico del reato (non escluso dal ripristino dello stato dei luoghi), sia del diniego delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena, in ragione della zona in cui insiste il manufatto (dichiarata di notevole interesse pubblico) e della tipologia delle opere.
Tale motivazione risulta del tutto corretta ed immune dai vizi denunciati, invero in modo generico, dalla ricorrente, in quanto, una volta accertata l'entità delle opere, comportanti la parziale demolizione del seminterrato preesistente, la Corte territoriale ha correttamente applicato il principio costantemente affermato da questa Corte, secondo cui
la ristrutturazione attuata attraverso demolizione e ricostruzione dell'edificio preesistente impone il mantenimento delle medesime volumetria e sagoma (art. 3, comma primo, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001), diversamente dandosi luogo a "nuova costruzione", assentibile unicamente con permesso a costruire (nella specie mancante) e non anche con denuncia di inizio attività (Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010, Cavallo, Rv. 246757).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Soggetto responsabile dell'abuso edilizio - Valutazione del comproprietario non committente - Disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori - Artt. 19, 31, c. 9, e 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Pertanto, non è sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Abuso edilizio - Soggetti responsabili - Individuazione del comproprietario non committente - Elementi oggettivi e soggettivi - Art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria:
- piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario;
- eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori;
- lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori;
- la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria;
- il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale; all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa (Cass. Sez. 3, 27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi; 10.08.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n. 9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013; Sez. 3, n. 52040 dell'11/11/2014).
Abuso edilizio - Responsabilità - Valutazione del comproprietario non committente.
La valutazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di legittimità della Suprema Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta ne' con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26428 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato di costruzione abusiva - Ordine di demolizione dell'opera - Estinzione per prescrizione - Effetti.
In materia edilizia, l'estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera, indipendentemente da una espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una sanzione amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria giustificazione nella accessorietà alla sentenza di condanna (Cass. Sez. 3, n. 10/02/2006, Cirillo; Sez. 3, n. 8409 del 30/11/2006, dep. 28/02/2007; Sez. 3, n. 756 del 02/12/2010, dep. 14/01/2011; Sez. 3, n. 50441 del 27/10/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26428 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali - Demolizione delle opere - Natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio - Fattispecie.
Confisca dell'area adibita a discarica abusiva - Limiti - Estinzione del reato - Art. 256, comma 1, lett. a), e 3 d.lgs. 152/2006 - Artt. 31, c. 9, e 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 444 c.p.p..

L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con variazioni essenziali - (che riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo comma della legge n. 47 del 1985) prevede, infatti, testualmente che "per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio (non di una pena accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale), caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è attribuita l'applicazione, la cui catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova ragione giuridica proprio nella sua accessività alla "sentenza di condanna".
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come presupposto -diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47 del 1985, art. 19 ed attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2, per la confisca dei terreni abusivamente lottizzati- la pronuncia di una sentenza di condanna o ad essa equiparata e non il mero accertamento della commissione dell'abuso edilizio, come nel caso di sentenza di estinzione per prescrizione (vedi Cass., Sez. 3 16.02.1998, n. 4100, ric. Maniscalco).
Nella specie, quindi, la declaratoria di estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione impartito con la sentenza impugnata. Con riferimento alla confisca, va osservato che non può essere disposta la confisca dell'area adibita a discarica abusiva, in caso di estinzione del reato (nella specie, per prescrizione), né a norma dell'art. 256, comma terzo, d.lgs. n. 152 del 2006, né a norma dell'art. 240, comma secondo, cod. pen. (Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687; Sez. 3 n. 13741, 22.03.2013, non massimata).
Il d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 3, stabilisce, infatti, che unicamente alla sentenza di condanna o alla sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. consegue la confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell'autore o del compartecipe al reato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26428 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Area adibita a discarica abusiva - La declaratoria di estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge anche la confisca.
Un'area adibita a discarica abusiva non rientra certamente tra le ipotesi di cui all'art. 240, comma 2, cod. pen., sia perché la realizzazione e la gestione di una discarica, se debitamente autorizzata, è lecita, sia perché la disposizione che la prevede consente la soggezione a confisca obbligatoria solo se l'area appartenga all'autore o al compartecipe al reato (Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013).
Nella specie, quindi, la declaratoria di estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge anche la confisca disposta con la sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26428 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici - Sanatoria degli abusi edilizi - Termini e condizioni - C.d. doppia conformità - Sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria" - Esclusione - Artt. 36 e 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. 380 del 2001 e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Cass. Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci; in senso analogo, Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, Micolucci).
Divieto legale di rilasciare un permesso in sanatoria - Sanatoria impropria o giurisprudenziale - Effetti e limiti - Giurisprudenza amministrativa e di legittimità - Art. 36 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di sanatoria giurisprudenziale il divieto legale di rilasciare un permesso in sanatoria anche quando, dopo la commissione dell'abuso, vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico, sia giustificato della necessità di "evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)" oltre che dall'esigenza di "disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico" (Cons. Stato, Sez. 5, 17/03/2014, n. 1324; conf. Sez. 5, 27.05.2014, n. 2755) (c.d. "sanatoria giurisprudenziale" in base alla quale si ritengono sanabili le opere che, non conformi alla disciplina urbanistica ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione, lo siano divenute successivamente e che sarebbe insensato demolire quando, a demolizione avvenuta, potrebbero essere legittimamente assentite).
Pertanto, confermando che la sanatoria impropria sarebbe comunque improduttiva di effetti estintivi dei reati urbanistici, si è presa in considerazione la sua rilevanza con riferimento specifico all'ordine di demolizione, rilevando, previo richiamo ai principi generali di buon andamento e di economia dell'azione amministrativa invocato dalla giurisprudenza amministrativa favorevole, che l'eventuale suo rilascio renderebbe inapplicabile l'ordine di demolizione, osservando, sostanzialmente, che sarebbe insensato procedere alla demolizione di ciò che può poi essere legittimamente ricostruito (Cass. Sez. 3, n. 14329, 07/04/2008; Sez. 3, n. 40969, 11/11/2005; Sez. 3, n. 1492, 09/02/1998; Sez. 3, n. 3082, 21/01/2008; Sez. 3, n. 24451, 21/06/2007).
Sentenza di condanna e ordine di demolizione del manufatto abusivo - Rilascio del permesso di costruire in sanatoria - Verifiche del giudice - Legittimità dell'atto concessorio - Doppia conformità.
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito con la sentenza di condanna, non è caducato in modo automatico dal rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovendo il giudice controllare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione (e quindi, nella specie, della doppia conformità, non sussistente) e dei requisiti di forma e sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio (Cass. Sez. 3, n. 40475 del 28/09/2010, Ventrici).
Abusivismo edilizio - Principio della "doppia conformità" - Natura e finalità.
Il principio della "doppia conformità" risulta finalizzato a "garantire l'assoluto rispetto della "disciplina urbanistica ed edilizia" durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità", aggiungendo, e richiamando la giurisprudenza amministrativa, che la sanatoria, che si distingue dal condono vero e proprio, "è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi "formali", ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, "anche di natura preventiva e deterrente", finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture "sostanzialiste" della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell'istanza per l'accertamento di conformità" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26425 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permanenza del reato di edificazione abusiva - Elementi, presupposti e termini - Definizione del rustico completo e del tempus commissi delicti - Lavori ultimati ai fini della condonabilità.
In materia urbanistica, ai soli fini del condono edilizio corrisponde alla realizzazione del rustico completo di tamponature laterali e copertura (Cass. Sez. 3, n. 28233 del 14/06/2011, Aprea), mentre, ai fini dell'individuazione del tempus commissi delicti, corrisponde al completamento del manufatto, comprese le rifiniture esterne e interne (di recente, sulla cessazione della permanenza, Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo: "La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado"; in applicazione del principio, la Corte ha aggiunto che, ai fini dell'individuazione del momento di cessazione dei lavori, il completamento dell'opera con tutte le rifiniture interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico, che, se utile nella normalità dei casi, non consente di escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia terminata anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso anzidetto, come ad esempio quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie).
Infatti, come disposto dall'art. 31, comma 2, L. n. 47 del 1985, si intendono come ultimati, ai fini della condonabilità, "gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26425 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVICon l'autotutela cessa la materia del contendere.
La materia del contendere può dirsi cessata quando viene a mancare l'oggetto della lite, come avviene quando l'atto fiscale impugnato è annullato in autotutela. Le sezioni unite della Corte hanno escluso che, in un processo dipendente come quello sugli avvisi Ici, il classamento possa essere fatto oggetto di accertamento incidentale. Scelta ora recepita dall'art. 39, co 1-bis, dlgs n. 546/1992, che ha consacrato in legge l'istituto della sospensione necessaria per pregiudizialità interna. Il giudice di merito avrebbe quindi dovuto annullare gli avvisi Ici in quanto fondati su atti di classamento non più esistenti, senza avere il potere di compiere alcun accertamento catastale ai sensi dell'art. 34 cpc.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 17.06.2016 n. 12570.
Nel caso all'esame il Territorio attribuiva a un immobile adibito a caserma della polizia stradale e a un immobile adibito a cabina elettrica le categorie catastali D/7 e D/1. Il comune notificava avvisi Ici, poi impugnati dalla contribuente contestualmente all'attribuzione di rendita. Nelle more del giudizio il Territorio provvedeva in autotutela alla rettifica delle categorie, da D/1 e D/7 a E/3, chiedendo che fosse dichiarata cessata la materia.
La Ctp, tuttavia, non dichiarava la cessata materia, ordinando all'Agenzia di produrre la documentazione relativa al procedimento di rettifica. L'Agenzia rettificava allora, di nuovo, le categorie catastali, attribuendo alla caserma la cat, B/1 e alla cabina elettrica la cat. D/1, e opponendosi alla declaratoria di cessata materia in precedenza richiesta.
La Ctp respingeva i ricorsi con sentenza poi confermata dalla Ctr, la quale affermava che la Ctp non era tenuta a dichiarare la cessazione della materia del contendere in modo automatico e ciò sia a causa della illegittimità del primo provvedimento di autotutela e sia comunque a causa del suo «superamento».
La contribuente ricorreva infine in cassazione, eccependo che i giudici avevano deciso in mancanza di interesse delle parti e comunque oltre la domanda. La Corte riteneva il ricorso fondato, non rilevando l'annullamento dell'attribuzione della Cat E/3, dato che gli atti di classamento non esistevano più (articolo ItaliaOggi del 02.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi paesaggistici - Natura di reato di pericolo - Principio di offensività - Attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto -
Danno al paesaggio ed all'ambiente - Individuazione ex ante della potenzialità lesiva degli interventi - DIRITTO URBANISTICO - Diversità di tutela con la disciplina urbanistica ed edilizia - Art. 181-c.1, 142-lett. f) e 146 D.Lvo n.42/2004 - Artt. 185-c.2-lett. d), 184 e 256-c.1 D.Lgs. n. 152/2006.

In tema di abusi paesaggistici, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito. [Cass. Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015 (dep. 16/03/2015), Murgia; Cass. Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon].
Pertanto, l'individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Configurabilità del reato paesaggistico - Integrazione della fattispecie - Presupposti - Interventi in zone vincolate - Assenza del controllo e della autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali.
Il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consista nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario assetto (Cass. Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon).
Ed il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, sicché è irrilevante, ai fini dell'integrazione della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo (Cass. Sez. 3, n. 10463 del 25/01/2005, Di Cesare).
Reati incidenti su beni paesaggistici vincolati - Introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati - Fondamento - Valutazione che l'integrità ambientale è un bene unitario - Bene paesaggistico e tutela ambientale - Unicità del valore estetico-culturale.
La ratio della introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati (in base a tipologie di beni) risiede nella valutazione che l'integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza e che la severità del relativo trattamento sanzionatorio trova giustificazione nella entità sociale dei beni protetti e nel ricordato carattere generale, immediato ed interinale, della tutela che la legge ha inteso apprestare di fronte alla urgente necessità di reprimere comportamenti tali che possono produrre danni gravi e talvolta irreparabili all'integrità ambientale.
I reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge hanno introdotto una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del territorio individuate secondo tipologie paesistiche, ubicazioni o morfologiche), improntata a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale.
Pertanto, prendendo in considerazione la ritenuta sostanziale identità dei valori in gioco, il bene paesaggistico non può essere considerato qualcosa di avulso dalla tutela ambientale e la descrizione contenuta nella norma è sufficientemente determinata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2016 n. 25041 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici e paesaggistici - Realizzazione di opere in variazione essenziale rispetto all'opera assentita - Violazioni paesaggistiche ed urbanistiche - Penale responsabilità del proprietario e committente delle opere, del direttore dei lavori e del titolare della ditta esecutrice dei lavori - Correlazione tra accusa e sentenza - Artt. 44, lett. e), d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004.
La realizzazione di opere in variazione essenziale rispetto all'opera assentita fa emergere la penale responsabilità, ai sensi degli artt. 44, lett. e), d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, del proprietario e committente delle opere, del direttore dei lavori e del titolare della ditta esecutrice dei lavori. Nella fattispecie, la pratica edilizia non conteneva rappresentate le scale e su un lato dell'edificio erano state realizzate quattro aperture laddove nel permesso non ne era contemplata nessuna, mentre, su un altro lato ne erano state realizzate sette in luogo delle cinque previste.
Pertanto, non sussiste alcun problema di correlazione tra contestazione e sentenza, sia perché la contestazione enunciava l'assenza del permesso di costruire (e del nulla-osta della autorità preposta al vincolo), sia perché, in fatto, era espressamente contestata la (specifica) realizzazione di scale e finestre non contemplate dal permesso stesso.
Violazione dei titoli abilitativi ab origine validi ed esistenti - Principio di correlazione tra accusa e sentenza - Reato di esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire e in assenza della concorrente autorizzazione paesaggistica - Configurabilità.
Non è nulla, per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, la pronuncia con la quale l'imputato, che sia stato tratto a giudizio per rispondere del reato di esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire e in assenza della concorrente autorizzazione paesaggistica, sia stato invece condannato per aver violato i titoli abilitativi ab origine validi ed esistenti, perché, all'eventuale riconoscimento della valida esistenza di questi ultimi, non osta, in caso di riscontrata violazione delle loro statuizioni, la possibilità di ritenere integrati i reati urbanistici e paesaggistici contestati, sia quando dalla riscontrata violazione degli originari titoli scaturisce la necessità di ritenere che, come nel caso di specie (implicante realizzazione di parti esterne aggiuntive del fabbricato non contemplate dal permesso e la modifica delle facciate), per il tipo di intervento realizzato, fosse indispensabile per il privato richiedere ed ottenere il titolo mancante, sia quando si riconosca che i titoli abilitativi esistevano ed erano validi, ma che essi sono stati violati in ordine alle loro prescrizioni circa l'esecuzione, in difformità da essi, dell'intervento assentito.
Non vi è pertanto mutamento dell'accusa quando i due fatti -quello contestato e quello ritenuto- si trovino tra loro in rapporto di continenza.
Inosservanza di un titolo abilitativo valido ed efficace e dell'autorizzazione paesistica - Minus rispetto ad una costruzione totalmente abusiva.
L'inosservanza di un titolo abilitativo valido ed efficace e parallelamente dell'autorizzazione paesistica si risolve, in fase esecutiva, in un minus rispetto ad una costruzione eseguita in radicale difetto del permesso di costruire o dell'autorizzazione paesaggistica e ciò, a maggior ragione, nel caso ove sono state precisamente individuate e fatte rientrare nel contenuto dell'imputazione, con conseguente possibilità per l'imputato di esercitare pienamente il diritto di difesa(cfr. Sez. 3, n. 15820 del 25/11/2014, Picariello) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2016 n. 24334 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Pensiline fotovoltaiche, una destinazione speciale.
Le pensiline dotate di pannelli fotovoltaici destinate a parcheggio presenti nelle aree di servizio autostradali non hanno una autonomia reddituale del bene e sono classificabili come edifici a destinazione particolare.

Quanto sopra è contenuto nella sentenza 27.05.2016 n. 204/02/16 della Ctp di Rieti secondo cui tali pensiline non producono energia fotovoltaica per la loro natura accessoria e secondaria della stessa, risultando classificabili nella categoria E/9.
Nel caso in esame la società autostrade ha impugnato l'avviso di accertamento con cui l'ufficio finanziario ha attribuito la categoria D/1 (opifici) al manufatto adibito a pensilina per il parcheggio dotato di copertura di pannelli fotovoltaici e presente in una tratta autostradale. La società ricorrente ha eccepito l'erronea qualificazione fatta dall'ufficio invocando la categoria E/9 (edifici a destinazione particolare non compresi nelle categorie del gruppo E), evidenziando la strumentalità del bene rispetto all'esercizio dell'attività e l'irrilevanza della produzione dell'energia fotovoltaica stante il carattere assolutamente accessorio e secondario della stessa.
La Commissione tributaria, accogliendo il ricorso della società, ha ritenuto che secondo quanto previsto dall'art. 61 dpr 1142/1949 il classamento consiste nell'individuare la destinazione ordinaria e le caratteristiche influenti sul reddito nonché nel collocare il bene tra le categorie e classi prestabilite per la zona censuaria avvalendosi di confronti con le unità tipo.
I giudici hanno ritenuto, quindi, non corretta la classificazione nella categoria D/1 in luogo di quella richiesta dalla società ricorrente (E/9), ponendo in risalto l'assenza di una significativa autonomia reddituale e funzionale del bene in questione e il significativo nesso di strumentalità dello stesso con l'esercizio della tratta autostradale. A ciò va aggiunta la natura demaniale del bene e la qualità di concessionaria del servizio autostradale.
Né ai fini dell'attribuzione della categoria catastale fatta dall'ufficio, assumono rilevanza la presenza di pannelli fotovoltaici di copertura della pensilina e la produzione di energia elettrica. I pannelli, infatti, sono privi di autonomia funzionale. Allo stesso modo la produzione di energia elettrica è assolutamente marginale alle caratteristiche oggettive funzionale del bene (articolo ItaliaOggi del 03.08.2016).

TRIBUTI: Tosap, non è esente l’area di manovra di un distributore. Tributi locali. Occupazione di suolo non occasionale.
L’occupazione di aree pubbliche destinate alla manovra e all’accesso dei veicoli da rifornire, da parte di un esercizio di distribuzione di carburante, è soggetta a Tosap perché consiste nella sottrazione di spazi alla pubblica disponibilità.
Lo afferma la Ctr di Palermo, nella sentenza 11.04.2016 n. 1362/25/2016 (presidente Pillitteri, relatore Vincenti), in linea con le precedente pronunce della Suprema Corte.
La vicenda nasce dal caso di un’impresa di distribuzione di carburante che, oltre all’area adibita alla erogazione, occupa un’ampia zona destinata a zona di manovra per l’accesso dei veicoli. Dopo aver ricevuto gli accertamenti Tosap del Comune, l’impresa ha proposto ricorso eccependo l’intassabilità degli spazi in questione, trattandosi di occupazioni occasionali.
Al riguardo, è opportuno ricordare che sono esenti da Tosap «le occupazioni occasionali di durata non superiore a quella che sia stabilita nei regolamenti di polizia locale e le occupazioni determinate dalla sosta dei veicoli per il tempo necessario al carico e allo scarico delle merci» (articolo 49, lettera d) del Dlgs 507/1993).
La Ctr ha rigettato la richiesta del contribuente, richiamando la sentenza 17591/2009 della Cassazione. Il collegio siciliano ha preso in analisi quanto disposto dall’articolo 48 del Dlgs 507/1993, che detta le regole specifiche per l’applicazione della Tosap agli impianti di distribuzione di carburanti, prevedendo che il tributo sia commisurato alla capacità del serbatoio sotterraneo.
Questa peculiare misura include, convenzionalmente, l’occupazione del sottosuolo e quella del suolo stradale effettuata con le sole colonnine montanti per la distribuzione di carburanti, per l’acqua e l’aria compressa, nonché con un chiosco che insiste su una superficie nel complesso non superiore a 4 metri quadrati.
È stato dunque osservato, in sintonia con la Suprema corte, che per le occupazioni diverse da quelle sopra descritte, o in eccesso rispetto all’estensione prevista, occorre applicare la Tosap secondo le regole ordinarie.
Quanto all’esenzione, le occupazioni in esame non possono in realtà essere qualificate come occasionali, perché riguardano utilizzi di suolo pubblico continuativi nel corso della giornata.
Il presupposto per l’applicazione della Tosap, inoltre, è rappresentato dall’utilizzo esclusivo da parte del singolo di uno spazio pubblico sottratto all’uso della collettività. Il fatto materiale dell’occupazione effettuata nell’interesse del privato, secondo quest’accezione, è quindi sufficiente a rendere dovuta la tassa.
Nel caso in questione, se fossero state delimitate da catenelle o altri mezzi idonei a inibirne l’uso pubblico durante gli orari di apertura, le aree interessate non avrebbero potuto sfuggire alla tassazione. Né rileva, in proposito, che negli orari di chiusura gli spazi tornino a essere pienamente fruibili: perché questo, al contrario, rafforza la tesi dell’occupazione “sottrattiva” effettuata dall’impresa, e sostenuta dagli uffici comunali
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.08.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, opere più convenienti. Niente oneri sull'impresa per lavori soggetti a Scia o Cila. Breve ricognizione giurisprudenziale, a partire da una sentenza del Tar Campania.
Sì ai lavori senza gli oneri di costruzione. Il comune deve essere condannato a restituire le somme versate dal privato per i lavori laddove le opere edilizie realizzate risultano soggette a semplice Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) o Cila (Comunicazione inizio lavori asseverata) e dunque non implicano un incremento del carico urbanistico: a ottenere la rifusione del denaro è la società che gestisce il centro commerciale, tenuta a effettuare di continuo lavori di allestimento nei punti vendita che dà in affitto, con abbattimento di tramezzi e rifacimento di pavimenti secondo le esigenze del commerciante che subentra nella locazione.
È quanto emerge dalla sentenza 07.04.2016 n. 1769, pubblicata dall'VIII Sez. del TAR Campania-Napoli.
Secondo l'amministrazione locale gli interventi eseguiti sono di vera e propria ristrutturazione: nei negozi del mall di provincia si rifanno bagni e controsoffitti e si costruiscono vere e proprie pareti, per quanto di cartongesso.
Ma anche a voler aderire alla tesi del comune le opere realizzate non richiedono comunque il permesso di costruire o la Dia sostitutiva: manca infatti l'incremento per il volume complessivo degli immobili, oltre che della destinazione d'uso o della sagoma. E il principio vale sempre quando l'organismo edilizio ottenuto alla fine dei lavori non è almeno in parte diverso dal precedente: il che accade laddove ci si limita a rifare pavimenti e controsoffitti o ad adeguare il bagno oppure gli impianti idraulici ed elettrici.
In ogni caso, secondo i giudici, nella specie i lavori risultano comunque assimilabili a interventi di manutenzione straordinaria. E senza cambio di destinazione d'uso non si può scaricare sul privato i costi sociali degli oneri di urbanizzazione visto che manca la trasformazione di cui avvantaggiarsi. Anche per le opere di ristrutturazione edilizia, soggette al regime del permesso di costruire, il pagamento degli oneri concessori è dovuto soltanto nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico. Insomma: all'ente locale non resta che pagare le spese di giudizio.
Gli oneri di urbanizzazione costituiscono da sempre un problema per l'ufficio tecnico del comune. Ecco alcuni precedenti giurisprudenziali.
Onere di motivazione.
Per l'amministrazione scatta lo stop quando non sa spiegare come è arrivata, per esempio, a determinare la somma chiesta alla spa che intende ristrutturare l'immobile con cambio di destinazione a industriale a commerciale.
È quanto emerge dalla sentenza 06.07.2016 n. 1498, pubblicata dalla II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro.
Il ricorso della società che intende riconvertire lo stabilimento è accolto rispetto alla carenza di motivazione del provvedimento adottato dall'amministrazione locale; un'omissione che peraltro continua anche in corso di causa: anche dopo la richiesta ad hoc del collegio l'ente locale non riesce infatti a motivare la sua istruttoria e, dunque, a rendere ragione del motivo per cui ha adottato la sua tabella A per addebitare gli oneri di urbanizzazione all'impresa che procede alla ristrutturazione.
L'azienda è costretta a ricorrere al giudice perché non ha contezza del procedimento seguito dal punto di vista tecnico, istruttorio e contabile. E invece nel processo amministrativo incombe sull'ente l'onere di leale e fattiva collaborazione all'attività istruttoria disposta dal giudice; risultato: il comportamento processuale del comune che invece si sottrae all'obbligo e omette in modo ingiustificato di ottemperare alle ordinanze istruttorie è valutabile dal giudice ai fini dell'articolo 116 Cpc, secondo un principio oggi riconosciuto dall'articolo 64, comma 4, Cpa. Spese di giudizio compensate per la peculiarità della questione.
Attività prevalente. I precedenti di giurisprudenza consentono di affermare che i conteggi devono essere precisi.
Dopo i lavori al capannone, per esempio, il comune rimborsa alla concessionaria auto il costo di costruzione per la superficie relativa all'officina: l'attività artigianale, infatti, paga solo gli oneri di urbanizzazione, mentre l'amministrazione locale non spiega perché di fronte a strutture separate si dovrebbe applicare il criterio dell'attività prevalente né dove starebbe l'accessorietà di meccanici ed elettrauto rispetto alla vendita delle macchine.
È quanto emerge dalla sentenza 26.05.2015 n. 589, pubblicata dalla II Sez. del TAR Veneto.
Da una parte la concessionaria, dall'altra l'officina, il gommista e l'autolavaggio che servono anche marche di auto diverse dalle case produttrici trattate dallo showroom. La società ha pagato 366 mila euro di oneri di costruzione ma ora ne ottiene indietro 244 mila più interessi, senza rivalutazione.
Decisive la Dia-Scia e le planimetrie depositate in giudizio: la vendita di auto risulta separata dalla riparazione e ricorrere al criterio della prevalenza come fa il comune rischia di sottostimare l'attività commerciale cui è dedicata una superficie più modesta di quella artigianale.
Nessun dubbio che l'officina lavori a pieno ritmo sotto l'insegna «meccanico elettrauto gommista»: lo testimoniano i consistenti obiettivi di vendita nei pezzi di ricambio fissati nei contratti e la certificazione Inps relativa all'industria meccanica. Insomma: il conteggio degli oneri edilizi deve essere compiuto in maniera distinta rispetto ai diversi utilizzi del fabbricato. Spese compensate per metà data la novità della questione.
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Sta all'amministratore calcolare gli esborsi.
Il comune non può far gravare sul proprietario della villetta il calcolo degli oneri di costruzione e urbanizzazione, pena il mancato rilascio del permesso a costruire necessario all'ampliamento progettato. E ciò perché le «schede parametriche» pretese dal settore urbanistica dell'ente locale costituiscono comunque un presupposto del computo degli esborsi che spetta all'amministrazione e non al cittadino: le condizioni poste al rilascio del titolo edilizio possono essere tecniche o strutturali ma non anche di natura burocratica.
È quanto emerge dalla sentenza 17.06.2016 n. 1503, pubblicata dalla II Sez. del TAR Campania-Salerno.
Accolto il ricorso del proprietario del terreno contro il provvedimento che sospende l'istruttoria per la concessione edilizia. Il comune minaccia che la pratica sarà archiviata se entro trenta giorni l'interessato non presenterà i dati richiesti: la superficie utile, che serve per determinare il costo di costruzione, e il volume vuoto per pieno, che è necessario per computare gli esborsi per l'urbanizzazione.
Le schede richieste sono tuttavia strumentali a un compito che spetta unicamente all'ufficio dell'ente. È vero: se il proprietario del fondo non paga i costi di costruzione o gli oneri di urbanizzazione, può scattare l'esazione coattiva della pretesa creditoria del comune e la conseguente irrogazione di sanzioni. Ma il testo unico dell'edilizia non prevede in caso d'inosservanza anche la sospensione del titolo edilizio.
Insomma: l'amministrazione non può pretendere che la redazione dell'atto sia predisposta dall'interessato. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Legali pubblici come i privati. Chi perde la causa con la p.a. paga gli oneri riflessi. È quanto emerge da una sentenza del Tribunale amministrativo dell'Emilia-Romagna.
L'avvocato dell'ente non è diverso da quello del libero foro: dunque il privato che perde la causa intentata contro il Comune deve pagare gli oneri riflessi previdenziali e tributari, determinati nella misura di legge, in luogo di Cap e Iva.

È quanto emerge dalla sentenza 03.02.2016 n. 151, pubblicata dalla II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Criteri di ragionevolezza. Trova ingresso la domanda dell'ente locale nei confronti del privato che si vede bocciare il ricorso dopo lo stop dell'amministrazione al condono. Nella memoria di replica la parte privata contesta la debenza degli oneri riflessi: nel corso dell'udienza pubblica il difensore del Comune risponde chiedendo di poter depositare una sentenza e un articolo che si occupano della questione (deve presumersi tratto da una rivista giuridica).
L'istanza trova ingresso e il legale dell'ente locale ottiene soddisfazione: è ragionevole, osservano i giudici, equiparare i professionisti dell'avvocatura pubblica a quelli del libero foro per l'attività che svolgono in giudizio, fermi restando i rapporti interni tra l'avvocato pubblico e l'ente datore di lavoro.
Insomma: quando a vincere la causa è un'amministrazione pubblica difesa da un avvocato iscritto all'elenco speciale, la formula «oltre oneri accessori di legge» utilizzata di solito nel dispositivo deve essere intesa nel senso che il soccombente deve corrispondere gli oneri riflessi al posto del contributo previdenziale obbligatorio dell'imposta sul valore aggiunto dovuti all'avvocato privato. Al privato non resta che pagare 12 mila euro di spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.08.2016).

AGGIORNAMENTO AL 13.08.2016

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Costituzione c.d. "Ufficio di Piano" e liquidazione incentivo alla progettazione:
DANNO ERARIALE!!

     Quanti comuni, nella redazione del proprio P.R.G. (Piano Regolatore Generale) o P.G.T. (Piano di Governo del Territorio, in Lombardia), hanno costituito il c.d. "Ufficio di Piano" conferendo l'incarico professionale, comunque, all'esterno dell'ente.
     Ebbene, ecco -di seguito- un prima sentenza della Corte dei Conti (a noi nota), in materia di pianificazione, che dispone agli indebiti percettori (dell'incentivo ex d.lgs. 163/2006) di restituire il conquibus intascato.

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Costituzione del c.d. "Ufficio di Piano" e liquidazione incentivo alla progettazione: danno erariale.
La giurisprudenza contabile è assestata nel senso di escludere che l'incentivo possa erogarsi indiscriminatamente a qualsiasi atto di pianificazione territoriale, dovendosi l’attenzione dell’interprete rivolgere, prescindendo dal nomen juris impiegato, al suo specifico contenuto, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica.
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Le contestazioni della Procura debbono essere condivise sulla base di altre, dirimenti considerazioni.
Anzitutto, la circostanza che siano stati costituiti dei gruppi di lavoro per la redazione dei progetti in esame, formati da numerosi professionisti esterni remunerati dall’amministrazione, ingenera serie perplessità sulla necessità della partecipazione delle professionalità interne dell’ente, numericamente esigue e destinate al disimpegno delle numerose attività istituzionali.
E
proprio in ordine al contributo partecipativo reso meritano condivisione le deduzioni critiche mosse dall’attore pubblico, che ha stigmatizzato l’obiettiva assenza di un tangibile apporto delle professionalità interne, le quali sono sempre in via del tutto generica ed apodittica identificate con la locuzione “ufficio di piano”.
Non può affermarsi, come propugnato dalle difese, che tale generica perifrasi sa stata impiegata sol perché, data la loro nota esiguità, le professionalità interne fossero chiaramente identificabili. Come la giurisprudenza delle Sezioni del controllo ha più volte posto in evidenza, la norma in esame deve intendersi riferita a casi tassativi e limitati, proprio perché fortemente derogatoria al principio di onnicomprensività e di riserva di contrattazione collettiva del trattamento economico del dipendente pubblico e, dunque, da ritenersi norma di stretta interpretazione.
E tale rigore non può che essere assistito, in omaggio ai principi di trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa e di sempre più esteso controllo (anche sociale) di essa, dal presidio della conoscibilità, sì da rendere percepibile in ogni caso di impiego di risorse pubbliche (anche riferite alle componenti retributive del personale) la loro concreta destinazione.

Pertanto,
atteso che i piani operativi integrati erano differenti e, per ciascuno di essi, deve essere reso percepibile il contributo di professionalità (specificamente remunerato) dei dipendenti che vi abbiano partecipato, non può ritenersi che un indefinito richiamo alla struttura interna di riferimento possa soddisfare quel livello minimo di chiarezza ed intelligibilità che la norma implicitamente richiede ai fini della liquidazione dello specifico compenso.
A tal riguardo,
non è condivisibile la posizione che ritiene che il personale interno dell’ente abbia reso un’attività non di mero supporto ed ausilio
-come invece appare documentalmente provato dalla circostanza che, secondo le convenzioni sottoscritte, l’ufficio di piano doveva rendere “supporto informativo”- ma di concreta partecipazione e contributo scientifico alla realizzazione dei progetti.
Infatti,
non soltanto, non è possibile distinguere il contributo delle professionalità interne (corrispondenza interna, elaborati grafici provvisori, incarichi di progettazione e studio riferiti a singole aree -o eventuali, ulteriori partizioni interne, ad esempio, per settore scientifico, materia o territorio- singolarmente assegnati a ciascun dipendente nell’ambito del gruppo di lavoro che se ne sia avvalso, in ragione della sua competenza specifica) di cui non vi è prova ma, per di più, le note rilasciate dai responsabili scientifici dei progetti risultano appiattite su locuzioni ripetitive e stereotipate, sostanzialmente sovrapponibili in termini di contenuto e, come tali, non idonee a scalfire il quadro prima descritto.
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In ordine all’elemento psicologico della colpa grave contestato ai convenuti, esso deve ritenersi integrato dalla condotta disattenta e superficiale da essi tenuta che, nella qualità rivestita, avrebbero dovuto impedire che l’ente danneggiato sopportasse una spesa esorbitante rispetto allo stanziamento iniziale, per effetto del riconoscimento di somme non dovute ai dipendenti dai quali, peraltro, non si peritavano di assumere alcuna informazione in relazione agli incarichi concretamente svolti, dando corso senza alcuna responsabile verifica, ai pagamenti contestati con formula stereotipa ed acritica, con atteggiamento di inescusabile trascuratezza per le finanze pubbliche ed in aperta violazione dello stesso art. 13 del regolamento interno
secondo cui si “provvede all’assegnazione degli incentivi…verificando l’attività effettivamente svolta”.
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La domanda della Procura Regionale si palesa fondata nei limiti di cui appresso.
Anzitutto, merita di essere evidenziato come la portata applicativa della norma di cui si lamenta un’erronea applicazione in questa sede (cioè l’art. 92, comma 6, del d.leg.vo n. 163/2006) sia stata approfondita dalla giurisprudenza contabile, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione delle Autonomie cui, per la sua portata di atto di orientamento generale, seppur non vincolante per le sezioni giurisdizionali, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174 (conv. con modif. dalla legge 07.12.2012, n. 213) il Collegio reputa opportuno richiamarsi.
Infatti, l’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti disponeva che “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
In proposito, si rileva come la definizione di “atto di pianificazione comunque denominato” sia stata alternativamente ricostruita, da un lato, “nel senso che il diritto all’incentivo sussiste solo nel caso in cui l’atto di pianificazione sia collegato strettamente ed in modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica, oppure nel senso che l’anzidetto diritto si configuri anche nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione generale, ancorché non puntualmente connessi alla realizzazione di un’opera pubblica.
Occorre rammentare l’esistenza di un consolidato indirizzo giurisprudenziale…con riferimento tanto alla progettazione di tipo urbanistico (adozione di PRG, variante urbanistica, piano di intervento) quanto ad altri atti di pianificazione (piani per l’ambiente, piani per il servizio rifiuti, per il turismo, per i trasporti, per l’innovazione tecnologica ecc.). Indirizzo che collega direttamente alla realizzazione di un’opera pubblica la redazione degli atti di pianificazione per i quali possa trovare applicazione la previsione di cui al citato comma 6 e, dunque, la corresponsione dell’incentivo, consistente nel trenta per cento della relativa tariffa professionale.
Su una linea interpretativa prossima a quella espressa dalle Sezioni regionali di controllo si collocano i pareri sulla normativa, resi dall’AVCP, che, peraltro, parzialmente discostandosi dall’anzidetto indirizzo giurisprudenziale, ha ritenuto di poter ricomprendere nell’ambito della definizione anche gli atti di pianificazione urbanistica, in quanto, sia pure mediatamente, gli stessi afferiscono la progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano.
Nell’ambito della giurisprudenza delle Sezioni Regionali di controllo formatasi sulla questione in esame le Sezioni Riunite per la Regione Siciliana, in sede consultiva, con il
parere 03.01.2013 n. 2, hanno, hanno precisato che, pur dovendosi riconoscere alla fonte regolamentare comunale la funzione esplicativa richiesta dalla genericità dell’espressione usata dal legislatore, per “atto di pianificazione comunque denominato” deve intendersi “qualsiasi elaborato complesso, previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi, finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con le previsioni normative e con la pianificazione territoriale degli altri livelli di governo.
In tale specifico contesto, pertanto, l’assoggettabilità ad incentivo discende, innanzitutto, dal contenuto tecnico documentale degli elaborati, che richiede necessariamente l’utilizzo di specifiche competenze professionali reperite esclusivamente all’interno dell’ente. In secondo luogo... si ritiene che l’attività di pianificazione debba essere contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di progettazione di opere pubbliche”.
Contrario avviso rispetto all’indirizzo interpretativo prevalente è stato espresso dalla Sezione Regionale di controllo per il Veneto, in alcune recenti delibere, ove si afferma che “con l’utilizzo della locuzione atto di pianificazione comunque denominato, lungi dall’autorizzare interpretazioni restrittive, il legislatore ha inteso utilizzare una dizione sufficientemente generale ed aperta, tale da consentire di ascrivere all’ambito oggettivo della norma ogni atto di pianificazione, prescindendo dal suo collegamento diretto con la progettazione di un’opera pubblica”, concludendosi per un’applicazione dell’istituto premiale estesa ad ogni atto di pianificazione “anche di carattere mediato”.
La Sezione Veneto, nelle predette deliberazioni, discostandosi dalla giurisprudenza prevalente delle Sezioni regionali di controllo, afferma che la previsione di cui all’art. 92, comma 6, contiene un’esplicita norma di incentivazione che deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente e rappresenta, comunque, un’ipotesi derogatoria distinta rispetto a quella introdotta dal comma 5. …Premesso il quadro giurisprudenziale - quale sommariamente ricostruito - la Sezione ritiene condivisibili gli argomenti su cui si fonda l’indirizzo interpretativo maggioritario, che riconosce di “palmare evidenza” il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici e di conseguenza reputa l’ambito applicativo della stessa, apparentemente ampio ed indefinito, in realtà, limitato esclusivamente all’attività progettuale e tecnico amministrativa direttamente collegata alla realizzazione di opere e lavori pubblici.
La Sezione considera dirimente, innanzitutto, l’argomento che attiene all’interpretazione sistematica delle disposizioni in esame e che ha riguardo alla collocazione delle stesse (sedes materiae) all’interno del Capo IV “Servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria”- Sez. I “Progettazione interna ed esterna e livelli di progettazione”- del Codice dei Contratti ed al fatto che le stesse siano immediatamente precedute dall’art. 90 rubricato “progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici". Disposizione quest’ultima che affida la progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori agli Uffici tecnici delle stazioni appaltanti o, in alternativa, a liberi professionisti e che, al comma 6, limita la possibilità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere a professionalità esterne ai soli casi di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori, o, infine, nell’ipotesi di lavori di speciale complessità. Il successivo art. 91 disciplina le procedure di affidamento. L’art. 92 rubricato “corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti” completa quanto disposto dai precedenti articoli, mantenendosi nell’alveo della disciplina della progettazione dei lavori pubblici. All’esegesi della norma in esame, oltre al criterio sistematico, dianzi illustrato, soccorre la ricostruzione dell’evoluzione storica della disciplina degli incentivi alla progettazione, attraverso la quale si può riconoscere nel testo vigente la riproduzione di disposizioni contenute nella legge 11.02.1994, n. 109 e specificatamente nell’art. 18 in materia di incentivi e spese per la progettazione. Disposizione quest’ultima che ha subito nel corso degli anni diverse modifiche, fino alla formulazione introdotta dall’art. 12 della legge 17.05.1999, n. 144 e sostanzialmente ripresa nel testo dell’art. 92 del Codice dei contratti. … Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 esprimono, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale e, pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego; il cui sistema retributivo è basato sui due principi cardine di onnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nonché di definizione contrattuale delle componenti economiche, fissato dal successivo art. 45, comma 1.
Principi alla luce dei quali nulla è dovuto oltre il trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio.
Il legislatore, con le disposizioni in esame, ha voluto riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando agli anzidetti principi.
In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92 ai commi 5 e 6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato, da ripartire fra i dipendenti dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto, entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche.
La norma deve essere considerata, dunque, norma di stretta interpretazione, non suscettibile di applicazione in via analogica… Ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo. Pertanto, ove tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione contrattuale delle componenti del trattamento economico, alla luce dei quali, nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio
” (Corte dei conti, Sezione delle Autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Come si vede
la giurisprudenza contabile è assestata nel senso di escludere che tale incentivo possa erogarsi indiscriminatamente a qualsiasi atto di pianificazione territoriale, dovendosi l’attenzione dell’interprete rivolgere, prescindendo dal nomen juris impiegato, al suo specifico contenuto, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica.
In effetti, come peraltro incidentalmente riconosciuto dalla Procura Regionale, non pare possa ragionevolmente affermarsi che gli atti in narrativa non siano suscettibili di essere annoverati fra gli atti di pianificazione connessi alla realizzazione di un’opera pubblica, alla luce delle indicazioni delle norme regionali e delle stesse norme di attuazione del P.T.C.P., che (art. IV. 2) risultando “finalizzati alla realizzazione di interventi sul territorio che richiedono: - progettazioni interdisciplinari ed il concorso di piani settoriali; - l’azione coordinata e integrata della Provincia, di uno o più comuni, ed eventualmente di altri enti pubblici interessati dall’esercizio delle funzioni di pianificazione generale e di settore”, ... ai sensi del successivo comma 2 “precisano, anche attraverso disposizioni normative, gli interventi delineati [dal P.T.C.P.], i soggetti che li promuovono e li attuano e indicano in linea di massima i tempi e le risorse necessarie per la loro realizzazione”.
Di conseguenza, essi incidono direttamente sugli assetti territoriali di riferimento con evidenti prospettive pianificatorie anche per la progettazione di opere pubbliche.
Tuttavia,
le contestazioni della Procura debbono essere condivise sulla base di altre, dirimenti considerazioni.
Anzitutto, la circostanza che siano stati costituiti dei gruppi di lavoro per la redazione dei progetti in esame, formati da numerosi professionisti esterni remunerati dall’amministrazione, ingenera serie perplessità sulla necessità della partecipazione delle professionalità interne dell’ente, numericamente esigue e destinate al disimpegno delle numerose attività istituzionali, come rammentato dalle difese. E proprio in ordine al contributo partecipativo reso meritano condivisione le deduzioni critiche mosse dall’attore pubblico, che ha stigmatizzato l’obiettiva assenza di un tangibile apporto delle professionalità interne, le quali sono sempre in via del tutto generica ed apodittica identificate con la locuzione “ufficio di piano”.
Non può affermarsi, come propugnato dalle difese, che tale generica perifrasi sa stata impiegata sol perché, data la loro nota esiguità, le professionalità interne fossero chiaramente identificabili. Come la giurisprudenza delle Sezioni del controllo ha più volte posto in evidenza, la norma in esame deve intendersi riferita a casi tassativi e limitati, proprio perché fortemente derogatoria al principio di onnicomprensività e di riserva di contrattazione collettiva del trattamento economico del dipendente pubblico e, dunque, da ritenersi norma di stretta interpretazione. E tale rigore non può che essere assistito, in omaggio ai principi di trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa e di sempre più esteso controllo (anche sociale) di essa, dal presidio della conoscibilità, sì da rendere percepibile in ogni caso di impiego di risorse pubbliche (anche riferite alle componenti retributive del personale) la loro concreta destinazione.
Pertanto,
atteso che i piani operativi integrati erano differenti e, per ciascuno di essi, deve essere reso percepibile il contributo di professionalità (specificamente remunerato) dei dipendenti che vi abbiano partecipato, non può ritenersi che un indefinito richiamo alla struttura interna di riferimento possa soddisfare quel livello minimo di chiarezza ed intelligibilità che la norma implicitamente richiede ai fini della liquidazione dello specifico compenso.
A tal riguardo,
non è condivisibile la posizione che ritiene che il personale interno dell’ente abbia reso un’attività non di mero supporto ed ausilio -come invece appare documentalmente provato dalla circostanza che, secondo le convenzioni sottoscritte, l’ufficio di piano doveva rendere “supporto informativo”- ma di concreta partecipazione e contributo scientifico alla realizzazione dei progetti.
Infatti,
non soltanto, non è possibile distinguere il contributo delle professionalità interne (corrispondenza interna, elaborati grafici provvisori, incarichi di progettazione e studio riferiti a singole aree -o eventuali, ulteriori partizioni interne, ad esempio, per settore scientifico, materia o territorio- singolarmente assegnati a ciascun dipendente nell’ambito del gruppo di lavoro che se ne sia avvalso, in ragione della sua competenza specifica) di cui non vi è prova ma, per di più, le note rilasciate dai responsabili scientifici dei progetti risultano appiattite su locuzioni ripetitive e stereotipate, sostanzialmente sovrapponibili in termini di contenuto e, come tali, non idonee a scalfire il quadro prima descritto.
Inoltre,
deve affermarsi come anche il parametro adottato per il calcolo dell’incentivo si riveli erroneo e conduca, inevitabilmente, ad una duplicazione di spesa per l’ente provinciale.
In proposito, basti osservare che, a titolo esemplificativo (il metodo di calcolo è stato applicato allo stesso modo per ciascuna delle procedure in argomento) la determinazione n. 3984 del 29.12.2008 approvava una spesa complessiva pari ad Euro 130.000,00 a fronte della quale la successiva determina n. 2733 del 18.08.2009 ha liquidato Euro 100.000 di compenso per gli esperti, oltre ad Euro 3.000,00 (in misura massima) per ciascuno di essi (pari a sei unità) per rimborso spese, per una spesa complessiva che, sommata ai 39.000 Euro (30% della tariffa professionale) riconosciuti ai dipendenti) ictu oculi sfora lo stanziamento complessivo iniziale. E senza considerare che i compensi venivano riconosciuti, non solo in assenza di ogni documentato impegno (come per i professionisti) ma, addirittura, fuori dalle previsioni normative, anche ai dipendenti dell’ufficio finanziario dell’ente, assolutamente privi di qualsiasi legittimazione.
Il danno, quindi, deve essere identificato, per le ragioni anzidette, nelle somme quantificate dalla Procura regionale in relazione ai compensi riconosciuti ai dipendenti dell’ente da parte dei convenuti, nelle rispettive qualità ed in conseguenza della sottoscrizione delle determine di liquidazione dei relativi pagamenti.
In ordine all’elemento psicologico della colpa grave contestato ai convenuti, esso deve ritenersi integrato dalla condotta disattenta e superficiale da essi tenuta che, nella qualità rivestita, avrebbero dovuto impedire che l’ente danneggiato sopportasse una spesa esorbitante rispetto allo stanziamento iniziale, per effetto del riconoscimento di somme non dovute ai dipendenti dai quali, peraltro, non si peritavano di assumere alcuna informazione in relazione agli incarichi concretamente svolti, dando corso senza alcuna responsabile verifica, ai pagamenti contestati con formula stereotipa ed acritica, con atteggiamento di inescusabile trascuratezza per le finanze pubbliche ed in aperta violazione dello stesso art. 13 del regolamento interno (deliberazione n. 755/2007) secondo cui si “provvede all’assegnazione degli incentivi…verificando l’attività effettivamente svolta”.
Da tanto detto e non rilevando alcuna incertezza circa la sicura riconducibilità, idonea a radicare l’ulteriore elemento del nesso causale, del contestato danno ai provvedimenti dirigenziali prima indicati, che tali esorbitanti spese hanno ordinato, deriva l’accoglimento della domanda attrice per l’intero importo di danno.
Si deve comunque prendere in considerazione, al fine di valutare in concreto quanto del suddetto danno sia equo porre a carico dei responsabili, il rilievo avanzato dalla difesa circa il fatto che, pur nell’ambito di un’attività esternalizzata, i collaboratori abbiano comunque svolto un’azione di sostegno e di supporto ai professionisti esterni nella attività di redazione degli atti di pianificazione.
Sul punto, il Collegio ritiene che di tale attività vada tenuto conto, potendo essa essersi tradotta in un impegno eccedente gli ordinari doveri d’ufficio. Tale considerazione, che certamente non presenta alcuna valenza ai fini della applicabilità di quanto disposto dall’art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20 del 1994, come modificato dalla legge n. 639/1996, perché non è ravvisabile alcun vantaggio conseguito dall’Amministrazione (ma, semmai, una maggiore utilitas per i professionisti esterni), consente, tuttavia, a questo Giudice di esercitare, per tale aspetto, il potere di cui all’art. 52 del R.D. 12.07.1934, n. 1214, e di ridurre l’addebito del danno.
Il Collegio, in applicazione del potere riduttivo, condanna il convenuto Be. ed il convenuto Bi., al pagamento, rispettivamente, di € 25.000,00 (venticinquemila/00) e di € 60.000,00 (sessantamila/00) in favore dell’amministrazione provinciale di Foggia, comprensivi entrambi -sempre in via di riduzione equitativa- anche degli accessori maturati sino alla data di deposito in Segreteria della domanda introduttiva del giudizio.
Sulle somme prima indicate saranno dovuti gli interessi in misura legale, calcolati a decorrere dalla data del deposito, presso la segreteria della Sezione, della domanda introduttiva del giudizio (01.12.2015) sino al soddisfo. Di eventuali recuperi medio tempore effettuati dovrà tenersi conto in sede esecutiva della presente decisione.
In applicazione della regola della soccombenza -art. 91, 1° comma, ed art. 97 c.p.c.- le spese di giudizio a favore dell’Erario devono essere poste a carico dei convenuti e separatamente liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, definitivamente pronunciando, ogni avversa istanza, eccezione e deduzione respinta, così provvede:
- accoglie la domanda risarcitoria proposta nei confronti dei convenuti e, per l’effetto, li condanna, al pagamento in favore dell’amministrazione provinciale di Foggia, delle seguenti somme:
€. 25.000,00 a carico di Be.Po.;
€. 60.000,00 a carico di Bi.St.,
comprensive degli accessori maturati sino alla data di deposito in Segreteria della domanda introduttiva del giudizio, oltre agli interessi in misura legale, calcolati a decorrere dalla data del deposito, presso la segreteria della Sezione, della domanda introduttiva del giudizio (01.12.2015) sino al soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia, sentenza 14.07.2016 n. 253).

Sull'istituto della proroga "straordinaria" ed "ordinaria" dei termini relativamente ai titoli edilizi abilitativi.

EDILIZIA PRIVATA: Proroga straordinaria una tantum ex lege 98/2013.
La proroga dei titoli edilizi disposta dall’articolo 30, commi 3 e 4, del decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 presenta carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema, poiché la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori risponde a esigenze di certezza e di tutela dell’interesse pubblico e della stessa potestà pianificatoria dei comuni.
Esigenze, queste, che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della possibilità del protrarsi a tempo indeterminato delle attività comportanti la trasformazione del territorio. L’operatività del nuovo istituto è pertanto –coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo determinato, e le relative previsioni sono valevoli una tantum.

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La proroga del termine dei lavori c.d. ordinaria, prevista dall’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile alla denuncia di inizio attività, per la quale è possibile soltanto –eccezionalmente, e in virtù di una espressa previsione di legge– la proroga prevista dall’articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2001.
Su questo punto, l’improrogabilità dei termini per l’ultimazione dei lavori oggetto di d.i.a. –beninteso, ordinariamente, e al di fuori dell’ambito di applicazione dell’istituto introdotto una tantum dal decreto legge n. 69 del 2013– costituisce un tratto caratterizzante dell’istituto della denuncia di inizio di attività, chiaramente delineato dalla disciplina normativa di fonte statale e regionale, come del resto affermato dalla giurisprudenza.
Al riguardo, è sufficiente tenere presente che:
- l’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel prevedere la proroga “ordinaria” dei termini dei lavori, si riferisce espressamente al solo permesso di costruire;
- l’articolo 23, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001, dopo aver previsto che la denuncia di inizio attività sia “sottoposta al termine massimo di efficacia pari a tre anni” (così il primo periodo), stabilisce esplicitamente che “La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è subordinata a nuova denuncia” (così il secondo periodo);
- l’articolo 42, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2005 parimenti dispone che “I lavori oggetto della denuncia di inizio attività devono essere iniziati entro un anno dalla data di efficacia della denuncia stessa ed ultimati entro tre anni dall'inizio dei lavori. La realizzazione della parte di intervento non ultimata nel predetto termine è subordinata a nuova denuncia (...)”.
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Per altro verso, la non prorogabilità, ordinariamente, dei termini di ultimazione dei lavori oggetto di denuncia di inizio attività è suffragata anche da un ulteriore argomento a contrario, evincibile proprio dalla previsione dell’articolo 30, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013.
Il legislatore ha infatti evidentemente reputato indispensabile introdurre una previsione ad hoc per rendere applicabile l’istituto della proroga ex lege anche nei confronti della denuncia di inizio attività. Ciò che conferma che il differimento dei termini della d.i.a. non è ordinariamente previsto.
Il regime giuridico così delineato risulta, peraltro, non irragionevole –in considerazione della natura e dei caratteri della denuncia di inizio attività– né discriminante rispetto a quello, diverso, stabilito per il permesso di costruire, atteso altresì che costituisce pur sempre una facoltà dell’interessato scegliere di richiedere quest’ultimo titolo, in luogo di avvalersi dell’istituto della d.i.a..
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1. La ricorrente I.M.C. Im.Mi.Co. s.r.l. ha presentato al Comune di Milano, in data 29.07.2010, una denuncia di inizio attività ai sensi dell’articolo 41 della legge regionale n. 12 del 2005 (ossia in alternativa al permesso di costruire: c.d. superdia).
Con nota del 23.08.2013, la società ha comunicato all’Amministrazione di valersi della proroga biennale del termine di ultimazione dei lavori, prevista dall’articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2013, convertito dalla legge n. 98 del 2013.
Il 27.07.del 2015 la medesima I.M.C. ha comunicato nuovamente la proroga del termine di fine lavori, ancora ai sensi dell’articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2013.
Il Comune ha a questo punto emesso il provvedimento datato 07.09.2015, con il quale ha reso noto che la richiesta di proroga non poteva essere accolta, perché la legge consente una sola proroga; ha comunicato inoltre la sospensione di efficacia del titolo edilizio e ha ordinato di tenere sospese le opere fino alla presentazione di un nuovo titolo abilitativo e all’avvenuta regolarizzazione degli obblighi del committente e del responsabile dei lavori.
2. Il provvedimento è stato impugnato da I.M.C. nel presente giudizio.
In particolare, la società ha allegato che:
   I) il diniego sarebbe basato unicamente su un’interpretazione restrittiva dell’articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2013, interpretazione in base alla quale la proroga sarebbe consentita una sola volta; il Comune avrebbe, tuttavia, dovuto valutare la sussistenza dei presupposti per concedere la proroga sulla base della disciplina ordinaria, contenuta all’articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e –a tal fine– sarebbe stato onere dell’Amministrazione riqualificare corrispondentemente l’istanza presentata dall’odierna ricorrente;
   II) violazione dell’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990, per la mancata comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
...
6. Il ricorso è infondato.
7. La Sezione ha già avuto modo di affermare che la proroga dei titoli edilizi disposta dall’articolo 30, commi 3 e 4, del decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 presenta carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema, poiché la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori risponde a esigenze di certezza e di tutela dell’interesse pubblico e della stessa potestà pianificatoria dei comuni; esigenze, queste, che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della possibilità del protrarsi a tempo indeterminato delle attività comportanti la trasformazione del territorio. L’operatività del nuovo istituto è pertanto –coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo determinato, e le relative previsioni sono valevoli una tantum (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.07.2015, n. 1764).
Il provvedimento impugnato ha quindi correttamente affermato che la proroga non potesse essere reiterata.
8. Sotto altro profilo, non può condividersi la tesi della ricorrente, secondo la quale l’Amministrazione avrebbe avuto l’onere di riqualificare la comunicazione presentata dalla società, trattandola come una ordinaria istanza di proroga del termine di ultimazione dei lavori, ai sensi dell’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ad avviso del Collegio, il Comune non avrebbe dovuto, e neppure potuto, riqualificare la comunicazione della parte, nel senso voluto dalla ricorrente. E ciò per la dirimente ragione che la proroga del termine dei lavori c.d. ordinaria, prevista dall’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile alla denuncia di inizio attività, per la quale è possibile soltanto –eccezionalmente, e in virtù di una espressa previsione di legge– la proroga prevista dall’articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2001.
Anche su questo punto deve richiamarsi alla già citata sentenza n. 1764 del 2015 di questa Sezione, ove si è evidenziato che l’improrogabilità dei termini per l’ultimazione dei lavori oggetto di d.i.a. –beninteso, ordinariamente, e al di fuori dell’ambito di applicazione dell’istituto introdotto una tantum dal decreto legge n. 69 del 2013– costituisce un tratto caratterizzante dell’istituto della denuncia di inizio di attività, chiaramente delineato dalla disciplina normativa di fonte statale e regionale, come del resto affermato dalla giurisprudenza (v. Cons. Stato, Sez. IV, 11.12.2013, n. 5969, che conferma la sentenza di questa Sezione, 08.03.2013, n. 619).
Al riguardo, è sufficiente tenere presente che:
- l’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel prevedere la proroga “ordinaria” dei termini dei lavori, si riferisce espressamente al solo permesso di costruire;
- l’articolo 23, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001, dopo aver previsto che la denuncia di inizio attività sia “sottoposta al termine massimo di efficacia pari a tre anni” (così il primo periodo), stabilisce esplicitamente che “La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è subordinata a nuova denuncia” (così il secondo periodo);
- l’articolo 42, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2005 parimenti dispone che “I lavori oggetto della denuncia di inizio attività devono essere iniziati entro un anno dalla data di efficacia della denuncia stessa ed ultimati entro tre anni dall'inizio dei lavori. La realizzazione della parte di intervento non ultimata nel predetto termine è subordinata a nuova denuncia (...)”.
Per altro verso, la non prorogabilità, ordinariamente, dei termini di ultimazione dei lavori oggetto di denuncia di inizio attività è suffragata anche da un ulteriore argomento a contrario, evincibile proprio dalla previsione dell’articolo 30, comma 4, del decreto legge n. 69 del 2013.
Il legislatore ha infatti evidentemente reputato indispensabile introdurre una previsione ad hoc per rendere applicabile l’istituto della proroga ex lege anche nei confronti della denuncia di inizio attività. Ciò che conferma che il differimento dei termini della d.i.a. non è ordinariamente previsto.
Il regime giuridico così delineato risulta, peraltro, non irragionevole –in considerazione della natura e dei caratteri della denuncia di inizio attività– né discriminante rispetto a quello, diverso, stabilito per il permesso di costruire, atteso altresì che costituisce pur sempre una facoltà dell’interessato scegliere di richiedere quest’ultimo titolo, in luogo di avvalersi dell’istituto della d.i.a.
9. Vi è, peraltro, anche un’altra ragione per la quale era in ogni caso preclusa all’Amministrazione la possibilità di trattare la comunicazione di I.M.C. come una istanza di proroga ai sensi dell’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Deve infatti osservarsi che la proroga ordinaria –oltre ad essere riservata, come detto, al solo permesso di costruire– è comunque subordinata alla sussistenza dei precisi presupposti stabiliti dai commi 2 e 2-bis del predetto articolo 15; presupposti il cui ricorrere deve essere allegato e dimostrato dalla parte richiedente.
Nel caso di specie, I.M.C. si è limitata a dichiarare di volersi avvalere della proroga ex lege, per cui il Comune non si sarebbe potuto sostituire in nessun caso alla società nel ricercare le ragioni legittimanti un eventuale differimento dei termini di efficacia del titolo edilizio.
10. Quanto alla mancata comunicazione del preavviso di provvedimento negativo, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che la previsione dell'articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990 deve essere interpretata alla luce del successivo articolo 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto del provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo (v. ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2298; C.G.A.R.S., 16.04.2013, n. 409; Cons. Stato, Sez. VI, 02.02.2012, n. 585).
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Amministrazione non si sarebbe potuta determinare diversamente, essendo il potere esercitato del tutto vincolato dalle previsioni di legge sopra richiamate.
E’ quindi irrilevante il mancato invio del preavviso di provvedimento negativo.
11. In conclusione, il ricorso deve essere integralmente respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.08.2016 n. 1569 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istituto della proroga straordinaria, introdotto in via di eccezione dall’art. 30, comma 3, del decreto legge n. 69 del 2013, prevede alcune rilevanti peculiarità rispetto alla proroga ordinaria.
Il legislatore ha, invero, espressamente stabilito:
- che il prolungamento dell’efficacia del titolo edilizio non sia subordinato alla valutazione, da parte del Comune, della sussistenza dei rigorosi presupposti di cui all’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ma operi a prescindere da ogni verifica in ordine alle circostanze che determinano il mancato rispetto del termine originariamente previsto;
- che, conseguentemente, il Comune sia chiamato unicamente a controllare, a seguito della comunicazione del privato, che quest’ultimo abbia dichiarato di avvalersi della proroga in presenza di tutte le condizioni stabilite direttamente dalla norma primaria;
- che, in particolare, l’operatività della proroga sia subordinata alla circostanza che l’intervento non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici approvati o anche solo adottati;
- che la proroga operi anche per gli interventi oggetto di denuncia di inizio di attività o di segnalazione certificata di inizio di attività, secondo quanto espressamente previsto dall’articolo 4 del medesimo articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2013 (“La disposizione di cui al comma 3 si applica anche alle denunce di inizio attività e alle segnalazioni certificate di inizio attività presentate entro lo stesso termine”).
La proroga è quindi prevista e direttamente disposta dalla legge, che la condiziona unicamente al ricorrere delle condizioni tipizzate dalla norma primaria e alla presentazione, da parte del soggetto interessato, di un’apposita comunicazione.
Invero, si tratta di una previsione di carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema, poiché la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori risponde a esigenze di certezza e di tutela dell’interesse pubblico e della stessa potestà pianificatoria dei comuni; esigenze, queste, che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della possibilità del protrarsi a tempo indeterminato delle attività comportanti la trasformazione del territorio.
L’operatività del nuovo istituto è pertanto –coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo determinato, e le relative previsioni sono valevoli una tantum.

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La proroga di cui all’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69 del 2013 opera ex lege, purché ricorra la duplice condizione della conformità urbanistica e della dichiarazione dell’interessato di volersi avvalere del differimento dei termini di efficacia del titolo edilizio.
Conseguentemente, il Comune è tenuto unicamente a compiere una verifica –a contenuto interamente vincolato– in ordine all’effettiva sussistenza dei predetti presupposti.
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6. Osserva il Collegio che la ricorrente, con la propria nota del 26.10.2015, ha comunicato al Comune di volersi avvalere della proroga di cui all’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69 del 2013.
Disposizione, questa, in base alla quale “Salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del presente decreto, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati. È altresì prorogato di tre anni il termine delle autorizzazioni paesaggistiche in corso di efficacia alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
7. L’istituto della proroga straordinaria, introdotto in via di eccezione dalla suddetta disposizione normativa, prevede alcune rilevanti peculiarità rispetto alla proroga ordinaria.
Il legislatore ha, invero, espressamente stabilito:
- che il prolungamento dell’efficacia del titolo edilizio non sia subordinato alla valutazione, da parte del Comune, della sussistenza dei rigorosi presupposti di cui all’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ma operi a prescindere da ogni verifica in ordine alle circostanze che determinano il mancato rispetto del termine originariamente previsto;
- che, conseguentemente, il Comune sia chiamato unicamente a controllare, a seguito della comunicazione del privato, che quest’ultimo abbia dichiarato di avvalersi della proroga in presenza di tutte le condizioni stabilite direttamente dalla norma primaria;
- che, in particolare, l’operatività della proroga sia subordinata alla circostanza che l’intervento non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici approvati o anche solo adottati;
- che la proroga operi anche per gli interventi oggetto di denuncia di inizio di attività o di segnalazione certificata di inizio di attività, secondo quanto espressamente previsto dall’articolo 4 del medesimo articolo 30 del decreto legge n. 69 del 2013 (“La disposizione di cui al comma 3 si applica anche alle denunce di inizio attività e alle segnalazioni certificate di inizio attività presentate entro lo stesso termine”).
La proroga è quindi prevista e direttamente disposta dalla legge, che la condiziona unicamente al ricorrere delle condizioni tipizzate dalla norma primaria e alla presentazione, da parte del soggetto interessato, di un’apposita comunicazione.
Come già evidenziato dalla Sezione, si tratta di una previsione di carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema, poiché la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori risponde a esigenze di certezza e di tutela dell’interesse pubblico e della stessa potestà pianificatoria dei comuni; esigenze, queste, che sarebbero tutte frustrate dalla previsione della possibilità del protrarsi a tempo indeterminato delle attività comportanti la trasformazione del territorio. L’operatività del nuovo istituto è pertanto –coerentemente– circoscritta dallo stesso legislatore a un periodo determinato, e le relative previsioni sono valevoli una tantum (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.07.2015, n. 1764).
...
12. Ciò posto, sono pure infondate le allegazioni –contenute nel secondo motivo di ricorso– con le quali la ricorrente sostiene che il provvedimento impugnato non avrebbe adeguatamente indicato le ragioni di contrasto dell’intervento con la vigente pianificazione urbanistica.
Come sopra detto, il Comune ha evidenziato che il progetto asseverato con la denuncia di inizio attività non rispetta le previsioni morfologiche specificamente dettate per i nuclei di antica formazione, contenute all’articolo 13, comma 3, lett. a) del Piano delle Regole del PGT.
Tale previsione –secondo quanto riportato dalla stessa parte nel proprio ricorso– dispone che gli interventi siano consentiti laddove assicurino il “mantenimento o ripristino delle cortine edilizie o completamento del fronte continuo; la costruzione in cortina deve arrivare sino alla linea di altezza dell’edificio più basso adiacente alla costruzione; laddove quest’ultimo fosse più basso rispetto all’altezza esistente è fatto salvo il mantenimento dell’altezza esistente”.
Si tratta di indicazioni chiare e specifiche, in relazione alle quali deve ritenersi del tutto agevole per la ricorrente individuare i punti di discordanza del proprio progetto.
Peraltro, Pa. s.r.l. non ha neppure allegato, nel presente giudizio, che l’intervento oggetto della denuncia di inizio attività effettivamente rispetti tutte le prescrizioni ora richiamate. Per cui il contrasto rilevato dal Comune deve ritenersi sostanzialmente incontestato.
13. La parte ha infatti incentrato le proprie difese –in particolare, nel primo motivo di ricorso– sulla circostanza che la conformità alle previsioni sopravvenute del PGT sarebbe stata attestata dalla stessa Amministrazione in un proprio precedente provvedimento.
In questa prospettiva, Pa. s.r.l. ha sostenuto che il provvedimento impugnato, nell’affermare oggi la mancanza di tale conformità, si porrebbe in contrasto con la precedente determinazione assunta dallo stesso Comune.
Il Collegio osserva, tuttavia, che il vizio di eccesso di potere –di cui la contraddittorietà con precedenti provvedimenti rappresenta una figura sintomatica– è configurabile solo in presenza di attività discrezionali, e non invece a fronte di un potere del tutto vincolato, quale quello esercitato dal Comune nel caso di specie.
Si è già detto, infatti, che la proroga di cui all’articolo 30, comma 3, del decreto legge n. 69 del 2013 opera ex lege, purché ricorra la duplice condizione della conformità urbanistica e della dichiarazione dell’interessato di volersi avvalere del differimento dei termini di efficacia del titolo edilizio. Conseguentemente, il Comune è tenuto unicamente a compiere una verifica –a contenuto interamente vincolato– in ordine all’effettiva sussistenza dei predetti presupposti.
Nel caso di specie, secondo quanto sopra rimarcato, il Comune ha convincentemente indicato le ragioni per le quali l’intervento è da ritenere non compatibile con la disciplina urbanistica vigente.
E ciò costituisce motivazione necessaria e sufficiente per dichiarare l’inammissibilità e l’inefficacia della comunicazione di proroga del titolo edilizio, senza che possa assumere alcuna rilevanza qualsivoglia precedente valutazione espressa dalla stessa Amministrazione.
14. In definitiva, per tutte le ragioni sin qui esposte, il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.08.2016 n. 1568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La durata limitata nel tempo dei titoli edificatori costituisce un principio cardine dell’intero sistema della disciplina urbanistica.
Si tratta, infatti, di una regola che risponde non solo all’esigenza di assicurare la realizzazione ordinata ed entro tempi certi delle trasformazioni assentite con il titolo edilizio, prevenendo situazioni di degrado legate alla presenza di costruzioni non ultimate, ma anche alla necessità di tutelare l’interesse pubblico a consentire quelle sole trasformazioni del territorio che corrispondono alle esigenze attuali della collettività, quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente. Esigenza, questa, che verrebbe irrimediabilmente frustrata dalla possibilità del protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta che le trasformazioni assentite siano ritenute non più rispondenti all’interesse pubblico.
In tale prospettiva, la declaratoria di decadenza del permesso di costruire è un “provvedimento che ha carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal richiamato art, 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione".
E –specularmente– la proroga del permesso di costruire, in quanto comporta un prolungamento del termine ordinario di efficacia del titolo edilizio, può essere consentita nei soli casi e modi previsti dalle richiamate previsioni dell’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001.
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Deve rilevarsi che il comma 2 dell’articolo 15 stabilisce espressamente che, decorsi i termini di inizio e di conclusione dei lavori, “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”, la quale può essere concessa nelle ipotesi previste dalla legge, tra le quali il verificarsi di “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso”.
Il legislatore ha quindi espressamente stabilito che la proroga possa essere concessa solo se sia stata richiesta prima della scadenza del titolo edilizio, e ciò anche nei casi di forza maggiore o di c.d. factum principis, che sono sostanzialmente riconducibili nel novero dell’ampia casistica dei “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso”, prevista dalla disposizione normativa richiamata.
In questo senso si è del resto pronunciata la giurisprudenza, la quale ha avuto modo di rimarcare che “il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore”.
Anche questa Sezione è pervenuta alle medesime conclusioni laddove si è ritenuto che –nonostante secondo una parte della giurisprudenza la sussistenza di una causa di forza maggiore impedisca ex se la decadenza del titolo edilizio– è tuttavia “preferibile ritenere, come fa altra giurisprudenza, che, anche laddove si sia in presenza del cd. factum principis o di cause di forza maggiore, l'interessato che voglia impedire la decadenza del titolo edilizio per il mancato tempestivo inizio dei lavori è pur sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso; proroga che deve essere accordata con atto espresso dell'Amministrazione”.
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L’onere di richiedere la proroga prima che il titolo edilizio venga a scadenza costituisce, a ben vedere, un portato necessario dell’assetto complessivo del sistema, posto che la decadenza matura automaticamente alla scadenza del termine e –ferma la necessità che l’Amministrazione la dichiari espressamente– essa opera di diritto.
La concessione della proroga esclusivamente mediante un provvedimento espresso è, allora, prescritta dal legislatore al fine di soddisfare due concorrenti esigenze: da un lato, quella di assicurare –a beneficio, anzitutto, del titolare del permesso di costruire– la certezza, in ogni momento, dei termini di efficacia del titolo edilizio; dall’altro, quella di consentire all’Amministrazione di valutare la sussistenza dei presupposti della proroga e la sua eventuale durata. Sotto quest’ultimo profilo, la Sezione ha avuto modo di rimarcare, infatti, che “l’atto di proroga, previsto dall’art. 15, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, a differenza dell'accertamento dell'intervenuta decadenza, è atto di esercizio di discrezionalità amministrativa, che presuppone l'accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell'avvio della edificazione”.
Tali conclusioni trovano ulteriore conferma nel nuovo comma 2-bis dell’articolo 15 del d.P.R. n. n. 380 del 2001, introdotto dal decreto legge n. 133 del 2014.
La disposizione, infatti, reca un’ipotesi di proroga vincolata del permesso di costruire, “qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate”.
Tuttavia, nonostante in tale fattispecie la proroga sia sempre dovuta, per espressa previsione di legge, la disposizione non prevede che essa operi automaticamente, ma stabilisce che debba essere “comunque accordata”. Anche in questo caso è quindi pur sempre necessario che il differimento dei termini venga disposto dall’Amministrazione con un provvedimento espresso, benché interamente vincolato.

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Non può trovare accoglimento il primo motivo di impugnazione, con il quale la parte allega che l’obbligo di effettuare la bonifica costituirebbe una ipotesi di forza maggiore o di factum principis, tale da determinare l’automatica sospensione del termine per ultimare i lavori fino alla certificazione dell’esito positivo delle operazioni.
Come detto, infatti, è bensì condivisibile l’affermazione secondo la quale la “scoperta” della necessità di operare la bonifica, a causa di pregresse attività inquinanti non dipendenti dal titolare del permesso di costruire, potrebbe astrattamente dare luogo, sussistendone i presupposti, a una ipotesi di forza maggiore, tale da giustificare la proroga dei termini di efficacia del permesso di costruire.
Deve però escludersi, per le ragioni sopra esposte, che il prolungamento della scadenza del titolo possa operare automaticamente, in assenza di un’apposita istanza di proroga da parte dell’interessato, che possa mettere l’Amministrazione in condizione di valutare se effettivamente sussista un evento, estraneo alla volontà del titolare del permesso di costruire, tale da impedire l’esecuzione delle opere, nonché –in caso affermativo– di stabilire l’entità della proroga da concedere.
Tale istanza però è del tutto mancata nel caso di specie.
Sicché, non può assumere alcuna rilevanza la circostanza che l’Amministrazione fosse a conoscenza dello svolgimento della bonifica, poiché tale conoscenza non poteva di per sé comportare uno slittamento automatico del termine di ultimazione dei lavori, in assenza di un provvedimento espresso e motivato che avesse disposto in tal senso.
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Si è già detto che le ipotesi di proroga del titolo edilizio sono di stretta interpretazione, in quanto consentono di superare i termini ordinari di efficacia del permesso di costruire, posti a presidio di rilevanti esigenze di interesse pubblico. Conseguentemente, non è dato individuare ipotesi di prolungamento di tali termini che non siano tipizzate dalla legge.
Vero è, semmai, che le cause di forza maggiore e di factum principis rientrano –come pure evidenziato– tra i fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso di costruire, che giustificano il rilascio della proroga.
Ciò in quanto i fatti qualificabili come forza maggiore o factum principis legittimano la proroga unicamente ove siano sopravvenuti dal punto di vista del titolare del permesso di costruire, nel senso che rilevano solo se si verifichino o vengano scoperti da questo soggetto dopo il rilascio del titolo, benché le loro cause possano risalire (e spesso risalgano) a un momento precedente.
In definitiva, deve ribadirsi che la proroga non può operare automaticamente, quale che ne sia la causa.
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8. Il Collegio ritiene, a un più meditato esame, di non poter confermare le conclusioni provvisoriamente raggiunte in sede cautelare. E ciò in quanto, benché la necessità di operare la bonifica del sito possa astrattamente rientrare tra le cause di forza maggiore tali da impedire lo svolgimento dei lavori, deve tuttavia ritenersi che la proroga del titolo edilizio non possa operare automaticamente, essendo necessario un apposito provvedimento, tempestivamente richiesto all’Amministrazione, al fine di disporre il differimento dei termini di efficacia del permesso di costruire.
9. Occorre tenere presente, al riguardo, che la disciplina dell’efficacia temporale e della decadenza del permesso di costruire è contenuta all’articolo 15 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Le previsioni concernenti la proroga del titolo edilizio sono state recentemente modificate dall'articolo 17, comma 1, lett. f) del decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164.
In particolare, la proroga del titolo edilizio è regolata dalle previsioni dei commi 2 e 2-bis del richiamato articolo 15, in base ai quali: “2. Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.
2-bis. La proroga dei termini per l'inizio e l'ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate
.”.
Deve osservarsi, in proposito, che la durata limitata nel tempo dei titoli edificatori costituisce un principio cardine dell’intero sistema della disciplina urbanistica. Si tratta, infatti, di una regola che risponde non solo all’esigenza di assicurare la realizzazione ordinata ed entro tempi certi delle trasformazioni assentite con il titolo edilizio, prevenendo situazioni di degrado legate alla presenza di costruzioni non ultimate, ma anche alla necessità di tutelare l’interesse pubblico a consentire quelle sole trasformazioni del territorio che corrispondono alle esigenze attuali della collettività, quali individuate dalla pianificazione urbanistica vigente. Esigenza, questa, che verrebbe irrimediabilmente frustrata dalla possibilità del protrarsi a tempo indeterminato dei lavori di realizzazione degli interventi edilizi, una volta che le trasformazioni assentite siano ritenute non più rispondenti all’interesse pubblico (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.05.2016, n. 864; nello stesso senso anche Id., 22.07.2015, n. 1764).
In tale prospettiva, la declaratoria di decadenza del permesso di costruire è un “provvedimento che ha carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal richiamato art, 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 974 del 23.02.2012; n. 2915 del 2012)” (Cons. Stato, Sez. III, 04.04.2013, n. 1870). E –specularmente– la proroga del permesso di costruire, in quanto comporta un prolungamento del termine ordinario di efficacia del titolo edilizio, può essere consentita nei soli casi e modi previsti dalle richiamate previsioni dell’articolo 15 del d.P.R. n. 380 del 2001.
10. Ciò posto, deve rilevarsi che il comma 2 dell’articolo 15 stabilisce espressamente che, decorsi i termini di inizio e di conclusione dei lavori, “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”, la quale può essere concessa nelle ipotesi previste dalla legge, tra le quali il verificarsi di “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso”.
Il legislatore ha quindi espressamente stabilito che la proroga possa essere concessa solo se sia stata richiesta prima della scadenza del titolo edilizio, e ciò anche nei casi di forza maggiore o di c.d. factum principis, che sono sostanzialmente riconducibili nel novero dell’ampia casistica dei “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso”, prevista dalla disposizione normativa richiamata.
In questo senso si è del resto pronunciata la giurisprudenza, la quale ha avuto modo di rimarcare che “il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore” (così Cons. Stato, Sez. III, n. 1870 del 2013, cit.; v. anche Id., Sez. IV, 23.02.2012, n. 974).
Anche questa Sezione è pervenuta alle medesime conclusioni, in particolare nella recente sentenza n. 201 del 29.01.2016. In tale precedente, si è ritenuto che –nonostante secondo una parte della giurisprudenza la sussistenza di una causa di forza maggiore impedisca ex se la decadenza del titolo edilizio (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II,10.02.2012, n. 188)– è tuttavia “preferibile ritenere, come fa altra giurisprudenza, che, anche laddove si sia in presenza del cd. factum principis o di cause di forza maggiore, l'interessato che voglia impedire la decadenza del titolo edilizio per il mancato tempestivo inizio dei lavori è pur sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso; proroga che deve essere accordata con atto espresso dell'Amministrazione”.
11. L’onere di richiedere la proroga prima che il titolo edilizio venga a scadenza costituisce, a ben vedere, un portato necessario dell’assetto complessivo del sistema, posto che la decadenza matura automaticamente alla scadenza del termine e –ferma la necessità che l’Amministrazione la dichiari espressamente– essa opera di diritto (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22.09.2014, n. 4765; Id., Sez. III, n. 1870 del 2013, cit.).
La concessione della proroga esclusivamente mediante un provvedimento espresso è, allora, prescritta dal legislatore al fine di soddisfare due concorrenti esigenze: da un lato, quella di assicurare –a beneficio, anzitutto, del titolare del permesso di costruire– la certezza, in ogni momento, dei termini di efficacia del titolo edilizio; dall’altro, quella di consentire all’Amministrazione di valutare la sussistenza dei presupposti della proroga e la sua eventuale durata. Sotto quest’ultimo profilo, la Sezione ha avuto modo di rimarcare, infatti, che “l’atto di proroga, previsto dall’art. 15, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, a differenza dell'accertamento dell'intervenuta decadenza, è atto di esercizio di discrezionalità amministrativa, che presuppone l'accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell'avvio della edificazione. (cfr., TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 22.04.2015, n. 186)” (così TAR Lombardia, Milano, n. 201 del 2016, cit.).
12. Tali conclusioni trovano ulteriore conferma nel nuovo comma 2-bis dell’articolo 15 del d.P.R. n. n. 380 del 2001, introdotto dal decreto legge n. 133 del 2014.
La disposizione, infatti, reca un’ipotesi di proroga vincolata del permesso di costruire, “qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate”. Tuttavia, nonostante in tale fattispecie la proroga sia sempre dovuta, per espressa previsione di legge, la disposizione non prevede che essa operi automaticamente, ma stabilisce che debba essere “comunque accordata”. Anche in questo caso è quindi pur sempre necessario che il differimento dei termini venga disposto dall’Amministrazione con un provvedimento espresso, benché interamente vincolato.
13. Nel solco dei principi ora esposti, il ricorso è da ritenere infondato.
14. Non può, anzitutto, trovare accoglimento il primo motivo di impugnazione, con il quale la parte allega che l’obbligo di effettuare la bonifica costituirebbe una ipotesi di forza maggiore o di factum principis, tale da determinare l’automatica sospensione del termine per ultimare i lavori fino alla certificazione dell’esito positivo delle operazioni.
14.1 Come detto, infatti, è bensì condivisibile l’affermazione secondo la quale la “scoperta” della necessità di operare la bonifica, a causa di pregresse attività inquinanti non dipendenti dal titolare del permesso di costruire, potrebbe astrattamente dare luogo, sussistendone i presupposti, a una ipotesi di forza maggiore, tale da giustificare la proroga dei termini di efficacia del permesso di costruire.
Deve però escludersi, per le ragioni sopra esposte, che il prolungamento della scadenza del titolo possa operare automaticamente, in assenza di un’apposita istanza di proroga da parte dell’interessato, che possa mettere l’Amministrazione in condizione di valutare se effettivamente sussista un evento, estraneo alla volontà del titolare del permesso di costruire, tale da impedire l’esecuzione delle opere, nonché –in caso affermativo– di stabilire l’entità della proroga da concedere.
Tale istanza però è del tutto mancata nel caso di specie.
14.2 Per questa ragione, non può assumere alcuna rilevanza la circostanza che l’Amministrazione fosse a conoscenza dello svolgimento della bonifica, poiché tale conoscenza non poteva di per sé comportare uno slittamento automatico del termine di ultimazione dei lavori, in assenza di un provvedimento espresso e motivato che avesse disposto in tal senso.
14.3 Sotto altro profilo, non può darsi rilievo alla circostanza –richiamata anche nel terzo motivo di ricorso– che la causa di forza maggiore, consistente nell’inquinamento dell’area comportante l’obbligo di bonifica, preesistesse al rilascio del titolo edilizio.
Secondo la tesi di Ce. –diffusamente illustrata negli scritti difensivi depositati in prossimità dell’udienza– l’onere di richiedere la proroga del permesso di costruire sussisterebbe soltanto nella fattispecie espressamente contemplata dall’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia in presenza di cause sopravvenute al rilascio del titolo. Ove, invece, si sia in presenza di cause preesistenti, si verificherebbe la sospensione automatica dei termini di efficacia del permesso di costruire.
Si tratta di una prospettazione che non può essere condivisa.
Si è già detto, infatti, che le ipotesi di proroga del titolo sono di stretta interpretazione, in quanto consentono di superare i termini ordinari di efficacia del permesso di costruire, posti a presidio di rilevanti esigenze di interesse pubblico. Conseguentemente, non è dato individuare ipotesi di prolungamento di tali termini che non siano tipizzate dalla legge.
Vero è, semmai, che le cause di forza maggiore e di factum principis rientrano –come pure evidenziato– tra i fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso di costruire, che giustificano il rilascio della proroga.
Ciò in quanto i fatti qualificabili come forza maggiore o factum principis legittimano la proroga unicamente ove siano sopravvenuti dal punto di vista del titolare del permesso di costruire, nel senso che rilevano solo se si verifichino o vengano scoperti da questo soggetto dopo il rilascio del titolo, benché le loro cause possano risalire (e spesso risalgano) a un momento precedente.
14.4 In definitiva, deve ribadirsi che la proroga non può operare automaticamente, quale che ne sia la causa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.08.2016 n. 1564 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

13.08.2013-13.08.2016
     Tre anni senza di Te ... non c'è giorno che non Ti pensi.
T.

NOVITA' NEL SITO

● Inserito il nuovo bottone dossier ZONA SISMICA E CEMENTO ARMATO.

IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFerie non godute sempre indennizzate. La sentenza della corte di giustizia europea.
I lavoratori hanno diritto, ogni anno, ad almeno quattro settimane di ferie, indipendentemente dallo stato di salute. Quando cessa il rapporto di lavoro, il lavoratore ha diritto ad avere un'indennità economica sostitutiva se non è riuscito a fruire delle ferie a prescindere da ogni altra motivazione.

Lo stabilisce la corte di giustizia Ue nella sentenza 20.07.2016 - causa C/341/15.
La vicenda riguarda un dipendente pubblico di Vienna, collocato a riposo a sua richiesta, dal 01.07.2012. Tra il 15.11.2010 e il 30.06.2012 egli non si è presentato sul posto di lavoro; per un mese e mezzo (dal 15.11. al 31.12.2010), è stato in congedo per malattia. Dal 01.01.2011 si attenuto, conformemente a una convenzione conclusa con il suo datore di lavoro, a non presentarsi sul posto di lavoro, continuando però a percepire lo stipendio.
Dopo il pensionamento, il lavoratore ha chiesto il pagamento dell'indennità per ferie annuali non godute, sostenendo di essersi nuovamente ammalato poco prima del pensionamento. Il datore di lavoro ha respinto la richiesta, sostenendo che, ai sensi della normativa sul lavoro pubblico, un lavoratore che, di propria iniziativa, cessa il rapporto di lavoro, in particolare chiedendo di essere collocato a riposo, non ha diritto all'indennità per ferie non godute. Il lavoratore ha quindi fatto ricorso al tribunale di Vienna, il quale ha chiesto alla Corte Ue di pronunciarsi sulla compatibilità della normativa nazionale (Vienna) con i principi della direttiva Ue 2003/88.
La Corte Ue rammenta che la direttiva prevede che ogni lavoratore ha diritto a beneficiare di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane e che il diritto alle ferie annuali retribuite costituisce un principio particolarmente importante del diritto sociale dell'Ue. Quando cessa il rapporto di lavoro e dunque la fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite non è più possibile, la direttiva prevede che il lavoratore abbia diritto a un'indennità finanziaria per evitare che, a causa di tale impossibilità, non riesca in alcun modo a beneficiare di tale diritto, neppure in forma pecuniaria.
Secondo la corte Ue, in particolare, la direttiva contrasta con una normativa nazionale (come quella di Vienna), che priva del diritto a un'indennità economica per ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto sia cessato a seguito della domanda di pensionamento e che non è stato in grado di usufruire del suo diritto alle ferie prima della fine di tale rapporto di lavoro. L'indennità spetta, dunque, per i periodi accertati di malattia.
La Corte aggiunge che il diritto alle ferie annuali ha una duplice finalità, ossia consentire al lavoratore di sospendere l'esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di lavoro e di beneficiare di un periodo di relax e svago. Al fine di assicurare l'effetto utilizzato, sancisce il seguente principio: un lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato e che, in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro, pur continuando a percepire lo stipendio, fosse tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro durante un periodo determinato precedente il suo pensionamento, non ha diritto all'indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo, salvo che egli non abbia potuto usufruirne a causa di una malattia (articolo ItaliaOggi del 21.07.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) dichiara:
L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 04.11.2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che:
– esso osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che priva del diritto all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito della sua domanda di pensionamento e che non sia stato in grado di usufruire di tutte le ferie prima della fine di tale rapporto di lavoro;
– un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento, all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute per il fatto di non aver esercitato le sue funzioni per malattia;
– un lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato e che, in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro, pur continuando a percepire il proprio stipendio, fosse tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro per un periodo determinato antecedente il suo pensionamento non ha diritto all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo, salvo che egli non abbia potuto usufruire di tali ferie a causa di una malattia;
– spetta, da un lato, agli Stati membri decidere se concedere ai lavoratori ferie retribuite supplementari che si sommano alle ferie annuali retribuite minime di quattro settimane previste dall’articolo 7 della direttiva 2003/88. In tale ipotesi, gli Stati membri possono prevedere di concedere a un lavoratore che, a causa di una malattia, non abbia potuto usufruire di tutte le ferie annuali retribuite supplementari prima della fine del suo rapporto di lavoro, un diritto all’indennità finanziaria corrispondente a tale periodo supplementare. Spetta, dall’altro lato, agli Stati membri stabilire le condizioni di tale concessione.

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Un lavoratore che ponga fine egli stesso al proprio rapporto di lavoro ha diritto a un’indennità finanziaria se non ha potuto usufruire di una parte o della totalità delle ferie annuali retribuite (leggi anche il comunicato stampa 20.07.2016 n. 81/16).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: applicazione CCNL nell'ambito degli appalti pubblici (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nota 26.07.2016 n. 14775 di prot.).

SICUREZZA LAVOROOggetto: Istruzioni per l'esecuzione in sicurezza di lavori su alberi con funi (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 22.07.2016 n. 23).

VARI: Oggetto Coperture Assicurative R.c.a. - Dematerializzazione contrassegni e documenti assicurativi - Accertamenti e sanzioni applicabili ai sensi degli artt. 180,181, e 193 del C.d.S. (IVASS, nota 01.06.2016 n. 111471).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 dell'11.08.2016, "Modifiche alla deliberazione del Consiglio regionale 12.05.2009, N. VIII/834 ‘Programma di qualificazione e ammodernamento della rete di distribuzione dei carburanti’ in attuazione dell’art. 83 della l.r. n. 6/10" (deliberazione C.R. 28.07.2016 n. 1200).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U. 10.08.2016 n. 186 "Designazione di 37 zone speciali di conservazione (ZSC) della regione biogeografica alpina e di 101 ZSC della regione biogeografica continentale insistenti nel territorio della Regione Lombardia, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 08.09.1997, n. 357" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 15.07.2016).

APPALTI: G.U. 01.08.2016 n. 178 "Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali (periodo 1º luglio - 31.12.2016)" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, comunicato).
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Interessi di mora: comunicato il tasso per il secondo semestre 2016.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze con un comunicato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 178 dell'01.08.2016, indica il tasso di riferimento da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali, che per il periodo 1º luglio-31.12.2016, è pari allo 0%.

Con un comunicato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 178 del 1° agosto 2016, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, indica il tasso di riferimento da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali.
Per il periodo 1º luglio-31.12.2016, il tasso di riferimento è pari allo 0%.
Ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 231/2002, come modificato dalla lettera e) del comma 1 dell'art. 1 del decreto legislativo n. 192/2012, il saggio degli interessi di mora da applicare, è determinato in misura pari al saggio d'interesse maggiorato di otto punti percentuali, pertanto per il secondo semestre 2016 gli interessi legali moratori complessivi sono determinati in misura pari all’8,00% (commento tratto da www.ipsoa.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: Digitalizzazione dei documenti: le ragioni del flop (12.08.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Riforma della dirigenza: l’inganno della “meritocrazia” (11.08.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Riforma della dirigenza: lo slogan della licenziabilità per nascondere l’intento della politicizzazione (10.08.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Offerta economicamente più vantaggiosa: le contraddizioni con l’esigenza di un progetto esecutivo (07.08.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

SEGRETARI COMUNALI: Riforma dei segretari comunali e della dirigenza: l'apporto propagandistico della stampa (07.08.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti. Relazione finale. Modello di data base (per smanettoni con stampa-unione) (29.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti. Come costruire una determinazione a contrattare. Parti essenziali del provvedimento (con esempi) (29.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Dgue in formato word a moduli con campi editabili (28.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: M. De Paolis, Accordo bonario nell’attività contrattuale della PA (Azienditalia - Enti Locali n. 7/2015).
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L’accordo bonario è lo strumento con il quale le stazioni appaltanti pubbliche pongono fine a controversie insorte durante lo svolgimento di contratti con oggetto lavori, opere, servizi e forniture contribuendo a rendere maggiormente efficiente l’esercizio della funzione pubblica in un contesto economico-finanziario connotato da una persistente crisi economica che obbliga gli amministratori a scelte oculate.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. De Paolis, Responsabilità amministrativa per lite temeraria (Azienditalia - Enti Locali n. 6/2015).
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La lite temeraria può coinvolgere anche la Pubblica Amministrazione nelle sue diverse articolazioni generando la responsabilità amministrativa e il danno erariale quando l’agire in giudizio risulti ingiustificato e abbia determinato una spesa per l’Erario recuperabile attraverso la Corte dei conti direttamente dal soggetto che ha operato con dolo o colpa grave.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. De Paolis, Responsabilità per transazione nelle attività della PA (Azienditalia - Enti Locali n. 5/2015).
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La transazione rappresenta lo strumento negoziale attraverso cui la PA, al pari dei soggetti privati (persone fisiche e giuridiche), pone fine o previene costose liti in sede giudiziaria tutelando l’interesse pubblico e salvaguardando al contempo l’Erario a condizione che vengano rispettati i canoni della razionalità, della logica, della convenienza e della correttezza gestionale.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. De Paolis, Peculato d’uso e peculato mediante profitto dell’errore altrui (Azienditalia - Enti Locali n. 4/2015).
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L’evoluzione delle tecnologie di comunicazione (computers, internet, telefoni cellulari) e il persistente uso delle autovetture di servizio, nonostante una parziale riduzione per esigenze di bilancio, hanno concentrato l’oggetto del reato di peculato d’uso prevalentemente sui predetti servizi e beni ampiamente utilizzati nei diversi settori in cui opera la PA.

LAVORI PUBBLICI: M. Pollini, Leasing in costruendo. Legislazione, giurisprudenza e principi contabili (Azienditalia - Enti Locali n. 4/2015).
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La legislazione ha dato largo spazio al leasing in costruendo quale strumento per realizzare investimenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni utilizzando anche capitali privati. La Magistratura contabile ha tuttavia frenato l’utilizzo di questo prodotto finanziario ed i principi dettati in sede di armonizzazione contabile degli Enti territoriali hanno ulteriormente, ed in maniera pesante, posto ostacoli all’utilizzo del prodotto stesso. Con il presente scritto si mettono in luce le contraddizioni venutesi a creare nell’importante materia e si esprime l’auspicio di un definitivo chiarimento.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. De Paolis, Reato di peculato ordinario (Azienditalia - Enti Locali n. 3/2015).
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Il contrasto alla corruzione nella PA transita anche attraverso la lotta al reato di peculato poco pubblicizzato dagli organi di informazione, ma che, essendo facilmente praticabile dai pubblici ufficiali e dagli incaricati di un pubblico servizio, risulta estremamente diffuso nelle varie articolazioni del peculato ordinario, d’uso e mediante profitto dell’errore altrui.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Enti locali e Soggetti aggregatori.
Dal prossimo 9 agosto anche gli enti locali, nonché loro consorzi e associazioni, sono tenuti al ricorso ai Soggetti aggregatori per gli affidamenti nelle categorie del DPCM 24.12.2015 (05.08.2016 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Elenco dei soggetti aggregatori (delibera 04.08.2016 n. 784 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici; ulteriori indicazioni interpretative a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs n. 50/2016 (comunicato del Presidente 03.08.2016 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Codice Identificativo Gara. Chiarimenti sulle tempistiche per la corretta acquisizione dei CIG e modalità operative.
Pubblicati due comunicati del Presidente che forniscono chiarimenti sulle varie tempistiche per la corretta acquisizione dei CIG e sulle modalità operative per l’acquisizione dei medesimi, introducendo una voce in più tra le motivazioni obbligatorie per gli acquisiti effettuati nelle categorie merceologiche che prevedono il ricorso ai Soggetti aggregatori.
Per questo motivo il Comunicato sulle modalità operative aggiorna il comunicato del 10.02.2016:
comunicato del Presidente 13.07.2016 – tempistiche acquisizione CIG
comunicato del Presidente 13.07.2016 – modalità operative acquisizione CIG (link a www.anticorruzione.it).

APPALTIValutazione offerte, un salto in avanti le linee guida Anac. Appalti. Più responsabilità per le Pa.
Lo scorso 21 giugno il Consiglio dell'Autorità nazionale Anticorruzione (Anac) ha approvato la linea guida del nuovo codice degli appalti e delle concessioni sull’offerta economicamente più vantaggiosa.
Due le principali novità riportate per la valutazione degli elementi quantitativi delle offerte (ad esempio il prezzo), la prima di metodo e tecnica, la seconda indice di un cambio culturale a lungo atteso. In primis, l’esplicita possibilità di utilizzo di formule di aggiudicazione cosiddette indipendenti in alternativa alle tradizionali formule interdipendenti per il calcolo del punteggio economico-tecnico. In secundis, il riconoscimento di un potere discrezionale per le stazioni appaltanti nell’individuare formule per l’attribuzione dei punteggi anche al di là dei limiti indicati nella linea guida stessa, purché non determinino esiti illogici o irrazionali.
L’Anac ha effettuato una attenta analisi dei contributi pervenuti nella fase di consultazione pubblica, e in particolare anche del gruppo di ricerca economica sugli appalti dell’Università di Roma Tor Vergata che ha sottolineato come l’uso pedissequo di formule di aggiudicazione interdipendenti come quelle sinora indicate dal Dpr 207/2010 abbia talvolta favorito il successo di strategie di offerta “coordinate” da parte dei concorrenti.
Tali formule, facendo dipendere i punteggi ottenuti dalla singola impresa da una qualche statistica (ad esempio la media) della distribuzione della totalità delle offerte, sono manipolabili per natura rendendo in contesti già proni ai cartelli, più conveniente la formazione di accordi collusivi a danno dei contribuenti.
Inoltre, non consentendo alle imprese offerenti di calcolare ex ante il proprio punteggio, accentuano l'incertezza in gara non permettendo alle stesse di valutare ottimamente il mix prezzo-qualità da offrire. Le formule indipendenti, che oggi grazie alla lungimiranza dell'Anac sono «esplicitamente» a diposizione delle stazioni appaltanti, risolvono i problemi sopra elencati facendo dipendere il punteggio ottenuto da un'offerta dalle sole caratteristiche della stessa.
Certo, tali formule richiedono un'accurata stima dei valori a base d'asta e/o soglia, circostanza che soprattutto per le stazioni appaltanti poco professionalizzate ne ha scoraggiato l'utilizzo. Ma sta proprio in ciò il salto culturale che l’Anac impone alle stesse ovvero un uso responsabile della discrezionalità che deve accompagnarsi ad un incremento delle competenze necessarie all’utilizzo degli strumenti più innovativi per effettuare acquisti efficaci e trasparenti.
È un cambio di paradigma per questo Paese che passa da un approccio prescrittivo e diffidente nei confronti delle capacità delle stazioni appaltanti ad un orientamento di soft-regulation dell’Anac che le responsabilizza fornendogli allo stesso tempo gli strumenti per operare con efficacia.
Per l'approvazione definitiva delle linee guida si è in attesa del parere del Consiglio di Stato e delle Commissioni di Camera e Senato competenti. Auspicando che non si alterino gli orientamenti adottati, per ora registriamo l’attivismo di un regolatore nazionale in linea con le best-practice del settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Il programma biennale degli acquisti.
DOMANDA:
In riferimento al Nuovo Codice degli appalti si chiede di sapere se il programma biennale degli acquisti di beni e servizi deve essere già previsto all'interno del DUP già per la programmazione degli anni 2016-2017 od in quella degli anni 2017-2018.
RISPOSTA:
L’articolo 21 comma 1, del Dlgs 50/2016, stabilisce che “le amministrazioni aggiudicatrici adottano il programma biennale degli acquisti di beni e servizi e il programma triennale dei lavori pubblici, nonché i relativi aggiornamenti annuali. I programmi sono approvati nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio”.
Questa disposizione si ritiene che sia applicabile a decorrere dall’esercizio 2017, e cioè, il programma biennale per l’acquisto di beni e servizi relativo agli esercizi 2017–2018 deve essere una componente del prossimo bilancio preventivo.
Ciò sta a significare che il DUP relativo al periodo 2017-2019, che doveva essere presentato al Consiglio entro il 31/07/2016, doveva anche contenere la previsione di questo programma biennale. Si segnala, però, che come è risaputo il DUP può essere aggiornato entro il 15/11 (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIO: La locazione dell'immobile comunale.
DOMANDA:
L’ente intende concedere in locazione una porzione immobile per uso socio-sanitario all'interno di una RSA - casa di riposo.
Si chiede che tipo di gara espletare anche in termini di pubblicità, tenuto conto che la locazione immobile è appalto escluso codice art. 17, ma l’affidamento verrà aggiudicato con l’offerta economicamente più vantaggiosa che terrà conto del canone e che premi anche l’idea di gestione (es. centro per malati terminali o per dialisi ecc.) e che pertanto la gestione successiva potrebbe avere un valore economico importante per il privato attualmente non definibile di rilevanza pubblica anche se la gestione rimarrà privata.
RISPOSTA:
Come noto, i contratti di compravendita o locazione di immobili stipulati dalle pubbliche amministrazioni sono sottratti all’applicazione delle norme codicistiche. In tal caso, infatti, non avendo il contratto ad oggetto lavori, servizi o forniture, l’amministrazione procedente agisce iure privatorum, al di fuori dell’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici. Inoltre, diversamente dagli appalti, il contratto di affitto è riconducibile nel novero dei contratti attivi, secondo la tradizionale distinzione operata dalla legge di contabilità generale dello Stato.
Per completezza si rileva che l’ipotesi non ricade neppure nella definizione di cui alla lett. a) dell’art. 17 del (nuovo) codice degli appalti (d.lgs. 50/2016) concernente gli appalti e le concessioni di servizi esclusi, giacché la stessa si riferisce solo alle fattispecie nelle quali la stazione appaltante stipula un contratto di locazione nella veste di conduttore. Inoltre, anche a voler inquadrare la fattispecie de quo come concessione, in quanto gestione di un servizio di rilevanza pubblica (centro per malati terminali o per dialisi ecc) con un ritorno economico importante, si ricorda che le disposizioni del codice non si applicano alle concessioni aventi ad oggetto attività non contemplate nell’all. II, tra cui i servizi sociali, culturali e sportivi.
L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica (art. 4). Le modalità per procedere ad una locazione attiva dovrebbero pertanto essere stabilite dal regolamento dei contratti o da altro eventuale atto regolamentare che si è dato l’ente; e la scelta del contraente deve comunque avvenire nel rispetto del principio della concorrenza.
Pertanto, in ogni caso, il responsabile del provvedimento, deve dare informazione sul sito dell’amministrazione attraverso la pubblicazione di un bando, nel quale si precisano le condizioni (soggetti che possono accedere all’affitto, eventuali priorità, durata del contratto di affitto, criteri per l’affidamento del contratto, ecc) ed i tempi entro i quali fare pervenire le offerte (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ L'accesso batte la privacy. La riservatezza non giustifica il diniego. Ma il consigliere comunale è tenuto a rispettare il segreto d'ufficio.
Sono ostensibili, da parte dell'amministrazione comunale, i documenti concernenti il rilascio di titoli abilitativi, studi di fattibilità, documenti dello Sportello unico delle attività produttive e dell'ufficio Edilizia privata-urbanistica richiesti dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?

L'istanza di accesso ai documenti rientranti in tale elenco può essere riscontrata negativamente in ragione delle eventuali pretese risarcitorie dei soggetti privati coinvolti, eventualmente danneggiati dalla diffusione delle notizie in possesso della amministrazione?
L'art. 43, comma 2, riconosce al consigliere comunale un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del comune di residenza, ai sensi dell'art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000 che, più in generale, nei confronti della pubblica amministrazione come disciplinato dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi con parere espresso nella seduta del 28.02.2012 ha affermato che «il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri degli organi elettorali locali ex art. 43 decreto legislativo n. 267/2000 è strettamente funzionale all'esercizio del proprio mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente territoriale, ai fini della tutela degli interessi pubblici, e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività
» (Cons. stato sez. V, 08/11/2011, n. 5895).
In tale ottica, al consigliere comunale non può essere opposto alcun diniego, altrimenti gli organi di governo dell'ente sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'estensione del controllo sul proprio operato.
La giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel senso di ritenere che l'ampia prerogativa a ottenere informazioni è riconosciuta ai consiglieri comunali senza che possano essere opposti profili di riservatezza, restando fermi, tuttavia, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali, nei casi specificamente determinati dalla legge, come previsto dal sopra richiamato art. 43.
Anche il Tar Lombardia, sezione di Milano, con sentenza n. 2363 del 23/09/2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune in quanto «non è in dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il consigliere tenuto al segreto d'ufficio» (articolo ItaliaOggi del 29.07.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: È all'Inail, non al sindacato, che bisogna rivolgersi per i danni. È infortunio in itinere anche se il prof è in permesso sindacale.
Un docente che mentre si stava recando, con un permesso sindacale, in una scuola per tenere un'assemblea sindacale, è rimasto coinvolto senza sua responsabilità, come accertato dai vigili urbani intervenuti in loco, in un incidente stradale riportando danni sia alla sua auto che alla sua persona.
Oltre all'assicurazione auto chi è tenuto a indennizzarlo per le lesioni subite, l'Inail, il Miur o il sindacato del quale è un dirigente?
Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione civile, sez. lavoro, la n. 13882/2016, afferma che un infortunio accorso ad un lavoratore mentre in qualità di sindacalista si stava recando ad una assemblea sindacale va equiparato- sussistendo le condizioni previste dall'Inail e restando fermi i limiti imposti dalla norma- all'infortunio in itinere e di conseguenza le lesioni riportate a seguito dell'evento vanno indennizzate ai sensi dell'art. 12 del decreto legislativo n. 38/2000 direttamente dall'Inail, previa denuncia da parte dell'organizzazione sindacale di cui l'infortunato è un dirigente (articolo ItaliaOggi del 26.07.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Parentele e affinità Come si calcolano.
Nel contratto sulle utilizzazioni e assegnazioni è previsto che la precedenza nei movimenti debba essere riconosciuta anche personale docente destinatario dell'art. 33, commi 5 e 7, della citata legge n. 104/1992 che sia unico parente o affine entro il secondo grado ovvero entro il terzo grado, qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto 65 anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
Vorrei sapere come si calcolano i gradi di parentela in linea retta e collaterali e affinità e i riferimenti normativi.
La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite (articolo 74 e seguenti del codice civile). Lo stipite è un parente in comune che le abbia generate oppure che abbia generato i parenti dai quali discendono. Per esempio, nel caso di due fratelli, lo stipite è il padre; nel caso di due cugini lo stipite è il nonno; nel caso di zio e nipote, lo stipite è il nonno.
La parentela viene calcolata in due direzioni: in linea retta e in linea collaterale (articolo 75 del codice civile). Due parenti si dicono tali in linea retta se uno dei due è lo stipite (per esempio, padre e figlio) oppure se lo stipite di uno dei due si trova in un'altra generazione (per esempio, nonno e nipote: lo stipite è il bisnonno del nipote, che è il padre del nonno).
Due parenti si dicono, invece, collaterali se lo stipite si trova in una generazione superiore a quella di entrambi, ma non discendono l'una dall'altra (per esempio zio e nipote: lo stipite è il nonno del nipote che è anche il padre dello zio).
Il grado di parentela si calcola contando le generazioni comprendendo lo stipite e poi sottraendolo. Per esempio, padre a figlio sono parenti di primo grado. Ciò vale sia per la parentela in linea retta che per quella collaterale. Quanto al legame di affinità, esso è il legame del coniuge con i parenti dell'altro coniuge (articolo ItaliaOggi del 26.07.2016).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPer le assunzioni dedalo di procedure a seconda dei profili. Personale. Le ricadute delle «aperture» sul turn-over.
La morsa del blocco delle assunzioni inizia ad allentarsi. La Funzione pubblica dà il via libera alle ordinarie facoltà assunzionali per le regioni nelle quali gli esuberi degli enti di area vasta e della Croce Rossa sono annullati o ridotti al lumicino; in linea con questa previsione, la legge di conversione del decreto enti locali prevede il riavvio del turn-over negli enti locali delle regioni in cui il 90% degli esuberi provinciali sia stato ricollocato.
Ma questo significa che, al quadro già complicato della normativa sul reclutamento di dipendenti negli enti locali, si aggiunge un ulteriore tassello. In pratica, gli addetti all’ufficio personale devono distinguere le disposizioni da applicare secondo il profilo professionale che è necessario e l’ambito territoriale su cui operano.
La questione prende le mosse dalla legge di stabilità 2015, la quale obbligava gli enti locali a destinare le facoltà assunzionali 2015 e 2016, sia nella percentuale stabilita sia nel suo complemento a 100, al ricollocamento dei dipendenti degli enti di area vasta dichiarati in esubero.
Il rigore della norma ha spinto le amministrazioni locali a manifestare forti proteste, ottenendo, l’estate scorsa, un primo sblocco per maestre ed educatrici, ritenute figure infungibili, e per gli stagionali della polizia locale.
La legge di stabilità 2016 ha portato tre novità: la ricollocazione del personale soprannumerario della Croce Rossa anche presso Comuni e Regioni, l’indisponibilità dei posti di dirigente vacanti al 15.10.2015 e le modalità di chiusura delle operazioni di riassorbimento del personale soprannumerario degli enti di area vasta e della Cri, affidando il compito alla Funzione Pubblica.
Una prima comunicazione in tal senso, di fine febbraio, ha sbloccato il reclutamento del solo personale della polizia municipale e limitatamente alle regioni Basilicata, Emilia Romagna, Marche Lazio, Piemonte e Veneto.
Con la nota 18.07.2016 n. 37870 di prot., il Dipartimento apre le maglie in maniera più significativa.
All’elenco delle regioni che possono assumere vigili urbani aggiunge la Puglia e il Molise. Ma il passaggio significativo consiste nel dare il via libera alle assunzioni nelle regioni Emilia Romagna, Lazio, Marche e Veneto, e negli enti locali del loro territorio. Queste amministrazioni potranno procedere, secondo i vincoli di legge e le disponibilità finanziarie, alle assunzioni riferite agli anni 2015 e 2016, recuperare le annualità antecedenti al 2015, assumere a tempo determinato e dar corso alla mobilità. Sicuramente la previsione fa sorgere immediatamente una serie di problemi applicativi.
Le facoltà assunzionali, sia del biennio 2015/2016 sia anteriori al 2015 (i cosiddetti “resti”) devono essere state incluse nel programma triennale del fabbisogno di personale, come richiede dalla Corte dei Conti? In caso di risposta affermativa, si doveva procedere in allora o si può, oggi, rivedere la programmazione del 2015 per inserire resti e facoltà assunzionali non presenti? E ancora, i resti utilizzabili si riferiscono al triennio antecedente il 2015 (2012/2014 e quindi, cessazioni 2011/2013) oppure l’anno di riferimento è il 2016 ed il triennio è il 2013/2015? Sono queste le prime domande che sorgono spontanee.
La questione, dunque, non è finita: a fronte di un problema che si risolve nascono altri mille dubbi. Una cosa è certa: il ripristino delle ordinarie facoltà assunzionali permette agli enti locali di poter utilizzare liberamente tutti gli strumenti a disposizione: mobilità, scorrimento di graduatorie, nuovi concorsi pubblici, eccetera. Ma, scelta la via del concorso pubblico, non si può prescindere dall’esperire le procedure di mobilità volontaria e obbligatoria previste rispettivamente dagli articoli 30 e 34-bis del Dlgs 165/2001.
Infine attenzione al profilo professionale: come detto, norme diverse sono previste se vengono assunti dirigenti, maestre ed educatrici, agenti di polizia locali o dipendenti con altre mansioni. Il panorama rimane sufficientemente intricato
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2016).

PUBBLICO IMPIEGOValutazione, prorogati i componenti degli Oiv.
In attesa della piena operatività del nuovo regolamento sulla misurazione e valutazione della performance delle pubbliche amministrazioni, per i componenti degli Organismi indipendenti di valutazione (Oiv) oggi in scadenza, si può prorogare il mandato fino all'entrata in vigore del decreto ministeriale con cui saranno definiti i requisiti per l'iscrizione al nuovo elenco Oiv. In seconda battuta, è altresì possibile procedere ad una nuova nomina, con le modalità finora seguite, ma con una durata non superiore a quella prevista dalla disciplina previgente.

E' quanto precisa il dipartimento della funzione pubblica, con la nota-circolare 14.07.2016 n. 37249 di prot. con la quale si fa chiarezza sulle novità introdotte in materia dal dpr n. 105/2016, fornendo un'interpretazione delle disposizioni contenute all'articolo 6, comma 5, di tale dpr, che regola la nomina degli Oiv.
Come noto, con il regolamento sopra citato, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 giugno scorso ed emanato in attuazione dell'articolo 19, comma 10, del decreto legge n. 90/2014, si è dato avvio al processo di riordino delle funzioni in materia di misurazione e valutazione della performance delle p.a.
L'articolo 6, in dettaglio, reca nuove disposizioni in materia di organizzazione e funzionamento degli Oiv, prevedendo l'istituzione di un apposito elenco nazionale, tenuto dal Dipartimento della funzione pubblica. Tuttavia, precisa la nota di palazzo Vidoni, l'elenco degli Oiv non sarà immediatamente operativo, in quanto occorrerà attendere (entro centoventi giorni dall'entrata in vigore del citato dpr n. 105/2016, ovvero il 30.10.2016) un apposito decreto del ministero della semplificazione.
Decreto nel quale saranno messi nero su bianco i requisiti di competenza, esperienza ed integrità che devono possedere gli iscritti all'elenco nazionale degli Oiv. Fermo restando che le nuove disposizioni si intendono applicate a partire dai rinnovi degli organismi successivi all'entrata in vigore del predetto dm e che i componenti degli organismi già nominati restino in carica fino alla naturale scadenza del loro mandato.
Si pone, pertanto, il problema della disciplina dei componenti Oiv in caso di scadenza nella fase transitoria che precede l'emanazione del dm semplificazione. Sul punto, palazzo Vidoni ha precisato, in risposta a numerosi quesiti pervenuti dalle amministrazioni, che in caso di scadenza dell'Oiv e, in attesa della piena operatività della nuova disciplina, è demandato alla singola amministrazione la corretta procedura da seguire.
In ogni caso, la stessa funzione pubblica suggerisce di prorogare i componenti uscenti fino all'entrata in vigore del citato decreto ministeriale, oppure di procedere alla nomina dei nuovi componenti secondo le modalità sino ad oggi eseguite, ma con una durata non superiore a quella prevista dalla disciplina previgente (articolo ItaliaOggi del 19.07.2016).

CORTE DEI CONTI

PATRIMONIO: Iniziative di partenariato pubblico-privato nei processi di valorizzazione dei beni culturali (Corte dei Conti, Sez. centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, deliberazione 04.08.2016 n. 8).
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Si legga di interesse:
IL QUADRO NORMATIVO
Sommario: 1. La sponsorizzazione: definizione e tipologie. - 2. Il contratto di sponsorizzazione nel d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici). - 3. Il contratto di sponsorizzazione nel d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio). - 3.1. La disciplina speciale dei contratti di sponsorizzazione di lavori, servizi e forniture aventi ad oggetto beni culturali. - 4. Le linee guida ministeriali (d.m. 19.12.2012). - 5. La circolare n. 28 del 17.06.2016. - 6. Il trattamento fiscale. - 7. Gli aspetti finanziari. - 8. La finanza di progetto (project financing). - 9. Osservazioni.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: In merito all’obbligo imposto dall’art. 1, comma 512 della legge 28/12/2015, n. 208 (Legge di Stabilità 2016) di provvedere agli approvvigionamenti di beni e servizi informatici e di connettività esclusivamente attraverso il mercato elettronico.
Gli enti locali risultano esonerati dal far ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione solamente per gli acquisti di beni e servizi di carattere generico e di limitato importo (sotto la soglia dei 1.000 Euro) poiché, negli altri casi, di acquisto dei medesimi beni di importo pari o superiore ai 1.000 Euro e fino al limite della soglia di rilievo comunitario, sono tenuti “… a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici..ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure…”.
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Per gli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività vige invece un diverso regime, in quanto la recente normativa, considerandoli una speciale categoria merceologica cui vengono destinate specifiche disposizioni di legge, impone, senza alcuna distinzione di valore, il ricorso alle convenzioni Consip o dei soggetti aggregatori.
Invero, l’art. 1, comma 512, della legge n. 208 del 28.12.2015 è da considerarsi norma speciale rispetto al più generico art. 1, comma 450, della legge n. 296 del 27.12.2006, come novellato dall’art. 1, comma 502, della suddetta legge n. 208/2015, così che per l’acquisto di beni e servizi informatici, anche di importo inferiore ai 1.000 Euro, è necessario che gli enti locali rispettino la procedura prevista dal richiamato comma 512, ed il complesso di norme dettate per il settore informatico dai commi 513-520 della Legge di stabilità 2016.

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Il Sindaco del Comune di Narni (TR) ha inoltrato a questa Sezione Regionale di Controllo una richiesta di parere, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria, relativa all’interpretazione della normativa che impone agli enti locali di provvedere agli approvvigionamenti di beni e servizi informatici e di connettività di qualunque importo esclusivamente tramite i soggetti individuati dall’art.1, comma 512, della legge 28.12.2015, n. 208 (Legge di Stabilità 2016).
Il Comune chiede in particolare se per i detti acquisti possa, in alternativa, applicarsi la normativa che obbliga le amministrazioni a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione solamente per le forniture di beni e servizi al di sopra della soglia dei 1.000 Euro, introdotta dall’art. 1, comma 502, della medesima Legge di Stabilità 2016.
...
Nel merito il Comune chiede di conoscere l’avviso della Sezione relativamente all’interpretazione dei commi 502 e 512 dell’art. 1 della legge 28.12.2015 n. 208 (Legge di Stabilità 2016), interrogandosi sulla possibilità di acquistare la particolare categoria merceologica dei beni e servizi informatici (comma 512) secondo le diverse previsioni dettate per l’acquisto di generici beni e servizi tout court (comma 502), per i quali ultimi gli enti sono obbligati a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione solamente per gli acquisti al di sopra della soglia di 1.000 Euro.
In altri termini il Comune chiede se sia possibile acquistare beni e servizi informatici, di valore inferiore alla soglia dei 1.000 Euro, evitando il tramite di Consip Spa e degli altri soggetti indicati dal richiamato comma 512.
In proposito occorre premettere che il citato art. 1, comma 502, della legge 28.12.2015, n. 208 (Legge di Stabilità 2016) ha modificato l'articolo 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, come segue:
b) al primo periodo, dopo le parole: «per gli acquisti di beni e servizi» sono inserite le seguenti: «di importo pari o superiore a 1.000 euro e»;
c) al secondo periodo, dopo le parole: «per gli acquisti di beni e servizi di importo» sono inserite le seguenti: «pari o superiore a 1.000 euro e».".
Ne è derivato che l’art. 1, comma 450, appena detto, a seguito della novella, risulta del seguente tenore: “450. Le amministrazioni statali centrali e periferiche…..per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e al di sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,…. per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure…”.
A sua volta, il comma 512, dell’art. 1 della citata Legge di stabilità 2016 dispone: “512. Al fine di garantire l'ottimizzazione e la razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività, fermi restando gli obblighi di acquisizione centralizzata previsti per i beni e servizi dalla normativa vigente, le amministrazioni pubbliche e le società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, provvedono ai propri approvvigionamenti esclusivamente tramite Consip SpA o i soggetti aggregatori, ivi comprese le centrali di committenza regionali, per i beni e i servizi disponibili presso gli stessi soggetti. Le regioni sono autorizzate ad assumere personale strettamente necessario ad assicurare la piena funzionalità dei soggetti aggregatori di cui all'articolo 9 del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, in deroga ai vincoli assunzionali previsti dalla normativa vigente, nei limiti del finanziamento derivante dal Fondo di cui al comma 9 del medesimo articolo 9 del decreto-legge n. 66 del 2014.”.
Dal quadro normativo appena descritto emerge che
gli enti locali risultano esonerati dal far ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione solamente per gli acquisti di beni e servizi di carattere generico e di limitato importo (sotto la soglia dei 1.000 Euro) poiché, negli altri casi, di acquisto dei medesimi beni di importo pari o superiore ai 1.000 Euro e fino al limite della soglia di rilievo comunitario, sono tenuti “… a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici..ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure…”.
Per gli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività vige invece un diverso regime, in quanto la recente normativa, considerandoli una speciale categoria merceologica cui vengono destinate specifiche disposizioni di legge, impone, senza alcuna distinzione di valore, il ricorso alle convenzioni Consip o dei soggetti aggregatori.
Ciò emerge dalla interpretazione letterale della norma (è previsto l’approvvigionamento di tali beni “esclusivamente” tramite i soggetti indicati dal legislatore, così escludendo altre modalità di acquisto autonomo –comma 512), ma anche dalla interpretazione sistematica dell’intero corpo normativo dedicato al settore informatico (commi 513-520 dell’art. 1 della Legge di stabilità 2016).
Più in dettaglio si contempla la possibilità di approvvigionamento al di fuori delle modalità previste dal citato comma 512 solamente in alcuni casi (autorizzazione motivata dell’organo di vertice amministrativo, solo per beni non disponibili o idonei o nei casi di necessità ed urgenza, con comunicazione all’Anac e all’Agid- comma 516). Inoltre la mancata osservanza delle disposizioni dettate in materia rileva ai fini della responsabilità disciplinare e per danno erariale (comma 517). Per il settore sanitario sono previsti criteri uniformi per gli acquisti informatici (comma 520).
La specialità della normativa riferita al settore informatico si evince anche dalle finalità dichiarate dal legislatore (“…garantire l'ottimizzazione e la razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività…“) e dallo scopo (di realizzare “...un risparmio di spesa annuale...”), oltreché dagli incentivi previsti (“Le regioni sono autorizzate ad assumere personale strettamente necessario ad assicurare la piena funzionalità dei soggetti aggregatori...in deroga ai vincoli assunzionali previsti dalla normativa vigente...”).
Da tutto quanto sopra esposto deriva conclusivamente che
l’art. 1, comma 512, della legge n. 208 del 28.12.2015 è da considerarsi norma speciale rispetto al più generico art. 1, comma 450, della legge n. 296 del 27.12.2006, come novellato dall’art. 1, comma 502, della suddetta legge n. 208/2015, così che per l’acquisto di beni e servizi informatici, anche di importo inferiore ai 1.000 Euro, è necessario che gli enti locali rispettino la procedura prevista dal richiamato comma 512, ed il complesso di norme dettate per il settore informatico dai commi 513-520 della Legge di stabilità 2016 (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 28.04.2016 n. 52).

NEWS

VARIPatente guida. Punti finiti, revisione immediata.
Il conducente che esaurisce i punti della patente deve richiedere tempestivamente alla motorizzazione di poter sostenere l'esame di revisione della licenza di guida, con tanto di rilascio di foglio rosa. Ma per chi non si presenta poi alle prove scatterà la sospensione della patente oppure la revoca per i più negligenti.

Lo hanno chiarito i Trasporti con circolare 22.07.2016 n. 16729 di prot., in vigore dal 03.11.2016.
Il 01.07.2016 sono entrati in vigore i nuovi programmi d'esame per gli esami di teoria per la revisione delle patenti di guida e della carta di qualificazione del conducente. Per sostenere l'esame di revisione, specifica la nota, il candidato dovrà presentare una domanda, redatta su un modello ad hoc, con allegata una copia del provvedimento di revisione e il certificato medico, se richiesto.
La richiesta ha validità annuale, specifica il ministero. Alla scadenza l'interessato dovrà presentare una nuova istanza se non ha ancora superato entrambe le prove. La domanda dovrà essere presentata entro 30 giorni dal ricevimento del provvedimento di revisione della licenza di guida, prosegue la circolare. Pena la sospensione della patente di guida fino al superamento delle prove.
Gli esami di revisione della licenza di guida si svolgeranno in due giorni diversi. Prima quello teorico, con revoca della patente in caso di mancato superamento. La prova pratica, conseguente al superamento di quella teorica, verrà invece disposta successivamente, previo rilascio del foglio rosa per consentire al conducente di esercitarsi alla guida con un istruttore a fianco. Se il candidato non riuscirà a superare la prova pratica scatterà la revoca della licenza e il conducente potrà eventualmente tentare di conseguire nuovamente tutte le categorie, o solo alcune.
La revisione della carta di qualificazione del conducente, infine, scatterà all'esaurimento totale del punteggio speciale a disposizione dei conducenti professionali. Se il conducente risulta titolare sia della cqc trasporto cose che persone scatterà il programma d'esame attinente alla materia in cui il trasgressore ha commesso più violazioni (articolo ItaliaOggi del 30.07.2016).

VARIPolizza ancora in auto per evitare la multa.
La polizia stradale non può sequestrare un veicolo per mancata copertura assicurativa sulla base di una semplice visura al portale dell'automobilista. Occorre sempre approfondire l'accertamento richiedendo dati al proprietario o alla compagnia assicurativa.

Lo ha evidenziato l'Ivass con la circolare 01.06.2016 n. 111471 di prot. (Oggetto: Coperture Assicurative R.c.a. - Dematerializzazione contrassegni e documenti assicurativi - Accertamenti e sanzioni applicabili ai sensi degli artt. 180,181, e 193 del C.d.S.).
La cessazione dell'obbligo di esposizione del contrassegno assicurativo, entrata in vigore il 19.10.2015, ha avviato una serie di riflessioni operative tra le forze dell'ordine che hanno inevitabili ricadute anche sui comportamenti degli autisti.
Se da una parte l'utente stradale ha il beneficio di non dover più esporre sul parabrezza il contrassegno, dall'altro sono aumentati i rischi di essere trovati in difetto e spesso per motivazioni assolutamente indipendenti dalla volontà dell'automobilista. Questo perché innanzitutto le banche dati che attestano la regolarità della copertura assicurativa non sono ancora aggiornate. Poi perché alcune compagnie consentono una estensione della copertura assicurativa per periodi di tempo superiori alle due settimane di rito.
Per cercare di rimettere un po' di ordine nel settore, l'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale ha diramato alcune istruzioni operative che evidenziano la necessità di avere sempre al seguito il certificato di assicurazione da esibire alla polizia. Ma è anche consigliabile portarsi dietro l'attestazione di avvenuto pagamento del premio e copia del contratto. Perché rispetto alle indicazioni del ced i documenti risulteranno sempre prevalenti.
Per ribadire queste indicazioni l'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni ha diramato la circolare in commento. Non è possibile effettuare il sequestro di un veicolo per mancata copertura assicurativa verificata solo on-line. Perché la banca dati rc auto disponibile sul portale dell'automobilista non è aggiornatissima.
Prima di effettuare una multa e un sequestro occorre richiedere all'automobilista il certificato di assicurazione o altri documenti, specifica l'Ivass. E in caso di mancata corrispondenza del dato cartaceo con il ced occorrerà procedere ad ulteriori approfondimenti (articolo ItaliaOggi del 30.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVITaglia-tempi, decide tutto Renzi. Discrezionalità ampia sui procedimenti da velocizzare. Le novità del decreto approvato dal cdm. Poteri sostitutivi se i termini non vengono rispettati.
Investimenti, strategici e non, nelle mani del premier.

Il dpr per la semplificazione e l'accelerazione dei procedimenti amministrativi, approvato in via definitiva il 28.07.2016 dal governo, affida alla discrezionalità della presidenza del consiglio dei ministri il potere di adottare qualsiasi atto o nulla osta per la realizzazione di insediamenti produttivi e infrastrutture.
L'accelerazione delle procedure si realizza attraverso una riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, propedeutici alla realizzazione dei progetti, ma anche attraverso l'avocazione nelle mani del capo del governo dell'adozione di qualsiasi atto necessario (se i tempi non vengono rispettati).
Le norme individuano il potere sostitutivo in capo al presidente del consiglio dei ministri quale espressione di una discrezionalità pura e non tecnica. Ma vediamo di esaminare i punti nodali del decreto.
Corsia preferenziale
La corsia preferenziale riguarda tutti i procedimenti amministrativi riguardanti rilevanti insediamenti produttivi, opere di rilevante impatto sul territorio o l'avvio di attività imprenditoriali suscettibili di avere positivi effetti sull'economia o sull'occupazione.
Potrà trattarsi di uno stabilimento, di una bretella stradale o di un'impresa ecc.
E magari tutte queste iniziative hanno bisogno di una autorizzazione o di una licenza, di un permesso o di un nulla osta, magari ambientale, sanitario o di sicurezza.
Si noti, il catalogo delle opere/attività, potenzialmente beneficiarie della corsia preferenziale, è molto ampio: è sufficiente una mera «suscettibilità» di positivi effetti sull'economia a giustificare le deroghe alle regole ordinarie.
Così è, anche se il decreto prevede la definizione di criteri della selezione dei progetti: rimane il fatto che la discrezionalità è ampia.
Individuazione interventi
I canali sono due. Il primo riguarda le opere descritte negli atti di programmazione delle pubbliche amministrazione e che rischiano di rimanere lettera morta.
Il secondo canale viaggia in parallelo e fa scattare le procedure sprint per nuovi progetti (mai inseriti in atti programmatori): qui basta la segnalazione al presidente del consiglio.
Dopo avere raccolto tutte le nomination, con decreto del capo del governo, si selezionano gli interventi che effettivamente fruiranno del percorso agevolato.
Il calendario
Entro fine gennaio di ogni anno ciascun ente seleziona gli interventi da candidare alla riduzione dei termini.
Entro fine febbraio la presidenza del consiglio dei ministri individua i progetti ulteriori. Entro il successivo 31 marzo sono individuati i singoli progetti collocati ai nastri di partenza.
Countdown
Per gli interventi prescelti, il bonus (giuridico) si misura in termini di tempo e si chiama riduzione dei termini dei procedimenti. Fino al 50% rispetto ai termini ordinari per la localizzazione, progettazione e realizzazione delle opere e degli insediamenti e l'avvio delle attività. La p.a., dunque, deve correre.
Potere sostitutivo
E se questo non basta, qualunque amministrazione potrà essere sostituita, dall'alto, dal presidente del consiglio (anche se formalmente previa deliberazione del governo).
Il premier, se vuole, potrà delegare la firma di autorizzazione, nulla osta e altri atti e prima di avocare le funzioni deve mandare una diffida all'amministrazione lumaca.
Se l'intervento interessa un territorio locale, di regola (ma non c'è un obbligo) il capo del governo delegherà il presidente della regione o il sindaco.
Inoltre il premier, accentratore della competenza, avrà a disposizione il personale pubblico di alta professionalità, chiamato a supportare il capo del governo nei procedimenti amministrativi avocati.
Le disposizioni relative alla riduzione dei termini dei procedimenti ed al potere sostitutivo del presidente del consiglio dei ministri possono applicarsi sia rispetto a tutti i procedimenti e gli atti necessari per la realizzazione dell'intervento, sia rispetto a singoli procedimenti e atti a esso preordinati (articolo ItaliaOggi del 30.07.2016).

SICUREZZA LAVOROPiù sicurezza per chi lavora con campi elettromagnetici.
Più sicurezza per chi opera a stretto contatto con campi elettromagnetici, ad esempio nel settore sanitario o militare.

Queste le sostanziali novità contenute nel decreto legislativo di recepimento della direttiva 2013/35/Ue approvato ieri, in via definitiva, dal governo. Disciplina che andrà a modificare il testo unico in materia di sicurezza, ovvero il dlgs 81/2008, al fine di fornire le prescrizioni minime di sicurezza e di salute.
Nessuna incidenza invece per le comuni attività informatiche. La relazione tecnica del decreto, infatti, al fine di escludere maggiori oneri per la p.a., rileva che le comuni attività non comportano rischi di esposizione. Ciò in quanto le attrezzature elettriche ed elettroniche maggiormente utilizzate nel lavoro d'ufficio quali pc, stampanti, attrezzature informatiche, centri di calcolo, sistemi wi-fi, metal detector, lettori magnetici, ecc., risultano automaticamente conformi ai requisiti di protezione della direttiva 2013/35/Ue sulla base delle norme del mercato interno europeo e della marcatura Ce, indipendentemente dal numero di attrezzature presenti nell'ambiente di lavoro.
Esposizioni potenzialmente rilevanti sotto il profilo protezionistico sono invece possibili in attività specifiche del settore sanitario, in particolare con riferimento agli operatori addetti ad attrezzature di risonanza magnetica (Rm), a macchine per diatermia (per esempio, radarterapia e marconiterapia), o agli operatori che eseguono sul paziente la stimolazione magnetica transcranica. Il nuovo decreto potrà riguardare anche, per le esposizioni potenzialmente rilevanti, gli addetti all'installazione e manutenzione di sistemi radianti di potenza per le telecomunicazioni (sistemi Vhf, ponti radio, ecc.).
Per quanto riguarda il personale che lavora presso impianti militari operativi o che partecipa ad attività militari, peraltro, il governo ha precisato che, fermo restando le modifiche al dlgs 81/2008, un sistema di protezione equivalente a quanto prevede la direttiva Ue è costituito dalle particolari norme di tutela tecnico-militare per la sicurezza e la salute del personale, all'interno del dpr 90/2010, ovvero il T.u. in materia di ordinamento militare (articolo ItaliaOggi del 29.07.2016).

APPALTIAppalti, vale il contratto leader. Per i lavoratori conta dove si svolgono le prestazioni. I chiarimenti del Minlavoro. Via alle verifiche in relazione al personale occupato.
Ai lavoratori impiegati in appalti pubblici si applica il contratto collettivo leader in relazione al settore e alla zona in cui si svolgono le prestazioni, ossia il contratto nazionale e territoriale stipulato da sindacati e associazioni di categorie comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Lo precisa, tra l'altro, il Ministero del lavoro nella nota 26.07.2016 n. 14775 di prot., con cui dà il via libera alla verifica del rispetto dei contratti collettivi in relazione al personale occupato nell'ambito di appalti pubblici.
Appalti sotto controllo. La necessità dei controlli, spiega il ministero, è prevista da diverse norme. Innanzitutto perché il mancato rispetto dei contratti comporta (all'impresa) l'impossibilità di fruire di qualsiasi beneficio normativo e contributivo, compreso l'esonero contributivo (legge Stabilità 2015) e lo sgravio per le nuove assunzioni (legge Stabilità 2016).
E poi perché consente di accertare il regolare versamento dei contributi obbligatori, in quanto individua l'imponibile (i contributi, infatti, vanno pagati nell'importo determinato sulle retribuzioni dei contratti collettivi), anche ai fini della responsabilità solidale.
Quale contratto. Il ministero spiega che il dlgs n. 50/2016 ha stabilito inequivocabilmente l'applicazione del «contratto leader in relazione al settore e alla zona in cui si eseguono le prestazioni». Si tratta, aggiunge il ministero, della conferma dell'indirizzo già seguito precedentemente e confermato anche dall'Anac.
L'importanza del contratto leader, peraltro, deriva anche dal ruolo che svolge nell'iter di approvazione dell'appalto: costituisce, infatti, il parametro di riferimento per la determinazione del costo del lavoro sia nella fase progettuale dell'appalto per determinarne i costi (art. 23, comma 16, del dlgs n. 50/2016), e sia nella fase di aggiudicazione dell'appalto per l'individuazione delle c.d. offerte anomale (art. 97 del dlgs n. 50/2016).
In particolare, è considerata anormalmente bassa con conseguente esclusione del partecipante allargata, l'offerta che contempli un costo del personale inferiore ai minimi salariali retributivi indicati in apposite tabelle predisposte annualmente dallo stesso ministero del lavoro.
Cooperative. Nel settore cooperativo, spiega ancora la circolare, opera una particolare disposizione per cui, negli appalti, «in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell'ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria» (art. 7, comma 4, del dl n. 248/2007 convertito dalla legge n. 31/2008). Tale disposizione opera fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperativa.
Responsabilità solidale. Infine, il contratto leader ha rilevanza anche ai fini della responsabilità solidale in relazione agli obblighi contributivi e retributivi non correttamente assolti da parte dell'appaltatore o del subappaltatore. La nuova disciplina (art. 105 del dlgs n. 50/2016), infatti, stabilisce due tipologie di responsabilità: la prima, in via esclusiva del contraente principale nei confronti della stazione appaltante; la seconda, in solido dell'aggiudicatario con il subappaltatore.
Tale responsabilità, conclude il ministero, va applicata alla luce della disposizione che individua (appunto) il contratto leader quale parametro di riferimento per la definizione degli obblighi di natura contributiva e retributiva oggetto della responsabilità solidale (articolo ItaliaOggi del 29.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAsl, politica fuori dalle nomine. Procedimenti rilevanti, tempi dimezzati. Forestali addio. Dal cdm via libera definitivo a un poker di decreti attuativi della riforma Madia.
Nomina e revoca dei vertici delle Asl sulla base di criteri meritocratici e non politici. Anche se le regioni continueranno ad avere voce in capitolo nella scelta dei direttori generali. Corsia preferenziale per i procedimenti amministrativi riguardanti rilevanti insediamenti produttivi, opere di interesse generale o avvio di attività suscettibili di avere ricadute positive sull'economia.
Per tutti questi progetti, di rilevante impatto sul territorio, palazzo Chigi potrà ridurre i tempi della burocrazia fino al 50%. Le forze di polizia si riducono da 5 a 4, con l'assorbimento dei forestali all'interno dei carabinieri. E le autorità portuali vengono riorganizzate per renderle più competitive e «agevolare la crescita dei traffici delle merci e delle persone». Dai 57 porti di interesse nazionale si passa a 15 autorità portuali con cda snelli (tre o cinque componenti).

Il consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva altri quattro tasselli attuativi della riforma del ministro Marianna Madia. È invece slittato al prossimo cdm il via libera finale al Testo unico sulle partecipate.
Nomina vertici delle Asl. Che l'obiettivo del dlgs sia ambizioso, lo si capisce dall'incipit della relazione illustrativa: «Slegare la nomina dei direttori generali dalla fiducia politica per agganciarla a una valutazione di profilo tecnico finalizzata alla selezione delle professionalità maggiormente competenti». Per realizzare questo scopo viene creato un elenco nazionale, tenuto dal ministero della salute, in cui saranno inseriti i soggetti che per formazione accademica e esperienza professionale riterranno di avere i numeri giusti per entrare a farne parte, partecipando all'apposito avviso pubblico di selezione per titoli che verrà pubblicato in G.U. L'elenco verrà aggiornato ogni due anni e chi vi ha trovato posto vi resterà iscritto per quattro anni.
Da questo elenco le regioni dovranno scegliere i papabili a ricoprire il ruolo di direttore generale. Tuttavia, la decisione finale spetterà a una commissione in cui continuerà a sedere un esperto designato dalla regione. Con il rischio, paventato anche dal Consiglio di stato, «di riproporre logiche politiche in grado di influenzare la scelta». Il richiamo di palazzo Spada è però rimasto inascoltato nel testo del decreto approvato dal cdm. L'unica modifica sostanziale è rappresentata dall'ampliamento della rosa all'interno della quale sarà scelto il candidato da proporre al governatore regionale per la nomina. Non sarà più una terna, ma una rosa di nomi non inferiore a tre e non superiore a cinque.
Una volta scelto dal presidente regionale, il direttore generale delle Asl resterà in carica per un periodo compreso tra i tre e i cinque anni. Ma i suoi risultati saranno monitorati a distanza di 24 mesi dalla nomina. In caso di mancato raggiungimento degli obiettivi o in presenza di una situazione di grave disavanzo, o ancora, in caso di manifesta violazione di legge o regolamenti o degli obblighi di trasparenza, la regione dichiarerà l'immediata decadenza dall'incarico con risoluzione del contratto. In caso di valutazione positiva, il rapporto proseguirà.
Procedimenti amministrativi. I principali provvedimenti amministrativi potranno contare su una corsia preferenziale che porterà fino al dimezzamento dei tempi. È quello che il premier Matteo Renzi, in conferenza stampa ha orgogliosamente ribattezzato «projet du président», visto che l'istituto è stato mutuato dall'esperienza francese.
La procedura, disegnata dal dpr approvato ieri, prevede che entro il 31 gennaio di ogni anno ciascun ente territoriale possa individuare un elenco di progetti di rilevante impatto sul territorio, tra quelli già inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici, e chiedere a palazzo Chigi di applicare ad essi la riduzione dei termini fino al 50%. Entro il 28 febbraio la presidenza del consiglio potrà individuare anche ulteriori progetti da velocizzare. Entro il 31 marzo con dpcm saranno individuati i progetti, tra quelli proposti, che beneficeranno della accelerazione dei termini (articolo ItaliaOggi del 29.07.2016).

ENTI LOCALIIl parlamento è con Anpci. Nasce l'intergruppo Amici dei piccoli comuni. Il ministro Costa promette: nessun obbligo di fusione per i mini-enti.
Deputati e senatori si schierano con l'Anpci. E stringono un'alleanza trasversale e bipartisan per vigilare in parlamento su norme ed emendamenti in modo che non ledano l'autonomia dei piccoli comuni.
È questa la ratio che ha portato il 19 luglio scorso a Roma alla costituzione dell'Intergruppo parlamentare dei piccoli comuni a cui hanno aderito per il momento una quarantina tra deputati e senatori di tutte le forze politiche.
L'iniziativa è stata presentata nel corso dell'incontro promosso dall'Anpci il cui titolo («Piccoli Comuni problema o risorsa per l'Italia?») spiega bene il grande equivoco che si sta vivendo in questo momento in Italia sul ruolo dei mini-enti.
Sempre più essenziale per la vita economica e sociale del paese, per la salvaguardia del territorio, per la prevenzione del dissesto idrogeologico, per la tutela del patrimonio di tipicità su cui si fonda tutto il made in Italy, eppure continuamente al centro di attacchi da parte della politica nazionale, ormai convinta che l'unica strada di sopravvivenza per i piccoli comuni sia quella, spesso senza ritorno, dell'associazionismo forzoso attraverso unioni e fusioni.
«Non accettiamo lo spreco di denaro pubblico per unioni e fusioni, ma vogliamo libertà di associazionismo e libertà di costituire convenzioni, con la possibilità da parte dei sindaci dei piccoli comuni di valutare caso per caso in funzione delle specificità del territorio e delle persone che vi vivono le scelte più opportune per gestire al meglio i servizi in applicazione dei costi standard», ha osservato la presidente dell'Anpci, Franca Biglio nella sua relazione introduttiva davanti a una folta platea di sindaci, amministratori, segretari comunali, dirigenti locali e operatori dei media.
Alla platea di sindaci che ha gremito la Sala della Regina di Montecitorio, deputati e senatori hanno spiegato le ragioni che li hanno portati ad abbracciare la causa dell'Anpci.
Fabrizio Di Stefano, deputato di Forza Italia e promotore della nascita dell'Intergruppo, ha rimarcato che deputati e senatori si schierano con l'Anpci perché i piccoli comuni sono una grande risorsa per la vita economica e sociale del paese. E soprattutto hanno bilanci virtuosi, cosa che spesso non può dirsi per altri settori dello stato.
Il senatore Paolo Arrigoni (Lega) ha rivendicato di «essersi impegnato a dire, in tutte le fasi della legislazione, no alle fusioni anche contro l'ipotesi di indirizzi diversi del suo partito». Mentre Patrizia Terzoni (M5S) ha evidenziato l'importanza della proposta di legge Realacci-Terzoni per la salvaguardia dei piccoli comuni, all'esame del parlamento, soprattutto nella parte in cui assegna maggiori risorse finanziarie da parte dello stato ai mini-enti per scongiurare il fenomeno dello spopolamento, la morte di intere zone del Paese, la cancellazione dei servizi, il peggioramento della qualità della vita.
È poi intervenuto il parlamentare cuneese Mino Taricco (Pd) che ha ribadito la sua ferma contrarietà a ogni forma di fusione forzata. Tuttavia, secondo Taricco, è indispensabile interrogarsi su come, mantenendo le identità dei piccoli comuni, si possano ottenere due finalità fondamentali: il contenimento della spesa e la garanzia della qualità dei servizi ai cittadini.
Sono anche intervenuti il presidente nazionale di Federanziani, Roberto Messina, e il vicepresidente del Sindacato unitario farmacie rurali, Luigi Sauro. Il primo ha invitato a raccogliere le firme per un'eventuale proposta di iniziativa popolare che miri a chiedere l'abrogazione di tutte quelle norme che non consentono più ai piccoli comuni di esercitare il loro importante ruolo in qualità di istituzione più vicina al cittadino. Tra queste la legge Delrio (n. 56/2014) che prevede unioni obbligatorie legate a una soglia di abitanti tale da renderla di impossibile applicazione.
Luigi Sauro ha invece sottolineato che tra i servizi minimi alla persona va annoverato anche quello che riguarda l'assistenza territoriale H24 anziché H16, nonché l'assistenza farmaceutica nei piccoli comuni, oggi serviti da 6 mila farmacie che possono lavorare soltanto se tutelate dal governo centrale e, soprattutto, finanziate dalle regioni a cui spetta erogare sussidi alle farmacie rurali in modo da integrare il loro reddito che altrimenti sarebbe da fallimento.
Dopo gli interventi dei sindaci e dei segretari comunali, è toccato al ministro degli affari regionali, Enrico Costa, tirare le fila della discussione. Il ministro ha preso un impegno formale: «non possiamo accettare nessuna legislazione né statale né regionale che obblighi i piccoli comuni alle fusioni. Le forme associative debbono essere libere e saranno i piccoli comuni, con i sindaci in testa, a trovare la convenienza delle aree omogenee e, all'interno di queste, vedere che cosa mettere insieme, anche poche funzioni, distinguendo tra funzioni e servizi».
Costa ha anche parlato del braccio di ferro in corso tra ministero e Poste Italiane per la chiusura di 441 uffici postali e la distribuzione della corrispondenza a giorni alterni nei piccoli comuni. Della questione si occuperà presto la Corte di giustizia Ue dopo la richiesta di parere sollevata dal Tar Lazio. Il ministro, infine, si è impegnato a far sì che le regioni mettano a disposizione dei comuni più piccoli spazi finanziari inutilizzati (si veda ItaliaOggi del 20/07/2016).
I parlamentari amici dei piccoli comuni hanno suggellato l'appartenenza all'Intergruppo apponendo al risvolto della giacca la spilla con il logo dell'Anpci, offerta dal presidente di Confindustria Cuneo, Franco Biraghi. La presidente Biglio ha chiuso i lavori ringraziando l'onorevole Di Stefano per la costituzione dell'Intergruppo e il ministro Costa per gli impegni assunti, oltre che per aver consentito che l'Anpci tornasse ad assistere ai lavori della Conferenza unificata anche solo in qualità di uditori (articolo ItaliaOggi del 29.07.2016).

VARILeasing, perde l’immobile chi non paga sei rate. Ddl concorrenza. Delega al Governo su Uber-Ncc.
Perde l’immobile in leasing chi non paga almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali.

Approvato in commissione Industria al Senato l’emendamento al disegno di legge concorrenza (Atto Senato n. 2085) che definisce il «grave inadempimento» che, con l’eccezione della prima casa, fa tornare gli immobili alla base quindi alla banca o alla finanziaria.
L’emendamento dei relatori -Luigi Marino di Ap e Salvatore Tomaselli del Pd- fa riferimento al «mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria».
Per il leasing sulla prima casa, invece, continuano a valere le disposizioni previste dalla legge di stabilità 2016, che nulla prevedono circa l’entità dell’inadempimento che legittima la risoluzione demandando evidentemente alle singole pattuizioni.
L’emendamento approvato ieri specifica poi che, in caso di inadempimento, la banca o la finanziaria può vendere o riallocare l’immobile ma dovrà farlo «sulla base di pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti specializzati». O, quando non è possibile far riferimento a questi valori, sulla base di una stima effettuata da un perito scelto dalle parti di comune accordo nei venti giorni successivi alla risoluzione del contratto o, in caso di mancato accordo, scelto dal concedente in una rosa di almeno tre operatori comunicati alla controparte.
Al cliente deve essere corrisposto quanto ricavato dalla vendita dedotti i canoni scaduti e non pagati, i canoni a scadere, solo in linea capitale, il prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, le spese anticipate per il recupero del bene. Resta il diritto di credito nei confronti dell’utilizzatore «quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene» risulta comunque inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dal cliente.
Insieme alla norma sul leasing, la commissione Industria ieri ha approvato l’emendamento che prevede una delega al governo per disciplinare entro un anno mediante decreto legislativo il settore degli «autoservizi pubblici non di linea», come taxi, noleggio con conducente ma anche nuove piattaforme basate sulle «app» come Uber. Via libera anche alla soppressione, dal 01.01.2017, della Cassa conguaglio Gpl le cui funzioni passano all’Organismo centrale di stoccaggio italiano.
Ancora irrisolti invece i nodi relativi alle modifiche sugli sconti Rc auto e alla delega sull’obbligo di installare scatole nere. Su questi temi non sono ancora arrivati i pareri della commissione Bilancio e a questo punto l’esame della commissione Industria riprenderà direttamente lunedì prossimo
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIProfessionisti, spazio nelle p.a.. Consorzi tra autonomi per concorrere negli appalti. Il ddl partite Iva approvato in commissione. Più welfare dalle Casse per chi è in crisi.
Nuove funzioni ai liberi professionisti (per ridurre il contenzioso giudiziario, ma pure per certificare «l'adeguatezza dei fabbricati alle norme di sicurezza ed energetiche»), finora appannaggio della pubblica amministrazione, nonché la chance di riunirsi in consorzi per ottenere appalti e incarichi privati. E un salto di qualità in termini assistenziali per le Casse previdenziali private, che potranno ampliare le proprie tutele (finanziarie e sociali) erogate agli iscritti, qualora si ritrovassero in particolari condizioni di difficoltà.

A prevedere queste novità il disegno di legge sul lavoro autonomo e agile (Atto Senato n. 2233), che è stato approvato ieri dalla commissione lavoro del senato; il testo, che estende protezioni e inserisce agevolazioni e semplificazioni normative a beneficio dei rappresentanti delle varie categorie professionali, secondo fonti parlamentari, pur essendo pronto per l'esame dell'aula, non riuscirà ad approdarvi per la votazione che dopo la pausa estiva, a settembre.
In quello che è stato definito il secondo tassello del «Jobs act», rivolto alla componente non subordinata del mercato occupazionale e produttivo, sono state inserite, durante il passaggio nell'organismo di palazzo Madama, misure di concreto «sostegno», fra cui, come ha sottolineato il relatore Maurizio Sacconi (Ap), quella che valorizza il «principio di sussidiarietà» e il «carattere di terzietà» degli autonomi, grazie alla delega al governo che farà sì che, entro 12 mesi dall'approvazione della disciplina, debbano essere individuate «funzioni delle pubbliche amministrazioni che le professioni ordinistiche potranno svolgere con maggiore celerità»; nel dettaglio, fra i compiti che potranno essere devoluti quelli «finalizzati alla deflazione del contenzioso giudiziario» e per la «certificazione dell'adeguatezza dei fabbricati alle norme di sicurezza ed energetiche, anche attraverso l'istituzione del fascicolo del fabbricato».
Nel contempo, per rendere più «soft» gli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro (facilitando così soprattutto chi pratica la professione da solo, in una struttura di ristrette dimensioni), è stato disposto che i rischi per la salute e sicurezza negli studi «sono da equiparare a quelli nelle abitazioni»; pertanto, si andrà verso una semplificazione degli obblighi «meramente formali», anche attraverso «forme di unificazione documentale».
A giudizio di Sacconi è di rilievo pure la norma sulle Casse previdenziali, che le autorizza (con il consenso dei loro organi di vigilanza) a esercitare «altre prestazioni sociali, finanziate da un'apposita contribuzione facoltativa», rivolte agli iscritti che hanno subito «una significativa riduzione del reddito professionale per ragioni non dipendenti dalla propria volontà, o che siano stati colpiti da gravi patologie»; la galassia pensionistica dei professionisti, aveva, comunque, voluto precisare il presidente dell'XI commissione, «già svolge queste funzioni», tuttavia occorre andare verso un «welfare della persona» e che sia «sempre più modulare, nel tempo, per quel che attiene alle prestazioni» assistenziali (si veda anche ItaliaOggi del 15/06/2016).
Nel disegno di legge, poi, sul fronte delle tutele è stato stabilito che «la gravidanza, la malattia e l'infortunio dei lavoratori autonomi che prestano la loro attività in via continuativa» per il cliente «non comportano l'estinzione del rapporto di lavoro», la cui esecuzione, su richiesta di chi svolge l'incarico, «rimane sospesa, senza diritto al corrispettivo, per un periodo non superiore a 150 giorni per anno solare, fatto salvo il venir meno dell'interesse del committente».
Inoltre, per «consentire la partecipazione ai bandi e concorrere all'assegnazione di incarichi e appalti privati» viene riconosciuta la possibilità agli autonomi di «costituire reti di esercenti la professione» e di partecipare alle reti di imprese (le cosiddette «reti miste», disciplinate dalla legge 33/2009), oltre a dare vita a consorzi stabili e associazioni temporanee di professionisti.
Per Marina Calderone, presidente Cup, «ci sono diversi motivi di soddisfazione: il pieno coinvolgimento degli organismi di rappresentanza, la piena previsione della sussidiarietà quale elemento caratterizzante il rapporto tra ordini e p.a., la possibilità di avvio delle azioni di welfare professionale, che possono risultare di grande ausilio in momenti di difficoltà della vita di ogni professionista» (articolo ItaliaOggi del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARISei rate non pagate, leasing ko. Il concedente può procedere alla vendita del bene. Lo prevede un emendamento approvato al ddl concorrenza. Uber, delega al governo.
Perde il bene chi non paga sei rate del leasing. «Costituisce grave inadempimento dell'utilizzatore il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria».

È quanto prevede un emendamento dei relatori al ddl concorrenza (Atto Senato n. 2085) approvato ieri dalla commissione industria del senato.
In caso di risoluzione del contratto per l'inadempimento dell'utilizzatore «il concedente procede alla vendita o ricollocazione del bene sulla base dei valori risultanti da pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti specializzati» e «quando non è possibile far riferimento ai predetti valori, procede alla vendita sulla base di una stima effettuata da un perito scelto dalle parti di comune accordo nei venti giorni successivi alla risoluzione del contratto o, in caso di mancato accordo nel predetto termine, da un perito indipendente scelto dal concedente in una rosa di almeno tre operatori esperti, previamente comunicati all'utilizzatore, che può esprimere la sua preferenza vincolante ai fini della nomina entro dieci giorni dal ricevimento della predetta comunicazione».
Il perito, precisa la disposizione, deve essere «indipendente quando non è legato al concedente da rapporti di natura personale o di lavoro tali da compromettere l'indipendenza di giudizio. Nella procedura di vendita o ricollocazione il concedente si attiene a criteri di celerità, trasparenza e pubblicità adottando modalità tali da consentire l'individuazione del migliore offerente possibile con obbligo di informazione dell'utilizzatore».
Queste disposizioni non si applicano al nuovo Leasing prima casa, che mantiene le sue specifiche garanzie del cliente fissate per legge che, fra l'altro, prevedono la sospensione del pagamento dei canoni fino a 12 mesi, su richiesta dell'utilizzatore, in caso di perdita del lavoro anche non subordinato.
«La locazione finanziaria è uno degli strumenti che sta concretamente contribuendo alla ripartenza dell'economia, sui quali il governo ha riposto molte aspettative come dimostra la recente introduzione del Leasing prima casa», commenta Corrado Piazzalunga, presidente di Assilea, Associazione italiana del leasing, «ora il quadro si completa con regole certe e strumenti di tutela del cliente che renderanno la locazione finanziaria ancora più competitiva».
La norma proposta definisce chiaramente la «locazione finanziaria» come il contratto con il quale la banca o l'intermediario finanziario iscritto nell'albo si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell'utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimetro, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto.
Alla scadenza del contratto l'utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene a un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l'obbligo di restituirlo (articolo ItaliaOggi del 28.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAScia con controlli neutri. Non vanno interrotte le attività del cittadino. In vigore da oggi dlgs su segnalazione certificata e conferenza servizi.
I controlli sulla Scia non sospendono l'attività: la pubblica amministrazione deve indicare a cittadino e impresa come regolarizzare, ma senza smettere di lavorare.

È quanto prevede il decreto legislativo n. 126/2016 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 luglio e in vigore da oggi, recante norme in materia di segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
Il decreto, attuativo della legge delega 124/2015, prevede che si potrà presentare presso un unico ufficio, anche in via telematica, un unico modulo valido in tutto il territorio italiano. I moduli unificati devono prevedere la possibilità del privato di indicare l'eventuale domicilio digitale per le comunicazioni con l'amministrazione. L'ente competente allo specifico procedimento deve rendere la vita facile a cittadini e imprese pubblicando sul proprio sito istituzionale il modulo unico.
Sul sito si devono indicare tutti i documenti e le dichiarazioni che servono per il procedimento. Il decreto ripete una regola, già presente nell'ordinamento amministrativo, per cui non si possono chiedere al cittadino documenti ulteriori rispetto a quelli previsti.
In dettaglio la p.a. può chiedere all'interessato informazioni o documenti solo in caso di mancata corrispondenza del contenuto dell'istanza, segnalazione o comunicazione e dei relativi allegati a quanto indicato sul sito.
È vietata ogni richiesta di informazioni o documenti ulteriori e anche di documenti in possesso di una pubblica amministrazione Si deve creare, poi, unico ufficio a cui rivolgersi, che avrà il compito di interagire con tutti gli altri uffici e amministrazioni interessate. La richiesta di documenti ulteriori è considerata inadempienza del funzionario pubblico, sanzionabile sotto il profilo disciplinare.
Il decreto prevede altre garanzie per il cittadino e l'impresa. Quando presentano istanze, segnalazioni o comunicazioni hanno diritto a una ricevuta che costituisce comunicazione di avvio del procedimento. La ricevuta deve indicare i termini entro i quali l'amministrazione è tenuta a rispondere o entro i quali il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento dell'istanza.
Nel corso dei controlli, a seguito di presentazione della Scia, la p.a. non può di regola sospendere l'attività cominciata: il provvedimento di sospensione è limitato ai soli casi di attestazioni non veritiere o di coinvolgimento di interessi sensibili (come ambiente, paesaggio). Inoltre nel caso di Scia unica la possibilità di iniziare subito l'attività è circoscritta ai casi in cui non siano presupposte autorizzazioni o altri titoli espressi. Infine grazie a una disposizione transitoria regioni ed enti locali hanno tempo fino al 01.01.2017 per adeguarsi.
CONFERENZA DEI SERVIZI
Entra in vigore, oggi 28.07.2016, anche il decreto legislativo 127/2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13.07.2016, recante norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi (articoli 14 e seguenti della legge 241/1990).
Il decreto abbatte i tempi lunghi attivando la conferenza semplificata, che non prevede riunioni fisiche ma solo l'invio di documenti per via telematica. L'altro tipo di conferenza (la conferenza simultanea) con riunione (anche telematica) si svolge solo quando è strettamente necessaria.
Si prevede che l'assenso delle amministrazioni che non si sono espresse si considera acquisito e ciascun ente territoriale avrà un solo rappresentate. Cosa molto importante: il termine della conferenza, oggi di fatto indefinito, viene stabilito perentoriamente in al massimo 5 mesi. In conferenza potranno intervenire i privati destinatari della comunicazione di avvio del procedimento (articolo ItaliaOggi del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUn polo unico per visite fiscali. Rughetti: competenze trasferite all'Inps.
Un polo unico delle visite fiscali, con competenze e risorse trasferite dalle Asl all'Inps e una sostanziale equiparazione di trattamento tra lavoro pubblico e privato.

Ad anticipare i piani del governo è stato il sottosegretario alla Funzione pubblica, Angelo Rughetti in audizione in commissione lavoro alla camera.
Il polo unico della medicina fiscale prevede la costituzione di due «squadre» di medici Inps. I medici presenti nelle cosiddette liste speciali ad esaurimento, come già previsto, effettueranno «le visite mediche di controllo domiciliare», andando a casa del dipendente pubblico che si è dichiarato malato per verificare l'effettivo stato di salute.
A un'altra squadra di camici bianchi per la quale si attingerà alla selezione fatta dall'Inps per 900 nuovi medici) saranno affidate «attività di istruttoria» e «l'espletamento di visite ambulatoriali», con focus sulla fase che precede il controllo domiciliare e su tutto il contorno (certificazioni di malattia, verbali delle visite). L'obiettivo è di realizzare controlli mirati ed efficaci tenendo distinti i due compiti (istruttoria e controllo domiciliare) in modo da massimizzare il «tasso di rendimento» delle visite.
Rughetti ha anche annunciato un ulteriore intervento del governo sui procedimenti disciplinari. Dopo il dlgs sui cosiddetti «furbetti del cartellino» che porterà alla sospensione del dipendente fraudolento entro 48 ore all'eventuale licenziamento in un mese, l'esecutivo «sta lavorando per fare in modo che nel Testo unico sul pubblico impiego ci siano altri procedimenti disciplinari che abbiano una corsia preferenziale rispetto al procedimento penale».
«Oggi», ha spiegato Rughetti, «i due percorsi sono sovrapposti e questo danneggia la verità, perché per arrivare alla fine del procedimento amministrativo, tra datore di lavoro e lavoratore, devo aspettare la conclusione di quello penale. Noi vorremmo che fossero distinti» (articolo ItaliaOggi del 28.07.2016).

SICUREZZA LAVOROInail, nei lavori su alberi le funi sono l'extrema ratio.
I lavori su alberi con funi possono avvenire soltanto se è impossibile l'accesso e posizionamento di piattaforme elevabili.

A stabilirlo, tra l'altro, le linee guida messe a punto dall'Inail e pubblicate dal Ministero del lavoro con la circolare 22.07.2016 n. 23.
«I lavori su alberi», spiegano le linee guida, «possono esporre gli addetti a rischi gravi per la loro salute e sicurezza, e in particolare al rischio di caduta dall'alto che purtroppo determina ogni anno un significativo numero d'infortuni con conseguenze spesso mortali».
Dati dell'osservatorio dell'Inail del settore agricolo e forestale, non esaustivi, dicono che nel corso del 2015 si sono verificati 38 eventi infortunistici determinati da cadute da alberi, dei quali 11 con conseguenze letali. Molti di questi infortuni hanno coinvolto soggetti non esperti e mentre svolgevano operazioni di raccolta di frutti o potatura di alberi in palese non ottemperanza alle disposizioni de Capo II del Titolo IV del T.u. sicurezza.
Le linee guida sono nate proprio per rispondere all'esigenza di una definizione del complesso di elementi che concorrono alla corretta gestione dei rischi, tenendo presente la distinzione fra quello che è l'uso scorretto ragionevolmente prevedibile e le vere situazioni di rischio che si generano nelle lavorazioni in quota su alberi.
Tra l'altro, stabiliscono che, in conformità al comma 4 dell'art. 111 del T.u. sicurezza, i lavori su alberi con funi possono essere effettuati solo se le caratteristiche del sito e la struttura della pianta sono tali da garantire il rispetto delle condizioni di sicurezza e se, nel seguente ordine prioritario, ricorra almeno una delle seguenti condizioni:
- impossibilità di accesso e/o posizionamento con altre attrezzature di lavoro;
- impossibilità di utilizzo di sistemi di protezione collettiva;
- necessità di modifiche sostanziali del sito ove è posto il luogo di lavoro che si rilevano non accettabili dal punto di vista ambientale;
- durata limitata nel tempo dell'intervento.
Le linee guida sono consultabili sul sito web del ministero del lavoro e su quello dell'Inail (articolo ItaliaOggi del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALIGare, ingegneri in campo. Un software per il calcolo dei corrispettivi. Le istruzioni del Cni sull'affidamento dei contratti pubblici relativi ai Sia.
Una guida per l'affidamento di servizi di ingegneria e architettura, un software per il calcolo dei corrispettivi a base di gara e gli elaborati da chiedere in gara e una bozza di contratto per l'affidamento della progettazione definitiva ed esecutiva.

È questo il contenuto del documento, sia pure provvisorio, predisposto dal Consiglio nazionale degli ingegneri che ha pubblicato l'aggiornamento del testo «Affidamento dei contratti pubblici attinenti ai servizi di ingegneria e architettura» alla luce del nuovo quadro normativo in materia di contratti pubblici (dlgs 50/2016) e delle linee guida dell'Autorità nazionale anticorruzione.
Il documento, che è disponibile sul sito www.tuttoingegnere.it, verrà aggiornato quando le linee guida Anac saranno divenute definitive dato che l'Autorità le ha inviate come «proposte» al Consiglio di stato e alle commissioni parlamentari per avere un parere peraltro non obbligatorio. Intanto, da ieri, è possibile scaricare il programma che consente di calcolare il corrispettivo da porre a base di gara e, in automatico, tutti gli elaborati previsti dal Codice per «il Progetto del servizio di ingegneria e architettura».
Il software è predisposto anche per l'elaborazione del bando-tipo, appena lo stesso sarà predisposto dall'Anac come preannunciato nel documento Air (Analisi dell'impatto della regolazione) delle linee guida Sia e delle procedure per la gestione della gara. In sostanza viene pubblicato un esempio di affidamento per la progettazione definitiva ed esecutiva di un nuovo polo scolastico di cui si prefigurano la relazione tecnico-illustrativa, il calcolo degli importi per l'acquisizione dei servizi, il prospetto economico degli oneri complessivi relativi ai servizi.
In particolare vengono applicate le modalità di calcolo dei corrispettivi con riferimento al decreto ministeriale 143/2013 che l'Anac ritiene ancora obbligatorio almeno finché non saranno in vigore i nuovi parametri di riferimento messi a punto dal ministero della giustizia di concerto con il ministero delle infrastrutture, previsti dal comma 8 dell'articolo 24 del nuovo codice dei contratti pubblici.
Infatti, per il decreto 50/2016, i nuovi corrispettivi ministeriali saranno invece facoltativi per le stazioni appaltanti. Viene quindi applicato, all'esempio preso in considerazione (3, 4 milioni di lavori per un totale di corrispettivi per i due livelli di progettazione pari a 363.000 euro), le fasi prestazionali previste per ogni diversa categoria d'opera con la distinta analitica delle singole prestazioni e con i relativi Parametri «Q» di incidenza, desunti dalla tavola Z-2 allegata al dm 143/2013.
Inoltre, è allegata anche una bozza di schema di contratto coerente con l'opera da progettare previsto per una delle ipotesi di affidamento previste dal nuovo codice dei contratti pubblici, cioè fra stazione appaltante e professionista iscritto all'albo (ma esistono anche i raggruppamenti temporanei di progettisti, i consorzi stabili, le società tra professionisti e le società di ingegneria). Nelle parti precedenti sono riportati i contenuti delle proposte di linee guida Anac (articolo ItaliaOggi del 28.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATARegolamento edilizio, una Babele. Più facile scrivere la Costituzione.
Nulla di fatto dopo 21 mesi, per approvare la Carta ne bastarono 18.

Dice tutto, a proposito della deriva imboccata dalla burocrazia made in Italy, un paragone. In 18 mesi, settant'anni fa, abbiamo fatto la Costituzione; in 21, oggi, non siamo in grado di scrivere nemmeno un regolamento edilizio uguale per tutti i Comuni italiani. Altri tempi, certo. Ma anche altra classe dirigente.
La Carta costituzionale fu scritta dall'Assemblea costituente, che con tempi contingentati e una volontà di ferro riuscì a superare barriere ideologiche apparentemente insormontabili. La redazione del regolamento edilizio unico, previsto dalla legge Sblocca Italia, è invece affidata a un pool di burocrati tanto eterogenei quanto litigiosi, e siamo adesso appena all'elenco delle cosiddette «definizioni uniformi».
Per capirci: si sono messi finalmente d'accordo sulle parole, convenendo che il «sottotetto» è «lo spazio compreso tra l'intradosso della copertura dell'edificio e l'estradosso del solaio del piano sottostante». Oppure che un «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» si identifica con il termine «veranda».
E non è stata una passeggiata.
Sul concetto di superficie, per esempio, la Regione Lombardia ha piantato una grana tale che alla fine di definizioni ne sono venute fuori ben sei: superficie lorda, totale, complessiva, utile, calpestatile e accessoria. Dove, per avere un'idea dell'imbuto in cui i burocrati incaricati di semplificare si sono infilati, la differenza fra «totale» e «complessiva », parole che a prima vista sembrerebbero indicare la stessa cosa, è che la seconda è la somma della superficie «utile» (differente da quella «calpestatile», ovvio) più il 6o per cento di quella «accessoria».
Il regolamento edilizio unico comunale, previsto dalla cosiddetta legge Sblocca Italia approvata dal Parlamento l'il novembre 2014, potrebbe rappresentare un'autentica rivoluzione mettendo fine una volta per tutte al dedalo incredibile di norme locali in un Paese dove ognuno degli oltre ottomila Comuni ha proprie regole per stabilire come si tirano su i muri, quanto può essere grande una stanza da letto o un cortile, come si deve calcolare la grandezza di un ambiente.
Con prescrizioni surreali. A Lamezia le porcilaie non possono essere costruite a meno di 30 metri dalle abitazioni. A Catanzaro è obbligatorio depositare le tinte in cantiere prima della verniciatura per consentire la verifica della rispondenza al progetto. A Bologna tollerano un'eccedenza costruttiva del 2 per cento rispetto al progetto; a Pescara del 3 per cento: a Lucca quattro centimetri per lunghezze da otto centimetri a due metri; a Firenze 10 centimetri rispetto alla scala 1:100. A Fiumicino è possibile fare i cortili solo nei condomini non popolari. Mentre a Piacenza è tassativo prevedere uno spazio di 30 metri quadrati per i giochi dei bambini ogni nove alloggi...
Ventuno mesi, dicevamo, ci sono voluti solo per stabilire come chiamare le cose. Ora si è arrivati all'intesa sulle definizioni, che fa «auspicare» alla ministra della Semplificazione e della Pubblica amministrazione Marianna Madia «che lo schema tipo» del regolamento edilizio «si concluda rapidamente ». Auguri. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, come dimostra il caso surreale delle sei definizioni di superficie, è d'obbligo incrociare le dita.
Non sfugge affatto la complessità della questione. Né che non si può evitare, in casi come questi, di ascoltare tutte le campane. Il problema però è di fondo: ogni volta che si vuole fare una riforma si commette sempre il medesimo errore. Quello di farla fare ai burocrati. Perché affidare a loro il compito di riformare se stessi è come chiedere al tacchino di organizzare il pranzo di Natale.
Ogni semplificazione vera toglie inevitabilmente a una burocrazia congegnata come la nostra (malissimo) un pezzetto di potere: il rischio è dunque che le semplificazioni non procedano o che dietro una semplificazione si nasconda in realtà una nuova complicazione.
Tanto più vero, questo, se la riforma riguarda temi sui quali si intrecciano competenze di più burocrazie. In questo caso specifico le burocrazie statali, regionali e comunali. Un delirio di interessi contrapposti ben rappresentati nel pool incaricato di sciogliere i nodi del regolamento edilizio unico. Il bello è che tutto questo meccanismo infernale rientra nell'agenda governativa battezzata, pensate un po', «Italia Semplice». Gli ottimisti che l'hanno congegnato hanno scritto nel sito ufficiale che doveva essere tutto finito «entro novembre 2015»
(articolo Corriere della Sera del 27.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAParte la corsa della nuova Scia. Disciplina più semplice per autoriparatori, impiantisti, mediatori e imprese di pulizia.
Semplificazioni. Da domani in vigore una parte delle disposizioni che sono state introdotte con il decreto legislativo 126/2016.

Attività economiche, ora è più facile la fase di partenza. Il decreto legislativo 126/2016, uno dei decreti della riforma Madia, agevola gli adempimenti ai privati che devono utilizzare la Scia inserendo nella procedura alcune disposizioni che entreranno in vigore il 28 luglio e altre che saranno operative entro il 01.01.2017.
Le novità riguardano sia la Scia per le attività economiche o produttive, sia quella per gli interventi edilizi ma è la prima quella più attesa per garantire agli imprenditori adempimenti più semplici e più certi.
L’articolo 2 del Dlgs si applica dal 28 luglio a tutte le Scia, di competenza statale, regionale e di enti locali. Per fornire informazioni esaustive ai cittadini e alle imprese, ma sopratutto per assicurare adempimenti certi e uniformi, per ciascun tipo di attività diventa obbligatorio lo strumento della modulistica unificata che deve indicare anche gli eventuali documenti da allegare.
I moduli saranno adottati,in relazione alle attività di propria competenza, dai ministeri e, tramite accordi nella Conferenza Stato-Regioni, dalle Regioni e dagli enti locali. I moduli riguarderanno le attività che si iniziano con autorizzazione, con Scia e con comunicazione preventiva e saranno pubblicati sui siti delle Pa competenti per procedimento.
Consapevole della impossibilità di raggiungere a breve questi risultati il decreto impone alle Pa di pubblicare nel frattempo sul loro sito dal 28 luglio, per ciascuna attività economica, l’elenco delle condizioni e requisiti per iniziarla o modificarla, precisando quelli che devono essere autocertificati dall’imprenditore o asseverati da tecnici abilitati.
Queste informazioni, di fatto, sono da tempo a disposizione sui siti di parecchi enti. Il decreto, per evitare che gli enti aggiungano oneri non previsti, impone di indicare la fonte normativa di ciascun obbligo.
Dispone poi che possono essere chiesti al privato informazioni e documenti diversi da quelli presenti nei moduli solo nel caso in cui il contenuto degli atti inviati dal privato non corrisponde alle indicazioni del modulo.
La violazione delle norme sulla pubblicità già dal 28 luglio è un illecito disciplinare per il funzionario addetto, con rischio di sospensione dal servizio e privazione della retribuzione da tre a sei mesi.
L’articolo 3 del Dlgs interviene su tre temi rilevanti che impattano in particolare sulla procedura della Scia. Questo articolo, però, si applica dal 28 luglio solo per le attività economiche regolate da norme statali (quelle gestite dalle Camere di commercio come autoriparatori, impiantisti, mediatori, imprese di pulizia); per le attività disciplinate da Regioni e enti locali le novità dovranno essere recepite entro il 01.01.2017.
La prima novità riguarda la possibilità (che forse va intesa come obbligo) per il privato di “concentrare” i vari adempimenti eventualmente imposti per l’inizio dell’attività (nella legge 241/1990 è stato inserito un nuovo articolo 19-bis). La seconda riguarda i casi in cui l’ente, che ha riscontrato una Scia carente dei requisiti, può sospendere l’attività. La terza riguarda l’obbligo di controllo delle Scia per il dipendente pubblico addetto alla ricezione.
In tema di concentrazione degli adempimenti sono previste due ipotesi:
- un’attività economica è soggetta a Scia (per esempio comunale), ad altre Scia (per esempio edilizia) e ad attestazioni rilasciate da altri enti. In questo caso il privato presenta una Scia unica all’ente competente e può iniziare immediatamente l’attività;
- un’attività economica è soggetta alla Scia (per esempio del Comune) e al preventivo rilascio di pareri di altri enti o all’esecuzione di verifiche preventive.
In questo caso il privato deve inviare con la Scia anche l’istanza per il rilascio del parere e della verifica e può iniziare l’attività non subito ma dopo il rilascio del parere.
Riguardo al tema della sospensione della attività, qualora al controllo della Scia si evidenzi una carenza di requisiti, il nuovo comma 3 dell’articolo 19 della legge 241/1990 assegna i seguenti poteri all’ente che riceve la segnalazione.
Se la carenza può essere eliminata dal privato lo invita a provvedere entro un termine non inferiore a trenta giorni e nel frattempo è consentita la prosecuzione della attività ad eccezione di due casi: quando il privato ha inviato attestazioni false e quando trattasi di attività che comporta pericoli per l’ambiente, la salute, i beni culturali e il paesaggio.
In tema di sanzioni il Dlgs integra l’articolo 21 della legge 241/1990 stabilendo che è responsabile il pubblico “dipendente che non abbia agito tempestivamente” quando la Scia non sia conforme a legge. Si deduce che la verifica deve riguardare tutte le Scia e non solo alcune a campione.
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In arrivo l’elenco delle «regolamentate». Riforme in cantiere. Un decreto già passato in prima lettura al Consiglio dei ministri risolve il problema del perimetro di applicazione delle disposizioni.
Quando entrerà in vigore il decreto legislativo approvato in via preliminare il 15 giugno dal Consiglio dei ministri si sarà in gran parte risolta anzitutto una questione rimasta aperta dalla legge 241/1990 che ha assillato imprese, professionisti, Pa giudici e studiosi: a quali attività economiche si poteva applicare prima la Dia e poi la Scia. Forse anche per questo il decreto è stato,seppure impropriamente, denominato Scia 2.
L’articolo 5 della legge 124/2015 ha delegato il Governo non solo a fissare le regole generali sull’utilizzo di quattro tipi di procedimenti: Scia, autorizzazione espressa, silenzio assenso, comunicazione preventiva, ma anche a individuare le attività economiche soggette a tali procedimenti e non solo alla Scia.
Il decreto legislativo 126/2016 sarà quindi affiancato da un decreto con allegato l’elenco delle attività definite “regolamentate” perché il loro avvio o modifica sono subordinati a determinate condizioni che saranno dichiarate dagli imprenditori tramite i quattro procedimenti denominati anche regimi amministrativi.
Riguardo il procedimento della comunicazione la norma precisa che l’attività a essa subordinata può iniziare solo dopo la sua ricezione da parte dell’ente competente. La comunicazione non va confusa con la “comunicazione unica” che è uno strumento utilizzato per gli adempimenti al registro imprese.
Il Governo tiene conto del fatto che la “precisa individuazione” delle attività è estremamente difficile e che l’elenco dovrà essere aggiornato periodicamente con l’evoluzione delle normative di settore (articolo 3, comma 6).
L’interrogativo che si porranno Pa e utenti è il seguente: come devono comportarsi, per le materie di loro competenza, Stato, Regioni e enti locali nel caso riscontrino attività non indicate nell’elenco? L’articolo 2, comma 2, precisa che queste attività «possono essere ricondotte» a quelle elencate e questa decisione delle Pa deve essere pubblicizzata nel proprio sito. C’è però il rischio che le amministrazioni tendano a comprendere negli elenchi anche attività economiche che vanno classificate come “libere” e non regolamentate.
L’articolo ora citato precisa che le amministrazioni «possono» e non «devono» trovare una corrispondenza con le attività elencate, ma questo aspetto dovrà essere reso più esplicito.
L’elenco delle attività riportato nell’Allegato A è suddiviso in tre sezioni:
I - attività commerciali e assimilabili
II - edilizia
III - ambiente
L’elenco non riporta solo l’attività, il procedimento (o regime amministrativo) e la normativa ma anche gli adempimenti con altre autorità. Si tratta di una impostazione di notevole praticità e utilità per gli enti e gli utenti.
Con il termine attività vengono indicate anche operazioni relative ad attività iniziate: trasferimenti, sub-ingressi tra imprese,eccetera. Emerge poi che i procedimenti non sono solo quattro perché sono così qualificati anche la Scia Unica, la comunicazione asseverata, la Cila (comunicazione inizio lavori asseverata).
Nella sezione I sono elencate 82 attività. Per esercitare il commercio compreso quello su aree pubbliche e le attività di bar e ristorazione solo in cinque casi marginali è prevista l’autorizzazione espressa.
Nella sezione II sono elencate 105 attività , comprese quelle di edilizia libera. Notevole è lo sforzo per chiarire in dettaglio gli adempimenti.
Nella Sezione III sono elencate 37 attività; di queste 17 sono soggette ad autorizzazione ma ben 11 a sola comunicazione.
Gli articoli 5 e 6 del Dlgs introducono semplificazioni da tempo attese che sono recepite negli elenchi: la cessazione del commercio su aree private non richiede alcuna comunicazione; occorre solo la Scia per aprire un bar anche nelle zone finora soggette a “tutela” dal comune; quando una attività è soggetta sia a norme commerciali sia di pubblica sicurezza e si applica la Scia questa funge anche da autorizzazione di Ps (articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATACondominio alla verifica delle valvole. Nuovi obblighi.
Da ieri ogni condominio deve verificare se sussista l'obbligo di introdurre sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore. Questo perché da ieri è entrato in vigore il dlgs n. 141/2016, che modifica e integra il provvedimento (dlgs n. 102/2014), che impone la verifica suddetta.

Questi «sistemi, va sottolineato, non sono obbligatori in senso assoluto, ma, in linea con lo spirito della normativa, solo a condizione che determinino efficienza e risparmio energetico», spiega Confedilizia in una nota.
Il nuovo provvedimento interviene, in particolare, sulle modalità di suddivisione delle spese connesse al consumo di calore per il riscaldamento, il raffreddamento delle unità immobiliari e delle aree comuni nonché per l'uso di acqua calda per il fabbisogno domestico. Secondo il provvedimento originario, l'importo complessivo doveva essere suddiviso tra gli utenti finali in base alla norma tecnica UNI 10200.
Ma per risolvere i problemi scaturenti da tale unica modalità di suddivisione, rilevati in particolare nelle estremità degli edifici, il decreto correttivo consente ora –ove tale norma tecnica non sia applicabile o siano comprovate, tramite relazione tecnica, determinate differenze di fabbisogno termico– di suddividere l'importo complessivo attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari di energia termica.
In tal caso, gli importi rimanenti potranno essere ripartiti, «a titolo esemplificativo e non esaustivo», secondo i millesimi, i metri quadri o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate. Mentre resta salva la possibilità, per la prima stagione termica successiva all'installazione dei dispositivi in questione, che la suddivisione venga effettuata in base ai soli millesimi.
«Si tratta», rileva ancora Confedilizia, «di una soluzione non perfetta, ma certamente migliorativa rispetto alla vincolatività del precedente sistema, che tanti problemi aveva causato. Ne andrà verificata l'attuazione in concreto, insieme con le altre novità del provvedimento correttivo, che confermano –comunque– la necessità di analizzare caso per caso le situazioni dei singoli condomini» (articolo ItaliaOggi del 27.07.2016).

APPALTILa soft regulation è vincente. Procedure più snelle, efficienti e trasparenti per gli appalti. Le osservazioni della Fondazione Inarcassa sulle linee guida approvate dall'Anac.
A pochi mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del nuovo Codice degli appalti, l'Anac (Autorità nazionale anticorruzione), presieduta da Raffaele Cantone, ha approvato le prime linee guida attuative del decreto.
Infatti, il testo, pubblicato il 19 aprile scorso, prevede il superamento del Regolamento di esecuzione e l'adozione, da parte dell'Anac e del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di atti di indirizzo e linee guida di carattere generale, da approvarsi previo parere delle competenti commissioni parlamentari.
Tale sistema di soft regulation risponde a un preciso disegno del legislatore volto a semplificare le procedure, rendere più trasparente ed efficace l'azione amministrativa, garantire maggiore concorrenza e affidabilità degli esecutori e ridurre il contenzioso. I documenti, sottoposti a consultazione pubblica, hanno ricevuto contributi da parte di pubbliche amministrazioni, associazioni di categoria, ordini professionali, nonché operatori economici e liberi professionisti.
Anche Fondazione Inarcassa, braccio operativo sui temi della professione creato da Inarcassa, ha presentato all'Anac le proprie osservazioni. Il documento di consultazione presentava, infatti, diversi elementi di interesse, in particolare per quanto attiene a quel complesso disorganico di disposizioni del nuovo Codice che costituiscono la disciplina di riferimento per l'affidamento dei servizi di architettura e ingegneria.
Numerosi sono stati i suggerimenti pervenuti dalla Fondazione e accolti dall'Autorità. «Non possiamo che riconoscere il grande impegno e lavoro portato avanti dall'Anac sul Codice», spiega il presidente Andrea Tomasi, «c'è stata grande attenzione e collaborazione da parte dell'Autorità con tutte le parti chiamate a contribuire al miglioramento delle linee guida e, nonostante alcuni punti non siano in linea con le nostre aspettative, siamo molto soddisfatti del risultato».
Di seguito proponiamo una breve analisi dei punti ritenuti cruciali dalla Fondazione.
Il direttore dei lavori. Il documento «Direttore dei lavori», sottoposto a pubblica consultazione, ha ricevuto 53 contributi da parte dei soggetti interessati. L'Anac ha riconosciuto «una espressa autonomia del Direttore dei lavori nell'impartire all'impresa affidataria gli ordini di servizio sugli aspetti tecnici ed economici del contratto, nel rispetto, naturalmente, delle eventuali disposizioni di servizio impartite dal Responsabile unico del procedimento (Rup) al Direttore dei lavori».
L'Autorità ha accolto la richiesta di chiarire le modalità di conferimento dell'incarico di Coordinatore per la sicurezza e, laddove il direttore nominato non possegga i necessari requisiti, è possibile l'affidamento dell'incarico a un terzo, diverso da un direttore operativo dell'Ufficio di direzione lavori, ai sensi dell'art. 31, comma 8, del Codice. La Fondazione aveva inoltre suggerito di chiarire che le figure di responsabile della sicurezza per l'esecuzione e quella di direttore dei lavori non dovessero essere coincidenti. Si rileva, infatti, che la funzione del coordinatore per l'esecuzione dei lavori è attività del tutto autonoma rispetto ai compiti e alle responsabilità del Direttore del lavori.
Per una chiara suddivisione dei ruoli e delle relative responsabilità, quindi, la funzione di direttore dei lavori e quella di coordinatore della sicurezza per l'esecuzione siano, di norma, disgiunte. Ciò anche in aderenza alle indicazioni delle direttive comunitarie che auspicano il frazionamento degli appalti e la suddivisione dei contratti.
Responsabile unico del procedimento. Le funzioni del Rup sono disciplinate all'articolo 31 del Codice. L'Anac, a proposito dei titoli di studio di cui è necessario che il responsabile sia in possesso, propone una variazione di competenza, professionalità ed esperienza, direttamente proporzionale all'importo dell'appalto.
Quindi:
   a) per gli importi inferiori a 500.000 euro il Rup deve essere almeno in possesso di un diploma rilasciato da un istituto tecnico superiore di secondo grado al termine di un corso di studi quinquennale, abilitato all'esercizio della professione e iscritto nel relativo albo e possedere un'anzianità di servizio ed esperienza di almeno tre anni nell'ambito dell'affidamento di appalti e concessioni di lavori;
   b) per gli importi compresi tra 500.000 euro e 1.000.000 di euro il Rup, con esperienza almeno di cinque anni, deve essere in possesso di una laurea triennale in architettura, ingegneria, scienze e tecnologie agrarie, scienze e tecnologie forestali e ambientali, scienze e tecnologie geologiche o equipollenti e abilitazione all'esercizio della professione, abilitato all'esercizio della professione e iscritto nell'apposita sezione del relativo albo professionale;
   c) per gli importi pari o superiori a 1.000.000 di euro il Rup, con esperienza di cinque anni, deve essere in possesso di una laurea magistrale o specialistica nelle materie di cui al punto b), abilitazione all'esercizio della professione e iscrizione al relativo albo professionale. L'Anac chiarisce che per i lavori di particolare complessità (a elevato contenuto tecnologico, di significativa innovatività, con particolari condizioni climatiche, geologiche e ambientali, per la ristrutturazione, manutenzione e costruzione di beni ambientali e culturali) e a prescindere dall'importo del contratto, il Rup deve possedere la qualifica di Project Manager, oltre ai requisiti di cui al punto c).
In questo caso, la Fondazione ha osservato che, nel caso di appalto di lavori di importo superiore a 1.000.000 di euro e/o di affidamento dei servizi di ingegneria e architettura di importo superiore a 100.000 euro, il Rup debba essere abilitato alla professione di ingegnere o di architetto con laurea magistrale. Inoltre si ritiene che il Rup non debba mai coincidere con le figure del progettista, del coordinatore della sicurezza in fase di progettazione, del direttore lavori e del coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione. Tale coincidenza, infatti, verrebbe a determinare un palese conflitto di interessi controllato/controllore che, soprattutto nella realizzazione di lavori pubblici, risulta quanto mai «inopportuno».
Inoltre, l'Anac ha respinto la richiesta di alcuni stakeholder di prevedere la coincidenza delle figure del Rup e del progettista/direttore dei lavori/direttore dell'esecuzione per soglie di importo inferiore a 1.000.000 di euro.
Servizi di architettura e ingegneria. La linea guida sui servizi di ingegneria e architettura fissa le regole e i requisiti per la partecipazione alle gare di progettazione ed è stata trasmessa dall'Anac al Parlamento, lo scorso 7 luglio.
Successivamente è stata assegnata alle Commissioni lavori pubblici di Camera e Senato per l'espressione del parere sul contenuto. Tema centrale, la determinazione del corrispettivo: l'Anac ha condiviso la sollecitazione giunta da parte della Fondazione e di tutte le rappresentanze dei professionisti di porre a base d'asta obbligatoriamente gli importi derivanti dai parametri del dm 143/2013.
In tal senso si erano anche espresse le Commissioni parlamentari in sede di parere sul nuovo codice. Al fine di una maggiore trasparenza e correttezza e per consentire ai concorrenti di verificare l'importo, l'Anac precisa che «è obbligatorio riportare nella documentazione di gara il procedimento adottato per il calcolo dei compensi posti a base di gara, inteso come elenco dettagliato delle prestazioni e dei relativi corrispettivi».
L'Autorità, inoltre, chiarisce che la stazione appaltante può chiedere soltanto la prestazione di una copertura assicurativa per la responsabilità civile professionale, per i rischi derivanti dallo svolgimento delle attività di competenza ma non anche la cauzione provvisoria per i concorrenti agli incarichi di progettazione, redazione del piano di sicurezza e coordinamento e dei compiti di supporto al Rup (art. 93, comma 10).
Per quanto riguarda l'affidamento degli incarichi, infine, per quelli di importo inferiore a 100.000 euro, la Fondazione ritiene opportuno che la rosa dei partecipanti venga estesa a un minimo di dieci operatori, invece di cinque. Per gli incarichi di importo pari o superiore a 100.000 euro, la Fondazione, relativamente alla presenza nei gruppi concorrenti di uno o più giovani professionisti, osserva che sarebbe opportuno precisare se ciò debba avvenire obbligatoriamente all'interno del raggruppamento o possano essere indicati nel gruppo di lavoro quali facenti parte dell'organico del concorrente anche quali collaboratori coordinati e continuativi.
Circa il rimando, per questa fascia, ai requisiti previsti per il sopra soglia, in virtù anche dell'auspicio normativo tendente a favorire la partecipazione di strutture professionali piccole o medie e nell'ottica di differenziare i vari livelli, si ritiene che per questo ambito di gara sia esclusa la possibilità di richiesta di un fatturato minimo annuo.
Infine, per gli affidamenti di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria, la Fondazione, considerata la disastrosa situazione di crisi in cui versa il settore, preferirebbe che la previsione circa il fatturato globale per i servizi di ingegneria e di architettura espletati negli ultimi tre esercizi antecedenti la pubblicazione del bando (per un importo massimo pari al doppio dell'importo a base di gara), venga modificata con una previsione che tale requisito venga esteso ai tre migliori esercizi nell'ultimo decennio.
Inoltre, l'ulteriore previsione di limitare all'ultimo decennio la valenza del proprio curriculum professionale non ha una giustificazione sostanziale. Infatti, l'esperienza professionale maturata non decade temporalmente, anzi incrementa nel tempo. Quindi, in linea generale, si chiede che venga stralciata la limitazione decennale in favore di una ventennale (articolo ItaliaOggi del 27.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIDocumento di gara per tutte le aggiudicazioni.
Appalti. In «Gazzetta» le linee guida che adeguano il Dgue alle nuove gare italiane - Escluso solo l’affidamento diretto entro i 40mila euro.
Le stazioni appaltanti devono utilizzare il documento di gara unico europeo (Dgue) per tutte le procedure di aggiudicazione, sia sopra che sottosoglia, con l’unica eccezione dell’affidamento diretto entro i 40.000 euro.

Il ministero delle Infrastrutture ha definito le linee-guida per l’adeguamento del Dgue comunitario alle specificità del nuovo codice dei contratti pubblici, con un comunicato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di venerdì 22 luglio.
Le linee-guida (per le quali si prevede un periodo di sperimentazione applicativa per recepire eventuali elementi ulteriori) stabiliscono che il formulario deve essere utilizzato per tutte le procedure di affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture, nonché per quelle relative alle concessioni, sia di valore pari o superiore sia inferiore alle soglie comunitarie. L’unica eccezione all’utilizzo obbligatorio del Dgue è prevista per gli affidamenti diretti entro i 40.000 euro, per i quali le amministrazioni possono decidere se far rendere le dichiarazioni sui requisiti con tale modello o con modelli semplificati definiti in proprio.
Sino al 18.04.2018 (data dalla quale il Dgue dovrà essere solo in forma elettronica) le stazioni appaltanti possono utilizzare il format cartaceo allegato alle linee-guida del Ministero oppure ricorrere al servizio di compilazione elettronica della Commissione europea, anche se questo è possibile solo per affidamenti di valore superiore alle soglie comunitarie. Gli operatori economici possono riutilizzare il documento, se le informazioni rese non sono cambiate. Il Dgue, inoltre, è obbligatorio anche per le dichiarazioni che devono essere rese dai subappaltatori per dimostrare l’assenza di motivi di esclusione.
Per facilitare la compilazione del modello, le amministrazioni aggiudicatrici devono indicare nei documenti di gara tutte le informazioni che gli operatori economici devono inserire nel Dgue: i disciplinari di gara, pertanto, dovranno avere una sezione specificativa degli elementi da ricondurre al documento, soprattutto per chiarire alcuni aspetti inerenti i requisiti di capacità scelti dalla stazione appaltante
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, un modello per le gare. Obbligatorio sopra i 40 mila euro. Dal 2018 solo online. In G.U. le linee guida del Mininfrastrutture per la compilazione del formulario.
In vigore il nuovo modello unico per partecipare alle gare per l'affidamento di contratti pubblici. È obbligatorio per partecipare a tutti gli affidamenti oltre i 40.000 euro. Servirà ad attestare il possesso dei requisiti di ordine generale e speciali, sarà possibile applicarlo anche nelle procedure negoziate e andrà compilato soltanto in formato elettronico dal 2018 e sarà riutilizzabile.

È quanto si desume dalla lettura del comunicato del ministero delle infrastrutture dei trasporti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 170 del 22.07.2016 riguardante le linee guida per la compilazione del modello di formulario di Documento di gara unico europeo (Dgue), approvato con il regolamento di esecuzione 2016/7 della Commissione europea del 05.01.2016.
Si tratta del formulario che ogni stazione appaltante deve allegare agli atti di gara per permettere al concorrente che presenta la domanda di partecipazione o l'offerta (a seconda della procedure di aggiudicazione) di autodichiarare il possesso dei requisiti di ammissione alla gara.
Le linee guida ministeriali pubblicate venerdì risolvono il problema di adattamento del documento europeo alle specificità del nostro codice anche se, correttamente, ritengono sperimentale la prima fase di applicazione e prefigurano «
ulteriori integrazioni». Il ministero chiarisce che il Dgue si applicherà a tutte le procedure: aperte, ristrette, procedure competitive con negoziazione, dialoghi competitivi o partenariati per l'innovazione.
Il documento potrà essere utilizzato nei casi di procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara di cui all'art. 63 del Codice, comma 2, lettera a), cioè quando non sono state presentate offerte o offerte appropriate in una precedente gara. Negli altri casi di procedura negoziata senza bando, spetterà alla stazione appaltante valutare discrezionalmente se utilizzarlo. Analoga valutazione potrà riguardare l'eventuale applicazione per contratti di importo inferiore a 40.000 euro (il Dgue vale infatti sia sopra sia sotto la soglia Ue).
Il formulario per il Dgue, opportunamente adattato, può anche essere utilizzato per presentare le dichiarazioni del subappaltatore ai fini dell'autorizzazione al subappalto. Il ministero invita anche a consultare, per la compilazione, la guida online della Commissione europea e precisa che il Dgue presentato in una procedura precedente può essere utilizzato nuovamente ma soltanto se le informazioni sono ancora valide. Nelle istruzioni ministeriali si specifica, fra le altre cose, che in caso di consorzi stabili, il Dgue è compilato, separatamente, dal consorzio e dalle consorziate esecutrici indicate.
Per quanto riguarda l'avvalimento viene anche chiarito che nel Dgue non deve essere inclusa la dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria (con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione, per tutta la durata dell'appalto, le risorse necessarie di cui è carente il concorrente); la dichiarazione deve quindi essere allegata al Dgue (articolo ItaliaOggi del 26.07.2016).

EDILIZIA PRIVATADlgs Scia, la data del protocollo non conta.
Rivoluzionato il computo dei termini dei procedimenti amministrativi. Le amministrazioni dovranno riorganizzarsi in maniera profonda, per affondare l'impatto del dlgs 126/2016 (il cosiddetto «decreto Scia» in vigore dal 28 luglio), che ha riformato in maniera rilevante le previsioni della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, incidendo appunto sul computo dei termini e sul silenzio-assenso.
Fondamentale è la previsione contenuta nel nuovo articolo 18-bis, comma 1, della legge 241/1990. L'articolo stabilisce che le amministrazioni dovranno rilasciare una ricevuta possibilmente telematica che attesti l'avvenuta presentazione di istanze, segnalazioni o comunicazioni, indicando anche i termini entro i quali occorre rispondere o si forma il silenzio-assenso.
La norma precisa che «la data di protocollazione dell'istanza, segnalazione o comunicazione non può comunque essere diversa da quella di effettiva presentazione. Le istanze, segnalazioni o comunicazioni producono effetti anche in caso di mancato rilascio della ricevuta, ferma restando la responsabilità del soggetto competente». Pertanto, il decorso dei termini entro i quali concludere il procedimento parte non più dalla protocollazione di istanze, segnalazioni o comunicazioni, bensì appunto dalla data della loro materiale presentazione.
La data del protocollo, quindi, perde rilievo ai fini del procedimento amministrativo. Essa continua a comprovare fino a querela di falso che un certo documento è entrato nel patrimonio archivistico dell'ente, ma non può essere considerata il punto di partenza dei procedimenti a istanza di parte o soggetti a segnalazione: conterà la data nella quale il cittadino si è attivato per presentare appunto l'atto di iniziativa procedimentale.
La ricevuta di cui parla il nuovo articolo 18-bis della legge 241/1990 ha proprio lo scopo di documentare l'evento che dà avvia al procedimento. Lo scopo è evitare che le amministrazioni possano giocare sui termini, ritardando ad arte la protocollazione per guadagnare tempo. La ricevuta della presentazione delle istanze, oltre a determinare il dies a quo per il computo dei termini, se contiene le informazioni di cui all'articolo 8 della legge 241/1990, riguardanti la struttura amministrativa competente, il responsabile del procedimento e i termini per rispondere, corrisponderà alla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'articolo 7.
Il decreto Scia ha modificato anche l'articolo 20, comma 1, della legge 241/1990, norma dedicata al silenzio-assenso. La novella al testo chiarisce che il silenzio-assenso si forma allo spirare del termine finale previsto dalla legge o dalle norme regolamentari per adottare il provvedimento, qualora l'amministrazione sia rimasta inerte e il termine decorre «dalla data di ricevimento della domanda del privato» e, dunque, anche in questo caso non dalla protocollazione.
Allo scopo di evitare che le amministrazioni provino comunque a ritardare l'attivazione dei procedimenti, ad esempio non rilasciando la ricevuta richiesta dal nuovo articolo 18-bis della legge 241/1990, esso stabilisce che «le istanze, segnalazioni o comunicazioni producono effetti anche in caso di mancato rilascio della ricevuta, ferma restando la responsabilità del soggetto competente».
Dunque, anche in assenza del rilascio della ricevuta, qualora il cittadino che abbia presentato l'istanza riesca comunque a dimostrare la data della presentazione potrà sempre eccepire la formazione del silenzio assenso o, comunque, la violazione del termine anche ai fini dell'eventuale attivazione del danno da ritardo e il «soggetto competente» (dirigente o responsabile di servizio preposto alla direzione della struttura amministrativa che ha ricevuto l'istanza) sarebbe chiamato a rispondere per responsabilità dirigenziale connessa alla violazione dei termini, sia di danni erariali (articolo ItaliaOggi del 26.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, l'Ape ora si calcola con Docet. Software enea.
Enea ha realizzato il nuovo software gratuito «docet» per la redazione degli attestati di prestazione energetica degli edifici residenziali esistenti.

Il modello informatico è stato aggiornato con i contenuti delle nuove norme Uni/Ts 11300 relative alle prestazioni energetiche degli edifici e Uni 10349 sui dati climatici relativi al riscaldamento e raffrescamento degli edifici. Docet è uno strumento di simulazione a bilanci mensili per la certificazione energetica degli edifici esistenti, spiega un comunicato Enea dello scorso 23 luglio.
Le norme UNI/TS 11300 (parte 4, 5 e 6) e UNI 10349 (parti 1, 2 e 3) entrate in vigore lo scorso 29 giugno garantiscono il necessario aggiornamento dei sistemi di calcolo della prestazione energetica degli edifici. Con l'entrata in vigore delle nuove regole i certificatori energetici hanno più obblighi da rispettare per la redazione dell'Ape.
Si pensi alle stime dei consumi derivanti da ascensori, scale mobili e marciapiedi mobili (per le categorie di edifici dove la stima è prevista), da calcolare secondo la UNI/TS 11300-6 (articolo ItaliaOggi del 26.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIAScarti vegetali, cambio di rotta. Torna il regime dei sottoprodotti. Norme Ue in conflitto. Il collegato agricoltura riporta i residui verdi urbani fuori dal regime dei rifiuti.
Cambio di rotta del legislatore nazionale su sfalci e potature da aree verdi urbane, riportati ex lege sotto il regime dei sottoprodotti mediante la riscrittura di quelle disposizioni del Codice ambientale introdotte nel 2010 proprio per sancirne, invece, l'assoggettamento in via generale alla disciplina sui rifiuti in ossequio alle norme comunitarie di settore.
La novità è arrivata con l'approvazione definitiva avvenuta il 06.07.2016 della legge recante «Deleghe al governo e ulteriori disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione e competitività dei settori agricolo, agroalimentare, della pesca e dell'acquacoltura», atto che appare riportare il tenore dell'articolo 185 del dlgs 152/2006 (recante le deroghe al regime dei rifiuti) alla versione precedente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010 disallineandolo così, come emerso anche nel relativo dibattito parlamentare, dall'attuale direttiva 2008/98/Ce.
Le nuove disposizioni. In base alla riformulazione della lettera f), comma 1, articolo 185 del dlgs 152/2006 prevista dalla nuova legge, non rientrano nel campo di applicazione della Parte quarta del Codice ambientale (e dunque, sotto il regime dei rifiuti): «la paglia, gli sfalci e le potature provenienti dalle attività di cui all'articolo 184, comma 2, lettera e), e comma 3, lettera a), nonché ogni altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso destinati alle normali pratiche agricole e zootecniche o utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Il requisito della provenienza. Oltre agli scarti verdi derivanti da attività agricole e agroindustriali, in base alla novellato e citato testo del dlgs 152/2006 sono gestibili fuori dalla disciplina dei rifiuti, concorrendo precise condizioni (come più avanti esposto), anche i residui vegetali provenienti da aree verdi urbane.
Tecnicamente, la novità viene inserita nell'articolo 185, comma 1, lettera f) del Codice ambientale mediante il secco rimando normativo, ossia tramite la specificazione che la «paglia, gli sfalci e le potature» esclusi (o meglio, escludibili) dal campo di applicazione della disciplina sui rifiuti sono quelli «provenienti dalle attività di cui all'articolo 184, comma 2, lettera e), e comma 3, lettera a)» dello stesso dlgs 152/2006.
Il rinvio è all'articolo del Codice ambientale (il 184) che reca la classificazione dei rifiuti in base all'origine (distinguendoli tra urbani e speciali) e alla pericolosità (distinguendoli tra pericolosi e non). Il comma 2, lettera e), del suddetto articolo 184 individua nell'ambito degli urbani, appunto, i «rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali»; mentre il successivo comma 3 lettera a) colloca invece tra gli speciali «i rifiuti da attività agricole e agroindustriali, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2135 c.c.».
Il requisito della naturalità e non pericolosità. L'equiparazione degli scarti verdi urbani a quelli agricoli/forestali si riflette anche sotto il profilo delle condizioni di inoffensività che i primi devono rispettare per potere essere esclusi dal regime dei rifiuti. In tale prospettiva appare infatti dover essere letta la successiva disposizione del rinnovato articolo 185, comma 1, lettera f), del dlgs 152/2006, laddove si precisa che sono escluse dal regime dei rifiuti la paglia, gli sfalci e le potature (così come più sopra individuati) «nonché ogni altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso».
Nonostante la non felice formulazione del testo da parte del legislatore nazionale (che ha semplicemente innestato l'aggettivo «ogni» sulla preesistente disposizione: si veda la tabella in questa stessa pagina riportata), il valore trasversale di tale indefettibile condizione di innocuità appare essere suffragato da due considerazioni: la necessità di una interpretazione sistematica delle norme (che ove non condotta potrebbe far sembrare illogico anche il precedente citato richiamo integrativo effettuato dall'articolo 185 in esame, che parla di «materie», all'articolo 184, che parla invece di «rifiuti»); il consolidato orientamento della giurisprudenza sia comunitaria che nazionale che impone sempre il rispetto del principio di precauzione in materia ambientale e quindi l'interpretazione restrittiva delle norme che dispongono deroghe al severo regime dei rifiuti.
Ragion per cui ove non completamente «naturale» e altresì «pericoloso» (plausibilmente per essere frammisto a materiali di altro genere) anche il residuo vegetale da aree verdi urbane sarà comunque da gestire secondo la disciplina dei rifiuti (con conseguente rispetto del regime autorizzatorio sotteso), essendo illecita ogni diversa condotta.
Il requisito della destinazione d'uso. Parallelamente all'allargamento del requisito di provenienza appare arrivare anche quello di destinazione. L'esclusione dal regime dei rifiuti varrà infatti anche per i suddetti scarti vegetali (naturali non pericolosi) che saranno destinati alle normali pratiche zootecniche oltre che (come già previsto per i materiali agricoli dalla precedente versione dell'articolo 185, e ora pure per quelli da verde urbano) all'utilizzo in agricoltura, nella silvicoltura, o per la produzione di energia da biomassa.
L'ambito spaziale di (ri)utilizzo. Allargato, infine, l'ambito spaziale di gestione fuori dal regime dei rifiuti (sempre ricorrendo gli altri citati requisiti) dei residui verdi in questione. Il novellato 185 prevede infatti che la deroga operi anche per gli scarti portati al di fuori del luogo di produzione o oggetto di cessione a terzi.
Le condizioni tecniche di utilizzo. Nel riformulato come nel precedente tenore dell'articolo 185, comma 1, lettera f), il riutilizzo degli scarti verdi (fuori dal regime dei rifiuti) dovrà comunque avvenire «mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
I rapporti con la disciplina Ue. L'esaminata novella appare, come accennato, ablare gli effetti del dlgs 205/2010 con il quale si era proceduto alla riformulazione (anche) del citato articolo 185, comma 1, lettera f), del dlgs 152/2016 per renderlo compatibile con il tenore dell'articolo 2, comma 1, lettera f) dell'attuale direttiva 2008/98/Ce (in materia, appunto, di materiale vegetale escludibile dalla disciplina dei rifiuti).
Il tutto, dunque, secondo una sequenza normativa nazionale che nel solo arco temporale in parola ha visto transitare gli scarti verdi urbani da sottoprodotti «ex lege» a rifiuti (con la possibilità, comunque, di dimostrarne caso per caso l'eleggibilità al suddetto regime di deroga secondo i criteri generali del dlgs 152/2006) e poi ancora, di nuovo, a sottoprodotti per legge.
E questo, oltre al rischio di una procedura di infrazione comunitaria nel breve termine, anche con la prospettiva di uno scollamento del riformulato dlgs 152/2006 con la futura direttiva Ue sui rifiuti, il cui testo attualmente all'esame delle competenti Istituzioni prevede sugli scarti verdi disposizioni pedisseque a quelle dell'attuale e citata direttiva 2008/98/Ce (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Impianti di climatizzazione a prova di condominio. Installazione ed efficienza: le regole per non sbagliare. Fino al 31/12 le detrazioni Irpef.
Con l'arrivo del caldo occorre confrontarsi con i piccoli e grandi problemi legati all'installazione e all'utilizzo degli impianti di raffrescamento dell'aria. Ecco allora una panoramica delle principali questioni da affrontare.
L'efficienza energetica. L'impianto di condizionamento deve in primo luogo essere mantenuto in perfetta efficienza, per evitare salati consumi di elettricità e rischi per la salute. L'Enea, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile, ha recentemente messo online 10 consigli pratici sull'utilizzo efficiente e sostenibile dei climatizzatori, in modo da poter raffrescare gli ambienti in modo ottimale, senza eccessive spese in bolletta.
Occorre in primo luogo avere cura di optare per un modello di condizionatore in classe energetica A o superiore, preferendo gli apparecchi dotati di tecnologia inverter, che adeguano la potenza all'effettiva necessità e riducono i cicli di accensione e spegnimento della macchina. Tra l'altro, fino al 31 dicembre di questo anno, se l'impianto è dotato di una pompa di calore si può usufruire di una significativa detrazione dall'Irpef.
È poi importante collocare il climatizzatore nella parte alta della parete di ciascuna delle stanze che si intendono rinfrescare: l'aria fredda tende a scendere e, in tal modo, si mescola più facilmente con quella calda che tende a salire. Bastano due o tre gradi in meno della temperatura esterna per rendere piacevole il soggiorno in un locale e spesso basta semplicemente attivare la funzione di deumidificazione, perché è l'umidità presente nell'aria che fa percepire una temperatura molto più alta di quella reale.
L'utilizzo del timer e la c.d. funzione notte consentono di ridurre al minimo il tempo di accensione della macchina. È infine importante una corretta pulizia e manutenzione dell'impianto. I filtri dell'aria e le ventole devono essere puliti alla prima accensione stagionale e almeno ogni due settimane.
I suggerimenti in tabella sono stati curati dagli esperti Enea.
Il luogo. Spesso possono sorgere difficoltà in relazione al luogo in cui collocare il motore esterno dell'impianto di condizionamento. Di norma quest'ultimo viene posizionato sul balcone dell'appartamento in proprietà esclusiva, in modo da non creare disturbo a nessuno.
Nel caso in cui però manchi il balcone, l'unità esterna dovrà necessariamente essere applicata sulla facciata dell'edificio. In questo caso occorre che l'installazione sia eseguita senza recare danno alle parti comuni dell'edificio, tenuto conto del fatto che l'art. 1122 c.c. stabilisce che il condomino nel piano o porzione di piano di sua proprietà non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni e alle proprietà degli altri condomini.
La giurisprudenza, con specifico riferimento ai condizionatori, ha poi precisato che deve intendersi per danno alle cose comuni anche il pericolo, purché attuale e non solo ipotetico, connesso al rischioso funzionamento o alla realizzazione imperfetta di un impianto. Occorre ricordare come la legge n. 220/2012 di riforma del condominio abbia inserito a pieno titolo la facciata nella più ampia categoria delle parti comuni, con la conseguenza per cui ogni condomino può utilizzarla per trarne una maggiore utilità, senza ovviamente ledere il pari diritto degli altri comproprietari.
L'installazione in facciata del corpo motore del condizionatore in genere non crea particolari problemi di statica e di sicurezza, ma può fare sorgere controversie in tema di estetica dell'edificio. Si ripropone, in questi casi, l'annosa questione dell'impatto visivo che il manufatto può avere sul decoro dello stabile.
Il c.d. decoro architettonico consiste nell'estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che caratterizzano l'edificio e imprimono al medesimo una determinata fisionomia: si tratta quindi di un bene comune, il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica delle modifiche che si intendono apportare.
È necessario sottolineare che si deve parlare di decoro architettonico non solo in relazione a edifici di particolare pregio, ma anche in relazione a costruzioni popolari che, comunque, hanno una loro linea, che può quindi essere danneggiata da opere che la modifichino, anche quando le stesse siano state eseguite per assicurare particolari utilità per l'uso o il godimento delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini. In ogni caso l'alterazione del decoro può correlarsi alla realizzazione di opere che, pur se minime, vadano a mutare l'originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o punti del fabbricato.
Un condomino può certo installare in facciata un condizionatore di piccole dimensioni che non vada a stravolgere l'armonia del caseggiato, soprattutto se, per colore e posizione, sia destinato a essere poco visibile. Al contrario, se un condomino installa un motore del condizionatore di enormi dimensioni su una parte esterna dell'edificio e nelle immediate vicinanze di alcune finestre, si determina un'alterazione del decoro architettonico e, di conseguenza, un deprezzamento dell'intero fabbricato, che il giudice può liberamente quantificare, senza bisogno di particolare motivazione.
Questo principio vale anche in caso di installazione effettuata sulla facciata interna dell'edificio e indipendentemente dal fatto che siano già presenti in facciata opere e manufatti oppure altri condizionatori, pur di minori dimensioni, o contatori del gas con le relative tubazioni: tali circostanze, secondo la giurisprudenza, quand'anche arrechino un pregiudizio all'estetica dell'edificio, non per questo legittimano l'ulteriore aggravio che il condizionatore di per sé può provocare al decoro dell'immobile.
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Immissioni sì purché tollerabili.
Per l'installazione dei condizionatori non è richiesto il rispetto delle norme di legge in tema di distanze: l'impianto può quindi occupare parte del muro perimetrale della proprietà del vicino o essere sistemato in adiacenza della proprietà del condomino limitrofo.
Tuttavia lo stesso non può generare immissioni intollerabili in direzione della proprietà dei vicini (cioè si deve evitare la fuoriuscita rilevante di vapore o acqua calda o la produzione di rumori insopportabili). Per quanto riguarda il rumore, in giurisprudenza è stato precisato che eccedono la normale tollerabilità le immissioni sonore che superino di tre decibel la c.d. rumorosità di fondo, intesa come il complesso dei rumori di origine varia (spesso non esattamente individuabili) presenti nel contesto ambientale in esame. Accertata l'intollerabilità delle immissioni da rumore proveniente dalle macchine di condizionamento dell'aria, ai danneggiati spetta il risarcimento del danno in relazione al periodo nel quale la situazione di disagio sia perdurata.
Non è poi raro che scatti anche la condanna penale nei confronti di coloro che installano condizionatori rumorosi nelle proprie abitazioni o nei luoghi nei quali svolgono le rispettive attività professionali. Si parla, in questi casi, di disturbo alla quiete delle persone che abitano alloggi limitrofi, anche nel caso in cui a lamentarsi dei rumori sia soltanto uno dei nuclei familiari residenti nel condominio. In un caso affrontato dai giudici di legittimità, ad esempio, è stata comminata una multa pecuniaria di 200 euro al gestore di un centro commerciale responsabile di aver montato dei condizionatori le emissioni dei quali erano percepite fino al quarto piano del condominio sovrastante. In questo caso l'imprenditore è stato condannato anche a risarcire i danni morali subiti dai condomini che precedentemente lo aveva denunciato.
I limiti: regolamento di condominio e comunale. Se però una norma del regolamento di condominio vieta espressamente l'installazione di condizionatori in facciata, il singolo condomino non può che attenersi a tale disposizione.
Essa però è valida solo se contenuta in un regolamento predisposto dal costruttore del caseggiato (c.d. contrattuale) e accettata dai singoli proprietari degli appartamenti negli atti di acquisto oppure deliberata dalla totalità dei condomini. Questo significa che in tali casi il singolo condomino non può installare un condizionatore in facciata nemmeno se è stato autorizzato dall'assemblea con una delibera approvata a maggioranza.
In ogni caso, prima di installare un impianto sul muro condominiale, è importante verificare anche che non siano previste limitazioni nei regolamenti comunali: questi ultimi, infatti, possono prevedere, ad esempio, il divieto di installare condizionatori sulle pareti esterne degli edifici del centro storico. In via generale ogni condomino può eseguire nella porzione di sua proprietà esclusiva tutte le opere che ritiene opportune, purché non siano anche solo potenzialmente capaci di arrecare un danno alle parti comuni dell'edificio.
Per evitare possibili controversie è comunque consigliabile che il condomino che intende installare tali apparecchi, prima di dare l'avvio ai lavori, si faccia carico di avvisare preventivamente l'amministratore.
Quest'ultimo, a sua volta, è tenuto a sottoporre la questione all'assemblea e a spiegare ai condomini che non si può impedire l'installazione dell'impianto ove non sia alterata la destinazione della facciata o di altra parte comune e non sia impedito agli altri partecipanti di fare ugualmente uso degli spazi condominiali.
L'assemblea, però, può legittimamente rifiutare il placet preventivo al condomino che, ad esempio, voglia occupare una rilevante porzione del muro perimetrale con un motore di grandi dimensioni, impedendo così agli altri condomini ogni possibilità di utilizzare ugualmente la facciata (per installare un altro condizionatore, una targa, una tubazione ecc.) (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).

EDILIZIA PRIVATARiqualificazioni, bonus 65% a maglie larghe. Il vademecum dell'enea sui lavori incentivati.
Gli interventi ammessi al bonus del 65% per la riqualificazione globale dell'edificio comprendono qualsiasi intervento o insieme sistematico di interventi che incida sulla prestazione energetica dell'edificio. Quindi, a titolo meramente esemplificativo, sono agevolabili gli interventi di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale anche con generatori di calore non a condensazione, gli impianti di cogenerazione, trigenerazione e gli interventi di coibentazione o di sostituzione di finestre non aventi i requisiti tecnici prescritti dell'articolo 1, comma 345, della legge finanziaria 2007.

Sono alcune delle indicazioni che emergono da un vademecum Enea per i lavori incentivati aggiornato alla fine di giugno 2016 contenente i requisiti tecnici e la documentazione da inviare per usufruire del bonus.
Il vademecum è composto da nove schede tecniche: serramenti e infissi, caldaie a condensazione, caldaie a biomassa (comma 344 legge finanziaria 2007), pannelli solari, pompe di calore, coibentazione parete e copertura, riqualificazione globale, schermature solari e caldaie a biomassa (comma 347 legge finanziaria 2007).
Vediamo alcuni degli spunti più interessanti.
Generatori di calore a biomassa (articolo 1, comma 344 della legge finanziaria 2007). Gli interventi relativi all'installazione di generatori di calore a biomasse negli immobili devono assicurare un indice di prestazione energetica per la climatizzazione invernale non superiore ai valori limite riportati in tabella all'allegato «A» al dm 11.03.2008.
Inoltre il rendimento utile nominale minimo non deve essere inferiore all'85% e per i soli edifici ubicati nelle zone climatiche C (comuni che presentano un numero di gradi-giorno maggiore di 900 e non superiore a 1.400), D (comuni che presentano un numero di gradi-giorno maggiore di 1.400 e non superiore a 2.100), E (comuni che presentano un numero gradi-giorno maggiore di 2.100 e non superiore a 3.000), F (comuni che presentano un numero di gradi-giorno maggiore di 3.000) le chiusure apribili ed assimilabili (porte, finestre e vetrine anche se non apribili), che delimitano l'edificio verso l'esterno o verso locali non riscaldati, devono rispettare i limiti massimi di trasmittanza di cui alla tabella 4a dell'allegato C al dlgs. n. 192 del 2005.
La rispondenza ai requisiti sopra elencati deve essere riportata nell'asseverazione compilata dal tecnico abilitato e dichiarata nella richiesta di detrazione da trasmettere ad Enea.
Schermature solari. Nel caso di installazione delle schermature solari alla data della richiesta di detrazione 65%, l'immobile deve essere «esistente», ossia accatastato o con richiesta di accatastamento in corso, deve essere in regola con il pagamento di eventuali tributi e in caso di ristrutturazione senza demolizione, se essa presenta ampliamenti, non è consentito far riferimento al comma 344, della legge finanziaria 2007 ma ai singoli commi 345, 346 e 347 della legge finanziaria 2007 solo per la parte non ampliata (articolo ItaliaOggi del 23.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIUn filtro ai pareri. Richieste alla sezione autonomie. Il dl enti locali punta a ridurre i contrasti interpretativi.
Un filtro alle richieste di parere dirette alla Corte dei conti. E un argine alla marea di interpretazioni, spesso discordanti, fornite dai giudici contabili.

È quanto prevede una norma (art. 10-bis) inserita dalla camera in sede di conversione al decreto enti locali (dl 113/2016) (Atto Camera n. 3926), che modifica l'art. 7, comma 8, della c.d. legge La Loggia (legge 131/2003).
Quest'ultima attualmente prevede solo la facoltà di richiedere pareri in materia di contabilità pubblica alle sezioni regionali della Corte dei conti da parte o delle singole regioni, ovvero dei singoli enti locali. Questi ultimi devono passare per il tramite del consiglio delle autonomie locali solo se tale organo è stato istituito, altrimenti possono procedere da soli.
A tale modalità, per così dire singolare, il correttivo ne affianca una collettiva, introducendo la possibilità di richiedere pareri direttamente alla sezione delle autonomie (ossia alla sezione centrale di cui fanno parte tutti i presidenti delle sezioni regionali di controllo e che svolge compiti di coordinamento nei confronti dell'azione delle medesime), con la intermediazione necessaria, per le richieste delle regioni, della conferenza delle regioni e delle province autonome o della conferenza dei presidenti delle assemblee legislative e, per quelle degli enti locali, della conferenza unificata.
Tale meccanismo punta a temperare il fenomeno della proliferazione di pareri in sede regionale e limitare i casi di difformità di indirizzo.
In effetti, la funzione consultiva svolta dai giudici contabili, sebbene in molti casi si sia rivelata utile, porta non di rado a contrasti interpretativi che hanno l'effetto di disorientare gli operatori e richiedono un intervento ex post proprio da parte della sezione delle autonomie in funzione nomofilattica, che però spesso arriva a distanza di mesi. Basti pensare, per citare i casi più recenti, alla querelle della spettanza dei diritti di rogito ai segretari comunali o alle tante questioni concernenti i limiti alla spesa per il personale flessibile, su cui le sezione regionali si sono divise fra di loro.
Al contrario, attraverso un'azione di individuazione delle questioni di maggiore interesse e significatività da parte delle conferenze, si dovrebbero produrre tempestivamente pronunce con effetto risolutivo da parte della sezione centrale titolare del potere di coordinamento in materia.
La modifica si pone in rapporto di logica coerenza e continuità con la disciplina dettata dall'art. 6, comma 4, del dl 174/2012, nel testo modificato dal dl 91/2014, secondo il quale «al fine di prevenire o risolvere contrasti interpretativi rilevanti per l'attività di controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza, la sezione delle autonomie emana delibera di orientamento alla quale le sezioni regionali di controllo si conformano» (articolo ItaliaOggi del 23.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIATavolo tecnico sulle discariche. Per accertare le effettive colpe dei sindaci.
Un tavolo tecnico che farà chiarezza sulle effettive responsabilità dei comuni in merito alle mancate bonifiche delle discariche abusive.

Lo ha deciso la Conferenza Unificata di ieri nelle more della sospensione della diffida ad adempiere che per il momento ha scongiurato il pericolo per i sindaci di provvedere alle bonifiche di tasca propria, dopo la condanna da parte dell'Ue e il conseguente riversamento dell'obbligo a carico dei comuni.
L'Unificata ha accolto la richiesta dell'Anci di verificare caso per caso le situazioni in cui i comuni non sono stati messi nelle condizioni di operare la bonifica dei siti.
«Abbiamo contestato al governo la situazione in cui si trovano diversi comuni», ha detto il vicepresidente vicario Anci Paolo Perrone al temine della riunione, «che in alcuni casi non hanno potuto bonificare per fondi mai arrivati dalle regioni o perché non potevano intervenire essendo i siti in questione di interesse nazionale. Oppure, come nel caso di Lecce, la bonifica è stata fatta prima che fosse emessa la sentenza ma la sanzione è arrivata ugualmente. Abbiamo chiesto quindi un tavolo per verificare casi eclatanti di non responsabilità a carico dei comuni perché non è giusto che vengano comminate sanzioni, pesantissime per molti enti, soprattutto quelli più piccoli».
«Abbiamo poi chiesto», ha aggiunto Perrone, «di rivedere come ripartire questo onere anche coinvolgendo le regioni che, in molti casi, sono responsabili di non aver fornito per tempo le risorse per procedere alle bonifiche».
La Conferenza unificata di ieri ha dato il via libera anche al riparto dei 70 milioni di euro per il 2016 a favore di regioni ed enti locali per l'assistenza degli alunni con disabilità fisica o sensoriale e per il supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazioni di svantaggio. Il riparto dei fondi terrà conto per il 60% del numero di studenti disabili presenti negli istituti scolastici, secondo le statistiche del Miur, mentre il restante 40% verrà calcolato in base alla spesa storica media 2012-2014 dichiarata da ciascun ente (articolo ItaliaOggi del 23.07.2016).

VARICani e gatti, vietate le cinture in auto.
Sono fuori legge le cinture di sicurezza per cani e gatti trasportati sui veicoli.

Lo ha affermato il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con il parere 13.07.2016 n. 4372 di prot..
L'art. 169, comma 6, del codice della strada prevede che si possa trasportare liberamente un animale domestico, purché non costituisca impedimento o pericolo per la guida.
Inoltre, è consentito trasportare animali domestici anche in numero superiore, purché siano custoditi in apposita gabbia o contenitore o nel vano posteriore al posto di guida appositamente diviso da rete o altro analogo mezzo idoneo che, se installati in via permanente, devono essere autorizzati dal competente ufficio provinciale della Direzione generale della Motorizzazione civile.
Secondo il ministero dei trasporti, la locuzione «altro analogo mezzo idoneo» non ha una portata generica tale da includere anche le cinture di sicurezza per cani e gatti, ma deve essere interpretata esclusivamente con riferimento alla rete di separazione del vano posteriore al posto di guida.
Pertanto, i sistemi di ritenuta consistenti nelle cinture di sicurezza non possono essere ritenuti legittimi. Gli automobilisti dovranno prestare molta attenzione a tale parere ministeriale, perché in caso di errata sistemazione sul veicolo, eventuali lesioni agli animali domestici trasportati potrebbero configurare anche estremi di reato (articolo ItaliaOggi del 22.07.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBoccata d'ossigeno per gli enti. Alleggeriti turnover e sanzioni, più facile estinguere i mutui. Tutte le novità del decreto legge 113/2016 approvato in prima lettura dalla camera.
Alleggerimento del turnover nei comuni medio-piccoli e delle sanzioni per quelli che hanno sforato il Patto 2015. Introduzione di una compartecipazione statale alle spese sull'estinzione anticipata dei mutui e dei prestiti obbligazionari.

Sono queste le principali novità per gli enti locali introdotte al dl 113/2016 dalla Camera (Atto Camera n. 3926) che ieri pomeriggio ha dato il via libera in prima lettura al provvedimento con 271 voti favorevoli, 109 contrari e 2 astenuti, dopo che in mattinata il governo aveva incassato il voto di fiducia da Montecitorio con 343 sì e 165 no.
Ora il provvedimento passa al senato per il varo definitivo prima della pausa estiva anche se è improbabile che palazzo Madama possa apportare ulteriori modifiche al testo. Vediamo le principali novità.
Turnover. Fra le misure più rilevanti spicca l'allenamento del turnover a favore dei comuni medio-piccoli: fino alla soglia dei 10 mila abitanti, gli enti che nell'anno precedente hanno registrato un rapporto dipendenti-popolazione inferiore a quello individuato per gli enti in dissesto potranno assumere fino al 75% (a fronte del 25% fissato dall'ultima legge di stabilità) della spesa dei cessati nell'anno precedente. Resta fermo il limite del 100% per gli enti che fino allo scorso anno erano esenti dal Patto.
Sanzioni Patto. Il secondo capitolo su cui si sono registrate le maggiori aperture è quello delle sanzioni per la violazione del Patto 2015. In aggiunta al condono delle sanzioni economiche già previsto per gli enti di area vasta, è stato introdotto uno sconto anche a favore dei comuni, che subiranno un taglio pari al 30% (anziché al 100%) dello sforamento.
La medesima penalità verrà ridotta di un importo pari alla spesa per edilizia scolastica sostenuta negli scorsi 12 mesi, purché non già oggetto di altre fattispecie di esclusione, sulla base dei dati che i comuni interessati dovranno comunicare alla Ragioneria generale dello Stato entro 30 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del dl.
Niente assunzioni senza bilanci. Regioni, province, città metropolitane e municipi che non rispettano i termini previsti per l'approvazione del preventivo, del rendiconto e del bilancio consolidato, o che non inviano nei termini tali documenti alla Banca dati delle pubbliche amministrazioni, non potranno effettuare assunzioni a qualsiasi titolo e con qualsiasi tipologia contrattuale, compresi i rapporti di co.co.co. e di somministrazione.
Anche i procedimenti di stabilizzazione in atto saranno congelati e non sarà possibile neppure stipulare contratti di servizio con privati per eludere la sanzione del blocco. La prima applicazione di queste novità avverrà a partire dal bilancio di previsione 2017-2019 e dal rendiconto e bilancio consolidato del 2016.
Fondi alle province. Alle province sono stati attribuiti 48 milioni per l'esercizio delle funzioni fondamentali e 100 milioni di fondi Anas per la manutenzione della rete viaria. Ripartiti gli importi dei sacrifici che province e città metropolitane devono garantire per concorrere agli obiettivi di finanza pubblica. Il totale resta invariato (2 mld per il 2016), ma viene così suddiviso: 1,295 miliardi a carico delle province, 504 milioni a carico delle città metropolitane e 200 milioni a carico delle province di Sicilia e Sardegna.
Come precisato nella relazione illustrativa, il riparto è stato effettuato secondo una metodologia che tiene conto della divergenza tra spesa storica e spesa standard per le funzioni fondamentali, nonché dei principi sanciti dalla Corte costituzionale che con la sentenza n. 65/2016 ha sottolineato la necessità che i tagli siano «sostenibili» e che le risorse assegnate alle province non scendano al di sotto di una certa soglia oltre la quale «la spesa non sarebbe ulteriormente comprimibile».
Estinzione anticipata dei mutui. Montecitorio ha stanziato 14 mln per il 2016 e 48 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018 al fine di consentire l'erogazione di contributi per l'estinzione anticipata, totale o parziale, di mutui e prestiti obbligazionari da parte dei comuni. Per il 2016 la dotazione finanziaria della misura potrà essere incrementata, fino a un massimo di ulteriori 26 milioni, con le risorse provenienti dall'applicazione ai comuni della sanzioni finanziarie per il mancato rispetto del patto di stabilità 2015.
In questo modo le risorse complessive messe sul piatto per finanziare l'estinzione anticipata dei mutui potrebbero salire a 136 milioni. Le richieste vanno trasmesse per quest'anno entro il 31 ottobre e dal prossimo entro il 31 marzo (articolo ItaliaOggi del 22.07.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni a rischio per il 2015. Dl enti locali.
Pericolo blocco delle assunzioni per le amministrazioni che nel 2015 hanno sforato il limite del rapporto fra spese di personale e spese correnti. Il correttivo introdotto dal decreto enti locali, infatti, potrebbe non essere sufficiente.
Il dl 113/2016 ha abrogato la lettera a) dell'art. 1, comma 557, della legge 296/2006, che secondo la Corte dei conti (si vedano, in particolare, le deliberazioni della Sezione delle autonomie nn. 16/20216 e 27/2015) imponeva agli enti già soggetti al Patto (ossia tutti quelli dai 5.000 abitanti in su) di ridurre l'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente rispetto al valore medio registrato negli anni 2011-2013.
Tale lettura ha posto numerose e rilevanti criticità: per esempio, se negli anni benchmark si sono sostenute spese di natura eccezionale o non ricorrente e poi le uscite sono tornate al loro livello fisiologico, rispettare l'obiettivo può essere complicato. E la stessa cosa accade se un ente decide (magari per migliorare efficacia ed efficienza) di esternalizzare un servizio prima svolto in forma diretta. Gli stessi giudici contabili avevano stigmatizzato tali distonie, ma per correggerle occorreva un intervento del legislatore, che adesso è finalmente arrivato.
Tutto bene, quindi? Non proprio, purtroppo. Infatti, l'abrogazione del parametro normativo su cui si basava la lettura restrittiva della Corte, conformemente ai principi generali, vale solo pro futuro, per cui nel 2015, a rigore, il vincolo era e rimane cogente. Da qui, in caso di sforamento, l'applicabilità delle sanzione prevista dal comma 557-ter mediante rinvio all'art. 76, comma 4, del dl 112/2008, che vieta di assumere nell'anno successivo alla violazione.
Si tratta, ovviamente, di una stortura che andrebbe sventata in sede di conversione del decreto anche se ormai i giochi sembrano fatti perché il testo non sarà modificato nel passaggio in senato (articolo ItaliaOggi del 22.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAConferenza di servizi, si cambia. Partecipazione via e-mail e chiusura entro 45 giorni. Le nuove regole che entreranno in vigore il 28 luglio e che faranno risparmiare due settimane.
Al via la conferenza di servizi «asincrona», da chiudere entro un mese e mezzo con tutti i pareri e nulla osta; un unico soggetto referente per le amministrazioni statali periferiche; niente silenzio assenso in caso di valutazione di impatto ambientale per opere di competenza statale.

Sono questi alcuni dei contenuti principali delle nuove regole per lo svolgimento delle conferenze di servizi, previste nel decreto legislativo 30.06.2016, n. 127 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13.07.2016, n. 162, che entreranno in vigore il 28 luglio prossimo e riguarderanno le procedure avviate successivamente a questa data.
La nuova disciplina, che riformula gli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, prevede una prima modalità di conferenza istruttoria indetta (facoltativamente) dall'amministrazione procedente, anche su richiesta di un'altra amministrazione o di un privato, che serve per l'esame contestuale degli interessi pubblici (e privati) coinvolti.
Questa conferenza si dovrà svolgere necessariamente in modalità asincrona: non si terrà alcuna riunione con presenza fisica dei partecipanti attorno a un tavolo, ma verranno messe in campo soltanto comunicazioni via posta elettronica tra i soggetti interessati. Il termine per l'indizione della conferenza semplificata è di cinque giorni decorrenti dall'inizio del procedimento d'ufficio o dal ricevimento della domanda se ad attivarla è un soggetto privato o un'altra amministrazione. Entro il termine massimo di 15 giorni si potranno chiedere chiarimenti o integrazioni. Al massimo entro 45 giorni (ma si raddoppiano nel caso in cui siano coinvolti enti per la tutela ambientale, paesaggistico-territoriale beni culturali o salute dei cittadini) dovranno essere espressi tutti i pareri.
Alla fine il risparmio rispetto alla precedente disciplina sarà di 15 giorni. Se nessuno si dovesse esprimere e se i pareri non dovessero pervenire nei termini, la legge presume che si sia concretizzato un assenso incondizionato; saranno invece tali da configurare un parere negativo soltanto i dissensi non superabili che dovranno essere formulati in modo chiaro e analitico.
Se invece andrà tutto bene la conferenza si concluderà positivamente entro cinque giorni dalla scadenza dei termini con una decisione positiva.
La legge non esclude la possibilità di una conferenza simultanea, cioè con la presenza dei rappresentanti delle amministrazioni intorno al tavolo, quando i pareri non siano univoci o se non si siano concretizzati in assenso o diniego netti. In questo caso la conferenza simultanea dovrà svolgersi nei 10 giorni precedenti la scadenza. I partecipanti potranno o essere presenti fisicamente o in via telematica (anche teleconferenza).
Dopo che l'amministrazione avrà illustrato gli elementi essenziali della conferenza, entro i 45 giorni successivi si dovrà tenere la conferenza che, a sua volta, si dovrà concludere entro altri 45 giorni. Ogni amministrazione parteciperà alla riunione con un unico rappresentante, con l'innovazione introdotta dal decreto di un unico soggetto, preventivamente designato dalla presidenza del consiglio o dalla prefettura, che dovrà esprimere il parere di tutte amministrazioni statali coinvolte nella conferenza.
Quando si tratti di progetti di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi l'amministrazione potrà indire una conferenza preliminare, che costituisce quindi la terza tipologia di conferenza, prima della presentazione del progetto definitivo (articolo ItaliaOggi del 22.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Chi subentra nell'appalto può modificare i contratti. Con la legge comunitaria n. 122/2006 che supera la Biagi.
In caso di subentro in un appalto sarà possibile applicare al personale trattamenti retributivi diversi dal precedente contratto.

È questo l'effetto dell'entrata in vigore, a partire da domani, della legge comunitaria n. 122/2006 che, oltre a prevedere la norma sulla sede legale delle Soa, stabilisce anche alcune nuove norme in materia di appalti e rapporti di lavoro ad essi connessi.
Attualmente, la materia è disciplinata dalla cosiddetta legge Biagi (d.lgs. 276/2003) in una disposizione (art. 29, comma 3) che impedisce l'applicazione della normativa sul trasferimento di aziende qualora si tratti di subentro di un appaltatore in un precedente contratto di appalto.
La normativa civilistica (articolo 2112) sul trasferimento di azienda prevede che i rapporti di lavoro in capo al datore di lavoro cedente proseguano, senza soluzione di continuità, con il cessionario, il quale deve garantire il mantenimento dei diritti acquisiti dal personale trasferito e l'applicazione dei trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi in vigore presso il cedente, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi dello stesso livello.
La disciplina della legge Biagi impedisce che il soggetto subentrante sia costretto a mantenere le stesse condizioni contrattuali ai lavoratori utilizzati nel precedente contratto e assunti dal subentrante. In altre parole, una cosa è il trasferimento di azienda, altra cosa è il subentro in un contratto di appalto.
La ratio del decreto 267 è quella di non costringere il nuovo appaltatore a prendersi comunque in carico, alle stesse condizioni, le maestranze impegnate nel contratto di appalto.
Su questa disposizione si è però appuntata l'attenzione dell'Unione europea che ha avviato negli anni scorsi una procedura di infrazione, non giunta al deferimento di fronte alla corte di giustizia, ma comunque tesa a censurare il divieto di mantenere gli stessi diritti agli operai quando si sia in presenza di fattispecie quali il subentro in un appalto che, per quanto giuridicamente diverso, ha elementi propri o simili al trasferimento di azienda disciplinato a livello europeo dalla direttiva 23/2001.
Salomonicamente, la norma approvata con la legge europea dall'Italia, pur mantenendo ferma la distinzione fra i due istituti, di fatto ammorbidisce il divieto della legge Biagi e rende meno rigida l'approvazione del divieto.
In particolare, la disposizione prevede l'inapplicabilità della disciplina sul trasferimento di azienda se il personale viene acquisito da una impresa che ha già operativa una struttura organizzativa e operativa e che vi sia una situazione di discontinuità rispetto all'impresa precedente.
Quindi, in questi casi chi assume il personale non sarebbe tenuto ad assicurare le stesse condizioni che avrebbe dovuto rispettare in caso di trasferimento di azienda, ma potrebbe applicare condizioni contrattuali diverse. La disciplina della legge comunitaria risulta applicabile sia in caso di acquisizione di personale per obbligo di legge, sia in caso di acquisizione prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro (articolo ItaliaOggi del 22.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., si riaprono le assunzioni in 4 regioni.
Diciannove mesi circa per sbloccare solo parzialmente e solo in 4 regioni le assunzioni, uscendo dalle maglie del blocco imposto dal processo di ricollocazione del personale sovrannumerario delle province.

C'è voluto oltre un anno e mezzo perché vedesse la luce il primo provvedimento del dipartimento della funzione pubblica finalizzato a riaprire finalmente i processi assunzionali negli enti locali, congelati da lunghissimo tempo a causa dell'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014. Le regioni «fortunate» sono Emilia Romagna, Marche, Lazio e Veneto, nelle quali per le amministrazioni si ripristina la possibilità di assumere, ovviamente nel rispetto degli altri vincoli non connessi alla legge Delrio.
Era il gennaio del 2015 quando venne approvata la circolare interministeriale di ministero delle riforme e ministero degli affari regionali 1/2015, che aveva immaginato un iter ben diverso e molto più celere. Secondo la circolare, già a marzo 2015 avrebbe dovuto vedere la luce il decreto ministeriale necessario a fissare i criteri della mobilità dei dipendenti in sovrannumero. Le cose sono andate ben diversamente.
Il blocco delle assunzioni si è trascinato molto più a lungo e ancora vale per la grande maggioranza del territorio nazionale (è noto che nelle regioni del Sud le disponibilità segnalate dagli enti sono in numero inferiore alla quantità di dipendenti in soprannumero delle province): il decreto ministeriale è stato approvato solo nel settembre 2015 e vari malfunzionamenti della piattaforma mobilita.gov ha fatto slittare fino a gennaio 2016 il caricamento dei posti disponibili.
Di fatto, la gran parte dei 24 mesi disponibili ai sensi dell'articolo 1, commi 424 e 425, della legge 190/2014 per ricollocare i dipendenti provinciali in soprannumero, al netto dei collocamenti in pensione anticipati, è andata in fumo, senza ottenere il risultato.
Si tenga presente che la Funzione pubblica dà atto che nelle 4 regioni ove si sbloccano le assunzioni, ciò avviene perché il personale provinciale è stato interamente ricollocato o è ancora da ricollocare in numero esiguo: di fatto, dunque, si ammette che in realtà l'intento molte volte sottolineato dal governo, cioè non lasciare a casa nessun dipendente provinciale promovendone anche la mobilità per rafforzare le dotazioni di amministrazioni carenti, risulta tutt'altro che rispettato.
Al luglio del 2016, a pochi mesi, quindi, dalla scadenza dell'01.01.2017, quando i dipendenti in soprannumero saranno destinati alla disponibilità, cioè 24 mesi a stipendio ridotto fino a circa il 70% e col rapporto di lavoro sospeso in vista della risoluzione del lavoro, sono ancora 16 le regioni che attendono lo sblocco e nelle stesse 4 nelle quali le assunzioni sono finalmente «libere» resta una coda. Sicché gli enti che hanno dichiarato disponibilità di posti nella piattaforma mobilita.gov, non potranno coprirli con nuovi concorsi, ma mediante il sistema di mobilità riservato ai dipendenti provinciali.
Ovviamente, lo sblocco delle assunzioni consentirà di acquisire il personale a tempo indeterminato nel rispetto dei vincoli finanziari vigenti: per il 2016, le assunzioni sono ammesse entro il 25% della spesa corrispondente al personale non avente qualifica dirigenziale cessato l'anno precedente, a meno che l'ente non risulti particolarmente virtuoso perché con un'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente inferiore al 25% e, quindi, solo per il 2016, autorizzato ad assumere entro il 100% della spesa dovuta a cessazioni.
Le assunzioni a tempo determinato debbono rispettare i limiti imposti dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010: non superare, cioè, la spesa affrontata nel 2009. Il provvedimento della Funzione pubblica ha, inoltre, sbloccato le assunzioni limitatamente alla polizia locale nelle regioni Molise e Puglia (articolo ItaliaOggi del 21.07.2016).

PATRIMONIOAmbulanti, né proroghe né incentivi.
Il governo non può e non vuole concedere alcuna proroga agli ambulanti delle concessioni su aree pubbliche, in scadenza tra un anno. Né può manifestare la propria disponibilità alla revisione tout court della disciplina in materia, per disapplicare la direttiva Bolkestein. E questo per due motivi:
1) perché vuole evitare l'apertura di una procedura di infrazione, a cura dell'Unione europea, per violazione dei principi contenuti nella direttiva Bolkestein;
2) perché ciò sarebbe non coerente con il generale indirizzo del governo e del parlamento, ribadito nei molteplici interventi normativi di liberalizzazione e di semplificazione, volto ad eliminare le forme di tutela corporativa degli operatori esistenti a favore della libertà d'impresa e dei principi della concorrenza.

Il risultato dell'interrogazione posta ieri dal deputato Pd, Lorenzo Becattini, in commissione attività della camera, non è stato, quindi, quello sperato. E la risposta in via immediata resa dal sottosegretario allo sviluppo economico, Ivan Scalfarotto, non lascia scampo.
Certamente non ha aiutato, nel senso auspicato dal parlamentare, la sentenza del 14 luglio scorso della Corte di giustizia Ue, che ha ritenuto non compatibile con il diritto comunitario le proroghe automatiche fino al 2020 delle concessioni in essere di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali per attività turistico ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati.
Del resto la questione non è nuova, ha precisato il Mise. Sin dal dlgs 59/2010 di recepimento della direttiva 2006/123/Ce, ci sono state analoghe richieste presentate sia da parte delle associazioni di categoria interessate, sia di origine parlamentare nelle quali, come nel caso posto, si sosteneva la possibilità di non applicare al commercio su area pubblica, l'art. 12 della citata direttiva (e correlato art. 16 del dlgs 59/2010); con la conseguente possibilità di proroga automatica dei titoli in essere.
Tuttavia, ha sottolineato Scalfarotto, la stessa Commissione europea, in risposta a specifici quesiti posti da alcuni stati, si era espressa chiaramente in senso opposto (cfr. per tutte la risposta all'interrogazione scritta 3434/2010). Fermo restando, quindi, che la direttiva non consente di escludere il suolo pubblico dall'applicazione dei principi comunitari, il legislatore nazionale consapevole delle specificità del comparto ha previsto una proroga automatica ed una fase transitoria con decorrenza dal 7 maggio del prossimo anno.
C'è stata, pertanto, da parte della Conferenza unificata tra stato, regioni ed enti locali, la volontà di coniugare i principi dell'ordinamento europeo con la necessità di modulare le nuove regole sulla base di una tempistica che consentisse di non determinare conseguenze immediate e dannose sul comparto; e individuando anche criteri in grado di valorizzare l'esperienza degli operatori, riconoscendo un valore significativo all'anzianità di esercizio dei medesimi.
Ma ulteriori proroghe sono impensabili anche se a proporle sono le regioni. Soprattutto in considerazione del fatto che nella materia della tutela della concorrenza quest'ultime non hanno alcuna competenza (articolo ItaliaOggi del 21.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIADa domani telefonini e tablet usati ritirati gratis dai grandi negozi.
Via libera al ritiro uno contro zero dei tecnorifiuti di piccolissime dimensioni (tipo cellulari e tablet) presso i punti vendita con superficie superiore a 400 mq.

Da domani, 22 luglio, entra in vigore il decreto n. 121/2016, in G.U. n. 157 del 7 luglio, che obbliga i «maxi» distributori di apparecchiature elettriche ed elettroniche a istituire un sistema di informazione e ritiro gratuito dei prodotti giunti a fine vita e a predisporre un sistema di deposito e trasporto dei miniRaee nel rispetto delle formalità per la corretta gestione dei rifiuti.
Il decreto chiama in causa, attraverso l'adesione volontaria, anche i distributori con punti vendita al dettaglio di superficie inferiore ai 400 mq e i distributori a distanza (e-commerce). La possibilità, per il cittadino, di consegnare il proprio «rifiuto» al rivenditore senza necessità di acquistare un prodotto equivalente riguarda i Raee provenienti da nuclei domestici, di dimensioni inferiori ai 25 cm, e coinvolge anche i «Raee dual use», quelli di origine commerciale o di altro tipo, analoghi per natura e quantità ai domestici (si veda ItaliaOggi Sette del 18 luglio).
Le novità in sintesi. Nei punti vendita dovranno essere affisse le informazioni sulla gratuità del servizio di ritiro. Il ritiro dovrà essere effettuato all'interno dei locali del punto vendita o in luoghi in prossimità, tramite contenitori ad hoc, che dovranno essere periodicamente svuotati. Successivamente i miniRaee verranno raggruppati in un luogo di deposito preliminare per i successivi raccolta e trasporto. In questa fase sono previsti alcuni oneri documentali (compilazione modulistica all'atto di svuotamento, sottoscrizione ecc.).
Per il deposito preliminare le aziende potranno avvalersi dei luoghi per il ritiro «uno contro uno». I tecnorifiuti dovranno essere trasportati, dai distributori o da terzi che agiscano in loro nome, in centri di raccolta, centri accreditati di preparazione per il riutilizzo o impianti autorizzati, previa iscrizione all'Albo gestori ambientali e nel rispetto dei previsti oneri documentali.
Le imprese. «Siamo convinti che l'1 contro 0 possa rappresentare una svolta», ha dichiarato Danilo Bonato, d.g. di Remedia, «e contribuire in modo significativo all'incremento delle quantità di Raee gestiti in Italia». «Siamo pronti a fare la nostra parte», sottolinea Davide Rossi, d.g. Aires Confcommercio, «e a sottoporre al ministro Galletti un vademecum che possa fugare ogni dubbio o interpretazione errata delle norme da parte dei retailer» (articolo ItaliaOggi del 21.07.2016).

SICUREZZA LAVOROAi professionisti la certificazione della sicurezza.
Il ddl Sacconi. Il presidente della Commissione Lavoro del Senato presenta una semplificazione del Testo unico del 2008.

Superare il Testo unico di salute e sicurezza sul lavoro, che «si caratterizza per un’eccessiva complessità legislativa e attuativa» -il Dlgs 81 del 2008 si compone di 306 articoli e 51 allegati- per passare «attraverso la semplificazione, da un approccio formalistico a uno pratico e sostanziale».
Questo è l’obiettivo del Ddl
(Atto Senato n. 2489) depositato ieri in commissione Lavoro al Senato dal presidente Maurizio Sacconi (Ap), con la firma di Serenella Fucksia (Gruppo misto), che si compone di 22 articoli e 5 allegati.
«Il presupposto dell’attuale disciplina sono la produzione industriale seriale meccanizzata e le mansioni lavorative standardizzate -sottolinea Sacconi- per questo si prevede un’applicazione omologa a tutti i luoghi produttivi, a prescindere dalle dimensioni e dai dati infortunistici di riferimento. È ora di voltare pagina, il contesto è cambiato, l’economia globale è sottoposta a cambiamenti veloci e imprevedibili indotti dalle nuove tecnologie digitali».
Il Ddl prevede l’attività di supporto garantita dai medici del lavoro o da altri professionisti esperti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che sotto la propria responsabilità, potranno certificare la correttezza delle misure di prevenzione e protezione in azienda. La platea è composta da professionisti con un ordine di riferimento o esperti che svolgono professioni relative alla salute e sicurezza, iscritti a un elenco presso il ministero del Lavoro (previa verifica del possesso di determinati requisiti professionali e di esperienza).
L’affidamento al soggetto terzo della certificazione, spiega la relazione al Ddl, «permetterà una notevolissima riduzione della documentazione necessaria per dimostrare l’adempimento agli obblighi di legge da parte del datore di lavoro».
Quanto al datore di lavoro, il Ddl prevede che non possa ritenersi responsabile se ha ottemperato ai propri obblighi ma l’evento è risultato dovuto a «circostanze a lui estranee, eccezionali e imprevedibili, o a eventi eccezionali, le cui conseguenze non sarebbero state comunque inevitabili, nonostante il datore di lavoro si sia comportato in modo diligente». Si prevede che in materia di salute e sicurezza la colpa va ritenuta «colpa di organizzazione», con la conseguenza che essa viene meno ove l’imprenditore dimostri di aver provveduto a organizzare l’azienda in modo corretto rispetto alle esigenze di tutela dei propri lavoratori.
Corollario di tutto ciò è che il datore di lavoro che dimostri il proprio diligente comportamento -con l’adozione e l’efficace attuazione della normativa- «non può rispondere penalmente in caso di infortunio che sia derivato da grave negligenza del dirigente, del preposto o del lavoratore». Gli organi di vigilanza e la magistratura potranno intervenire nei casi in cui la certificazione venga resa in modo fraudolento, con grave colpa professionale o per mezzo di false dichiarazioni.
Per evitare problemi nel passaggio tra i due diversi “modelli” di gestione della salute e sicurezza, si prevede un periodo transitorio triennale nel quale al datore di lavoro è consentito anche di dimostrare di avere, in tutto o in parte, adempiuto ai propri obblighi del Dlgs 81/2008. Si incentiva, anche economicamente, l’adozione e l’efficace attuazione delle misure di prevenzione e protezione in azienda, lasciando al ministero del Lavoro e all’Inail l’individuazione delle modalità per permettere alle aziende virtuose di avere un «sensibile» sgravio sui premi da pagare.
Quanto al recepimento di direttive comunitarie in materia di salute sul lavoro, esso dovrà avvenire nel rispetto dei soli livelli inderogabili di tutela previsti dalle stesse direttive, e con un decreto ministeriale saranno individuati i livelli di regolazione da eliminare. Le sanzioni saranno razionalizzate.
Infine nell’attività di vigilanza gli ispettori potranno impartire disposizioni esecutive -contro cui è possibile fare ricorso-, in caso di inosservanza è previsto l’arresto fino a 12 mesi o fino a 10mila euro di multa per ciascuna disposizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, dlgs corretto (diritti esclusivi no).
Nuovo codice appalti rettificato con 173 correzioni formali ed errori di punteggiatura; limata di un euro le soglie per affidamenti di servizi di ingegneria e architettura; soppressa la norma che consentiva alle amministrazioni di imporre condizioni per la riservatezza delle informazioni fornite nell'appalto.

Sono questi alcuni degli elementi contenuti nelle correzioni formali al decreto 50/2016 (il nuovo codice dei contratti pubblici entrato in vigore il 19.04.2016) previste nell'avviso di rettifica di cui al Comunicato relativo al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante: «Attuazione delle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture».
L'avviso di rettifica, in G.U. n. 164 del 15.07.2016, contiene 173 correzioni di errori formali e di punteggiatura. Fra queste va segnalata l'eliminazione della parola «pari» dagli articoli 31, comma 8 e 157, comma 2, che disciplinano gli affidamenti di incarichi di servizi tecnici di importo fino a 40.000 e fino a 100.000 euro. Sopravvivendo quindi la parola «inferiore a», il risultato è che l'affidamento diretto sarà possibile fino a 39.999 euro e la procedura al di sotto dei 100.000 euro, con scelta fra cinque operatori economici sarà ammessa fino a 99.999 euro.
Da rilevare anche la soppressione del comma 7 dell'articolo 53 che testualmente recitava: «Le stazioni appaltanti possono imporre agli operatori economici condizioni intese a proteggere il carattere di riservatezza delle informazioni che le amministrazioni aggiudicatrici rendono disponibili durante tutta la procedura di appalto».
È invece rimasta la poco chiara frase di cui all'articolo 18, comma 1, lettera b) «Ai fini della presente lettera il concetto di diritto esclusivo non include i diritti esclusivi», alla quale risulta arduo dare un senso compiuto (articolo ItaliaOggi del 20.07.2016).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti a contratto senza limiti. Manager fiduciari fuori dai paletti sul personale flessibile. In commissione alla camera via libera al decreto enti locali. Probabile la fiducia.
La commissione bilancio della camera ha approvato un emendamento al disegno di legge di conversione del dl 113/2016 (decreto enti locali), che modifica l'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010, aggiungendovi la specificazione che «sono in ogni caso escluse dalle limitazioni previste dal presente comma le spese sostenute per le assunzioni a tempo determinato ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del decreto legislativo 13.08.2000, n. 267».
La disposizione è stata reclamata a gran voce dagli enti locali, che, forti di interpretazioni più che discutibili della Corte dei conti, avevano assunto dirigenti e responsabili di servizio per via fiduciaria, utilizzando a piene mani appunto l'articolo 110 del Tuel.
È bene ricordare che il quantitativo di dirigenti a contratto (che spessissimo sono funzionari «promossi» a dirigenti senza concorso, esattamente come avvenuto nelle Agenzie) è molto vicino al 30% della dotazione: per questa ragione il dl 90/2014 modificò il testo dell'articolo, elevando al 30% la quota di dirigenti «a cooptazione», mentre nelle altre amministrazioni il limite è del 10%.
Con la modifica che il parlamento si accinge ad approvare si dà un'altra spinta ai comuni a persistere nella strada dell'assunzione di dirigenti «di fiducia», escludendoli dal computo dei limiti alla spesa del personale flessibile. Limiti, invece, che restano in piedi per la provvista del personale da adibire alla concreta gestione dei servizi frontali.
Una scelta che dimostra in maniera chiara l'intreccio evidente tra dirigenti «a contratto», selezionati con procedure che rimettono all'arbitrio dei sindaci la selezione finale del soggetto più vicino politicamente e, appunto, la politica, segnando un punto di rottura nel difficile equilibrio tra dovere della dirigenza di attuare l'indirizzo politico-amministrativo e la terzietà che i dirigenti dovrebbero avere rispetto alla politica, non solo per rispettare l'articolo 98 della Costituzione, ma anche per il semplice rispetto delle cautele delle regole contro il conflitto di interessi discendenti dalla normativa anticorruzione (articolo ItaliaOggi del 20.07.2016).

PATRIMONIOI sindaci rischiano sulle buche. Il nuovo codice della strada non ammette alcuna eccezione. Se gli incidenti capitano per questo motivo, per loro possono scattare le porte del carcere.
La rivolta dei sindaci. Colpiti dagli avvisi di garanzia firmati a profusione dai Pm per sviste burocratiche (le mazzette e i favoritismi sono tutt'altra cosa) ora rischiano di venire travolti dalle buche nelle strade. La legge da poco approvata dal parlamento sul reato di omicidio stradale prevede il carcere per il sindaco se l'incidente è provocato o favorito da un difetto della strada.
I primi cittadini, esasperati per questa nuova tegola sulle loro teste, chiedono che la legge appena entrata in vigore venga subito cambiata e la mobilitazione è assolutamente bipartisan perché c'è davvero il rischio che si aprano le celle. Perciò hanno sollevato anche una intricata questione giuridico-politica: segnaleranno ai presidenti delle Regioni e ai ministri le opere da realizzare chiedendo il relativo finanziamento.
Se i soldi non arriveranno i sindaci scaricheranno le responsabilità su chi non ha accolto le loro richieste. Non sarà facile, perché la legge prevede espressamente la responsabilità dei sindaci ma essi sostengono che la chiamata di correo è una legittima difesa e soprattutto un modo per fare pressione affinché il parlamento intervenga.
Dice il sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani (Pd): «Chiedere ai sindaci di fare gratis i presidenti delle nuove Province, non dare loro i soldi per i bilanci e poi affibbiare loro reati da 18 anni di reclusione, significa cadere nel ridicolo o nel drammatico. Vorrà dire che faremo una chiamata di correo nei confronti del ministro Pier Carlo Padoan. Prima di parlare di responsabilità bisognerebbe almeno mettere totalmente fuori dal patto di stabilità la manutenzione delle strade. A Ferrara si spenderanno quest'anno 900mila euro di manutenzione ma non riusciremo mai a riasfaltare tutti i nostri 800 chilometri».
La protesta accomuna grandi e piccole città. Aggiunge Riccardo Szumski, sindaco di Santa Lucia di Piave (Treviso): «Il reato di omicidio stradale è giusto concettualmente ma si rischiano pene maggiori di un omicidio normale e si mettono in concorrenza di responsabilità gli amministratori comunali, penalmente responsabili di persona e non come ente».
L'introduzione del reato di omicidio stradale era stato salutato con unanime soddisfazione e con i proclami delle associazioni dei consumatori. Ma era sfuggita ai più quella parte della norma che manda in prigione i sindaci. A farli uscire dal torpore è stata una circolare del ministero dell'Interno che ha specificato come «non solo chi causa l'incidente mortale alla guida di un veicolo ma anche chi non abbia garantito la sicurezza delle strade potrà essere accusato di omicidio stradale».
Sindaci, assessori, manager e tecnici delle aziende incaricate sono avvisati, con l'aggravante che essendo l'omicidio un reato ascrivibile solo alle persone e non agli enti genericamente preposti sono loro che personalmente saranno chiamati sul banco degli imputati. Il reato, prosegue la circolare: «ricorre in tutti i casi di omicidio che si sono consumati sulle strade ( ) anche se il responsabile non è un conducente di veicolo e questo perché le norme del Codice della strada disciplinano anche i comportamenti posti a tutela della sicurezza stradale relativi alla manutenzione e costruzione delle strade».
Le associazioni dei consumatori ritengono sia giusto che a pagare siano anche gli amministratori locali e quindi sono favorevoli alla norma e non condividono la rivolta dei sindaci. Dice Fabio Galli, presidente del Codacons: «Era ora che venissero riconosciute le responsabilità degli enti locali in tutti quei casi in cui il pessimo stato dell'asfalto determina incidenti e provoca morti, d'ora in poi se un automobilista o un motociclista muore a seguito di un incidente provocato da una buca sull'asfalto, il gestore risponderà personalmente del reato e la regola vale per sindaci, amministratori e per gli stessi ingegneri responsabili dei lavori che rischiano di finire in carcere se non garantiranno un adeguato livello di sicurezza».
Dalla Puglia gli rispondono due sindaci foggiani, Gianfilippo Mignogna (Biccari) e Guerino De Luca (Castelnuovo della Daunia) che hanno firmato un documento: «Legge alla mano, per evitare incriminazioni penali tutti i soggetti investiti dall'obbligo di manutenere le strade dovrebbero intensificare lavori, interventi e riparazioni. Anche perché, nella dinamica processuale, nel gioco di legali e periti, in un attimo si potrebbe passare dalla responsabilità del conducente incauto, ubriaco o distratto a quella, quantomeno concorrente, del povero (in tutti i sensi) sindaco di turno. Ma è stato considerato che le Amministrazioni comunali non hanno un euro per colpa, principalmente dei tagli dei trasferimenti statali? Qualcuno ha ricordato ai legislatori seduti sulle loro comodissime poltrone rosse che le strade non si riparano senza soldi in bilancio?».
C'è anche chi minaccia di chiudere le strade, come il sindaco di Parabita (Lecce), Alfredo Cacciapaglia. In Emilia-Romagna è addirittura il partito di Matteo Renzi ad avere presentato una risoluzione in consiglio regionale in cui si chiede al presidente della giunta, il pidiessino Stefano Bonaccini di «agire, insieme al ministero dell'Interno, per ridefinire la responsabilità degli amministratori locali nei casi di omicidio stradale».
Infine anche l'Anci, su sollecitazione dei sindaci ha preso ufficialmente posizione. ve l'immaginate Beppe Sala oppure Luigi De Magistris o Virginia Raggi in manette perché un automobilista ha sbandato per una buca? (articolo ItaliaOggi del 19.07.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente assunzioni senza bilanci. Stanziati 110 milioni per pagare le penali dei mutui. DL ENTI/ Organici congelati per chi non approva preventivo, rendiconto e consolidato.
Niente assunzioni senza bilanci. E arriva un fondo per il pagamento delle penali per l'estinzione anticipata dei mutui dei comuni. Regioni, province, città metropolitane e municipi che non rispettano i termini previsti per l'approvazione del preventivo, del rendiconto e del bilancio consolidato, o che non inviano nei termini tali documenti alla Banca dati delle pubbliche amministrazioni, non potranno effettuare assunzioni a qualsiasi titolo e con qualsiasi tipologia contrattuale, compresi i rapporti di co.co.co. e di somministrazione. Anche i procedimenti di stabilizzazione in atto saranno congelati e non sarà possibile neppure stipulare contratti di servizio con privati per eludere la sanzione del blocco.

Lo prevede un emendamento del governo depositato ieri in commissione bilancio della camera dove sono proseguiti fino a tarda notte i lavori sul decreto enti locali (dl 113/2016) (Atto Senato n. 2495).
I deputati hanno dato il via libera alla costituzione di un fondo per il pagamento delle penali per l'estinzione anticipata dei mutui degli enti locali (si veda ItaliaOggi del 16/7). Il Fondo avrà una dotazione di 14 mln per quest'anno e di 48 milioni per ciascuno degli anni 2017 e 2018.
Disco verde anche all'emendamento ponte sulle concessioni balneari, a rischio dopo la bacchettata della Corte di giustizia Ue che ha stigmatizzato l'assenza di gare per la selezione dei candidati. L'emendamento presentato dal relatore al decreto legge, Antonio Misiani (Pd) prevede che le autorizzazioni per lo svolgimento di attività turistico-ricettive sulle coste, assegnate fino al 31.12.2020, restino in vigore fino al riordino della materia da parte del governo. Riordino che dovrebbe essere portato sotto forma di ddl delega in uno dei prossimi consigli dei ministri.
«E' il primo passo verso la revisione organica della disciplina, che terrà conto della professionalità, dell'esperienza e dei sacrifici di chi da anni si dedica ad attività di impresa nell'ambito del turismo balneare», ha commentato il ministro per gli affari regionali, Enrico Costa.
Province. Con un ulteriore emendamento del governo vengono ripartiti gli importi dei sacrifici che province e città metropolitane devono garantire per concorrere agli obiettivi di finanza pubblica. Il totale resta invariato (2 miliardi per il 2016), ma viene così suddiviso: 1,295 miliardi a carico delle province, 504 milioni a carico delle città metropolitane e 200 milioni a carico delle province di Sicilia e Sardegna.
Come precisato nella relazione illustrativa, il riparto è stato effettuato secondo una metodologia che tiene conto della divergenza tra spesa storica e spesa standard per le funzioni fondamentali, nonché dei principi sanciti dalla Corte costituzionale che con la sentenza n. 65/2016 ha sottolineato la necessità che i tagli siano «sostenibili» e che le risorse assegnate alle province non scendano al di sotto di una certa soglia oltre la quale «la spesa non sarebbe ulteriormente comprimibile».
Ripartito anche l'ammontare complessivo dei 495 milioni destinati dalla legge di stabilità 2016 (legge n. 208/2015) al finanziamento delle spese per viabilità e edilizia scolastica. Alle province andranno 245 milioni di euro, mentre alle città metropolitane 250 milioni. Ripartito anche il fondo di 39,6 milioni finalizzato al mantenimento della situazione finanziaria corrente per il 2016.
Rateazioni fiscali. Come anticipato su ItaliaOggi del 16/7 l'emendamento di Antonio Castricone e Rocco Palese sulle rateazioni fiscali rischia di essere spacchettato. La prima parte, sulla riapertura delle rateazioni con Equitalia, non incontrando ostacoli né nel concessionario unico della riscossione né nel governo, si avvia verso una sicura approvazione.
Discorso diverso per la seconda parte che riguarda la possibilità di rateizzare fino a 72 rate (più ulteriori 72) i pagamenti delle «ingiunzioni fiscali». Sul punto ci sarà da superare le resistenze dell'Agenzia delle entrate e del Mef per il momento orientati a esprimere parere negativo su questo aspetto dell'emendamento.
Aiuti alle imprese cerealicole. Un emendamento del governo aiuta le imprese cerealicole in crisi, colpite da un crollo dei prezzi del grano e dei cereali in genere (quotazioni mai così giù dal 2010, pari alla metà di quelle di fine 2014, con 300 mila imprese a rischio chiusura). Le imprese che producono frumento e affini, destinati ad alimentare capi di bestiame, il cui latte è utilizzato per la produzione lattiero casearia, avranno a disposizione un fondo ad hoc.
Il nuovo strumento è dichiaratamente orientato a reintrodurre i cereali nei mangimi, col fine di aumentare la qualità dei latticini. Il budget ammonta a 3 mln di euro per il 2016 e 7 mln per il 2017. Gli interventi finanziati dovranno sottostare al regime de minimis; cioè al massimo saranno erogati 200 mila euro a impresa agricola nel triennio (articolo ItaliaOggi del 19.07.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATANiente contatori di calore? Multa. Dal 2017 il condomino non in regola paga fino a 2.500 euro. La stretta in un dlgs varato dal Consiglio dei ministri. Niente obbligo se non c'è beneficio.
Entro il 31.12.2016 in ogni condominio si dovrà verificare se sussista l'obbligo di introdurre sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore e, in caso positivo, di modificare in tal senso gli impianti di riscaldamento esistenti. Pena l'applicazione, per chi non rispetta l'obbligo di installare i contabilizzatori, di multe, che andranno da 500 fino a 2.500 euro a condomino. Salvo che non dimostrino l'impossibilità tecnica d'installazione degli stessi o la loro inefficacia economica attestata da una relazione tecnica a cura di un progettista o di un tecnico abilitato.

Queste le più importanti novità contenute nel dlgs correttivo del dlgs n. 102/204 di recepimento della direttiva 2012/27/Ue sull'efficienza energetica, approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri del 14 luglio scorso.
Nei condomini allacciati ad una rete di teleriscaldamento o in cui l'impianto di riscaldamento è centralizzato è necessario installare, entro il 31.12.2016, dei contatori di calore sui termosifoni che ripartiscano le spese in base al reale consumo della singola utenza. La norma prescrive che l'importo complessivo deve essere suddiviso tra gli utenti finali, in base alla norma tecnica Uni 10200.
Alla prescrizione sulla suddivisione delle spese, è però possibile derogare, se si provano, tramite apposita relazione tecnica asseverata, differenze di fabbisogno termico tra le unità immobiliari del condominio superiori al 50%. In questo caso, sarà possibile dividere l'importo complessivo tra gli utenti finali attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari di energia termica e suddividendo gli importi rimanenti secondo altri metodi (millesimi, metri quadri, metri cubi o altro).
L'obbligo di installazione dei contabilizzatori di calore non si applica quando l'installazione dello stessi non è tecnicamente possibile, non è efficiente in termini di costi o non è proporzionata rispetto ai risparmi energetici potenziali. Tale impossibilità o inefficienza dovrà, però, essere dimostrata attraverso una relazione tecnica a cura di un progettista o di un tecnico abilitato.
Proprietario immobile. Il proprietario di un'unità immobiliare, che non provvede a installare sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuale, per misurare il consumo di calore in corrispondenza di ciascun corpo scaldante posto all'interno dell'unità immobiliare, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria che va da 500 euro a 2.500 euro per ciascuna unità immobiliare.
Tali sanzioni pecuniarie non si applicano nel caso in cui un tecnico abilitato o un progettista attestino che l'installazione di questi sistemi non è efficiente in termini di costi (articolo ItaliaOggi del 19.07.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Finalità e portata del principio di rotazione delle imprese nelle procedure negoziate.
Si tratta di stabilire se l’applicazione del principio di rotazione escluda, come ritenuto dalla stazione appaltante, la possibilità di invitare alla procedura anche il gestore uscente in una situazione in cui quest’ultimo ha gestito ininterrottamente il servizio per sei anni sulla base di successivi affidamenti.
La giurisprudenza, condivisa dal Tribunale, precisa che, nel contesto dell’art. 125 del d.l.vo 2006 n. 163, il principio della rotazione, “imposto con riferimento alla procedura di cottimo fiduciario, appare concepito dal legislatore come una contropartita o un bilanciamento” del carattere tendenzialmente “sommario” in cui consiste questa particolare “procedura negoziata”.
La marcata discrezionalità che connota questo tipo di procedura è temperata da alcuni princìpi, “quali la trasparenza (che implica il dovere di una previa formulazione e comunicazione dei criteri della scelta, etc.) e, appunto, la rotazione (per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo)”. In tale contesto, il principio della rotazione va inteso “come esclusione dall’invito di un operatore già interessato ad un rapporto contrattuale con la stessa azienda”.
Insomma, la rotazione per essere effettiva comporta, quanto meno, l’esclusione dall’invito di coloro che siano risultati aggiudicatari di precedenti procedure dirette all’assegnazione di un appalto avente lo stesso oggetto di quello da aggiudicare, così da escludere la possibilità di reiterati affidamenti al medesimo operatore, con frustrazione del principio di tutela della concorrenza..
Vero è che una parte della giurisprudenza sostiene che il principio di rotazione, in determinate circostanze tali da escludere in concreto la possibilità di un’alterazione della concorrenza, può essere applicato in maniera elastica, nel senso che “un’episodica mancata applicazione del criterio non vale ex se ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia conclusa con l'aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza invitato a simili selezioni, tanto più quando sia comprovato, come nel caso di specie, che la gara sia stata effettivamente competitiva e si sia conclusa con l'individuazione dell'offerta più vantaggiosa per la stazione appaltante", tuttavia nel caso di specie non sussistono queste peculiari condizioni.

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... per l’annullamento
1) quanto al ricorso principale:
- del provvedimento prot. n. 5289 del 10.07.2015 con cui l’amministrazione ha negato a Si. la partecipazione alla procedura negoziata per l'affidamento dell'appalto relativo al servizio di preparazione pasti e "servizi ausiliari" presso l'asilo nido per gli anni 2015/2016 e 2016/2017 (CIG 630 I 089FIF);
- di tutti gli atti antecedenti e conseguenti comunque connessi o presupposti, tra cui il provvedimento prot. n. 5572/2015 del 21/07/2015, la lettera di invito, la determinazione a contrarre n. 12/2015, il verbale della gara negoziata del 14/07/2015, l'aggiudicazione provvisoria approvata con determina dirigenziale n. 18 del 22/07/2015, l'aggiudicazione definitiva;
- nonché per la dichiarazione di inefficacia del contratto;
- nonché per la condanna della stazione appaltante al risarcimento del danno;
...
3) Deve essere esaminata per prima, in ragione della sua priorità logica e giuridica, la censura –formulata con il ricorso principale e ribadita nei ricorsi per motivi aggiunti– con la quale Si. lamenta l’erronea applicazione del principio di rotazione, evidenziando come, a seguito della presentazione della richiesta di essere invitata a partecipare alla gara, la stazione appaltante avrebbe dovuto invitarla e consentirle di partecipare, nonostante fosse il gestore uscente.
La precedenza logica e giuridica della doglianza deriva dal fatto che, solo in caso di sua fondatezza, è configurabile l’interesse di Si. a contestare gli atti successivi della procedura e a formulare ulteriori censure relative alle concrete modalità di svolgimento della gara -modalità successive alla fase della trasmissione delle lettere di invito e di ammissione delle offerte- mentre, qualora la contestazione risulti infondata, Si. non sarebbe titolare di un interesse concreto ed attuale a contestare le modalità di conduzione della gara, trattandosi di una procedura cui non avrebbe comunque potuto partecipare.
La censura proposta non può essere condivisa.
Sul piano fattuale va evidenziato che, dalla documentazione prodotta in giudizio e senza alcuna contestazione, emerge che la ricorrente ha gestito ininterrottamente il servizio di cui si tratta in ciascuno degli anni scolastici compresi tra il 2009 e il 2015, sulla base di successive procedure di cottimo fiduciario, via via indette dal comune resistente.
Sul piano giuridico va, invece, ribadito, come già precisato in sede cautelare, che l’appalto di cui si tratta, oltre ad essere di valore inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria, rientra tra quelli compresi nell’allegato IIb del codice degli appalti, sicché ad esso sono riferibili, ai sensi dell’art. 20 del d.l.vo 2006 n. 163, i principi relativi alla disciplina degli appalti pubblici, oltre che le disposizione degli artt. 65, 68 e 225 del d.l.vo 2006 n. 163.
La stazione appaltante, in esercizio del potere discrezionale di cui dispone nella scelta del tipo di gara da effettuare e tenuto conto del valore dell’appalto, ha deciso di procedere mediante cottimo fiduciario, secondo i principi dell’art. 125 del d.l.vo n. 163/2006.
Tale disposizione prevede testualmente che l’aggiudicazione mediante “cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante…”.
L’amministrazione ha rispettato la previsione normativa nella parte in cui stabilisce i principi che governano la procedura del cottimo fiduciario -peraltro reiteratamente applicata anche negli anni precedenti con aggiudicazione alla ricorrente del servizio di cui si tratta– atteso che la gara rientra nei limiti di valore previsti, sono stati invitati a partecipare almeno cinque operatori del settore ed è stata prevista l’applicazione dei principi suindicati, tra i quali quello della rotazione.
Si tratta, allora, di stabilire se l’applicazione del principio di rotazione escluda, come ritenuto dalla stazione appaltante, la possibilità di invitare alla procedura anche il gestore uscente in una situazione in cui quest’ultimo ha gestito ininterrottamente il servizio per sei anni sulla base di successivi affidamenti.
La giurisprudenza, condivisa dal Tribunale, precisa che, nel contesto dell’art. 125 del d.l.vo 2006 n. 163, il principio della rotazione, “imposto con riferimento alla procedura di cottimo fiduciario, appare concepito dal legislatore come una contropartita o un bilanciamento” del carattere tendenzialmente “sommario” in cui consiste questa particolare “procedura negoziata”. La marcata discrezionalità che connota questo tipo di procedura è temperata da alcuni princìpi, “quali la trasparenza (che implica il dovere di una previa formulazione e comunicazione dei criteri della scelta, etc.) e, appunto, la rotazione (per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo)”. In tale contesto, il principio della rotazione va inteso “come esclusione dall’invito di un operatore già interessato ad un rapporto contrattuale con la stessa azienda” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 12.09.2014, n. 4661; Consiglio di Stato, sez. V, 16.01.2015, n. 65; Consiglio di Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 760).
Insomma, la rotazione per essere effettiva comporta, quanto meno, l’esclusione dall’invito di coloro che siano risultati aggiudicatari di precedenti procedure dirette all’assegnazione di un appalto avente lo stesso oggetto di quello da aggiudicare, così da escludere la possibilità di reiterati affidamenti al medesimo operatore, con frustrazione del principio di tutela della concorrenza (in argomento TAR Lazio Roma, sez. III, 19.11.2012, n. 9506).
Vero è che una parte della giurisprudenza sostiene che il principio di rotazione, in determinate circostanze tali da escludere in concreto la possibilità di un’alterazione della concorrenza, può essere applicato in maniera elastica, nel senso che “un’episodica mancata applicazione del criterio non vale ex se ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia conclusa con l'aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza invitato a simili selezioni, tanto più quando sia comprovato, come nel caso di specie, che la gara sia stata effettivamente competitiva e si sia conclusa con l'individuazione dell'offerta più vantaggiosa per la stazione appaltante" (Consiglio di Stato, sez. VI, 28.12.2011, n. 6906), tuttavia nel caso di specie non sussistono queste peculiari condizioni.
E’ dirimente la circostanza che la ricorrente abbia gestito per sei anni scolastici consecutivi il servizio, ottenendo sei successivi affidamenti del medesimo appalto e sono proprio queste circostanze a dimostrare come, nel caso concreto, la salvaguardia del principio di concorrenza impone un’applicazione rigorosa del criterio della rotazione, applicazione cui si sono uniformate le determinazioni comunali impugnate.
In definitiva, la decisione –espressa con il provvedimento dell’amministrazione n. 5289 del 10.07.2015, oggetto del ricorso principale- di non invitare alla gara la ricorrente è la conseguenza di un’applicazione del principio di rotazione coerente con l’interpretazione giurisprudenziale suindicata e funzionale alla tutela dei principio generale della concorrenza, cui soggiace anche l’assegnazione del servizio de qua.
Va, pertanto, ribadita l’infondatezza della censura in esame (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.08.2016 n. 1594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl lavoratore deve verificare l’invio del certificato di malattia. Cassazione. Va chiesto il relativo codice al medico.
Rientra tra gli obblighi del dipendente, assente dal lavoro per malattia, non solo avvisare tempestivamente il datore di lavoro in merito alla propria assenza, ma anche verificare che la procedura telematica di trasmissione del certificato di malattia all’Inps da parte del medico curante sia avvenuta correttamente. In mancanza di questo adempimento, laddove sia emerso che l’Inps non ha ricevuto il certificato di malattia e che, quindi, il datore di lavoro non abbia potuto effettuare il relativo controllo, risulta pienamente legittimo il licenziamento disciplinare intimato per una prolungata assenza ingiustificata.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha espresso questo principio con la sentenza 22.07.2016 n. 15226, nella quale è stato precisato che il lavoratore è esonerato dall’obbligo di inviare il certificato di malattia in forma cartacea, in quanto questa incombenza è stata sostituita dalla trasmissione telematica all’Inps da parte del medico curante, ma non dall’obbligo di accertarsi che la procedura informatica abbia avuto esito regolare, eventualmente richiedendo il numero di protocollo telematico che identifica il certificato di malattia.
Mentre in passato era onere del lavoratore consegnare in azienda il certificato di malattia rilasciato dal medico curante entro il termine fissato dal contratto collettivo applicato nell’impresa (per esempio 48 ore dall’insorgenza dello stato morboso), oggi la trasmissione avviene direttamente da parte del medico mediante invio telematico all’Inps. La difesa del dipendente ha valorizzato questo mutato scenario per concludere che il dipendente era esente da censura rispetto alla mancata trasmissione dell’attestato medico di assenza per malattia.
La Corte d’appello di Cagliari non è stata dello stesso avviso, ritenendo legittimo il licenziamento per assenza ingiustificata oltre i quattro giorni lavorativi, sul duplice presupposto, da un lato, che il dipendente non ha avvisato l’azienda della sua assenza e, d’altro lato, che è preciso onere del lavoratore accertarsi che la trasmissione informatica all’Inps del certificato di malattia da parte del medico curante sia avvenuta regolarmente.
La gravità sul piano disciplinare dell’assenza ingiustificata è confermata dal fatto che il dipendente, dopo il periodo iniziale di assenza ingiustificata (30 agosto - 07.09.2012), in relazione al quale non è avvenuta la trasmissione telematica del certificato, ha giustificato la continuazione della malattia per un ulteriore periodo (fino al 30 settembre) sulla base di un certificato medico redatto il 14 settembre.
La Corte territoriale ha ritenuto privo di valore il certificato, in quanto attestante retroattivamente uno stato di malattia insorto svariati giorni prima della visita del medico curante. Si è ritenuta, in questo senso, l’irregolarità della certificazione retroattiva sull’assunto che il medico non può validamente certificare stati morbosi preesistenti che non siano stati accertati direttamente, bensì unicamente riferiti dal paziente.
La Corte di cassazione fa proprie le conclusioni maturate nel giudizio di merito e conferma, in particolare, che la richiesta al medico di emettere il certificato non esaurisce l’obbligo di diligenza cui è tenuto il lavoratore, in quanto il dipendente ha l’onere di controllare che il medico abbia effettivamente adottato la procedura informatica di trasmissione all’Inps, se del caso richiedendo il numero di protocollo telematico identificativo
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.07.2016).
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MASSIMA
2.4. E' infondato anche il quarto motivo.
La Corte ha osservato che la massima sanzione era legittimata dalle previsioni della contrattazione collettiva, che la ricollega all'assenza ingiustificata protratta oltre i 4 giorni consecutivi.
Nella valutazione complessiva della gravità dell'addebito in rapporto alla personalità della lavoratrice, operando il necessario giudizio di adeguatezza della sanzione, di competenza del giudice di merito, ha valutato poi le ulteriori circostanze contestuali e successive al fatto contestato, traendone conferma della gravità della mancanza.
2.5. Anche il quinto motivo è infondato.
La Corte ha valutato la deposizione della dott.ssa Ba., contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ma ha ritenuto che l'avere richiesto al medico il certificato non esaurisse l'obbligo di diligenza della lavoratrice, considerato che restano comunque fermi l'obbligo contrattualmente previsto del lavoratore di segnalare tempestivamente al datare di lavoro la propria assenza e l'onere di controllare l'effettivo azionamento da parte del medico della procedura di trasmissione telematica del certificato, anche eventualmente richiedendo il numero di protocollo telematica identificativo del certificato/attestato di malattia.
Il motivo patrocina pertanto una rivalutazione del merito della causa, sulla base delle stesse risultanze già valutate dalla Corte territoriale, non consentita in sede di legittimità, specie considerato che al presente giudizio si applica ratione temporis la formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. introdotta dall'art. 54 del D.L. 22.06.2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 07.08.2012, n. 134, che ha ridotto al "minimo costituzionale" il sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 2014.

ATTI AMMINISTRATIVIProcesso amministrativo, i termini sono perentori.
I termini previsti dall'art. 73 comma 1, cod. proc. amm. per il deposito in giudizio di documenti (fino a 40 giorni liberi prima dell'udienza) sono perentori e, in quanto tali, non possono essere superati neanche ove sussistesse accordo delle parti.

È quanto ribadito dai giudici della VI Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 18.07.2016 n. 3192.
I giudici di palazzo Spada hanno, altresì, osservato che il deposito tardivo di memorie e documenti è ammesso in via del tutto eccezionale nei soli casi di dimostrazione dell'estrema difficoltà di produrre l'atto nei termini di legge, siccome previsto dall'art. 54 comma 1, dello stesso cod. proc. amm..
Ed inoltre, si è preliminarmente evidenziato nella sentenza in commento come la disciplina della produzione documentale nel processo amministrativo risulti essere espressamente prevista dagli articoli 73, comma 1, e 54, comma 1, c.p.a.: «Le parti possono produrre documenti fino a 40 giorni liberi prima dell'udienza, memorie fino a 30 giorni liberi e presentare repliche, ai nuovi documenti e alle nuove memorie depositate in vista dell'udienza, fino a venti giorni liberi»; e «la presentazione tardiva di memorie o documenti può essere eccezionalmente autorizzata, su richiesta di parte, dal collegio, assicurando comunque il pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti, qualora la produzione nel termine di legge sia risultata estremamente difficile» (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).
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MASSIMA
3. Il Collegio ritiene che l’appello sia fondato e vada accolto con riferimento, in via decisiva e assorbente, al primo motivo di appello, con il quale è stata dedotta la lesione del diritto di difesa e la violazione del principio del contraddittorio, in relazione al disposto di cui all’art. 73, comma 1, del cod. proc. amm., con la conseguente riforma della sentenza impugnata e il rinvio della causa al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 105, comma 1, del cod. proc. amm. affinché il Tar si pronunci nuovamente sul ricorso garantendo il pieno rispetto del contraddittorio, previa riassunzione del processo con le modalità e nei termini stabiliti dal cod. proc. amm..
In via preliminare e in termini generali va rammentato che la disciplina della produzione documentale nel processo amministrativo è prevista dagli articoli 73, comma 1, e 54, comma 1, c.p.a.: “Le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell'udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e presentare repliche, ai nuovi documenti e alle nuove memorie depositate in vista dell'udienza, fino a venti giorni liberi”; e “la presentazione tardiva di memorie o documenti può essere eccezionalmente autorizzata, su richiesta di parte, dal collegio, assicurando comunque il pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti, qualora la produzione nel termine di legge sia risultata estremamente difficile”.
Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha puntualizzato che “
i termini previsti dall'art. 73, comma 1, cod. proc. amm. per il deposito in giudizio di documenti (fino a quaranta giorni liberi prima dell'udienza) sono perentori e, in quanto tali, non possono essere superati neanche ove sussistesse accordo delle parti, essendo il deposito tardivo di memorie e documenti ammesso in via del tutto eccezionale nei soli casi di dimostrazione dell'estrema difficoltà di produrre l'atto nei termini di legge, siccome previsto dall'art. 54 comma 1, dello stesso cod. proc. amm.” (Cons. Stato, sez IV, n. 916 del 2013); comunque, “nel caso di produzione fuori termine da parte dell'Amministrazione di documenti che, attenendo alla causa, possono essere acquisiti d'ufficio dal giudice, tali documenti possono essere trattenuti, ma fatta salva la facoltà dell'interessato di chiedere termini per controdedurre” (così Cons. Stato, sez. III, n. 6129 del 2012; inoltre, sul carattere perentorio del termine di 40 e di 30 giorni liberi prima dell’udienza, per produrre documenti e per depositare memorie v. anche Cons. Stato, III, n. 1335 del 2015).

EDILIZIA PRIVATA: Sul parere della Soprintendenza ex artt. 146 e 167 dlgs 42/2004.
L'evoluzione normativa, che ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
– (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato”.
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Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”.
Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo.
Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria.
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Ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Pertanto, deve essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.

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L’appello non è meritevole di favorevole considerazione alla luce della più recente giurisprudenza della Sezione, che è condivisa dal Collegio (cfr. Cons. Stato, VI, 15.03.2013, n. 1561; sez. VI, 28.10.2015, n. 4927).
In particolare, è stato affermato “che l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato”, osservando che “nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
– (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale– di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile
”.
Si è, pertanto, ritenuto che, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”, statuendosi, peraltro, che la decorrenza del termine non ne impedisca comunque tout court l’espressione, affermando che “un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato” (cfr. sent. n. 4927/2015, cit.).
A sostegno di tale conclusione, la Sezione ha espresso, tra l’altro, le seguenti considerazioni: “Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il Soprintendente abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il Soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”.
Sussiste, quindi, un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius, conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo. Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di atteggiamento inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria
”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che i richiamati principi, relativi alla possibilità per l’amministrazione statale di rendere il parere pur dopo il termine previsto dalla legge ma alla perdita del suo carattere di vincolatività, con conseguente obbligo per l’amministrazione preposta al rilascio del titolo di operarne una autonoma e motivata valutazione, valgano anche per l’analoga fattispecie del parere soprintendentizio reso in materia di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica.
Invero, anche in tale fattispecie (art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) la legge prevede una forma di cogestione del vincolo, caratterizzata dal rilascio dell’autorizzazione (postuma) da parte dell’amministrazione procedente, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro un termine perentorio.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, deve, pertanto, essere condivisa la pronuncia del giudice di primo grado, il quale ha ritenuto che “il punto di mediazione fra le esigenze di celerità dell’azione amministrativa, tutelate con la perentorietà del termine, e di valutazione degli specifici interessi da parte degli enti o organi specifici è costituito, quindi, dalla permanenza del potere del Soprintendente di fornire il proprio apporto anche oltre il termine perentorio e dal dovere dell’amministrazione di tenerne conto, senza tuttavia esserne vincolata….”.
Risultando il parere soprintendentizio emanato oltre il termine di 90 giorni previsto dall’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004, correttamente, dunque, il Tribunale amministrativo ha affermato che “l’amministrazione non poteva denegare l’autorizzazione limitandosi a richiamare il parere negativo della soprintendenza, ma doveva, eventualmente, motivare sulla condivisione di quanto espresso dalla soprintendenza, posto che il parere tardivo era da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
Ritiene, pertanto, la Sezione che sussista il rilevato difetto di motivazione del provvedimento impugnato sul quale il giudice di primo grado ha fondato la determinazione di accoglimento del ricorso, evidenziandosi che esso esprime semplicemente la doverosità del diniego a seguito del carattere vincolante del parere e non anche una autonoma valutazione dello stesso anche in termini di condivisione (l’atto di diniego n. 3/2014 del 04.04.2014 così recita: “Ritenuto di non provvedere al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, atteso che il parere della stessa Soprintendenza è vincolante per la definizione della proposta in questione”).
In conclusione, pertanto, l’appello proposto dal Ministero deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza appellata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.07.2016 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIAutovelox non tarato, le sanzioni in soffitta. Niente infrazioni se l'autovelox non è a norma.
La sospensione della patente e il pagamento della sanzione per eccesso di velocità sono annullati se i misuratori degli autovelox non vengono calibrati, come stabilito venerdì scorso dalla II Sez. civile della Corte di Cassazione con sentenza 15.07.2016 n. 14543, che ha accolto il ricorso di un automobilista romano per le presunte infrazioni commesse a Vigevano, nella provincia di Pavia.
La vicenda risale al 2012 quando il Tribunale della cittadina pavese respinse il ricorso dell'automobilista Gi.An., che riteneva malfunzionanti le apparecchiature di rilevamento della velocità ed eccessivo il chilometraggio orario rilevato.
Ma i giudici di piazza Cavour, come riferito da Studio Cataldi, hanno ritenuti illegittimi sia il verbale notificato che la sospensione della patente perché gli autovelox non sono stati periodicamente calibrati. Con questa decisione la Consulta ha ricordato la sentenza 113/2015, in cui dichiarava illegittimo l'articolo 45 del Codice della strada che prevede l'omologazione o il certificato di conformità per attestare il corretto funzionamento dell'autovelox, escludendo quindi la sua taratura periodica.
«Con il motivo in esame viene in sostanza riproposta», spiegano i giudici, «la nota questione della necessaria e obbligatoria taratura cui devono essere sottoposti tutti gli strumenti di misurazione e accertamento della velocità».
La mancata calibratura periodica degli autovelox, spiegano gli Ermellini, porterebbe ad un risultato paradossale in cui «una qualunque bilancia di un mercato rionale è soggetta a periodica verifica della taratura, nel mentre non lo è una complessa apparecchiatura, come quella per la verifica della velocità, che svolge un accertamento irrepetibile e fonte di gravi conseguenze per il cittadino proprietario e/o conducente di veicolo».
In conclusione i porporati hanno aggiunto che «deve ritenersi affermato il principio che tutte le apparecchiature di misurazione della velocità devono essere periodicamente tarate e verificate nel loro corretto funzionamento, che non può essere dimostrato o attestato con altri mezzi quali le certificazioni di omologazione e conformità» (articolo ItaliaOggi del 19.07.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Parcelle, non serve nota spese. Per dimostrare che il compenso è al di sotto dei minimi. AVVOCATI/ Per la Cassazione è sufficiente descrivere in modo succinto le prestazioni.
Nel caso in cui a un avvocato vengano liquidati compensi al di sotto dei minimi, per verificare tale violazione in appello non sarà necessario produrre la nota spese.

Lo hanno stabilito i giudici della VI-2 Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 13.07.2016 n. 14342.
Nel processo di appello del caso sottoposto all'attenzione dei giudici di piazza Cavour, il giudice si era espresso in questi termini: «la parte appellante non produce alcuna nota spese e non specifica le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in onore (...) tale difetto vale a giustificare la statuizione di inammissibilità dell'appello, in ragione della inidoneità delle censure a consentire, comunque, la rideterminazione dei compensi professionali».
Gli Ermellini hanno, quindi, osservato come dal punto di vista sostanziale l'avvocato che si era rivolto alla Cassazione si era doluto con l'appello dell'evidente inadeguatezza della liquidazione delle spese operata dal primo giudice, effettuata globalmente e palesemente al di sotto dei minimi tariffari applicabili.
Pertanto, a parere dei giudici della suprema corte, dall'evidenza di tali doglianze sarebbe stato possibile consentire all'appellante di «prospettare le censure in termini sintetici, senza ulteriormente dettagliare le attività svolte, avendo sufficientemente descritto nello svolgimento del processo (risultante comunque dagli atti), le attività che necessariamente erano state espletate per giungere alla pronuncia della sentenza di primo grado».
Inoltre, nel caso di specie, tutte le indicazioni necessarie per individuare il valore della causa erano state fornite dall'avvocato in sede di appello, ed era apparso chiaro come la selezione della tariffa professionale applicabile (e dei relativi importi quanto meno nella loro misura minima) fosse attuabile in modo del tutto agevole attraverso il tipo di controversia e le date di inizio e di fine del giudizio.
Né, secondo i giudici della Cassazione, era necessario depositare una nota spese, che avrebbe invece imposto al giudice di operare l'ulteriore analitico esame di tutte le voci esposte. Pertanto, gli Ermellini hanno concluso osservando che il giudice d'appello, a fronte di censure che in sintesi indicavano la liquidazione effettuata al di sotto dei minimi e in modo largamente insufficiente, avrebbe dovuto verificare se, applicando i minimi inderogabili alle attività necessariamente svolte per l'espletamento della causa, sussistesse o meno la violazione indicata.
Qualora la verifica avesse dato esito positivo (in pratica la violazione dei minimi inderogabili) e in assenza di notula lo stesso giudici di appello avrebbe poi dovuto procedere ad una liquidazione secondo tariffa e con riguardo alle attività effettivamente e necessariamente svolte con esclusione di tutte le altre non documentate (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).

APPALTIControllore-controllato, il rapporto va provato. Per escludere le imprese dalle gare.
La situazione di controllo di una impresa su di un'altra può integrare la presunzione di un unico centro decisionale e quindi legittimare l'esclusione dalla gara delle imprese che si trovino in tale rapporto, ma deve essere riconosciuta la possibilità di prova contraria.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 11.07.2016 n. 3057 che riprende la tematica del collegamento sostanziale al fine di definire i casi di imputazione ad un unico centro decisionale.
La sentenza richiama la decisione del 19.05.2009, in C-538/10, della Corte di giustizia europea che precisò che «la semplice constatazione dell'esistenza di un rapporto di controllo tra le imprese considerate, risultante dall'assetto proprietario o dal numero dei diritti di voto che possono esercitarsi nelle assemblee ordinarie, non è sufficiente affinché l'amministrazione aggiudicatrice possa escludere automaticamente tali imprese dalla procedura di aggiudicazione dell'appalto, senza verificare se un tale rapporto abbia avuto un impatto concreto sul loro rispettivo comportamento nell'ambito di questa procedura».
Nel nostro ordinamento in caso di controllo societario ai sensi dell'art. 2359 codice civile., vige una presunzione legale di collegamento ai sensi della lettera m-quater dell'art. 38 dlgs n. 163 del 2006 (oggi lettera m del comma 5 dell'articolo 80 del decreto 50/2016).
Pertanto i giudici escludono che la concreta incidenza delle offerte concordate sull'esito della selezione costituisca un elemento strutturale dell'ipotesi prefigurata dal legislatore (controllo societario).
Per i magistrati la formulazione della norma integra una ipotesi di pericolo presunto e l'influenza determinante sull'individuazione della migliore offerta non è nella disponibilità delle imprese sostanzialmente collegate, ma dipende da variabili indipendenti rispetto alla loro volontà, quali in particolare il numero delle partecipanti e l'entità dei ribassi, comunque non idonee ad elidere il disvalore della condotta volta ad alterare la competizione. Si tratta quindi di una presunzione iuris tantum di unicità del centro decisionale, suscettibile di prova contraria (articolo ItaliaOggi del 29.07.2016).
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MASSIMA
9. Tutto ciò precisato in fatto, va ricordato, in diritto, che questa Sezione ha recentemente affermato che
è legittimo il provvedimento di esclusione da una procedura di gara per collegamento sostanziale dedotto da una pluralità di indici, consistenti in legami parentali dei rispettivi rappresentanti, nell’analogia nelle modalità di presentazione delle offerte e nella coincidenza tra sedi o residenze dei titolari delle due diverse imprese (sentenza 02.05.2013 n. 2397).
Quella ora citata costituisce solo l’ultima pronuncia di un filone giurisprudenziale ormai consolidato, del quale vanno ricordate in particolare le decisioni della VI Sezione di questo Consiglio di Stato, 22.02.2013, n. 1091 ed 08.05.2012, n. 2657).
10. Erra inoltre il Tribunale amministrativo a ritenere necessario, a fronte del sospetto di collegamento sostanziale, il sub-procedimento di verifica in contraddittorio con le imprese interessate.
Infatti, in contrario l’amministrazione appellante rileva in modo condivisibile che, anche alla luce dell’assenza di deduzioni sul punto da parte dell’impresa ricorrente in primo grado, l’esito di tale sub-procedimento non avrebbe potuto condurre ad un esito diverso dall’espulsione delle due imprese. Da questa visuale, nel caso di specie si può quindi ravvisare al più una violazione procedimentale non invalidante ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, l. 07.08.1990, n. 241.
11. Peraltro, come già affermato da questa Sezione nella sentenza 15.05.2013, n. 2631, sopra richiamata, nella decisione del 19.05.2009, in C-538/10,
la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha affermato non la necessità di assicurare il contraddittorio in relazione ad una fattispecie di imprese in collegamento sostanziale, ma in un caso di controllo societario ai sensi dell’art. 2359 Cod. civ., per il quale vige una presunzione legale di collegamento ai sensi della più volte citata lettera m-quater dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
Al riguardo, il giudice comunitario precisò che
il principio di proporzionalità impone di «accertare se il rapporto di controllo in questione abbia esercitato un’influenza sul contenuto delle rispettive offerte depositate dalle imprese interessate nell’ambito di una stessa procedura di aggiudicazione pubblica» (§ 32). Ciò è ulteriormente chiarito nel seguente passaggio (del medesimo § 32): «la semplice constatazione dell’esistenza di un rapporto di controllo tra le imprese considerate, risultante dall’assetto proprietario o dal numero dei diritti di voto che possono esercitarsi nelle assemblee ordinarie, non è sufficiente affinché l’amministrazione aggiudicatrice possa escludere automaticamente tali imprese dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto, senza verificare se un tale rapporto abbia avuto un impatto concreto sul loro rispettivo comportamento nell’ambito di questa procedura».
12. Per contro, l’accertamento della diversa fattispecie del collegamento sostanziale avviene necessariamente in concreto ed in relazione alla singola procedura tra due imprese anche formalmente estranee.
Quindi, sotto questo fondamentale profilo la fattispecie oggetto del presente giudizio si distingue dal controllo societario, il quale si fonda invece sul dato formale e generale del legame partecipativo; ma –alla luce dei principi affermati da quella sentenza della Corte di giustizia– non esclude che da esso nessun pregiudizio sia derivato per l’inderogabile principio di segretezza delle offerte.
Il principio di diritto ricavabile dalla sentenza della Corte di giustizia in esame è in altri termini quello secondo cui
il controllo societario può integrare un presunzione iuris tantum di unicità del centro decisionale, suscettibile di prova contraria (in questa linea cfr. le citate pronunce della Sezione VI di questo Consiglio di Stato 22.02.2013, n. 1091 ed 08.05.2012, n. 2657).
13. Al contrario, l’accertamento in questione è basato su una valutazione svolta in concreto sulla pluralità di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, di cui si è detto sopra, e non è stato affatto contestato dall’impresa ricorrente in questo giudizio.
14. Meritevole di censura è anche il capo della sentenza di primo grado che dall’obbligo, sancito dall’art. 38, comma 2, ultimo inciso, del Codice dei contratti pubblici, di comminare l’esclusione di imprese in collegamento sostanziale solo dopo l’apertura delle buste contenenti l’offerta economica, ha desunto che dovesse verificarsi in concreto l’incidenza delle stesse offerte sull’esito della gara.
Innanzitutto, come correttamente osserva il Comune di Milano, tale incidenza è nel caso di specie pienamente sussistente. Essa deriva dall’adozione del criterio selettivo del massimo ribasso e dal conseguente calcolo della soglia di anomalia attraverso la media aritmetica dei ribassi presentati.
Inoltre, la stessa incidenza non è esclusa dalla circostanza, che qui non ricorre, che i ribassi offerti dalle due imprese sospettate di collegamento sostanziale si sono collocati sulle “ali” escluse dal suddetto calcolo.
15. Sotto un diverso profilo, l’assunto del Tribunale amministrativo trascura che la funzione svolta dalla previsione di cui al citato art. 38, comma 2, è di assicurare che l’accertamento del collegamento sostanziale avvenga sulla base di un quadro probatorio concreto e puntuale, tale per cui l’ipotesi l’iniziale di sospetto collegamento possa essere eventualmente smentito dalla presentazione di due offerte economiche del tutto divergenti, da ciò potendosi inferire l’assenza di vulnus al principio di segretezza.
16. La medesima deduzione della sentenza di primo grado conduce infine ad esiti sproporzionati, sotto il profilo dell’aggravio procedimentale, rispetto all’esigenza di non precludere la partecipazione ad imprese che in concreto non abbiano concordato l’offerta da presentare in sede di gara.
17. Del resto, come di recente specificato da questa V Sezione (sentenza 01.08.2015, n. 3772),
la fattispecie prevista dalla più volte citata lett. m-quater dell’art. 38 del Codice dei contratti pubblici è caratterizzata come un “pericolo presunto” (con una terminologia di derivazione penalistica), coerentemente con la sua funzione di garanzia di ordine preventivo rispetto al superiore interesse alla genuinità della competizione che si attua mediante le procedure ad evidenza pubblica.
Pertanto,
si deve escludere che la concreta incidenza delle offerte concordate sull’esito della selezione costituisca un elemento strutturale dell’ipotesi prefigurata dal legislatore, tant’è vero che la formulazione della norma non autorizza una simile lettura ed in ogni caso, l’influenza determinante sull’individuazione della migliore offerta non è nella disponibilità delle imprese sostanzialmente collegate, ma dipende da variabili indipendenti rispetto alla loro volontà, quali in particolare il numero delle partecipanti e l’entità dei ribassi, comunque non idonee ad elidere il disvalore della condotta volta ad alterare la competizione.
18. Alla luce di tutto quanto finora rilevato legittimamente il Comune di Milano ha escluso l’Im.Co.Ed. di Li.Ge. e la Ed.Tr.El.Co.Ge. per sostanziale collegamento.
19.
Del pari legittima, in forza della sottoscrizione del Patto di Integrità allegato al capitolato speciale da parte delle imprese, è l’escussione della cauzione provvisoria e la segnalazione all’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici (in termini: Cons. Stato, V, 09.09.2011, n. 5066).
A questo specifico riguardo, ed a confutazione del motivo di ricorso riproposto dall’impresa appellata in questa sede ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., la citata pronuncia di questa Sezione ha chiarito che
in virtù della stipula del citato patto l’incameramento della cauzione costituisce un rimedio a fronte di un inadempimento contrattuale, e precisamente, nel caso di specie, dell’impegno assunto dall’impresa partecipante alla gara di non falsare la concorrenza. Ne consegue che, al di là della formulazione letterale della clausola, l’accertata violazione dell’impegno legittima di per sé l’adozione del rimedio, senza necessità di esternare a sostegno dello stesso alcuna motivazione. Questa si addice infatti ad un’attività provvedimentale nel quale vengano in rilievo interessi contrapposti da contemperare e non già quando solo si reagisca all’altrui inadempimento di obblighi pattizi.
20. Pertanto, in accoglimento dell’appello ed in riforma della sentenza di primo grado, deve essere respinto il ricorso colà proposto. Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza nei rapporti tra il Comune e l’impresa originaria ricorrente e sono liquidate in dispositivo. Nei rapporti tra l’amministrazione appellante e l’ANAC deve invece essere disposta la compensazione, non essendo ravvisabile alcuna soccombenza.

APPALTI SERVIZIAmmissione a gara, conta la sentenza in giudicato.
«Sleale». È estromessa dalla gara per l'aggiudicazione di un servizio pubblico l'azienda che in passato risulta «pizzicata» in una vicenda di appalto di mera manodopera, vietato dalla legge. E benché i dirigenti della società siano stati assolti in sede penale dall'accusa di interposizione fittizia. Ciò che conta è la sentenza civile passata in giudicato che accerta come l'impresa in passato abbia utilizzato una società schermo per risparmiare sui contributi previdenziali: si tratta infatti di una «violazione grave» che legittima l'esclusione dalla procedura di appalto della società che oggi si candida a gestire lo scuolabus del Comune.

È quanto emerge dalla sentenza 07.07.2016 n. 956 del TAR Lombardia-Brescia, Sez. II.
Colpa professionale
Deve rassegnarsi la compagnia dei bus: sarà un concorrente ad accompagnare i bambini a scuola la mattina nel territorio interessato dal bando. E ciò perché alcuni lavoratori sono riusciti a far dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con l'azienda: nella gestione di alcune linee di trasporto pubblico locale si è scoperta una somministrazione di manodopera vietata tramite due società schermo.
L'assoluzione in sede penale non è decisiva perché il procedimento riguardava fatti almeno in parte diversi. Legittima l'estromissione decisa per «grave errore professionale»: il ricorso all'appalto di manodopera consente di utilizzare i lavoratori come propri dipendenti senza riconoscere loro il trattamento economico più favorevole che sarebbe dovuto (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).
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MASSIMA
Rilevato:
- che la ricorrente AP.Es. S.p.a. contesta in questa sede il provvedimento, meglio indicato in epigrafe, con il quale è stata esclusa dalla procedura indetta dal Comune di Roverbella come bando 11.04.2016 prot. n. 4053, CIG 664361113C per affidare con il metodo del massimo ribasso sulla base d’asta il servizio di trasporto scolastico per gli alunni delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado site nel territorio comunale dal 01.09.2016 al 30.06.2020 (doc. 2 ricorrente, copia bando di gara; doc. 1 ricorrente, copia provvedimento di esclusione);
- che in particolare l’esclusione è motivata dall’aver commesso una “grave infrazione” a obbligo derivante da rapporti di lavoro, ovvero un “grave errore professionale” (doc. 1 ricorrente, copia offerta), in dichiarata applicazione dell’art. 38, lettere e) ed f), del d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
In concreto, la AP. era stata convenuta in giudizio davanti al Giudice ordinario da alcuni lavoratori i quali, formalmente dipendenti di due diverse società, certe SI.RE. s.r.l. e Fe. S.n.c., avevano chiesto l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la stessa AP.. In proposito, avevano sostenuto che il subappalto esistente fra l’AP. e le loro datrici di lavoro per la gestione di alcune linee di trasporto pubblico locale avrebbe invece integrato una non consentita somministrazione di mera manodopera.
In primo grado, gli attori avevano visto respingere la domanda con sentenza T. Mantova 04.05.2010 n. 133, l’avevano però vista accogliere con la sentenza di appello A. Brescia 18.01.2011 n. 635, confermata da ultimo da Cass. Sez. Lav. 17.05.2016 n. 10057 (doc.ti 9 e 10 ricorrente, copie sentenze di appello e di cassazione). La stazione appaltante ha allora ritenuto che i fatti appena esposti integrino causa di esclusione dalla gara;
- che a sostegno dell’impugnazione la AP.Es. deduce tre censure, riconducibili ad un unico motivo, di violazione del citato art. 38, lettere e) ed f), d.lgs. 163/2006, e sostiene in sintesi che non si tratterebbe di fatto tanto grave da giustificare l’esclusione, atteso anche che, per gli stessi fatti, è intervenuta assoluzione in sede penale dei propri dirigenti, come da sentenza T. Mantova 24.12.2013 n. 1175 (doc. 11 ricorrente, copia di essa). Evidenzia comunque di non aver potuto produrre la sentenza di cassazione alla stazione appaltante perché coeva alla domanda di partecipazione (ricorso, p. 22);
- che le controparti non si sono costituite;
- che il ricorso è infondato e va respinto.
Appare non manifestamente illogico qualificare “grave violazione” delle norme sul lavoro l’aver posto in essere un non consentito appalto di mera somministrazione di lavoro, che è fatto astrattamente di rilievo anche penale.
Tramite questa figura, com’è noto, ci si serve di una società schermo per avvalersi della prestazione di un lavoratore come se fosse proprio dipendente, senza però riconoscergli il trattamento economico e normativo più favorevole che al proprio dipendente spetterebbe, con atteggiamento improntato a complessiva slealtà.

In proposito, va osservato che, contrariamente a quanto dice la difesa (ricorso p. 8 dodicesimo rigo), il procedimento penale riguardava fatti almeno in parte diversi, ovvero un subappalto con altra società, certa T. S.a.s. e che, a prescindere dalla sentenza di ultimo grado, i fatti relativi al giudizio civile in corso erano ben noti alla AP. stessa (ricorso, p. 8, ove si dà atto dell’ottemperanza alla decisione di appello, pur a ricorso per cassazione pendente);

APPALTIAppalti, oneri di sicurezza condizione per partecipare.
La mancata indicazione degli oneri di sicurezza interni in un'offerta di una concorrente è legittimo motivo d'esclusione in quanto espressamente richiesto dalla legge. La mancata indicazione può essere oggetto di soccorso istruttorio, in quanto relativo ad un profilo dell'offerta economica che, come noto, non può in alcun modo essere integrata.

È questo l'importante principio stabilito dal TAR Campania-Salerno, I Sez., nella recente sentenza 06.07.2016 n. 1604 con la quale è stato chiarito un punto di potenziale contrasto tra la vecchia disciplina in materia di appalti e il codice recentemente entrato in vigore.
A fare chiarezza, secondo i giudici di Salerno, è l'art. 95, comma 10, che recita: «Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Il nuovo dlgs n. 50/2016 pone fine all'annosa questione relativa all'obbligo d'indicazione degli oneri di sicurezza interni o aziendali da parte di un concorrente, che tanto ha occupato la giurisprudenza in vigenza del precedente Codice (dlgs n. 163/2006)
».
Come noto in passato, stante la distinzione fra oneri da interferenza (espressamente relativi a quello specifico appalto e obbligatoriamente da indicarsi da parte della p.a. appaltante in lex specialis) e oneri di sicurezza interni o aziendali (tipici di ogni azienda in quanto legati al costo che ciascuna sostiene per il rispetto della normativa sulla sicurezza) questi ultimi, nel dlgs n. 163/2006, erano previsti solo all'art. 87, comma 4 (relativamente alla verifica di anomalia delle offerte) nonché, letteralmente, richiesti esclusivamente per gli appalti di forniture di beni e servizi.
Da tale formulazione legislativa ne era scaturito un contenzioso che aveva portato, solo nel 2015, ad un rilevante numero di pronunce dello stesso Consiglio di Stato fino a giungere alle due pronunce dell'Adunanza plenaria (20/03/2015 n. 3 e 02/11/2015, n. 9) a dimostrazione della difficoltà interpretativa di una normativa così mal scritta. A fare chiarezza si diceva, secondo il Tar Salerno, vi è ora l'art. 95, comma 10 (articolo ItaliaOggi del 30.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Con ricorso notificato il 15.06.2016 e ritualmente depositato il 25 giugno successivo, la Società Se.No. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, impugna gli atti di cui in epigrafe, invocandone l’annullamento.
Premette che la Centrale Unica di Committenza Comuni di Bracigliano e Forino ha indetto una gara d'appalto per l’affidamento in concessione del servizio di trasporto e smaltimento dei rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata sul territorio della città di Bracigliano. La ricorrente espone di essere esclusa da tale selezione per non avere indicato, nell’offerta economica, l’importo degli oneri per la sicurezza aziendale.
Deduce, pertanto, i seguenti vizi:
- violazione e falsa applicazione degli artt. 46, co. 1–bis e 75, co. 1–6, del D.Lgs. n. 163 del 2006, eccesso di potere per errore sui presupposti di fatto e di diritto, difetto di istruttoria, difetto di motivazione, violazione dell’art. 3, l. n. 241/1990.
Si costituisce, tra i soggetti evocati, la Centrale Unica di Committenza, al fine di resistere.
Alla camera di consiglio del 05.07.2016, rese edotte le parti e sussistendone i presupposti di legge, il ricorso è introitato in decisione semplificata.
Il ricorso è infondato.
Va, infatti, rilevato che, avuto riguardo a quanto statuito dall’art. 216, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, in relazione alla data di pubblicazione (22.04.2016) del bando, trova applicazione tale corpus normativo e, segnatamente, l’art. 95, comma 10, che così statuisce:
Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”. Invero, tale disposizione configura un preciso ed ineludibile obbligo legale in sede di predisposizione dell’offerta economica.
Tanto è sufficiente per la reiezione del gravame.

TRIBUTIIci e Imu su aree pertinenziali. Siti tassati se accatastati separatamente dal fabbricato. Il principio nella sentenza n. 1844 della Ctr Bologna che vale anche ai fini della Tasi.
Si restringono sempre di più le maglie per l'intassabilità delle aree edificabili che sono ritenute dai contribuenti pertinenze dei fabbricati. La questione non è di poco conto perché la regola ha implicazioni ad ampio raggio e produce effetti sia per i tributi locali, Ici, Imu e Tasi, sia per i tributi erariali.

La Commissione tributaria regionale di Bologna, Sez. XII, con la sentenza 04.07.2016 n. 1844, infatti, ha affermato che un'area edificabile pertinenziale è soggetta al pagamento dell'Ici, ma il principio vale anche per Imu e Tasi, se accatastata separatamente dal fabbricato.
Dunque, è necessario un accatastamento unitario dei due immobili, con l'attribuzione di un'unica rendita.
Sulla questione de qua ci sono poche certezze poiché la Cassazione ha più volte modificato il proprio orientamento. Ha comunque stabilito che l'accatastamento separato dei due immobili non è d'impedimento all'intassabilità dell'area come pertinenza del fabbricato. Tesi che è in netto contrasto con quanto sostenuto da tempo dall'Agenzia delle entrate.
Per quanto concerne le condizioni richieste per evitare l'assoggettamento a imposizione delle aree pertinenziali non c'è stata nel corso dell'ultimo decennio un'uniformità di vedute né all'interno della Cassazione né tra i giudici di merito.
La Cassazione, anche con la recente sentenza 8367/2016, non ha imposto l'accatastamento unitario tra area e fabbricato, ma ha precisato che tra i due immobili deve sussistere «un vincolo d'asservimento durevole, funzionale o ornamentale delle aree al fabbricato, con il fine di migliorarne le condizioni d'uso, la funzionalità e il valore».
E la prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale grava sul contribuente. Del resto, sottolineano i giudici di legittimità, la mera «scelta» pertinenziale avrebbe l'unica funzione di eludere il prelievo, per ottenere un risparmio fiscale. Quindi, darebbe luogo a un abuso del diritto.
Le prese di posizione della Cassazione. Con la sentenza 5755/2005 la Cassazione ha stabilito che quando si tratta di pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze catastali, ma la destinazione di fatto.
L'area che costituisce, di fatto, pertinenza di un fabbricato non è soggetta a Ici, come area edificabile, anche se iscritta autonomamente al catasto.
Con questa pronuncia non ha posto alcun vincolo o adempimento a carico del contribuente.
Successivamente ha riconosciuto il beneficio solo nei casi in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di variazione (sentenza 19638/2009).
Sia in passato che con l'ultima pronuncia (8367/2016) ha sempre ritenuto irrilevante la circostanza che un'area pertinenziale e una costruzione principale siano censite catastalmente in modo distinto, al fine di poter essere assoggettate a tassazione come un unico bene.
Il vincolo pertinenziale, però, deve essere visibile e va rilevato dallo stato dei luoghi, altrimenti i due immobili sono soggetti a imposizione autonomamente.
Sempre la Cassazione, con la sentenza 17035/2004, richiamata nella motivazione della sentenza 19638/2009, aveva chiarito che per le aree pertinenziali non si introduce alcuna particolare e nuova accezione di pertinenza, ma, semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale, dall'articolo 817 del Codice civile.
Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa.
Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole destinazione della cosa accessoria a servizio o ornamento di quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di creare la destinazione.
Il contrasto tra i giudici di merito. Le divergenze emergono soprattutto tra i giudici di merito sul trattamento fiscale delle aree pertinenziali. Di segno opposto, in effetti, è la pronuncia della Ctr di Milano rispetto a quella emanata dalla Ctr di Bologna. La Ctr di Milano, sezione XIX, con la sentenza 14/2016, ha stabilito che un terreno può essere qualificato pertinenziale anche se non è accorpato catastalmente a un fabbricato.
La «graffatura», vale a dire l'unione dei due beni immobili in catasto, agevola l'attività di controllo dell'ente impositore, ma non può essere considerata decisiva per attribuire al terreno natura pertinenziale.
Per i giudici lombardi, il fatto che un terreno non sia censito al catasto urbano unitamente al fabbricato destinato ad abitazione non può comportare il disconoscimento delle agevolazioni «prima casa», contrariamente a quanto sostenuto dall'Agenzia delle entrate. In realtà, secondo la commissione regionale, «la normativa in materia di imposta di registro non prevede alcuna limitazione tassativa rispetto ai beni che possono assumere natura pertinenziale di un fabbricato, ai fini di potere fruire delle cosiddette agevolazioni «prima casa», ma solo una elencazione esemplificativa» (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti, moralità senza riserve. Requisiti anche dalla società che ha la maggioranza. Il Consiglio di stato sul caso della partecipazione di un'impresa detenuta da altra.
La dichiarazione dei requisiti di moralità dev'essere rilasciata anche del legale rappresentante della società che possiede la maggioranza della società che partecipa ad una gara.

Così il Consiglio di Stato, Sez. III, nella sentenza 23.06.2016 n. 2813.
L'art. 38, c. 1, lett. c), dlgs 163/2006 prevede l'obbligo di dichiarazione circa il possesso dei requisiti di moralità anche del «socio unico persona fisica», nonché del «socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci».
Nel caso di specie, i soci che possedevano la concorrente erano due (quindi non un socio unico) e quello di maggioranza era una persona giuridica, ragion per cui da un lato detto socio avrebbe dovuto esser obbligato (in quanto «di maggioranza») a depositare la dichiarazione ex art. 38 ma, dall'altro, in quanto si trattava non di una persona fisica, ciò non sarebbe stato possibile a meno di prevedere che doveva essere il suo Legale Rappresentante a rilasciare detta dichiarazione (sebbene ciò non risulti espressamente previsto ex lege).
Il Consiglio di stato ha stabilito come risulti «priva di razionale giustificazioni la limitazione della verifica sui reati ex art. 38, dlgs 163/2006 solo con riguardo al socio unico persona fisica o al socio di maggioranza persona fisica per le società con meno di quattro soci, atteso che la garanzia di moralità del concorrente che partecipa a un appalto pubblico non può limitarsi al socio persona fisica, ma deve interessare anche il socio persona giuridica per il quale il controllo ha più ragione di essere, trattandosi di società collegate in cui potrebbero annidarsi fenomeni di irregolarità elusive degli obiettivi di trasparenza perseguiti».
Ciò in quanto la ratio della norma è di «garantire l'integrità morale del concorrente, sia se persona fisica che persona giuridica». Il Cds ha osservato che il legislatore da una lato parla di «socio unico persona fisica», dall'altro esplicita che il «socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci», senza minimamente accennare se detto socio debba avere natura fisica o giuridica.
Da tutto questo deriva che quando una società ha meno di 4 soci, il suo socio di maggioranza dev'essere accertato e se detto risulta, a sua volta, una persona giuridica, è necessario allora applicare la stessa tutela che si adotta per le persone fisiche, ovvero è necessario che nei suoi confronti si accerti la sussistenza del possesso dei requisiti di moralità relativamente al suo legale rappresentante ed, eventualmente, al suo socio di maggioranza (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
2. Osserva la Sezione in via preliminare che
non è ragionevole ed anche priva di razionale giustificazione la limitazione della verifica sui reati ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 solo con riguardo al socio unico persona fisica o al socio di maggioranza persona fisica per le società con meno di quattro soci, atteso che la garanzia di moralità del concorrente che partecipa a un appalto pubblico non può limitarsi al socio persona fisica, ma deve interessare anche il socio persona giuridica per il quale il controllo ha più ragione di essere, trattandosi di società collegate in cui potrebbero annidarsi fenomeni di irregolarità elusive degli obiettivi di trasparenza perseguiti.
Se lo spirito del Codice dei contratti pubblici è improntato ad assicurare legalità e trasparenza nei procedimenti degli appalti pubblici, occorre garantire l’integrità morale del concorrente sia se persona fisica che persona giuridica.
In caso contrario, verrebbe violato il principio della par condicio dei concorrenti in quanto una società concorrente con socio unico o socio di maggioranza che sia persona fisica sarebbe soggetto alla dichiarazione e non invece un concorrente che sia persona giuridica.

Peraltro il problema della irragionevolezza della norma relativa alla causa di esclusione ex art. 38, comma 1, lett. c), del Codice dei contratti pubblici, è circoscritta alla sola ipotesi testuale del socio unico persona fisica e non è pertanto rilevante nella specie, ove come detto Bi. spa, società quotata, è titolare del 99.9827% del capitale sociale dell’appellante, ma è partecipata da altri soggetti per una quota dello 0,0173% e, dunque, non è socio unico.
3. Infatti, l’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. cit., nell’attuale versione novellata dall’art. 4, comma 2, lett. b), l. n. 106/2011, estende il novero dei soggetti delle società di capitali di cui occorre accertare la moralità professionale ai fini dell’ammissione alle gare pubbliche al “socio unico persona fisica” ed al “socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci”.
Il dato testuale della norma indica che, con riferimento al “socio di maggioranza”, il legislatore non ha incluso alcuna specificazione in relazione alla natura giuridica del socio, con la conseguenza che si avvalora l’opzione ermeneutica per la quale l’espressione testuale vale tanto per la persona fisica, quanto per la persona giuridica, in conformità ad un approccio sostanzialistico alla normativa che attribuisce rilievo ai requisiti di moralità di tutti i soggetti che condizionano la volontà degli operatori che stipulano contratti con la pubblica amministrazione, a prescindere dalla circostanza che siano persone fisiche o giuridiche, in ossequio ai principi di lealtà, correttezza, trasparenza e buona amministrazione.
Sotto questo profilo, ad orientare l’interprete, non deve esser sottovalutato l’argomento antielusivo utilizzato dal TAR a sostegno della sua decisione, atteso che
la locuzione “socio di maggioranza”, contenuta nell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (come novellato sul punto dall’art. 4 decreto legge 13.05.2011, n. 70 convertito, con modificazioni, nella legge 12.07.2011 n. 106), è riferibile anche al socio di maggioranza, persona giuridica e non solo persona fisica, per evitare la facile elusione della disciplina legislativa, facile elusione a maggior ragione prospettabile nella specie, in cui il socio di maggioranza ha pressoché la totalità delle quote dell’offerente.
4. Peraltro, come osserva correttamente il controinteressato,
a sostegno della tesi sopraindicata milita il contenuto dell’art. 45 della Direttiva 2004/18/CE. Tale norma, infatti, nell’imporre l’esclusione dalla partecipazione agli appalti pubblici del candidato o dell’offerente che abbia riportato condanne per talune ipotesi di reato, dispone: “in funzione del diritto nazionale dello Stato membro in cui sono stabiliti i candidati o gli offerenti, le richieste riguarderanno le persone giuridiche e/o le persone fisiche, compresi, se del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell’offerente”.
Pertanto,
non solo il diritto dell’Unione non osta alla verifica della sussistenza dei requisiti morali rispetto alle persone giuridiche e non solo alle persone fisiche, ma impone di effettuare il controllo ne confronti di ogni soggetto che, nella sostanza, “eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell’offerente, come nell’ipotesi in esame, in cui certamente il Presidente del Consiglio di amministrazione della Bi. spa, la quale ha la quasi totalità delle quote dell’offerente, è nella posizione di esercitare anche un potere di decisione e di controllo nei confronti dell’offerente medesima.
Infatti, il soggetto che possieda il 99,9827% della società appellante, con meno di quattro soci, ha un “significativo” se non esclusivo, “ruolo decisionale e gestionale societario” nell’ambito della stessa e, come tale, soggiace all’obbligo di accertamento della verifica dei requisiti morali in capo ai soggetti muniti di poteri di rappresentanza e direzione tecnica in seno allo stesso.
5. Per quanto riguarda la valutazione dell’incidenza del reato sulla moralità professionale, si deve rilevare che devono condividersi le conclusioni assunte dall’Amministrazione, atteso che la “gravità” dei reati per i quali sono stati condannati in via definitiva i Consiglieri della Bi. spa emerge sia all’evidenza dalla motivazione addotta dalla sentenza di condanna del Tribunale di Imperia del 28.12.2004 per la mancata concessione delle attenuanti generiche, sia dal fatto che gli stessi hanno continuato a gestire l’impianto oggetto del processo senza rispettare le prescrizioni e gli ordini dell’Autorità, sia dal mancato adempimento delle prescrizioni cui il Giudice aveva subordinato la concessione della sospensione condizionale della pena, sia dall’insussistenza della declaratoria di estinzione del reato de quo e dalla loro mancata riabilitazione.
Peraltro, il lasso di tempo trascorso dai fatti che hanno originato il giudizio è stato preso in considerazione ed è stato valutato non rilevante ai fini di escluderne l’incidenza sul giudizio di moralità professionale in modo non irragionevole, atteso che è trascorso un periodo di gran lunga inferiore se si considera la data del passaggio in giudicato delle sentenze di condanna e se si considera l’entità delle condanne che bilanciano ampiamente, secondo una valutazione di spettanza dell’Amministrazione non macroscopicamente irragionevole, il periodo di tempo trascorso dalla condanna.

ATTI AMMINISTRATIVIAlbero abbattuto, l'ente mostra le carte in un mese.
Quel pino marittimo va abbattuto. Il sindaco del comune ordina di provvedere con urgenza. Ma il punto è che l'albero si trova nel piazzale privato a uso pubblico di un condominio della località balneare. E l'arbusto con la sua ombra dà sollievo dalla calura estiva a più di un appartamento. Uno dei proprietari esclusivi non ci sta: chiede di vedere le carte in base alle quali l'amministrazione ha rilevato lo «stato di pericolo» in cortile. E l'ente non può negare l'accesso ai documenti perché il singolo condominio ne ha diritto in base alla legge sulla trasparenza. Risultato: l'amministrazione dovrà tirare fuori la pratica entro un mese.

È quanto emerge dalla sentenza 21.06.2016 n. 7232, pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Posizione qualificata
La perizia dell'agronomo attesta che il pino può cadere da un momento all'altro. E le spese dell'abbattimento ricadono sui tutti i proprietari. Il condomino vuole consultare tanto la relazione del professionista quanto il parere dell'ufficio tecnico del Comune. E in quanto proprietario esclusivo dell'appartamento risulta titolare di una posizione qualificata in base articolo 22 della legge 241/1990.
È la stessa amministrazione locale a riconoscere in modo implicito che l'istanza del singolo condomino è legittima perché attiva il subprocedimento, avvisando l'amministratore. Il punto è che poi il Comune non ottempera: dovrà ora per ordine del giudice perché risulta il silenzio-rigetto formatosi in relazione all'istanza di ostensione.
E se nel frattempo l'albero è stato abbattuto è ragionevole credere che la causa continuerà (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).

APPALTIStoria di tangenti. Ditta da risarcire. Se l'espulsione dalla gara è per mafia.
Danno curriculare oltre che lucro cessante all'impresa che si vede togliere l'appalto perché è finita al centro di un'inchiesta penale. E ciò perché l'informativa antimafia che consente all'amministrazione il recesso dal contratto si rivela, a ben vedere, frettolosa: il procedimento penale si apre per reati comuni, per quanto gravi, che denotano tuttavia una mera mala gestio amministrativa, senza rivelare l'inquinamento della criminalità organizzata; il tutto in un'area pure a grosso rischio come la provincia di Napoli.

È quanto emerge dalla sentenza 27.05.2016 n. 2750, pubblicata dalla I Sez. del TAR Campania-Napoli.
Pubblico e privato. È vero: una delle persone che si ritrova alla sbarra è figlia di un pregiudicato per camorra e moglie di una persona sottoposta a misura cautelare per reati di criminalità organizzata. Ma è soltanto una coimputata dell'amministratore della srl: la circostanza può aiutare a inquadrare meglio la figura privata del manager, tuttavia i vincoli personali non hanno influenza diretta sulla società, che si era aggiudicata il servizio di trasporto scolastico del Comune all'esito di una procedura negoziata.
I reati contestati nel processo in corso sono concussione, abuso d'ufficio, corruzione, falsità ideologica e appalti truccati: non emergono però cointeressenze da parte dei clan. In particolare nella contestazione della turbativa d'asta il delitto non c'è l'ombra dei clan di Gomorra.
Insomma: all'azienda deve essere riconosciuto il danno perché non ha potuto arricchire il curriculum professionale con la gestione del servizio negata dall'ente: ha infatti patito un pregiudizio alla sua capacità di competere sul mercato; il ristoro è liquidato equitativamente.
Dopo il nuovo appalto bandito dall'ente, il mancato guadagno della società risulta risarcito anche tenendo conto dei costi sostenuti dall'impresa. Stop anche al provvedimento che autorizza l'amministrazione a incamerare la polizza fideiussoria. Alla prefettura non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 26.07.2016).

TRIBUTITassa rifiuti prescritta in 5 anni dalla cartella.
Dopo la notifica della cartella di pagamento relativa alla tassa comunale sui rifiuti, l'agente della riscossione ha a disposizione cinque anni di tempo per riscuotere le somme o per notificare atti interruttivi: altrimenti, la pretesa si estingue ed è possibile formulare l'eccezione in sede di impugnazione dell'intimazione di pagamento.
È quanto si legge nella sentenza 06.05.2016 n. 3940/05/16 della Ctp di Milano, depositata lo scorso 6 maggio.
Un condominio del capoluogo meneghino proponeva ricorso contro l'intimazione di pagamento notificata da Equitalia, basata su sette cartelle di pagamento di pagamento relative alla Tarsu. Tutte le cartelle erano state notificate oltre 5 anni prima rispetto all'intimazione, ed erano divenute definitive per mancata impugnazione; il condominio eccepiva l'intervenuta prescrizione della pretesa.
Si costituiva in giudizio l'Agente della riscossione, sostenendo che la prescrizione, dopo la cartella di pagamento, fosse decennale, a prescindere dalla natura del credito in esazione.
La Ctp di Milano ha accolto il ricorso, osservando in primis che la definitività amministrativa della pretesa, determinata dalla mancata impugnazione della cartella di pagamento, non è mai equiparabile alla definitività di una sentenza che, ai sensi dell'articolo 2953 del codice civile, produce l'effetto di dilatare il termine di prescrizione a 10 anni. Per cui, il termine di prescrizione, dopo la notifica della cartella, rimane quello proprio del tributo a cui la stessa si riferisce.
Nel caso di specie, osserva la Ctp, deve rilevarsi che la tassa comunale sui rifiuti si configura quale prestazione periodica e, come tale, soggetta alla prescrizione quinquennale stabilita dall'articolo 2948, comma 4, del codice civile, secondo cui «si prescrivono in cinque anni ( ) 4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi».
Il collegio richiama una sentenza della Cassazione (n. 4283/2010) nella quale si afferma che i tributi locali sono elementi strutturali di un rapporto sinallagmatico, caratterizzati da una causa debendi di tipo continuativo, suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo, in relazione alla quale l'utente è tenuto ad una erogazione periodica.
All'accoglimento del ricorso, la Ctp ha fatto seguire la condanna alle spese in capo all'Agente della riscossione.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'applicazione del termine breve di cinque anni (in luogo di quello ordinario di dieci anni) è stata affermata dalla Cassazione con sentenza del 23.02.2010. In particolare la Cassazione sostiene che i tributi locali (a differenza di quelli erariali) sono «prestazioni periodiche» e, come tali, rientrano nell'ambito di applicazione dell'articolo 2948, comma 4, del Codice civile, che stabilisce appunto la prescrizione quinquennale.
I tributi locali (tassa per lo smaltimento rifiuti, per l'occupazione di suolo pubblico, per concessione di passo carrabile, contributi di bonifica) -dice la Corte- sono «elementi strutturali di un rapporto sinallagmatico caratterizzati da una ''causa debendi'' di tipo continuativo suscettibile di adempimento solo con decorso del tempo in relazione alla quale l'utente è tenuto a una erogazione periodica, dipendente dal prolungarsi sul piano temporale della prestazione erogata dall'ente impositore, o dal beneficio dallo stesso concesso» (Cassazione, sezione tributaria civile, sentenza 23.02.2010, numero 4283).
Con riferimento all'asserita prescrizione e/o decadenza della pretesa tributaria, il Collegio rileva che il Concessionario della Riscossione, nelle proprie controdeduzioni al ricorso, non ha prodotto documentazione attestante l'intervenuta notifica di eventuali atti interruttivi del termine della prescrizione. Ritiene il Collegio che la pretesa oggetto del presente ricorso, trattandosi di tasse locali, è assoggetta al termine di prescrizione previsto dall'art. 2948 del Codice Civile, ossia il termine di prescrizione breve di cinque anni in quanto trattasi di prestazioni periodiche. Inoltre a parere del Collegio non ha effetto sul termine di prescrizione la sospensione che era stata decretata dall'art. 1 -comma 623- della Legge 27/12/2013 n. 147.
Ne discende quindi che l'eccezione di prescrizione della pretesa tributaria, a parere del Collegio, va accolta. Precisa che per le cartelle esattoriali presupposto dell'atto impugnato vale il termine breve di cinque anni, atteso che la prestazione tributaria non può che essere reputata alla stregua di una prestazione periodica.
Pertanto l'attività dell'Agente della riscossione è soggetta esclusivamente al termine ordinario di prescrizione con la conseguenza che una volta notificata la cartella di pagamento è possibile attivare le procedure di riscossione coattiva entro cinque anni dalla data di notifica della cartella stessa. Circostanza che nel caso non si è verificata. Si ritiene che nessun atto interruttivo del termine di prescrizione risulta peraltro notificato alla data di decadenza della cartella di pagamento [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).

TRIBUTI: Terreno edificabile solo di fatto.
La destinazione d'uso non è sufficiente, da sola, a qualificare come edificabile un terreno. L'edificabilità, infatti, deve essere effettiva; in caso di mancata edificabilità effettiva, il terreno non può mai essere ritenuto edificabile.

È quanto si legge nella sentenza 18.04.2016 n. 103/02/16 emessa dalla sezione seconda della Commissione tributaria provinciale di Lecco.
La vertenza riguarda un avviso di liquidazione con cui le Entrate di Lecco intendevano rettificare i valori dichiarati in sede di una compravendita. Il contribuente nel ricorso presentato alla Commissione tributaria provinciale, di Lecco tra gli altri motivi, eccepiva anche dei vizi di merito. Infatti, relativamente alle aree oggetto di compravendita esiste una inedificabilità sostanziale che ne caratterizza, appunto, il requisito sostanziale dell'edificabilità.
Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito all'evoluzione del principio secondo cui l'edificabilità di un terreno sia strettamente legata con la destinazione urbanistica assegnata allo stesso dagli strumenti urbanistici. Il principio, espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 25506/2006, secondo cui tutti i terreni inseriti nel Piano Regolatore generale di un comune vanno considerati, a tutti gli effetti, edificabili, ha trovato alcune deroghe espresse.
La Corte di cassazione, nella sentenza n. 8609/2011, ha stabilito che i terreni inseriti nel Piano regolatore generale come edificabili ma che siano assoggettati al rispetto delle fasce stradali e ferroviarie vadano equiparati, ai fini fiscali, alle aree agricole in considerazione del fatto che gli stessi non sono, agli effetti pratici, utilizzabili ai fini edificatori.
Lo stesso principio è stato applicato per i terreni in trattazione nella sentenza di cui al commento. Secondo i giudici provinciali di Lecco, infatti, «i terreni compravenduti sono inseriti nelle zone
classificate quali «Rga» distinte dalle zone classificate «Rg» per le quali è consentita l'effettiva edificabilità. Per questi terreni inseriti nelle zone «Rga» (residenziali in genere in zona A) non si applicano gli indici di edificabilità, mentre conservano la destinazione d'uso».
Ne deriva la sostanziale inedificabilità dei terreni compravenduti, circostanza che, di fatto, rende del tutto inattendibile il calcolo effettuato dall'ufficio; né possono ritenersi giustificati i richiami agli altri atti registrati per la comparazione, laddove manchi il requisito sostanziale della edificabilità.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
I sigg.ri [omissis], hanno impugnato, con unico ricorso ritualmente notificato e iscritto a ruolo, l'avviso notificato loro dall'Agenzia delle entrate di Lecco, con cui, il citato Ente ha rettificato il valore della compravendita immobiliare dichiarato in sede di atto notarile e ha provveduto alla liquidazione delle imposte di registro, catastali e ipotecarie relative.
I ricorrenti, con l'atto introduttivo del giudizio, lamentano: l'inesistenza dell'avviso di rettifica per inesistenza giuridica della notificazione; nel merito, la nullità dell'atto impugnato per illegittimità e infondatezza dello stesso. I ricorrenti hanno concluso chiedendo l'annullamento dell'atto. L'Ufficio fiscale si è costituito regolarmente in giudizio, contestando gli assunti dei ricorrenti, sostenendola legittimità dell'accertamento e chiedendo, con le conclusioni, il rigetto del ricorso. [omissis]
Nel merito, il ricorso è fondato. Le norme tecniche di attuazione del Prg. vigente, prodotte dai ricorrenti, stabiliscono al punto 21.1.3, alcune prescrizioni tecniche in ordine agli indici urbanistici di edificabilità nella zona in cui ricadono i terreni oggetto del contratto di compravendita sul cui valore vi è contestazione.
Tali indici appaiono riferiti alle zone classificate quali «Rg» distinte dalle zone classificate «Rga» per le quali è, invece stabilito che: «Per le aree individuate con Rga (residenziali in genere in zona A) non si applicano gli indici sopraesposti mentre conservano efficacia le sole destinazioni d'uso».
Alla luce di tale disposizione e della non contestata zonizzazione (Rga) dei mappali 1392 e 1393 la parziale) sussiste, nella fattispecie, la sostanziale inedificabilità dei terreni oggetto del contratto di compravendita. Appare pertanto, del tutto inafferente il calcolo effettuato dall'ufficio, al fine di giungere alla rettifica dei valori indicati nel citato atto; né possono ritenersi giustificati i richiami ad altri atti registrati per effettuare la comparazione, laddove manca il requisito sostanziale della edificabilità.
In conclusione stante: la conformazione dei terreni, si tratta di terreni in pendio; la sussistenza dei vincoli di destinazione, elementi sui quali non vi è contestazione, nonché la non edificabilità degli stessi, il valore dichiarato in compravendita, deve ritenersi congruo.
Il ricorso va pertanto, accolto. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M.
La commissione accoglie il ricorso. Condanna l'Agenzia delle entrate al pagamento delle spese di giudizio, in favore dei ricorrenti, che liquida in 2.576,00 oltre Iva, cpa, c.u.e il 15% per spese generali. [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 25.07.2016).

APPALTIAppalti, subentro con eccezioni. In vigore le norme che circoscrivono i nuovi obblighi verso il personale «assorbito».
Trasferimenti d’azienda. Struttura organizzativa propria e discontinuità gli elementi chiave per applicare la legge comunitaria.

La normativa sul trasferimento di azienda (articolo 2112 del Codice civile) con l’obbligo per l’impresa che subentra in un appalto di mantenere gli stessi diritti ai lavoratori acquisiti, non si applica quando il personale impegnato nell’appalto sia «assorbito» da un’ impresa dotata di una propria struttura organizzativa ed operativa e siano presenti elementi di discontinuità nell’esecuzione del servizio che determinino una specifica identità di impresa.
Dal 23 luglio il subentro nell’appalto conosce nuove regole. Da quella data, infatti, è in vigore il comma 3 dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 (come riformato dall’articolo 30 della legge 122/2016, la legge europea 2016. La modifica legislativa vuole rispondere alla richiesta della Commissione europea secondo cui la precedente formulazione dell’articolo 29 del decreto 276 (che escludeva l’applicazione dell’articolo 2112 del Codice civile in caso di subentro nell’appalto) restringeva in modo illegittimo l’ambito di applicazione delle regole sul trasferimento di azienda, anche in caso di subentro.
Il nuovo terzo comma dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 prevede che: «L’acquisizione di personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo o di clausola del contratto di appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinino una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento di azienda o di ramo di azienda».
La norma intende “sterilizzare” l’applicazione della normativa sul trasferimento di azienda (e delle relative procedure sindacali ove applicabili per legge) quando l’acquisizione del personale avviene da parte di un appaltatore che, da una parte, è “dotato di una propria struttura organizzativa ed operativa e, dall’altra, quando, l’azienda subentrante ha una specifica identità di impresa. In attesa di maggiori chiarimenti da parte della giurisprudenza e della prassi, si può ritenere, ad esempio, che l’esclusione non si applichi quando l’impresa subentrante non è dotata (o ne è dotata in maniera poco rilevante) della struttura organizzativa necessaria per espletare il servizio appaltato. La struttura quindi viene acquisita dall’appaltatore “uscente”.
In altre parole, l’obbligo di garantire lo stesso trattamento economico e contrattuale ai lavoratori acquisiti (che scatta con le regole sul trasferimento d’azienda) non trova applicazione tutte le volte in cui il nuovo appaltatore ha già una propria struttura organizzativa e operativa per rendere il servizio oggetto dell’appalto, anche se con i “vecchi” dipendenti riassunti.
In più , è necessaria la presenza di elementi di discontinuità che determinino una specifica identità di impresa. Ma come deve essere interpretato questo ulteriore requisito? Sempre in attesa di chiarimenti amministrativi e giurisprudenziali, si può pensare che la discontinuità sia presente tutte le volte in cui il servizio viene riorganizzato e realizzato in modo nuovo dalla nuova impresa.
In effetti l’identità di impresa si può desumere non solo dalla cessione di beni materiali, ma anche immateriali, compresa la metodologia organizzativa.
Può ritenersi, ad esempio, discontinuo il servizio ambientale ovvero il servizio di pulizia reso dall’impresa subentrante che, oltre a introdurre metodi di raccolta o di pulizia differenti, organizzi e svolga la raccolta ovvero il servizio di pulizia con strumenti nuovi, ad esempio, facendo partecipare i lavoratori ad uno specifico corso di formazione. Vedremo come verrà applicata la normativa e quali saranno le interpretazioni giurisprudenziali che, alla luce della genericità della disposizione, potrebbero essere tra loro diverse, a discapito dalla certezza del diritto.
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Il gruppo omogeneo dei dipendenti mantiene i diritti. Il caso. Il passaggio a un’altra unità.
La cessione di un gruppo di dipendenti ad un’altra impresa, purché dotati di particolari competenze e stabilmente coordinati e organizzati tra loro, così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili, configura una cessione di azienda con conseguente applicazione dell’articolo 2112 del Codice civile.
È quanto contenuto nella sentenza 12.04.2016 n. 7121 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, i cui principi, nella sostanza, trovano conferma nella nuova normativa sulla successione negli appalti in vigore dal 23.07.2016 (si veda l’articolo a fianco).
I giudici della suprema Corte hanno evidenziato come, anche in questo caso, il rapporto di lavoro continua con il cessionario che conserva tutti i diritti che ne derivano così come previsto dall’articolo 2112. Ai fini del trasferimento d’azienda questa normativa postula che il complesso organizzato dei beni dell’impresa -nella sua identità obiettiva- sia passato ad un diverso titolare in forza di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio, dovendosi così prescindere da un rapporto contrattuale diretto tra l’imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione.
Il trasferimento d’azienda è, pertanto, configurabile anche in ipotesi di successione nell’appalto di un servizio, sempre che si abbia un passaggio di beni di non trascurabile entità, e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa (Cassazione 16.05.2013, n. 11918; Cassazione 13.04.2011 n. 8460).
Si configura come trasferimento d’azienda anche l’acquisizione di un complesso stabile organizzato di persone quando non occorrono mezzi patrimoniali per l’esercizio dell'attività economica (Corte di giustizia 06.09.2011, causa C 108/10).
La giurisprudenza comunitaria, in particolare, si è orientata verso una interpretazione del requisito dell’identità dell’entità economica trasferita che prenda in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione, fra le quali rientrano, in particolare, il tipo di impresa, la cessione o meno di elementi materiali, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno delle parti più rilevanti del personale ad opera del nuovo imprenditore così come il grado di somiglianza delle attività esercitate prima e dopo la cessione.
Seguendo questo ordine di idee, quindi, la Cassazione, in linea con la giurisprudenza comunitaria, ritiene che sia configurabile un trasferimento di un ramo di azienda anche nel caso in cui la cessione abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti dotati di particolari competenze che siano stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, così da rendere le loro attività interagenti ed idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili. In presenza di questi elementi si realizza, pertanto, una successione legale del contratto di lavoro -e non una mera cessione- che non necessita del consenso del contraente ceduto ex articolo 1406 del Codice civile (da ultimo Cassazione, sentenza 28.04.2014, n. 9361).
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Gli indici rivelano i contratti «genuini». Giurisprudenza. La Cassazione specifica in quali circostanze l’affidamento nasconde interposizioni vietate.
La bussola per distinguere l’appalto legittimo dall’interposizione di manodopera (vietata) arriva sempre più dalla giurisprudenza che precisa i contorni della normativa di riferimento (articolo 29, comma 1, del Dlgs 276/2003).
Così, ad esempio, la Cassazione ha chiarito che il divieto di intermediazione ed interposizione di manodopera nelle prestazioni di lavoro, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, anche strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.
Non è necessario, infatti, per realizzare un’ipotesi di intermediazione vietata, che l’impresa appaltatrice sia fittizia, atteso che, una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore all’organizzazione e direzione del prestatore di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, rimane priva di rilievo ogni questione legata al rischio economico e alla sua autonoma organizzazione.
È questo il principio affermato dalla Corte di cassazione a proposito dell’individuazione della fattispecie dell’appalto di servizi lecito rispetto all’interposizione di manodopera vietata (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 24.11.2015, n. 23962).
Il Dlgs 276 prevede che il contratto di appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto. Non solo: nell’appalto vero e proprio l’appaltatore assume il rischio d’impresa.
Nel corso del tempo la giurisprudenza ha elaborato degli indici di non genuinità dell’appalto. Indici rilevatori della mancanza di organizzazione, ad esempio sono: l’inesistenza di un’organizzazione di tipo imprenditoriale; la mancanza dell’effettivo esercizio del potere direttivo sui lavoratori; l’impiego di capitali, macchine e attrezzature dell’appaltante; la natura delle prestazioni svolte che esula da quelle dell’appalto, afferendo a mansioni tipiche dei dipendenti del committente; il corrispettivo pattuito in base alle ore effettive di lavoro e non riguardo all’opera compiuta o al servizio eseguito, ovvero corresponsione della retribuzione direttamente da parte del committente.
Gli indici rivelatori del rischio di impresa sono: l’avere un’attività imprenditoriale che viene esercitata abitualmente; svolgere una propria attività produttiva in maniera evidente e comprovata; operare per conto di differenti imprese da più tempo o nel medesimo arco temporale considerato.
L’illiceità dell’appalto non è senza conseguenze. Oltre a sanzioni di carattere amministrativo, infatti, sul piano organizzativo, i lavoratori potranno ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro direttamente nei confronti dell’effettivo datore di lavoro, con salvezza delle retribuzioni e della contribuzione versata dal datore di lavoro fittizio come disposto dallo stesso articolo 29 del Dlgs 276/2003
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.201).

AGGIORNAMENTO ALL'08.08.2016

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Pubblicato il Catalogo degli apparecchi per accedere al Conto termico con procedura semplificata (ANCE di Bergamo, circolare 29.07.2016 n. 143).

EDILIZIA PRIVATA: Nota di Lettura LR 33/2015 “Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche” e DGR n. X/5001 30.03.2016 “Approvazione delle linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni in materia sismica" (ANCI Lombardia, nota 22.07.2016).
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ANCI Lombardia, circolare 28.07.2016 n. 119/2016 (link a www.anci.lombardia.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 32 dell'08.08.2016, "Definizione dei servizi, degli standard qualitativi e delle dotazioni minime obbligatorie degli ostelli per la gioventù, delle case e appartamenti per vacanze, delle foresterie lombarde, delle locande e dei bed and breakfast e requisiti strutturali ed igienico-sanitari dei rifugi alpinistici ed escursionistici in attuazione dell’art. 37 della legge regionale 01.10.2015, n. 27 (Politiche regionali in materia di turismo e attrattività del territorio lombardo)" (regolamento regionale 05.08.2016 n. 7).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 05.08.2016 "Realizzazione degli interventi di bonifica ai sensi dell’art. 250 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 – Programmazione economico-finanziaria 2016/2017 (1°provvedimento)" (deliberazione G.R. 02.08.2016 n. 5523).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24.06.2016, n. 113, recante misure finanziarie urgenti per gli enti territoriali e il territorio - Nota di lettura sulle norme di interesse dei Comuni (ANCI-IFEL, 05.08.2016).
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(Atto Senato n. 2495).

EDILIZIA PRIVATA: Segnalazione certificata di inizio attività - SCIA D.LGS. 30.06.2016 N. 126 - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, agosto 2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: La nuova disciplina della Conferenza di servizi - D.LGS. 30.06.2016 N. 127 - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, luglio 2016).

INCARICHI PROGETTUALI: Progettazione, il nuovo DM parametri non prevede l'obbligatorietà per le Pa.
Per le pubbliche amministrazioni l'uso dei nuovi parametri rimane facoltativo. Fondazione Inarcassa: “Si crea così un conflitto tra il decreto ministeriale e le linee guida dell’Anac” (...continua) (29.07.2016 - link a www.casaeclima.com).

INCARICHI PROGETTUALI: DAL CNI UN VADEMECUM PER I SERVIZI DI INGEGNERIA E ARCHITETTURA.
Il Consiglio Nazionale degli Ingegneri ha aggiornato il documento relativo all’affidamento dei contratti pubblici attinenti i Sia. Messo a disposizione anche un software che consente il calcolo dei corrispettivi e l’elaborazione della documentazione prevista (27.07.2016).
L’AFFIDAMENTO DEI CONTRATTI PUBBLICI ATTINENTI AI SERVIZI DI INGEGNERIA E ARCHITETTURA ALLA LUCE DEL NUOVO QUADRO NORMATIVO IN MATERIA DI CONTRATTI PUBBLICI: D.LGS. 50/2016 E LINEE GUIDA ANAC.

APPALTI: M. A. Sandulli, Nuovi limiti alla tutela giurisdizionale in materia di contratti pubblici (27.07.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Considerazioni generali: nuovo Codice dei contratti, certezza delle regole e conseguenze della loro violazione. 1.1 Segue: il ruolo della dottrina e le linee guida dell’ANAC. 2. Le nuove regole del contenzioso. 2.1. Premessa. L’ambito di applicazione. 2.2. Le novità di carattere generale: l’eliminazione dello standstill procedimentale per i contratti sotto soglia. 2.3. Segue: I nuovi limiti della tutela cautelare. 2.4. I nuovi limiti di tutela contro gli atti di ammissione alle procedure di gara.

EDILIZIA PRIVATASlide Convegno: "La nuova legge regionale 33/2015 e la nuova zonazione sismica" tenutosi il 04.05.2016 presso l'Ufficio Territoriale Regionale di Brescia:
-1- l.r. 12.10.2015 n. 33 - Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche
-2- La zonazione sismica e l’aggiornamento delle zone sismiche in Regione Lombardia
-3- Delibera Giunta Regionale 30.03.2016 - n. X/5001 - «Approvazione delle linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni in materia sismica»
-4- D.G.R. n. 5001 del 30.03.2016 - Approvazione delle linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni in materia sismica (artt. 3, comma 1, e 13, comma 1, della l.r. 33/2015)
-5- Il sistema informativo integrato per la gestione delle pratiche sismiche
-6- Titoli abilitativi all’edificazione, costruzione di opere pubbliche e l.r. 33/2015

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: M. L. Maddalena, IL CONTRIBUTO DEI PRIVATI NELLA VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI E TUTELA DEL “VALORE CULTURALE” COME BENE IMMATERIALE (Gazzetta Amministrativa n. 3-4/2015).
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Il tema della valorizzazione dei beni culturali, e del concorso dei privati in essa, è divenuto cruciale negli ultimi tempi, anche a causa della riduzione delle risorse economiche e di mezzi destinati al patrimonio culturale, cosicché l’apporto dei privati e dei loro contributi, sia sul piano economico che delle idee, è divenuto essenziale.

APPALTI SERVIZI: R. Fragale, IN HOUSE E ATTIVITA’ PREVALENTE: IL CONSIGLIO DI STATO SOLLEVA DUE QUESITI ALLA CORTE DI GIUSTIZIA (Gazzetta Amministrativa n. 3-4/2015).
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Con l’ordinanza del 20.10.2015 n. 4793, il Consiglio di Stato ha sollevato alla Corte di Giustizia due questioni pregiudiziali sul requisito dell’attività prevalente. La prima riguarda gli affidamenti disposti da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci. La seconda, invece, gli affidamenti nei confronti di enti soci, disposti prima del perfezionamento del requisito del controllo analogo.

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Gai, L’ACCESSO AGLI ATTI RELATIVI AI RAPPORTI DI DIRITTO PRIVATO (Gazzetta Amministrativa n. 3-4/2015).
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Il diritto di accesso agli atti dei gestori di servizio pubblico è riservato soltanto agli utenti del servizio?
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Sommario: 1. Inquadramento normativo: l’accesso agli atti dei soggetti di diritto privato. 2. La recente evoluzione giurisprudenziale e la rimessione all’Adunanza Plenaria.

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Turco, LA RIFORMA MADIA SUL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO (Gazzetta Amministrativa n. 3-4/2015).
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La l. 07.08.2015, n. 124 recante le Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche.
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Sommario: 1. La Riforma Madia. Introduzione. 2. La Conferenza dei servizi. 3. Silenzio-assenso. 4. Autotutela e termine ragionevole. 4A. Efficacia ed esecutività del provvedimento.

APPALTI: S. Napolitano, LA TEORIA DEL “SUBAPPALTO NECESSARIO”: IL RECENTE DIBATTITO ALLA LUCE DEI DIVERSI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI (Gazzetta Amministrativa n. 3-4/2015).
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Giunge all’attenzione dell’Adunanza Plenaria, la questione relativa all’indicazione del nominativo dei subappaltatori in sede di offerta da parte dei concorrenti di una gara di appalto, i quali abbiano dichiarato di voler subappaltare parte delle prestazioni oggetto dell’affidamento, per le quali non risultino in possesso della richiesta qualificazione.
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Sommario: 1. La normativa di riferimento in materia di subappaltabilità. 2. Il contrasto giurisprudenziale. 3. L’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria.

EDILIZIA PRIVATA: F. R. Marcacci Balestrazzi, LA V.I.A. E L’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA IN TEMA DI IMPIANTI DA FONTI RINNOVABILI: DUE NORME A CONFRONTO, ALLA LUCE DEL RECENTE INTERVENTO DEL TAR PUGLIA (Gazzetta Amministrativa n. 3-4/2015).
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In tema di “autorizzazione unica” agli impianti da fonti rinnovabili (ex art. 12, d.lgs. n. 387/2003), il via libera alla Valutazione di impatto ambientale (Via) non comprende l’autorizzazione paesaggistica: quest’ultima - salvo leggi regionali di coordinamento - è sempre atto autonomo a tutela dei beni culturali.
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Sommario: 1. Brevi cenni sulla V.I.A.. 2. Brevi cenni sull’autorizzazione paesaggistica. 3. Un ibrido: l’autorizzazione unica agli impianti da fonti rinnovabili ex art. 12, d.lgs. n. 387/2003. 4. Zone vincolate e impianti per fonti rinnovabili. 5. Impianti da fonti rinnovabili e tutela del paesaggio: le oscillazioni della giurisprudenza amministrativa. 6. Intervento chiarificatore del giudice amministrativo in tema di autorizzazione unica agli impianti da fonte rinnovabile.

INCARICHI PROFESSIONALI: P. Cerbo, L’affidamento dei “servizi legali” fra giurisprudenza nazionale e nuova direttiva appalti (Urbanistica e appalti n. 12/2015).

EDILIZIA PRIVATA: B. Graziosi, Appunti sulla demolizione edilizia “abdicativa” (Urbanistica e appalti n. 11/2015).

EDILIZIA PRIVATA: A. Scarcella, Nuovi volumi e ristrutturazione edilizia: necessario il PdC (Urbanistica e appalti n. 11/2015).

EDILIZIA PRIVATA: L. De Pauli, Polizza fideiussoria a garanzia degli oneri di urbanizzazione e giurisdizione del G.A. (Urbanistica e appalti n. 11/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. R. Masera, La VAS per la zonizzazione acustica (Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: E Boscolo, L’inammissibilità dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria: riaffermazione del principio e questioni sempre aperte (Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: V. Gastaldo, La natura e l’onere di motivazione delle sanzioni pecuniarie in materia edilizia (Urbanistica e appalti n. 11/2013).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Modalità di presentazione delle proposte di deliberazione da parte dei consiglieri comunali.
La disciplina sulle modalità di presentazione e discussione delle proposte di deliberazione dei consiglieri da sottoporre al consiglio comunale è rimessa al regolamento sul funzionamento del consiglio.
Il Consigliere comunale chiede un parere in merito alla procedura da seguire per la presentazione di una proposta di deliberazione da sottoporre al consiglio comunale. Più in particolare, desidera sapere se un consigliere possa presentare direttamente in consiglio comunale una proposta di deliberazione il cui allegato 'ha già completato l'iter nella commissione competente.'
[1]
In via preliminare, si osserva che, ai sensi dell'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, la disciplina sulle modalità di presentazione e discussione delle proposte di deliberazione da sottoporre al consiglio comunale è rimessa al regolamento sul funzionamento del consiglio.
L'articolo 23 del regolamento consiliare comunale, rubricato 'Iniziativa delle proposte dei consiglieri comunali' nel prevedere il diritto di iniziativa dei consiglieri su ogni argomento di competenza del consiglio comunale detta la procedura da seguire per la presentazione delle proposte di deliberazione. A tal fine, è previsto che la proposta di deliberazione sia inviata al presidente del consiglio il quale procederà, in conformità alle disposizioni regolamentari, al suo inoltro al segretario generale e, successivamente, se l'istruttoria precedentemente instaurata su tale proposta si è conclusa favorevolmente, alla commissione consiliare competente (articolo 23, commi 2 e 4).
Una deroga a tale procedura è prevista dal medesimo articolo 23, al comma 5, il quale recita: 'La procedura di cui ai commi precedenti non è necessaria qualora la proposta si configuri quale atto di indirizzo al sindaco e alla giunta rispetto all'esercizio delle loro funzioni, comprese le nomine, le designazioni presso enti, aziende ed istituzioni, nonché l'ordinamento degli uffici e dei servizi'.
Atteso che la fattispecie descritta pare non rientrare nella deroga di cui all'articolo 23, comma 5, del regolamento consiliare, si ritiene che la proposta di deliberazione in riferimento debba essere effettuata con le modalità indicate al comma 2 del medesimo articolo ovverosia mediante il suo invio al presidente del consiglio.
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[1] Si riportano testualmente le parole utilizzate nel quesito (05.08.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Riduzione del canone di locazione passiva. Immobili ad uso istituzionale.
Trattando delle previsioni di riduzione del canone di locazione passiva, di cui all'art. 3 del D.L. 95/2012 conv. in L. 135/2012, la Corte dei conti, chiamata a stabilire che cosa debba intendersi per 'immobili istituzionali', dopo aver premesso di poter fornire solo «indicazioni di carattere generale che andranno poi calate nella realtà comunale», ha affermato che «Gli immobili destinati ad uso istituzionale sono tutti quelli adibiti allo svolgimento di funzioni, servizi o attività gestite dall'amministrazione per far fronte alle proprie finalità, quali determinate dalla legge e dallo statuto», precisando che «In generale, quindi, occorre valutare se l'immobile sia destinato all'esercizio delle funzioni istituzionali dell'ente e sarà cura del Comune individuare specificamente a quali immobili riferire la disposizione in oggetto».
Il Comune, che intende rinnovare un contratto di locazione passiva concernente un edificio concesso in uso ad alcune associazioni presenti sul territorio e adibito a sedi sociali, ritiene che al contratto medesimo debba trovare applicazione la riduzione del canone prevista, per gli immobili 'a uso istituzionale', dall'articolo 3, comma 4
[1], del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, sul presupposto che 'l'utilizzo dei locali a favore delle associazioni è espressione della più ampia funzione amministrativa relativa all'associazionismo, di cui l'ente locale è titolare'.
Poiché il locatore eccepisce che l'utilizzo dell'immobile non sarebbe finalizzato all'espletamento di funzioni istituzionali, il Comune chiede di conoscere se la propria diversa interpretazione sia condivisibile.
Sulla questione volta a stabilire che cosa debba intendersi per 'immobili istituzionali' si segnala l'intervento della Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Toscana
[2] la quale, dopo aver premesso che «sul punto non possono che essere fornite indicazioni di carattere generale che andranno poi calate nella realtà comunale», ha affermato che «Gli immobili destinati ad uso istituzionale sono tutti quelli adibiti allo svolgimento di funzioni, servizi o attività gestite dall'amministrazione per far fronte alle proprie finalità, quali determinate dalla legge e dallo statuto; tali, a titolo esemplificativo, quelli dove si trovano la sede degli uffici, delle aziende o delle scuole comunali».
La Corte ha, inoltre, chiarito che «In generale, quindi, occorre valutare se l'immobile sia destinato all'esercizio delle funzioni istituzionali dell'ente e sarà cura del Comune individuare specificamente a quali immobili riferire la disposizione in oggetto».
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[1] Si riporta, di seguito, il testo del comma 4, come modificato, da ultimo, dall'articolo 24, comma 4, lett. a), del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89:
«Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data dell'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle seguenti condizioni:
a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d'uso, per il periodo di durata del contratto di locazione;
b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione di cui dell'articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ove già definiti, nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture previste dalle norme vigenti.».
Si rammenta che il comma 7 del medesimo articolo, nel testo sostituito dall'articolo 24, comma 4, lett. b), del D.L. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 89/2014, ha disposto l'estensione delle previsioni contenute nei commi da 4 a 6 a tutte le altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in quanto compatibili.
[2] V. deliberazione n. 265/2014/PAR del 17.12.2014
(01.08.2016 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Richiesta di accesso agli atti.
Qualora l'accesso ai documenti amministrativi sia motivato dalla cura o dalla difesa di propri interessi giuridici, esso tendenzialmente prevale sull'esigenza di riservatezza del terzo.
Il Comune chiede un parere in merito ad una richiesta di accesso ad una pratica edilizia avanzata da uno studio legale, nell'ambito di una pratica di divorzio dallo stesso seguita.
Di seguito si riepilogano i fatti verificatisi al fine di fornire un quadro il più possibile completo della vicenda: nell'ambito di una causa legale di divorzio l'avvocato di parte avanza richiesta di accesso agli atti inerenti l'edificazione di un immobile dell'altro coniuge al fine di estrarre copia della documentazione ritenuta utile per dimostrare quali siano le caratteristiche dello stesso; il Comune, previa notifica al controinteressato il quale nega il proprio consenso all'accesso,
[1] intendendo respingere la richiesta di ostensione ai documenti richiesti, comunica all'istante, quale motivo che osta all'accoglimento della domanda, il fatto che la stessa 'non indica puntualmente i documenti da visionare per la dimostrazione di un interesse diretto, concreto ed attuale collegato ad una situazione che sia giuridicamente tutelata e connessa al documento oggetto di richiesta di accesso'. [2]
In conseguenza di un tanto, il richiedente l'accesso rinnova la propria istanza specificando che la stessa ha ad oggetto 'copia della planimetria dell'abitazione e pertinenze; certificato dell'attestazione energetica e di quei documenti correlati che possano certificare che la casa rientra nella categoria delle case Clima Golg A'. Quale motivazione viene addotta la necessità di dimostrare le capacità reddituali dell'obbligato al fine della determinazione della corresponsione di un assegno di divorzio.
[3]
In via generale, si fa presente che compito dello scrivente Ufficio è fornire una consulenza giuridico- amministrativa su questioni di interesse per gli enti locali, non potendo invece lo scrivente sostituirsi in scelte di esclusiva competenza dell'amministrazione che gestisce un determinato procedimento amministrativo.
Di conseguenza, di seguito, si forniscono una serie di considerazioni generali che possano orientare l'Ente nella decisione da assumere in relazione alla fattispecie concreta.
L'articolo 22, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241, precisa, alla lettera a), che per 'diritto di accesso' si intende il «diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi» e, alla lettera b), che per 'interessati' debbano intendersi «tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso».
In via generale, si rileva la sussistenza della legittimazione alla richiesta all'accesso agli atti da parte del legale il quale agisce in nome e per conto del soggetto 'interessato'. In tal senso si è espressa la giurisprudenza la quale ha, al riguardo, affermato che: 'L'avvocato che sia già munito di mandato difensivo conferito con le forme d'uso (quali munito di "ogni più ampio potere di legge") così come può senz'altro rivolgere al Giudice adìto un'istanza istruttoria diretta all'acquisizione di documenti, allo stesso modo deve reputarsi abilitato a perseguire tale risultato presentando direttamente, nella propria qualità, un'istanza di accesso all'Amministrazione controparte del giudizio già pendente (artt. 22 ss. legge n. 241/1990). Questo sempre che si tratti dell'acquisizione di atti che siano obiettivamente connessi all'oggetto dell'impugnativa precedentemente proposta'
[4].
La giurisprudenza, nel declinare i requisiti che la richiesta di accesso deve possedere ai fini del suo accoglimento ha affermato che: 'La nuova configurazione del diritto di accesso garantisce il diritto di coloro che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata a determinati documenti, di prenderne visione ed estrarne copia, nel rispetto del delicato equilibrio tra le esigenze di tutela di situazioni giuridicamente tutelate e la riservatezza dei terzi.
Tuttavia, la domanda di accesso, per essere accoglibile, deve rispondere ad una serie di requisiti, e, segnatamente: a) deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e non può essere generica; b) deve riferirsi a specifici documenti e non può comportare la necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta; c) deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore; d) non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell'operato della p.a., ovvero del gestore di pubblico servizio nei cui confronti l'accesso viene esercitato; e) non può essere un mezzo per compiere una indagine o un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici, perché in tal caso nella domanda di accesso è assente un diretto collegamento con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti
'.
[5]
Ai fini della fattispecie in esame rileva, altresì, il disposto di cui all'articolo 24, comma 7, della legge 241/1990 il quale recita: 'Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.'
La giurisprudenza, al riguardo, ha in diverse occasioni affermato che 'qualora l'accesso ai documenti amministrativi sia motivato dalla cura o dalla difesa di propri interessi giuridici, esso tendenzialmente prevale sull'esigenza di riservatezza del terzo'
[6] e che 'il problema del bilanciamento delle contrapposte esigenze delle parti interessate, difesa e cura dei propri interessi, da parte del richiedente, da un lato, e diritto di riservatezza dei terzi, dall'altro, è stato quindi risolto dal legislatore dando prevalenza al diritto di accesso, ai sensi dell'art. 24, comma 7, cit., ferme le limitazioni per i dati sensibili e giudiziari' [7].
In altri termini, 'nei rapporti tra riservatezza e accesso agli atti della P.A. la prima in generale recede quando l'accesso sia funzionale alla tutela ed alla difesa di propri interessi giuridici'
[8]. Nello stesso senso si è espressa anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi la quale, nella seduta del 15.03.2011, ha affermato che: «La norma di salvaguardia di cui all'art. 24, comma 7, l. n. 241/1990 secondo la quale 'Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici' è stata riconosciuta di generale applicazione dalla giurisprudenza del giudice amministrativo e di questa Commissione».
Quanto, poi, all'aspetto concernente il potere/dovere del Comune di sindacare l'idoneità della motivazione avanzata dal richiedente l'accesso ai fini dell'ottenimento della documentazione richiesta si osserva che la giurisprudenza ha affermato che 'allorquando venga presentata una richiesta di accesso documentale motivata con riferimento alla necessità di tutelare i propri interessi nelle competenti sedi giudiziarie o amministrative, anche nel caso in cui non sia certo che, successivamente, tali atti siano effettivamente utilizzabili in tali sedi, l'accesso non può essere denegato. Infatti, l'apprezzamento sull'utilità o meno della documentazione richiesta in ostensione non spetta né all'Amministrazione destinataria dell'istanza ostensiva né allo stesso giudice amministrativo adito con l'actio ad exibendum, ma soltanto all'interessato che agisce per la tutela dell'interesse giuridicamente rilevante, sotteso alla pregressa domanda di accesso'.
[9]
Con riferimento a richieste di accesso agli atti volte all'ostensione di documenti ritenuti necessari per la determinazione dell'assegno di mantenimento in cause di separazione e divorzio la giurisprudenza ha affermato che: 'Il diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di riservatezza di terzi, ove sia esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e concerna un documento amministrativo indispensabile a tali fini, la cui esigenza non possa essere altrimenti soddisfatta: di conseguenza, in capo al coniuge separato sussiste, nei confronti dell'Agenzia delle Entrate, il diritto di accesso alle dichiarazioni dei redditi del convivente more uxorio dell'altro coniuge. Tale istanza di accesso documentale, infatti, essendo rivolta a dimostrare la capacità di reddito del convivente del coniuge separato, è funzionale ad esonerare il richiedente dall'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento. Né il diritto di accesso viene meno per aver il medesimo richiedente sollecitato il giudice civile ad acquisire le dichiarazioni dei redditi in questione, atteso che l'art. 210 c.p.c.
[10] prevede la facoltà dell'ordine istruttorio e non anche la sua obbligatorietà'. [11]
In altra similare occasione il giudice amministrativo ha affermato che: 'E' illegittimo il diniego di accesso agli atti relativi agli stipendi o emolumenti corrisposti dall'amministrazione, adottato a fronte dell'istanza avanzata al dichiarato fine di conoscere i dati sull'attività lavorativa svolta e sulla retribuzione percepita dal coniuge, dati che il ricorrente assume utili per ottenere una determinazione giudiziale a sé più favorevole nella determinazione della misura dell'assegno di mantenimento, sia nel procedimento di modifica delle condizioni economiche della separazione, sia nell'ambito dell'instaurando procedimento di divorzio, considerato che la documentazione richiesta non coinvolge la conoscenza di dati sensibili. [...]'.
[12]
Sul tema dell'ostensibilità di documenti relativi a beni del coniuge nei confronti del quale è in corso una procedura giudiziale di divorzio si è espressa anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi
[13] affermando che: 'Prevale il diritto all'accesso dell'istante, che ha richiesto, al fine di dimostrare le fonti di reddito della moglie nell'ambito della procedura giudiziale di divorzio, all'Agenzia delle Entrate di prendere visione del contratto di locazione stipulato dal coniuge. Sussistono tutti gli elementi (interesse diretto attuale e concreto e necessità di tutela giudiziaria della propria posizione giuridica) per poter accedere ai documenti richiesti all'Agenzia delle Entrate, non solo sotto forma di visione ma anche di estrazione di copia. Del resto, costituisce giurisprudenza consolidata quella secondo la quale il diritto di accesso ai documenti amministrativi è prevalente rispetto alla tutela della privacy del terzo, quando sussista l'esigenza dell'accedente di curare e difendere i propri interessi giuridici, come del resto prevede l'art. 24, comma 7, l. n. 241/1990. Tuttavia, l'amministrazione investita della richiesta di accesso -trattandosi di documenti concernenti una terza persona controinteressata- dovrà avere cura di notificare tale istanza a quest'ultima, avvertendola che un'eventuale sua opposizione dovrà comunque recedere a fronte del diritto dell'istante'.
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[1] Le motivazioni addotte dal controinteressato consistono nel fatto che la richiesta di accesso sarebbe, da un lato 'generica senza l'indicazione degli atti di cui vi è necessità di visione ed estrazione copia' e, dall'altro che i documenti richiesti sarebbero 'inconferenti e inammissibili nel processo di divorzio indicato'.
[2] Ai sensi dell'articolo 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241: 'Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. [...]'
[3] Ai sensi dell'articolo 10-bis della legge 241/1990 entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, l'istante ha il diritto di presentare per iscritto le sue osservazioni, eventualmente corredate da documenti.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 30.09.2013, n. 4839.
[5] Cons. Giust. Amm. Sic., sentenza del 10.06.2011, n. 420. Nello stesso senso si veda, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 04.04.2011, n. 2118. Quanto alla giurisprudenza di primo grado, tra le altre, si vedano, TAR Piemonte, Torino, sez. I, sentenza del 18.02.2016, n. 207 e TAR Sicilia, Palermo, sez. II, sentenza del 02.12.2013, n. 2330.
[6] TAR Puglia, Bari, sez. III, sentenza del 05.05.2016, n. 584.
[7] Cons. Giust. Amm. Sic., sentenza del 09.06.2014, n. 310.
[8] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 28.07.2015, n. 3741.
[9] TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, sentenze del 22.09.2015, n. 1022 e del 23.02.2016, n. 174. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del 15.04.2015, n. 2107 ove si afferma che: 'Nel caso in cui l'accesso ai documenti amministrativi sia invocato per la cura o per la difesa degli interessi giuridici dell'istante, ex art. 24, comma 7, L. n. 241/1990, il Giudice dell'accesso non può che compiere una valutazione in astratto della necessità difensiva evidenziata dall'istante medesimo e della pertinenza del documento, non potendo giungere sino a sindacare la concreta utilità della documentazione ai fini della vittoriosa conclusione di quel giudizio'. Anche il TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, nella sentenza del 10.02.2016, ha rilevato che: 'In sede di giudizio sull'accesso agli atti della P.A. il Giudice non deve verificare la fondatezza della posizione soggettiva alla cui cura è finalizzata la denegata istanza di ostensione, ma deve limitarsi ad appurare che questa non sia manifestamente pretestuosa o del tutto scollegata ai documenti richiesti'.
[10] L'articolo 210 c.p.c., rubricato 'Ordine di esibizione alla parte o al terzo', recita: 'Negli stessi limiti entro i quali può essere ordinata a norma dell'articolo 118 l'ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo, il giudice istruttore, su istanza di parte può ordinare all'altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l'acquisizione al processo.
Nell'ordinare l'esibizione, il giudice dà i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo e il modo dell'esibizione.
Se l'esibizione importa una spesa, questa deve essere in ogni caso anticipata dalla parte che ha proposta l'istanza di esibizione'.
[11] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 20.09.2012, n. 5047. Nello stesso senso si veda, anche, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 14.05.2014, n. 2472 ove si afferma che: 'Il coniuge ha diritto, anche in pendenza del giudizio di separazione o divorzio, di accedere alla documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale dell'altro coniuge, detenuta dall'amministrazione finanziaria, al fine di difendere i propri interessi giuridici attuali e concreti. [...]'.
[12] TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, sentenza del 18.09.2006, n. 1711.
[13] Parere espresso dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi nella seduta del 31.05.2011
(29.07.2016 -
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NEWS

LAVORI PUBBLICI: I costi di prevenzione «pesano» negli appalti. Scompare il piano sostitutivo nei cantieri con unica impresa.
Sicurezza. Con il Codice la congruità diventa elemento di valutazione delle offerte.

L’appaltatore non dovrà più mettere a punto il piano sostitutivo di sicurezza se nel cantiere manca il coordinatore per la sicurezza. Il nuovo Codice appalti (Dlgs 50/2016) ha cancellato quest’onere, previsto per i cantieri in cui è presente una sola impresa dal 19 aprile scorso.
Il decreto apporta una serie di modifiche e pone alcune conferme rispetto agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro.
Resta in primo luogo invariato il rapporto di specialità tra Codice appalti e Testo unico sicurezza (Dlgs 81/2008): il secondo trova applicazione anche per gli appalti pubblici, solo in mancanza di una specifica norma del Dlgs 50/2016, che invece se presente prevale.
Le garanzie
Sempre in tema di sicurezza sul lavoro, l’articolo 80, comma 5, lettera a), dispone che la stazione appaltante «possa dimostrare con qualunque mezzo adeguato la presenza di gravi infrazioni debitamente accertate delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro». Una norma ampia che sembrerebbe far rientrare nel proprio raggio d’azione tutte le ipotesi di infrazioni accertate, anche se non in forma definitiva quali cause di esclusione dalla gara.
L’altra novità introdotta dal decreto è nella verifica delle offerte anomale. Ora l’amministrazione deve valutare anche la congruità degli oneri aziendali per la sicurezza sul lavoro, che vanno indicati nell’offerta. Al comma 6 si precisa che: «non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge. Non sono, altresì, ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza».
Per essere ammessi alle procedure di appalto, il concorrente deve garantire alla Pa committente di aver adottato tutte le misure possibili per adeguarsi alla normativa, scoraggiarne la violazione ed evitare così infortuni (con le ipotesi di omicidio colposo a seguito della violazione delle norme antinfortunistiche, ex articolo 589 del Codice penale, lesioni gravissime occorse nelle medesime circostanze, ex articolo 590 del Codice penale, o omicidio colposo in attività a maggior rischio, ex articolo 55 del Dlgs 50/2016).
Uno strumento efficace in tal senso può essere l’adozione del modello di organizzazione e gestione della sicurezza.
In relazione poi al riparto di responsabilità tra appaltatore-subappaltante e subappaltatore, il comma 14 dell’articolo 105, prevede espressamente che l’affidatario, ossia l’originario appaltatore che ha subappaltato i lavori, corrisponda «i costi della sicurezza e della manodopera, relativi alle prestazioni affidate in subappalto, alle imprese subappaltatrici senza alcun ribasso», e la stazione appaltante, sentiti il direttore dei lavori, il coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione o il direttore dell’esecuzione, deve verificare l’effettiva applicazione della disposizione. Infine, nell’ultimo periodo del comma 14 si precisa che l’affidatario è solidalmente responsabile con il subappaltatore per tutti gli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro che gravano su quest’ultimo, in quanto effettivo esecutore dei lavori.
Gli oneri cancellati
Altra novità del Codice appalti è rappresentata, come anticipato, dalla cancellazione dell’obbligo, in capo all’appaltatore, di redigere il Pss (Piano sostitutivo di sicurezza), in assenza di coordinatori per la sicurezza per uno specifico cantiere. Così il ruolo di coordinatore per l’esecuzione torna ad essere affidato al direttore dei lavori, salvo che questi non sia privo dei requisiti professionali necessari.
L’articolo 101 comma 2, invero, precisa che per le attività di coordinamento, direzione e controllo tecnico-contabile dell’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, la Pa committente, prima di aprire le procedure di affidamento, deve individuare un direttore dei lavori, il quale potrà essere coadiuvato da direttori operativi e ispettori di cantiere. Il direttore dei lavori deve anche verificare periodicamente il possesso e la regolarità, da parte dell’esecutore e subappaltatore, della documentazione prevista dalla normativa vigente in relazione agli obblighi verso i dipendenti e segnalare le violazioni di cui all’articolo 105 in materia di sicurezza sul lavoro al responsabile del procedimento.
L’articolo 30 del Codice appalti prevede la possibilità di subordinare il principio di economicità all’esigenza di tutelare la salute dei lavoratori.
Infine l’articolo 95 introduce un nuovo criterio di aggiudicazione dell’appalto: non in base al massimo ribasso (ancora applicato in casi residuali), bensì all’offerta economicamente più vantaggiosa, facendo peraltro riferimento -tra gli altri- al possesso da parte dell’impresa delle attestazioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, come la Oshas 18001. Una novità che costituisce meccanismo premiale per le aziende che investono sulla gestione della sicurezza sul lavoro
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAMiniRaee, via al ritiro gratuito. Distributori tenuti anche a informativa e deposito. Le novità previste dal decreto 31.05.2016 n. 121 pubblicato in G.U. del 7 luglio.
Operative dal 22.07.2016 le regole che consentiranno ai distributori di nuove «Aee» (apparecchiature elettriche ed elettroniche) di effettuare il ritiro uno contro zero dei Raee inferiori a 25 cm (come smartphone, macchine fotografiche digitali, laptop) provenienti dai nuclei domestici in modo semplificato (ossia in deroga all'ordinario regime autorizzativo sui rifiuti previsto dal dlgs 152/2006), dettate dal decreto del ministero dell'ambiente del 31.05.2016 n. 121 (in G.U. del 07/07/2016, n. 157).
Il contesto normativo. Le nuove norme, che interessano sia i distributori obbligati al suddetto ritiro, che quelli che vorranno adottarlo in via facoltativa (tra cui i venditori online di Aee), arrivano in attuazione del comma 3, articolo 11, del dlgs 49/2014, e si affiancano (con rilevanti punti di contatto) a quelle sul ritiro gratuito degli altri Raee domestici all'atto dell'acquisto di equivalenti beni (c.d. uno contro uno), che restano disciplinati dai commi 1 e 2, medesimo articolo, e dal dm 65/2010.
Quali Raee. Oggetto della disciplina semplificativa sono i tecno-rifiuti che soddisfano entrambe le seguenti condizioni:
- sono di «piccolissime dimensioni» (ossia con dimensioni esterne inferiori ai 25 cm, ex art. 4, dlgs 49/2014);
- provengono da nuclei domestici. Tale ultima disposizione appare tuttavia dover esser letta alla luce dell'articolo 4, comma 1, lettera l), del dlgs 49/2014, in base al quale sono considerati domestici anche i cd. «Raee dual use», ossia quelli «di origine commerciale, industriale, istituzionale e di altro tipo, analoghi, per natura e quantità, a quelli originati dai nuclei domestici».
I soggetti interessati. Duplice il novero dei soggetti interessati dall'esordiente regime semplificato:
- in quanto obbligati dal dlgs 49/2014 al «one on zero», i distributori di Aee con superficie di vendita al dettaglio degli stessi di almeno 400 mq;
- in quanto ammessi in via facoltativa al medesimo ritiro, sia i distributori con superficie di vendita inferiore che i venditori a distanza, per i quali ultimi è prevista la possibilità di avvalersi dei luoghi di ritiro e deposito allestiti dai distributori con punti di vendita fisici.
Il ritiro: informazione al pubblico. I distributori dovranno preventivamente informare gli utilizzatori sulla gratuità del ritiro senza obbligo di equivalente acquisto secondo le modalità previste dal neo dm 121/2016.
Luoghi e modalità. Il ritiro dovrà essere effettuato all'interno dei locali del punto vendita o in luoghi di pertinenza situati in prossimità.
I distributori potranno però rifiutarlo in caso di rischio di contaminazione per il personale, evidente mancanza dei componenti essenziali o presenza di rifiuti diversi dai Raee (con l'obbligo per i detentori di conferirli direttamente ai centri di raccolta).
Tecnicamente, il ritiro dovrà avvenire tramite contenitori messi a disposizione degli utilizzatori finali presso gli esercizi commerciali e rispondenti a precise caratteristiche tecniche, assicurandone lo svuotamento periodico con successivo raggruppamento dei Raee nel luogo di «deposito preliminare» a successivi raccolta e trasporto.
Gli oneri documentali previsti in tale fase coincidono con:
- compilazione, all'atto dello svuotamento, del modulo previsto dall'allegato 1 al nuovo decreto;
- sua numerazione progressiva, sottoscrizione, conservazione ed allegazione in copia al documento ex allegato B per il successivo trasporto a centri/impianti di trattamento.
Deposito preliminare alla raccolta. Il successivo deposito dei Raee provenienti dai suddetti luoghi di ritiro dovrà rispettare precise caratteristiche tecniche di sicurezza ambientale ed umana. La durata massima è dettata dalla tempistica sul prelievo dei Raee al fine del loro trasporto verso i centri/impianti, che dovrà avvenire: ogni sei mesi o, in alternativa, quando il quantitativo raggiunge mille kg, e comunque entro l'anno di deposito. I distributori che già effettuano il ritiro «uno contro uno» di Raee potranno utilizzare relativi luoghi di deposito e regole tecniche (ex art. 11, comma 2, del dlgs 49/2014) anche per i piccolissimi tecno-rifiuti ricevuti «uno contro zero», godendo così dei più larghi margini quantitativi di stoccaggio.
Trasporto a centri/impianti di trattamento. Dovrà essere effettuato da distributori o terzi che agiscono in loro nome previa iscrizione nella categoria 3-bis (o altra che la comprenda, ex Dm 120/2014) dell'Albo gestori ambientali ed esclusivamente dal luogo di raggruppamento (il deposito sopra citato) ad uno dei centri o impianti ex articolo 7 del nuovo decreto.
Il trasporto dovrà essere accompagnato dal documento ex allegato 2 al nuovo Dm, come integrato dai moduli di movimentazione interna ex allegato 1. Il documento di trasporto così completato dovrà essere tenuto in maniera simile al tradizionale formulario di trasporto rifiuti, dunque con la sua redazione in triplice esemplare, numerazione, sottoscrizione e conservazione da parte dei soggetti coinvolti (compreso l'impianto di destinazione); ma con la peculiarità di avere valore sostitutivo della tenuta dei registri di carico/scarico ex dlgs 152/2006.
Resteranno comunque affidate agli accordi di programma stipulati ex articolo 16, dlgs 49/2014 le peculiari modalità di ritiro e raccolta dei Raee detenuti dai distributori analogamente a quanto già accade per l'uno contro uno (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, nullaosta a due vie. Previste l'esenzione o l'autorizzazione semplificata. Via libera della Conferenza unificata al dpr che regola i piccoli interventi paesaggistici.
Parere positivo dalla Conferenza unificata per la «velocizzazione» delle procedure di piccoli interventi paesaggistici senza autorizzazione. Saranno esentati dall'autorizzazione paesaggistica gli interventi volti al miglioramento dell'efficienza energetica, all'adeguamento antisismico, all'eliminazione delle barriere architettoniche (compresa l'installazione di un servoscala o ascensore esterno) che non comportino elementi emergenti dalla sagoma.

La Conferenza unificata del 07.07.2016 ha dato il via libera definitivo al dpr del ministero beni culturali recante il «regolamento relativo all'individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura semplificata».
Opere libere da nullaosta paesaggistico. Il regolamento definisce nell'allegato «A» gli interventi e le opere non soggetti ad autorizzazione paesaggistica, tra i quali rientrano:
• opere interne che non alternano l'aspetto esteriore degli edifici, comunque denominate ai fini urbanistico-edilizi, anche ove comportanti mutamento della destinazione d'uso;
• interventi sui prospetti o sulle coperture degli edifici, purché eseguiti nel rispetto degli eventuali piani del colore vigenti nel comune e delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti;
• interventi che abbiano finalità di consolidamento statico degli edifici, compresi quelli per il miglioramento o adeguamento antisismico che non comportano modifiche alle caratteristiche morfo-tipologiche, ai materiali di finitura o rivestimento, o alla volumetria e all'altezza dell'edificio;
• interventi indispensabili per l'eliminazione delle barriere architettoniche, quali la realizzazione di rampe esterne per il superamento di dislivelli non superiori a 60 cm, l'installazione di apparecchi servoscala esterni, nonché la realizzazione, negli spazi pertinenziali interni non visibili dallo spazio pubblico, di ascensori esterni o di altri manufatti simili;
• installazioni di impianti tecnologici esterni a servizio dei singoli edifici non soggette ad alcun titolo edilizio (condizionatori e impianti di climatizzazione, caldaie, parabole, antenne);
• installazione di pannelli solari (temici o fotovoltaici);
• installazione di micro generatori eolici di altezza complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro, in edifici non vincolati;
• installazione di dispositivi di sicurezza anticaduta sulle coperture degli edifici.
Autorizzazione semplificata. Nell'allegato «B» del dpr in commento viene invece regolamentata l'autorizzazione semplificata e rapida per 42 tipologie di interventi considerati a impatto lieve sul territorio. Tra questi rientrano:
• incrementi di volume non superiori al 10% della volumetria della costruzione originaria e comunque non superiori a 100 m3, eseguiti nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti;
• realizzazione o modifica di aperture esterne o finestre a tetto riguardanti beni vincolati purché eseguiti nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti;
• modifiche delle facciate mediante realizzazione o riconfigurazione di aperture esterne o di manufatti quali cornicioni, ringhiere, parapetti;
• interventi sulle finiture esterne, con rifacimento di intonaci, tinteggiature o rivestimenti esterni, modificativi di quelli preesistenti;
• realizzazione, modifica o chiusura di balconi o terrazze;
• realizzazione o modifica sostanziale di scale esterne;
• interventi di adeguamento antisismico o finalizzati al contenimento dei consumi energetici, comportanti innovazioni nelle caratteristiche morfo-tipologiche, ovvero nei materiali di finitura o di rivestimenti preesistenti;
• interventi necessari per il superamento di barriere architettoniche che comportano la realizzazione di rampe per superamento di dislivelli superiori a 60 cm, o la realizzazione di ascensori esterni o di manufatti che alterino la sagoma dell'edificio e siano visibili dallo spazio pubblico.
Saranno assoggettate a procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica le istanze di rinnovo rilasciate ai sensi dell'articolo 146 del codice dei beni culturali, scadute da non più di un anno e relative a interventi in tutto o in parte non eseguiti, a condizione che il progetto risulti conforme a quanto precedentemente autorizzato e alle specifiche prescrizioni di tutela eventualmente sopravvenute.
Qualora con l'istanza di rinnovo vengono chieste anche variazioni progettuali che comportano interventi di non lieve entità, si applicherà il procedimento autorizzatorio ordinario.
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Compilazione telematica e con relazione.
L'istanza di autorizzazione paesaggistica relativa agli interventi di lieve entità è compilata in maniera telematica, secondo il modello semplificato (allegato «C» al regolamento in commento) ed è corredata da una relazione paesaggistica semplificata , redatta da un tecnico abilitato.
Nella relazione sono indicati: i contenuti precettivi della disciplina paesaggistica vigente nell'area; è descritto lo stato attuale dell'area interessata dall'intervento; è attestata la conformità del progetto alle specifiche prescrizioni d'uso dei beni paesaggistici, se esistenti; è descritta la compatibilità del progetto stesso con i valori paesaggistici che qualificano il contesto di riferimento e sono altresì indicate le eventuali misure paesaggistiche previste.
L'istanza di autorizzazione paesaggistica e la relativa documentazione sono presentate allo sportello unico dell'edilizia. All'istanza andrà allegata la seguente documentazione: il permesso di costruire (articolo 20, dpr 06.06.2001 n. 380); la comunicazione di inizio attività o la segnalazione certificata di inizio attività. L'istanza di autorizzazione paesaggistica può essere richiesta preventivamente oppure contestualmente alla segnalazione o alla comunicazione.
In tal caso, l'interessato, può dare inizio ai lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello unico per l'edilizia dell'avvenuta acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica ovvero dell'esito positivo della conferenza di servizi; la dichiarazione di inizio attività. In tali casi, ove l'autorizzazione non sia allegata all'istanza, il termine di 30 giorni per l'inizio dei lavori, decorre dal rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ovvero dall'esito positivo della conferenza dei servizi.
Il procedimento autorizzatorio semplificato si conclude con un provvedimento, adottato entro il termine tassativo di sessanta giorni dal ricevimento della domanda da parte dell'amministrazione procedente, che è immediatamente comunicato al richiedente. L'amministrazione procedente, ricevuta la domanda, verifica preliminarmente se l'intervento non rientri nelle fattispecie escluse dall'autorizzazione paesaggistica di cui all'allegato «A» del regolamento in commento, oppure se sia assoggettato al regime autorizzatorio ordinario (articolo 146, codice beni culturali).
In tali casi comunica al richiedente, rispettivamente che l'intervento non è soggetto ad autorizzazione o richiede le necessarie integrazioni documentali, ai fini del rilascio dell'autorizzazione ordinaria (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Insegna della farmacia sorvegliata speciale.
Le insegne delle farmacie possono anche essere di colore vivace ma quando sono posizionate vicino ai segnali e ai semafori non devono creare interferenze e devono essere posizionate parallelamente al senso di marcia dei veicoli.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 26.05.2016 n. 3139 di prot..
Un comune ha richiesto chiarimenti circa il corretto posizionamento di insegne luminose in prossimità di impianti semaforici, stante la particolare tecnologia a led che rende molto brillanti le nuove insegne farmaceutiche. A parere del ministero oltre all'art. 23 del codice della strada occorre prestare particolare attenzione agli artt. 50 e 51 del regolamento stradale.
In particolare l'art. 23 del codice specifica che qualsiasi insegna non deve arrecare disturbo alla circolazione ovvero deve essere evitata qualsiasi interferenza con la guida. Stante l'obbligatorietà dell'insegna farmaceutica da un lato e la necessità di salvaguardare la sicurezza della circolazione stradale dall'altro, il comune ha richiesto istruzioni di dettaglio.
L'art. 50 del regolamento del codice stradale, specifica la nota centrale, prevede che dentro ai centri abitati trovi applicazione il locale regolamento anche in riferimento all'apposizione delle insegne farmaceutiche. In buona sostanza è nella piena facoltà del comune adottare provvedimenti che limitino l'intensità e la direzionalità dei fasci luminosi emessi dall'impianto pubblicitario.
Per garantire la sicurezza della circolazione il primo cittadino può sempre imporre ulteriori restrizioni all'esercente anche in considerazione della resa cromatica degli impianti. Ma prima di tutto andrà verificata la corrispondenza delle installazioni con le previsioni del codice stradale ed in particolare con le distanze minime previste dall'art. 51 del regolamento stradale.
Queste distanze, prosegue il parere ministeriale, potranno essere derogate solo nel caso in cui l'insegna di esercizio sia collocata parallelamente al senso di marcia e in aderenza a un fabbricato esistente. In pratica quindi se l'insegna è perpendicolare al traffico non potrà essere posizionata a ridosso di un incrocio o di un semaforo (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

EDILIZIA PRIVATAVia l’agibilità, arriva la segnalazione del tecnico. Commercio ed edilizia. In approvazione il correttivo al decreto 126/2016 sulla Scia: la responsabilità si sposta sul professionista.
Secondo atto in materia di semplificazione, con uno schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri e inviato l’11 luglio alla Conferenza unificata (Atto del Governo n. 322 - Schema di decreto legislativo recante individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), silenzio-assenso e comunicazione e definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti), per poi passare alle Commissioni delle Camere e giungere al traguardo in prevedibili 90 giorni. Si tratta di una voluminosa serie di precisazioni rispetto al pur recentissimo decreto legislativo 126, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 162 del 13 luglio scorso, che ha chiarito il meccanismo della Scia.
Lo schema del nuovo decreto legislativo specifica, nei settori del commercio e dell’edilizia, i casi nei quali è necessaria un’autorizzazione espressa, quelli cui basta una comunicazione preventiva, e anche i procedimenti per i quali non vi è necessità di alcuna comunicazione ad uffici pubblici.
Nel recente decreto legislativo 126/2016 sono contenute precisazioni sulla Scia, segnalazione che consente l’inizio immediato dell’attività (anche se sono necessari pareri o attestazioni di altre amministrazioni). In particolare, una Scia imperfetta genera l’onere per l’amministrazione di sospendere, entro 60 giorni, l’attività (nel frattempo iniziata).
Insieme alla sospensione dell’attività, l’ amministrazione deve prescrivere le misure necessarie per rettificare le irregolarità, rettifica da effettuare –a bocce ferme, quindi con attività sospesa- entro un termine non inferiore a 30 giorni. Proprio l’esistenza di tempi ristretti per controllare le Scia, le autorizzazioni e le stesse attività “libere” rendono opportuna un’ampia tabella, appunto allegata allo schema di decreto legislativo, dove si elencano circa 200 attività commerciali ed edili, con i relativi titoli necessari ed i riferimenti normativi.
Per esempio, che vuole vendere prodotti mediante apparecchi automatici in un esercizio di vicinato di tipo alimentare, saprà con precisione di dover effettuare una “Scia unica” a norma dei decreti legislativi 59 del 2010 (articolo 65, comma 1) e 114 del 1998 (articoli 7, 8, 9 e 17, comma 4), con i relativi tempi di reazione da parte del Comune.
Poiché lo Stato, in questo modo, individua un «livello essenziale» delle prestazioni erogate da pubbliche amministrazioni, le norme del futuro decreto legislativo prevarranno su eventuali più severe norme regionali e locali, in caso di conflitto. Tale prevalenza si estenderà anche ad un glossario unico nazionale, cioè un vocabolario delle definizioni e dei titoli giuridici necessari per ogni intervento.
Due importanti modifiche riguardano l’attuazione delle singole attività edilizia e la pianificazione nei centri storici. Sarà sostituito il certificato di agibilità delle residenze, atto finale dell’attività edilizia, che si prevede di sostituire con una segnalazione a firma del tecnico abilitato, con evidente snellimento di procedure e traslazione di responsabilità.
Nei centri storici, con ampliamento delle previsioni del codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004), i comuni potranno vietare o subordinare ad autorizzazioni (anche contenenti prescrizioni) le attività commerciali ritenute non compatibili con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale (lavanderie, kebab e simili). In tal modo si legittima l’ente locale adottare provvedimenti di pianificazione locale per esigenze culturali, storico artistiche e paesaggistiche, superando le vigenti norme difficilmente consentono di raggiungere lo stesso risultato basandosi su esigenze di ordine pubblico
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiù pubblico nelle partecipate. Assunzioni trasparenti e controlli alla Corte dei conti. Cosa prevede il decreto delegato approvato in secondo esame preliminare dal Governo.
Le regole pubblicistiche invadono la disciplina di regolazione delle società partecipate, con specifico riferimento ai controlli molto pervasivi della Corte dei conti e alla gestione del personale.

Il decreto legislativo di riforma delle partecipate (Atto del Governo n. 297) che attua la legge delega 124/2015, approvato in secondo esame preliminare dal consiglio dei ministri di giovedì scorso (si veda ItaliaOggi di ieri), intensifica notevolmente le finalità pubblicistiche delle società, così da attrarle sotto molti aspetti verso una regolazione di stampo pubblico estremamente capillare.
Costituzione e scioglimento. La rispondenza a regole e fini di natura pubblica deve emergere in modo molto chiaro sin dalla scelta di avvalersi delle società o di dismetterle. Al di là della forma societaria o del modello di partecipazione (totale, di controllo o in house) alle amministrazioni pubbliche è fatto divieto di costituire, direttamente o indirettamente, società che non abbiano per oggetto attività di produzione di beni e servizi strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, oppure di acquisirne o mantenerne partecipazioni.
Vi deve essere una perfetta simmetria, dunque, tra persecuzione dei fini pubblici di competenza dell'ente, e dello strumento societario. In sostanza, non ci si può avvalere delle società per funzioni e competenze non strettamente attinenti la sfera dei poteri assegnata alle p.a. Il processo di dismissione, dunque, dovrà considerare oltre ai fattori di economicità della gestione ed elementi strutturali come il fatturato, anche il pieno rispetto di queste norme vincolanti.
Corte dei conti. Il controllo sul rispetto dei vincoli finalizzati alla costituzione o acquisizione di partecipazioni delle società sarà molto pervasivo e resterà in capo alla magistratura contabile, come già previsto nella formulazione iniziale della riforma, che aveva destato alcune perplessità poi superate.
Pertanto, prima di adottare l'atto deliberativo finalizzato a costituire o acquisire quote di una società da parte dell'organo competente (il consiglio per gli enti locali) occorrerà inviarne lo schema alla Corte dei conti, che potrà formulare rilievi sul rispetto dei vincoli visti prima e sulla coerenza con il piano di razionalizzazione, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla ricezione dell'atto deliberativo. La Sezione Corte dei conti può chiedere, per una sola volta, chiarimenti all'amministrazione pubblica interessata, con conseguente interruzione del suddetto termine
Forte dell'esperienza piuttosto negativa degli ultimi anni, nei quali le sezioni della Corte dei conti hanno mostrato poco coordinamento nell'esprimere pareri nell'ambito delle attività di controllo collaborativo sugli enti locali, il legislatore stabilisce che la magistratura contabile si organizzi per «assicurare uniformità di valutazione, anche in termini di analisi economica, in ambito nazionale».
Nelle more della determinazione di queste misure organizzative, per gli enti locali saranno le sezioni regionali di controllo competenti a ricevere gli schemi di atti costitutivi. La Corte dei conti conserverà anche la giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori per danno erariale.
Personale. Le società partecipate per assumere personale dovranno comportarsi sostanzialmente come fossero amministrazioni pubbliche.
La riforma rafforza i principi già vigenti. Per un verso la gestione del rapporto di lavoro avrà un impronta prevalentemente privatistica: infatti dai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi”.
Per altro verso, il reclutamento avverrà con criteri e strumenti pubblicistici. Infatti le società partecipate dovranno stabilire, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei princìpi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei princìpi di cui all'articolo 35, comma 3, del dlgs 165/2001. In mancanza, dovranno applicare direttamente quest'ultima norma e tutte le assunzioni effettuate in violazione d queste disposizioni saranno radicalmente nulle.
Se le amministrazioni intenderanno reinternalizzare servizi prima assegnati a società partecipate, dovranno riassorbire il personale già dipendente a tempo indeterminato transitato alle dipendenze della società interessata dal processo di reinternalizzazione, attraverso la mobilità disciplinata dall'articolo 30 del dlgs 165/2001 (che, quindi, viene esteso in via straordinaria anche a soggetti di diritto privato), sempre, però, nel rispetto dei vincoli in materia di finanza pubblica e contenimento delle spese di personale. Inoltre, il riassorbimento potrà avvenire solo nei limiti dei posti vacanti nelle dotazioni organiche dell'amministrazione interessata e nell'ambito delle facoltà assunzionali disponibili (articolo ItaliaOggi del 16.07.2016).

VARIRevisione della patente, chi circola rischia grosso.
Il destinatario di un provvedimento di revisione della patente rischia grosso se circola con la licenza sospesa di validità. Soprattutto se si tratta di una misura di carattere sanzionatorio derivante per esempio dall'accertamento della guida alterata.
Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno con la circolare 01.06.2016 n. 300/a/3953/16/109/55 di prot..
La circolazione con patente sospesa è densa di incognite anche in relazione alle diverse tipologie di sanzioni previste dal codice stradale negli articoli 128 e 218. Per questo motivo il Viminale ha diramato interessanti chiarimenti agli organi di polizia.
Innanzitutto l'art. 126-bis/6° Cds tratta dell'ipotesi di revisione della patente in conseguenza dell'azzeramento del punteggio disponibile. Spetta alla motorizzazione civile notificare all'interessato l'azzeramento di punteggio con invito a sottoporsi alla revisione delle licenza entro 30 giorni. Solo se l'utente stradale non ottempera all'obbligo la motorizzazione disporrà, con un ulteriore provvedimento, la sospensione della patente a tempo indeterminato. E per chi non rispetterà l'inibizione scatteranno guai grossi. Specifica infatti la nota che in tal caso si applicherà la sanzione prevista dall'art. 128/2° Cds ovvero una multa di 164 euro con la revoca definitiva della licenza.
La stessa sanzione, prosegue la circolare, si applicherà alle ulteriori diverse ipotesi di sospensione della patente a tempo indeterminato contemplate dall'art. 128 Cds ovvero conseguenti alla revisione della licenza disposta per motivi tecnici o di salute dell'autista. Attenzione però, in questo caso la circolazione sarà vietata subito, senza necessità di un ulteriore avviso. Per quanto riguarda le sanzioni attenzione alla durata della sospensione.
Se la misura è stata disposta a tempo indeterminato ricade tutto nella previsione appena esaminata. Diversamente, se la sospensione della patente viene disposta a tempo determinato, a titolo di sanzione accessoria, il trasgressore ricadrà nella diversa ipotesi sanzionatoria prevista dall'art. 218/6° Cds. Ovvero almeno 2 mila euro di sanzione con revoca della patente e fermo del veicolo (articolo ItaliaOggi del 16.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti con presidenti esterni. Il principio di nomina anche per le gare sotto soglia. Le linee guida dell'Autorità anticorruzione trasmesse a Camere e Consiglio di stato.
Nomina esterna del presidente delle commissioni di gara anche per appalti sotto soglia; eliminato il vaglio di ordini professionali e università sui requisiti degli aspiranti commissari di gara; anche i commissari interni alla stazione appaltante dovranno iscriversi all'albo.

Sono queste alcune delle novità delle linee guida varate dall'Autorità nazionale anticorruzione e trasmesse a Consiglio di stato e alle commissioni parlamentari per i pareri (non previsti dal codice dei contratti e non vincolanti).
Uno dei nodi sciolti riguarda la disciplina per gli appalti al di sotto delle soglie europee (5,2 milioni per i lavori, 209.000 per servizi e forniture) per la quale l'Authority guidata da Raffaele Cantone prevede che almeno il presidente della commissione giudicatrice sia esterno e nominato attingendo, con sorteggio, all'albo che l'Autorità gestirà.
L' indicazione dell'Anac riguarda in particolare i casi «in cui la commissione deve esprimere valutazioni di tipo discrezionale».
In merito alle funzioni della commissione giudicatrice, in coerenza con quanto esplicitato nelle linee guida sulle funzioni del responsabile unico del procedimento, l'Anac precisa che «la valutazione di congruità è svolta in collaborazione tra commissione giudicatrice e Rup».
Al fine di contenere i costi l'Anac suggerisce di dare preferenza alla nomina di tre commissari esterni invece di cinque.
Potranno iscriversi professionisti la cui attività è assoggettata all'obbligo di iscrizione in ordini o collegi; professionisti la cui attività non è assoggettata all'obbligo di iscrizione in ordini o collegi; dipendenti pubblici, i professori ordinari, i professori associati, i ricercatori delle Università italiane e posizioni assimilate.
Per quanto riguarda i dipendenti pubblici l'Autorità ha ritenuto che l'art. 77 del Codice si applichi anche a loro e, pertanto, i dipendenti pubblici da nominare commissari interni devono dichiarare e dimostrare di possedere gli stessi requisiti di moralità e compatibilità richiesti ai soggetti esterni per l'accesso all'albo Anac, oltre all'autorizzazione della propria amministrazione.
Sarà poi un apposito regolamento dell'Autorità a prevedere le modalità di selezione e i flussi informativi necessari per garantire il funzionamento dell'Albo .
Un punto delicato riguardava l'affidamento a Ordini professionali e a università della funzione di verifica dei requisiti dei commissari da iscrivere all'albo Anac. Su questo punto è emerso evidente il contrasto fra la posizione espresse, nella consultazione pubblica, dai consigli nazionali e dagli ordini provinciali; la stessa Autorità ne dà conto nella relazione di accompagnamento che dà conto delle osservazioni «contrastanti» pervenute: da un lato la scelta iniziale di coinvolgere gli ordini era stata valutata positivamente soprattutto, da Ordini e i Collegi nazionali delle professioni tecniche, dall'altra «gli ordini provinciali hanno ritenuto troppo oneroso per loro il sistema delineato
».
Negative anche le amministrazioni e Consip. Il candidato-commissario effettuerà l'iscrizione direttamente accedendo al sito dell'Anac, compilando i campi obbligatori e caricando la documentazione richiesta (se professionista, una certificazione rilasciata, su domanda, dall'ordine, collegio, associazione professionale o se dipendente della p.a., dall'amministrazione di appartenenza).
Una sezione speciale dell'albo Anac sarà dedicata ai dipendenti di Invitalia, Consip e dei soggetti aggregatori regionali, nonché dei «professionisti che hanno prestato attività di consulenza per i medesimi soggetti per un periodo non inferiore ai due anni». I commissari avranno l'obbligo di stipulare una polizza assicurativa (articolo ItaliaOggi del 16.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATARocce da scavo, gestione snella. Iter veloce per evitare la qualificazione come rifiuti. Via libera definitivo del governo al dpr. Distacchi transfrontalieri, stop agli abusi.
Per le imprese gestione semplificata delle terre e rocce da scavo.

Giovedì sera il consiglio dei ministri, su proposta del presidente Matteo Renzi e del ministro dell'ambiente Gian Luca Galletti, ha approvato, in esame definitivo, un dpr che semplifica la disciplina di gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell'articolo 8 del dl 12.09.2014, n. 133, convertito, con modifiche, dalla legge 11.11.2014, n. 164.
Il provvedimento assorbe in un testo unico le numerose disposizioni oggi vigenti che disciplinano la gestione e l'utilizzo delle terre e rocce da scavo. Il decreto, spiega una nota di Palazzo Chigi, ha per oggetto: la gestione delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti provenienti da cantieri di piccole e grandi dimensioni; la disciplina del deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo; l'utilizzo nel sito di produzione delle terre e rocce da scavo escluse dalla disciplina dei rifiuti; la gestione delle terre e rocce da scavo nei siti oggetto di bonifica.
Tra le principali peculiarità del provvedimento: la semplificazione delle procedure e la fissazione di termini certi per concludere le stesse, anche con meccanismi in grado di superare eventuali situazioni di inerzia da parte degli uffici pubblici. Si evitano così i lunghi tempi di attesa da parte degli operatori per la preventiva approvazione del piano di utilizzo delle terre e rocce da parte delle autorità competenti; procedure più veloci per attestare che le terre e rocce da scavo soddisfano i requisiti stabiliti dalle norme europee e nazionali per essere qualificate come sottoprodotti e non come rifiuti; una definizione puntuale delle condizioni di utilizzo delle terre e rocce all'interno del sito oggetto di bonifica, con l'individuazione di procedure uniche per gli scavi e la caratterizzazione dei terreni generati dalle opere da realizzare nei siti oggetto di bonifica; il rafforzamento del sistema dei controlli.
Il decreto consente tra l'altro di recepire le richieste formali della Commissione europea ed evitare così che l'Eu-Pilot 5554/13/ENVI aperto su questo tema evolva in una procedura d'infrazione nei confronti dell'Italia.
Regolamento Imi. Il governo ha anche approvato in esame definitivo un decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15.05.2014, concernente l'applicazione della direttiva 96/71/CE che disciplina il distacco transfrontaliero (ovvero meccanismo in base al quale le imprese presenti nel territorio di uno stato membro prestano servizi tramite i propri lavoratori nel territorio di un altro stato membro) e modifica il regolamento (Ue) n. 1024/2012 relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno (regolamento Imi).
Obiettivi fondamentali della normativa sono: contrastare il fenomeno del distacco abusivo, attraverso cui si realizzano la violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori e pratiche di concorrenza sleale; agevolare la cooperazione tra gli Stati membri nell'accertamento dell'autenticità dei distacchi e nel perseguimento e nella repressione dei distacchi abusivi.
Prodotti alimentari più sicuri. Disco verde, in esame preliminare, a un decreto legislativo recante la disciplina sanzionatoria per la violazione di disposizioni di cui al regolamento (CE) n. 1935/2004 riguardante i materiali e gli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari e di cui al regolamento (CE) n .2023/2006 sulle buone pratiche di fabbricazione dei materiali e degli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari e per la violazione di misure specifiche per gruppi di materiali e oggetti.
Assistenza sanitaria transfrontaliera. Approvato un regolamento, da adottarsi mediante dpr, al fine di delineare le competenze tra Stato e Regioni, in particolare, per quanto riguarda la regolamentazione finanziaria dei flussi debitori e creditori generati dalla mobilità sanitaria internazionale.
L'intervento regolamentare si rende necessario tenuto conto che l'assistenza sanitaria da e per l'estero genera partite debitorie e creditorie che vengono, da un lato, trattate e regolate tra gli Stati coinvolti in base alle disposizioni comunitarie e internazionali, dall'altro, implica una necessaria collaborazione amministrativo-contabile tra il ministero della salute, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
Tale collaborazione si concretizza in procedure amministrative, nell'ambito delle quali i predetti enti territoriali si occupano, per mezzo delle Asl, della materiale erogazione delle prestazioni assistenziali agli assistiti di altro Stato e della conseguente fatturazione che comunicano al ministero della salute.
Quest'ultimo provvede ad esigere il pagamento dei crediti dovuti e, inoltre, provvede al rimborso dei debiti maturati nei confronti degli Stati esteri, mediante risorse stanziate su uno specifico capitolo di spesa del proprio bilancio.
Aree marittime. Disco verde, in esame preliminare, a un decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/89/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23.07.2014, che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo.
Nello specifico, il provvedimento mira a favorire la gestione di un ambito particolarmente complesso, quale è quello marittimo, sul quale insistono attività diversificate tra di loro. Gli obiettivi perseguiti con l'intervento normativo sono: creare maggiore coerenza tra le diverse attività che si svolgono in mare; sviluppare migliori strumenti regolamentari e trasversali (vigilanza marittima integrata, pianificazione dello spazio marittimo, gestione integrata delle zone costiere, creazione di una base di dati e conoscenze integrata in ambito marino, strategie marine regionali); evitare la duplicazione del lavoro tra le diverse autorità.
Il decreto prevede l'istituzione di un Tavolo interministeriale, che definisce le linee guida per la stesura dei piani di gestione dello spazio marittimo, individuando le aree marittime di riferimento, nonché quelle terrestri rilevanti per le interazioni terra-mare, e di un Comitato tecnico presso il ministero delle infrastrutture e dei trasporti con il compito di elaborare per ogni area marittima individuata, i piani di gestione dello spazio marittimo. I piani elaborati dal comitato tecnico sono poi sottoposti alla valutazione del Tavolo (articolo ItaliaOggi del 16.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATACantieri con meno vincoli. Terre e rocce. Il Dpr annulla l’obbligo di comunicazione per i trasporti.
Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri il Dpr che, con 31 articoli e 10 allegati, riforma la disciplina sulla gestione delle terre e rocce di scavo (Atto del Governo n. 279 - Schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo).
Il nuovo Dpr attua la delega regolamentare concessa dal Parlamento al Governo con l’articolo 8 del Dl 133/2014 (legge 164/2014) e riscrive integralmente, semplificandola, una disciplina articolata e complessa. Per i piani approvati prima dell’entrata in vigore del Dpr la disciplina abrogata è ultrattiva e si applicherà a tali piani e alle loro modifiche. Per i progetti in corso, le imprese avranno sei mesi di tempo per decidere se aderire alla nuova disciplina.
Il testo detta disposizioni comuni ma differenzia anche tra terre e rocce prodotte in cantieri di grandi e piccole dimensioni e terre e rocce prodotte in cantieri di grandi dimensioni non soggetti a Via e ad Aia. Non dimentica le norme su terre e rocce intese come rifiuti né quelle che, invece, sono escluse dalla disciplina dei rifiuti e le altre che provengono dai siti oggetto di bonifica.
Un vasto orizzonte regolamentare dove, oltre al fatto che le definizioni sono armonizzate e coerenti, meritano menzione i seguenti aspetti innovativi improntati anche alla semplificazione procedurale: tra le norme comuni, il deposito intermedio prima dell’utilizzo può essere effettuato anche in luogo diverso dal sito di produzione e da quello di destino purché siano rispettati i requisiti indicati all’articolo 5, comma 1 e il sito di deposito rientri nella stessa classe urbanistica del sito di produzione. Sul fronte dei grandi cantieri, viene meno la comunicazione all’autorità competente di ogni trasporto di terre e rocce intese come sottoprodotti.
La gestione e l’uso di terre e rocce come sottoprodotti non sono più subordinati alla previa approvazione del piano di utilizzo da parte dell’Autorità competente: decorsi 90 giorni dalla presentazione del piano, il proponente può avviare la gestione nel rispetto del piano di utilizzo. Non solo, il piano di utilizzo potrà essere prorogato di due anni mediante semplice comunicazione al Comune e all’Arpa. Per i cantieri piccoli e per quelli grandi non sottoposti a Via o ad Aia, basterà una semplice comunicazione per apportare modifiche sostanziali al piano di utilizzo o per prorogarlo.
Sul fronte dei piccoli cantieri, si riprende la sostanza dell’articolo 41-bis, Dl 69/2013 sull’uso come sottoprodotti di terre e rocce in quantità non superiore a 6.000 cubi destinate a recuperi, ripristini, rimodellamenti, riempimenti o altri usi sul suolo. A tal fine, il produttore deve dimostrare il non superamento dei valori delle concentrazioni soglia di contaminazione previsti per le bonifiche con riferimento alle caratteristiche delle matrici ambientali e alla destinazione urbanistica indicata nel piano di utilizzo.
Rispetto ad oggi, si aggiunge la possibilità di aggiornare la dichiarazione di utilizzo in presenza di variazioni delle condizioni previste per la sussistenza dei sottoprodotti. Per terre e rocce che restano rifiuti, il Dpr modifica i volume del deposito temporaneo innalzandolo a 4.000 metri cubi, di cui 800 se pericolose
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOAppalti, diplomi tecnici in pole. Chi ha fatto il liceo non può essere incaricato come Rup. Le linee guida Anac sul Responsabile unico mettono in difficoltà soprattutto i mini-enti.
Le linee guida dell'Anac sul Responsabile unico del procedimento (Rup) mettono in crisi organizzativamente molte amministrazioni locali.
Infatti, vengono esclusi radicalmente dalla possibilità di essere incaricati come Rup per forniture o servizi dipendenti che dispongano del diploma di qualsiasi liceo, perché l'Anac, per i contratti sotto la soglia di rilievo comunitario, impone un diploma rilasciato da un istituto tecnico.
Ciò limiterà in modo rilevante il numero dei soggetti incaricabili, innescando il problema della ricerca di personale in possesso del diploma tecnico presso strutture organizzative diverse da quella competente all'esecuzione della fornitura o del servizio, allo scopo di assegnare a dipendenti anche non appartenenti all'unità organizzativa responsabile la funzione di Rup. Con gli immaginabili problemi di carichi di lavoro, compatibilità e di accordare responsabili di servizi diversi.
Sfugge il perché di questa limitazione ai diplomi tecnici. Si pensi ai servizi sociali: non ha oggettivamente senso che essi siano affidati ad un Rup che disponga di un diploma tecnico industriale, invece che un diploma di liceo delle scienze umane.
Le Linee guida di Raffaele Cantone (si veda Italia-Oggi dell'08/07/2016) scontano il problema di dare per scontato che tutte le amministrazioni sono di grandi dimensioni e, quindi, capaci di distribuire molto il lavoro tra tanti dipendenti. Allo stesso modo, l'Anac indulge eccessivamente nella presupposizione che le attività concernenti gli appalti siano solo di matrice tecnica. Per altro, le Linee guida finiscono per invadere fin troppo sia il campo dell'autonomia organizzativa degli enti, sia quello della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, che è riservato alla legge dello stato (o delle regioni) ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione. Al di sopra della soglia comunitaria, sempre per forniture e servizi, l'Anac impone il possesso della laurea.
In questo caso, però, non si richiede una laurea specifica. Quindi, per ipotesi, un laureato in matematica potrebbe fare il Rup dei servizi sociali.
In effetti, il possesso della laurea potrà servire in parte a risolvere l'impasse degli incarichi di Rup nel sotto soglia: infatti, un Rup laureato, se può essere incaricato nel sopra soglia, può esserlo anche nel sotto soglia, sebbene la laurea non sia «tecnica». Certo, si tratta di un caos che poteva e doveva essere risparmiato. Nel caso di appalti, a prescindere dal valore, caratterizzati da particolare complessità o dalla necessità di specifiche competenze, però, occorrerà un titolo di studio adeguato alle materie oggetto dell'affidamento.
Non esiste, nel dlgs 50/2016, una definizione della «particolare complessità» di forniture e servizi. Sarà, allora, nell'autonomia degli enti stabilire, caso per caso, se il contratto sia di particolare complessità e/o se richieda il possesso del titolo di studio nella specifica materia.
La specifica competenza tecnica potrebbe permettere anche nel sotto soglia di utilizzare diplomi non tecnici, come nel caso esemplificato prima dei servizi sociali attribuiti ad un Rup diplomato in scienze umane, con specifico indirizzo di studio di carattere sociale.
Altro problema che pongono le Linee guida riguarda l'incompatibilità. Secondo l'Anac il ruolo di Rup è incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice, ai sensi dell'articolo 77, comma 4, del dlgs 50/2016. Si tratta di un altro problema operativo non di poco conto: la previsione non appare di facile applicazione nei comuni, nei quali dirigenti e responsabili di servizio spesso coincidono col Rup. Ma, ai sensi dell'articolo 107, comma 3, del dlgs 267/2000, essi debbono necessariamente far parte della commissione di gara (si tratta di quella vera e propria, richiesta per l'offerta economicamente più vantaggiosa).
La recente sentenza del Consiglio di stato, sez. V, 23.06.2016, n. 2812 va in questa direzione, sebbene riferita all'articolo 84, commi 3 e 4, del dlgs 163/2006, oggi aboliti.
Tali norme specificavano con chiarezza che presidente della commissione deve essere un dirigente. Ma, a tale compito, specificamente per gli enti locali, continua ad assolvere il citato articolo 107, comma 3, lettera b), che assegna ai dirigenti la responsabilità delle procedure di gara, dalle quali difficilmente si può eliminare il compito specifico di presiedere la commissione di gara
(articolo ItaliaOggi del 15.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pa, intesa sui comparti: da 11 a 4. Statali. L’accordo Aran-sindacati snellisce il round negoziale: sufficienti 8 rinnovi e non 38.
Aran e sindacati hanno firmato ieri in via definitiva l’accordo quadro nazionale che ridefinisce i nuovi comparti e le nuove aree di contrattazione del pubblico impiego (aprendo così la strada ai rinnovi negoziali).
Si scende da undici a quattro: «Funzioni centrali», nel quale confluiscono ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici e altri enti; «Funzioni locali», che conserva il perimetro dell’attuale comparto Regioni-autonomie locali; «Istruzione e ricerca», che quindi si uniscono assieme all’università, e «Sanità», che non muta sostanzialmente la sua fisionomia.
Il comparto «Funzioni centrali» conterà circa 247mila occupati; «Funzioni locali», 457mila, «Sanità», 531mila, «Istruzione e ricerca», sarà il più numeroso con oltre 1,1 milioni di lavoratori.
In stretto collegamento con i quattro comparti, l’intesa siglata ieri ridefinisce anche le aree dirigenziali, vale a dire gli ambiti sui quali saranno negoziati gli specifici accordi riguardanti la dirigenza pubblica. L’area delle «Funzioni centrali» comprende i dirigenti delle amministrazioni che confluiscono nel nuovo comparto, a cui si aggiungono i professionisti e i medici degli enti pubblici non economici, per una consistenza complessiva di circa 6.800 occupati.
L’area «Funzioni locali» avrà una consistenza di 15.300 dirigenti (oltre agli enti locali, vi rientrano i dirigenti amministrativi, tecnici e professionali degli enti e delle aziende del comparto Sanità e i segretari comunali e provinciali). Si scende a 7.700 nell’area «Istruzione e ricerca», e si sale a 126.800 occupati nell’area della «Sanità», all’interno del quale sono collocati i dirigenti degli enti ed aziende del comparto «Sanità», ad eccezione dei dirigenti amministrativi, tecnici e professionali.
Per l’Aran il nuovo accordo comporterà una notevole semplificazione dell’attività negoziale: «In passato, per gli 11 comparti e le 8 aree dirigenziali, era necessario concludere 38 accordi ogni 4 anni. Oggi gli accordi da fare scendono a 8 per un triennio contrattuale». Per accompagnare la transizione al nuovo assetto contrattuale, i sindacati avranno un breve periodo di tempo per realizzare processi di aggregazione o fusione
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIn condominio contabilizzatori con correttivi. Risparmio energetico. Il nuovo decreto.
Arriva oggi al Consiglio dei ministri il decreto legislativo di integrazione al Dlgs 102/2014, che va a modificare profondamente la normativa vigente sul risparmio energetico ma, soprattutto, appare in una versione che tiene conto del parere espresso dalla commissione Industria del Senato (si veda «Il Sole 24 Ore» dell’08.03.2016).
Tra le modifiche, vi sono quelle attese in materia di termoregolazione e contabilizzazione la cui scadenza resta confermata al 31.12.2016.
L’articolo 9, comma 5, è suddiviso in lettere dalla a) alla d). Le prime tre riguardano gli interventi impiantistici in materia di contabilizzazione e termoregolazione in riferimento al riscaldamento, al raffreddamento e all’acqua calda sanitaria. Alla lettera a) viene precisato che l’installazione di un contatore di fornitura in corrispondenza del punto di fornitura del condominio, è attività riservata agli esercenti l’attività di misura. La lettera b) prevede l’obbligo per il condominio e gli edifici polifunzionali di installare sotto-contatori per individuare l’effettivo consumo di ciascuna unità immobiliare. Qualora questo non sia possibile o vi sia inefficienza in termini di costi e sproporzione rispetto ai risparmi energetici potenziali, in base alla lettera c) è possibile installare le valvole termostatiche e i ripartitori su ciascun corpo scaldante.
Sembra quindi confermato che la lettera b) trovi applicazione nei sistemi a distribuzione a zona, mentre la lettera c) nei sistemi di distribuzione verticale. In tal senso già erano state interpretate le due lettere prima della imminente modifica. In caso di mancata installazione di quanto previsto nelle lettere b) e c) la sanzione da 500 a 2.500 euro sarà irrogata al proprietario dell’unità immobiliare. È stata invece cancellata la sanzione per le imprese che, richieste dal cliente, non avessero provveduto a installare i sistemi di cui alla lettera b).
Importanti modifiche sono state apportate al criterio di ripartizione della spesa del riscaldamento di cui alla lettera d), per la cui violazione la sanzione da 500 a 2.500 euro resta confermata in capo al condominio.
Per la ripartizione viene sempre fatto obbligatorio riferimento all’applicazione della norma Uni 10200. In questi giorni l’Uni sta provvedendo ad apportare modifiche alla norma stessa che, si presume, possano vedere la luce entro la fine del 2016.
Sono sempre previste due voci: la quota a consumo e la quota fissa. La prima dovrà sempre tenere in considerazione gli effettivi prelievi volontari di energia termica. Sul punto, quindi, non vi sono sostanziali modifiche. Le novità invece riguardano il caso in cui l’applicazione della 10200 non sia possibile, oppure vi siano, tramite apposita relazione tecnica asseverata, comprovate differenze di fabbisogno termico per metro quadro tra le unità immobiliari superiori al 50 per cento. In tale caso è possibile suddividere l’importo complessivo attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari di energia termica. Gli importi rimanenti possono essere ripartiti, a titolo esemplificativo e non esaustivo, secondo i millesimi, i metri quadri o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate.
Tali criteri di ripartizione sono facoltativi se alla data di entrata in vigore del nuovo Dlgs si sia già provveduto all’installazione dei dispositivi e alla relativa suddivisione delle spese. In ogni caso, per la prima stagione termica successiva all’installazione dei dispositivi, la suddivisione potrà essere fatta in base ai soli millesimi di proprietà
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIConsip apre alla manutenzione. Online i primi bandi e la guida per l’accesso alla piattaforma Mepa.
Appalti. La Spa del Tesoro amplia l'attività alle offerte fino a un milione con gara elettronica.

Consip entra nel mercato dei lavori di manutenzione. La centrale di acquisti della Pa, controllata dal ministero dell’Economia, utilizza la facoltà prevista dalla legge di Stabilità 2016 e lancia i primi sette bandi (per categorie) che consentiranno alle imprese di accreditarsi presso il Mepa (mercato elettronico della Pa) per le piccole gare di manutenzioni ordinarie e straordinarie.
Per la prima volta le Pa, Comuni in testa, potranno negoziare sulla piattaforma Mef/Consip non solo acquisti di beni o servizi, ma anche appalti di lavori di manutenzione per importi fino a un milione di euro.
Il mercato potenziale è gigantesco: le manutenzioni sotto il miliardo valgono circa 2,5 miliardi di euro.
La novità è prevista dal comma 504 della legge di Stabilità 2016 (legge n. 508 del 2015), dove si legge: «Gli strumenti di acquisto e di negoziazione messi a disposizione da Consip spa possono avere ad oggetto anche attività di manutenzione».
Sulla base di questa previsione, la centrale acquisti ha attivato sette bandi, che daranno la possibilità di svolgere le gare relative alle manutenzioni tramite la sua piattaforma (www.acquistinretepa.it). I bandi sono attivi dal primo luglio ma solo ieri la Consip ha diffuso le istruzioni per l’accesso delle imprese di costruzione alla piattaforma telematica.
Le categorie coinvolte sono quelle delle manutenzioni edili, stradali, ferroviarie ed aeree, idrauliche, marittime e reti gas, impianti, ambiente e territorio, beni del patrimonio culturale e opere specializzate. Dal perimetro di Consip sono escluse tutte le gare che rientrano nell’ambito di competenza del manutentore unico dell'Agenzia del Demanio. L’Agenzia, infatti, ha tra le sue prerogative le manutenzioni ordinarie e straordinarie sugli immobili dello Stato.
In pratica, sotto l’ombrello della centrale di acquisti del Mef rientrano le amministrazioni non statali (soprattutto i Comuni), il ministero della Difesa, quello dei Beni culturali, gli Affari esteri, gli organi costituzionali (come il Quirinale, il Parlamento, la Corte costituzionale), Palazzo Chigi, le università e gli enti di ricerca. Tre bandi su quattro in questo settore, comunque, riguardano enti locali.
I bandi sono essenzialmente rivolti alle imprese appaltatrici. Le amministrazioni, infatti, sono già quasi tutte accreditate presso il mercato elettronico.
Per accreditarsi, le imprese dovranno presentare tutta la documentazione richiesta nei bandi e saranno sottoposte alla valutazione di una apposita commissione. Ciascuna impresa potrà scegliere se abilitarsi solo per l’esecuzione di lavori di importo inferiore a 150mila euro o anche per eseguire lavori di importo pari o superiore a 150mila euro, tramite l'attestazione Soa.
Le amministrazioni potranno negoziare lavori per importi fino a un milione di euro, invitando il numero minimo di fornitori prescritti dalla normativa (per importi fino a 500mila euro almeno cinque, per importi compresi fra 500mila e un milione di euro almeno dieci o 15 nel caso di beni tutelati)
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Rating di impresa, tempi più lunghi per le linee guida. Contratti pubblici. Anac: serve un approfondimento.
Tempi più lunghi per il rating di impresa chiamato a valutare le perfomance dei costruttori impegnati nei cantieri pubblici. L’Autorità Anticorruzione chiede più tempo per vagliare al meglio il meccanismo introdotto dal nuovo codice degli appalti per selezionare le imprese, premiando quelle più capaci di rispettare i tempi e costi di realizzazione delle opere e con la più bassa vocazione al contenzioso.
Le linee guida per mettere in piedi il rating sono già state messe in consultazione dall’Anac. Ma proprio l’alto numero di proposte arrivate dal mercato suggerisce un approfondimento supplementare prima del via libera finale. «Ci sono diversi problemi da sciogliere -ha riconosciuto il presidente dell’Autorità Raffaele Cantone, partecipando a un convegno organizzato dal Consorzio Integra e l’Università Luiss a Roma-. E che ci faranno riflettere a lungo».
Anche «sforando il termine previsto dal codice appalti», che scadrebbe il prossimo 18 luglio. Perché, ha aggiunto Cantone, «l’obiettivo è realizzare un meccanismo capace di valutare le performance guadagnate sul campo dalle imprese e non mettere in piedi l’ennesima operazione di valutazione formale di requisiti cartacei, che non fanno alcuna selezione».
Il presidente dell’Anac ha anche accennato ai nodi più rilevanti da sciogliere prime di licenziare le linee guida. Tra questi il raccordo tra il rating di legalità gestito dall’Antitrust e il rating di impresa che sarà rilasciato dall’Anac. «Dobbiamo capire in che modo può diventare un criterio davvero dirimente», ha detto Cantone. Il secondo punto riguarda la «necessità di valorizzare l’esperienza maturata dalle imprese». «Non possiamo ripartire da zero -ha spiegato il numero uno dell’Anac- mettendo sullo stesso piano imprese che lavorano da 40 anni, con le nuove realtà».
Già oggi, invece, l’Autorità potrebbe chiudere il lavoro sui requisiti dei commissari di gara esterni alle amministrazioni, portando a sette le linee guida di indirizzo a Pa e imprese, già varate in attuazione del Dlgs 50/2016.
Cantone non ha nascosto che l’attuazione del codice sta «creando qualche criticità» in questa fase di avvio «con un calo oggettivo degli appalti, che però viene da più lontano, riguarda più i servizi che i lavori e in parte va considerato fisiologico». Un calo che preoccupa molto le imprese.
«Questo codice ha importanti e apprezzabili elementi di novità -ha detto il presidente del Consorzio Integra Vincenzo Onorato- ma la sua brusca entrata in vigore ha generato come effetto immediato il blocco totale delle gare», già in un momento di acuta recessione. Tra gli ostacoli Onorato ha ricordato «l’obbligo di bandire le gare solo su progetto esecutivo» e l’irrigidimento delle regole sul subappalto. «Per gestire questa fase -ha concluso- sarebbe importante poter contare su una norma transitoria»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTISulle linee guida Anac dubbi di costituzionalità.
Dubbi di costituzionalità sulle linee guida vincolanti Anac quando incidono su diritti e doveri degli operatori; gli effetti negativi sul mercato degli appalti dipendono dalla mancanza di disciplina transitoria del nuovo codice e dall'assenza di fondi per fare i progetti esecutivi.

E quanto emerso, ieri, nel corso del Convegno organizzato dal Consorzio Integra (consorzio di cooperative aderente a Ancpl- Legacoop) e dalla Luiss dal titolo «Al nuovo codice dei contratti: effetti sul mercato», che ha visto coordinatore dei lavori Marcello Clarich (professore di diritto amministrativo alla Luiss) e gli interventi introduttivi del direttore del dipartimento di giurisprudenza Antonio Nuzzo, di Vincenzo Onorato, presidente del Consorzio Integra e di Mauro Lusetti, presidente Legacoop.
Per quel che riguarda gli effetti negativi derivanti dall'applicazione del nuovo codice dei contratti pubblici , è stato il presidente di Anac, Raffaele Cantone, a sottolineare che «è indubbio che la prima applicazione pratica ha evidenziato criticità e inevitabili cautele delle amministrazioni
, spesso restie al cambiamento, ma va dato atto che il codice, pur con qualche limite, introduce una nuova visione e si caratterizza come elemento di efficienza del sistema».
Per Cantone la principale novità è quella di «mettere al centro un progetto vero e non scadente; questa novità del progetto esecutivo comporta dei tempi di adeguamento dei progetti e forse occorreva pensare a dei fondi per la progettazione per evitare ritardi».
È stato poi il consigliere di stato Carlo Deodato a intervenire ponendo qualche dubbio di costituzionalità sulla natura delle linee guida vincolanti emanate dall'Autorità nazionale anticorruzione: «Pur avendo firmato il parere del Consiglio di Stato sul decreto delegato che ha trattato della natura delle linee guida Anac, personalmente ritengo che gli atti di normazione secondaria che insistono sui diritti e sui doveri degli operatori non possano essere affidati ad atti di regolazione delle Autorità indipendenti ma devono essere di competenza del governo».
Per quel che riguarda gli effetti negativi sul mercato (calo dei bandi) Deodato li imputa alla mancanza di una disciplina transitoria del nuovo codice. Sulle linee guida emesse da Anac Deodato ha espresso apprezzamento per l'invio al Consiglio di stato per un parere, ancorché non vincolante, «da advisor delle pubbliche amministrazioni» e ha annunciato che già è stato avviato il lavoro: «di quelle trasmesse soltanto le linee guida sul Responsabile del procedimento sono vincolanti, mentre quelle sui servizi di ingegneria e architettura e quella sull'offerta economicamente più vantaggiosa (Oepv) non sono vincolanti».
Sulle linee guida sull'Oepv, di cui è relatore, Deodato ha segnalato che molte indicazioni sono «generiche o poco efficaci» e che «le pubbliche amministrazioni andrebbero maggiormente orientate».
Il Consigliere Anac Michele Corradino ha poi affermato che il calo dei bandi di gara di questi due mesi era già stato avvertito negli ultimi mesi del 2015 e che nel settore dei servizi e delle forniture è meno forte che nei lavori; ha inoltre annunciato che sta per essere costituita la Cabina di regia sull'attuazione del Codice presso la presidenza del consiglio (articolo ItaliaOggi del 13.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del DM 1444/1968, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico, risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario, il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità.

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Pacifica giurisprudenza ritiene direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore.
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Con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
   a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti;
   b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate;
   c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti;
   d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili.
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5.1. Al riguardo, va innanzi tutto richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico, risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.02.2015, nr. 515).
...
6. Infondata è poi la doglianza articolata col terzo motivo di impugnazione dell’originario controinteressato, non rispondendo al vero che il potere di disapplicazione suindicato non sarebbe stato esercitabile con riferimento ai rapporti interprivati quale è quello per cui è causa: al riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza che ritiene direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015, nr. 1951; id., 12.02.2013, nr. 844).
7. Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le parti istanti censurano nel merito l’interpretazione data dal primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr. 1444/1968, facendone rilevare l’inapplicabilità alla situazione che qui occupa, laddove i due edifici non avevano pareti finestrate direttamente frontistanti, vi era diversità di quote fra le aperture, e comunque era da escludersi la creazione di qualsivoglia intercapedine nociva o pericolosa per la salubrità pubblica.
Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in frontale contrasto con tutti i principali approdi della giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, nr. 856; id., 11.06.2015, nr. 2861; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 20.07.2011, nr. 4374);
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 09.10.2012, nr. 5253);
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti (cfr. Cons. Stato, 27.10.2011, nr. 5759);
d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.12.2012, nr. 6489; id., sez. IV, 09.05.2011, nr. 2749; id., 05.12.2005, nr. 6909) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.08.2016 n. 3522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di regolamento in tema di individuazione dei procedimenti oggetto di autorizzazione, SCIA, silenzio-assenso e comunicazione.
I punti principali del parere del Consiglio di Stato sullo schema di “decreto scia”.
Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 04.08.2016 n. 1784, reso sullo "Schema di decreto legislativo in materia di individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio attività (Scia), silenzio-assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124".
1. La delega
Lo schema di decreto sottoposto all’esame costituisce attuazione della delega conferita dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124 per la precisa individuazione dei procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio attività o di silenzio assenso, ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge 07.08.1990, n. 241, nonché di quelli per i quali è necessaria l’autorizzazione espressa e di quelli per i quali è sufficiente una comunicazione preventiva, sulla base dei principi e criteri direttivi desumibili dagli stessi articoli, dei principi del diritto dell’Unione europea relativi all’accesso alle attività di servizi e dei princìpi di ragionevolezza e proporzionalità.
La seconda parte di tale delega, concernente la disciplina generale della segnalazione certificata di inizio attività, era già stata attuata con il decreto legislativo 30.06.2016, n. 126. L’art. 1, comma 2 di detto provvedimento stabilisce che “Con successivi decreti legislativi, ai sensi e in attuazione della delega di cui all’articolo 5 della legge n. 124 del 2015, sono individuate le attività oggetto di procedimento di mera comunicazione o segnalazione certificata di inizio di attività (di seguito «SCIA») od oggetto di silenzio-assenso, nonché quelle per le quali è necessario il titolo espresso. Allo scopo di garantire certezza sui regimi applicabili alle attività private e di salvaguardare la libertà di iniziativa economica, le attività private non espressamente individuate ai sensi dei medesimi decreti o specificamente oggetto di disciplina da parte della normativa europea, statale e regionale, sono libere”.
2. L’oggetto del decreto legislativo
Lo schema di decreto si compone di 6 articoli e dell’allegata tabella A.
Il testo compie una duplice opera di semplificazione: in primo luogo introducendo regimi meno restrittivi in tali materie; in secondo luogo dando attuazione alla concentrazione dei regimi di cui all’art. 19-bis della legge n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 3, comma 1, lett. c) del decreto legislativo n. 126 del 2016.
Il rapporto tra la tabella e il testo è regolato dall’art. 2 del presente decreto, il quale stabilisce le corrispondenze tra le previsioni tabellari e la disciplina normativa applicabile, nonché l’applicazione dell’art. 19-bis della legge n. 241 del 1990 alle ipotesi in cui per lo svolgimento dell’attività siano necessari diversi atti di assenso, segnalazioni o comunicazioni.
La tabella effettua una ricognizione della disciplina delle attività private in materia di edilizia, ambiente e commercio, distinguendo tra SCIA, SCIA unica, comunicazione, autorizzazione ed eventuale silenzio-assenso.
3. Le questioni generali
  
Le questioni ancora aperte
Il decreto, inoltre, non risolve alcune criticità relative al raccordo con la legge 241 del 1990, in particolare: quale sia la decorrenza del termine di diciotto mesi previsto dall’art. 21-nonies, comma 1; se il limite temporale massimo di cui all’art. 21-nonies debba applicarsi anche all’intervento in caso di sanzioni per dichiarazioni mendaci ex art. 21, comma 1; quale sia la esatta delimitazione della fattispecie di deroga ai 18 mesi prevista dall’art. 21-nonies, comma 2-bis. Il Consiglio di Stato suggerisce, pertanto, al Governo di intervenire su tali punti.
Si osserva, altresì, come risulta ancora non esercitata un’ultima parte della delega: quella relativa alla disciplina generale del silenzio assenso e della comunicazione preventiva, di cui alla parte finale del comma 1 dell’articolo 5 della legge n. 124 del 2015.
  
I problemi affrontati e le relative soluzioni
Il decreto mira a risolvere i seguenti problemi:
- difficoltà a comprendere, da parte degli operatori economici, le modalità di svolgimento del procedimento amministrativo per l’inizio di un’attività, con particolare riferimento agli adempimenti a carico del richiedente e di quelli a carico della PA;
- scarsa certezza del diritto dovuta alla mancanza di un quadro di regole chiare, tassative e comprensibili per gli operatori chiamati ad applicarle;
- sdoppiamenti procedurali e oneri non previsti;
- esistenza di regimi differenziati da Regione a Regione;
- mancata attuazione delle direttive e dei principi comunitari;
- molteplicità di atti presupposti che hanno vanificato la Scia;
- ambiguità ancora esistenti nel regime della SCIA.
Le soluzioni si articolano su quattro piani:
3.1 La semplificazione normativa
3.2 La fase attuativa della riforma: centralità di monitoraggio e VIR
3.3 Concentrazione dei regimi amministrativi
3.4 Semplificazioni in materia di edilizia, ambiente, commercio
3.1 La semplificazione normativa
La scelta del legislatore delegato nella complessa opera di individuazione dei procedimenti di regolazione delle attività economiche private è stata quella di demandare a una tabella l’elencazione di quattro elementi:
a) tipo di attività, attraverso specificazioni progressive;
b) regime amministrativo;
c) concentrazione di regimi amministrativi;
d) riferimenti normativi.
Il Consiglio di Stato commenta favorevolmente la innovativa tecnica utilizzata, che unisce esigenze di riordino/codificazione a esigenze di semplificazione sostanziale delle materie interessate, che definisce una tecnica di “codificazione soft”. Benché non appartenga letteralmente alla classe dei testi unici e non copra tutte le materie, il provvedimento in esame realizza una raccolta di tutte le discipline vigenti dell’attività privata nei settori interessati.
È sempre più forte, tanto a livello scientifico quanto nella pubblica opinione, il convincimento che l’unificazione “orizzontale” della legislazione vigente sia il principale strumento per reagire all’abnorme aumento del carico normativo, imposto da una società sempre più complessa e dall’avvento di cambiamenti strutturali che non possono restare senza regolazione.
Il parere sottolinea come il censimento effettuato attraverso la tabella e il rapporto tabella/testo, in cui le norme si adattano al contenuto della tabella e ne garantiscono l’inserimento nel sistema, non ha solo il merito di contribuire a dare certezza del diritto, ma anche quello di semplificare e liberalizzare, laddove possibile.
Si rileva, invece, criticamente, l’assenza di una effettiva Analisi di impatto della regolazione, con adeguato supporto di dati quantitativi: tale carenza, però, potrà essere effettuata in progress.
3.2 La fase attuativa della riforma: centralità di monitoraggio e VIR
In più occasioni nell’esame della riforma Madia il Consiglio di Stato ha sottolineato la rilevanza cruciale della fase attuativa di un intervento che mira a un cambiamento profondo nell’amministrazione pubblica del Paese. Strumento essenziale di tale fase è il monitoraggio, del funzionamento delle norme, volto a verificarne l’idoneità a perseguire gli obiettivi fissati dalla legge: ciò rende necessaria anche una verifica di impatto successiva all’entrata in vigore delle nuove norme (VIR).
Il parere individua sul piano tecnico-normativo quattro profili da osservare con grande attenzione:
- la possibilità di limitare o ampliare le semplificazioni previste nella tabella attraverso meri atti amministrativi;
- l’aggiornamento della tabella in relazione alle disposizioni legislative intervenute successivamente o alla necessità di completare la ricognizione delle attività;
- la regolazione di nuove attività, in particolare nel commercio, che, altrimenti, sarebbero libere, ai sensi dell’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.06.2016, n. 126.
- l’analisi della fattibilità dei regimi di semplificazione introdotti.
Il Consiglio di Stato raccomanda di considerare l’individuazione e l’inquadramento giuridico delle attività private come un work in progress, sensibile, oltre che alle novità normative, ai mutamenti reali, pertanto destinato ad essere rivisto ed implementato continuativamente.
3.3 Concentrazione dei regimi amministrativi
Il Consiglio di Stato rileva con favore che il Governo, dando seguito al suo precedente parere (n. 839, sulla cd. SCIA 1), ha optato per un modello di “concentrazione procedimentale”, disciplinandolo al massimo livello, introducendo un art. 19-bis alla l. n. 241, tramite il d.lgs. n. 126 del 30.06.2016.
Il presente parere analizza approfonditamente il rapporto tra l’art. 19 della legge n. 241 del 1990 e i commi 2 e 3 del successivo art. 19-bis, che introduce la concentrazione dei regimi amministrativi rispettivamente per le ipotesi di:
- attività che necessitano di altre SCIA, comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche (cd. SCIA unica);
- attività in cui si innestano sul modello della SCIA anche provvedimenti propedeutici (atti di assenso comunque denominati o pareri di altri uffici e amministrazioni, ovvero verifiche preventive).
Il Consiglio di Stato ha ritenuto di distinguere nettamente le due fattispecie di cui all’art. 19-bis, il cui unico elemento comune è dato dall’integrazione della SCIA con altre fattispecie legittimanti.
La SCIA unica di cui all’art. 19-bis, comma 2, è in rapporto di specialità unilaterale per aggiunta con la SCIA pura e ad essa si applica la disciplina di cui all’art. 19.
La figura (da non confondere con la precedente SCIA unica) di cui all’art. 19-bis, comma 3, è invece sui generis, poiché il meccanismo della SCIA (e, quindi, il riferimento all’art. 19) vale soltanto all’inizio del procedimento, ossia nella fase di presentazione della SCIA, e nella sua fase finale, ovvero una volta ottenute tutti gli atti di assenso, da conseguire tramite conferenza di servizi. Tra questi due momenti, si inserisce un regime provvedimentale tradizionale.
Nel parere si invita il Governo a chiarire che, quando nella tabella si fa riferimento alla SCIA unica, si intende la fattispecie di cui all’art. 19-bis, comma 2, e quale sia allora l’ambito di applicazione dell’art. 19-bis, comma 3. Va anche chiarito il regime delle cd. “autorizzazioni plurime”, in cui occorrono più autorizzazioni ma non vi è alcun elemento procedimentale della SCIA.
3.4 Semplificazioni in materia di edilizia, ambiente, commercio
Un sistema di titoli edilizi semplificato: rapporti tra CILA, SCIA e SCIA edilizia
Il parere si sofferma sul nuovo sistema dei titoli edilizi, articolato su cinque livelli (invece dei sette attuali): 1) interventi in attività edilizia libera, senza adempimenti; 2) interventi in attività libera, ma che richiedono la CILA; 3) interventi assoggettati a SCIA; 4) interventi assoggettati a permesso di costruire; 5) interventi per i quali è comunque possibile chiedere il permesso di costruire in alternativa alla SCIA.
Il nuovo sistema è caratterizzato dalla centralità della CILA, ragion per cui il Consiglio di Stato suggerisce la costruzione di una norma di carattere generale relativa all’istituto, che, da un lato ne evidenzi la linea di continuità con il modello teorico rappresentato dalla SCIA, dall’altro individui i tratti innovativi della disciplina, con particolare riferimento ai poteri sanzionatori, distinguendo le ipotesi di irregolarità (CILA mancante, incompleta o irregolare, ovvero lavori eseguiti in difformità), da quella di abusi edilizi (opere eseguite in regime di CILA invece che di permesso di costruire o di SCIA).
Ulteriore raccomandazione riguarda il coordinamento tra SCIA edilizia e SCIA ordinaria: non si è in presenza di due fattispecie diverse, ma dell’applicazione di un modello unico (quello della SCIA) anche alla materia edilizia.
  
La questione degli abusi edilizi
Sugli abusi edilizi, va chiarito che, nei casi in cui un’opera che avrebbe richiesto un permesso di costruire o una SCIA è stata eseguita dall’interessato sotto il regime di CILA, l’abuso non viene sanato con le sanzioni relative alla CILA.
Diverso è il caso in cui l’opera abusiva sia stata oggetto di SCIA e non di CILA: in tal caso, salvo espressa disposizione del legislatore, non si ravvisano ragioni per non applicare integralmente il regime dell’art. 19 della l. n. 241, ivi compreso il riferimento al meccanismo dell’art. 21-nonies.
  
La rilevanza del glossario unico in materia edilizia
Tra gli elementi di semplificazione burocratica introdotti appare meritevole di segnalazione la previsione di un glossario unico, che costituirà il parametro di riferimento per l’attività di cittadini ed imprese in questo settore, caratterizzato spesso da oscurità ed eccesso di tecnicismo.
Al riguardo il Consiglio di Stato raccomanda una maggiore definizione sul piano dei contenuti e la fissazione di un termine breve per la sua adozione, con integrale superamento di tutti gli eventuali glossari transitori approvati in sede locale.
  
La riforma della bonifica ambientale
In materia di ambiente, il Consiglio di Stato apprezza la nuova disciplina della bonifica volontaria da parte del soggetto estraneo alla contaminazione, evidenziandone le esternalità positive sul ciclo economico e invitando, anzi, il legislatore a intervenire per incentivare il ricorso a tale istituto, incoraggiandone l’uso da parte degli interessati.
  
I margini di ulteriore semplificazione in materia di commercio
In materia di commercio l’intervento appare piuttosto limitato, residuando sensibili margini di semplificazione, pur considerando che tale materia è spesso coinvolta da importanti profili di discrezionalità amministrativa.
4. Le materie non contemplate nel decreto: l’invito a proseguire con i decreti correttivi e integrativi. Le attività “libere”
Il decreto riguarda solo le materie dell’edilizia, dell’ambiente, del commercio, della pubblica sicurezza (materia, quest’ultima, che però non è oggetto della individuazione dei procedimenti di cui alla Tabella A), mentre la delega copre l’intero ordinamento delle funzioni amministrative.
Premesso che il completamento dell’operazione non può che avvenire con fonte primaria, il Consiglio di Stato invita il Governo a non interrompere l’opera di ricognizione della disciplina degli altri settori di attività private, specialmente quelle oggetto di libertà di iniziativa economica, considerando l’importanza di un progressivo completamento della riforma tramite decreti integrativi e correttivi, entro dodici mesi dalla entrata in vigore dello schema in esame, ai sensi dell’art. 5, comma 3, della legge delega.
Medio tempore, per prevenire incertezze applicative, il parere fornisce un’interpretazione chiarificatrice del citato art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30.06.2016, n. 126. Tale clausola di chiusura è applicabile ai (soli) settori oggetto del decreto e non anche ai settori rimasti al di fuori di tale opera di riordino.
Resta invece fermo che, nei tre settori interessati dalla tabella A (“Commercio”, “Edilizia” e “Ambiente”), salvo interventi correttivi, le attività non comprese nella tabella medesima devono considerarsi effettivamente “libere”.
5. Le questioni particolari
In materia edilizia si chiede al Governo la delimitazione del potere delle Amministrazioni di escludere regimi di semplificazione nelle zone di particolare pregio archeologico, storico, artistico e paesaggistico, o di ridurre il novero delle attività “libere”, poiché considerate assimilabili a quelle previste dalla tabella.
In materia di ambiente si rimarca la doverosità dell’intervento di bonifica, una volta che l’interessato abbia attivato la procedura all’uopo prevista.
In materia di commercio, il parere rileva come la classificazione delle attività contenuta nella tabella risenta di un’impostazione giuridico-formale, che origina dall’inquadramento di cui al d.lgs. n. 114/1998. Ciò implica la possibilità che le nuove attività, generate dal mercato, sfuggano a questa classificazione, ricadendo nella norma di chiusura contemplata dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30.06.2016, n. 126.
Il parere si conclude con alcuni rilievi, formali e sostanziali, sulle indicazioni contenute nella tabella A (commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle linee guida del Codice dei contratti pubblici concernenti il Rup, l’offerta economicamente più vantaggiosa e i servizi di architettura ed ingegneria (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 02.08.02016 n. 1767 - "Linee guida relative a Responsabile Unico del Procedimento - Offerta Economicamente Più Vantaggiosa - Servizi attinenti all’Architettura e all’Ingegneria").
La competente commissione speciale istituita presso le sezioni consultive di Palazzo Spada ha compiuto il richiesto esame delle linee guida in oggetto, predisposte in attuazione delle seguenti norme del Codice degli appalti: art. 31, comma 5, in tema di Rup; art. 213, comma 2, in tema di offerta economicamente più vantaggiosa e di servizi di architettura ed ingegneria.
Il parere, estremamente articolato sia nell’inquadramento teorico delle questioni che nel conseguente esame di dettaglio, è accompagnato da una serie di proposte di modifica.
  
1. Inquadramento.
Preliminarmente, evidenziando l’assenza di obbligatorietà nella richiesta del parere, il testo prende le mosse dalla valorizzazione del ruolo consultivo del Consiglio di Stato, richiamando quanto già sottolineato con riferimento ai pareri resi sulla c.d. riforma Madia.
Dopo aver ribadito la qualificazione delle Linee guida, nei termini indicati in sede di parere reso sul testo del nuovo Codice dei contratti pubblici (parere 01.04.2016, n. 855), la Commissione speciale ha condiviso la forma di esposizione discorsiva del contenuto attuativo delle Linee guida, in quanto coerente con la predetta natura giuridica.
Peraltro, a fronte del carattere sostanzialmente vincolante di alcune previsioni occorre, secondo il parere, che tali punti siano specificamente evidenziati al fine di garantirne una maggiore certezza del diritto per gli operatori.
Viene ribadita la necessità di speciali misure che consentano di recuperare in sede procedimentale il rischio di “gap democratico”, tipico di regolazioni predisposte da Autorità amministrative indipendenti; ad esempio: una sistematica fase di consultazione dei soggetti interessati, lo svolgimento di un’attenta analisi di impatto della regolamentazione (c.d. a.i.r.) nonché della successiva verifica di impatto (c.d. v.i.r.), evitare una proliferazione di Linee guida e la conseguente inflazione di regolazione.
Analoghe considerazioni vengono svolte dal parere anche per le Linee guida non vincolanti.
  
2. Offerta economicamente più vantaggiosa.
Nel dettaglio il parere ha prima esaminato le Linee guida in tema di offerta economicamente più vantaggiosa. In proposito, il parere sottolinea il carattere che emerge dall’analisi delle Linee guida sul punto, le quali appaiono alla stregua di mere istruzioni operative per le stazioni appaltanti, in prevalenza finalizzate ad offrire a queste ultime formule e metodi di natura tecnico matematica sulla valutazione delle offerte e sull’assegnazione alle stesse di un punteggio numerico.
Il parere, dopo aver evidenziato l’impostazione minimale seguita dall’Anac sul punto, da un lato ritiene condivisibile ed apprezzabile l’assenza di eccessivo dettaglio al fine di rispettare la discrezionalità delle stazioni appaltanti nella scelta dei criteri e dei metodi di analisi delle offerte più coerenti con le specifiche esigenze dell’appalto in questione; dall’altro, reputa nel dettaglio troppo generiche le indicazioni.
Vengono quindi svolte una serie di indicazioni di dettaglio sulla scorta del seguente criterio. Le Linee guida, infatti, attengono in questa parte ad uno dei punti maggiormente qualificanti della riforma della materia, la valorizzazione del metodo di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che assume il connotato di modalità ordinaria e generale di aggiudicazione degli appalti, a fronte del dichiarato sfavore per il metodo del prezzo più basso.
A titolo esemplificativo, a fronte della raccomandazione relativa all’introduzione nei bandi di criteri compensativi, il parere segnala la necessità di impartire istruzioni più stringenti ed efficaci, quale, ad esempio, il suggerimento dell’attribuzione di un peso massimo a tale tipologia di criteri.
  
3. Il responsabile unico del procedimento.
Con riferimento al secondo ambito interessato dallo schema in esame, la disciplina del Rup, le Linee guida hanno, nella ricostruzione del parere, un duplice contenuto: da un lato, con portata vincolante, l’attuazione dell’art. 31, comma 5; dall’altro lato, la formulazione di indicazioni interpretative delle disposizioni dell’art. 31 del Codice nel suo complesso. Per questa seconda parte sono adottate ai sensi dell’art. 213, comma 2, del Codice ed hanno una funzione di orientamento e moral suasion.
Sulla base di tale ricostruzione il parere suggerisce, per ragioni di certezza e chiarezza in ordine a portata e contenuti, di distinguere le Linee guida in due parti, differenziate già in base al relativo titolo, e di esplicitare in modo chiaro (per evidenti ragioni di certezza per gli operatori) che soltanto la seconda di esse assume portata vincolante.
Vengono quindi elencate una serie di modifiche di dettaglio, sempre proposte alla luce del predetto criterio. A titolo esemplificativo, il parere segnala come esuli dai limiti individuati dalla norma del Codice oggetto di attuazione la fissazione del contenuto indefettibile del provvedimento di nomina del Rup, ivi compresa la necessaria indicazione dei poteri di delega conferiti e delle risorse messe a disposizione per lo svolgimento delle funzioni.
  
4. Affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria.
Il terzo ed ultimo gruppo di Linee guida, avente carattere non vincolante, viene inquadrato dal parere come connesso alla condivisa esigenza di riordino della materia dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria.
Viene quindi richiamata, in termini di inquadramento, la primaria finalità di sostituire la previgente, complessa disciplina con quella, di carattere certamente «più snello ed essenziale» ma comunque frammentaria, contenuta nel nuovo Codice dei contratti pubblici. In definitiva, emerge come l’atto regolatorio proposto intervenga a colmare da subito alcune lacune venutesi a creare nel passaggio alla nuova disciplina, al fine di assicurare quella «ordinata transizione» prevista dalla legge delega 28.01.2016, n. 11 (art. 1, comma 1, lett. b), e auspicata nel parere reso dal Consiglio di Stato sul nuovo Codice.
Dall’esame del testo proposto emerge prima la definizione dell’ambito di applicazione, in specie attraverso il richiamo alla nozione recata dall’art. 3, lett. vvvv), del Codice, Sul punto peraltro viene segnalata la mancanza di ulteriori specificazioni, richieste in sede di consultazione pubblica. Quindi, le Linee guida passano ad enunciare i principi generali ricavabili dalla normativa primaria, ed in particolare dagli artt. 23 e 24 del Codice. Sul piano formale, la lettura di questa parte dell’atto consente, pur nell’ambito di un registro discorsivo, di enucleare in modo chiaro i singoli precetti in esso contenuti.
In termini applicativi di tale quadro, le Linee guida dettano alcune indicazioni operative a beneficio delle stazioni appaltanti in sede di affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria. In via generale, il parere evidenzia una funzione generale delle Linee guida in esame, quella di interpretazione del dato normativo primario.
Vengono quindi elencate una serie di modifiche di dettaglio, sempre proposte alla luce del predetto inquadramento. A titolo esemplificativo, il parere segnala, fra le varie indicazioni estremamente dettagliate, l’esistenza di una disciplina non univoca in ordine alla la necessità della relazione geologica e, quindi, della presenza della figura del geologo negli appalti integrati.
Sempre a titolo esemplificativo del livello di approfondimento e delle questioni affrontate, anche sulla scorta dell’esperienza giurisprudenziale, in tema di criteri per la valutazione delle offerte il parere segnala i rischi insiti nella prevista commistione tra requisiti di partecipazione ed elementi di valutazione delle offerte, ulteriormente aggravati dalla richiesta che sia «in ogni caso prevista» nel bando «una soglia di sbarramento al punteggio tecnico, non superando la quale il concorrente non potrà accedere alla fase di valutazione dell’offerta economica».
Né quest’ultima previsione appare conforme al carattere non vincolante delle Linee guida, nella misura in cui introduce un obbligo normativamente non previsto (commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L'escussione della fideiussione per il mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione è di competenza del giudice ordinario.
La controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la P.R. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri.
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Svolgimento del processo
In accoglimento della domanda proposta dalla locale amministrazione comunale, il Tribunale di Reggio Calabria condannò En. De Ma. e la Società Re.Mu. di Assicurazioni al pagamento della somma di €. 21.799,45 per oneri di urbanizzazione relativi alla licenza edilizia n. 39 del 1987, oltre sanzioni amministrative.
Appellata da En. De Ma. e dalla Società Re.Mu. di Assicurazioni, la decisione di primo grado fu totalmente riformata dalla Corte d'appello di Reggio Calabria, che, dichiarata la nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 82 disp. att. c.p.c., in quanto non era stato dato avviso al difensore di En. De Ma. del rinvio dell'udienza di precisazione delle conclusioni, rilevò e dichiarò d'ufficio il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, ritenendo esistente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Contro la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Reggio Calabria, sulla base di due motivi di impugnazione illustrati anche da memoria, cui si oppone con controricorso En. De Ma., mentre vi aderisce la Società Re.Mu. di Assicurazioni.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il comune ricorrente deduce che la decisione d'appello contraddice la giurisprudenza più recente in tema di giurisdizione relativa agli oneri di urbanizzazione; ed è stata comunque assunta in violazione del giudicato sulla giurisdizione formatosi con la pronuncia nel merito in primo grado, non appellata sul punto.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell'art. 82 disp. att. c.p.c., sostenendo che non era dovuto avviso ai difensori del rinvio della precisazione delle conclusioni alla prima udienza immediatamente successiva a quella originariamente fissata. Sicché non sussiste la nullità erroneamente dichiarata dalla corte d'appello.
2. Risulta pregiudiziale l'esame del secondo motivo del ricorso, perché, ove fondato, rimuoverebbe la dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado, che, secondo quanto eccepito dal controricorrente De Ma., esclude la formazione del giudicato sulla giurisdizione del giudice ordinario.
Si tratta tuttavia di motivo inammissibile per difetto di specificità, o comunque di autosufficienza, perché il ricorrente neppure allega, e comunque omette di richiamare, il calendario delle udienze del Tribunale di Reggio Calabria, a conferma della dedotta validità del rinvio d'ufficio della precisazione delle conclusioni dall'udienza del 29.09.2004 all'udienza del 06.10.2004.
Ferma dunque la dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado, non contestata per altri aspetti, risulta infondata l'eccezione di giudicato sulla giurisdizione prospettata con il primo motivo del ricorso.
E' invece fondata la deduzione alternativa, prospettata con lo stesso primo motivo del ricorso, nella parte in cui vi si censura l'erroneità della dichiarazione di difetto della giurisdizione del giudice ordinario.
Secondo la giurisprudenza di questa corte, infatti, «la controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la P.R. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri» (Cass., sez. un., 13.06.2012, n. 9592, m. 623047, Cass., sez. un., 23.02.2010, n. 4319, m. 611803).
In accoglimento del primo motivo del ricorso, dichiarato inammissibile il secondo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d'appello di Reggio Calabria, che potrà decidere nella medesima composizione, non essendosi pronunciata nel merito della controversia (Corte di Cassazione, Sezz. Unite civili, sentenza 28.07.2016 n. 15666).

EDILIZIA PRIVATALa proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di demolizione ma fa conseguire all’atto uno stato di temporanea quiescenza, fino alla definizione del procedimento, espressa o tacita, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o difformità dal titolo edilizio, si accerti tuttavia essere conforme alla strumentazione urbanistica.
Una volta rigettata l’istanza di sanatoria, il provvedimento di demolizione riacquista la sua efficacia, determinando, così, la permanenza dell’interesse all’impugnazione dello stesso.

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L’eccezione è infondata.
La proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di demolizione, (cfr. Cons. di Stato, n. 1546/2014 e 4818/2013), ma fa conseguire all’atto uno stato di temporanea quiescenza, fino alla definizione del procedimento, espressa o tacita, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o difformità dal titolo edilizio, si accerti tuttavia essere conforme alla strumentazione urbanistica. Una volta rigettata l’istanza di sanatoria, il provvedimento di demolizione riacquista la sua efficacia, determinando, così, la permanenza dell’interesse all’impugnazione dello stesso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.07.2016 n. 3407 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’Adunanza Plenaria ritorna sul delicato tema della mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, mitigandone le conseguenze alla luce dei principi di affidamento, certezza del diritto e parità di trattamento.
L’Adunanza Plenaria, preso atto dei principi dettati dalla Corte di giustizia UE nelle sentenza Puligenica e Pippo Pizzo nonché della loro incidenza sulla funzione nomofilattica esercitata in base all’art. 99 c.p.a., ritorna sul delicato tema della mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, mitigandone le conseguenze alla luce dei principi di affidamento, certezza del diritto e parità di trattamento (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 27.07.2016 n. 19).
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Giustizia amministrativa – Principio di diritto formulato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ex art. 99 c.p.a. – Vincolatività nei confronti delle singole sezioni in caso di contrasto con il diritto dell’Unione europea – Esclusione – Obbligo di rimettere nuovamente la questione alla Adunanza plenaria – Non sussiste.
Giustizia amministrativa – Adunanza plenaria – Esercizio della nomofilachia su analoga questione pendente davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea – Facoltà.
Appalti pubblici – Oneri di sicurezza aziendale – Omessa indicazione – Soccorso istruttorio – Doverosità - Limiti.
La sezione del Consiglio di Stato cui è assegnato un ricorso, qualora non condivida un principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria su una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione Europea, può alternativamente: a) rimettere previamente la questione all’Adunanza plenaria affinché questa riveda il proprio orientamento; b) adire la Corte di giustizia ex art. 267 TFUE ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale; c) disattendere direttamente il principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria ove esso risulti manifestamente in contrasto con una interpretazione del diritto dell’Unione già fornita, in maniera chiara ed univoca, dalla giurisprudenza comunitaria (1).
L’Adunanza plenaria, qualora sia chiamata a decidere una questione analoga ad altra pendente innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, può alternativamente: a) disporre la sospensione c.d. impropria del giudizio in attesa che si pronunci il giudice europeo; b) sollevare a sua volta una questione pregiudiziale; c) decidere comunque la questione anche alla luce dei dubbi di compatibilità comunitaria manifestati in occasione della precedente rimessione (2)
Per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, qualora l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara e dalla modulistica allegata ma sia assodato che sostanzialmente l’offerta abbia tenuto conto dei costi minimi di sicurezza aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio (3)
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(1-3)
   I. Con la sentenza in commento (e la coeva n. 20 in pari data, resa sulla ordinanza della V sezione del Consiglio di Stato n. 1090 del 2016 di cui alla News US del 18.03.2016), l’Adunanza plenaria (pronunciando sulla rimessione disposta dalla sentenza non definitiva della medesima V sezione n. 1116 del 2016), ha affermato importanti principi su due questioni molto dibattute concernenti:
a) il rapporto tra il ruolo nomofilattico assegnato dall’art. 99, comma 3, c.p.a. all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e l’obbligo per le singole sezioni del Consiglio, in qualità di giudice di ultima istanza, di sollevare ex art. 267 TFUE una questione pregiudiziale dinnanzi alla Corte di giustizia;
b) la compatibilità con il diritto dell’Unione Europea del principio di diritto espresso in tema di oneri di sicurezza aziendali dall’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 3 e 9 del 2015 e dunque la possibilità di ricorrere o meno al soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione nell’offerta dei suddetti oneri.
   II. Sulla prima questione,concernente i rapporti tra la funzione nomofilattica della Plenaria e il dovere di sollevare la questione pregiudiziale di legittimità comunitaria, sono stati formulati i principi di cui alla prima e seconda massima, con il sostanziale recepimento delle indicazioni recentemente elaborate dalla medesima Corte del Lussemburgo (Corte giust. UE, Grande Camera, 05.04.2016, C-689/13, Puligienica, in Foro it., 2016, IV, 325 con nota critica di G. Sigismondi che evidenzia il contrasto fra i principi di fondo dell’ordinamento processuale italiano e le sentenze della Corte nonché i possibili rimedi).
Per ulteriori approfondimenti sul tema dei rapporti tra funzione nomofilattica della Adunanza Plenaria (ma anche della Cassazione e della Corte dei conti), obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE e vincolatività delle pronunce della Corte Ue, si richiama la menzionata News dell’US del 18.03.2016.
La particolare attualità e delicatezza del tema è tale che esso sarà oggetto, tra gli altri, di un prossimo incontro organizzato da ACA-Europe (Associazione delle Corti supreme amministrative e dei Consigli di Stato europei), che si terrà il prossimo 07.11.2016 all’Aja, dal titolo: “The preliminary ruling procedure”.
   III. Sulla seconda questione -concernente le conseguenze della violazione dell’obbligo di dichiarare gli oneri di sicurezza aziendale e l’esercizio del soccorso istruttorio- la Plenaria ha formulato il principio di cui alla terza massima.
Questi gli snodi essenziali del ragionamento:
   a) in primo luogo è stato ritenuto preferibile esaminare nel merito la questione rimessa dalla Quinta sezione, anziché attendere la pronuncia della Corte di giustizia (per una sintesi delle questioni rimesse dai TAR alla Corte v., oltre alla precitata News US del 18.03.2016, la News US del 19.02.2016 dove si riportano le varie ordinanze dei TAR di rinvio pregiudiziale alla Corte Ue sulla questione della obbligatoria indicazione degli oneri di sicurezza), sia per ragioni di celerità (come sollecitato dalle parti), sia perché una tale soluzione soddisfa una più generale esigenza di sistema consentendo di risolvere in via preventiva i dubbi di compatibilità comunitaria sottesi alla questione pregiudiziale sollevata da numerosi Tribunali amministrativi regionali, e, dall’altro, di superare la “causa ostativa” che ha determinato la sospensione ex art. 79, comma 1, c.p.a. di diversi giudizi amministrativi (sia in primo che secondo grado);
   b) mitigando i principi affermati sul punto dalle precedenti Plenarie nn. 3 e 9 del 2015 (rispettivamente in Foro it. 2016, III, 114, con nota di Travi; ibidem, III, 65, con nota di Condorelli, cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza) –ma al contempo facendo salva espressamente la ricostruzione dei presupposti e della portata applicativa del principio di tassatività delle cause di esclusione e del potere di soccorso effettuata dalla plenaria n. 9 del 2014- è stato stabilito che l’automatismo dell’effetto escludente per mancata indicazione degli oneri di sicurezza, anche in assenza di indicazioni in tal senso da parte del bando e della modulistica, si pone in contrasto con i principi di certezza del diritto, tutela dell’affidamento, nonché con quelli, che assumono particolare rilievo nell’ambito delle procedure di evidenza pubblica, di trasparenza, proporzionalità e par condicio;
   c) a tale conclusione si è giunti attraverso il recepimento e l’adattamento dei principi elaborati dalla recente sentenza della Corte del Lussemburgo (Corte di giustizia UE, Sesta Sezione, 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo, oggetto della News US in data 05.07.2016), in un caso concernente l’esclusione di una impresa da una gara in ragione del mancato pagamento del contributo all’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici previsto dalla l. n. 266 del 2005; la Corte ha infatti evidenziato che i principi di trasparenza e di parità di trattamento, che disciplinano tutte le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, richiedono che le condizioni sostanziali e procedurali relative alla partecipazione ad un appalto siano chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche, in particolare gli obblighi a carico degli offerenti, affinché questi ultimi possano conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi requisiti valgono per tutti i concorrenti; situazione questa che non si verifica quando il requisito di partecipazione è enucleato ex post, sulla scorta di prassi applicative della stazione appaltante o, peggio, di interpretazioni del giudice nazionale;
   d) nella fattispecie in esame, la mancata previsione dell’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza nel bando di gara, la predisposizione da parte dell’Amministrazione di moduli fuorvianti, perché privi di un riferimento alla voce in questione, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sintomatico di una incertezza normativa, fanno sì che l’applicazione della regola dell’esclusione automatica, senza il previo soccorso istruttorio, si tradurrebbe in un risultato confliggente con i principi euro-unitari di tutela dell’affidamento, di certezza del diritto, di trasparenza, par condicio e proporzionalità.
(link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria afferma che la disciplina sul silenzio assenso per il rilascio del nulla osta dell’ente Parco non è stata implicitamente abrogata dalla l. n. 80 del 2005 (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 27.07.2016 n. 17).
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Ambiente – Parchi e aree protette – Nulla osta ex art. 13, l. n. 394 del 1991 - Silenzio assenso – Abrogazione implicita a seguito dell’entrata in vigore della l. 80 del 2005 – Esclusione.
Il silenzio-assenso previsto dall’art. 13, commi 1 e 4, l. 06.12.1991 n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) non è stato implicitamente abrogato a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 80 del 2005, che, nell'innovare l'art. 20, l. n. 241 del 1990, ha escluso che l'istituto generale del silenzio-assenso possa trovare applicazione in materia di tutela ambientale e paesaggistica.
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1. La pronuncia in esame, sollecitata dall’ordinanza di rimessione della III Sez. del Consiglio di Stato n. 642 del 17.02.2016, fa seguito alla decisione dell’Adunanza plenaria 24.05.2016, n. 9 (di cui alla news dell’U.S. del 26.05.2016 su analogo tema).
La questione rimessa consiste nello stabilire se l’art. 20, l. n. 241 del 1990 – novellato nel 2005 - abbia comportato l’abrogazione dell’art. 13, comma 1, l. n. n. 394 del 1991, attesa la specialità di quest’ultima disposizione, ovvero se debba escludersi la sopravvivenza di norme aventi a oggetto ipotesi di silenzio-assenso anteriori alla novella dell’art. 20 sulla base di una rigorosa applicazione del criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo e della tendenza complessiva dell’ordinamento a ricusare tale modulo procedimentale in settori “sensibili” quali sono quelli della tutela del paesaggio, dell’ambiente, della salute, e dei beni culturali.
Questi in sintesi i passaggi motivazionali della decisione.
In relazione ai presupposti, in generale, per la configurabilità di abrogazione inespressa di una legge, la Plenaria ha ricordato che:
   A) a norma dell'art. 15 delle Disposizioni preliminari al Codice civile, essa si rinviene quando vi è incompatibilità fra nuove e precedenti leggi (abrogazione tacita), ovvero quando la nuova legge regola l’«l’intera materia» già regolata dalla anteriore (abrogazione implicita): per cui detta incompatibilità sussiste se vi sia una contraddizione tale da rendere impossibile la contemporanea applicazione delle due leggi in comparazione, sì che dall'applicazione ed osservanza della nuova derivi necessariamente la disapplicazione o l'inosservanza dell'altra (ex multis, Cass., I, 21.02.2001, n. 2502).
   B) il principio lex posterior generalis non derogat priori speciali deve cedere alla regola dell'applicazione della legge successiva allorquando dalla lettera e dal contenuto di detta legge si evince la volontà di abrogare la legge speciale anteriore o allorquando la discordanza tra le due disposizioni sia tale da rendere inconcepibile la coesistenza fra la normativa speciale anteriore e quella generale successiva (cfr. Cass., sez. lav., 20.04.1995, n. 4420. V. inoltre Cons. St., sez. V, 17.07.2014, n. 3823).
Venendo alla specifica questione in esame, e applicando i suindicati principi, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che tale incompatibilità che giustifica l’abrogazione tacita o implicita non sussistesse nel caso in esame e che l’art. 13, l. n. 394 del 1991 abbia disposto unicamente una particolare strutturazione del procedimento, comunque in grado di garantire la piena tutela dell’interesse protetto.
Le ragioni per giungere a tale conclusione sono le seguenti:
   C) non si rinviene una indicazione della giurisprudenza costituzionale in senso preclusivo alla possibilità per il legislatore ordinario statale di dotarsi dello strumento di semplificazione procedimentale rappresentato dal silenzio-assenso anche in materia ambientale, laddove si tratti di valutazioni con tasso di discrezionalità non elevatissimo (cfr. Corte cost. 19.10.1992, n. 393; 27.04.1993, n. 194; 02.02.1996, n. 26; 17.12.1997, n. 404; 16.07.2014, n. 209).
   D) neppure la giurisprudenza comunitaria ha fornito indicazioni preclusive in tal senso: la Corte di Giustizia europea ha ritenuto non compatibile la definizione tacita del procedimento, solo quando, però, per garantire effettività agli interessi tutelati (tutela della salute), fosse necessaria una espressa valutazione amministrativa quale un accertamento tecnico o una verifica (sentenza 28.02.1991, causa C-360/87); essa inoltre ha censurato unicamente l’omessa effettuazione della Valutazione di Impatto Ambientale in quanto prescritta dalla direttiva n. 85/337/Cee (sentenza 10.06.2004, causa C-87/02).
All’interno di tale cornice, la Plenaria ha evidenziato che:
   E) il dato testuale dell’art. 20, comma 4, della l. 241/1990 (come modificato dalla l. 81 del 2005) depone nel senso della non configurabilità di un effetto abrogativo implicito. Ed infatti, esso esordisce riferendosi alle sole «disposizioni del presente articolo». Dunque almeno in principio la sua previsione pare riguardare i casi generali e non estendersi a precedenti specifiche disposizioni, come quella del detto art. 13. (cfr. Cons. Stato, VI, 29.12.2008, n. 6591 e 17.06.2014, n. 3047).
   F) dal punto di vista sistematico:
1. l’art. 13, l. n. 394 del 1991 fu posto quando l’originario art. 20, l. n. 241 del 1990 escludeva in via generale il silenzio-assenso, salvo casi specifici previsti da appositi regolamenti governativi di delegificazione. Viceversa, solo con la riforma del 2005 il modulo del silenzio assenso è stato generalizzato. Non è pertanto logico ritenere che una disposizione volta a generalizzare il regime procedimentale del silenzio-assenso faccia venir mento proprio quelle ipotesi di silenzio-assenso già previste dall’ordinamento nel più restrittivo sistema dell’art. 20 vigente prima della riforma del 2005 (cfr. in termini Cons. St., sez. VI, 17.06.2014, n. 3047; id. 29.12.2008, n. 6591);
2. la previsione del silenzio assenso per il rilascio del nulla osta dell’Ente Parco si inseriva in una normativa organica del settore sui parchi e le aree protette (la l. n. 394 del 1991), cosicché deve ritenersi che essa fosse il frutto di un bilanciamento complessivo degli interessi ivi coinvolti e costituisse effetto di una valutazione legislativa ponderata e giustificata dalla specificità della materia;
3. il nulla osta dell’art. 13, l. n. 394 del 1991 ha ad oggetto la previa verifica di conformità dell’intervento con le disposizioni del piano e del regolamento del parco. Si tratta pertanto di effettuare valutazioni a basso margine di discrezionalità compatibili con il modulo procedimentale del silenzio-assenso.
Si segnalano in senso contrario, per l’applicazione del criterio cronologico ed il conseguente il riconoscimento della abrogazione tacita Cons. St., sez. III, 15.01.2014, n. 119; id., sez. IV, 28.10.2013, n. 5188 (tratto da a e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Le Sezioni unite civili attribuiscono al giudice ordinario tutte le controversie comunque concernenti la determinazione e la corresponsione delle indennità previste dall’art. 42-bis t.u. espropriazioni (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 25.07.2016 n. 15283).
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Espropriazione – Acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. 08.06.2001, n. 327 – Indennizzo – Giurisdizione ordinaria – Competenza – Corte d’appello.
Le controversie aventi ad oggetto la determinazione e la corresponsione di tutte le indennità previste dall’art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario ed alla competenza in unico grado della Corte di appello. (1)

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(1) Le Sezioni unite hanno formulato il principio di cui in massima portando a compimento, dal punto di vista logico e sistematico, il percorso esegetico intrapreso dalla Corte costituzionale (30.04.2015, n. 71, in Foro it., 2015, I, 2629, con ampia nota di richiami di R. Pardolesi) e dalle stesse Sezioni unite (29.10.2015, n. 22096, id., 2016, I, 593, con ampia nota di richiami di E. Barila’).
Anche il Consiglio di Stato è pervenuto alle medesime conclusioni in punto di giurisdizione (cfr. A.P., 09.02.2016, n. 2, ibidem, III, 185, con note di approfondimenti di E. Barilà e R. Pardolesi, sia pure con una affermazione incidentale rispetto all’oggetto principale di quel giudizio; sez. IV, 12.05.2016, n. 1910 che ha, invece, analizzato funditus l’intera tematica).
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Questi i passaggi logici essenziali della decisione in commento:
   a) il provvedimento di acquisizione previsto dall’art. 42-bis, t.u. espropriazione ha natura espropriativa;
   b) tutte le voci di danno menzionate nei commi 1, 3, 4 e 5, dell’art. 42-bis, sono oggetto di un’unica previsione indennitaria, ivi compresa quella relativa al periodo di occupazione senza titolo subita dal proprietario, espressamente contemplata dal comma 3, ultimo periodo;
   c) la locuzione <<a titolo risarcitorio>> contenuta nel menzionato comma 3, ultimo periodo, è una mera improprietà lessicale in cui è caduto il legislatore che, in quanto tale, non consente di superare gli obbiettivi (e principi esegetici ispiratori) di concentrazione ed effettività della tutela giurisdizionale che risulterebbero vulnerati da una interpretazione letterale che frazionasse la tutela affidando al G.A. la cognizione del danno da occupazione senza titolo ed al G.O. le altre poste di danno menzionate dal medesimo art. 42-bis;
   d) conseguentemente, trovano applicazione le norme enucleabili dal combinato disposto degli artt. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., nonché 53 e 54 t.u. espropriazione, che assegnano alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie, incluse quelle risarcitorie, aventi ad oggetto atti, accordi e comportamenti espressione di esercizio della funzione pubblica in materia espropriativa, riservando al G.O. –e per esso alla competenza generale in materia della Corte d’appello- le sole controversie riguardanti determinazione e corresponsione delle indennità (tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASi deve escludere –sulla base di un costante insegnamento giurisprudenziale- la compatibilità della c.d. regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ con il dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del D.P.R. 380/2001.
L’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, con consentita legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, viene a porsi in contrasto:
- con il principio di legalità, in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, e in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del D.P.R. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- con il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- con i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

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Quanto, da ultimo, alla richiamata distinzione fra “abuso formale” ed “abuso sostanziale”, si osserva che, se l’attuale conformità urbanistico-edilizia degli interventi come sopra repressi è, dalla parte ricorrente, concretamente indimostrata, ritiene il Collegio di dover escludere –sulla base di un costante insegnamento giurisprudenziale che si intende, in questa sede, confermare– la compatibilità della c.d. regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ con il dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del D.P.R. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati da TAR Campania, Napoli, sez. VII, nelle sentenze nn. 08.10.2015 n. 4718, 10.09.2010 n. 17398, 03.07.2012 n. 3153 e 20.03.2014 n. 1690, che di seguito si riportano:
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in pejus della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti che riducano o escludano, appunto, lo jus aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello jus superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in pejus dello jus aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi dello jus superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, viepiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole jus superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost., ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
L’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, con consentita legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, viene, dunque, a porsi in contrasto:
- con il principio di legalità, in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante, la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, e in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del D.P.R. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- con il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- con i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore.
Le considerazioni precedentemente rassegnate escludono la condivisibilità delle argomentazioni dedotte con il presente mezzo di tutela: che deve, conseguentemente, essere respinto (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 21.07.2016 n. 789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 75 del d.p.r. n. 445 del 2000, richiamato dall’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, stabilisce che la non veridicità della dichiarazione sostitutiva comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che tale norma lasci alcun margine di discrezionalità all’Amministrazione.
Ciò senza contare che l’interessata era stata preventivamente edotta della necessità di attestare le eventuali condanne subite grazie al facsimile di dichiarazione sostitutiva allegato al disciplinare di gara, né la stazione appaltante avrebbe potuto concedere la remissione in termini richiesta, vista la conoscibilità del decreto penale da parte dell’interessato tramite la visura del casellario giudiziario ed inoltre la fase della superata aggiudicazione avrebbe impedito passaggi di tal genere.
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Destituita di fondamento è l’asserzione che il decreto penale non potesse essere menzionato perché assente nel certificato del casellario giudiziale: invero, l’elemento della “non menzione” riguarda i rapporti con i privati e non con le pubbliche amministrazioni.
Si deve poi aggiungere per completezza che la consultazione del casellario rappresenta un onere per gli amministratori (delle società) tenuti alle dichiarazioni di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici.

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L’appello è infondato, essendo logiche e condivisibili le conclusioni raggiunte dai primi giudici, il che consente di prescindere dall’esame della eccezione di difetto di legittimazione attiva di Ba.Et. sollevata dall’appellato Comune di Arezzo.
L’art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163 del 2006 stabilisce l’esclusione dalle pubbliche procedure di gara degli amministratori muniti del potere di rappresentanza nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna passate in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuta irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale.
Detta previsione esprime una sorta di automatismo connesso ad un riconoscimento normativo di un insussistenza di requisiti morali e giuridici che colpiscono direttamente la figura degli amministratori -o del singolo amministratore- in quanto tali.
Altro genere di previsione si rinviene nel comma 2 dello stesso art. 38, ove si stabilisce nella prima parte che “il candidato il concorrente attesta possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del presidente della Repubblica 28.12.2000 n. 445, in cui indica delle condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione”.
Mentre l’esclusione predetta di cui alla lett. c) del comma 1 costituisce una regola automatica che prescinde da valutazioni discrezionali della stazione appaltante, la dichiarazione di cui al comma 2 è un obbligo per i soggetti chiamati a tale dichiarazione indipendentemente dalla gravità delle condanne, poiché in questo caso spetta alla P.A. procedente la valutazione sull’affidabilità dei soggetti partecipanti, con la possibilità di effettuare un vaglio ulteriore a quello tassativo già operato dal legislatore allo scopo di una conoscenza effettiva e generale della moralità e della professionalità dei soggetti concorrenti e per verificarne a fondo la reale affidabilità: naturalmente, mentre le esclusioni di cui al comma lett. c) sono vincolanti, un’esclusione fondata su condanne di altro genere potrà sempre essere sindacata dal giudice amministrativo per quanto concerne la sua ragionevolezza e la sua attinenza con i requisiti per contrattare con le pubbliche amministrazioni.
Ciò dimostra che la dichiarazione di cui al comma 2 non è un inutile orpello o un passaggio burocratico ininfluente, ma costituisce lo strumento adeguato per svolgere un controllo generale sui rappresentanti delle ditte concorrenti.
Né può essere chiamato in causa l’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici concernente la tassatività delle cause di esclusione: stabilisce infatti tale comma 1-bis l’esclusione dei candidati o dei concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice, dal regolamento ed altre disposizioni di legge vigenti; quindi, non si tratta tanto di una previsione di esclusione autonomamente inserita dalla legge di gara -come nel caso di specie- ma della violazione di una rilevante prescrizione dello stesso codice dei contratti pubblici, un’omissione di un importante passaggio previsto da questo stesso e come correttamente osservato dal Tar della Toscana, l’art. 46, comma 1-bis, in questione, nel circoscrivere l’ipotesi di esclusione dalle gare, non collega quest’ipotesi alla presenza di una specifica previsione di estromissione, ma anche all’omissione di adempimenti doverosi, la cui pregnanza deve essere desunta dal loro ruolo (Cons. Stato, VI, 13.10.2015 n. 4703; id., 02.02.2015 n. 462; V, 03.12.2014 n. 5972).
Destituita di fondamento è poi l’asserzione che il decreto penale non potesse essere menzionato perché assente nel certificato del casellario giudiziale: è infatti stato prodotto in atti il certificato del vice presidente dell’istituto bancario aggiudicatario, a carico del quale risulta essere stato emesso il decreto penale in parola da parte del g.i.p. del Tribunale di Arezzo in data 07.01.2010, esecutivo l’anno successivo. Si tratta di provvedimento antecedente la procedura di gara in controversia e l’elemento della “non menzione” riguarda i rapporti con i privati e non con le pubbliche amministrazioni.
Si deve poi aggiungere per completezza che la consultazione del casellario rappresenta un onere per gli amministratori tenuti alle dichiarazioni di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici e che le vicende specifiche rappresentate in causa, disconoscimento della notifica, successiva remissione in termini per l’opposizione e revoca del decreto, costituiscono fatti successivi al provvedimento impugnato e non possono comunque inficiarne la legittimità.
Per le suesposte considerazioni l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.07.2016 n. 3275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Se un terreno è stato utilizzato per definire gli standard di un piano di lottizzazione, questo terreno non può essere conteggiato per una successiva edificazione.
Una volta che sono state realizzate le previste volumetrie, non è possibile argomentare –al fine di sostenere la tesi della successiva edificazione– che l’efficacia del piano di lottizzazione è limitato a 10 anni.
E' del tutto evidente che, in occasione dell’attuazione di un piano di lottizzazione, a fronte della edificazione realizzabile, vengono contestualmente assunti dai privati obbligazioni volte sia alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, sia alla cessione gratuita delle aree individuate e destinate a spazi pubblici, ad attività collettive, a verde pubblico e a parcheggi.
E’ in questo senso che risulta condivisibile quanto affermato dalla impugnata sentenza, laddove questa riconduce il caso in esame ad un esempio di “perequazione urbanistica”, con attribuzione di un indice di edificabilità, accorpamento di aree e cessione gratuita di altre aree al Comune: una perequazione urbanistica cd.. “di comparto”, che, avendo come finalità la realizzazione di quanto previsto nello strumento urbanistico, permette l’accordo dei proprietari riguardo alla concentrazione/distribuzione di volumetrie nell’ambito di una determinata area, in modo tale da non creare svantaggi per alcuno, ovvero consente la realizzazione, per il tramite di consorzio, di quanto previsto dal piano di lottizzazione, in una visione unitaria e concordata, anche nel rapporto tra edificando, verde pubblico, aree destinate a parcheggi e servizi pubblici.
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Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che “proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano”.
Si è affermato inoltre che "un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni”.
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto".
In definitiva, una volta utilizzato per la definizione complessiva degli standard di un territorio oggetto di piano di lottizzazione, il singolo terreno, ancorché non interessato da edificazione ed anche se eventuali destinazioni, quali quella a verde pubblico, non hanno avuto attuazione, non può essere considerato disponibile ai fini di una successiva edificazione: una volta realizzate le volumetrie previste, risultando inconferente il decorso del decennio di efficacia del Piano di lottizzazione.

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3. Tanto precisato, il Collegio rileva come risulti pacifico tra le parti che il terreno, oggetto della presente controversia, sito in Ladispoli, di proprietà degli attuali appellanti, fu inserito nel piano di lottizzazione di ufficio “Cerreto”, approvato dal Consiglio comunale di Ladispoli, unitamente allo schema di convenzione ed allo statuto regolante la costituzione del consorzio.
Orbene, è del tutto evidente che, in occasione dell’attuazione di un piano di lottizzazione, a fronte della edificazione realizzabile, vengono contestualmente assunti dai privati (nel caso di specie, dal Consorzio) obbligazioni volte sia alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, sia alla cessione gratuita delle aree individuate e destinate a spazi pubblici, ad attività collettive, a verde pubblico e a parcheggi.
E’ in questo senso che risulta condivisibile quanto affermato dalla impugnata sentenza, laddove questa riconduce il caso in esame ad un esempio di “perequazione urbanistica”, con attribuzione di un indice di edificabilità, accorpamento di aree e cessione gratuita di altre aree al Comune: una perequazione urbanistica cd.. “di comparto”, che, avendo come finalità la realizzazione di quanto previsto nello strumento urbanistico, permette l’accordo dei proprietari riguardo alla concentrazione/distribuzione di volumetrie nell’ambito di una determinata area, in modo tale da non creare svantaggi per alcuno, ovvero consente la realizzazione, per il tramite di consorzio, di quanto previsto dal piano di lottizzazione, in una visione unitaria e concordata, anche nel rapporto tra edificando, verde pubblico, aree destinate a parcheggi e servizi pubblici.
E la sentenza stessa precisa inoltre (in modo non oggetto di contestazione da parte degli appellanti) che “l’area dei ricorrenti è stata assunta al fine di concorrere al raggiungimento degli standards di urbanizzazione che consentivano l’edificazione del Consorzio”, nell’ambito di una lottizzazione che –come afferma il Comune di Ladispoli (v. memoria di replica del 19.05.2016)– “è oggi definitivamente e compiutamente realizzata”.
Da quanto esposto consegue che l’area appartenente agli attuali appellanti, lungi dal poter essere considerata disponibile, era stata invece pienamente considerata, onde consentire la realizzazione dell’edificazione da parte del Consorzio (cui gli appellanti hanno aderito), secondo quanto previsto dal Piano di lottizzazione.
Ne consegue che l’intervenuta scadenza del termine decennale del piano di lottizzazione, invocata dagli appellanti, non ha alcun effetto sulla destinazione urbanistica del proprio suolo, posto che questo, per effetto del piano di lottizzazione e della convenzione allo stesso allegata, era ormai definitivamente destinato al conseguimento degli standard onde consentire l’edificazione assentita.
In tal senso, non assume alcun rilievo distinguere tra piano di lottizzazione e convenzione, onde stabilire la fonte della destinazione a verde pubblico del suolo dei ricorrenti.
Questa è da ricondursi senza alcun dubbio al piano di lottizzazione, ma essa non cessa di avere efficacia per decorso del termine decennale (ex art. 17, co. 1, l. n. 1150/1942), perché –una volta considerata ai fini della verifica degli standard– essa è stata già considerata e costituisce, per così dire, un “momento di attuazione” già definito del piano di lottizzazione.
In altre parole, se, per il tramite della destinazione a verde pubblico di un’area all’interno del piano (ancorché appartenente solo ad uno o ad alcuni dei consorziati) si consente l’edificazione di quanto previsto (la quale, altrimenti, in difetto di standards, non sarebbe possibile), il piano, per questa parte, risulta già avere avuto attuazione per il fatto stresso dell’edificazione.
Ne consegue che il terreno –indipendentemente dall’attuazione in concreto di quanto sullo stesso previsto- non risulta più utilizzabile e ciò anche nel rispetto del sinallagma convenzionalmente assunto.
4. Le conclusioni cui si è pervenuti risultano coerenti con i principi già espressi, in casi analoghi, dalla giurisprudenza amministrativa.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 09.07.2011 n. 4134) ha già avuto modo di affermare che “proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano
”.
Si è affermato inoltre che "un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni” (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto" (Cons. Stato, sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
In definitiva, una volta utilizzato per la definizione complessiva degli standard di un territorio oggetto di piano di lottizzazione, il singolo terreno, ancorché non interessato da edificazione ed anche se eventuali destinazioni, quali quella a verde pubblico, non hanno avuto attuazione, non può essere considerato disponibile ai fini di una successiva edificazione: una volta realizzate le volumetrie previste, risultando inconferente il decorso del decennio di efficacia del Piano di lottizzazione.
Nel caso di specie, inoltre, non ha alcun rilievo quanto affermato dagli appellanti, e cioè che essi “in base al piano di lottizzazione d’ufficio decaduto ... non avrebbero avuto alcun diritto edificatorio a fronte della cessione dell’area di loro proprietà ai fini dell’attuazione della destinazione a verde pubblico impressa dal piano stesso”.
Come affermato anche dal Comune di Ladispoli (v. pag. 4 memoria del 19.05.2016), non rilevano né le ragioni per le quali gli appellanti hanno aderito al Consorzio, né l’utilità che da ciò essi hanno potuto pensare di ritrarre o hanno effettivamente conseguito.
Ciò che rileva, è che gli attuali appellanti hanno incontestabilmente aderito al Consorzio e ne hanno assunto gli obblighi derivanti dalla convenzione (tanto da non risultare tra coloro che non hanno aderito al progetto di lottizzazione d’ufficio e, dunque, i loro terreni non sono stati inseriti nel piano particellare d’esproprio: v. memoria Comune 19.05.2016, pag. 3).
Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato, stante la sua infondatezza, con conseguente conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.07.2016 n. 3246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINel caso di gara da aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più basso, per la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, s'impone una valutazione stringente sulla conformità o meno del prodotto alla specifiche già predeterminate dalla lex specialis che non consente alla stazione appaltante di formulare apprezzamenti sul grado di maggiore o minore qualità tecnica dell’offerta, sottoponendo i prodotti a prove o verifiche non previste dalla lex specialis, come è avvenuto nel caso di specie.
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Se è ben vero che nelle gare bandite secondo il criterio del prezzo più basso l’Amministrazione può e deve verificare la conformità del prodotto alle specifiche tecniche predeterminate dalla lex specialis, essa non può sottoporre le offerte a verifiche e prove non previste e non predeterminate ed esprimere valutazioni tecniche sulla minore o maggiore qualità dei prodotti, basate su una comparazione qualitativa tra i prodotti offerti (consentita invece nelle gare bandite con il metodo dell’offerta economicamente vantaggiosa), con il risultato illegittimo, peraltro, di escludere in toto l’offerta ritenuta solo qualitativamente meno vantaggiosa, come è accaduto nel caso di specie.
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4. Occorre premettere che la gara in oggetto doveva aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più basso che, per la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, impone una valutazione stringente sulla conformità o meno del prodotto alla specifiche già predeterminate dalla lex specialis (Cons. St., sez. V, 11.12.2015, n. 5655) e non consente alla stazione appaltante di formulare apprezzamenti sul grado di maggiore o minore qualità tecnica dell’offerta, sottoponendo i prodotti a prove o verifiche non previste dalla lex specialis, come è avvenuto nel caso di specie.
5. Per quanto concerne l’esclusione della s.p.a. Sv.Bi., in origine disposta dall’Azienda Sanitaria, infatti, il TAR ha correttamente osservato che le istruttorie sui prodotti e sulle esigenze dei reparti devono essere compiute prima di elaborare e bandire un appalto e non dopo, in corso di gara, violando il principio di trasparenza e della par condicio.
5.1. In effetti il prodotto della s.p.a. Sv.Bi. rispettava i requisiti minimi richiesti dalla stazione appaltante, come è confermato indubbiamente dal fatto, evidenziato dalla sentenza impugnata (p. 6) e non adeguatamente contestato, che il prodotto della s.p.a. Sv.Bi. è stato già riconosciuto dalla medesima Azienda conforme ad analogo capitolato speciale nell’ambito di una precedente procedura di gara RDO 799318, svoltasi il mese prima, con lo stesso soggetto aggiudicatore, lo stesso oggetto ed un identico capitolato.
5.2. Quanto ai chiarimenti resi dalla stazione appaltante nella gara in esame, in primo luogo essi non hanno potuto modificare ex post la lex di gara e, in secondo luogo, essi non sono tali da rendere irrilevante la insanabile contraddizione riscontrata dal TAR nell’operato dell’Amministrazione, che appena poco prima aveva ritenuto il prodotto della s.p.a. Sv.Bi. conforme ad un identico capitolato, in una gara svoltasi il mese precedente, al punto tale che la stessa s.p.a. Sv.Bi. si era aggiudicata la precedente commessa.
Sotto tale profilo, come ha correttamente rilevato il TAR, i medesimi chiarimenti (impugnati ritualmente in primo grado) risultano illegittimi, nella parte in cui si sono discostati dalle previsioni della lex specialis, sicché di essi non si deve tenere conto in sede di verifica della legittimità dell’atto di esclusione.
5.3. Se è ben vero che nelle gare bandite secondo il criterio del prezzo più basso l’Amministrazione può e deve verificare la conformità del prodotto alle specifiche tecniche predeterminate dalla lex specialis, essa non può sottoporre le offerte a verifiche e prove non previste e non predeterminate ed esprimere valutazioni tecniche sulla minore o maggiore qualità dei prodotti, basate su una comparazione qualitativa tra i prodotti offerti (consentita invece nelle gare bandite con il metodo dell’offerta economicamente vantaggiosa), con il risultato illegittimo, peraltro, di escludere in toto l’offerta ritenuta solo qualitativamente meno vantaggiosa, come è accaduto nel caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.07.2016 n. 3206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe disposizioni regionali che regolano il procedimento e la tempistica di approvazione del P.G.T. devono essere interpretate in modo da “garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (articoli 3 e 97 della Costituzione), nonché [devono] assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (articolo 12 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella (…) che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute”.

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Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza amministrativa, la normativa in materia di V.A.S. non impone una rigorosa separazione fra Autorità competente e procedente, potendo le stesse essere scelte anche fra articolazioni o organi della stessa amministrazione, anche in caso di strutture amministrative di piccole dimensione, come quelle di molti comuni.
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L’art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 stabilisce che i Comuni possono procedere alla correzione di errori materiali e a rettifiche degli atti di PGT, non costituenti variante agli stessi; tale disposizione non sembra applicabile soltanto alla fase successiva all’approvazione definitiva del Piano, ma pare riferibile a tutto il procedimento, anche anteriore, riguardo alle fasi di adozione e approvazione, atteso che la correzione o la rettifica deve essere tempestivamente effettuata sia per garantire il buon andamento dell’attività amministrativa, sia per evitare che le fasi successive risultino inficiate dalla presenza di pregressi errori non eliminati, seppure già individuati.
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5. Con la quinta doglianza (rubricata come sesto motivo) si contesta la legittimità della procedura di approvazione del Piano per violazione dei termini di pubblicazione e della successiva approvazione.
5.1. La doglianza è infondata.
Come sostenuto in precedenti occasioni da questa Sezione, le disposizioni regionali che regolano il procedimento e la tempistica di approvazione del P.G.T. devono essere interpretate in modo da “garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (articoli 3 e 97 della Costituzione), nonché [devono] assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (articolo 12 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella (…) che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute
” (TAR Lombardia, Milano, II, 24.04.2015, n. 1032).
5.2. In ogni caso la censura appare infondata anche in fatto, atteso che la deliberazione di adozione del Piano è stata adottata il 16.04.2009, ma è divenuta esecutiva il 6 giugno successivo (cfr. all. 3 del Comune), con la conseguenza che il deposito del 01.09.2009 è avvenuto entro il novantesimo giorno (all. 4 e 5 del Comune).
Quanto al superamento del termine di novanta giorni per approvare definitivamente il Piano, decorrente dal termine di scadenza per la presentazione delle osservazioni (avvenuto il 30.10.2009), lo stesso risulta giustificato dalla circostanza che in quel periodo nel Comune di Azzate si sono svolte le elezioni e quindi si deve far applicazione del disposto di cui all’art. 13, comma 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005, che ha incrementato il lasso temporale da novanta a centocinquanta giorni nei Comuni in cui si svolgono le elezioni amministrative; pertanto l’approvazione definitiva avvenuta il 24.03.2010 è tempestiva (cfr. all. 4, 5, 12 e 13 del Comune).
5.3. Ciò determina il rigetto anche della predetta censura.
6. Con la sesta doglianza (rubricata come settimo motivo) si contesta l’individuazione dell’autorità competente per la V.A.S. nell’ambito della stessa Amministrazione comunale tenuta all’approvazione del P.G.T., in quanto non offrirebbe alcuna garanzia di indipendenza, imparzialità e terzietà.
6.1. La censura è infondata.
Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza amministrativa, la normativa in materia di V.A.S. non impone una rigorosa separazione fra Autorità competente e procedente, potendo le stesse essere scelte anche fra articolazioni o organi della stessa amministrazione, anche in caso di strutture amministrative di piccole dimensione, come quelle di molti comuni (Consiglio di Stato, IV, 17.09.2012, n. 4926; 12.01.2011, n. 133; TAR Lombardia, Milano, II, 23.02.2016, n. 374).
6.2. Ciò determina il rigetto anche della predetta censura.
7. Con la settima doglianza (rubricata come ottavo motivo) si contesta che, nel procedimento di approvazione del P.G.T., si sarebbe fatto ricorso illegittimamente alla disciplina relativa alla correzione degli errori materiali, pur a fronte dell’introduzione di modifiche vere e proprie, peraltro realizzabili soltanto a Piano già approvato e non semplicemente adottato.
7.1. La censura non è meritevole di accoglimento.
L’art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 stabilisce che i Comuni possono procedere alla correzione di errori materiali e a rettifiche degli atti di PGT, non costituenti variante agli stessi; tale disposizione non sembra applicabile soltanto alla fase successiva all’approvazione definitiva del Piano, ma pare riferibile a tutto il procedimento, anche anteriore, riguardo alle fasi di adozione e approvazione, atteso che la correzione o la rettifica deve essere tempestivamente effettuata sia per garantire il buon andamento dell’attività amministrativa, sia per evitare che le fasi successive risultino inficiate dalla presenza di pregressi errori non eliminati, seppure già individuati.
In ogni caso, la censura risulta pure generica, visto che non sono state indicate puntualmente le parti oggetto di modifica sostanziale piuttosto che di correzione, né è stato specificato il rilievo delle supposte modifiche rispetto alle aree di proprietà dei ricorrenti.
7.2. La censura pertanto va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.07.2016 n. 1437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’insegna di esercizio è il segno distintivo dei locali ove l’impresa svolge la sua attività; essa assolve alla funzione di collettore della clientela, consentendo all’impresa stessa di differenziarsi dalle altre imprese che offrono sul mercato i medesimi beni o servizi.
Di contro, l’insegna pubblicitaria persegue lo scopo di rendere noti alla platea dei potenziali consumatori i prodotti dell’impresa.
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6.1. Il ricorso è infondato.
6.2. Infatti, se è ben vero che – come osservato dalla difesa di Udinese Calcio S.p.A. nel terzo motivo di ricorso– la circostanza che le insegne di cui si discute siano già state installate in assenza della necessaria e preventiva autorizzazione di per sé solo giustifica esclusivamente l’adozione di provvedimenti sanzionatori e/o ripristinatori, è comunque altrettanto vero che entrambe le ulteriori due ragioni poste a fondamento della decisione del Comune sono idonee, autonomamente e indipendentemente l’una dall’altra, a sorreggere il diniego che qui si esamina.
7.1. In particolare, quanto al limite dimensionale –oggetto di contestazione nel secondo motivo di ricorso– occorre muovere dal dato normativo e segnatamente dall’articolo 48 D.P.R. n. 495/1992, il in via generale fissa a 6 mq. la misura massima di cartelli, insegne di esercizio e mezzi pubblicitari installati fuori dai centri abitati, ad eccezione, testualmente, «delle insegne di esercizio poste parallelamente al senso di marcia dei veicoli o in aderenza ai fabbricati, che possono raggiungere la superficie di 20 m2; qualora la superficie di ciascuna facciata dell’edificio ove ha sede l’attività sia superiore a 100 m2, è possibile incrementare la superficie dell’insegna di esercizio nella misura del 10% della superficie di facciata eccedente 100 m2, fino al limite di 50 m2».
7.2.1. Orbene, il criterio ermeneutico letterale porta senza dubbio a ritenere che i 50 mq. rappresentino il limite massimo di estensione delle insegne di esercizio al di fuori dei centri abitati, e non –come pretende parte ricorrente- il limite massimo dell’incremento.
Se il legislatore avesse voluto aggiungere i 50 mq. alla misura prima fissata avrebbe utilizzato la dicitura “ulteriori 50 m2”, anziché parlare sic et simpliciter di 50 mq..
7.2.2. In ogni caso, poi, se di limite massimo di aumento si trattasse, comunque esso dovrebbe applicarsi alla misura ordinaria, vale a dire i 6 mq., per un totale di 56 mq., di talché in ogni caso le insegne in discussione sarebbero fuori misura.
7.2.3. In realtà, la norma si articola in una previsione generale, che fissa a 6 mq. il limite massimo di estensione, e in due alternative eccezioni (per loro natura, di stretta interpretazione), limitate alle sole insegne di esercizio, che al verificarsi dei presupposti ivi contemplati portano a, rispettivamente, 20 e 50 mq., l’estensione massima di detti manufatti.
Anzi, proprio il raffronto con la prima eccezione alla regola generale, la cui dicitura (“possono raggiungere la superficie di 20 m2”) non lascia spazio a dubbi di sorta in ordine al fatto che quella ivi indicata (20 mq.) sia la misura massima dell’insegna di esercizio, rafforza –per ragioni di omogeneità– il convincimento che pure la seconda eccezione contemplata dalla disposizione (quella dei 50 mq.) fissi la misura massima dell’insegna.
8.1. Il punto dirimente della controversia è, però, rappresentato dalla qualificazione giuridica delle insegne che la società Udinese Calcio S.p.A. chiede di essere autorizzata a installare.
Orbene, al riguardo il Collegio concorda con il Comune in ordine al fatto che si tratta propriamente di insegne pubblicitarie e non di esercizio.
8.2. L’insegna di esercizio è il segno distintivo dei locali ove l’impresa svolge la sua attività (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 710/2016; C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 5586/2013); essa assolve alla funzione di collettore della clientela, consentendo all’impresa stessa di differenziarsi dalle altre imprese che offrono sul mercato i medesimi beni o servizi.
Di contro, l’insegna pubblicitaria persegue lo scopo di rendere noti alla platea dei potenziali consumatori i prodotti dell’impresa (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 15.07.2016 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISilenzio-assenso a 360°. Ma l'istituto non può essere un alibi per la p.a.. Parere del Consiglio di stato sulla riforma Madia. Limiti all'autotutela.
Il silenzio-assenso si applica a 360 gradi. Sia nei confronti di regioni ed enti locali, sia quando su un provvedimento debbano pronunciarsi autorità indipendenti o gestori di servizi pubblici o ancora organi politici. Dopo 30 giorni di inerzia , il silenzio sarà equiparato al concerto, assenso o nulla osta da acquisire. E la p.a. non avrà più potere di dissentire, impedendo l'adozione dell'atto attraverso lo strumento dell'autotutela.
Perché se così fosse il silenzio-assenso diventerebbe «un atto di natura meramente provvisoria, suscettibile di essere neutralizzato da un ripensamento unilaterale fino all'adozione del provvedimento finale».
Tuttavia, il silenzio-assenso non può essere la regola. Né nei rapporti tra p.a. e cittadino, né in quelli tra amministrazioni chiamate a esprimere il proprio nulla osta su un provvedimento.
Soprattutto nei rapporti tra amministrazioni concertanti, il silenzio-assenso è un rimedio «patologico» ma necessario perché «nessuna p.a. può avere più il potere di bloccare un procedimento» non esprimendo la propria posizione su un atto specifico.

Nell'articolato
parere 13.07.2016 n. 1640 il Consiglio di Stato si è espresso sulla portata applicativa della novità contenuta nella delega Madia (legge n.124f2015) che ha introdotto nella legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241/1990) l'art. 17-bis sul silenzio-assenso anche nei rapporti tra pubbliche amministrazioni.
A interpellare palazzo Spada è stato l'Ufficio legislativo della Funzione pubblica che sollevato diversi dubbi interpretativi in relazione all'ambito di applicazione dell'istituto, ai rapporti tra silenzio-assenso e conferenza dei servizi e all'esercizio del potere di autotutela.
La commissione speciale, costituita ad hoc dal Consiglio di stato per l'esame dei quesiti, ha riconosciuto che la regola del silenzio-assenso trova fondamento nel diritto europeo, nella Costituzione e nel principio di trasparenza.
Perché non è ammissibile paralizzare l'attività della p.a semplicemente non esprimendo la propria opinione su un atto specifico. Tuttavia, ha ammonito palazzo Spada, «una pronuncia espressa resta sempre preferibile: permane una valenza fortemente negativa del silenzio-assenso (sia tra amministrazione e cittadino, sia tra amministrazioni co-decidenti), ma esso resta comunque una soluzione migliore dell'inerzia totale».
Nel rispondere ai quesiti del dicastero di Marianna Madia, il Consiglio di stato ha esteso l'applicabilità dell'istituto a una molteplicità di fattispecie applicative, tutte accumunate dal fatto di riguardare atti di natura co-decisoria. La stessa cosa, tuttavia, non può dirsi per gli atti che si collocano in un momento successivo a quello della decisione, quali per esempio la bollinatura della Ragioneria generale dello stato. Il bollino della Rgs, ha chiarito il Consiglio di stato, «è infatti un atto con funzione di controllo che si colloca dopo l 'esaurimento della fase decisoria ed è necessario per l'integrazione dell'efficacia dei provvedimenti già adottati».
Non sfuggono alla regola del silenzio-assenso nemmeno le amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili (beni culturali, salute dei cittadini), a cui si applicano i termini previsti dalla normativa di settore o , in mancanza, il termine di 90 giorni
(articolo ItaliaOggi del 14.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti disciplinari, i giudici stoppano la Madia.
La sentenza 11.07.2016 n. 14103 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, pubblicata appena due giorni prima della entrata in vigore del decreto legislativo 20.06.2016, n. 116 (il 13.07.2016) contenente modifiche all'art. 55-quater del decreto legislativo n. 165/2001, in materia di licenziamento disciplinare dei dipendenti pubblici, se sarà recepita alla lettera da altri giudici o anche dai dirigenti di uffici pubblici cui compete l'onere di dare inizio ad un procedimento disciplinare, rischia di vanificare in parte gli obiettivi voluti dal legislatore che, come è noto, sono quelli di sanzionare, nei tempi più velocemente possibile, i comportamenti truffaldini da parte dei pubblici dipendenti, ivi compreso il personale della scuola.
Una sanzione che, nei casi elencati nell'articolo 55-quater, nel testo in vigore dopo le modifiche apportate dal decreto legislativo 116/2016, inizia con la sospensione cautelare e può terminare con il licenziamento disciplinare.
Il rischio che possano essere, anche se in parte, vanificati gli obiettivi del legislatore nasce dalle motivazioni con le quali i giudici della Cassazione hanno respinto un ricorso presentato da un dipendente pubblico avverso, appunto, il licenziamento disciplinare.
Ad avviso dei giudici l'irrogazione della massima sanzione disciplinare ad un dipendente pubblico può essere giustificata in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali o dalla violazione di una disposizione di legge ma anche a condizione che tanto l'inadempimento quanto la violazione siano di tali gravità da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro dovendosi considerare irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia.
Una tesi certamente in linea con la disciplina vigente in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo. Ma è una tesi in linea anche in presenza di alcuni dei casi (falsa attestazione della presenza in servizio o assenza dal servizio senza valida giustificazione) ai quali, per effetto di quanto dispone il decreto legislativo 116/2016, trova comunque applicazione la sanzione disciplinare del licenziamento? (articolo ItaliaOggi del 02.08.2016).
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MASSIMA
4 - Il motivo è fondato nei limiti e per le ragioni di seguito precisate.
Premette il Collegio che la Corte territoriale ha fondato la ritenuta legittimità del licenziamento sulla sola disciplina contrattuale, perché, quanto alla applicabilità della legge n. 662 del 1996, art. 1, commi 60 e 61, invocata dalla difesa dell'Azienda appellante, ha ritenuto che la questione potesse essere superata attraverso il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato la perdurante vigenza, pur all'esito della contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, dell'istituto della decadenza, previsto e disciplinato dal d.p.r. n. 3 del 1957. La Corte di Appello ha, poi, sottolineato la natura non sanzionatoria del provvedimento disciplinato dal richiamato d.p.r., che, quindi, opera su un piano distinto da quello della responsabilità disciplinare.
Tenuto conto del percorso motivazionale seguito, deve ritenersi, anche in considerazione del carattere logicamente preliminare della questione superata dalla Corte territoriale, che quest'ultima abbia affermato la inapplicabilità alla fattispecie dell'art. 1, commi 60 e 61 della legge n. 662 del 1996, dalla quale ha, poi, tratto la conseguenza della apprezzabilità del comportamento sotto il profilo disciplinare unicamente alla luce delle disposizioni dettate dal contratto collettivo. Ne discende che il ricorso è inammissibile, per difetto di interesse, nella parte in cui reitera l'argomento della abrogazione per incompatibilità del richiamato art. 1, commi 60 e 61, posto che, come già detto, la sentenza ha escluso la applicabilità della norma in questione e sul punto si è formato giudicato interno.
4.1 - E' fondata la censura relativa alla violazione dell'art. 13 del CCNL 19.04.2004 per il personale del comparto sanità, come modificato ed integrato dall'art. 6 del CCNL 10.04.2008.
Deve anzitutto osservarsi che,
qualora le doglianze svolte riguardino l'interpretazione e l'applicazione di contratti collettivi nazionali di cui al d.lgs. n. 165/2001, questa Corte è abilitata alla diretta lettura dell'intero testo contrattuale, essendo ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità che nelle controversie di lavoro concernenti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ove sia proposto ricorso per Cassazione per violazione e falsa applicazione dei contratti e degli accordi collettivi nazionali di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 5, la Corte di Cassazione può procedere alla diretta interpretazione di siffatti contratti (Cass. 14.10.2009 n. 21796).
Ciò premesso osserva il Collegio che l'art. 13 del contratto collettivo, nel tipizzare le condotte che giustificano il licenziamento disciplinare con o senza preavviso, non prevede fra le diverse ipotesi la violazione della disciplina dettata dall'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 e attribuisce rilievo alla recidiva solo alle condizioni previste dal comma 7, lettere a), b), f) e g) nonché dalla lettera a) del comma 8.
La disciplina contrattuale, inoltre, richiama il principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni e prevede che le stesse debbano essere inflitte tenendo conto: della intenzionalità del comportamento, della rilevanza degli obblighi violati, delle responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente, del grado di pericolo o di danno causato alla azienda o agli utenti del servizio, della sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti.
Le parti collettive, in tal modo, hanno inteso recepire il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui "
in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali,  dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza" (cfr., fra le altre, Cass. 22.06.2009 n. 14586; Cass. 26.07.2010 n. 17514; Cass. 13.02.2012 n. 2013; e Cass. 25.06.2015 n. 13158 pronunciata in fattispecie analoga a quella oggetto di causa).
La gravità dell'inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte.
Non è sufficiente, per ritenere giustificato un licenziamento, che una disposizione di legge sia stata violata dal lavoratore o che un obbligo contrattuale non sia stato dal medesimo adempiuto, occorrendo pur sempre che tali violazioni siano di una certa rilevanza e presentino i caratteri in precedenza enunciati.

Nel caso di specie la Corte territoriale ha fondato il giudizio di gravità dell'inadempimento sulla sola reiterazione della condotta, di per sé non decisiva in difetto delle ulteriori condizioni richieste dalla norma contrattuale, senza considerare che gli incarichi erano stati svolti nel periodo di aspettativa non retribuita e senza fare alcun riferimento alle "responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente", al "grado di danno o di pericolo causato all'azienda o ente, agli utenti o a terzi", alla "sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riguardo al comportamento del lavoratore", ossia ai criteri indicati nel contratto ai fini del rispetto del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni.
Il ricorso deve pertanto essere accolto, nei termini sopra indicati, con la conseguente cassazione della impugnata sentenza e con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale dovrà riesaminare la causa attenendosi al principio sopra indicato e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità. Resta di conseguenza assorbito il secondo motivo con il quale è stato censurato il capo della decisione relativo al regolamento delle spese di lite.

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa.
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L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
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L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati.
Il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.

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Nel merito, con la prima censura è dedotta la violazione degli artt. 3, 7 e 10 della legge n. 241 del 1990, oltre all’eccesso di potere (per violazione del giusto procedimento, omessa ponderazione, perplessità e difetto di motivazione), per risultare l’impugnata ordinanza di demolizione non preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento (non ravvisabile nel pur richiamato Verbale di Sequestro redatto dalla Polizia Municipale di San Giuseppe Vesuviano), in tal modo precludendosi all’interessato di allegare deduzioni che, a seguito della loro valutazione, avrebbero consentito una diversa valutazione del procedimento.
La censura è infondata.
Al riguardo, giurisprudenza assolutamente prevalente e condivisa dal Collegio rileva che:
- <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 2.12.2014, n. 6302);
- <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383; TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233);
- ed, ancora: <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335);
- <<L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425);
- infine il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 36 del D.L.vo 06.06.2001, n. 380, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>>.
Secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto). Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali, i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>, con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto.
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R., n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.

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La circostanza che l’impugnata ordinanza di demolizione sia stata adottata il 25.08.2014 e notificata alla ricorrente in data 04.09.2014, ossia prima della presentazione della istanza di permesso in sanatoria -datata 10.10.2014- ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, secondo orientamento consolidato di questa Sezione, da cui non v’è ragione per discostarsi, non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo; ciò in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Sul punto pertinente è il richiamano alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito. Da ciò consegue che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza i poteri sanzionatori del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio; la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
E’ appena il caso di rilevare che l’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo.
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Con la seconda censura è dedotta la violazione dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, la violazione dei criteri di economicità, efficacia e pubblicità dell’azione amministrativa, la violazione del giusto procedimento, la violazione del principio di buon andamento e trasparenza dell’azione amministrativa, oltre all’ingiustizia manifesta, al riguardo rilevandosi che -come emergerebbe dalla documentazione offerta in comunicazione- risultando presentata in data 10.10.2014, da Di Ro. Ro., attuale ricorrente, presso il Comune di San Giuseppe Vesuviano (NA), richiesta di accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. 380/2001 per le opere, presunte abusive ed illegittime, sanzionate con l’impugnata ordinanza di demolizione, alla luce di tale richiesta e della prossima determinazione da parte dell’Ente intimato degli oneri di concessione, risulterebbe necessaria la sospensione dell’esecuzione del provvedimento sanzionatorio, previa la necessaria definizione dei procedimenti attivati per il rilascio delle concessioni in sanatoria.
Sul punto la giurisprudenza avrebbe affermato che l’ingiunzione di demolizione di opere costruite senza concessione edilizia perderebbe efficacia con la presentazione della domanda di concessione in sanatoria ai sensi dell’art. 13, L. n. 47/1985, con la conseguenza che l’Amministrazione avrebbe effettivamente dovuto reiterare il provvedimento demolitorio a seguito della presentazione di istanza di sanatoria da parte dell’interessato.
Ne deriverebbe altresì l’obbligo dell’Amministrazione di fornire un riscontro esplicito e motivato riguardo ad ogni istanza proposta dal cittadino, mentre, nel caso specie, la stessa sarebbe rimasta inerte, in violazione della L. n. 241/1990, sul procedimento amministrativo, non fornendo alcun riscontro sull’istanza di concessione in sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001, senza tener conto che alla luce del nuovo dettato dell’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, i ricorrenti potrebbero sicuramente ottenere il permesso a costruire in sanatoria in considerazione del fatto che l’intervento risulterebbe conforme alla disciplina urbanistica vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
Infine, considerato che la funzione propria dell’accertamento di conformità urbanistica sarebbe quella di sanare opere -come nella specie- solo formalmente abusive, ma sostanzialmente conformi alla disciplina urbanistica applicabile all’area di insistenza, a fortiori, con l’entrata in vigore del T.U. dell’edilizia si sarebbe affermato un concetto più ampio di sanatoria giurisprudenziale o impropria, per il quale basterebbe la conformità delle opere realizzate alla predetta disciplina, unicamente con riferimento al momento della definizione dell’istanza di sanatoria e ciò, evidentemente, per evitare la demolizione o, comunque, la sanzionabilità di opere che successivamente potrebbero essere ricostruite nella stessa forma e consistenza, con ingiustificato danno, oltre che per il responsabile, per la collettività.
La prospettazione di parte ricorrente non merita condivisione.
Sul piano disciplinare, l’art. 36 del D.L.vo 06.06.2001, n. 380, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>>.
Secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto). Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali, i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>> (TAR Campania, Sez. II, 12.07.2013, n. 3644), con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto (Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 08.06.2004, n. 9278).
Pertanto, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R., n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.
Parte ricorrente asserisce che pacifico sarebbe l’orientamento giurisprudenziale per il quale sarebbe illegittimo il provvedimento demolitorio di opere edilizie abusive in pendenza del termine di sessanta giorni per provvedere in maniera espressa o tacita sulla domanda di sanatoria antecedentemente presentata, e ciò per evidente ragione garantistica di tutela della posizione del richiedente la sanatoria e di salvezza di un bene di valenza economica che, pur se eventualmente conforme alle previsioni urbanistico-edilizie, verrebbe distrutto, sussistendo, pertanto, la necessità della previa conclusione del procedimento di sanatoria dell’abuso instaurato dall’interessato; inoltre principio ormai consolidato sarebbe che le garanzie e gli oneri di vigilanza degli organi comunali non avrebbero il solo fine di accertare la mera inosservanza dell’obbligo formale di munirsi preventivamente del permesso di costruire, ma di considerare se la costruzione realizzata sine titulo sarebbe astrattamente assentibile.
Tuttavia, preso atto dell’insussistenza di alcun obbligo dell’Amministrazione di provvedere con un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità e della correlata legittimità del silenzio serbato sulla predetta istanza, valutato come significativo (nonostante, per definizione, risulti privo di motivazione), la tesi del ricorrente non è condivisibile.
Invero la circostanza che l’impugnata ordinanza di demolizione n. 115/2014 sia stata adottata il 25.08.2014 e notificata alla ricorrente in data 04.09.2014, ossia prima della presentazione della istanza di permesso in sanatoria -datata 10.10.2014- ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, secondo orientamento consolidato di questa Sezione, da cui non v’è ragione per discostarsi, non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo; ciò in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Sul punto pertinente è il richiamano alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito. Da ciò consegue che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza i poteri sanzionatori del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio; la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli, sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli, sez. III, 02/12/2014, n. 6302.
E’ appena il caso di rilevare che l’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo (cfr. C, di S., sez. IV, 26.08.2014, n. 4279).
Vero è piuttosto che, nella fattispecie, l’interessato risulta avere assolto all’onere, di presentare apposita istanza di sanatoria, in base all’art. 36 del d.P.R. m. 380 del 2001, ma non risulta che l’istanza di sanatoria sia stata accolta, né risulta che sia stato tempestivamente e ritualmente impugnato il diniego, sia pure tacito, mentre semmai emerge che la creazione di superfici utili e volumi è ostativa al rilascio della compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167, co. 45, del D.L. vo n. 42 del 2004, considerato che il Comune di San Giuseppe Vesuviano è sottoposto al vincolo di cui al D.L. vo 42/2004, nonché della L.R. n. 21 del 10.12.2003 (zona rossa) non edificabile in cui non è consentito il rilascio di accertamenti di conformità urbanistica e compatibilità paesaggistica (cfr. TAR Campana, sez. IV, 17.02.2003, n. 876) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Infondato è il profilo di censura con cui si deduce l’incompatibilità dei provvedimenti demolitori ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2010, il primo riservato ad abusi commessi in aree vincolate, con la previsione della demolizione diretta, il secondo, invece in tutti gli altri casi della realizzazione di nuove opere, in assenza del titolo abilitante, in totale difformità o con variazioni essenziali, secondo il meccanismo della diffida a demolire indirizzata al trasgressore.
Al riguardo rileva condivisa giurisprudenza che ben può il Comune fare applicazione del disposto normativo di cui agli artt. 27 e 33, d.P.R. n. 380 del 2001 in quanto tra loro non incompatibili, poiché dalla mancata inottemperanza all'ordine di demolizione non discende, in applicazione di entrambe le norme, l'acquisizione al patrimonio comunale, a differenza di quanto avviene in ipotesi di ordine di demolizione adottato ai sensi dell'art. 31, d.P.R. n. 380/2001 riferito ad interventi di nuova costruzione, ma la demolizione d'ufficio e in danno.
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Con la terza censura è dedotta la violazione degli artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, oltre all’eccesso di potere (per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, difetto di motivazione e contraddittorietà), al riguardo rilevandosi che:
- il potere di vigilanza, prodromico e strumentale a quello ripristinatorio-sanzionatorio, trarrebbe fondamento negli artt. 27 e ss. del vigente d.P.R. 380/2001 (T.U. Edilizia) che riconoscerebbe alle Amministrazioni comunali un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività di modificazione urbanistico-edilizia dei suoli ed imporrebbe alle Amministrazioni l’obbligo di adottare provvedimenti volti al ripristino della legalità violata dall’intervento edilizio realizzato, mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato, diretto a reprimere gli abusi edilizi accertati; tratterebbesi di una competenza generale del Comune posta a salvaguardia dell’assetto urbanistico-edilizio del territorio e quindi per assicurare la rispondenza dell’attività edilizia alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nel titolo abilitativo;
- nella specie, il Comune di San Giuseppe Vesuviano con l’ordinanza impugnata confonderebbe i ben diversi poteri riconosciuti rispettivamente dall’art. 27 e dall’art. 31 del T.U. Edilizia, atteso che con la stessa eserciterebbe arbitrariamente entrambi in relazione alla medesima fattispecie: il potere di demolizione diretta e d’ufficio dell’abuso ai sensi dell’art. 27, in zone vincolate, al fine di impedire che il trascorrere del tempo determini il consolidarsi di situazioni di compromissione del bene e l’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 che riguarderebbe gli interventi in assenza di permesso di costruire in totale difformità o con variazioni essenziali;
- inoltre l’opera contestata sarebbe destinata ad uso precario, per fini specifici, come quello rappresentati dalla necessità di ottenere un ricovero di appoggio e riparo dalle intemperie per il fabbricato sottostante, per il quale non sarebbe richiesto un provvedimento di natura concessoria quale il permesso di costruire, palese, invero risultando il nesso di pertinenzialità esistente tra il ricovero (la tettoia) e la struttura principale (abitazione), manufatti tutti destinati alle oggettive esigenze dell’edificio principale con inscindibile carattere di funzionalità, tale tra l’altro, da escludere ogni ulteriore carico urbanistico.
Anzitutto infondato è il primo profilo di censura con cui si deduce l’incompatibilità dei provvedimenti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2010, il primo riservato ad abusi commessi in aree vincolate, con la previsione della demolizione diretta, il secondo, invece in tutti gli altri casi della realizzazione di nuove opere, in assenza del titolo abilitante, in totale difformità o con variazioni essenziali, secondo il meccanismo della diffida a demolire indirizzata al trasgressore.
Al riguardo rileva condivisa giurisprudenza che ben può il Comune fare applicazione del disposto normativo di cui agli artt. 27 e 33, d.P.R. n. 380 del 2001 in quanto tra loro non incompatibili, poiché dalla mancata inottemperanza all'ordine di demolizione non discende, in applicazione di entrambe le norme, l'acquisizione al patrimonio comunale, a differenza di quanto avviene in ipotesi di ordine di demolizione adottato ai sensi dell'art. 31, d.P.R. n. 380/2001 riferito ad interventi di nuova costruzione, ma la demolizione d'ufficio e in danno (cfr. TAR Campania, sez. VII, 13/07/2015, n. 3677).
Nella fattispecie, allo scopo di rendere più efficiente l’azione repressiva dell’abuso il Comune ha adottato l’impugnata ordinanza ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380 citato, senza però precludere, a priori, la possibilità per il trasgressore di demolire le opere e ripristinare spontaneamente lo stato dei luoghi demolire prevedendo, ove una tale evenienza abbia ad avverarsi, le ulteriori conseguenze sanzionatorie di cui all’art. 31, commi 2 e 3, in caso di mancata ottemperanza (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non rientra nel concetto di ristrutturazione edilizia, con esclusione dell'applicabilità dell'art. 9 l. 28.02.1985 n. 47, l'intervento edilizio con cui venga mutata, a seguito della sopraelevazione del tetto, la cubatura e la sagoma dell'edificio, giacché la ristrutturazione comporta, al massimo, la demolizione e la successiva ricostruzione del fabbricato, purché il nuovo edificio sia fedele a quello preesistente.
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Costituisce opera eseguita abusivamente come variazione essenziale e, pertanto, soggiace alla sanzione demolitoria ex art. 7, l. 28.02.1985 n. 47, la sopraelevazione del tetto di un preesistente fabbricato in quanto tale vicenda implica l'aumento della cubatura e la modificazione della sagoma dell'edificio stesso e, come tale, non è assimilabile alla ristrutturazione edilizia, che invece presuppone solo la demolizione e successiva fedele ricostruzione di quest'ultimo.
Deve pertanto considerarsi opera in totale difformità l'aumento dell'altezza di un sottotetto tale da determinare un aumento del numero di piani e la formazione di un organismo edilizio utilizzabile autonomamente; alla fattispecie va pertanto applicato non già l'art. 34, bensì l'art. 31 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
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Con ulteriore profilo di censura parte ricorrente invoca per l’opera contestata il regime riservato alle pertinenze contestata sarebbe destinata ad uso precario, per fini specifici, come quello rappresentati dalla necessità di ottenere un ricovero di appoggio e riparo dalle intemperie per il fabbricato sottostante, per il quale non necessiterebbe permesso di costruire.
Tuttavia, dalla descrizione dell’abuso contenuta (“Sopraelevazione di una tettoia ad unica falda al secondo piano con struttura soprastante travi in legno e solaio di copertura in legno, con altezza media mt. 3,50, già completa di guaina per impermeabilizzazione e di gronda. Il tutto su una superficie di mq. 192,00 ca., per una volumetria complessiva di mc. 672,00 ca. Alla richiesta del deposito per la realizzazione delle strutture di c.a., come previsto per legge, l’interessata rispondeva di non avervi ottemperato”) contenuta nella relazione tecnica di sopralluogo prot. 24886/14 evincesi agevolmente che trattasi di un’opera dotata di una propria autonoma individualità, in alcun modo in grado oggettivamente di limitarsi ad incrementare la funzionalità o anche soltanto l’estetica della cosa principale, al punto da non apportare alcun carico urbanistico; al contrario il rapporto pertinenziale viene a mancare (o rimane confinato nelle intenzioni del trasgressore) e non può esonerare dal rilascio della concessione in presenza di opere che, dal punto di vista urbanistico ed edilizio, si pongono come ulteriori, in quanto occupano aree e volumi diversi rispetto alla “res principalis” (C. di S:, sez. II, 21.02.1996, n. 1895).
In proposito si rileva in giurisprudenza che: <<Non rientra nel concetto di ristrutturazione edilizia, con esclusione dell'applicabilità dell'art. 9 l. 28.02.1985 n. 47, l'intervento edilizio con cui venga mutata, a seguito della sopraelevazione del tetto, la cubatura e la sagoma dell'edificio, giacché la ristrutturazione comporta, al massimo, la demolizione e la successiva ricostruzione del fabbricato, purché il nuovo edificio sia fedele a quello preesistente>> (Consiglio di Stato, sez. V, 27/09/1999, n. 1183); ed, ancora: <<Costituisce opera eseguita abusivamente come variazione essenziale e, pertanto, soggiace alla sanzione demolitoria ex art. 7, l. 28.02.1985 n. 47, la sopraelevazione del tetto di un preesistente fabbricato in quanto tale vicenda implica l'aumento della cubatura e la modificazione della sagoma dell'edificio stesso e, come tale, non è assimilabile alla ristrutturazione edilizia, che invece presuppone solo la demolizione e successiva fedele ricostruzione di quest'ultimo; deve pertanto considerarsi opera in totale difformità l'aumento dell'altezza di un sottotetto tale da determinare un aumento del numero di piani e la formazione di un organismo edilizio utilizzabile autonomamente; alla fattispecie va pertanto applicato non già l'art. 34, bensì l'art. 31 d.P.R. 06.06.2001, n. 380>> (TAR Torino, (Piemonte), sez. II, 28/04/2016, n. 573).
Nella fattispecie, dalle dimensioni del manufatto (superficie mq. 192 ca. e volumetria di mc. 672 ca. ed altezza media di mt. 3,50) evincesi che l’intervento in questione ha determinato la realizzazione di nuovi volumi con nuovo carico urbanistico, concretando una trasformazione del territorio soggetta a permesso di costruire e non a mera denuncia di inizio di attività (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo.
Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato.
Invero, in presenza di abusi edilizi, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001; tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, del medesimo d.P.R. n. 380, cit. che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380, cit., che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.
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Quanto all’incidenza del decorso del tempo sulla repressione dell’abuso edilizio, secondo quanto in precedenza statuito da questa Sezione:
- <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”>> ed una siffatta impostazione consegue a pacifica giurisprudenza, per la quale: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto>>.
- <<L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare>>.
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Con la quarta censura è dedotta la violazione di legge (art. 3, legge n. 241/1990; artt. 36 e 37, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), oltre all’eccesso di potere (per carenza di istruttoria e motivazione), attesa la mancata esplicitazione dell’iter logico-giuridico (anche soltanto attraverso il rinvio ad una motivazione per relationem) attraverso cui l’Amministrazione si sarebbe determinata ad adottare un certo provvedimento sfavorevole consentendo, così, all’interessato di tutelarsi nelle opportune sedi; in particolare sarebbe stata omessa ogni specificazione relativamente all’accertamento della c.d. doppia conformità urbanistica.
A ciò aggiungasi che il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza avrebbe ingenerato un ragionevole affidamento nel privato meritevole di tutela; infine nessuna motivazione sarebbe stata resa circa la sussistenza dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi.
Anche tale censura non ha miglior sorte delle precedenti.
In proposito deve rilevarsi che la norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato (Cfr. TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
Invero <<In presenza di abusi edilizi, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001; tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, del medesimo d.P.R. n. 380, cit. che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380, cit., che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato>> (TAR Latina, (Lazio), sez. I, 08/06/2015, n. 456).
Quanto all’incidenza del decorso del tempo sulla repressione dell’abuso edilizio, secondo quanto in precedenza statuito da questa Sezione:
- <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”>> (TAR Campania, sez. III, 03.02.2015, n. 634) ed una siffatta impostazione consegue a pacifica giurisprudenza, per la quale: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770);
- ed, ancora: <<L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
In definitiva il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 30.06.2016 n. 3319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPub, addio dehors smontabile. Niente aumenti di volume se il locale è in area vincolata. Il Tar Campania e la giurisprudenza sui limiti agli spazi per i tavolini all'aperto.
Niente dehors per il pub, anche se il gestore assicura che è «smontabile». Se il locale si trova in una zona soggetta al piano territoriale paesaggistico, non è ammesso incremento di volumi anche quando non è frutto di nuova costruzione, come nel caso del gazebo che pure ha tende laterali in plastica trasparenti.
Risulta allora legittimo il «no» opposto dal Comune al permesso di costruire dopo il parere negativo della Soprintendenza per i beni architettonici. E non conta che l'amministrazione abbia invece dato via libera in zona all'analogo progetto di un concorrente.

È quanto emerge dalla sentenza 29.06.2016 n. 3286, pubblicata dalla VI Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il caso e la decisione. Deve dunque «rassegnarsi» il legale rappresentante della società: l'esercizio pubblico non può avere il suo gazebo all'esterno dove far accomodare i clienti (meno di quindici metri quadrati su suolo del Comune).
E ciò perché ricade nella suggestiva zona dei Campi Flegrei, a ovest di Napoli: il piano territoriale che tutela il paesaggio non fa differenza fra i volumi edilizi e quelli tecnici, ma vieta ogni aumento delle cubature; l'agognato dehors non può comunque essere definito una struttura precaria da un punto di vista edilizio, laddove invece risulta destinato in modo stabile alle esigenze commerciali del pub: serve ad assicurare nuovi tavoli al locale.
Non giova poi al gestore lamentare che l'altro ristorante ha ottenuto il via libera al dehors, peraltro progettato dallo stesso consulente tecnico: escluso il vizio di eccesso di potere, conta il ptp che tutela quello «specifico paesaggio» mentre gli atti che sono espressione di discrezionalità non risultano censurabili per violazione del canone di imparzialità.
Autorizzazioni e rapporti con i residenti, cosa dice la giurisprudenza. È d'estate che lo scontro fra residenti e locali raggiunge il livello di guardia: pingui incassi per i gestori, notti in bianco per i condomini. Vediamo com'è intervenuta la giurisprudenza nei vari casi a dirimere i conflitti.
Il dehors del ristorante da piazzare sotto il naso del proprietario del primo piano non può ottenere l'autorizzazione paesaggistica dal Comune con una procedura semplificata: è escluso, infatti, che lo spazio esterno del locale pubblico possa essere considerato un «arredo urbano» e dunque beneficiare della corsia preferenziale riconosciuta agli interventi edilizi minori.
Lo ha stabilito la sentenza 20.01.2016 n. 56, pubblicata dalla I Sez. del TAR Liguria.
È accolto il ricorso del vicino che teme ulteriori fastidi dai clienti dell'osteria nel centro storico sottoposto al vincolo della Soprintendenza. Annullato il provvedimento che concede al dehors dell'esercizio pubblico il placet con l'iter più breve: lo spazio esterno riservato agli avventori del locale non rientra in alcune delle categorie indicate dal dpr 139/2010.
È vero, la nozione di «arredo urbano» non risulta disciplinata da alcun provvedimento normativo. Ma deve ritenersi si tratti di strutture che servono a consentire un miglior uso dei centri abitati, quanto ad accessibilità e vivibilità; vi rientrano segnaletica, illuminazione, installazioni pubblicitarie, panchine, cestini: sono tutti manufatti a destinazione pubblica, mentre il dehors soddisfa un'esigenza commerciale del ristorante. Il vicino è portatore di un interesse specifico, mentre la Soprintendenza non gli ha notificato del procedimento volto al rilascio dell'autorizzazione ex articolo 21 del decreto legislativo 42/2004.
Tavolini all'aperto e condominio. È il condominio il nemico numero uno dei tavolini all'aperto e il bar può scordarseli se prima di rivolgersi al Comune il titolare non ha fatto i conti con i residenti. Stop all'autorizzazione unica concessa al dehors dell'esercizio pubblico dallo sportello attività produttive dell'ente locale: la struttura a padiglione, infatti, deve essere considerata aderente alla facciata dello stabile e dunque non può essere installata senza il previo nulla osta di tutti coloro che risultano proprietari del muro perimetrale ex articolo 1117 Cc.
Lo precisa la sentenza 04.03.2016 n. 379, pubblicata dalla II Sez. del TAR Toscana.
Accolto il ricorso di uno dei condomini. Il progetto del dehors per il bar prevede che la struttura sia posta a un solo centimetro di distanza alla facciata dello stabile: non può dunque essere considerata non aderente al muro perimetrale.
Ed è proprio il regolamento comunale a imporre il previo nulla osta dei proprietari o dell'amministratore dell'edificio quando si verifica il “contatto-aderenza” con la superficie esterna di un fabbricato: sbaglia l'amministrazione laddove quando le norme ritenendo necessaria l'autorizzazione preventiva da parte del condominio soltanto nell'ipotesi in cui i tiranti della struttura a padiglione devono essere agganciati alla parete.
E il condomino che ha trascinato davanti ai giudici amministrativi la società che gestisce il locale pubblico non ha mai dato il suo consenso all'opera. Fra l'altro il bar vorrebbe pure installare sedie e tavolini per la stagione estiva su di un'area senza aver chiesto prima il permesso ai legittimi proprietari.
Manutenzione straordinaria. Inutile, poi, tentare di fare i furbi. Non c'è scampo per il ristorante che trasforma l'originaria tenda parasole in una struttura in pvc che somiglia sempre più a un dehors non autorizzato: la sostituzione della struttura preesistente, installata su pali infissi stabilmente al terreno, costituisce un intervento di manutenzione straordinaria e per portarlo a termine serve il titolo edilizio.
Lo precisa la sentenza 18.03.2014 n. 2960, pubblicata dalla Sez. I-quater del TAR Lazio-Roma.
Ha un bel dire la società che gestisce il locale che affaccia nel cortile condominiale: le opere in contestazione non alternerebbero i prospetti, né creerebbero nuovi volumi perché sono destinate a delimitare e abbellire la corte di proprietà; la tenda e le protezioni in Pvc, infatti, sono rimosse per tutto l'inverno e l'area è sempre liberamente transitabile. In realtà nell'intervento di manutenzione straordinaria realizzato dal ristoratore la trasformazione prevale sulla conservazione: serviva il preventivo rilascio del titolo abilitativo. Non resta che demolire.
Niente gazebo a orari ridotti. I dehors vanno rimossi anche se il Comune ha già ridotto l'orario dei locali della movida per non dar troppo fastidio ai residenti. Il fatto è che l'Arpa ha rilevato un alto inquinamento acustico in zona e il provvedimento che autorizza i bar ad allargarsi all'esterno era stato già bocciato dal quartiere. Ecco allora che l'associazione dei residenti riesce a far annullare le autorizzazioni: l'amministrazione non spiega perché le strutture non rischiano di aggravare gli schiamazzi notturni.
È quanto emerge dalla sentenza 09.02.2015 n. 118, pubblicata dalla seconda sezione del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Non giova all'amministrazione sostenere che l'occupazione del suolo pubblico da parte dei locali rientri in un progetto di riqualificazione urbana: il programma si è arenato e il garante della partecipazione si è dimesso proprio per dissensi nella realizzazione del piano. La motivazione è troppo generica e il Comune paga le spese (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Va rimosso l'ascensore che non rispetta le distanze dalle vedute dell'edificio confinante.
L'ascensore realizzato tra fabbricati adiacenti deve rispettare le distanze legali delle vedute.
L'ascensore realizzato tra fabbricati adiacenti deve rispettare le distanze legali delle vedute se installato all'interno della proprietà individuale.
Niente deroghe alle distanze legali se l'ascensore privato sorge in un cortile non comune ma di proprietà esclusiva e i manufatti che circondano il cortile, pur aderenti, non costituiscono un unico fabbricato. Non si applica la disciplina speciale prevista dalla normativa anti-barriere architettoniche.

Questo, in sintesi, quanto deciso dalla II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 28.06.2016 n. 13358.
L'ascensore realizzato tra fabbricati adiacenti deve rispettare le distanze legali delle vedute se installato all'interno della proprietà individuale, dunque non comune o condominiale.
Inutile invocare le deroghe alle distanze legali previste dalla legge n. 13/1989 sulle barriere architettoniche: l'ascensore va rimosso se sorge in un cortile di proprietà esclusiva e i manufatti, pur aderenti, non costituiscono un unico fabbricato.
La Suprema corte ha rigettato il ricorso del proprietario di un immobile con annesso cortile interno, che aveva realizzato un ascensore senza rispettare le distanze legali rispetto alle finestre dell'edificio confinante, di proprietà diversa, che si affaccia sullo stesso cortile.
Nel caso di specie mancano i presupposti per poter invocare la disciplina anti-barriere architettoniche. Innanzitutto, il cortile che ospitava la struttura dell'ascensore non è di proprietà comune o di uso comune a più fabbricati, ma di proprietà e uso esclusivo del ricorrente.
Inoltre, i due edifici, anche se aderenti, non fanno parte di un unico fabbricato e costituiscono due proprietà distinte.
Se è vero –osserva la suprema Corte– che il primo comma dell'articolo 3 della legge 13/1989 (relativo alla deroga alle distanze previste dai regolamenti edilizi) contempla, oltre ai cortili "comuni o in uso comune a più fabbricati", anche i cortili "interni”, indipendentemente dal regime dominicale di questi ultimi, ciò tuttavia non consente di pervenire alla cassazione della sentenza gravata, perché quest'ultima risulta autonomamente sorretta dall'affermazione che l'obbligo del ricorrente di rispettare le distanze dai confini e dalle vedute previste dal codice civile deriva, nella fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto articolo”.
Per comprendere il caso in esame, è utile anzitutto ricordare quanto previsto dall'art. 3 della Legge n. 13/1989. Tale articolo dispone che le innovazione dirette ad eliminare le barriere architettoniche (tra le quali l'installazione di ascensori) “possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”.
Il secondo comma dispone che “E' fatto salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune
Nella vicenda in oggetto di giudizio, Tizia, premesso di essere proprietaria di un appartamento in un fabbricato che chiude interamente un cortile interno di proprietà esclusiva di Caio, e che in tale cortile quest'ultimo aveva realizzato un ascensore che non rispettava le distanze legali rispetto alla finestra dell'attrice che sul medesimo si affaccia, citava Caio per la rimozione dell'ascensore.
Caio contestava la fondatezza della domanda, affermando la legittimità dell'opera, realizzata a norma di legge n. 13/1989 sul superamento delle barriere architettoniche.
Come anticipato, il Tribunale prima, e la Corte d'appello poi, hanno accolto la domanda dell'attrice ed escluso la possibilità di derogare alla disciplina sulle distanze per eliminare le barriere architettoniche, sulla base di una duplice ratio decidendi:
1. La deroga di cui al primo comma dell'art. 3 della legge n. 13/1989 alle distanze previste dai regolamenti locali non è applicabile alla fattispecie perché il cortile ove è stato collocato l'ascensore è in proprietà individuale e non in proprietà comune o condominiale;
2. In ogni caso, l'obbligo di rispettare le distanze dai confini e dalle vedute previste dal codice civile deriverebbe, nella fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto articolo.
La decisione è stata conformata dalla Corte di Cassazione, a cui il proprietario dell'ascensore era ricorso per contestare la sentenza d'appello. Secondo quest'ultimo, entrambi i punti sopra elencati erano errati.
Quanto alla prima ragione, sarebbe irrilevante che il cortile sia in proprietà esclusiva, perché il citato art. 3 della L. n. 13/1989 fa rifermento non solo ai “cortili comuni a più fabbricati” ed ai “cortili in uso comune a più fabbricati”, ma anche ai “cortili interni”, indipendentemente dalla circostanza che essi siano in proprietà comune o condominiale o individuale.
Quanto al secondo punto, nella fattispecie non si applicherebbe la disposizione di cui al secondo comma del suddetto art. 3, perché la stessa riguarderebbe la distanza tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni, mentre l'ascensore di cui si tratta è collocato all'interno di un fabbricato condominiale.
La suprema Corte, però, è di avviso contrario. Se è vero che il primo comma dell'art. 3 della L. n. 13/1989 (relativo alla deroga alle distanze previste dai regolamenti edilizi) contempla, oltre ai “cortili i uso comune a più fabbricati”, anche i cortili “interni”, tuttavia nel caso di specie l'obbligo di rispettare le distanze legali dai confini e dalle vedute previste dal codice civile deriva, nella fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto articolo.
Nella sentenza impugnata, infatti, è stato accertato non solo che non condominiale il cortile in cui è installata la colonna dell'ascensore, ma anche che non è condominiale, cioè non appartiene al medesimo fabbricato di cui fa parte l'unità immobiliare della controparte, la muratura perimetrale a cui detta colonna si appoggia.
Non ci sono dunque i presupposti per poter applicare la disciplina anti barriere architettoniche. Di conseguenza niente deroga alle distanze legali: l'ascensore va rimosso (tratto da e link a www.condominioweb.com).
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MASSIMA
La Corte d'appello di Firenze territoriale fonda la propria decisione su una duplice ratio decidendi:
   1) la deroga di cui al primo comma dell'articolo 3 della legge n. 13/1989 alle distanze previste dai regolamenti locali non sarebbe applicabile alla fattispecie perché il cortile ove è stato collocato l'ascensore è in proprietà individuale e non in proprietà comune o condominiale;
   2) in ogni caso, l'obbligo di rispettare le distanze dai confini e dalle vedute previste dal codice civile deriverebbe, nella fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto articolo.
Il motivo di ricorso attinge entrambe tali ragioni della decisione.
Quanto alla prima ragione, si afferma l'irrilevanza della circostanza che il cortile sia in proprietà esclusiva del Tw.; secondo il ricorrente, il disposto dell'articolo 3 della legge n. 13/1989 dovrebbe, nella specie, trovare applicazione, perché detto articolo fa riferimento non solo ai "cortili comuni a più fabbricati" ed ai "cortili in uso comune a più fabbricati", ma anche ai "cortili interni", indipendentemente dalla circostanza che essi siano in proprietà comune o condominiale o individuale.
Quanto alla seconda ragione, il ricorrente afferma che nella specie non si applicherebbe la disposizione di cui al secondo comma del suddetto articolo 3, perché la stessa riguarderebbe la distanza tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni, mentre l'ascensore di cui si tratta è collocato all'interno di un fabbricato condominiale.
Il motivo non può trovare accoglimento perché, se è vero che il primo comma dell'articolo 3 l. 13/1989 (relativo alla deroga alle distanze previste dai regolamenti edilizi) contempla, oltre ai cortili "comuni o in uso comune a più fabbricati'', anche i cortili "interni', indipendentemente dal regime dominicale di questi ultimi, ciò tuttavia non consente di pervenire alla cassazione della sentenza gravata, perché quest'ultima risulta autonomamente sorretta dall'affermazione che l'obbligo del Tw. di rispettare le distanze dai confini e dalle vedute previste dal codice civile deriva, nella fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto articolo.
Quest'ultima affermazione non è stata validamente attinta dalla seconda censura sviluppata dal ricorrente; tale censura, infatti, va giudicata inammissibile, in quanto si fonda su un presupposto di fatto (che l'unità immobiliare del convenuto faccia parte del medesimo fabbricato condominiale di cui fa parte l'unità immobiliare dell'attrice) che non risulta dalla sentenza gravata.
In tale sentenza, al contrario, si sottolinea, con un giudizio di fatto non specificamente censurato con il mezzo di cui all'articolo 360 n. 5 c.p.c., come "la costruzione dell'ascensore non coinvolgesse una proprietà comune alla Ma.", in tal modo affermandosi non solo che non è condominiale il cortile in cui è installata la colonna dell'ascensore, ma anche (in conformità a quanto emerge dallo stralcio della CTU trascritto a pag. 2 del controricorso, ove si riferisce che si tratta di fabbricati distinti) che non è condominiale -vale a dire, non appartiene al medesimo fabbricato di cui fa parte l'unità immobiliare della Mannini- la muratura perimetrale a cui detta colonna si appoggia.
Il ricorso va quindi in definitiva rigettato.

EDILIZIA PRIVATALa legittimazione ad avviare il procedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria va riconosciuta non solo al responsabile dell’abuso e al proprietario dell’immobile, ma anche al soggetto che provi di averne la disponibilità materiale e giuridica in forza di titolo idoneo.
In particolare, è stato affermato che “In materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001) ammette la proposizione dell’istanza da parte non solo del proprietario, ma anche del “responsabile dell’abuso”, tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva. La relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova d’altra parte giustificazione nella possibilità di accordare al predetto responsabile –ove coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive– di evitare le conseguenze penali dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi".
In sostanza, la legittimazione a presentare la domanda di sanatoria può essere riconosciuta anche al responsabile dell’abuso che non sia proprietario del bene, a condizione che questi provi la disponibilità materiale e giuridica del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva.

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3. Con una prima censura, i ricorrenti hanno contestato il primo capo di motivazione del provvedimento impugnato, concernente l’asserita carenza di legittimazione in capo al signor Ga.Os. a presentare la domanda di sanatoria; secondo i ricorrenti, il signor Ga. aveva titolo per presentare l’istanza alla luce di quanto previsto dagli artt. 11 e 36 del D.P.R. n. 380/2001 (come interpretati dalla giurisprudenza), dal momento che egli, già da diverso tempo prima dell’istanza, utilizzava la porzione di fabbricato in questione in forza di un contratto di comodato stipulato con essi proprietari; in ogni caso, i ricorrenti hanno evidenziato di aver controfirmato essi stessi l’istanza di sanatoria e i relativi allegati, con ciò esprimendo adesione alla domanda.
Il collegio osserva che la censura non può essere condivisa.
3.1. L’art. 36, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 prevede che “In caso di interventi realizzati in assenza del permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all’art. 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31 comma 3, 33 comma 1, 34 comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso di costruire in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
3.2. Sulla scorta di tale disposizione, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che la legittimazione ad avviare il procedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria va riconosciuta non solo al responsabile dell’abuso e al proprietario dell’immobile, ma anche al soggetto che provi di averne la disponibilità materiale e giuridica in forza di titolo idoneo.
In particolare, è stato affermato che “In materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001) ammette la proposizione dell’istanza da parte non solo del proprietario, ma anche del “responsabile dell’abuso”, tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva. La relativamente maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova d’altra parte giustificazione nella possibilità di accordare al predetto responsabile –ove coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive– di evitare le conseguenze penali dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi" (Cons. Stato, sez. IV, 26.01.2015, n. 316).
In sostanza, la legittimazione a presentare la domanda di sanatoria può essere riconosciuta anche al responsabile dell’abuso che non sia proprietario del bene, a condizione che questi provi la disponibilità materiale e giuridica del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva.
3.3. Nel caso di specie, è pacifico che gli abusi edilizi sono stati posti in essere, esclusivamente, dai ricorrenti signori Do.Gi. e Va.Pa., proprietari del fabbricato ed ivi residenti, e in quanto tali esclusivi destinatari delle due ordinanze di demolizione del 19.05.2010 e del 29.05.2012. Alla data di adozione delle due ordinanze di demolizione, il signor Ga.Os. non aveva la disponibilità di alcuna porzione del fabbricato in questione, dal momento che il presunto contratto di comodato d’uso gratuito è stato stipulato -secondo la prospettazione degli stessi ricorrenti– soltanto successivamente, il primo settembre 2012.
Peraltro, come si evince dalla motivazione del provvedimento impugnato, il contratto di comodato è stato registrato -e quindi ha data certa, ai sensi dell’art. 2704 cod. civ.- soltanto in data 29.01.2013, vale a dire in data successiva alla presentazione della domanda di sanatoria, avvenuta il 10.12.2012. Dal che si evince che non sussiste, e comunque non è provata, la sussistenza in capo al presentatore della domanda di sanatoria del requisito della disponibilità materiale e giuridica del bene alla data di emissione della misura repressiva (e, nel caso di specie, neppure alla data di presentazione della domanda di sanatoria).
3.4. In tale contesto, appaiono del tutto ragionevoli le ulteriori considerazioni svolte dall’amministrazione comunale nella motivazione del provvedimento impugnato in ordine al carattere strumentale del rapporto di comodato gratuito dedotto dai ricorrenti, evidentemente escogitato al solo fine di poter far valere in seno al procedimento di sanatoria la qualità di imprenditore agricolo del proprio genero, con la conseguente facoltà riconosciuta all’imprenditore agricolo dalle norme di attuazione dello strumento urbanistico (artt. 34 e 35 NTA del PRGC) di edificare abitazioni rurali in aree agricole oltre i limiti indicati dall’art. 55 delle stesse NTA.
3.5. A nulla rileva che i ricorrenti abbiano controfirmato la domanda di sanatoria e i relativi allegati, dal momento che, laddove la domanda di sanatoria dovesse ritenersi presentata in proprio dai ricorrenti, e non dal genero (privo di legittimazione), essa non avrebbe ugualmente alcuna possibilità di successo, essendo stata presentata da soggetti privi della qualifica di imprenditori agricoli, e come tali assoggettati al rispetto dei limiti alla edificazione di fabbricati residenziali in aree agricole di cui all’art. 55 NTA, pacificamente superati nel caso di specie.
Alla luce di tali considerazioni, la censura in esame va quindi disattesa (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.04.2016 n. 548 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ha predisposto una disciplina puntuale ed esaustiva della sanatoria in materia edilizia, tale da non ammettere spazi residui che consentano di affermare, in via interpretativa, la sopravvivenza della cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”: deve, pertanto, riaffermarsi che la sanatoria di un'opera non conforme allo strumento urbanistico vigente al momento della sua esecuzione rappresenterebbe una forzatura inaccettabile della disciplina in materia, nonché dei principi generali dell'ordinamento in tema di sanatoria di attività illecite in generale.
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4. Con una seconda censura, i ricorrenti hanno contestato la necessità del requisito della c.d. “doppia conformità” preteso dall’Amministrazione, richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa in ordine alla necessità, ai fini della sanatoria, che le opere siano conformi anche soltanto alla normativa urbanistico-edilizia vigente alla data in cui l’Amministrazione provvede sulla domanda (c.d. sanatoria giurisprudenziale); nel caso di specie, hanno osservato i ricorrenti, alla data della domanda di sanatoria sussistevano i requisiti per ottenere la sanatoria, dal momento che il signor Ga., comodatario del fabbricato e presentatore dell’istanza, è imprenditore agricolo e svolge in via esclusiva l’attività agricola, quindi possiede i requisiti soggettivi per realizzare/conservare abitazioni rurali in aree agricole.
Il collegio osserva che anche tale censura non può essere condivisa.
4.1. L’Amministrazione ha ritenuto che nel caso di specie non sussista il requisito della doppia conformità preteso dall’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 dal momento che, a tal fine, sarebbe stato necessario che l’abuso fosse stato commesso sin dall’origine da un soggetto avente la qualifica di imprenditore agricolo, mentre invece è pacifico che nel caso di specie l’abuso è stato realizzato dai ricorrenti, ossia da soggetti privi di tale qualifica.
I ricorrenti, dal canto loro, contestano la necessità della “doppia conformità”, richiamando i principi di derivazione pretoria in materia di c.d. sanatoria giurisprudenziale, secondo cui l’abuso è sanabile purché conforme alla normativa urbanistico edilizia vigente alla data della domanda di sanatoria.
4.2. Al riguardo, va dato atto dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali non univoci sulla questione dell’ammissibilità o meno della c.d. "sanatoria giurisprudenziale" dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, il cui art. 36 ha testualmente previsto che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria possa essere ottenuto “se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”:
- secondo un indirizzo più risalente nel tempo e decisamente minoritario, “In sede di accertamento di doppia conformità di immobili non conformi alle norme urbanistico-edilizie vigenti al momento della costruzione, ma conformi a quelle vigenti al momento della presentazione dell'istanza, può ritenersi applicabile (ai fini di una valutazione della domanda in termini di fondatezza) la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale; tale istituto, pur non comportando l'estinzione del reato eventualmente consumato, né il venir meno dell'obbligo di pagare la relativa sanzione, risponde ad una chiara esigenza di economicità e di buon andamento dell'azione amministrativa, giudicandosi illogico demolire manufatti non più in contrasto con la disciplina edilizia, per poi doverne eventualmente assentire la ricostruzione nella stessa forma e consistenza" (TAR Cagliari, sez. II, 17.03.2010 n. 314; TAR Lecce, sez. III, 02.09.2010 n. 1887; TAR Pescara, 11.05.2007, n. 534);
- secondo invece l’orientamento di gran lunga prevalente nella giurisprudenza amministrativa, l’istituto della sanatoria c.d. giurisprudenziale non è più ammissibile dopo l’entrata in vigore del Testo Unico dell’Edilizia, alla luce dell’inequivoca formulazione letterale dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001.
E’ stato infatti osservato che “L'art. 36 t.u. dell'edilizia non ha recepito, nonostante l'auspicio in tal senso espresso nel parere del 29.03.2001 della Adunanza generale del Consiglio di Stato, l'orientamento giurisprudenziale affermatosi nel vigore dell'art. 13 l. 28.02.1985 n. 47, il quale consentiva il rilascio della concessione in sanatoria per gli interventi edilizi che fossero conformi alla sola pianificazione in vigore al momento della domanda di sanatoria (c.d. “sanatoria giurisprudenziale”); ne consegue che il permesso di costruire in sanatoria, in quanto provvedimento tipico oggetto di una disciplina puntuale ed esaustiva nell'art. 36 t.u. dell'edilizia, è insuscettibile di ampliamento in via interpretativa, ed il suo rilascio postula la conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia a quella in vigore alla data della presentazione della domanda" (Consiglio di Stato, sez. IV, 26.04.2006 n. 2306);
- più di recente è stato condivisibilmente affermato da TAR Venezia sez. I 20.11.2015 n. 1239 che “La cosiddetta sanatoria giurisprudenziale elude il principio di legalità, perché svuota la portata precettiva e vincolante della disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, viola la tipicità provvedimentale, ancorata dall'articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 alle sole violazioni di ordine formale, così neutralizzando la deterrenza sanzionatoria nei confronti degli autori degli illeciti edilizi”;
- nello stesso senso, di recente, TAR Napoli, sez. VIII, 08.10.2015 n. 4717; TAR Perugia, sez. I, 03.12.2014 n. 590; TAR Aosta 11.03.2014 n. 13; TAR Firenze, sez. III, 27.03.2013, n. 497; e così anche Cassazione penale sez. III 21.10.2014 n. 47402;
- questo stesso Tribunale, sin dalla pronuncia della Prima Sezione del 20.04.2005 n. 1094, ha avuto modo di affermare principi in linea con la giurisprudenza oggi prevalente; la Sezione ha infatti affermato che l’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ha predisposto una disciplina puntuale ed esaustiva della sanatoria in materia edilizia, tale da non ammettere spazi residui che consentano di affermare, in via interpretativa, la sopravvivenza della cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”: deve, pertanto, riaffermarsi che la sanatoria di un'opera non conforme allo strumento urbanistico vigente al momento della sua esecuzione rappresenterebbe una forzatura inaccettabile della disciplina in materia, nonché dei principi generali dell'ordinamento in tema di sanatoria di attività illecite in generale.
4.3. Sulla scorta di tali principi, da cui la Sezione non ha motivo per discostarsi, la censura di parte ricorrente va conclusivamente disattesa, essendo pacifico che nel caso di specie l’intervento non era conforme alla normativa urbanistico-edilizia vigente alla data della sua realizzazione, essendo stato posto in essere da soggetti privi della qualifica di imprenditori agricoli, unici soggetti a cui le norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico comunale consentono di realizzare fabbricati residenziali in aree agricole oltre i limiti di volumetria e di superficie abitabile previsti dall’art. 55 N.T.A. (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.04.2016 n. 548 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha qualificato “in senso rigorosamente restrittivo la nozione di insegna di esercizio, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall'art. 47, comma i, del D.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa", mentre nella fattispecie in esame l’attività della società appellante si svolgeva a chilometri di distanza dal cartello di cui si discute e quindi si trattava di un’installazione a meri fini pubblicitari e non certo per segnalare un’attività in loco.
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6.- L’appello è infondato.
Il collegio ritiene opportuna la trattazione delle censure dedotte in appello, esaminando prioritariamente la memoria di replica presentata dalla società appellante in data 18.09.2015, in cui si ribadisce l’asserito possesso di un provvedimento autorizzatorio per l’installazione del cartello pubblicitario in esame, qualificato quale “insegna” da parte appellante.
In realtà da tale memoria si evince la mancanza di autorizzazione al momento dell’emanazione del provvedimento impugnato, in quanto la società appellante, dopo una prima autorizzazione per sei anni da parte dell’Intendenza di finanza del 1989 ed un rinnovo per altri sei anni da parte dell’Ufficio del territorio di Reggio Emilia con scadenza al 30.06.2001, non comprova di aver presentato alcuna richiesta di autorizzazione per il periodo successivo e quindi, al momento dell’adozione del primo provvedimento di rimozione in data 10 maggio 2003, impugnato con il ricorso di primo grado, non era comunque più titolare di alcuna autorizzazione.
In effetti l’obbligatorietà di tale autorizzazione era sancita nel precedente codice della strada (D.P.R. n. 393/1959) il cui art. 11, terzo comma, prevedeva che “fuori dei centri abitati … il collocamento di cartelli, di altri mezzi pubblicitari lungo le strade o in vista di esso è soggetto ad autorizzazione da parte dell’ente proprietario della strada” e tale divieto è stato ribadito dall’art. 23, quarto comma del nuovo codice della strada ex D.P.R. n. 285/1992, che dispone, per la collocazione di cartelli lungo le strade o in vista di esse, l’obbligo di acquisire l’autorizzazione dell’ente proprietario della strada.
Pertanto, poiché il cartellone pubblicitario era privo di autorizzazione, la ricorrente non era titolare di alcuna posizione tutelata allorché è sopravvenuta la disciplina vincolistica, così come obietta l’Amministrazione appellata.
Con la conseguenza che, nel caso in esame, non si pone alcun problema di retroattività della disciplina contenuta nel Piano territoriale.
Parte appellante deduce che la provincia sarebbe stata incompetente, trattandosi della tutela di interessi propri del comune e non della provincia.
Anche tale profilo di censura va disatteso in quanto l’art. 23 del Codice della strada attribuisce la competenza all’ente proprietario della strada che, nel caso, è la Provincia.
Né ha pregio l’ulteriore profilo di censura, con cui l’appellante deduce che non si tratterebbe di un cartello pubblicitario ma di un’insegna di esercizio.
Al riguardo la giurisprudenza (Cons. St. Sez. IV, n. 5586/2013) ha qualificato “in senso rigorosamente restrittivo la nozione di insegna di esercizio, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall'art. 47, comma i, del D.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa", mentre nella fattispecie in esame l’attività della società appellante si svolgeva a chilometri di distanza dal cartello di cui si discute e quindi si trattava di un’installazione a meri fini pubblicitari e non certo per segnalare un’attività in loco.
Vanno infine rigettate anche le dedotte censure di violazione degli artt. 48, comma primo, e 51, comma secondo, del regolamento di attuazione del codice della strada, in quanto, come si evince dalla relazione della Provincia del 16.10.2003 corredata da riprese fotografiche di un rilievo planimetrico generale, non contestata ex adverso, il cartello pubblicitario ha una superficie maggiore di 6 m² in violazione del suddetto art. 48 ed è collocato a distanza inferiore a metri tre dal limite della carreggiata ed in corrispondenza di una intersezione stradale in palese violazione del suddetto art. 51 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.02.2016 n. 710 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 23 del D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della Strada"), al comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma di pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata nell’intento di introdurre un divieto all’installazione lungo le strade, o in vista di esse, di impianti pubblicitari che possano confondersi con la segnaletica stradale, o arrecare disturbo visivo a chi circola su di esse, con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione.
Va, altresì, rilevato come l'articolo 47, primo comma, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada) qualifica l’insegna d'esercizio, quale "scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
Ne consegue che sebbene nessuna delle disposizioni sopra riportate preveda che l’insegna di un esercizio commerciale debba essere unica, è parimenti evidente che quest’ultima, per poter essere qualificata come tale, impone che sia strettamente contigua all’esercizio commerciale cui inerisce e sia, nel contempo, funzionale e diretta a identificare l’ubicazione della sede della stessa impresa.
Anche recenti pronunce hanno avuto modo di precisare che la nozione di insegna di esercizio deve essere intesa in senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall' art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito che un'insegna d'esercizio visibile dall’autostrada è consentita solo ove non presenti alcun contenuto riconducibile a finalità pubblicitarie.
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1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sul punto è dirimente constatare che l'art. 23 del D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della Strada"), al comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma di pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata nell’intento di introdurre un divieto all’installazione lungo le strade, o in vista di esse, di impianti pubblicitari che possano confondersi con la segnaletica stradale, o arrecare disturbo visivo a chi circola su di esse, con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione.
1.2 Va, altresì, rilevato come l'articolo 47, primo comma, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada) qualifica l’insegna d'esercizio, quale "scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
1.3 Ne consegue che sebbene nessuna delle disposizioni sopra riportate preveda che l’insegna di un esercizio commerciale debba essere unica, è parimenti evidente che quest’ultima, per poter essere qualificata come tale, impone che sia strettamente contigua all’esercizio commerciale cui inerisce e sia, nel contempo, funzionale e diretta a identificare l’ubicazione della sede della stessa impresa.
1.4 Anche recenti pronunce (Cons. Stato Sez. IV, 25.11.2013, n. 5586) hanno avuto modo di precisare che la nozione di insegna di esercizio deve essere intesa in senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall' art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito (Cons. Stato Sez. IV, 27.04.2012, n. 2480) che un'insegna d'esercizio visibile dall’autostrada è consentita solo ove non presenti alcun contenuto riconducibile a finalità pubblicitarie.
1.5 E’ allora evidente che verificare se una determinata insegna integri il divieto di pubblicità di cui all’art. 23 sopra citato impone un esame in concreto sulle caratteristiche della singola insegna e, ciò, al fine di individuare quale sia la funzione che si intenda perseguire con l’installazione del singolo manufatto e, quindi, se quest’ultima vada ricondotta (o meno) ad un intento meramente pubblicitario.
1.6 Nel caso di specie è dirimente constatare come sia stata la stessa parte ricorrente a rilevare che l’insegna in questione è collocata sulla facciata dell'esercizio, rivolta verso la strada, senza che sulla stessa facciata sia presente un’entrata dell’esercizio.
1.7 E’ allora evidente che, seppur l’insegna in questione abbia le caratteristiche proprie di un’insegna di esercizio, ai sensi dell’art. 47 del DPR 16.12.1992 n. 495, la sua installazione è stata posta in essere per realizzare un intento pubblicitario, diretto nei confronti degli utilizzatori della strada prospiciente.
Dette conclusioni sono confermate dal fatto che l’insegna in questione, non solo duplica l’insegna di esercizio già esistente, ma in quanto posizionata su un lato in cui non vi è l’entrata dell’impresa, non aggiunge alcuna informazione ulteriore circa l’identificazione della stessa impresa che, in quanto tale, è già resa dall'altra insegna d'esercizio.
1.8 Ne consegue che risulta integrato il divieto di installazione di strumenti pubblicitari in prossimità delle strade, circostanza che consente di ritenere infondate le argomentazioni di parte ricorrente.
In definitiva il ricorso è, pertanto, infondato e va respinto (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 09.12.2015 n. 1315 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di insegna di esercizio va, invero, intesa in senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall'art. 47, comma 1, del d.P.R. nr. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
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Il ricorso è infondato.
Il provvedimento è adeguatamente motivato con il richiamo all’assenza delle caratteristiche previste dall’art. 47, c. 1, d.P.R. n. 495/1992 per le insegne di esercizio.
Ai sensi di questa previsione costituisce “insegna di esercizio” “la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa […]”.
Nel caso di specie, la documentazione depositata in giudizio dalla difesa dell’amministrazione provinciale palesa, invece, l’assenza di correlazione tra i messaggi pubblicitari riprodotti sugli impianti e l’attività in questione.
Non può, al riguardo, ritenersi sufficiente -come, invece, sostiene la ricorrente- che i messaggi pubblicizzino “società che espongono o sponsorizzano manifestazioni della Fiera di Melzo”: la nozione di insegna di esercizio va, invero, intesa in senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall'art. 47, comma 1, del d.P.R. nr. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.04.2012, nr. 2480; 25.11.2013, n. 5586).
È, poi, incontestato, che un pannello riporti il messaggio “spazio libero”, in contrasto con quanto previsto dall’art. 10 del regolamento approvato con deliberazione del Consiglio Provinciale n. 21/2003.
Legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha ritenuto che gli impianti in questione non siano qualificabili insegne di esercizio, trattandosi di veri e propri impianti pubblicitari.
È, poi, sufficientemente chiara anche l’ulteriore ragione di diniego, legata al mancato rispetto dei limiti dimensionali previsti all’art. 48, c. 1, d.P.R. n. 495/1992.
Ai sensi di questa previsione “i cartelli, le insegne di esercizio e gli altri mezzi pubblicitari previsti dall' articolo 23 del codice e definiti nell'articolo 47, se installati fuori dai centri abitati non devono superare la superficie di 6 mq, ad eccezione delle insegne di esercizio poste parallelamente al senso di marcia dei veicoli o in aderenza ai fabbricati, che possono raggiungere la superficie di 20 mq; qualora la superficie di ciascuna facciata dell'edificio ove ha sede l'attività sia superiore a 100 mq, è possibile incrementare la superficie dell'insegna di esercizio nella misura del 10% della superficie di facciata eccedente 100 mq, fino al limite di 50 mq”.
Nel caso di specie, trova applicazione il limite dimensionale di 6 mq., e non quello di 20 mq in quanto i mezzi pubblicitari, oltre a non potersi qualificare insegne di esercizio, non sono neppure posizionati parallelamente al senso di marcia dei veicoli ma perpendicolarmente all’asse stradale (doc. n. 17 della provincia).
I mezzi pubblicitari in questione, avendo una dimensione di 18 mq ciascuno, e dunque una dimensione complessiva pari a 36 mq, non rispettano i limiti previsti dalla norma.
Né possono valere le contestazioni formulate dalla ricorrente con la memoria depositata in data 10.04.2015 circa l’ubicazione degli impianti nel centro abitato e dunque l’applicabilità, nel caso di specie, della previsione di cui al comma 2 anziché del comma 1 dell’art. 48, d.P.R. n. 495/1992: si tratta invero di un motivo nuovo, inammissibile in quanto formulato con memoria non notificata.
Nel processo amministrativo sono, invero, inammissibili le censure dedotte in memoria non notificata alla controparte sia nell'ipotesi in cui risultino completamente nuove e non ricollegabili ad argomentazioni espresse nel ricorso introduttivo sia quando, pur richiamandosi ad un motivo già ritualmente dedotto, introducano elementi sostanzialmente nuovi, ovvero in origine non indicati, con conseguente violazione del termine decadenziale e del principio del contraddittorio, essendo affidato alla memoria difensiva il solo compito di una mera illustrazione esplicativa dei precedenti motivi di gravame senza possibilità di ampliare il "thema decidendum" (Consiglio di Stato, sez. III, 17.05.2012, n. 2878).
A fronte di un potere vincolato, qual è quello esercitato dall’amministrazione nel caso di specie non è, infine, configurabile il vizio di eccesso di potere, per contraddittorietà con precedenti provvedimenti di autorizzazione degli impianti in questione, né una posizione di legittimo affidamento al rinnovo delle autorizzazioni rilasciate in contrasto con le disposizioni sopra richiamate.
La legittimità di queste ragioni di diniego sulle quali si fonda l’atto impugnato è sufficiente giustificazione dello stesso, sicché è irrilevante l’esame della censura addotta avverso la contestazione della mancata allegazione della convenzione sottoscritta con il Comune di Melzo.
Per le ragioni esposte, il ricorso è infondato e va pertanto respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.11.2015 n. 2450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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